Diavoli e Demoni nell’Inferno dantesco

Loredana Fabbri

                                                          Il sentiero per il Paradiso inizia all’Inferno

                                                                                                             (Dante Alighieri)

<<Ed ecco verso noi venir per nave/un vecchio, bianco per antico pelo,/ gridando: “Guai a voi, anime prave!/Non isperate mai veder lo cielo:/ i’ vegno per menarvi a l’altra riva/ ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo./ E tu che se’ costì,anima viva,/ pàrtiti da cotesti che son morti”./Ma poi che vide ch’io non mi partiva,/disse:”Per altra via, per altri porti/ verrai a piaggia, non qui, per passare:/ più lieve legno convie che ti porti”./ E ‘l duca lui: “Caron, non ti crucciare:/vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare”./Quinci fuor chete le lanose gote/al nocchier della livida palude,/che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote./ Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,/cangiar colore e dibattero i denti,/ratto che ‘nteser le parole crude./Bestemmiavano Dio e lor parenti,/l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme/ di lor semenza e di lor nascimenti./Poi si ritrasser tutte quante insieme,/ forte piangendo , a la riva malvagia/ch’attende ciascun uom che Dio non teme./ Caron dimonio, con occhi di bragia/ loro accennando, tutte le raccoglie;/ batte col remo qualunque s’adagia>>.[1]

È con queste terzine che Dante ci presenta il primo demonio che incontriamo nel terzo canto dell’Inferno: il regno del peccato e delle passioni, dove i dannati mantengono il loro carattere che li contraddistinse nella vita terrena, come se fossero vincolati per sempre ai peccati e alle passioni che marchiarono di vergogna la loro vita, quasi innalzati ad accezione universale del male. L’Inferno è popolato da personaggi derivati dalla mitologia classica, dalla storia passata, recente e contemporanea al Poeta, dalla cronaca della vita quotidiana, descritti con versi di scultorea incisività, essi appartengono a tutte le classi sociali: laici ed ecclesiastici, mercanti, principi, imperatori, cardinali e papi.

Caronte o come scrive Dante Caron, secondo l’uso medievale di rendere tronchi i nomi non latini,[2] figlio di Erebo e di Notte, è il vecchio laido nocchiero che traghetta le anime dei morti dall’una all’altra sponda dell’Acheronte, dove avranno accesso al mondo dell’Oltretomba. E’ la prima figura della mitologia pagana che troviamo direttamente nella vicenda dell’opera, cui presto ne seguiranno molte altre, realizzando così il sincretismo culturale del Medioevo di cui Dante è interprete magistrale. Sconosciuto ad Omero e ad Esiodo,  Caronte è una figura comune dell’aldilà dei Greci, dei Romani, degli Etruschi, egli accoglie con parole crudeli le anime, i suoi occhi terribili sembrano sprigionare fiamme, raccoglie le anime nella nave e le colpisce col remo se si attardano. Questo Demonio deve la sua fama a Virgilio, che lo descrive nel libro VI dell’”Eneide”, durante la discesa agli Inferi di Enea, ma la narrazione è più descrittiva e pittorica, quella di Dante, sulla falsariga di ciò che scrive Virgilio, risulta più drammatica e più impressionante, accentuando i tratti demoniaci del traghettatore e facendone uno strumento della giustizia divina.

Dante, riprendendo dalla cultura del suo tempo, segue la teoria tolemaica del geocentrismo e immagina la terra, al centro dell’universo circondata da nove sfere celesti ruotanti di moto diversamente veloce attorno ad essa, sedi dei pianeti: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Saturno, più una per le Stelle fisse e un’altra costituita dal Primo immobile, che trasmette il moto a tutti i cieli sottostanti: è l’Empireo, sede immobile di Dio. La terra, inoltre, è suddivisa in due emisferi, ma solo quello a nord è abitato dall’uomo e limitato ad est dal Gange e ad ovest dalle Colonne d’Ercole, mentre quello australe è interamente ricoperto dalle acque. Questa fantastica cosmologia è derivata dal Poeta in parte dalla scienza e dall’iconografia pagana e cristiana, in parte inventata e rappresenta l’intento di strutturare in modo organico tutto l’aldilà, basandosi su principi più vicini alla razionalità. Questo complesso cosmologico risulta perfettamente combinato con il sistema etico, che stabilisce il luogo e la peculiarità delle pene o delle beatitudini. Al centro di questa macchina sta, immobile, la terra, sede dell’uomo, sulla quale, quindi, piovono dall’alto le influenze celesti, mentre dal basso, dall’interno della terra dove dimora, sale l’influsso di Satana.

La “Commedia” fa parte della vasta tradizione dei viaggi oltremondani, Dante, però, all’inizio del suo pellegrinaggio, nomina solo due personaggi che hanno compiuto il viaggio nell’aldilà prima di lui: Enea e San Paolo, pur conoscendo altri viaggi nell’oltretomba presenti sia nella letteratura antica e tardo antica sia in quella cristiana. Come guida per l’Inferno e il Purgatorio sceglie Virgilio, cantore delle gesta di Enea, il quale fu il capostipite della discendenza da cui avrà origine l’Impero universale.[3] Il poeta latino fu molto ammirato nel Medioevo, tanto da considerarlo un poeta mago-taumaturgo o un “cristiano”, che avrebbe profetizzato la nascita di Cristo, come vogliono varie leggende, ma è nota l’inclinazione del tempo a modificare la realtà storica: i personaggi dell’antichità classica sono frequentemente equiparati a quelli contemporanei, a causa dello scarso senso della cronologia, questo non è il caso del Virgilio dantesco, in cui non troviamo carattere arbitrario, ma una base preziosa e una sintesi emblematica di tutta la classicità sia per la formazione letteraria e culturale sia per gli insegnamenti morali: Virgilio è per Dante il massimo “auctor”, <<”O de li altri poeti onore e lume / vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume. / Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore; / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore.>>.[4] Da questi versi si può desumere quanto sia importante per il Poeta la letteratura antica, posta quasi allo stesso livello della Bibbia, infatti si rivolge alla sua guida e gli chiede se il suo valore è adeguato a compiere un tale viaggio, ossia dal mondo mortale a quello immortale, Enea era disceso agl’Inferi, in quanto investito di una missione divina: fondare Roma e l’Impero. Se Dio fu così benigno con lui, pensando alle straordinarie conseguenze che ne sarebbero derivate, non deve sembrare contro ragione, Enea fu scelto da Dio nell’Empireo come padre di Roma e del suo Impero, destinati come luogo santo dove risiede il successore di Pietro.

Poi anche San Paolo andò ancora vivo nell’aldilà per trarne sostegno a quella fede cristiana, fondamentale per la salvezza. L’Alighieri, continua dicendo a Virgilio che lui non è né Enea né San Paolo, quindi per quali meriti dovrebbe fare un tale viaggio, poiché lui stesso non si reputa degno di tutto ciò.[5] Dante è il protagonista del suo viaggio oltremondano, nei precedenti testi latini invece è sempre un eroe ad affrontare la catabasi, perché dai classici era considerata un’impresa fatale, ma quello del Poeta fiorentino non è un viaggio eroico, che vuole celebrare la gloria del protagonista, ma un pellegrinaggio necessario per la sua salvezza, che diverrà esempio per tutta l’umanità.

Dante immagina l’Inferno come un’immensa voragine sotterranea a forma di tronco di cono, con la parte terminale (base minore) prossima al centro della terra, mentre la parte più ampia (base del cono tronco) è situata sotto Gerusalemme ad una distanza non precisata. Le pareti della voragine sono incise orizzontalmente a corone circolari, che formano nove ripiani concentrici, che vanno via via restringendosi come le gradinate di un anfiteatro, le loro coste, franate a causa del terremoto che accompagnò la morte di Cristo, permettono la discesa dall’uno all’altro.

I dannati sono distribuiti dall’alto verso il basso secondo lo schema aristotelico dell’”Etica Nicomachea”, che distingue tra i peccati d’incontinenza, puniti nei gironi dal secondo al quinto (lussuria, gola, avarizia, e prodigalità, iracondia e accidia), perché meno gravi; e i peccati di malizia, più gravi perché commessi consapevolmente, sono puniti nella zona più profonda, oltre le mura della città di Dite. Nel sesto cerchio troviamo gli eretici e nel settimo i violenti, nell’ottavo i fraudolenti e nel nono i traditori. Per questa disposizione dei dannati, Dante segue, se pure con estrema libertà e straordinaria capacità di elaborazione, anche il “De officiis” di Cicerone e il pensiero teologico di San Tommaso.

Le pene sono stabilite dal Poeta secondo la tradizione giuridica medievale e conformi alla consuetudine del diritto del suo tempo, basato sulla legge del taglione, sulla legittimità della violenza e della vendetta. I peccati sono puniti con una pena, che, per attinenza o per antitesi, si ricollega alla colpa commessa: la legge del contrappasso.

Nell’Inferno Dante descrive e rappresenta il male, il peccato, ossia l’elemento negativo e il sentimento dell’anima cristiana non può essere che di repulsione; ma rappresenta anche il bene, il divino che fa percepire l’aiuto, il conforto, la speranza a colui che intraprende questo viaggio ultraterreno. Il Poeta fiorentino è protagonista nell’Inferno, poiché attraversa la voragine, parla e avversa i dannati, ma è un protagonista statico, rispetto all’azione generale della cantica, perché in lui non avvengono mutamenti: alla fine del baratro egli è quello che era prima. Il viaggio nell’Inferno è un’esperienza sempre invariata, mentre il viaggio attraverso il Purgatorio porta Dante alla completa purificazione nelle acque dei due fiumi divini.[6]

Nella Divina Commedia l’Inferno è caratterizzato dal dramma, consistente anche nei rischi  cui va incontro il Poeta, dall’interesse dei personaggi per le vicende terrene a cui sono ancora strettamente vincolati, dalla varietà ed originalità con cui essi sono delineati; succede poi un Purgatorio, dove questi interessi si affievoliscono o vengono meno; poi un Paradiso in cui predomina la contemplazione intellettuale e dove Dante cerca di far fronte alla freddezza artistica e di suscitare l’interesse dei lettori con alte discussioni filosofiche, ma piuttosto estranee agli affetti umani. Molto interessante è il giudizio espresso da Giacomo Leopardi sulla “Commedia”, scritto nello “Zibaldone”: <<…inseriva l’accenno al progressivo impoverimento umano e poetico della Commedia in una lunga considerazione sul cristianesimo “più atto ad atterrire che a consolare, o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza”; perché all’infelice che “si trova impediti quaggiù i suoi desideri, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l’adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna” parlano con evidenza non “la promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera”, che egli “non può comprendere, né immaginare, né pur concepire o congetturare, in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione…”, ma la minaccia e la natura dei castighi e mali di cui egli ha purtroppo esperienza. Così “Dante che riesce a spaventar dell’Inferno, non riesce, né anche poeticamente parlando, a invogliar punto del Paradiso”>>.[7]

La cultura di Dante è medievale e scolastica, il suo pensiero filosofico oscilla tra Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, il quale viene posto in Paradiso nel gruppo degli spiriti sapienti, nonostante la condanna ecclesiastica.[8] Il Poeta si forma sui testi e sulle dispute che prevalevano nelle “scholae”, ma non conosciamo quasi niente sul corso di studi di Dante e sui testi da lui letti: attraverso le sue opere, come il “De Vulgari eloquentia” o la “Vita Nova”vediamo nominati, oltre Virgilio, suo “maestro” e suo “autore”, tra i poeti classici Ovidio, Stazio e Lucano, compaiono anche i nomi di Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio, i quali erano già presenti e diffusi nelle “scholae”, ma in Dante ci fanno capire come egli si fosse impadronito della cultura classica, anticipando i tempi ed elaborandola personalmente, un esempio lo abbiamo nel Limbo, dove parla dei grandi spiriti dell’antichità e menziona Omero <<che sovra li altri com’aquila vola>>,[9] che Dante non conosceva direttamente e non godeva di alcuna autorevolezza nel mondo medievale. È impossibile citare gli autori e le fonti di cui Dante si avvale nella Commedia, solo dopo un’attenta lettura di tutta l’opera possiamo farci un’idea delle conoscenze enciclopediche del Poeta fiorentino: del mondo classico, di quello medievale, delle speculazioni dottrinarie, della cultura francese e provenzale in lingua d’oc e d’oil, della lirica trobadorica, dei Cicli bretone e carolingio e della poetica italiana dalla Scuola siciliana allo Stil Novo.

 Quando il comune di Milano era impegnato nella guerra vittoriosa contro il Barbarossa, Firenze non aveva ancora raggiunto una posizione rilevante nel quadro politico italiano, ma un secolo dopo, la città era diventata uno dei più importanti centri economici non solo dell’Italia, ma di tutta l’Europa, contraddistinto da un ragguardevole numero di imprese e da una potenza finanziaria elevata, tra i mercanti fiorentini il commercio dei panni-lana era quello più esercitato: la materia prima e il manufatto semilavorato veniva importato dalla Francia, dalla Fiandra e dall’Inghilterra, a Firenze veniva raffinato e poi riesportato nei mercati italiani ed orientali. Questi mercanti non operavano singolarmente, ma erano organizzati in compagnie e questo consentiva loro di esercitare una vasta varietà di affari e una grossa disposizione di capitali, che consentì lo sviluppo di un’attività bancaria con altissimi profitti, questa attività fu incrementata, nel 1252, con la coniazione del Fiorino d’oro, una moneta a 24 carati, che si affermò rapidamente per i pagamenti internazionali, consentendo ai mercanti-banchieri fiorentini un enorme volume d’affari in tutta Europa. Verso la metà del Duecento la borghesia fiorentina era organizzata in sette “Arti maggiori”, in cinque “Arti medie” e nove “Arti minori”, ai rappresentanti di queste associazioni era affidato il governo di Firenze, poiché erano capaci di far fronte alle consorterie dei nobili. Le nuove forze economiche della città assunsero, quindi, direttamente il controllo politico su di essa a partire dalla seconda metà del ‘200.[10]

Le lotte tra i ghibellini, sostenitori del partito imperiale, e i guelfi, sostenitori del papa conclusosi con la definitiva vittoria di questi ultimi dopo il 1266, non arrestarono la crescita del ruolo delle arti nell’organizzazione politica della città: le vicende delle lotte di fazione a Firenze ebbero più importanza nell’ambito di una storia regionale di quello relativo all’evoluzione sociale e politica della città, infatti il sopravvento dei ghibellini al tempo di Federico II, il risveglio guelfo dopo la morte dell’Imperatore, quando i ghibellini esiliati, comandati da Farinata degli Uberti, furono vittoriosi nella battaglia di Montaperti, la definitiva affermazione dei guelfi dopo la morte di Manfredi, furono tutti avvenimenti dai quali si andò sempre più accentuando l’affermazione delle arti come elementi di governo, al di là dell’alternanza dei partiti al potere. Nel 1282 si costituì il governo dei Priori delle Arti (prima in numero di tre e poi di sei) che sostituì quello dei magistrati precedenti, i sei priori, eletti dalle arti, rappresentavano i sei “sesti”, ossia le sei ripartizioni topografiche della città. Con gli “Ordinamenti di Giustizia”, voluti da Giano della Bella nel 1292 e approvati nel 1293 i magnati (i cavalieri) furono esclusi dalle cariche pubbliche. La vittoria del ceto dei grandi mercanti poteva così dirsi completata. In seguito questa legislazione venne moderata e fu concesso ai magnati di accedere alle cariche pubbliche purché si iscrivessero ad un’arte, questo fu il caso dell’Alighieri che si iscrisse all’arte dei medici e speziali, ovviamente si trattava di una iscrizione puramente formale, ma ciò significava che i membri delle famiglie magnatizie potevano governare solo a nome e nell’interesse delle arti. Quando la borghesia fiorentina non pensa a far la guerra, pensa a far denaro, perfino i palazzi dei ricchi sono costruiti con criteri molto funzionali: a pianterreno i magazzini per i commerci, in alto le torri e gli spalti per la difesa.[11]  

Nonostante i disaccordi, Firenze è una città prospera, dove il denaro scorre abbondantemente e dove gli abitanti cominciano a scoprire gli agi del vivere: le case degli abbienti sono ancora spoglie, ma si comincia a tappezzare le pareti e a dotare i letti di lussuosi copriletti; i pasti sono più elaborati ed abbondanti, con carne, vino, spezie, sempre presente è la selvaggina, essendo la caccia un’inclinazione tradizionale dei Toscani, anche se sulle tavole mancano posate e tovaglioli, ma frequente è la presenza di un buffone o di un novellatore, nelle occasioni solenni intervengono anche i suonatori di vari strumenti. Da tenere in considerazione che la musica fa parte delle Arti liberali del Trivio e del Quadrivio e le persone colte sono tenute a conoscere almeno gli elementi fondamentali.[12]

L’infanzia di Dante trascorse sicuramente in Firenze, ad eccezione di alcuni brevi periodi passati a Camerata e a San Miniato a Pagnolle, poderi di proprietà degli Alighieri insieme con due appezzamenti di terreni, che costituivano il patrimonio della famiglia. Furono anni travagliati dalle lotte politiche, dalla morte della madre Bella (Dante aveva circa dieci anni), di adattamento ad una nuova vita familiare dopo il secondo matrimonio del padre e degli affari sbagliati e non sempre legali del genitore, che sembra essere stato un uomo mediocre e su di lui ci furono “voci” sgradevoli, tra queste quella di essere accusato di usura, “voce” raccolta e sparsa da Forese Donati, che, se vero, non dovette dare molti frutti, perché alla sua morte, i figli si trovarono in condizioni finanziarie molto modeste. Della madre, Bella, il Poeta non ne parla, nonostante le donne dantesche rappresentino l’amore, come quello folle di Francesca da Rimini o quello deformato dall’odio di Sapìa da Siena, ma nessuna rappresenta l’amore materno.

La prima formazione culturale avvenne in una delle varie scuole private della città, probabilmente quella del “doctor puerorum” della scuola più vicina alla casa degli Alighieri, in San Martino, in seguito frequentò gli studi del Trivio e del Quadrivio, ultimo ordine di studi laici per una città come Firenze priva di Università. Dante impara anche a scrivere versi, arte sperimentata da tutti gli intellettuali di Firenze, come anche dal suo maestro più noto, Brunetto Latini, Notaio della Repubblica, oltre che politico, scrittore e poeta: fu quindi una delle figure più rappresentative nella Firenze del XIII secolo. Il fatto che Dante lo consideri suo maestro, forse non si riferisce ad un maestro di una scuola vera e propria frequentata da lui stesso, ma al fatto che Brunetto fu maestro di retorica, di morale, di politica per tutta la città fiorentina e l’Alighieri ammirò molto quest’uomo colto, esperto di “ars dictandi” e teorico della politica, ne divenne suo amico e apprese da lui l’amore per il sapere.

Nella seconda metà del Duecento, Firenze è una libera Repubblica, predominata dall’elemento borghese, teoricamente soggetta all’autorità imperiale, ma è il tempo della “grande vacanza” dell’Impero e l’aristocrazia di sangue ha ceduto il passo a quella del denaro: anche il modo di poetare, lo Stil Novo, che trova in Dante il più grande esponente, rappresenta un ambito dove il mito della nobiltà di nascita è decaduto, il “cor gentil”cantato dai poeti, sull’esempio di Guido Guinizzelli, non è per nobiltà di sangue, ma per valori morali indipendenti dalla nascita.[13]

Il famoso atto notarile del 9 febbraio 1277 ci informa delle trattative prematrimoniali, con le quali Gemma Donati, che all’epoca aveva circa dieci anni, veniva promessa a Dante dodicenne, e viene fissato l’ammontare della dote: duecento fiorini piccoli, non era una grande somma, ma le doti venivano calcolate in base al patrimonio del futuro sposo; inoltre Gemma apparteneva ad una delle famiglie più in vista di Firenze e allearsi con i Donati era socialmente prestigioso: tanta precocità rientrava nell’usanza dell’epoca che vedeva nei matrimoni un’alleanza fra gruppi familiari. Il matrimonio sarà celebrato più tardi, tra il 1283 e il 1285 circa.[14]

Secondo la “Vita Nova”, Dante incontra Beatrice all’età di nove anni e si rivedono nove anni dopo, se, come sembra accertato, Beatrice è la figlia di Folco Portinari, importante cittadino e fondatore dell’ospedale di Santa Maria Nuova, i due incontri sono probabilmente un’invenzione poetica dell’Alighieri, perché le loro abitazioni si trovavano molto vicine e per quanto fossero rigide le regole di vita di una ragazza del XIII secolo, non sarebbero mancate le occasioni per incontrarsi. Il Poeta non parla dell’aspetto fisico di Beatrice se non per dire nel Purgatorio che i suoi occhi sembrano degli smeraldi e nel Paradiso dice che la sua fronte è così bianca da distinguere appena una perla che vi ricadeva come era la moda del tempo, comunque un matrimonio tra i due era impensabile: Dante era promesso a Gemma Donati e Beatrice andò sposa a Simone de’ Bardi e morì a soli venticinque anni circa nel 1290.[15]

Della cerchia di amici stilnovisti di Dante facevano parte Lapo Gianni e Cino da Pistoia, ma i due amici più cari furono Forese Donati e Guido Cavalcanti: due personalità completamente diverse, il primo era la dissennatezza personificata, il secondo la saggezza, Forese, detto eloquentemente “Malefami”, è il compagno di baldorie, del periodo della vita dissoluta di Dante e nonostante l’amicizia non si risparmiano certo le frecciate e le insinuazioni maligne, ne è una prova la celeberrima “Tenzone” composta da tre sonetti dell’Alighieri e dalle rispettive risposte del Donati, in cui i due poeti si scambiano insulti e ingiurie in tono comico conforme al genere mediolatino dell’”improperium”e della “tenso”. Guido Cavalcanti, maggiore di Dante di dieci anni, aristocratico, altero, amante della solitudine e sprezzante dei piaceri volgari, lo rimprovera per il suo modo di vivere e lo allontana da una vita biasimevole.[16]

            Nel 1289, l’Alighieri partecipa alle battaglie di Campaldino contro i ghibellini d’Arezzo (giugno) e a Caprona, per la resa del castello occupato da milizie pisane (agosto), il suo impegno politico era stato fino ad allora insussistente, sia per i suoi impegni letterari sia perché non avrebbe potuto esercitarlo data l’esclusione della nobiltà, anche se piccola come quella degli Alighieri, dagli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, solo dopo i “Temperamenti” autorizzati nel 1295, che concessero alla nobiltà di poter partecipare alla vita politica, a condizione di far parte di una Corporazione o Arte, si aprì per Dante una nuova prospettiva di vita.

