La religione della Mesopotamia (letteralmente, il paese “tra i fiumi” Tigri ed Eufrate) ebbe origine fra i Sumeri. Per lingua e ascendenza essi erano estranei ai due gruppi principali antichi dell’Asia occidentale, i Semiti e gli Indoeuropei.
Stele recante le principali divinità mesopotamiche con i loro simboli
Furono tre gli dèi che dominarono il pantheon sumerico: Anu, il dio del cielo, Enlil, il dio del vento, e Enki o Ea, il dio delle acque. Essi governavano dunque le tre divisioni del cosmo: Anu, benché in teoria il sommo, aveva un’influenza minima nelle cose umane ed era Enlil, il suo braccio destro, che governava la Terra. I Sumeri riconoscevano centinaia di altri dèi, i cui nomi e le cui qualità variavano da una città stato all’altra. Con i mutamenti di potere politico questi dèi minori assunsero sempre maggiore importanza e furono aggiunti ai tre dèi principali, giungendo talvolta persino a prenderne il posto. Fu così che nel corso del II millennio a.C. il dio babilonese del Sole e della vegetazione, Marduk, usurpò il posto di Enlil. Marduk era l’eroe del poema “Enuma elish” – Epopea della Creazione- (che risale a un originale sumerico del II millennio, ma ci è giunto solo in una versione del VII secolo a.C.), nel quale è narrato come egli sopraffacesse la dea Tiamat e divenisse re degli dèi. Marduk organizzò poi l’universo e creò l’uomo dalla creta e dal sangue della dea Tiamat.
Foto della stele contenente l’ Epopea della Creazione”
Ogni anno, durante le feste di primavera, sacerdoti e popolo tornavano a recitare questo mito della creazione, che simboleggiava il rinnovarsi della natura, assieme al mito che narrava la morte e la resurrezione di Marduk. In esso Marduk riceve gli attributi del dio della vegetazione, Tammuz, marito e figlio della dea-madre Ishtar. La dea Ishtar compare anche nella mitologia ebraica, e fusa con la dea Iside, nel tardo mondo ellenistico.
La dea Ishtar
Il dio della saggezza Enki (accadico Ea), tradizionalmente raffigurato con la barba lunga e flutti di acqua e di pesci che sgorgano dalle sue spalle mentre risale una montagna. Alla sua sinistra la dea alata Inanna (sumero, babilonese Ishtar) in forma antropomorfa e con le ali.Parte di una impronta di sigillo cilindrico risalente al XXIII secolo a.C. conservato presso il British Museum, Londra.
Più tardi, sotto gli Assiri, il dio Ashshur eclissò Marduk, ma successivamente il potere si spostò nuovamente e Marduk fu riabilitato. Questa volta tuttavia c’era una differenza importante, perché Marduk aveva ottenuto come nome proprio il titolo di Bel, “Signore“. Sotto questo riguardo la religione mesopotamica dava segno di avvicinarsi a una fede in un unico sommo Dio. Gli scritti assiri e babilonesi dimostrano chiaramente che il popolo considerava quei cambiamenti politici il risultato di movimenti nel regno degli dèi. Si riteneva infatti che la posizione dei grandi dèi influisse sul potere delle città e degli Stati ai quali quegli dèi erano più legati.
Benché le feste di primavera e i miti connessi fossero simili al mito egizio di Osiride, l’atteggiamento della religione mesopotamica verso la morte era alquanto diverso. I Mesopotamici si identificavano col morente e risorgente Tammuz (Marduk) al fine di recuperare la salute piuttosto che per assicurarsi l’immortalità. Il poema epico babilonese “Gilgamesh” dimostra infatti che essi alla fine si adattavano alla morte del corpo.
Gilgamesh che domina un leone, fregio dal palazzo di Sargon II, Museo del Louvre
Epopea di Gilgamesh, Tavoletta XI in argilla, con la storia del Diluvio Universale, scritta in caratteri cuneiformi in lingua accadica, British Museum, Londra
L’eroe Gilgamesh parte alla ricerca di Utnapishtim (il corrispondente babilonese di Noè), al quale è stato svelato da Enlil il segreto dell’immortalità, dono che gli dèi della Mesopotamia tenevano di solito con gran cura celato agli uomini. Utnapishtim era perciò l’unico che possedesse la vita eterna. Egli parla a Gilgamesh di una pianta che dà l’eterna giovinezza, e Gilgamesh trova la pianta ma solo per venirne derubato da un serpente. E’ costretto quindi a prendere la via di ritorno e ad affrontare l’ineluttabilità della morte. La stessa concezione appare nel mito di Adapa, il quale rappresenta il genere umano: Adapa offende Anu, dio del cielo, e si reca da lui per spiegargli il suo atto, dopo aver ricevuto da Ea, dea delle acque, l’avvertimento di non mangiare o bere nulla. Anu rimane colpito da Adapa a tal punto che gli offre il cibo e l’acqua della vita, ma Adapa li rifiuta senza rendersi conto di perdere così l’immortalità.
Ciò nonostante i popoli mesopotamici credevano in un certo genere di vita dopo la morte, ma i loro documenti descrivono l’aldilà come un triste, oscuro paese da cui non si ritorna, abitato da esseri “adorni d’ali”, che si cibano di terra e di creta. Questa non è tanto fede nell’immortalità, quanto in un’esistenza che prosegue, dopo la morte, sottoterra. La religione mesopotamica si accentrava insomma sulla vita in questo modo, dove i destini umani erano decisi dagli dèi.
Lucica