Dopo essersi iscritto, quello stesso anno, alla Corporazione dei Medici e degli Speziali, dal novembre all’aprile 1296 egli fa parte dei Trentasei del Capitano del Popolo; viene ascoltato dal Consiglio dei Savi per i suoi autorevoli consigli e nel mese di maggio fa parte del Consiglio dei Cento, dove prende subito posizione contro la politica filo-papale di Corso Donati, schierandosi con l’ala più democratica e filo-popolare dei consiglieri. Dante parteggia, anche se con una visione molto personale, per i Cerchi, avversando le mire espansionistiche di Bonifacio VIII sulla Toscana, la parte popolare prevale e i Cerchi estendono il loro potere, Corso Donati viene allontanato da Firenze, anche in seguito ad uno scandalo e il Papa è intento ad un grande evento religioso: il primo Giubileo, che si svolgerà da Natale del 1299 a tutto il 1300. Roma fu meta di numerosissimi pellegrini provenienti da tutte le parti d’Europa: la tradizione vuole che Dante sia stato tra questi, basandosi soprattutto sui ricordi che il poeta ha della Città eterna, specialmente della descrizione che egli fa dei pellegrini che attraversano il ponte di Castel Sant’Angelo in doppio senso di marcia,[17] sicuramente sappiamo che nei primi mesi del 1300, Dante si recò a San Gimignano su incarico del governo dei Bianchi, per convincere i membri di questo Comune a partecipare alla riunione generale dei Guelfi toscani, per organizzarsi contro la pressante politica di Bonifacio VIII e del suo solidale Corso Donati, politica che si aggravò con la nomina pontificia di Matteo d’Acquasparta a legato papale per la Toscana, la Romagna e altri luoghi d’Italia. Con l’arrivo a Firenze del Legato pontificio, la situazione per i Bianchi e particolarmente per i Cerchi divenne molto critica, furono rinnovate le cariche dei Priori e l’Alighieri venne nominato tra i sei Priori per il periodo 15 giugno – 15 agosto e da qui cominciarono i guai per il Poeta, come egli sostiene in un’epistola andata perduta: <<Tutti mali e l’inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio>>.[18] Proprio in quel periodo scoppiò un cruento scontro tra i Grandi e i popolani, era la sera del 23 giugno, vigilia di San Giovanni, i priori furono costretti a prendere una decisione drastica e mandare al confino i capi dei Neri e dei Bianchi.

Nel 1301, Dante ha ormai assunto una posizione irremovibile contro il Pontefice, capitanando l’ala estrema e antipapale dei Bianchi, che ormai non hanno speranze, dopo l’accordo di Bonifacio VIII con Carlo di Valois stipulato ad Anagni il 5 settembre, utilizzando per i propri fini la spedizione nel territorio italiano del Principe francese, consapevoli del pericolo, i governanti fiorentini inviano un’ambasceria al Papa, di cui farà parte anche l’Alighieri, che sarà trattenuto a Roma dallo stesso Bonifacio, mentre gli altri due ambasciatori tornano a Firenze.

Il primo novembre Carlo di Valois con le proprie milizie entra in Firenze e rientrano anche tutti i Neri e Corso Donati; il 7 ha luogo l’insediamento della nuova Signoria, tutta composta dai Neri e cominciano i processi contro i Bianchi. Dante non si trova più a Roma e non sappiamo se riesce a tornare nella sua città e poi fuggire, certamente non si trova a Firenze nel gennaio 1232, poiché il Podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio firma la prima sentenza di condanna contro il Poeta e altri Bianchi il 27 gennaio, con l’obbligo di presentarsi per rendere conto delle proprie azioni e pagare una sanzione, pena l’interdizione dalle cariche pubbliche e due anni di confino: nessuno si presentò e il 10 marzo il Podestà emise la condanna a morte per Dante ed altri quattordici Bianchi. Cominciano così i difficili e gravosi anni d’esilio per questo grande personaggio, che ripone tutte le sue speranze nell’Imperatore Arrigo VII, ma rimase deluso perché invece di muovere subito verso Firenze, come egli sperava, Arrigo VII prende la strada verso Roma.[19]

La vita di Dante è, dunque, quella di un intellettuale impegnato nella vita culturale, politica e sociale del suo tempo, favorito dal clima di libertà della civiltà comunale, che consentì agli intellettuali di sentirsi parte integrante della società e nel caso dell’Alighieri di concepire la cultura come uno strumento di battaglia per il rinnovamento e la difesa dei più alti ideali umani: egli vide il disgregarsi dei valori religiosi, morali e politici del Medioevo, in cui credeva fermamente e si sentì investito della missione di difenderli e restaurarli, richiamando ai loro doveri il Papa e l’Imperatore, rimproverando duramente Guelfi e Ghibellini, principi e prelati, biasimò la corruzione umana e auspicò la venuta del “Veltro”, ossia di un grande riformatore che avrebbe restaurato gli antichi valori perduti.

Nel 1310 la discesa dell’Imperatore Arrigo VII in Italia sembra, come già detto, una risposta alle speranze di Dante, ma la sua venuta si rivelò presto un fallimento e dopo avere cinto la corona ferrea a Milano, solo dopo diciotto mesi poté cingere la corona a Roma, ma nell’estate del 1313 si ammalò e morì improvvisamente, mettendo fine all’ultima speranza del Poeta.

Dopo questa breve e non esaustiva, ma necessaria panoramica su Dante e il suo tempo, riprendiamo il discorso relativo all’Inferno e ai demoni che il Poeta troverà durante il suo cammino a fianco della sua guida.

Molte divinità sotterranee della mitologia pagana antica compaiono nell’Inferno dantesco, trasformati in mostri o demoni per suscitare terrore, spavento. All’inizio del V canto troviamo Minosse, che nella mitologia classica era il re di Creta, famoso anche come legislatore: figlio di Giove e d’Europa, ebbe vari figli, tra i quali Androgeo, il quale fu ucciso dagli ateniesi invidiosi della sua bravura di ginnasta: ne scaturì una guerra vendicatrice. Minosse, nel rito propiziatorio, per ingraziarsi il favore divino, avrebbe dovuto sacrificare a Giove uno splendido toro che Nettuno aveva fatto uscire dal mare, ma lo cambiò con un altro meno bello, così l’ira di Giove si scagliò contro la moglie del re di Creta, Pasife, facendola innamorare del toro. Da tale orrenda unione nacque un mostro, il Minotauro. La guerra fu vittoriosa per Minosse e gli Ateniesi furono obbligati a inviare a Creta ogni anno sette giovanetti, come premio nell’anniversario dei giochi istituiti in memoria di Androgeo, quando poi il Minotauro venne rinchiuso nel labirinto costruito da Dedalo, i giovanetti venivano uccisi dal mostro, fino a quando Teseo, con l’aiuto di Arianna, liberò Atene da questo obbligo. Dante conosceva questo mito, per la narrazione della guerra contro Atene e i Megaresi nelle “Metamorfosi” di Ovidio e per la loro diffusione nella maggior parte dei poemi latini.[20]

Minosse fu famoso come legislatore e come giusto: sembra che per primo abbia introdotto le leggi a Creta; dai poeti antichi, compreso Virgilio, fu indicato come giudice dell’Ade con Eaco e Radamanto, tuttavia Dante lo tramuta da giudice dei morti a quello dei dannati, facendogli assumere tratti demoniaci non riscontrabili nella tradizione classica, pur restando strumento della superiore volontà divina, in quanto giudice infallibile e inflessibile. <<Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: / essamina le colpe ne l’intrata; / giudica e manda secondo ch’avvinghia. / Dico che quando l’anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa; / e quel conoscitor de le peccata / vede qual loco d’Inferno è da essa; / cignesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa.>>.[21]

Il Minosse della Divina Commedia ha le sembianze del grottesco, ma non del comico, specialmente per la lunga coda, peculiarità assente in Virgilio, con la quale si cinge il corpo tante volte corrispondenti al numero del cerchio dove il dannato deve essere situato, la natura demoniaca dell’antico re di Creta scaturisce anche dall’avvertimento minaccioso, sotto forma di giusto consiglio che rivolge a Dante, e che in realtà serve ad alimentare i dubbi che avevano turbato l’Alighieri e ad insinuargli dei sospetti verso Virgilio.[22]

Nel suo percorso ultraterreno, Dante usa espressioni molto affettuose verso Virgilio, gli studiosi si sono chiesti i motivi della scelta dell’antico poeta come guida: forse perché è stato il cantore dell’Impero? O perché tra gli scrittori antichi menzionati nel “De Vulgari Eloquentia” certamente Virgilio detiene il primo posto? In epoca medievale egli fu ritenuto non solo un grande conoscitore del regno dei morti, ma fu considerato, lui pagano, un attendibile profeta di Cristo. <<Del resto a chi consideri la questione da un angolo schiettamente umano, non può sfuggire quanto vi è di commovente in questo cercar rifugio nell’amicizia d’un poeta vissuto tredici secoli avanti, proprio quando l’amicizia dei coetanei – una corda così vibrante nell’anima dantesca – vien meno, vinta dalla morte o dalla lontananza. Quanto al valore allegorico di Virgilio, si è forse troppo ripetuto che rappresenta la Ragione umana. Forse hanno visto più giusto quanti ravvisano in Virgilio la rappresentazione della Poesia intesa come Arte in generale. […] Maggiore interesse suscita Virgilio come uomo. E’ senza dubbio uno dei personaggi della Commedia più ricchi di sfumature, di complessità, anche di mistero. Una grave malinconia l’accompagna ovunque; essa nasce dal sentirsi escluso dalla Grazia. Nel regno dei morti, siano essi i dannati o le anime penitenti che attendono la salvezza, Virgilio passa come un estraneo, uno di fuori, ben sapendo che al termine del cammino tornerà alla quiete opaca del Limbo. Di qui i suoi silenzi, i suoi profondi turbamenti, quel tanto d’inespressivo che l’avvolge, per servirci d’un termine moderno, quasi d’un alone d’incomunicabilità. Dante accanto al maestro è un estroverso: grida i suoi entusiasmi e le sue paure, dibatte i suoi dubbi, recrimina, protesta, si racconta. Ma Virgilio rimane chiuso in se stesso. Il suo segreto , simile alla veste bianca che gl’illustratori popolari gli dettero, l’avvolge come una nube>>.[23]

Nel sesto canto dell’Inferno, (terzo cerchio), oltre a farci conoscere la biasimevole situazione politica di Firenze, Dante ci presenta un altro demonio, Cerbero, guardiano di coloro che in vita peccarono d’ingordigia e ora sono condannati in eterno a stare sotto una pioggia scura e maleodorante, mista a grandine e neve. Anche Cerbero è un mostro mitologico a tre teste, figlio di Tifeo e di Echidna, collocato a guardia dell’Ade, già descritto da Virgilio e da Ovidio, ma dal primo con i tre colli avvolti da serpenti e dal secondo con la bava velenosa; Ercole riuscì a catturarlo e a trascinarlo fuori dall’Ade. In Dante lo vediamo custode di un solo cerchio dell’Inferno, quello dei golosi, con caratteristiche mostruose molto accentuate e in relazione col peccato della gola: ha gli occhi vermigli, simbolo dell’avidità, la barba unta e nera, il ventre largo per l’insaziabilità, le mani dotate di artigli per afferrare il cibo e tormentare i dannati graffiandoli, spellandoli e facendoli a pezzi; emette dei latrati come un cane rabbioso.

Anche per descrivere Flegiàs, il Poeta prende spunto dalla mitologia classica e ne fa un demonio infernale, che poco ha a che vedere con Caronte, perché non è chiara la funzione che ha:  quella di traghettatore della palude Stigia, in tal caso richiamerebbe il compito di Cerbero, o quella del custode degli iracondi e accidiosi, condannati nel quinto cerchio, o entrambe le mansioni? Se  fosse quest’ultimo caso, il compito sarebbe molto adeguato, visto che etimologicamente il suo nome si accosta al verbo greco “flégo” che significa incendio, e, quindi, chi meglio di lui, incendiario, potrebbe avere il compito di imbarcare le anime e introdurre a Dite, la città del fuoco.[24] Flegiàs non ha peculiari caratteristiche fisiche come i precedenti demoni, ma è il simbolo dell’ira. Già ricordato da Virgilio nell’”Eneide” (Eneide, VI, vv. 618-620) e da Stazio nella “Tebaide” (Tebaide, I, v. 713 e segg.), fa parte della mitologia greca, figlio di Marte e di Crise, fu re dei Lapiti, per vendicare la figlia Coronide, sedotta da Apollo, appiccò il fuoco al tempio del dio a Delfi e per questo motivo fu sprofondato nel Tartaro.

Quando Dante e Virgilio giungono sotto le mura infuocate di Dite, vengono sbarcati da Flegiàs davanti all’ingresso, dove subito si affolla una grande quantità di diavoli: <<Io vidi più di mille in su le porte/ da ciel piovuti, che stizzosamente/ dicean: “Chi è costui che sanza morte/ va per lo regno de la morta gente?”>>.[25] Virgilio è costretto a trattare con loro, che corrono a sbarrare le porte della città. Questi diavoli non sono i demoni mitologici “adattati” in ambito cristiano, ma sono diavoli veri, che in epoca medievale gli uomini erano soliti vedere scolpiti sui capitelli delle colonne dei templi o dipinti nelle chiese, che, con il loro aspetto inquietante, accrescevano la paura delle pene dell’aldilà. Sono diavoli determinati e molto arrabbiati per il privilegio di cui gode Dante: vivo tra i morti, questo loro atteggiamento getta nello sconforto il Poeta e Virgilio è costretto a venire diplomaticamente a trattative con loro.

Nonostante Dite sia la città del fuoco, non ci sono grandi fiammate, poiché il Maestro fiorentino riserva il fuoco per gli eretici, posti in arche infuocate; per i violenti contro Dio distribuiti nel sabbione arido, dove le fiamme piovono lente e continue; per i simoniaci, collocati a testa in giù dentro delle buche e con il fuoco sulle piante dei piedi; infine per i consiglieri fraudolenti, che sono prigionieri dentro lingue di fuoco: sono tutti peccatori contro lo Spirito, quindi la giusta pena è quella di essere eternamente tormentati dal fuoco, uno dei simboli dello Spirito.

Sull’ingresso del quarto cerchio (canto VII), dove sono puniti gli avari e i prodighi, i due poeti sono accolti con parole strane da Pluto, custode del cerchio: <<Papè Satàn, papè Satàn aleppe!>>: gli studiosi hanno dato a queste parole varie interpretazioni, ma quale sia quella giusta non lo sappiamo, sembra che non sia un vero discorso, ma uno sfogo oppure l’inizio di un discorso minaccioso volto ad incutere paura, che Virgilio non gli lascia continuare. L’identificazione di questo demonio è molto problematica, poiché potrebbe trattarsi di Pluto, antico dio greco delle ricchezze, figlio di Iasio e di Demetra, nato forse a Creta; oppure di Plutone, figlio di Saturno (Cronos), dio classico degli Inferi e sposo di Proserpina: la seconda ipotesi sembra essere quella più probabile, perché Plutone, detto anche Dite, era, nel Medioevo, spesso rappresentato come figura diabolica ed era accostato alle ricchezze che sono custodite sottoterra.

La descrizione di Pluto è piuttosto generica e frettoloso è l’incontro dei due poeti con questo demonio: Dante lascia intuire che si tratta di un enorme mostro, in cui vi è una terrificante unione di fattezze umane e di sembianze animalesche, con prevalenza di questo secondo elemento. Il Poeta attira l’attenzione del lettore sull’effettiva futilità del demone: il quale prima è rapidamente accennato nel suo aspetto spaventevole e poi è colto nella sua reale impotenza di fronte al volere divino e nel susseguente improvviso accasciarsi, privo di ogni forza <<Quali dal vento le gonfiate vele / caggiono avvolte, poi che l’aber fiacca, / tal cadde a terra la fiera crudele>>. [26]

Il termine “daimon”si trova nella letteratura greca sia come sostantivo sia come verbo, poi fu accostato a cose ritenute malvagie dal Cristianesimo, quando tale religione voleva guadagnare terreno nei confronti del Paganesimo, quindi trasformò varie creature e antiche divinità in entità maligne: per l’Occidente un “demone” divenne sinonimo di malvagio, collegato al Diavolo e tentatori dell’uomo. Le prime demonologie si trovano già nella cultura mesopotamica, in cui il confine tra dei e demoni era molto confuso; in quella ebraica, che si può considerare la più antica, la Torah tratta ampiamente dei demoni menzionandone due tipi: Se’irim e Shedim, il primo riferendosi ad una specie di satiro, il secondo indicando falsi idoli e dei. Il Talmud, oltre dare consigli su come difendersi dai demoni, ne descrive alcuni come Asmodeus e Igrat, rispettivamente re e regina dei demoni, Samael, serpente della Bibbia, Shibbeta e Keteb Meriri, di natura più folcloristica. Durante il Medioevo i vari movimenti Kabbalistici contribuirono agli studi sulla demonologia.

Nell’Antico Testamento, i demoni non sono citati frequentemente, mentre nel Nuovo Testamento troviamo un inizio di gerarchia tra i demoni, poiché si legge che Belzebù è descritto come il principe dei demoni; nei Vangeli di Marco e Matteo, Gesù caccia gli spiriti maligni dai corpi degli indemoniati, nell’Apocalisse vengono citati questi spiriti infernali.

Nel 1272, Tommaso d’Aquino scrive il suo “Trattato sul male”, in cui parla della natura seducente del Diavolo e persiste sul “crimine di eresia della stregoneria”, poiché al tempo tale crimine era visto come un patto con Satana stesso, quindi la demonologia si sviluppa con l’approvazione delle autorità della Chiesa, per comprendere meglio la natura del male.[27]

Nel pensiero teologico cristiano medievale, la demonologia detiene un posto basilare, il tentatore dell’umanità, il torturatore dei dannati nell’Inferno: il Diavolo, per la gente del tempo, fu una presenza reale, ossessiva, la sua opera pareva manifestarsi sia nelle epidemie sia nelle catastrofi naturali e nell’epilessia dell’”indemoniato”, distruggendo psicologicamente e fisicamente la maggior parte degli uomini, determinando un aspetto fondamentale della religiosità. La vivace immaginazione popolare ispirava e condizionava, le descrizioni letterarie, le figurazioni artistiche ed anche le sacre rappresentazioni: in tanti luoghi, dipinti, sculture ricordavano al cristiano i temi della dannazione con esseri spaventosi pronti a martoriare gli sventurati, e ovviamente incidevano molto i ricordi di specifiche opere d’arte, <<…come il Giudizio giottesco della Cappella degli Scrovegni a Padova, nonché certi elementi di derivazione fantastico-popolare, non avranno mancato di agire anche su Dante: nelle cui asserzioni però, occorre,compare sempre, quanto meno sotteso, un rapporto preciso e diretto con il pensiero teologico scolastico>>.[28]  

Alle origini della demonologia cristiana c’è la ribellione dell’angelo prediletto da Dio, Lucifero, narrata nell’Apocalisse (Apoc. 12, 7-13.) e ignoto nel Vecchio Testamento, egli volle essere uguale al Creatore, peccando di orgoglio e di superbia: <<E così fu certo che ‘l primo superbo, / che fu la somma d’ogni creatura, / per non aspettar lume, cadde acerbo; >>, ossia Lucifero, la più alta delle creature, cadde imperfetto perché non volle aspettare di ricevere la sua perfezione dalla grazia di Dio;[29] ancora: <<Principio del cader fu il maledetto / superbir di colui che tu vedesti / da tutti i pesi del mondo costretto.>> :[30] Beatrice spiega a Dante come gli angeli furono creati per un atto d’amore da parte di Dio e gli dice che la causa della caduta di Lucifero, che aveva visto al centro della terra e su cui gravita il peso di tutto l’universo, fu la superbia. Furono numerosi gli angeli, appartenenti ai nove  ordini angelici, che si schierarono dalla parte di Lucifero, ma come lui furono cacciati con violenza dall’Empireo da quelli che erano rimasti fedeli, guidati dall’arcangelo Michele, tale puntualizzazione corrisponde alla “communis opinio” dei teologi, ad eccezione di Alberto Magno, il quale sostiene che al momento della ribellione gli ordini angelici non erano ancora stati costituiti. Come anche veniva presupposto che creature così perfette erano cadute in tale grave peccato perché non avevano ancora la completa conoscenza di Dio.[31] Dio aveva creato solo angeli buoni, una parte di essi peccò fuori dell’intenzione divina, ma non fuori della sua prescienza; il pensiero teologico rifiutava l’asserzione, considerata eretica, che Dio avesse dato origine ad angeli già malvagi, e tutto ciò, Dante lo scrive nel “Convivio”: <<Lo sole tutte le cose col suo calore vivifica, e se alcuna [se] ne corrompe, non è della ‘ntenzione della cagione, ma è accidentale effetto: così Iddio tutte le cose vivifica in bontade, e se alcuna n’è rea, non è della divina intenzione, ma conviene quello per accidente essere [nel]lo processo dello inteso effetto. Che se Iddio fece li angeli buoni e li rei, non fece l’uno e l’altro per intenzione, ma solamente li buoni. Seguitò poi fuori d’intenzione la malizia de’ rei, ma non sì fuori d’intenzione, che Dio non sapesse dinanzi in sé predire la loro malizia; ma tanta fu l’affezione a producere la creatura spirituale, che la prescienza d’alquanti che a malo fine doveano venire non dovea né potea Iddio da quella produzione rimuovere>>.[32]

Una terza specie di angeli viene posta da Dante nel vestibolo dell’Inferno, insieme alle anime dei vili: <<Mischiate sono a quel cattivo coro / de li angeli che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. / Caccianli i ciel per non esser men belli, / né lo profondo inferno li riceve, / ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli >>.[33] Anche se nessun passo della Sacra Scrittura parla di questi angeli, non si tratta di un’invenzione dantesca, poiché qualche notizia di questa terza specie di angeli si può trovare nelle leggende medievali, e il Poeta, non solo accoglie questa tradizione, ma la adegua alla condizione morale delle anime poste in quel luogo, particolarmente alla condanna del papa Celestino V, “colui che fece per viltade il gran rifiuto”.[34]

La caduta dall’Empireo sulla terra degli angeli ribelli era una considerazione accettata comunemente e il grande Fiorentino fa dire a Virgilio che Lucifero cadde dalla parte dell’emisfero australe: <<Da questa parte cadde giù dal cielo; / e la terra, che pria di qua si sporse, / per paura di lui fé del mar velo, / e venne a l’emisperio nostro; e forse / per fuggir lui qui loco voto / quella ch’appar di qua, e su ricorse>>.[35]

La teologia cristiana vide nella ribellione di Lucifero i principi del Bene e del Male e i loro opposti, costruendo su di essa una vasta struttura demonologica, in cui vennero aggiunti e potenziati i riferimenti biblici. Negli angeli caduti, fautori del Male, nacque una grande invidia verso l’uomo, il cui destino era quello di sostituirli presso Dio nell’Empireo, divenendo in tal modo “nemici dell’umana generazione”, ma Dio, cui è sottoposta ogni potenza, anche quella diabolica, si giovò di loro per mettere alla prova l’uomo sottoposto alle tentazioni ed è proprio in questa ottica che la teologia cristiana interpreta la tentazione del serpente e la cacciata dal Paradiso Terrestre di Adamo (Genesi), poiché l’uomo, se lo vuole, è in grado di resistere alle tentazioni del Maligno. I Diavoli, anche se confinati nell’Inferno, hanno la facoltà di aggirarsi tra gli uomini dimorando temporaneamente nell’aria, nella zona sublunare, per indurli in tentazioni di ogni genere fine al giorno del Giudizio, possono anche arrecare epidemie, provocare tempeste ed entrare nei corpi umani, procurando gravi malattie che costituiscono le caratteristiche degli indemoniati, come le paralisi, l’epilessia, il mutismo etc, di cui parlano spesso i Vangeli.

Nella lotta tra il Bene e il Male l’azione dei Diavoli viene contrastata dagli Angeli e questo contrasto diviene violento quando si tratta di prendere possesso dell’anima del defunto: <<Francesco venne poi, com’io fu’ morto, / per me; ma un de’ neri cherubini / li disse: “Non portar: non mi far torto>>.[36]Anche nel secondo balzo dell’Antipurgatorio, Dante incontra Buonconte da Montefeltro, morto nella battaglia di Campaldino, egli riuscì a fuggire, dopo essere stato ferito, nel luogo dove il fiume Archiano confluisce con l’Arno. Pentitosi in fin di vita era sorta una contesa tra l’Angelo che aveva presa la sua anima e il Diavolo che si era vendicato facendo strazio del corpo, trascinato e disperso nelle acque in piena: <<Io dirò vero e tu ‘l ridi tra’ vivi: / l’angel di Dio mi prese , e quel d’inferno / gradava: “O tu del ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lacrimetta che ‘l mi toglie; / ma io farò dell’altro altro governo!”>>.[37] Di queste lotte tra angeli e diavoli sono molto ricche l’arte figurativa, la produzione letteraria e l’agiografica, mentre il Poeta si allontana completamente dalla tradizione scolastica nel canto XXXIII dell’Inferno: Dante e Virgilio si trovano nella zona della Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti, condannati a restare in eterno supini nel ghiaccio con le lacrime ghiacciate negli occhi, uno di loro, frate Alberigo, noto per aver fatto uccidere a tradimento dei parenti invitati a pranzo, chiede di liberarlo da quel ghiaccio che gli impedisce uno sfogo al dolore con il pianto, in cambio rivela la sua identità e quella di un traditore genovese, Branca Doria, inoltre spiega anche come i due, ancora vivi col loro corpo, governato in realtà da un Diavolo, siano già all’Inferno. Dante in segno di disprezzo si rifiuta di alleviargli la pena.[38] Quello che Dante scrive risulta difficile da accettare teologicamente, anche se con molta audacia riesce a costruire questi fantasiosi versi da un passo del Vangelo di Giovanni.[39]

Dante, dunque, non ebbe nessuna pietà verso frate Alberigo che si era macchiato di una colpa così infame, ma non sempre il Poeta si comporta così con i dannati: spesso, nel suo cammino per l’Inferno, Dante è fortemente turbato alla vista degli atroci tormenti cui sono sottoposti i dannati, è colpito da grande pietà quando  sente Virgilio <<Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito / nomar le donne antiche e i cavalieri, / pietà mi giunse e fui quasi smarrito.>>,[40] sviene dopo avere ascoltato la storia di Francesca e Paolo, ha le lacrime agli occhi per la pena inflitta a Ciacco ed in altre occasioni, ma quando si commuove per lo strazio degli indovini, Virgilio lo redarguisce con terrificanti parole: <<Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi / del duro scoglio, sì che la mia scorta / mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi? / Qui vive la pietà quando è ben morta: / chi è più scellerato che colui / che al giudicio divin passion porta?>>[41], non si può avere pietà per i malvagi, qui siamo in presenza di peccatori per malizia e frode, che vollero prevenire il giudizio divino, quindi l’uomo ragionevole non deve sentire nessuna pietà. Tuttavia lo stesso Virgilio “smorto” per la commozione della pietà, che a Dante sembrerà effetto della paura, pronuncia queste parole: <<ed elli a me:”L’angoscia de le genti / che son qua giù, nel viso mi dipigne / quella pietà che tu per tema senti.>>.[42]

Da notare che il rapporto di Dante, avvertito da Virglio di non nutrire per queste anime sentimenti di pietà, con i condannati delle Malebolgie, che rappresentano un’umanità veramente degradata, è assente di una compartecipazione affettiva, ma è in forma distaccata, allontanandoli da sé, non si tratta certamente del rapporto appassionato che aveva caratterizzato gli incontri con le anime dei personaggi dell’alto Inferno.

La teologia del sentimento, come venne chiamata da Arturo Graf, nella maggior parte dei casi coincideva con quella popolare e ammetteva che le pene infernali potessero essere in qualche modo attenuate ai dannati, ipotesi negata dalla teologia raziocinate, dottrinale, scolastica: San Tommaso sostiene che nell’Inferno non ci può essere attenuazione della pena, dello stesso parere è San Bonaventura, anzi, sostiene che le punizioni inflitte da Dio sono minori delle colpe loro. San Bernardo di Chiaravalle cerca di dimostrare che i beati provano piacere nel vedere i tormenti a cui sono sottoposti i peccatori; perché quelle pene non riguardano loro, perché se tutti i malvagi verranno condannati, non potranno più preoccuparsi degli inganni diabolici e umani; perché la loro gloria sarà accresciuta dalla contrapposizione; infine perché quello che piace a Dio deve piacere ai giusti, quindi una moderazione delle pene elargite ai dannati, diminuirebbe la beatitudine degli eletti.[43]

Dante segue principalmente la teologia di San Tommaso, quindi non si discosta nemmeno per ciò che riguarda le pene infernali, anche se, come abbiamo visto, spesso dimostra una profonda pietà e talvolta qualche contraddizione con se stesso: parlando del vento impetuoso che travolge i lussuriosi, la chiama <<La bufera infernal, che mai non resta, / mena li spirti con la sua rapina: / voltando e percotendo li molesta. […] nulla speranza li conforta mai, / non che di posa, ma di minor pena.>>,[44] più avanti, nelle terzine in cui parla con Francesca da Polenta, fa dire alla donna: <<Di quel che udire e che parlar vi piace, / noi udiremo e parleremo a vui, / mentre che ‘i vento, come fa, ci tace.>>.[45] Nel VI canto, il Poeta dice: <<Io sono al terzo cerchio, de la piova / eterna, maledetta, fredda e greve:>>,[46] che fa urlare i dannati come cani, ma <<de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo>>,[47]quindi sembrerebbe che i dannati riescano a trovare un sollievo, anche se piccolo, al loro tormento. Nello stesso modo trovano un poco di sollievo i dannati che si trovano nell’ottavo cerchio, sono i barattieri che scontano il loro peccato immersi nella pece bollente, ma <<Come i dalfini, quando fanno segno / a’ marinar con l’arco de la schiena / che s’argomentin di campar lor legno, / talor così ad alleggiar la pena / mostrav’alcun de’ peccatori il dosso, / e nascondea in men che non balena. >>.[48] Così Dante ammette che i dannati possano avere qualche sollievo dalla loro pena e quelli che hanno commesso colpe meno gravi di coloro che si trovano nei cerchi più profondi, chiedono al Poeta di “vendicare” la loro memoria quando egli tornerà nel mondo dei vivi; San Tommaso sostiene che l’amore dei parenti e degli amici non attenua i tormenti dei dannati, anzi li acuisce, poiché se ne sentono indegni. Di opinione diversa sembra essere Dante, e un esempio lo troviamo con Cavalcante Cavalcanti, che pur dannato ama molto il figlio e non gli può certamente nuocere l’essere amato da lui; anche Brunetto Latini pare molto contento dell’affetto che il suo allievo gli dimostra.

E’ probabile che Dante faccia una distinzione tra i diavoli custodi dei cerchi infernali e quelli presenti sulla terra, nel XXI canto dell’Inferno troviamo: <<Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche / a quella terra che n’è ben fornita:>>,[49] mentre il Poeta arriva con la sua guida sul ponte della quinta bolgia, dove sono puniti nella pece bollente i barattieri, compare improvvisamente un diavolo con in spalla un dannato tenuto per i piedi e giunto sul ponte lo scaraventa nella pece dicendo agli altri diavoli che si tratta di un barattiere di Lucca, città che ne è ben fornita. I barattieri sono sorvegliati dai Malebranche, il più folto gruppo di diavoli infernali, dai nomi fortemente espressivi, che fanno intuire il libero sfogo della fantasia dantesca: Malacoda, Calcabrina, Alichino, Barbariccia, Ciriatto, Cagnazzo, Graffiacane, Farfarello, Libicocco, Rubicante, Scarmiglione. Il loro aspetto è sempre adeguato all’iconografia tradizionale, essi sono armati di uncini che strappano ai dannati le carni; anche nella bolgia dei seduttori troviamo una schiera di diavoli, come quelli delle raffigurazioni popolari: questi diavoli sono neri, hanno le corna, Ciriatto è “sannuto”, Cagnazzo mostra un muso non un volto, e sono tutti provvisti di artigli; il diavolo che butta nella pece dei barattieri “uno degli anziani di Santa Zita” è dipinto come le opere artistiche del Medioevo ce lo mostrano: <<Ahi, quanto egli era nell’aspetto fiero! / E quanto mi parea nell’atto acerbo, / con l’ali aperte e sovra i piè leggero! / L’omero suo, ch’era aguto e superbo, / cercava un peccator con ambo l’anche, / e quei teneva de’ piè ghermito il nerbo>>.[50] Dante fa una straordinaria pittura di questo demonio, prima coglie il fiero aspetto generale, poi l’atteggiamento sinistro crudele e feroce, le ali aperte che accrescano la rapidità dei movimenti. Le spalle sporgenti e angolose per la magrezza, proprio come venivano raffigurati i diavoli nelle antiche pitture; e con gli artigli teneva il peccatore per il tendine dei piedi.

I diavoli che spaventano tanto il Poeta nella quinta bolgia del cerchio ottavo, sono orribili, ma hanno anche del comico: fanno gesti infantili, volgari: <<Per l’argine sinistro volta dienno; / ma prima avea ciascun la lingua stretta / coi denti verso lor duca per cenno: / ed elli avea del cul fatto trombetta>>.[51]  

Fondandosi su varie espressioni dei Vangeli, i teologi sostenevano che i diavoli fossero tra loro distinti gerarchicamente e tutto ciò è evidentemente sviluppato nella prima cantica della Commedia: vicino alla gerarchia “militare” delle folte schiere di diavoli, appare una gerarchia “feudale”, in cui Lucifero è “Lo ‘mperador del doloroso regno”;[52] Proserpina è “la regina dell’etterno pianto”.[53] La perdita della beatitudine celeste ha operato nei diavoli un grande cambiamento, conservando della loro prima natura solo la competenza della scienza naturale e acquisita e la conoscenza del futuro, anche se nell’Inferno di Dante i diavoli non predicono il futuro, solo Caronte fa intendere che il Poeta è destinato al Purgatorio, tuttavia non godono della vera sapienza, ma sono incessantemente padroneggiati dall’invidia e dall’ira, quindi possono volere solo il male.[54]

Fin dalle origini, la demonologia riconosce incarnazioni diaboliche in bestie feroci, nocive all’uomo e in quelle particolarmente ripugnanti, nella “Commedia” mosconi, vespe e vermi torturano gli ignavi del vestibolo infernale;[55] questi animali diabolici sono il frutto delle credenze nate nei riti magici e poi entrate a far parte della demonologia popolare, anche le tre fiere che Dante incontra nel primo canto hanno natura demoniaca <<Questi la caccerà ogni villa, /fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno, / là onde invidia prima dipartilla>>.[56]  In seguito, ai suddetti animali venne affiancato il drago, mostro orribile e fantasioso, che oltre ad essere efferato come le altre bestie, aveva forme terrificanti, e divenne il simbolo del male per antonomasia. Le cattedrali europee romaniche e gotiche, nel Medioevo, si adornarono di questi mostri, anche l’agiografia ebbe una vasta fioritura, l’esempio più noto è quello di San Giorgio: la lotta di eroi tra il Bene e il Male. Dal punto di vista teologico l’assioma è che le forze del bene sono bellissime e quelle del male orrende, la rappresentazione antropomorfica del bene è l’angelo pensato come esaltazione e idealizzazione della figura umana: giovane, con un corpo perfetto, bellissimo, con ali bianche, attorniato da una luce radiosa, mentre il diavolo, di colore nero, è dotato di ali di pipistrello e fisicamente è un ibrido deformato di umano e di bestiale: con corna, grugno, coda, zoccoli, etc.

Se la demonologia dantesca è derivata dalle idee della teologia del tempo, ad eccezione di vari concetti sviluppati da Dante in modo molto personale, indipendenti da quella tradizione sono invece i numerosi personaggi mitologici presenti nell’Inferno e trasformati in demoni, come Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegiàs, le Furie, Medusa, Proserpina, il Minotauro i Centauri, le Arpie, Gerione, Caco e i Giganti. <<La simbiosi di demonologia cristiana e mitologia pagana operata da Dante viene di consueto spiegata come frutto d’imitazione letteraria della poesia classica, e pertanto la contaminazione è ricondotta al cosidetto “pre-umanesimo” dantesco. E’ questa, evidentemente, la soluzione più semplice e la più rispondente alla cultura e alla sensibilità moderne, e perciò la più chiara e immediatamente accettabile per tutti>>.[57]

Forse questa non è la spiegazione giusta, ma solo semplicistica, precisa Giorgio Padoan, esperto dantista, addirittura la definisce inesatta e fuorviante dal reale pensiero di Dante: sembra poco probabile che un cristiano scrupoloso come lui e un attento scrittore scolastico, abbia mischiato la demonologia cristiana con invenzioni poetiche pagane per motivi letterari, oltretutto non dimentichiamo che la questione demologica era, per i tempi in cui visse il Poeta, considerevole e seria. Comunque sia insieme con Satana o Belzebub o Lucifero troviamo nel doloroso regno i demoni mitologici, che sono più numerosi di quelli biblici ed hanno cariche molto più importanti, infatti i demoni biblici (ad eccezione dei Centauri e delle Arpie, che sono ripresi dalla mitologia) sono incaricati delegati di tormentare varie classi di dannati, mentre Caronte traghetta le anime, Minosse ha l’importante compito di giudice, Cerbero è il guardiano del terzo cerchio e Plutone del quarto, etc. Dante fu più volte criticato per avere mischiato il mito pagano con la credenza cristiana, e considerare questo come un anticipo di certe tendenze e usanze dell’Umanesimo non è completamente sbagliato, poiché echi e riflessi dei miti pagani si trovano nelle descrizioni dell’Inferno cristiano fin dai primi secoli della Chiesa, la quale non negò l’esistenza degli dei pagani, ma si limitò a negare la divinità e li trasformò in demoni, divenendo ospiti dell’Inferno, sudditi e aiutanti di Satana. Dio, gli angeli e i demoni erano esistiti da sempre e da sempre avevano partecipato (preso parte) agli avvenimenti umani di tutti i popoli, ad eccezione degli Ebrei, i quali furono in grado di dare una spiegazione ai fatti miracolosi e soprannaturali. I Padri della Chiesa sostennero che i pagani, divinizzando anche uomini di particolare valore e che per volere celeste avevano compiuto opere straordinarie (per es. Ercole), ma accanto al Bene agiscono sempre anche le forze del Male, che si manifestarono ai pagani con personificazioni e interventi magici, ossia per suggestione diabolica, vennero adorati anche entità di natura demoniaca. Queste divinità pagane, frutto della fantasia, rispecchiavano una realtà interpretata erroneamente, allora si cercarono gli equivalenti nella Bibbia e dove non era possibile non mancò il lavoro di fantasia, ed è proprio in questa prospettiva che va analizzata e recepita la mitologia pagana nell’Inferno di Dante, il quale parte da una certezza: la discesa agli Inferi di Enea, descritta in seguito da Virgilio, poeta e storico dell’Impero. Secondo l’Alighieri, Enea arrivò fino alla soglia del Tartaro, ossia fino alle mura della città di Dite, e vide molti demoni, quindi anche Dante, che accoglie pienamente l’opera virgiliana, incontra demoni unicamente mitologici, poiché i diavoli della tradizione biblico-cristiana si trovano tutti dentro la città di Dite, dove Enea non era entrato.[58]

 <<Si capisce che una tale costruzione risultasse inaccettabile ai teologi, derivando da una lettura dell’Eneide al servizio di un’ardita prospettiva politico-religiosa (l’Impero romano voluto dalla Provvidenza, ecc.)che fu non ultimo motivo della condanna della Monarchia. Ben presto la cultura e la mentalità umanistiche lessero l’Eneide  con occhi ben altrimenti storicistici, vedendovi non un libro escatologico e storico, ma esclusivamente un’opera d’invenzione poetica; e allora questa parte della costruzione dantesca, specie per la parte ispirata alla mitologia pagana, non s’intese più il profondo impegno dottrinale e la serietà dell’impostazione. La nuova cultura suggerì una spiegazione umanistica, che indicava in quelle riprese l’imitazione del letterato e la fantasia del poeta; la quale interpretazione, tra l’altro, offriva il non piccolo vantaggio di annullare le pesanti riserve dei teologi; e s’impose con tutti i crismi dell’attendibilità, tant’è che vige ancor oggi>>.[59]

Dante è ancora sconvolto dalla paura per l’incontro con i diavoli sotto le mura della città di Dite, quando, giunto con la sua guida all’ingresso della città, giungono improvvisamente le pericolose Erinni, le Furie dai capelli di serpente e il corpo di donna, le quali gridano e si lacerano il petto, minacciando il Poeta di farlo pietrificare da Medusa. Le tre Furie sono Megera, Tesifone e Aletto, figlie d’Acheronte e della Notte, destinate al servizio di Proserpina, regina dell’Inferno, come seminatrici di discordia e tormentatrici dei dannati, esse appaiono in cima alla torre: Megera a sinistra, Tesifone in mazzo e Aletto a destra; Dante molto spaventato si stringe alla sua guida e alla minaccia delle tre Erinni, Virgilio dice gli dice di non voltarsi indietro e di chiudere gli occhi per non vedere il capo di Medusa, la quale, secondo la mitologia classica, fu una delle tre Gorgoni, figlie di Forco, dio marino, uccisa da Perseo che le mozzò la testa, che aveva la potenza di pietrificare chiunque la guardasse, aiutandosi con lo scudo come fosse uno specchio e dalla testa tagliata uscì il cavallo alato Pegaso; Medusa è collocata da Dante tra i demoni a guardia della città di Dite, non compare direttamente ma viene evocata dalle tre Furie per trasformare il Poeta in sasso e impedirgli il passaggio. Anche Proserpina (Persefone), personaggio della mitologia classica, divenne moglie di Plutone in seguito al suo rapimento e poi collegata al culto dell’Oltretomba come regina degli Inferi, viene citata indirettamente, dicendo che le Erinni sono le ancelle della “regina dell’etterno pianto”.[60]   

Dante e Virgilio stanno per scendere verso il primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro il prossimo (tiranni, omicidi, ladri), immersi nel Flegetonte, fiume di sangue bollente e colpiti dalle frecce dei Centauri, quando in cima ad uno scoscendimento vedono il Minotauro, il quale è posto da Dante a guardia di questo luogo. La leggenda di questo personaggio è tra le più conosciute della mitologia classica: nato dalla mostruosa unione di Pasife, moglie del re di Creta, con un  bellissimo toro bianco di cui si era innamorata ed aveva fatto costruire una finta vacca nella quale nascondersi per avere rapporti sessuali con il toro. Il mostro, relegato nel labirinto costruito da Dedalo, fu ucciso da Teseo aiutato da Arianna, sorella del Minotauro, mentre portava il tributo annuo di sette giovani e sette fanciulle. Il Minotauro, spesso accostato al peccato di lussuria a causa delle sue origini, fu per Dante simbolo di violenza per la sua doppia natura umana e bestiale. Alla vista dei due poeti, il mostro si infuria, ma viene placato da Virgilio, il quale gli dice che nessuno dei due è Teseo e che Dante non è istruito da Arianna sua sorella, ma sono per vedere le pene dei dannati, tali parole spingono al parossismo la furia bestiale del mostro, così accecato dal furore i poeti riescono a passare indisturbati. I Centauri, creature mitologiche, avevano sembianze umane fino alla cintola e il resto del corpo equino. Essi sono rappresentati sia come cacciatori armati di arco e frecce sia come esseri dell’Aldilà: Virgilio, nel Vi libro dell’”Eneide”, li colloca all’ingresso dell’Ade, il loro compito è quello di colpire con le frecce chiunque dei dannati tenti di uscire dal fiume. In particolare vengono nominati dal Poeta tre di loro: Chirone, che sembra essere il capo della schiera, figlio di Crono e Filira, nella tradizione classica è ricordato per la sua grande saggezza e come maestro di Achille; Nesso, che innamoratosi di Deianira tentò di rapirla, ma fu ucciso da Ercole e Folo, che alle nozze di Piritoo e Ippodamia, si ubriacò e tentò di rapire la sposa, scatenando la guerra con i Lapiti. In seguito alle parole che Virgilio scambia con Chirone, i due poeti saranno presi in groppa da Nesso per deporli sull’altra sponda del Flegetonte. Dante associa ai Centauri anche Caco e lo colloca nell’VIII cerchio della VII Bolgia, dove sono puniti i ladri, ma non specifica se sia un peccatore o un demonio col compito di tormentare i dannati: <<Lo mio maestro disse:”Questi è Caco, / che sotto il sasso di monte Aventino / di sangue fece spesse volte laco. / Non va co’ suoi fratei per un cammino, / per lo furto che frodo lente fece / del grande armento ch’elli ebbe a vicino; / onde cessar le sue opere bieche / sotto la mazza d’Ercule, che forse / li ne diè cento, e non sentì le diece”>>.[61] La figura di Caco fa parte della mitologia classica, figlio di Vulcano, fu descritto da vari poeti latini, tra cui Virgilio, che nell’Eneide (Aen., VIII, 184 e segg.) fa raccontare la sua storia da Evandro a Enea, lo descrive come un gigante che emette fiamme, come un ladro di bestiame e un assassino: Caco ruba i capi più belli della mandria di Ercole, il quale l’aveva sottratta al re di Spagna e si era fermato nell’Aventino, per far perdere le tracce che avrebbero rivelato il luogo dove le aveva nascosti, Caco trascina le bestie per la coda, ma dalla caverna, i capi rubati sentendo passare il resto della mandria cominciarono a muggire, rivelando il luogo dove erano nascosti; Caco cercò la fuga per sfuggire all’ira di Ercole, che lo raggiunse e lo uccise. Dante invece lo raffigura come un Centauro che porta sulla groppa numerose serpenti e un drago ad ali spiegate dietro la schiena umana, che vomita fiamme contro chiunque gli si presenti. Virgilio spiega che Caco non è insieme ai suoi fratelli a causa del furto fraudolento che commise. Nella scena dantesca i Centauri rappresentano la cieca cupidigia e l’ira folle, attraverso cui si manifesta la bestialità umana.

I due poeti si addentrano, nel canto XIII, in una strana selva, che si scoprirà essere la foresta dei suicidi, è abitata dalle Arpie, mostri mitologici col corpo di uccello e la testa di donna che emettono strani versi: <<Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, / che cacciar dalle Strofadi i troiani / con tristo annuncio di futuro danno. / Ali hanno late e colli e visi umani, / piè con artigli e pennuto il gran ventre; / fanno lamenti in su li alberi strani>>.[62] Esse sono custodi del secondo girone del  VII cerchio, nidificano tra gli alberi dove sono prigionieri le anime dei suicidi, si cibano delle loro foglie, causando grandi dolori ai dannati. Nella mitologia classica, le Arpie sono figlie di Taumante ed Elettra e simboleggiano la violenza e la furia delle bufere, sono menzionate in varie opere della letteratura greco-latina, ma Dante fa un riferimento esplicito alla fonte da lui utilizzata per la sua rappresentazione di questi mostri, nell’”eneide” (Aen., III, 225 e segg.) Virgilio sostiene che esse abitano le isole Strofadi da cui fecero fuggire i Troiani preannunciando loro una terribile quanto ingannevole carestia. Questo canto si apre con l’immagine di un bosco inaccessibile: nella tradizione fiabesca e letteraria il bosco è un luogo designato alle pratiche d’iniziazione e alle metamorfosi magiche. Questo bosco dantesco sembra riprendere questo tratto distintivo magico-iniziatica: il Poeta pellegrino effettuerà un’altra tappa del suo doloroso viaggio iniziatico ai misteri dell’Oltretomba, attraverso la conoscenza del peccato in tutte le sue perverse rivelazioni, incluso la raccapricciante trasformazione in alberi, cui sono condannati i suicidi, che per Dante sono colpevoli di un peccato mostruoso, poiché si sono privati del più grande dono divino: la vita, quindi anche il luogo della loro pena ci riporta continuamente all’idea di anormalità e disumanità proprie del loro peccato.

Dante e Virgilio, giunti alla cascata assordante del Flegetonte, vedono una mostruosa figura che sale dal burrone come se nuotasse nell’aria, si tratta di Gerione, mostro demoniaco assunto anche questo dalla mitologia classica, cui Dante e Virgilio devono affidarsi per superare il dislivello. <<La faccia sua era faccia d’uom giusto, / tanto benigna avea di fuor la pelle, / e d’un serpente tutto l’altro fusto; / due branche avea pilose in sin l’ascelle; / lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste / dipinti avea di nodi e di rotelle. / Con più color, sommesse e sopraposte / non fer mai drappi Tartari né Turchi, / ne fuor tai tele per Aragne imposte. / Come tal volta stanno a riva i burchi, / che parte sono in acqua e parte in terra, / e come là tra li Tedeschi lurchi / lo bìvero s’assetta a far sua guerra, / così la fiera pessima si stava / su l’orlo che, di pietra, il sabbion serra. / Nel vano tutta sua coda guizzava, / torcendo in sù la venenosa forca / ch’a guisa di scarpion la punta armava>>.[63]  Gerione, figlio di Crisaore e di Calliroe, viene descritto da Dante come un mostro con la faccia di uomo giusto, il busto di serpente, due zampe pelose fino alle ascelle e artigliate, il dorso e il petto dipinti con nodi e rotelle simili ai drappi persiani, una coda biforcuta con un pungiglione avvelenato come quello di uno scorpione. E’ l’immagine della frode, ossia la rappresentazione del peccato punito nell’VIII cerchio, di cui il mostro è custode. Nella mitologia classica, Gerione era il re di tre isole iberiche e fu ucciso da Ercole che gli sottrasse una mandria molto bella; Dante arricchisce questa figura con particolari fantastici, la coda biforcuta e velenosa sta a significare che chi imbroglia è sempre pronto a colpire le sue vittime, i nodi e le rotelle che il mostro ha sulla schiena e sul petto simboleggiano, probabilmente, gli intrecci e i maneggi dell’inganno.[64]

I due poeti stanno superando l’argine che li condurrà al IX cerchio, quando Dante crede di scorgere, nella luce del crepuscolo, una città circondata da alte torri, ma Virgilio gli dice che l’aria oscura dell’Inferno gli fa vedere le cose in modo errato: <<Poi caramente mi prese per mano, / e disse: “Pria che noi siam più avanti, / acciò che ‘l fatto men ti paia strano, / sappi che non son torri, ma giganti, / e son nel pozzo intorno da la ripa / da l’umbilicoin giuso tutti quanti>>.[65] I Giganti, nella mitologia classica, erano figli di Gea e Urano e spesso erano raffigurati anguipedi, essi si ribellarono a Giove, con un folle e presuntuoso tentativo di dare la scalata al cielo, ma furono tutti uccisi in Tessaglia nella battaglia di Flegra. Dante li colloca intorno al pozzo che separa l’VIII dal IX cerchio dell’Inferno, non come demoni, ma, essendosi ribellati a Dio, associati al peccato di tradimento.

Nella Bibbia vengono menzionati soprattutto due giganti, Golia, ucciso da David e Nembrod, capo dei discendenti di Cam e primo re di Babilonia, fu secondo la tradizione patristica il promotore della costruzione della torre di Babele, suscitando lo sdegno di Dio e la confusione delle lingue come conseguenza; così Nembrod, oltre la pena inflitta agli altri giganti, è condannato alla confusione mentale di non essere compreso e di non comprendere; mentre nella Genesi è ricordato solo come un grande cacciatore,[66] Dante lo descrive di dimensioni smisurate: <<La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di san Pietro a Roma>>,[67] facendo riferimento alla pigna bronzea, che un tempo aveva forse adornato il Mausoleo di Adriano, poi collocata davanti alla Basilica di San Pietro. Le parole che Nembrod rivolge ai due pellegrini sono incomprensibili e Virgilio lo esorta a sfogare la sua ira con il corno che porta al collo, poi invita Dante a non parlare inutilmente con lui, dal momento che il gigante non capisce nessun linguaggio e il suo è sconosciuto agli altri. A non molta distanza trovano un altro Gigante, si tratta di Efialte, figlio di Nettuno e di Ifimedìa, il quale, insieme col fratello Oto, fu tra i più audaci nella battaglia contro Giove ed entrambi furono uccisi da Apollo, proprio perché avevano osato sfidare gli Dei, cercando di raggiungere l’Olimpo sovrapponendo i due monti Ossa e Pelio. Egli è descritto da Dante ancora più feroce, più pericoloso e più grande del primo, ha le braccia strettamente legate alla schiena con una catena che si avvolge al collo, in modo da non potersi muovere, in quanto dotato di una forza sovrumana, Virgilio passandogli accanto dice che Briareo era un gigante più forte di lui, udendo queste parole Efialte si scuote provocando un fortissimo terremoto che terrorizza il Poeta toscano, che chiede alla sua guida di poter vedere Briareo, Virgilio gli dice che si trova più distante ed è legato come Efialte, ma ha il volto più feroce. I due pellegrini raggiungono, infine Anteo, figlio di Poseidone e della Madre Terra, viveva in una grotta presso Zama, dove costringeva gli stranieri a combattere con lui e poi li uccideva, conservando i crani delle sue vittime per fare il tetto del tempio di Poseidone. Non partecipò alla battaglia contro Giove, perché vissuto dopo gli altri Giganti; si nutriva di carne di leone e il contatto con la terra gli conservava e aumentava la sua forza colossale. Fu ucciso da Ercole, che, dopo una lunga lotta, riuscì a sollevarlo da terra, diminuendo la sua forza finché Anteo morì. Nell’Inferno dantesco questo Gigante non è incatenato, a differenza dei suoi simili, in quanto non prese parte alla suddetta battaglia e non fece atto di superbia. Virgilio prega il Gigante di deporre lui e il suo discepolo in fondo al pozzo nel lago ghiacciato di Cocito, e Dante tornando sulla terra gli darà fama nel mondo con i suoi versi, ma certamente non in modo lusinghiero, quindi il discorso elaborato di Virgilio è da intendersi come antifrastico e la “captatio benevolentiae” è in senso ironico per suscitare la vanità del Gigante, che, convinto, depone delicatamente i due poeti per poi sollevarsi di nuovo come l’albero di una nave. I due Giganti Tizio e Tifeo sono solo menzionati.[68]

Le figure dei Giganti, soli protagonisti di tutto il canto XXXI, anticipano e preparano il Poeta all’incontro con Lucifero: i Giganti sono conficcati nella roccia ai margini del pozzo, come il re dell’Inferno lo sarà nel centro di Cocito, i Giganti si erano ribellati agli dei con il presuntuoso tentativo di dare la scalata al cielo; analogamente l’angelo più bello e più benvoluto da Dio si era ribellato perché voleva essere uguale a Lui; i Giganti non sembrano dotati d’intelletto, ma sono descritti come esseri enormi privi di razionalità, come Lucifero verrà descritto con peculiarità bestiali e come un enorme mostro peloso che divora le anime di Giuda, Bruto e Cassio. Dante segue la tradizione dei Padri della Chiesa, i quali definivano i Giganti come esseri mostruosi, di dimensioni eccezionali e realmente esistiti, ma non demoniaci. 

 Nel XXXIV canto, i due poeti arrivano al cospetto de “Lo ‘imperador del doloroso regno” e celeberrima è la rappresentazione dantesca di Lucifero, al centro della terra, conficcato nel ghiaccio di Cocito, con tre facce mostruose di colore diverso, simbolo della trinità infernale, contrapposta alla Trinità divina che è amore, potenza e sapienza infiniti: la faccia anteriore è vermiglia, simbolo dell’ira, quella di destra è giallastra, simbolo dell’invidia, quella di sinistra è nera, simbolo dell’odio, secondo le credenze del tempo, i principali moventi che spingono al tradimento: in ciascuna delle quali egli maciulla un peccatore, ma quali peccatori: i traditori di Cristo e di Cesare! Giuda, il tesoriere degli Apostoli, non è chiaro per quale motivo abbia pattuito la cattura di Gesù e la sua consegna ai Romani, per la somma di trenta denari d’argento. Dante lo considera soprattutto simbolo dell’avarizia e del tradimento, è collocato nella zona più profonda dell’Inferno ed è il peccatore che viene punito con la pena più grande. Bruto e Cassio,[69] i quali furono considerati dai Romani fedeli alla tradizione repubblicana gli uccisori del tiranno, ma durante il Medioevo furono ritenuti traditori della maestà imperiale nella figura di Cesare, reputato l’effettivo instauratore dell’Impero. Il Poeta considera pienamente appropriata la loro condanna, poiché la colpa dei tre dannati è per lui e per l’uomo medievale considerata una delle più gravi, perché commessa ai danni delle due supreme potestà su cui poggia il fondamento di un’ordinata vita terrena e della beatitudine di quella celeste. La loro collocazione non può essere che nelle fauci del male, da dove cola una sanguinosa bava a completamento del nauseante spettacolo.

Sotto ciascuna faccia di Lucifero spuntano due ali enormi, non pennute come quelle degli angeli o degli uccelli più nobili, ma simili a quelle dei pipistrelli, ricoperte di ripugnante peluria, che, agitandole continuamente, provocano un vento talmente freddo che fa gelare tutto Cocito. La rappresentazione di Lucifero non poteva essere più terrificante e insieme grottesca. Le arti figurative rappresentarono spesso, anche prima del periodo di Dante, i diavoli con ali di pipistrello e gli angeli con le ali pennute, il Poeta seguì nella raffigurazione di Lucifero la tradizione artistica del suo tempo. La descrizione insiste sulle dimensioni smisurate, paragonando la figura di Lucifero ai Giganti incontrati poco prima dai due poeti, che sembravano dei lillipuziani al suo confronto, e sottolineando la sua mostruosità in antitesi con la bellezza sfolgorante che lo distingueva (caratterizzava) prima della ribellione.  

Molto interessante è questo commento su Satana del Petronio, che riportiamo integralmente: << Questi, già Lucifero, scacciato dai cieli per la sua superbia, è precipitato sulla terra, e, scavatasi una sorte di voragine, nata dal ritrarsi del suolo dinanzi a lui, è rimasto confitto al centro del globo, e quindi dell’universo, simbolo del male e antitesi di Dio, mentre la terra che lo aveva fuggito è emersa agli antipodi di Gerusalemme formando la montagna del Purgatorio. E’ facile notare la saldezza concettuale e fantastica di questa struttura, e la forte unità con la quale Dante seppe legare tutti gli elementi della concezione biblica della storia dell’uomo: Dio, sommo bene, e Satana, sommo male, sono contrapposti antiteticamente, anche dal punto di vista della loro collocazione nel mondo; la caduta di Lucifero – che avrebbe dato luogo a tutta la storia umana futura, con la seduzione di Eva, la colpa dell’uomo, il riscatto operato da Cristo – spalanca la voragine infernale in cui è punito chi non ha saputo respingere la seduzione del male, ma spinge verso il cielo quella montagna del Purgatorio che sarà strumento di purgazione e di redenzione. Così i regni dell’oltretomba, quali li aveva concepiti e immaginati il cristianesimo, vengono collegati strettamente alla storia dell’uomo e alla storia sovrumana della creazione e poi della ribellione degli angeli. Egualmente notevole è, in questa concezione, il reciso antropocentrismo, in armonia, anche qui, con la visione della vita propria del medioevo: l’uomo è al centro della creazione e della storia; Dio lo creato, destinandolo alla felicità eterna, nel momento stesso in cui creava il mondo; esule sulla terra per la caduta di Adamo, egli è la posta di un conflitto continuo tra male e bene; intorno a lui e alla terra che abita ruotano le sfere celesti; per lui Dio si è incarnato e ha sofferto la Passione.[70]

Nella Bibbia non sono presenti riferimenti diretti e dettagliati della figura di Lucifero, né della sua cacciata dal Paradiso.[71] Il Nuovo Testamento ha ereditato vari concetti di Diavolo: è un angelo caduto, è il capo dell’esercito demoniaco, è il principe del male, è il non-essere, la cui funzione è quella di nemico principale di Cristo. Restava però il problema della teodicea: il Signore buono crea un mondo buono, deteriorato dal Diavolo e dai demoni, che arrecano ogni sorta di mali, ma anche dal libero arbitrio dell’umanità, che rappresentata da Adamo ed Eva, sceglie di fare il male anziché il bene, di conseguenza tramite l’azione di Satana, supportato dai demoni e dagli esseri umani caduti nel peccato, il mondo si è trovato sotto la dominazione del Diavolo, quindi il male esistente nel mondo non è dovuto al Dio buono, ma alle suddette creature.[72]

La dottrina del peccato originale è sconosciuta nel Vecchio Testamento, rara nella letteratura rabbinica, troviamo degli accenni nella letteratura apocalittica ed anche nel Nuovo Testamento non viene sviluppata, ma i Vangeli menzionano il peccato originale e riferimenti indiretti si possono trovare nel “Corpus Paolino”,[73] mentre nella “Lettera ai Romani” si parla del peccato originale: Paolo spiega che attraverso il peccato di Adamo, il peccato e la morte sono entrati nel mondo,[74] non viene accennato al ruolo di Satana, anche se possiamo dedurre implicitamente che è stato lui che ha indotto Adamo al peccato e ciò implicherebbe che il peccato di Satana sarebbe precedente a quello di Adamo, mentre la prima tradizione cristiana sosteneva prima la caduta di Adamo e poi quella di Satana. Il Diavolo è il signore del mondo degli uomini, perché può tentare chiunque, in quanto signore dei peccatori, è il principe di una legione di angeli caduti e dei demoni, ma la differenza tra i due generi è molto vaga nel Nuovo Testamento, come lo era stata nel tardo giudaismo. Nell’uso neotestamentario, la distinzione tra il Diavolo e i demoni è chiara nei termini “diabolos” e “daimonion”, mentre nella successiva tradizione cristiana questi termini perdono la loro efficacia e i demoni sono esseri sotto il comando di Satana che lo aiutano a ostacolare il Regno di Dio, per mezzo della possessione; il Diavolo, nel Nuovo Testamento è un tentatore, un bugiardo, un assassino, è causa di morte, della stregoneria, e dell’idolatria, danneggia gli uomini e ostacola la predicazione del Regno di Dio istigandoli al peccato e possedendoli spiritualmente.

Nella tradizione cristiana del tempo di Dante (e di Milton), il Diavolo è il re dell’Inferno dove punisce i peccatori e soffre egli stesso, ma nessuna di queste azioni vengono citate nel Nuovo Testamento, dove i riferimenti sono rari e poco chiari e l’Inferno viene indicato con i termini “Hades” e “Geenna”: il primo si trova sottoterra ed è il luogo dove dimorano le anime in attesa di ricongiungersi ai loro corpi con la Resurrezione; mentre il secondo è il sito del fuoco eterno, dove sono puniti i malvagi, ma non viene indicata la sua ubicazione, ma che cosa accadrà e quando sarà la fine del mondo? Il problema dell’Inferno è da inquadrare in quello più vasto dell’escatologia: la fine del mondo e la sconfitta di Satana sembrerebbero simultanee, ma il Nuovo Testamento parla in maniera oscura sia sui tempi sia sui modi.[75]

Numerose e varie interpretazioni sono state date alla caduta di Lucifero e degli angeli suoi seguaci, la cronologia; la natura della caduta; la geografia della caduta, e proprio l’incoerenza e l’ambiguità di questi racconti hanno consentito al pensiero cristiano di far nascere una vasta varietà di leggende circa la sconfitta del Diavolo, ognuna delle quali coerenti con l’insegnamento biblico da cui derivava. Altro tema escatologico è quello dell’Anticristo, a cui vengono associate le bestie e il drago ( Apocalisse, vv. 11-19), che si può identificare con il Diavolo e le bestie con i sui servi, mentre la bestia che viene dal mare simboleggia il potere di Roma. L’Anticristo e le due bestie sono aiutanti di Satana nella sua lotta contro Cristo alla fine del mondo, ossia l’antico eone, la forza del male che ostacola e impedisce il regno di Dio, che vengono gettati in uno stagno di fuoco e tormentati continuamente col Diavolo. ( Apocalisse vv. 19-20; 20,10) Nella tradizione iconografica il Diavolo è rappresentato con le corna, forse perché veniva associato con gli animali selvatici provvisti di corna, con Pan e i satiri, con la fertilità e la luna crescente, comunque sia queste immagini si associarono nel Cristianesimo primitivo e misero sulla testa del Diavolo le corna. Se i demoni del Nuovo Testamento si collegano con molti animali schifosi, Satana si connette al leone  e al serpente, anche se il primo non divenne importante per la tradizione iconografica, perché associato anche a Cristo e a Marco l’evangelista; il serpente, tentatore di Eva, sarebbe l’identificazione di Satana, anche se non è mai troppo evidenziata nel Nuovo Testamento, ma caldeggiata dalla tradizione cristiana posteriore, anche le ali, non menzionate nel Nuovo Testamento, ma spesso associate al Diavolo, che regna nell’aria, fanno parte della sua figura, sempre nella tradizione posteriore è rappresentato dai colori rosso e nero: solo nell’Apocalisse il rosso è considerato un colore negativo, è il colore del drago, della prostituta e della bestia che cavalca. (Ap. 12,3) Il nero deriva dal suo ruolo di signore delle tenebre e dalla sua associazione agli Inferi, dove si trova prigioniero dopo la caduta, tuttavia nel Nuovo Testamento Satana non viene mai rappresentato concretamente, perché esso è uno spirito, non un corpo, pur avendo la facoltà di cambiare aspetto per i suoi fini e trasformarsi anche in angelo di luce.[76]  

Dobbiamo considerare che il senso della paura fu già nell’uomo primitivo, che si trovò a combattere contro tanti pericoli e avversità naturali, ma l’uomo scoprì il valore del magico e del sacro, fondendoli spesso tra loro e arrivando così al culto di vari oggetti e di animali. D’altra parte l’uomo arcaico si era reso perfettamente conto della propria finitezza e la scoperta di questi due valori fu fondamentale per la propria vita, in quanto gli dette la possibilità di proiettarsi in ciò che l’uomo non avrebbe mai raggiunto materialmente: l’infinità. Aspirante alla salvezza si rivolse, quindi, per l’immediato presente alla magia e a quella per il futuro al sacro.[77]

Satana onnipresente come Dio: questa è la realtà essenziale che sta alla base dell’intera credenza. Un manicheismo semplicista, ma molto efficace fa della vita terrena una battaglia perpetua tra il Diavolo e le creature. Il Maligno e il suo esercito infernale possono fare il male entro limiti tracciati da Dio, ma si tratta di limiti estesi, perché approfittano delle debolezze degli uomini.[78]

Alcuni testi medioevale distinguono Satana da Lucifero, la tradizione afferma, invece, la loro unità, in quanto usa indistintamente i due termini per indicare un solo personaggio, il Diavolo, personificazione del male. Il nome di Lucifero nasce dall’associazione del principe di Isaia,[79] che precipita dal cielo a causa del suo orgoglio, con il cherubino di Ezechiele, la cui condotta era sempre stata perfetta fin dalla sua creazione, fino a quando in lui ci fu l’iniquità.[80] Queste due figure si uniscono in quella di Satana; quando avviene tale fusione non si sa, ma Origene, nel III secolo, usa questi nomi riferendoli allo stesso personaggio.[81]

            La credenza al bene e al male, questa dualità costituisce l’idea fondamentale delle religioni orientali ed è all’origine delle più antiche cerimonie rituali. Questa convinzione compare, all’inizio dell’era cristiana, nell’idea dualistica dei manichei, dando luogo ad una nuova concezione: quella del Diavolo, nemico di Dio e capace di dare ai suoi veneratori una forza in grado di sconvolgere l’armonia nell’opera divina, che originariamente comportava solo cose buone. L’esistenza del Diavolo fu proclamata negli atti del IV Concilio lateranense del 1215, diffondendo a poco a poco una forma crescente di paura per le terribili manifestazioni di un’entità così potente.[82]

Il viaggio oltremondano che Dante dice di avere realizzato nasce da un profondo bisogno di rigenerazione morale e spirituale, non solo a livello personale, ma per tutta l’umanità, travagliata da un clima storico-politico e religioso di crisi istituzionale: la decadenza dell’Impero, la supremazia del potere temporale del Papato su quello spirituale, con un’ulteriore mondanizzazione della Chiesa, la cui conseguenza era l’incremento della simonia, del nepotismo e della corruzione. La Firenze di Dante, con il suo sviluppo economico-commerciale, costituiva l’ambiente ideale di dissolutezza morale, che dilaga nella società del tempo e che vede l’abbandono dei vecchi valori cavallereschi per dare spazio alla bramosia di ricchezze e alle conseguenti aspre lotte interne della città, in cui il Poeta resterà coinvolto e che pagherà con l’esilio la falsa accusa di baratteria. Il messaggio profetico dell’Alighieri, nel suo capolavoro, annuncia la venuta di un Veltro,[83] ossia di un riformatore spirituale che avrebbe riportato i popoli sulla retta via, egli stesso si sente investito di una missione profetica e divina volta alla rigenerazione spirituale dell’umanità, che gli sarà confermata dall’avo Cacciaguida in Paradiso.[84]Dante non è più l’”exul immeritus”, come si firmava nella maggior parte delle sue lettere, ma un profeta latore di un messaggio universale, che, dopo Enea, propugnatore di Roma imperiale, e di San Paolo, risanatore della fede, si pone come riformatore politico e religioso.


[1] S. A. Barbi, Dante Alighieri, La Divina Commedia, Commento di Tommaso Casini, Firenze1959,Inferno, Canto III, vv. 82-111. I passi della prima Cantica riportati nel testo sono ripresi da questa edizione della Divina Commedia.

[2]Si tratta del fenomeno dell’ossitonizzazione, cioè rendere una parola ossitona facendo cadere l’accento tonico sulla sillaba finale.

[3] Cfr. Inf. II, vv. 10-33.

[4] Inf. I, vv. 82-87. Era tipico dello scrittore medievale affidarsi ad un’”auctoritas”, per dare validità a ciò che scriveva.

[5] Cfr. Inf. II, vv. 31-33.

[6] Cfr. B. Porcelli, Studi sulla “Divia Commedia”, Bologna 1970, pp. 3-5.

[7] Ibid.

[8] Cfr. Par. X, vv. 136-138. Sigieri di Brabante nasce nel 1240 circa e muore ad Orvieto nel 1282/3. Maestro a Parigi, fu considerato il più importante pensatore del pensiero averroistico del secolo XIII.   La prima condanna fu nel 1270, quando il Vescovo di Parigi condannò e vietò una serie di proposizioni filosofiche teologiche sostenute nei commenti e nelle lezioni dei maestri “averroisti”, che gli procurarono numerosi ed accaniti avversari. Quando la condanna fu rinnovata in modo più solenne e ampia nel 1277, Sigieri si recò a Roma per scolparsi, poi fu ad Orvieto, allora sede della curia papale, accettando la condanna e l’obbligo di restare internato presso la curia stessa, dove morene 1283 forse assassinato da un chierico, suo segretario. La presenza di Sigieri e l’elogio su di lui, che Dante mette in bocca a San Tommaso nel X canto del Paradiso, ha dato luogo a molte discussioni tra gli studiosi, infatti è noto che Tommaso avversò aspramente le dottrine averroistiche del Brabante (v. “De unitate intellectus”), il quale rispose alle critiche con il libro “De anima”, dove ribadiva la sua posizione razionalistica eterodossa e accettava solo in parte le accuse mossegli. E’ probabile che Dante lo abbia collocato tra gli spiriti sapienti per innalzare la memoria di un grande pensatore che l’invidia aveva cercato di sminuire. Cfr. N. Sapegno a cura di, La Divina Commedia, Paradiso, X, Bologna 1964, p. 136 in nota. I passi della terza Cantica riportati nel testo sono ripresi da questa edizione della Divina Commedia.

[9] Inf. IV, v. 96.

[10] Cfr. F. Gaeta-P. Villani, Corso di Storia, I, Milano 1979, pp. 234-235.

[11] Ibid.

[12] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante, in “I Grandi di Tutti i Tempi”, vol. 3°, Verona 1965, pp. 5-17.

[13] Cfr. Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17. 

[14] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17.

[15] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17.  

[16] Forese appartiene al ramo più importante della famiglia dei Donati, fratello di Corso e Sinibaldo, bramosi di potere, cugino di Dante per parte della moglie, egli, a differenza dei fratelli, si tiene lontano dalla politica. Dante rinfaccia all’amico la trascuratezza verso la moglie Nella e le voci che circolano sulla sua origine; Forese risponde ricordando la brutta fama di suo padre Alighiero e la sua posizione economica, che se non fosse per i suoi fratellastri si troverebbe all’ospizio dei poveri. Cfr M. L. Rizzatti, Dante… cit., p. 21. 

[17] Cfr. Inf. XVIII, 28-33.

[18] “ Popule mee, quid feci tibi?”. Conosciamo il contenuto di questa lettera perduta grazie a Leonardo Bruni, da lui vista probabilmente nell’archivio della Cancelleria fiorentina, il quale può avere aggiunto qualcosa di suo, ma si tratta di una testimonianza diretta molto importante. Questa epistola è menzionata anche da Giovanni Villani nella sua “Cronica”.  La frase biblica latina (Mich. 6, 3), è l’incipit di questa epistola, che secondo il Bruni, sarebbe stata scritta da Dante da Verona nei suoi primi anni d’esilio e diretta non solo “a’ particolari cittadini del reggimento”, ma a tutto il popolo di Firenze. Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/popule -mee-quid-feci-tibi_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[19] Cfr. G. Petrocchi, Il Purgatorio di Dante, Milano 1978, pp. 9-19.

[20] Ovidio, Met., VII 456-516; VIII 1-263; G. Padoan, Minosse, in “Enciclopedia Dantesca” http://www.treccani.it/enciclopedia/minosse_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[21] Inf., V, vv. 4-12.

[22]G. Padoan, Minosse, in “Enciclopedia Dantesca” http://www.treccani.it/enciclopedia/minosse_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[23] M. L. Rizzatti, Dante… cit., p. 21. 

[24] Nella mitologia classica Dite era il nome di Plutone e del regno dei morti, Dante lo attribuisce sia a Lucifero sia alla città dei morti.

[25] Inf. VIII, vv. 82-85.

[26] Inf., VII, vv. 13-15; Cfr G. Padoan, Pluto G. Padoan, Pluto, in Enciclopedia Dantesca (1970) http;//www.treccani.it/enciclopedia/pluto_%28Enciclopedia-Dantesca%29/ Un’altra masnada di diavoli appare a Dante nella bolgia dei seduttori “Di qua, di là, su per lo sasso tetro / vidi demon cornuti con gran ferze, / che li battìen crudelmente di retro”. Inf., XVIII, vv. 34-36.

[27] Cfr. S. Urso, La Demonologia, Parte I) https://archaeus.it/la-demonologia-parte-prima-origine-e-storia/

[28] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[29] Par. XIX, vv. 46-47.

[30] Par. XXIX, vv. 55-57.

[31] Cfr. G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[32] Dante Alighieri, Convivio, XII, 8-9.

[33] Inf. III, vv. 37-42.

[34] Cfr. Inf. III, vv. 37-41, 59-60; G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[35]Inf. XXXIV, vv. 121-126. Lucifero cadde giù dal cielo da questa parte, e la terra, che prima della sua caduta emergeva in questo emisfero australe, per paura si riparò con le acque del mare come se fossero un velo e si spostò nel nostro emisfero e la terra che appare di qua, per non avere contatto con lui, dette origine alla cavità detta “natural burella” e si spinse in alto dando origine alla montagna del Purgatorio.

[36] Inf. XXVII, vv. 112-114. Dante si trova nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, dove sono condannati i consiglieri fraudolenti. L’anima con cui sta parlando è quella di Guido da Montefeltro, che gli racconta la propria vita di capo militare e poi di frate francescano, in vita ebbe fama di giovarsi più dell’astuzia che della forza. Alla sua morte l’anima fu contesa a San Francesco, che voleva portarlo in Paradiso e dal Diavolo che dimostrò trattarsi di un peccatore a causa del consiglio fraudolento che dette a Bonifacio VIII, in guerra con i Colonna, si rivolse al Montefeltro per conquistare Palestrina assediata e vincere la guerra, promettendogli l’assoluzione in anticipo. Il consiglio fu di promettere molto e mantenere poco.

[37] Purg., V, vv. 103-108.

[38] <<Oh!, diss’io a lui, “or se’ tu ancor morto?”. / Ed elli a me: “Come ‘l mio corpo stea / nel mondo su, nulla scienza porto. / Cotal vantaggio ha questa Tolomea, / che spesse volte l’anima ci cade / innanzi ch’Atropòs mossa le dea. / E perché tu più volentier mi rade / le ‘nvetriate lagrime dal volto, / sappie che, tosto che l’anima trade / come fec’io, il corpo suo l’è tolto / da un demonio, che poscia il governa / mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto. / Ella riuna in sì fatta cisterna; / e forse pare ancoro lo corpo suso / de l’ombra che di qua dietro mi verna. / Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso: / elli è ser Branca Doria, e son più anni / poscia passati ch’el fu sì racchiuso”. / “Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni; / ché Branca Doria non morì unquanche, / e mangia e bee e dorme e veste panni”. / “Nel fosso su”, diss’el, “de’ Malebranche, / la dove bolle la tenace pece, / non era ancor giunto Michele Zanche, / che questi lasciò il diavolo in sua vece / nel corpo suo, ed un suo prossimano / che ‘l tradimento insieme con lui fece. / Ma distendi oggimai in qua la mano; / aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi; / e cortesia fu lui esser villano.>> Inf. XXXIII, 124-157.

[39] Ioann. 13, 27, “Et post buccellam introiti in eum Satanas” (E allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Per cui Gesù gli disse: Quel che fai, fallo presto.)

[40] Inf. ,V., vv. 70-72.

[41] Inf., XX, vv. 25-30.

[42] Inf., IV, vv. 19-21.

[43] Cfr., A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Torino 1892, V. I,p. 260 e segg. La Chiesa non si pronunciò su tale dubbio, ma nel non pregare per i dannati era implicita la negazione della mitigazione delle pene.

[44] Inf., IV, vv. 31-33; 44-45.

[45] Inf., IV, vv. 93-96.

[46] Inf., VI, vv. 7-8.

[47] Inf., VI, v. 15.

[48] Inf., XXII, vv. 19-24.

[49] Inf. XXI, vv. 39-40.

[50] Inf., XXI, vv. 31-36. Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/

[51] Inf., XXI, vv.136-139. Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/

[52] Inf. XXXIV, v. 28

[53] Inf. IX, 44. Proserpina figlia di Giove e di Cerere, moglie di Plutone e regina dell’Inferno.

[54] Cfr. G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[55] Inf. III, vv. 65-69. “Questi sciaurati, che mai non fur vivi, / erano ignudi e stimolati molto / da mosconi e da vespe ch’eran ivi. / Elle rigavan lor di sangue il volto, / che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi / da fastidiosi vermi era ricolto.”; cagne bramose sbranano i dilapidatori, Inf. XIII, vv. 124-129; XXI, vv. 44-45 e 67-69.) le mani dei ladri sono legate con delle serpi, Inf. XXIV, vv. 94-105.

[56] Inf. I, vv. 109-111. La lupa, simbolo della cupidigia, potrà essere definitivamente debellata solo da un misterioso “veltro” o cane da caccia, che dopo averla cacciata da ogni città e averla ricollocata all’Inferno, la farà morire con dolore.

[57] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[58] Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/ ; G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[59] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[60] Inf. IX, vv. 38-54. La figura di Proserpina compare tre volte nella Commedia, in quella citata nel testo, come regina dell’etterno pianto, nel cato X, v. 44 “la faccia della donna che qui regge”, identificandola con Ecate e la Luna, parole dette da Farinata degli Uberti; in Purg., XXVIII, vv. 49-51, in cui è paragonate a Matelda, la donna che accoglie Dante nel giardino dell’Eden. “Proserpina è dunque segnale del cammino progressivo dell’intellettuale dall’oscura selva del peccato alla luminosa selva del Paradiso terrestre, e della capacità di Dante di portare, insieme con Beatrice, a completa maturazione il processo di acquisizione di cultura e di fede iniziato con Virgilio…”R. Mercuri, Proserpina, http://www.treccani.it/enciclopedia/proserpina_(Enciclopedia-Dantesca)/

[61] Inf., XXV, vv. 25-33.

[62] Inf. XIII, vv. 10-15.

[63] Inf., XVII, vv. 10-27.

[64] Cfr. https.//www.treccani.it/enciclopedia/gerione-%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[65] Inf., XXXI, vv. 28-33.

[66] Genesi 10, 8; XI 1-9.

[67] Inf. XXXI, vv. 58-59.

[68] Ibid., v. 124.

[69] Mario Giunio Bruto, nonostante avesse ricevuto molti benefici da Cesare, fu dalla parte di Pompeo durante la guerra civile tra i due. Dopo la battaglia di Farsalo (48 a.C.) passò dalla parte di Cesare e l’anno successivo fu nominato Governatore della Gallia Cisalpina, nel 45, tornato a Roma fu il principale fautore, insieme a Cassio, della congiura in cui fu ucciso Cesare, successivamente fuggì in Oriente con Cassio, dove si scontrò con Ottaviano e Antonio a Filippi (42 a.C.), sconfitto si uccise. Anche Caio Cassio Longino seguì la stessa sorte, anche se, dopo la fuga, ottenne il comando delle province orientali, ma dopo il colpo di Stato di Ottaviano e Antonio fu ritenuto fuori legge e battuto a Filippi da Antonio si uccise.)

[70] G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palermo 1970, p. 106.

[71] Sulle origini di Lucifero Cfr, L. Fabbri, Il Diavolo e l’Acqua santa, in “Chi ha disprezzato il giorno delle piccole cose?, Aversa 2007, pp. 323-324.

[72] Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel mondo antico, Bergamo 1990, p. 143 e segg.

[73] Cfr. I Corinzi 15, 20-22 e 44-50; Galati 5, 4; Efesini 2, 3; II corinzi 11. 

[74] “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito […] Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. […]Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza  di uno solo tutti saranno costituiti giusti. La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore.>>  La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1974, pp. 2424-2426.

[75]Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel mondo antico, Bergamo 1990, p. 143-154.

[76] II Corinzi 11,14; Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo…, cit., pp.143-154

[77] Cfr, L. Fabbri, Il Diavolo e l’Acqua santa, in “Chi ha disprezzato il giorno delle piccole cose?, Aversa 2007, pp. 323-324.

[78] Ibid.

[79] “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora?Come mai sei stato steso a terra , signore dei popoli?” Isaia 14, 12.

[80] “Tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato, perché non si trovò in te la perversità. Per l’abbondanza del tuo commercio, tutto in te s’è riempito di violenza, e tu hai peccato; perciò io ti caccio come un profano dal monte di Dio, e ti farò sparire, o cherubino protettore, di mezzo alle pietre di fuoco. Il tuo cuore s’è fatto altero per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saviezza a motivo del tuo splendore…” Ezechiele, 28, 15-16.

[81] Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel Medioevo, Bari 1987, prefazione.

[82] Cfr. L. Fabbri, Il Diavolo… cit., p.

[83] Inf., I, vv. 100-102.

[84] Par. XVII, vv. 133-135.

ERETICI, STREGHE E SANTI NELLA VALLE MESOLCINA E DINTORNI

di Loredana Fabbri

“Se i sacerdoti saranno santi, similmente sarà santo il popolo”.

                                                                                    (San Carlo Borromeo)

Alla memoria del Professor Domenico Maselli

 

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La Valle Mesolcina dal Pizzo Uccello

PREMESSA

Il presente lavoro è un tentativo di ricostruzione della storia religiosa-politico-sociale dei territori sottoposti alla Visita Pastorale dell’Arcivescovo di Milano Carlo Borromeo nel 1583, una storia molto conosciuta, che ha riscosso tanti elogi ma anche tante aspre critiche per l’operato di colui che pochi anni dopo la sua morte divenne santo.

 

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Ritratto di san Carlo Borromeo
Giovanni Ambrogio Figino (1548-1608)

Pinacoteca Ambrosiana, Milano

 

L’articolo si basa su documenti per la maggior parte editi da Paolo d’Alessandri e Rinaldo Boldini, i quali hanno pubblicato nelle loro opere i testi di documenti reperiti presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano ed in altri Archivi, che sono stati preziosi ed indicativi per continuare la presente ricerca.

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Antonio Noto, Statuta et capitula vallis Mexolcinae, 1942

Spesso nel testo riportiamo interi passi di documenti, poiché i riassunti con un linguaggio attuale non renderebbero bene certe “sfumature” come il lessico del tempo.

Non tutti i documenti trascritti ed editi da Paolo d’Alessandri sono fedeli agli originali, anche se i concetti restano gli stessi, ci sono molte parole omesse o cambiate e spesso sono riportati solo dei brani, tralasciandone altri, per noi di una certa importanza, anche perché la finalità di questo lavoro, come già accennato, è molto diversa da quella che si erano proposti i due summenzionati studiosi.

Molto interessante, non solo per la situazione religiosa, ma anche per le notizie storiche, geografiche ed economiche, è l’”Instruttione generale del Stato de Grisoni (diviso in tre parti) pertenente ad alcune cose temporali per maggior cognizione dello stato spirituale”, documento reperito presso la Biblioteca Ambrosiana, dove non troviamo né data né firme, ma da cui possiamo evincere che tale documento fu scritto poco prima della Visita Apostolica, con lo scopo, come recita il titolo, di dare una visione unitaria della situazione presente nei territori delle Tre Leghe. Altre notizie molto importanti le possiamo dedurre da una più sintetica relazione sulla Visita di quella edita dai due studiosi D’Alessandri e Boldini, e da altri documenti non riportati nei loro lavori qui citati.

Nei secoli del basso Medioevo, l’attuale territorio svizzero apparteneva al Sacro Romano Impero, cui facevano riferimento le varie città e comunità di valle per espandere la sovranità degli individuali confini ed essere direttamente soggetti alla giurisdizione imperiale, lontana e spesso astratta, era un modo per sfuggire all’invadente autorità dei vescovi e dei signori feudali.

Dopo la metà del secolo XIII, la decadenza delle istituzioni imperiali, con la conseguente  precarietà e incertezza politica, indussero le città e le comunità rurali a stipulare intese difensive che furono anche l’occasione per affermare la propria indipendenza: nel 1291 l’unione dei cantoni montani di Unterwalden, Schwyz e Uri rappresentarono il nucleo della fondazione della Confederazione, anche se città come Zurigo, Berna e Lucerna continuarono ad avere un ruolo importante.[1]

Gli Asburgo, feudatari dell’Alta Valle del Reno, rappresentarono una grave minaccia per i Cantoni, specialmente quando nel 1273 ottennero la corona imperiale, ma agli inizi del secolo successivo, i Cantoni con un’abile mossa politica strinsero alleanza con Ludovico il Bavaro contro Federico d’Asburgo, infliggendo agli Asburgo una grave sconfitta nel 1315 e alla fine dello stesso secolo la Confederazione si attribuì un carattere più saldo e delineato con la Convenzione di Sempach del 1393, cui aderirono Zurigo, Zugo, Lucerna, Glarus e Berna.[2]

Nei primi anni del Quattrocento, la Confederazione, divenuta una potenza considerevole, cerca di estendere il proprio dominio al di là del passo del San Gottardo sui territori dell’attuale Canton Ticino, ma il tentativo rimane incompiuto a causa della vittoria dei Visconti ad Arbedo nel 1422.

A Vazerol nel 1471 venne sottoscritta la Repubblica delle Tre Leghe tra la Lega Caddea, la Lega Grigia e la Lega delle Dieci Giurisdizioni: si trattò di un accordo in cui le tre Leghe, pur restando indipendenti e separate, stipularono un patto per difendersi meglio dagli Asburgo, che continuavano ad asservire questi luoghi per ottenere il controllo sui passi esistenti nella regione. Dopo accordi con la Confederazione svizzera, prima nel 1497 poi l’anno successivo, lo Stato delle Tre Leghe fu considerato associato alla Confederazione elvetica, e dal 1512 anche la Valtellina con Bormio e Chiavenna fecero parte della Repubblica delle Tre Leghe, se pure con livelli diversi di sudditanza.

Continua, nel frattempo, il conflitto con gli Asburgo, ma una nuova minaccia per la Congregazione è costituita dall’espansione dello Stato borgognone, ma le sconfitte che i piccheri svizzeri inflissero ai cavalieri borgognoni nel 1476, diedero fama continentale alle truppe elvetiche che cominciarono ad essere richieste dalle potenze europee per il loro rivoluzionario modo di combattere, segnando il tramonto del cavaliere e della cavalleria medievale, e facendo dei piccheri svizzeri i mercenari più richiesti. Ad accrescere il peso internazionale della Confederazione, oltre le vittorie, ci furono anche le ammissioni a tale Confederazione di Basilea, Sciaffusa, Friburgo, Solothurn e Appenzell, ma le mire espansionistiche furono fermate dalla sconfitta subita a Marignano nel 1515 da parte di Francesco I, i Cantoni misero fine alle loro ambizioni sul Milanese, ma il Canton Ticino rimase sotto il potere della Confederazione svizzera.[3]

La diffusione del pensiero di Lutero inizialmente non causò una distinta contrapposizione nella vita della comunità cristiana, d’altra parte anche durante il Medioevo la disputa teologica e disciplinare era stata spesso irruente e frequente era stata la contestazione circa l’atteggiamento del clero compresa la più alta gerarchia ecclesiastica, ma tutto ciò non aveva causato divisioni insanabili, quindi il clima di rottura che si stava creando non fu percepito, per lungo tempo, in modo traumatico dalla gente comune. Anzi i ceti urbani più umili e la popolazione rurale provavano grandi speranze nei loro confronti proprio in un rinnovamento della Chiesa e della società. Anche la borghesia era favorevole alle novità che l’opera di Lutero avrebbe potuto portare sia dal punto di vista spirituale sia nella libertà da vincoli, soprattutto fiscali, nei confronti della Chiesa. I principi tedeschi intravidero nella contestazione teologica del teologo tedesco la possibilità di affermare la loro esigenza di autonomia politica da Roma e dall’Imperatore, inoltre coloro che aderirono alla Riforma incamerarono i beni ecclesiastici posti nei territori da loro governati, approfittando del disconoscimento delle autorità stabilite dalla Chiesa di Roma (episcopati e monasteri), trasformando in tal modo la disputa religiosa sollevata da Lutero in una rivoluzione politica ed economica, che sollevò una lunga polemica sull’obbedienza dei principi a Roma e all’Imperatore e sul legittimo possesso dei beni appartenenti alla Chiesa di cui si erano impadroniti.

Il movimento riformatore si estese anche fuori dai confini della Germania, per opera di altre personalità, le cui posizioni dottrinali non sempre coincidevano con quelle di Lutero: le idee riformistiche penetrarono nella Svizzera tedesca per mezzo di centinaia di opuscoli e di numerosi fautori ardenti e convinti che le diffusero ovunque, anche se l’impatto che ebbero sull’ambiente fu diverso a seconda che si trattasse di zone rurali o delle città.

A Zurigo il messaggio di Lutero venne recepito dallo svizzero Ulrich Zwingli (1484-1531), che dopo avere compiuto gli studi a Vienna e a Basilea, era stato ordinato sacerdote nel 1506, successivamente cappellano delle truppe svizzere che, vinta la battaglia di Melegnano, si impossessarono dei territori della Valtellina e del Canton Ticino ed imposero la Signoria di Massimiliano Sforza a Milano. Dopo l’esperienza militare Zwingli iniziò a Zurigo nel 1519 la sua attività di predicatore e di politico, dall’anno precedente era arciprete della Cattedrale di questa città e presa la guida della Chiesa la portò subito a posizioni riformate, allontanandosi dal Vescovado e collegandosi al Consiglio Comunale della città.  Inizialmente si schierò con Lutero nella critica alla Chiesa romana e alla pretesa di essere l’unica mediatrice della parola di Dio, ma presto il suo pensiero divenne più radicale rispetto a quello del riformatore di Eisleben, soprattutto sui sacramenti e sulla liturgia: considerò inaccettabile ogni dottrina che ritenesse possibile un cambiamento di sostanza, quindi negò il valore sacramentale dell’Eucarestia e di tutti i sacramenti, attribuendo loro un valore puramente simbolico. Ridusse la liturgia a una semplice lettura commentata della Bibbia e a una rievocazione dell’Ultima Cena di Cristo. Nel 1522 si dimise dal suo ruolo, restando a Zurigo come predicatore alle dipendenze del Consiglio cittadino, che, successivamente, adeguandosi alle idee zwingliane istituì una nuova riforma ecclesiastica radicale, in cui venne soppresso il Diritto canonico, furono requisiti i beni ecclesiastici a favore della pubblica beneficenza, nelle chiese vennero eliminate le immagini sacre e furono annullate le processioni e la musica sacra, fu imposto l’obbligo di partecipazione alla liturgia e il divieto di assistere a messe cattoliche. Questo modello si estese anche ad altre città come Basilea, Berna e Sciaffusa, invece in altri Cantoni ci fu una forte resistenza, che dette origine ad una serie di scontri armati, che sfociarono, più tardi, in una vera e propria guerra contro i Cantoni cattolici e Zwingli venne sconfitto e cadde nel 1531 nella battaglia di Kappel.[4]

La morte di Zwingli non arrestò lo sviluppo della Riforma, fuorusciti, predicatori itineranti e mercanti portavano di città in città le idee riformistiche basate su linee diverse da quelle di Lutero, soprattutto i <<…mercanti, che, recandosi in zone di fede luterana e soprattutto calvinista, vi trovavano delle idee rispondenti al loro mestiere e ai loro bisogni: infatti secondo Calvino ogni attività lavorativa è benedetta da Dio, la riuscita negli affari è una prova della salvezza, il denaro deve essere considerato un dono di Dio e messo a frutto non solo come aiuto ai poveri e alla Chiesa ma anche come investimento finanziario per servire la Comunità, e l’uomo d’affari deve essere prima di tutto un uomo di fede>>.[5] I protestanti rimasero liberi nei domini francesi, ma cominciarono le persecuzioni in altri territori, tra i perseguitati vi fu Agostino Mainardi (1482-1563), il quale si rifugiò nel territorio dei Grigioni nel 1539 e fu il primo predicatore della Comunità Evangelica di Chiavenna.[6]

Nel 1536 arrivò a Ginevra il francese Jean Cauvin (Noyon 1509.1564), nome italianizzato in Giovanni Calvino, dove svolse la funzione di predicatore e pastore. Dopo varie peregrinazioni, protetto da Renata di Navarra, moglie del duca d’Este, Calvino si rifugiò a Basilea, città molto tollerante, dove ebbe termine la prima stesura della sua opera più importante: la “Institutio Christianae Religionis (1536), in cui spiegava i concetti essenziali della dottrina cristiana e i punti principali della verità evangelica riscoperta da Lutero. D’accordo con il riformatore tedesco sugli elementi fondamentali della Riforma come la salvezza tramite la sola fede, totale debolezza della libertà umana, affermazione del sacerdozio universale, sul modello di Zwingli, diverge da Lutero su diversi punti fondamentali: sul tema della predestinazione, Lutero afferma che Dio, con sovrana libertà, sceglie, indipendentemente dai loro meriti, alcuni uomini per la salvezza; Calvino estremizza il pensiero luterano proponendo la “doppia predestinazione”, secondo cui Dio destina alcuni uomini alla salvezza e altri alla dannazione etrna. Per entrambi i riformatori i Sacramenti sono due: battesimo ed eucarestia, ma Calvino li considera semplici atti simbolici senza significato salvifico, negando la presenza di Cristo nell’eucarestia; per l’organizzazione interna della comunità cristiana, Calvino non si limita a negare il primato del clero sul laicato, ma propone una Chiesa in cui i laici abbiano assoluta prevalenza nel governo, egli non prevede una Chiesa nazionale, come Lutero, ma un’organizzazione della comunità locale, dove ogni centro ha la sua autonoma organizzazione vicina alle esigenze della borghesia cittadina.

Come già accennato, sempre nel 1536 Calvino si trasferì a Ginevra, dove proclamò il suo pensiero politico totalmente radicalmente opposto a quello di Zwingli, che affermava la netta prevalenza della gerarchia religiosa su quella politica e nel 1537 obbligò i cittadini di Ginevra a rispettare gli “Articoli sull’organizzazione della Chiesa”, con gravi sanzioni per gli inadempienti. Nel 1538 Calvino fu costretto a lasciare questa città a causa di un rovesciamento del governo cittadino, ma tre anni dopo fece ritorno a Ginevra, dove fece approvare le “Ordinanze ecclesiatiche “, in cui veniva stabilito la netta subordinazione dello Stato alla Chiesa e il potere deliberante (anche quello civile) venne affidato ad un Concistoro, organo di governo composto da sei pastori ecclesiatici e da dodici anziani eletti dai consigli municipali. In tal modo Ginevra fu trasformata in una vera teocrazia, una città santa, una nuova Roma, opposta alla Roma nepotista e immorale contro cui tutti si avventavano e le divergenze dottrinali stroncate duramente: un caso emblematico fu quello di Michele Serveto, medico spagnolo, fuggito dalla Spagna dove fu considerato eretico, arrivato a Ginevra per poter professare liberamente la propria fede, fu condannato e messo al rogo, incrinando così il mito di libertà proprio del mondo riformato, contrapposto alla tirannia di Roma, nonostante ciò il calvinismo consolidò le proprie posizioni e Ginevra divenne un luogo di perfezione, dove era stato realizzato un nuovo modello di umanità.[7]

Le speranze in una profonda riforma della Chiesa di Roma, che si erano diffuse fin dall’XI secolo, erano state deluse, ma il bisogno di un mutamento era profondamente sentito, poiché la mondanizzazione di essa si era estesa assai anche attraverso l’istituzione dei vescovi-principi e dei vescovi-conti, dotati di ampi poteri politici, oppure con le ricche prebende, che permettevano a cadetti di illustri famiglie, ma senza spirito ecclesiastico, di ritrovare il fasto e la ricchezza che non potevano più avere nella propria famiglia. La mondanizzazione dei papi rinascimentali da Sisto IV a Leone X avevano fatto scadere l’idea spirituale : troppa politica, troppo lusso, troppo fiscalismo minavano il prestigio della Chiesa. D’altra parte il nazionalismo sempre più ascendente, che trovava la sua ragione d’essere nello scadimento del feudalesimo e nella forte ascesa del commercio e del capitalismo, portava a frantumare l’unità dei cristiani.[8]

La Riforma protestante incalzò il pontefice Paolo III a convocare un concilio, richiesto da tempo nel mondo cristiano, ma già prima dell’inizio del Concilio di Trento (1545-1563) le speranze di rappacificamento erano perdute, poiché i protestanti decisero di non parteciparvi. Sul piano dottrinale il Concilio operò una netta chiusura nei confronti del Protestantesimo: la Chiesa di Roma si propose come unica interprete delle Sacre Scritture: fu affermato il principio della salvezza per mezzo non solo della fede ma anche delle opere, condannando la tesi luterana della “sola fide”, venne ribadito il libero arbitrio dell’uomo, fu stabilito il numero dei sacramenti (sette) e la loro efficacia non solo simbolica, venne decretato l’obbligo di residenza per i preti e i vescovi, affidando a quest’ultimi la totale responsabilità sulla propria diocesi, con l’obbligo di visitarla, venne riformata la predicazione, fu proibito il cumulo dei benefici, vennero creati i seminari per la formazione del clero: sull’esempio di grandi vescovi come Carlo Borromeo a Milano e Francesco di Sales a Ginevra, fu rinnovato l’impegno pastorale delle guide della Chiesa. Vennero anche prese delle misure contro il nepotismo, la simonia, il concubinaggio: complessivamente la Chiesa di Roma uscì rafforzata dal Concilio ed ebbe nel catechismo uno strumento molto importante per la diffusione dell’ortodossia tridentina.

A tutto questo si accompagnò un’azione repressiva, che trovò il suo principale strumento nel potenziamento dell’Inquisizione Romana o Congregazione del Sant’Uffizio, tra le vittime più celebri si ricordano: Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei. L’intento di riforma del Cattolicesimo si espresse anche attraverso i nuovi ordini religiosi e in questo la Chiesa ebbe come principale strumento la Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola, su una struttura rigorosamente gerarchica, su una rigida obbedienza e sulla notevole preparazione culturale dei suoi membri, i quali riservarono grande attenzione all’istruzione, di cui presto detennero il monopolio. La divisione in seno alle Chiese cattolica, luterana e calvinista fu profonda e tale da sentire la necessità di sottolineare i loro elementi distintivi, nacque così il “confessionalismo”, ossia quella tendenza a subordinare le scelte e le decisioni politiche, morali e civili ad una determinata confessione religiosa, che trovò la sua realizzazione nel disciplinamento sociale, cioè nel controllo delle Chiese su tutte le manifestazioni della vita di relazione, con lo scopo di uniformare i comportamenti e concepire nei singoli un atteggiamento di obbedienza. L’intolleranza divenne comune a tutte le Chiese non solo nei confronti delle altre confessioni, ma contro chiunque fosse considerato un “diverso”; dilagò così il fenomeno della caccia alle streghe: decine di migliaia di persone furono mandate a morte in tutta Europa, accusate di stregoneria, con confessioni ottenute sotto tortura, la psicosi della stregoneria si diffuse al punto che finì per coinvolgere molti “diversi”, emarginati dalla società che trovavano nella stregoneria un modo di evasione da quella società che li aveva respinti. Oggetto di crudeli persecuzioni furono anche gli Ebrei, i quali vennero confinati in ghetti nei quali erano costretti a risiedere e a portare un segno di riconoscimento; in Spagna, già nel secolo precedente, la riconquista cattolica e l’Inquisizione avevano imposto agli ebrei sefarditi conversioni forzate, dando luogo al fenomeno dei marrani, molti dei quali mantennero le loro tradizioni ancestrali, professandosi pubblicamente cattolici, ma restando fedeli all’ebraismo in privato.

Nel 1565, infine, venne stilata la confessione “Professio fidei tridentina”, in contrapposizione a quella luterana di Augusta. Controllo e repressione delle eresie e rinnovamento della vita ecclesiale furono, dunque, le linee guida della Chiesa Cattolica dopo il Concilio di Trento.[9] Concludiamo questa breve e incompleta panoramica del secolo XVI con le parole di Attilio Agnoletto: << Si può dire che quella che si ama definire la “Riforma cattolica” trovi il suo approdo nel Concilio di Trento, che forse è nella storia della Chiesa Cattolica il più importante tra quelli ecumenici sia per le definizioni dogmatiche sia per i decreti di riforma interna. Occorre infatti arrivare al 1869 perché la Chiesa riconvochi un altro concilio. E anche il Concilio Vaticano II, che si è svolto a circa quattro secoli di distanza, non ha certo intaccato la sostanza di decisioni che appaiono irreformabili […]. Se si vuole comprendere il cattolicesimo del mondo moderno bisogna risalire alle decisioni del Concilio Tridentino, che chiusero la porta alla Riforma protestante, ma realizzarono e diedero l’avvio a una riforma cattolica […]. Esaminando, alla luce attuale, gli effetti delle decisioni tridentine, si deve riconoscere che il Tridentino è la chiave di volta di tutto il cattolicesimo fino ai nostri giorni. La sua importanza non consiste solo nel ripudio dogmatico delle istanze della Riforma, ma anche nell’eliminazione di infiniti abusi e nella costituzione di ordinamenti tuttora vigenti. Si potrebbe dire che il Concilio di Trento ha ridato vigore al cattolicesimo, facendone una rinnovata confessione religiosa che si colloca accanto alle altre rampollate dalla Riforma. Ne è nata una Chiesa poderosa, giuridicamente strutturata, dogmaticamente fissata >>.[10]

L’ultima fase del Concilio di Trento ebbe luogo tra il 1560 e il 1563, da cui cominciò la Riforma cattolica, nello stesso tempo in Italia cominciò a diminuire il protestantesimo per subire un vero e proprio crollo nel 1568 ad eccezione della Valtellina dove le dottrine eretiche proliferavano. “Riforma cattolica” intesa come movimento di riforma interno alla Chiesa di Roma, e “Controriforma”, cioè una reazione alla Riforma protestante che utilizzò l’azione missionaria per riportare al Cattolicesimo le aree geografiche passate alle nuove confessioni religiose e che fecero uso anche di strumenti repressivi come il Tribunale dell’Inquisizione.

Nello Stato di Milano la Chiesa cattolica stava attraversando un periodo di profonda crisi, a causa anche della mancanza di residenza dei Vescovi da oltre un secolo: in passato la città di Milano aveva avuto una lunga tradizione di eminenti prelati e profondo era stato il rapporto tra Chiesa e popolo, ma in questo periodo i rappresentanti dei Vescovi si limitavano a riscuotere i tributi, l’Ordine degli Umiliati era in piena decadenza[11] mentre lo Stato era sempre più forte, i Vescovi e gli alti dignitari ecclesiastici vivevano a Roma, lasciando la Chiesa milanese nelle mani di preti ignoranti che “cianciugliavano”la Messa in un latino stentato o sconosciuto, in città si diffondevano sempre di più i libri di Lutero portati anche dai mercanti: Milano era prossima alla Valtellina e a Ginevra e i collegamenti erano facilitati da questa vicinanza.[12]

Subito dopo la conclusione del Concilio di Trento, Carlo Borromeo (1538-1584) abbandonò la Curia romana e il potente ruolo di Cardinal Nepote di Pio IV per andare a svolgere le funzioni di Vescovo nell’Arcidiocesi di Milano.

Personaggio scomodo e molto discusso, Carlo fu uomo del suo tempo con le sue convinzioni e superstizioni, ricordato sia per la sua attività d’inquisitore sia per quella proficua in Milano, secondo per fama solo a Sant’Ambrogio, il futuro grande Vescovo di Milano era nato il 2 ottobre 1538 nel castello di Arona sul lago Maggiore, terzogenito del conte Gilberto e di Margherita de’Medici, sorella del Marchese di Marignano, Gian Giacomo de’ Medici e del Cardinale Giovan Angelo de’ Medici, la nobiltà e l’antichità della famiglia furono sempre care a Borromeo. La successione del padre, morto prematuramente lasciando i figli in difficili condizioni familiari, nella carica comitale spettava al fratello Federico, Carlo invece scelse la carriera ecclesiastica in quanto cadetto e la fulminante carriera e le dignità ecclesiastiche, dopo gli studi giuridici compiuti a Pavia, le dovette alla famiglia e soprattutto allo zio materno Giovan Angelo che fu eletto papa il 25 dicembre 1559 col nome di Pio IV, solo un mese dopo il Pontefice elevò al titolo cardinalizio il nipote ventiduenne, affidandogli la Segreteria di Stato, l’amministrazione perpetua dell’Arcidiocesi di Milano, la legazione di Bologna, l’Abbazia di Nonantola e la responsabilità degli affari pontifici con il titolo di Cardinal Nepote, ed altre altissime cariche con prebende numerose e ricchissime. A Fedrico assegnò il comando dell’esercito pontificio e poi il principato di Oria. [13] Già il 17 gennaio 1560, infatti, Monsignor Giulio Grandi, ambasciatore della Casa d’Este, così scrive in un suo carteggio: <<Si dice che nel concistoro di venerdì prossimo Sua Santità promuoverà al cardinalato l’abate Borromeo suo nipote, donandogli il suo cappello. Questo giovane è molto amato dal papa e veramente dimostra nelle sue azioni di essere assai meritevole>>.[14]

A Roma Carlo ed il fratello furono coinvolti nella sfarzosa e mondana vita della città,  pur segnalandosi, il primo, per la sua riservatezza e la perseveranza con cui svolgeva i suoi compiti, fondò un’Accademia, che prese il nome di “Notti Vaticane”, inizialmente a carattere umanistico e che divenne poi un luogo di vivaci dibattiti teologici, che servì molto a Carlo per esercitarsi contro la balbuzie e la timidezza che gli impedivano di diventare un ottimo oratore. Sempre a Roma, il Cardinal Nepote ebbe modo di sperimentare le sue spiccate doti diplomatiche, evitando una dannosa interruzione dei lavori durante l’ultima fase del Concilio di Trento, grazie al suo delicato lavoro di rendere agevoli e prudenti i rapporti tra il papa ed i legati, con lettere, istruzioni, ordinanze, redatte dal suo segretario personale Tolomeo Gallio, futuro cardinale di Como, nonostante prevalessero i consigli del Cardinale Hosius e soprattutto del Cardinale Morone, il quale svolse la parte decisiva nella conclusione del Concilio (1562-1565), dopo la morte dei Cardinali Gonzaga e Seripando.[15]

Unito ad un profondo senso del dovere c’era per il Cardinale una grande fedeltà verso i vincoli familiari, nel 1558, alla morte del padre, iniziò ad interessarsi agli affari familiari, che fino all’elezione di Pio IV non erano floridi, impiegando molte energie per sposare le tre sorelle a dei principi, per dotare la nipote e per dare una sistemazione al cugino Federico, rimasto orfano del padre a soli tre anni e futuro Arcivescovo di Milano:[16] la rete delle alleanze familiari costituiva un’unità di potere, una sorta di milizia continuamente mobilitata e l’ascesa della famiglia Borromeo coincise con le numerose cariche e i beni che si accumulavano e la sua fortuna divenne considerevole, le cui rendite erano soprattutto di origine fondiaria, Carlo era un grande proprietario, molto abile nella distribuzione di terre a ottimi fittavoli, a visitarle, controllarle e ad affidarle ad economi scrupolosi. Questa gestione dei beni fondiari restò il modello dell’amministrazione ecclesiastica. [17]

La morte improvvisa del fratello maggiore Federico, il 25 novembre 1562, sconvolse il Cardinale, che dopo poco subì anche la perdita del suo amico Giovanni de’ Medici:  <<La tradizione avrebbe voluto che in assenza di un altro esponente maschile della famiglia, Carlo rinunciasse alla porpora cardinalizia per subentrare al fratello nei suoi titoli nobiliari e forse anche per sposarne la giovanissima vedova. L’avere già pronunciato i voti, in qualità di suddiacono non era un ostacolo insormontabile, perché bastava una dispensa papale che Carlo avrebbe potuto ricevere con grande facilità. Sappiamo invece che l’impressione avuta da queste due sconvolgenti morti, lo indussero a legarsi di più alla scelta religiosa, fino a pensare ad un rutiro in un ordine monastico, da cui forse lo distolse il primate di Portogallo De Martyribus arcivescovo di Braga>>.[18]

Carlo aveva una concezione molto rigorosa della vita cristiana e dopo questi eventi tragici si parla di “conversione”, che lo indusse a farsi ordinare sacerdote il 17 luglio 1563 e vescovo il 7 dicembre dello stesso anno, cioè il giorno di Sant’Ambrogio, come scrisse a Corona, la sorella suora, e le parole di Domenico Maselli sono molto significative per capire lo spirito del Cardinale: <<Credo però che il termine conversione sia qui ben adoperato. Si passa infatti da una religiosità formale, personalizzata, ma concepita come uno tra i doveri della vita, ad una contemplazione di Cristo sofferente, che, impostasi ai suoi occhi mediante l’atroce sofferenza della morte del fratello, diventa l’elemento centrale della sua esistenza. La centralità della passione di Cristo è da questo momento una costante della spiritualità del Borromeo e costituisce, a mio parere, un elemento distintivo della Riforma Cattolica>>.[19] Possiamo comprendere anche alcune caratteristiche del Cardinale: nella vita ascetica e nelle privazioni verso se stesso, nella riduzione drastica del personale di servizio, nell’ordinazione a sacerdote e nella consacrazione episcopale possiamo vedere la trasformazione da Amministratore della Diocesi di Milano in Arcivescovo di questa città. Dopo la morte del fratello, Carlo cambiò atteggiamento e in una lettera del 30 aprile 1564 si dice che il Papa fosse molto contrariato dal nuovo tenore di vita severo, intrasigente di Borromeo, dando alcuni segni di disprezzo del mondo: <<…dicevasi trattare di teatine rie ed eccessi melanconici e fece comunicare ai gisuiti ed altri religiosi che li avrebbe puniti se mettessero più piede nelle case del Cardinale>>.[20]

Per tutta la vita del futuro Santo i “Canones reformationis generalis” di Trento ebbero la virtù di una rivelazione determinante, cioè quella del Vescovo-eroe della riforma tanto attesa dalla cristianità. Carlo si identificò con questa immagine e la rese effettuale ed è con questo spirito che cominciò il ventennio del suo governo episcopale a Milano, destinato a concludersi con la sua prematura morte nel 1584, in una lettera al Cardinale di Como del 4 dicembre 1563, ossia tre giorni prima della sua consacrazione, scrisse: <<…è tanto il desiderio mio che hormai s’attenda ad exequir poi che sarà confirmato questo santo concilio conforme al bisogno che ne ha la cristianità tutta e non più disputare…>>.[21]

Il 12 maggio 1564 Borromeo fu nominato Arcivescovo di Milano, ma inizialmente l’episcopato fu svolto per interposta persona, poiché gli impegni come Segretario di Stato del Papa non gli permisero di lasciare la città eterna, quindi nominò come suo vicario Niccolò Ormaneto,[22]Fu una scelta molto felice: egli provvide immediatamente a convocare un Sinodo Diocesano, milleduecento preti erano presenti il 29 agosto 1564, giorno dell’apertura, pronti ad ascoltare il programma che Carlo aveva mandato da Roma, in cui veniva enunciata l’applicazione dei decreti tridentini e una lunga serie di misure disciplinari come l’obbligo di residenza, la moralità, la riduzione del numero dei benefici, ottenendo, poco dopo, dal papa un breve che autorizzava il Cardinale ad ingiungere tasseai titolari dei benefici, iniziando anche una campagna per convincere coloro che detenevano più benefici ad accontentarsi solo di uno; gli studi ecclesiastici, di cui Carlo aveva già cominciato la creazione di un seminario, presso Porta Orientale,inaugurato il 10 dicembre 1564 per la formazione del clero diocesano, dove i seminaristi avrebbero frequentato i primi tre anni uguali per tutti, in cui prevalevano gli studi umanistici, dopo, i più validi avrebbero approfondito i loro studi presso il Collegio dei Gesuiti di Brera, gli altri avrebbero continuato la formazione in seminario;[23] le pratiche pastorali etc., le proteste dei partecipanti furono vane, insomma questo primo periodo di governo fu caratterizzato dall’esecuzione di tutto il programma tridentino, egregiamente condotto da Ormaneto, coadiuvato da monsignor Goldwell, fu proclamato anche un Concilio Provinciale tenutosi poi nel 1565. Sia il Sinodo Diocesano sia il Concilio Provinciale saranno i primi rispettivamente degli undici e sei convocati nei venti anni di governo della diocesi milanese.[24]

Dopo avere distribuito una parte dei suoi beni e ridotto il suo tenore di vita, Borromeo arrivò a Milano nel mese di settembre 1565, poco prima di essere privato della collaborazione di Ormaneto, il quale, l’anno successivo, fu nominato Vescovo di Padova e poi Nunzio in Spagna. Connesse a tali attività riformatrici furono le visite sistematiche della Diocesi, compiute dai suoi collaboratori ed è da notare che molte opere come la ristrutturazione delle carceri vescovili, l’assistenza alle prostitute pentite erano economicamente a carico di Borromeo, contraddicendo la fama di avaro che gli avevano imputato in quella Roma scandalizzata dalla vita senza sfarzi che conduceva. <<…si deve a lui il ridimensionamento della Corte papale, la diminuzione del lusso cardinalizio, in una parola la fine della fase mecenati zia della Corte pontificia. La condanna dei Carafa da parte di Pio IV con la fine dell’uso di concedere ai nipoti di papi principati su cui esercitare la propria signoria aveva iniziato la trasformazione; l’attività riformatrice e soprattutto l’esempio del cardinale nepote Carlo Borromeo, contribuirono a cambiare la società romana del periodo ed a porre le basi per la riforma che sarà operata sotto Pio V>>.[25]

Il 9 dicembre 1565 muore Pio IV, lo zio papa e con il nome di Pio V gli succede il Domenicano Michele Ghisleri, il quale non era stato certo amico del suo predecessore, ma molto grato a Carlo per l’azione svolta in suo favore durante il Conclave. Borromeo tornerà a Roma solo in rare occasioni: per i conclavi, per l’Anno Santo del 1575, per il conflitto con il Governatore di Milano (1579-82), per le visite pastorali, per i pellegrinaggi a Loreto e alla Sacra Sindone, che fu trasportata da Chambery a Torino nel 1578, il Presule si recò in questa città lo stesso anno ed altre tre volte nel 1581, nel 1582 e nel 1584 poco prima della sua morte.

Borromeo, nel discorso introduttivo pronunciato al primo Concilio Provinciale, delineò chiaramente il suo programma pastorale, vertente principalmente su cinque direzioni: riformare il clero secolare e regolare; creare i seminari per la formazione dei sacerdoti; restaurare la liturgia ambrosiana; coinvolgere il laicato nella vita della chiesa per mezzo di predicazioni e attività educative rituali, al fine di una riforma morale e sociale; la lotta contro le eresie.[26]

Il futuro Santo trovò l’ostilità del Senato alla pubblicazione in Milano della Bolla “In Coena Domini”,[27] emanata da Pio V sulla lotta alle eresie e contro i bestemmiatori, ostilità che venne ribadita in occasione della nuova bolla sull’inquisizione dalle autorità civili, contrarie alla messa in atto senza la loro autorizzazione. Il 20 novembre 1566 il Cardinale fece richiesta per avere degli “sbirri”autonomamente da quelli dei magistrati per eseguire esecuzioni contro il clero disubbidiente ed altri casi a lui spettanti, e, senza attendere la risposta del Senato, fece arrestare da un bargello il Prevosto di Sant’Ambrogio. Immediata la reazione del Senato, che ordinò ai bargelli e ai “birri”, pena la forca, di non attendere agli ordini dell’Arcivescovo senza espressa licenza del Capitano di giustizia, il Papa stesso intervenne in tale disputa asserendo di non essere d’accordo che il Borromeo avesse quanto richiesto, nonostante ciò il Senato deliberò delle misure particolari nel caso in cui il Vicario del Cardinale fosse andato alla processione del “Corpus Domini” con il drappello armato.[28]

Le emanazioni del prelato risultarono però inconciliabili con la legislazione laica. Le disposizioni dell’Arcivescovo, infatti furono giudicate un pericoloso attacco al primato del Re di Spagna, il quale considerava intoccabili i propri privilegi in ambito religioso, giuridico e beneficiario. Nel 1525 con il trattato di Madrid, il Ducato di Milano fu ceduto dalla Francia a Carlo V e dall’anno successivo dipese da Filippo II di Spagna, il quale designava il governatore dello Stato, tra le numerose questioni sorte tra l’Arcivescovo e il potere temporale ci fu anche quella dell’introduzione, nel 1563, dell’Inquisizione spagnola a Milano: da circa trent’anni si stavano infiltrando nella città tendenze luterane, calviniste, zwingliane etc., nel 1547 le autorità milanesi avevano bandito dalla città un cospicuo numero di ecclesiastici, che si erano rifugiati in Svizzera. Filippo II iniziò le trattative con il Papa per mettere in opera l’Inquisizione nella capitale lombarda, ma il Pontefice fece opposizione non tanto all’istituzione, ma alle sue procedure e all’invasione del potere civile in ambito religioso, questa era anche l’opinione di Borromeo, il quale come giurista ricusò i modi inquisitoriali spagnoli che accettavano accuse anonime e come uomo di Chiesa non accettò l’ingerenza dello Stato e condusse la caccia agli eretici avvalendosi di un piccolo corpo di polizia ecclesiastica o “Famiglia Armata”per eseguire le decisioni del Tribunale vescovile ed anche di un’associazione di circa quaranta nobili milanesi detti “crocesegnati”, nata per eliminare l’eresia. Così scriveva a Nicolò Ormaneto a Roma: <<Questi Signori Senatori, oltre li altri contrasti che ci fanno et disturbi che si sforzano di dare in molte maniere, cercano ancho di spogliarmi delli ministri più intimi, cio è delli Vicarij con varij officij sotto mano, et molestie dispiacendo a loro a punto il dissegno ch’io ho di tener in questo Tribunale persone che non sieno di questo Stato, perché non m’habbiano poi ad abbandonare per rispetto temporale, quando vengono così fatte turbolentie di queste contestationi coi Magistrati secolari come hanno fatto questi altri ministri inferiori>>.[29]

Contro le sette, i ribelli, i carnevali, le concussioni, Carlo preferiva la severità della predicazione o della legge ecclesiastica, era sua convinzione nella funzione pastorale del Vescovo fosse implicita anche la piena giurisdizione sul gregge, ma questa invasione in ambito giuridico sembrò pregiudicare i diritti del Senato, che ritenne inaccettabile affidare i colpevoli alla polizia dell’Arcivescovo anziché al braccio secolare, specialmente in questioni di dubbia competenza ecclesiastica. Borromeo colpì con la scomunica il Governatore dello Stato Requesens, il quale fece le sue proteste al Papa che lo sollevò privatamente dalla scomunica, il suo successore, il marchese di Ayamonte, a causa di divergenze nate dalle feste di Quaresima chiese al Papa l’allontanamento dallo Stato del Cardinale, ma Filippo II temeva per la sua immagine di difensore della Chiesa e Pio V aveva bisogno dell’aiuto della Spagna contro i Turchi, quindi si cercò da entrambe le parti di evitare lo scontro frontale che sembrava inevitabile.

Nel 1566 Niccolò Ormaneto fu chiamato a Roma dal Papa, nonostante la lontananza rimase costantemente in contatto epistolare con l’Arcivescovo milanese, tenendolo informato anche sui minimi particolari di ciò che avveniva nella Curia romana e riferendo, nelle sue lettere pressoché giornaliere, le intenzioni del Papa circa i problemi relativi ai rapporti del Borromeo con il Re, il Senato e il Governatore di Milano. Riportiamo due esempi che ci fanno capire il rapporto tra Carlo e Ormaneto e la difficile situazione creatasi tra il Prelato e il Governo spagnolo a Milano.

Carlo a Ormaneto, da Milano 23 luglio 1567: <<Qui alligata sarà copia d’una lettera scrittami dal Re credenziale nel Signor Governatore, il quale m’ha poi mandata la medesima lettera di Sua Maestà, nella quale mostra d’havere havuto informatione da Fiscali et dal Presidente ch’io m’usurpi della giurisdittione sua, onde mi esshorta a cessare da questo almeno fintanto che si veda l’appuntamento preso da Nostro Signore dopo havere udito quel tanto che si è mandato a dire dal Senator Chiesa. Da che si comprende che Sua Maestà sia per stare alla dichiarazione di Sua Beatitudine, la quale però è bene sollecitare che venga quanto prima>>.[30]

Ormaneto a Carlo, da Roma 16 agosto 1567: <<Non ho mancato di far quell’officio che la mi commette con Nostro Signore per la persona del Signor Governatore, qual ha scritto a Nostro Signore due lettere in risposta del breve et della lettera che Sua Santità scrisse a lui, stando pur su questo che Vostra Signoria Illustrissima è quella che innova tutta via cose nove contro la giuridittion Regia, facendo instantia che Sua Beatitudine le scriva che cessi da queste innovazioni dimandando l’assolutione per gli già scomunicati, cosa che Sua Santità non intende di far…>>.[31]

Nuovo motivo di crisi fu il Capitolo di Santa Maria della Scala, ente ecclesiastico di patronato regio, quindi esente dalla visita del Vescovo, che Carlo voleva riformare, e nonostante varie opposizioni, elesse dispoticamente il superiore, controllò le finanze, visitò le case e il 9 agosto 1569 si presentò alla porta della Chiesa e malgrado la presenza di armati da entrambe le parti, scomunicò tutto il Capitolo. Da una copia della lettera scritta il 29 agosto 1569 dal Cardinale al Papa, veniamo a conoscenza del fatto con le sue stesse parole: <<Il bando fatto dal Signor Governatore et Senato pertinente alla Giurisdittione Regia, se bene in apparenza ha il pretesto di detta Giurisdittione,  si vede però per le cause pregnanti che contiene il scoppo suo principale essere di spogliar questo Tribunale ecclesiastico et anche quello di N. S. in queste parti delli ministri suoi et dell’essecutione della sua giurisdittione, come già se n’è visto seguir l’effetto, che tutti li miei Notari civili et criminali, avvocati et servitori publici et ogn’altra persona impaurita da questo bando non ardisce di far rogiti, né pur anche scritture, né portar commandamenti, citationi, né altra cosa, ove si tratti in qual si voglia modo di laici, ancorché per delegatione Apostolica, come ne vedrete qualche cosa per l’informationi che si mandano […] Et nel medesimo tempo è venuto il Vicepresidente a spiegarmi in nome del Duca et del Senato con belle parole a soprasedere anchora due o tre mesi, perché se allora poi non mi mostreranno il consenso, mi lascieranno visitare et mi daranno il braccio, ma ben si può vedere che questa dilatione non è ricercata a buon fine, con tutto questo gli ho risposto che ben sanno essi in iure, che io non devo essere impedito da visitare come ordinario, finché attualmente esshibiscano il consenso espresso, il qual però son certo che non vi è, havendo io tanti atti anche vicini al tempo che fu concesso il privileggio, che arguiscono il contrario et quando l’esshibissero poi in quel caso si trattarebbe della facultà che ho per il concilio di Trento et che gli atti et termini insolenti et indegni usati di quei canonici non meritano dilationi, né ch’io sopporti più oltre l’inhobedientia et temerità loro, havendola per troppo sopportata con  molta indignità del grado, et luoco ch’io tengo. […] questa mattina è venuto da me uno de’ Fiscali regij a dimandare quattro mesi di termine […] Onde io gli ho dato risposta, che poiché non facevano altra risoluzione io havrei continuata la mia possessione facendo la visita, et così mi son risoluto di non lasciar passar hoggi a farla, et essendovi andato questa mattina, oltre l’insolentia et inettione violenta di mano fatta prima al Moneta Sacerdote, ch’io poco prima mandai a notificarli la visita, con dirli molte parole ingiuriose, quali vedere(te) per la sua relatione et testimonij, al mio arrivo anchora vedendo io che li miei, che entravano per la porta del Cimiterio erano da varie persone et con le mani, et con altri modi ributtati, mi risolsi di smontare sulla strada, et presa la Croce in mano entrai un poco dentro dalla detta porta, ancorché con gran difficoltà per le dette persone, et entrato che fui mi furono sfondrate addosso di molte spade, nel mezzo delle quali era l’Economo, et tutti insieme mi vennero incontro con armi et con gride et altri tumulti scandalosi gridando Spagna Spagna, onde mi spinsero fuori di detta porta del Cimiterio, urtandomi con una delle ante di essa porta, dove feci poi la publicatione dell’interditto et scomunica ridetta, come vedrete per la copia autentica che si manda, et Monsignor Castello che restò dentro doppo me attaccò anche la cedula alla porta, se bene fu subito stracciata. Rinovai poi subito l’atto della scommunica in Duomo più esplicitamente leggendo de verbo ad verbum la scrittura che non havevo potuto leggere là per il tumulto>>.[32]

Il 26 ottobre dello stesso anno, Gerolamo Donato, detto il Farina, frate dell’Ordine degli Umiliati, riuscì ad introdursi armato nella cappella dove il Prelato stava pregando e a sparare la celeberrima archibugiata contro il futuro santo, il quale uscì illeso dall’attentato. L’episodio è molto conosciuto: la notizia di tale fatto fece enorme scalpore, sia per la gravità del gesto sia perché lo scampato pericolo fu creduto un vero miracolo, che insieme all’imperturbabilità di Carlo, il quale ordinò di proseguire la celebrazione della liturgia senza interruzioni, incrementò la sua fama di santità e permise al Farina di fuggire. Pio V, Filippo II e il Governatore di Milano pretesero che si facesse luce sull’attentato: il papa dette disposizioni perché l’Ordine fosse abolito e tutti i beni appartenenti agli Umiliati fossero confiscati e utilizzati a favore della Diocesi di Milano, il Re di Spagna costrinse il Capitolo di Santa Maria alla Scala a sottomettersi pubblicamente all’Arcivescovo e convinse il Governatore ad esprimere al presule la loro stima e devozione. Il Farina e i due Prevosti complici, Girolamo di Cristoforo e Lorenzo da Caravaggio, rei confessi sotto tortura, furono condannati a morte.[33]

Passato lo scompiglio suscitato dall’attentato, le controversie tra il Cardinale e il Senato continuarono in modo grave, come le definì Tommaso Zerbinati, Ambasciatore della Casa estense: <<…specialmente a causa della molta autorità che l’arcivescovo si prende sui laici>>, infatti nel 1571, lo stesso Zerbinati in una sua relazione comunica che: <<Un bargello del cardinale abbattè la porta di un gentiluomo de’ Crivelli ritenuto concubinario, il quale difendendosi cadde ucciso>>, l’immediata reazione del Podestà fu quella di procedere contro le guardie del Borromeo.[34]

Ad accrescere la popolarità e la fama di santità contribuì molto anche la carità e la dedizione straordinaria che Carlo dimostrò verso il suo popolo durante la peste del 1576, così lo descrive Giovanni Pietro Giussani riferendosi a tale periodo: <<Ritiratosi poi in se stesso, e considerando come questo era un flagello mandato da Dio per castigo de’ peccatori, pensò saviamente, che il rimedio principale fosse di placare l’ira divina; per il cui fine si diede, con maggior frequenza del solito, alla santa Orazione, pregando in stantemente Sua D. M. che si degnasse aver misericordia del suo popolo, e donasse a lui, & a gli altri, lume di conoscere la sua santissima volontà, e quanto far dovevano in aiuto della povera, & afflitta Cittàe, e grazia afficace per essequirlo; accompagnando le sue orazioni col digiuno cotidiano […] Ordinò di poi tre processioni generali di tutto il Clero, e Popolo, le quali furono celebrate con gran concorso di tutti gli ordini; e nelle Chiese, dove si andava con la processione, egli predicava al Popolo, esortando tutti alla penitenza>>.[35] Borromeo diventa una figura leggendaria, gigantesca, che non viene colto dall’archibugiata del Farina, non viene contagiato dalla peste, nonostante l’assistenza ai malati, che dorme e mangia appena, che attraversa luoghi inaccessibili in ogni stagione per visitare le parrocchie della sua Diocesi. Per il Cardinale di Santa Prassede il Vescovo era il massimo responsabile della condotta morale del popolo, che voleva conformare a criteri molto rigidi, conducendo anche un’impavida guerra contro il teatro e gli spettacoli che considerava abitudini pagane, soppresse balli e superstizioni, sostituendoli con azioni: in pubblico professò la sua devozione verso i santi, egli stesso guidò le processioni delle reliquie, si recò più volte come pellegrino a Torino per visitare la S. Sindone ed in molti santuari intitolati alla Vergine, dando esempio di una religione non astratta e spoglia.

Carlo fu inflessibile anche contro l’eresia e ogni forma di superstizione, mandando al rogo numerosi eretici e presunte streghe. <<Le pestifere eresie come loglio e zizzania hanno occupato i campi della Religione Cristiana, e quasi soffocano il frumento. Non s’adora più Dio, anzi con mille obbrobj è bestemmiato ogni giorno: i Luterani, i Calvini e mille altri simili mostri orribili, sono l’Idoli delle misere genti. E che luogo può aver la speranza se non si crede il Paradiso, e se si nega la providenza di Dio? Dove è la carità, dove l’amore e ‘l timor santo? Non s’osservano più i Comandamenti di Dio, non si crede ch’egli abbia a giudicare i vivi e i morti; son reputate favole le pene dell’Inferno. O secolo miserabile! E’ perduta ogni giustizia verso Dio, né si osserva più verso il prossimo>>.[36] Dalle parole, riprese da un discorso dell’Arcivescovo, possiamo capire chiaramente un’accusa di quasi ateismo e di sconvolgimento totale dei fondamenti della religione cristiana nei confronti dei riformatori definiti “mostri orribili”.

La posizione geografica del Ducato di Milano, che si estendeva dai passi alpini fino alla costa ligure, lo rendeva pericolosamente esposto al diffondersi del Protestantesimo, specialmente quei territori transalpini che si inoltravano nei luoghi dove la riforma dominava, inoltre era basilare (indispensabile) per il progetto di restaurazione cattolica in Europa di Filippo II, dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559), che sancì l’uscita della Francia dalla scena politica italiana a favore della Spagna, il cui potere regnava incontrastato.

Durante le cosiddette guerre di predominio, lo Stato di Milano aveva perso la valli del Ticino e la Valtellina, a favore rispettivamente dei Bernesi e dei Grigioni, queste perdite mettevano a repentaglio il territorio milanese a possibili aggressioni dal Nord. Ad Est il Ducato confinava con la Repubblica di Venezia, che aveva una certa fama di tolleranza religiosa e politicamente in opposizione alla supremazia spagnola in Italia. Vari furono i focolai riformistici che si diffusero in Lombardia già dal tempo di Carlo V, il più cospicuo dei quali fu quello della “Ecclesia Cremonensis”, da dove tanti fuggiaschi raggiunsero la città di Ginevra.[37]

La Visita Apostolica che Carlo Borromeo effettuò nella Valle Mesolcina tra il 9 e il 29 novembre 1583 fu l’inizio di un grande progetto per il recupero dei Grigioni e di altre terre svizzere conquistate dalle dottrine della Riforma protestante.

Un documento reperito presso la Biblioteca Ambrosiana ci informa ampiamente sulla situazione temporale e spirituale della Valle Mesolcina prima della Visita Apostolica effettuata dal Cardinale Borromeo, si tratta di una: <<Instruttione generale del Stato de Grisoni >>.[38] La prima parte comprende <<alcune cose temporali per maggior cognizione dello stato spirituale>>. All’inizio del documento troviamo una descrizione della divisione politica del Dominio dei Grisoni, diviso in tre parti chiamate Leghe, la Lega “Grisa”, quella chiamata ”Cadede” e quella detta delle “Dritture”, ma tutte insieme sono denominate “Grisoni”, dal nome della prima Lega, che accettò, nonostante fosse libera, come federate le altre due, che, a differenza della prima non godevano della libertà, <<…perché la Cadede fu già per la maggior parte Iurisditione anco temporale del Vescovato di Coira Citta e capo di detta Lega, la qual ha continuato sempre a giurare la fedeltà a tutti li Vescovi e ricever da essi come Prencipi d’Imperio, la facoltà d’essercitar la giurisdittione da che forse questa lega ha preso il nome di Cadede, come casa e dominio di Dio, sendo sottoposta nell’una e l’altra giurisdittione alla Chiesa>>.[39] La Lega Caddea venne costituita il 29 gennaio 1367 e comprendeva Coira, la regione di Domigliasca, Obervaz, Bergun, la Valle delle Sursette, l’Alta Engadina, Val Brgaglia, Val Monastero e la giurisdizione di Sottoclava in Val Venosta. Poschiavo, sottoposto a Milano, entrò a far parte della Lega nel 1408. Il sigillo era uno stambecco, il quale originariamente era lo stemma vescovile, che compare nella Cattedrale di Coira fin dal 1252, ma viene ripreso dalla Lega Caddea alla sua fondazione.[40]

La Lega delle “Dritture” (Lega delle Dieci Giurisdizioni), fondata l’8 giugno 1436 a Davos,  fu prima sotto la giurisdizione dei baroni di “Vazz”, poi dei conti di “Tocamburg” (von Toggenburg), <<…indi dei Conti d’Amasia, quali finalmente la cambiorno con gli Arciduchi d’Austria, per alcune terre del Dominio loro nella Val di Venusta…>>,[41]la quale famiglia non viene menzionata nella storia della Lega delle Dieci Giurisdizioni, anzi la Lega si forma dopo la morte dell’ultimo conte di Toggemburg avvenuta il 30 aprile 1436.

La più importante delle Leghe è quella Grisa, oltre ad avere dato il nome a tutte tre le Leghe, ha tenuto sempre il ruolo principale nelle “Sessioni” e nei “Consegli” generali, chiamati Diete. Ha come insegna una croce metà bianca e metà grigia. Per importanza la seconda è quella di “Cadede”, infatti alle Diete siede dopo quella Grisa; quella <<…delle Dritture tiene l’ultimo luogo, come quella che ha più picciola giurisdizione e de luoghi alpestri e selvatichi, dove dicono vivere huomini che non hanno mai usato pane per cibo loro, vivendo solamente de frutti della terra et latte, e perciò questa lega porta per insegna un huomo selvatico>>.[42] Le Tre Leghe, continua il documento, hanno le proprie giurisdizioni: la Lega Grisa ne ha tredici, la Caddea undici, quella delle Dieci Giurisdizioni sette, quindi le trentuno giurisdizioni, in circostanze particolari, sarebbero in grado di dare venticinquemila uomini dai diciotto ai sessant’anni validi per fare la guerra, oltre agli ottomila uomini della Valtellina e Val Chiavenna, loro sudditi.

Segue una descrizione geografica del territorio: tutto il “dominio” è di circa centocinquanta miglia italiane, confinanti ad Est con il <<…paese dell’Arciduca d’Austria et il Bergamasco della Signoria di Venetia…>>,[43] a Sud con <<…il Comasco del Stato di Milano e parte de Signori Svizzeri, per le terre ch’hora tengono, ch’erano prima de Duchi di Milano…>>,[44] ad Ovest e a Nord con la Svizzera e parte della Svevia sottoposta all’Arciduca d’Austria, <<…la maggior parte è di la da monti, perche di qua in Italia vi restano solamente la Val Mesolcina e di S. Giacomo della Lega Grisa, Poschiavo in bregaglia della lega di Cadede et le Valli suddite di Chiavenna e Tellina. Sono tre passi ordinarij d’andare oltre i monti nel sudetto dominio de Grisoni, l’uno a Poaschiavo che passa i monti dell’Agnedina della lega di Cadede, l’altro della Val di S. Giacomo, per splucha della lega Grisa, qualè ordinario e frequentato, il 3° di Misocho della Val Mesolcina che passa la montagna di S.to Bernardino e questi ultimi fanno ambidue capo a Splucha di dove seguitando il Rheno sino a Coira si passa per valli e rupi tanto precipitose, che diece homini soli difenderebbero il passo, in maniera che non basterebbe a forza humana di transitare contra la voglia loro >>.[45] Questi territori, per la maggior parte montuosi, sono principalmente pascoli o coltivati a fieno, che viene prodotto in grande quantità, permettendo lo sviluppo dell’allevamento soprattutto bovino, viene descritta mediocre la produzione del grano, a causa del terreno e delle temperature, molto limitati i terreni coltivati a viti, ma il vino viene importato dalla Valtellina ed è di buona qualità.

Gli uomini, continua la descrizione, sono robusti e atti ai lavori faticosi, sono premurosi tra loro ed anche con i forestieri, ma molto sospettosi. Pochi sono i discendenti di nobili famiglie e quei pochi non hanno molta autorità, <<…perché sendo il governo de Grisoni popolare, bisogna che tengano conto d’ogn’uno et per esser quei che sono eletti dal popolo al governo, per la maggior parte poveri e bisognosi fanno le deliberazioni loro con molta passione per l’interesse ch’ogn’uno ne pretende per una via o per l’altra, si che col denaro par che s’ottenerebbero tutte le cose per difficili et importanti che fussero>>.[46]

Le Tre Leghe hanno come entrate economiche i proventi criminali della Valtellina e Chiavenna e quelle del dazio che si riscuote in questi luoghi, però sono obbligati a pagare al Vescovo di Coira mille lire l’anno, come stabilito da una convenzione: sembra che queste Valli con Poschiavo furono donate, nell’anno 1404, da Modestino, figlio di Barnaba Visconte di Milano al Vescovado di Coira, ma nel 1514 furono occupate dai Francesi e le Tre Leghe con il Vescovo pro tempore le recuperarono a spese comuni, <<…si che convennero che le leghe n’havessero le due parti delle tre e l’altra il Vescovo, però al tempo del Vescovo Ziglero, quando cominci orno a germogliare l’heresie in detti paesi, le leghe si usurporno tutto il Dominio di dette Valli. Si che il Vescovo fù forzato contentarsi del sudetto reddito di lire mille l’anno solamente>>.[47] Le Tre Leghe, inoltre, ricevevano ogni anno dall’Arciduca Ferdinado d’Austria seicento fiorini d’oro, in seguito ad un accordo con l’Arciduca Massimiliano per la “guerra” tra loro a causa della giurisdizione della Lega delle Dieci Giurisdizioni. Da oltre settanta anni, altri quindicimila scudi li ricevevano dal Re di Francia per distribuirli a persone che avevano incarichi di governo, quindi alcuni ricevevano di più, altri di meno secondo l’importanza dell’ufficio che svolgevano e questo era causa di malcontento, tanto che era necessaria la presenza di un ambasciatore francese, il quale cercava di accontentare tutti affinché nessuno si lasciasse corrompere da offerte di denaro superiori a quelle percepite. Sono popolazioni molto povere poiché non vi sono commerci e “mercimonij”.

Il documento ci informa che il paese non ha fortezze, né guardie e soldati in nessun luogo, perché protetti dalle Confederazioni svizzere confinanti e dalla difficoltà dei passi montani, dalla parte dell’Italia, che rendono sicuri questi territori come se fossero delle fortezze.

Le Tre Leghe non battono moneta, questa facoltà è data solo al Vescovo di Coira, il quale, dal 1160 circa, si fregia anche del titolo di Principe dell’Impero, conferito da Federico Barbarossa,  nel 1366 Carlo IV concede al Vescovo di batter moneta, facoltà poco sfruttata a causa della povertà sia del Vescovado sia della popolazione: <<…da molti anni in qua da che cominciorno l’heresie…>>.[48]

Il manoscritto prosegue dando un’ampia spiegazione del governo dei Grigioni e del suo funzionamento: essendo un governo popolare, tutti gli abitanti, compiuti i sedici anni, partecipano ed eleggono i loro giudici sia per cause civili sia per quelle penali, i quali stanno in carica per due anni, eleggono anche le sessantatrè persone, che li rappresenteranno alle tre Diete annuali, che si tengono <<…nella festa della conversione di San Paolo, et all’hora s’attende principalmente all’elettione de gli offici alide luoghi et paesi sudditi s tutte tre le leghe, l’altra alla festa del S.mo Corpo di N.ro Sig.re e la 3° a S. Martino>>.[49] Nelle Diete vengono trattati problemi governativi ed altri concernenti i servizi delle Tre Leghe, ma quando occorrono decisioni circa le leggi, nuovi ordini e confederazioni con governanti, allora viene tutto rimesso alle deliberazioni popolari.

Per il governo della Valtellina e la Val Chiavenna, suddite di tutte tre le Leghe, viene eletto un governatore generale che si occupa della sicurezza pubblica di quei luoghi, con la facoltà di conoscere tutte le cause civili e penali<<… che occorrono in Sondria, terra principale di Valtellina, dove detto Governatore fa resistenza>>.[50] Il governatore, inoltre, conosce altre cause di altri luoghi, unitamente ai cinque Pretori, chiamati Podestà. Viene altresì eletto un Vicario generale, con residenza a Sondrio, con il compito di dare consiglio ai Pretori nei procedimenti penali, i quali avevano facoltà di diminuire o condonare la pena indicata, anche per quanto riguarda la pena capitale, eccetto i procedimenti ad istanza della parte offesa. In tali casi i Pretori non possono diminuire la pena né discostarsi dalla forma del consiglio, hanno, inoltre, il potere di vendere o donare i beni dei condannati, con cospicui ricavi. Viene eletto anche un Commissario di Chiavenna con pari autorità dei Pretori, oltre alla facoltà di procedere nelle cause penali senza il consiglio del Vicario.

Le cause civili e penali si definiscono senza bisogno di lunghi processi, in conformità degli ordini e statuti particolari di ciascuna giurisdizione e generali delle Tre Leghe e in conformità <<…ad alcuni loro riti, et usanze, quali osservano inviolabilmente, ne si tiene conto delle leggi Imperiali; per ciò non vi è in tutto il paese Giure Consulto alcuno che faccia l’officio di Giudice o Avocato, eccetto in Valtellina, dove se ne trovano pure alcuni che essercitano l’officio dell’Avocato e Procuratore>>.[51]

Le sentenze rese nei procedimenti penali non venivano appellate, ma subito eseguite, in caso di reati gravi erano definite col voto e il parere, per alzata di mano, di tutto il popolo di ciascuna particolare Giurisdizione, ma se il valore della causa civile superava una certa somma era ammesso l’appello nella Dieta susseguente, in cui si eleggevano giudici particolari per la trattazione dei procedimenti d’appello.

Quando sorgono liti tra due Giurisdizioni particolari della stessa Lega, i messi inviati alla Dieta, eslusi quelli delle Giurisdizioni interessate, eleggono dei Giudici per definire la causa e nel caso di contenzioso tra due Leghe, la terza assume il ruolo di Giudice. Se un soggetto non sottoposto alla loro Giurisdizione avanzasse pretese contro le Tre Leghe vengono eletti Arbitri da entrambe le parti, <<…da quali nel luogo de Valstat Iurisditione de Svizzeri insieme con alcuni deputati da essi Svizzeri si conosce e determina la causa, però nelle differenze tra l’Arciduchi d’Austria et esse tre leghe soleva per il passato esser Giudice il Vescovo di Costanza, all’hora città libera, ma hora che è sottoposta ad essi Arciduchi li Grisoni lo recusano>>.[52] Ciò che è stato detto nel manoscritto, sullo stato temporale, governo e dominio territoriale del paese dei Grigioni, è stato scritto per rendere meglio l’idea dello stato spirituale, che sarà l’argomento della seconda parte.

Tutto il territorio dei Grisoni, continua il documento, si trova sotto la Diocesi di Coira, ad eccezione della Valtellina e della Val Chiavenna, appartenenti alla Diocesi di Como, il Vescovo di Coira è anche il capo, come detto prima, della Lega Caddea, e risiede in un Vescovado molto antico, infatti il primo Vescovo Asimo o Asinio, viene menzionato nel Concilio di Calcedonia, convocato dall’Imperatore Marciano nel 451d’accordo con Papa Leone I, per dirimere la questione monofisita, <<…se ben circa 300 anni prima si trova ch’el paese ricevette la legge di Christo quale gli fu predicata da S.to Lucio martorizzati ivi con S.ta Emerita sua sorella, i corpi de quali sono anco sino al dì d’hoggi conservati nella Cathedrale di Coira>>.[53] La tradizione, infatti, attribuisce la cristianizzazione e la fondazione della Diocesi a San Lucio, patrono della Chiesa curiense, sotto la quale si trovano, al tempo in cui viene scritto il documento, 123 pievi. Una lunga descrizione di ogni pieve e di tutte le istituzioni ecclesiastiche ci informa anche della presenza più o meno numerosa degli eretici che vi si trovavano, sostenendo che in ogni pieve è presente almeno un predicatore, se non due mandati, per la maggior parte, da Zurigo e tutti seguaci di Zwingli, i quali si servono delle Chiese solamente per diffondere la loro dottrina. Non officiano il rito funebre, ma seppelliscono i defunti solo con due o tre suoni di campana, fanno suonare l’Ave Maria, ma non la recitano e in alcune pievi, dove è maggiore la presenza di eretici, la fanno suonare di sera.[54]

La terza parte del manoscritto è <<…pertenente alle cause della ruina spirituale di questi paesi>>.[55]

Nei luoghi dei Grisoni, l’eresia penetrò nel 1525 circa, ad opera di Zwingli e dei suoi proseliti, i quali <<…sparsero ivi questo veleno in persona. Non hebbero questi molta difficoltà a sedurre buona parte del paese in poco tempo, perché il popolo tutto, et massime i capi, all’horaerano mal sodisfatti di Paolo Ziglero, Vescovoo di Coira, quale presero in sospetto, che come familiare e dipendente dall’Arciduca Massimiliano d’Austria, che all’hora guerreggiava con essi Grisoni, per la Giurisdittione delle Dritture, non tenesse la parte dell’Arciduca contro di loro. Sì che fu accettata facilmente la predicata libertà licentiosa, e sottratt.e dall’obedienza di Santa Chiesa, per la quale niuno vi era che facesse, o che ne prendesse la protettione. Non il Vescovo per che dubitando di qualche particolare affronto si ritirò a stare nel Castello di Crostemborgo, sotto il dominio supremo dell’Arciduca sudetto, dove stette continuamente fino alla morte, lasciando le sue pecorelle in preda a lupi: non i Rettori delle Chiese particolari, per che vedendo fuggir il capo, ciascun attese a salvar se medesimo, et alcuno anco d’essi per haver libertà di carne si fece heretico: non i superiori temporali, per che essendo il governo in mano del popolo imprudente e desideroso di libertà, s’appigliò facilmente alla heresia, la quale fu prima introdotta nella Città di Coira, poi s’è andata allargando per tutto il paese, non solo di là, ma anco di qua da Monti, anco nelli sudditi come di sopra s’è discorso>>.[56]

Al Vescovo Paul Ziegler von Ziegelberg successe Licius Iter, con l’approvazione del popolo, che proprio in quei tempi aveva cominciato ad ingerirsi nell’elezione dei Vescovi: Iter non si preoccupò della situazione che si stava determinando, <<…dissimulò di veder le ingiurie e torti che tuttavia da laici si facevano a Santa Chiesa, con l’appropriarsi i beni ecclesiastici, cacciare claustrali et usurpare la giurisdittione del foro ecclestiastico>>.[57] Il successore, secondo il documento, fu Beatus di Porta, ma nella cronotassi dei vescovi di Coira risulta che dopo Iter fu eletto vescovo Thomas Planta (19 marzo 1550-4 maggio 1565), il quale prese parte al Concilio di Trento negli anni 1551-1552, fu un abile amministratore, ma si rifiutò di introdurre riforme ecclesiastiche; fu nel 1565 che venne eletto Beatus di Porta, nato in Tirolo presso Merano, il quale trasferì la sede dell’Episcopato a Castel del Principe e non volle far ritorno a Coira, nel 1580 si dimise e tornò nella parrocchia che gli era stata affidata nel 1576. Il 6 novembre 1581 fu eletto Vescovo Peter von Rascher <<…huomo d’anni 35, il quale prima era alla cura d’una Chiesa parrocchiale di quel paese, poi essendo Canonico della Cathedrale di Coira, fu fatto Vescovo, come quello che di due o tre ne’ quali il popolo consentiva, fu giudicato il più tollerabile all’hora>>.[58] Von Rascher, originario di Zuoz, “Terra eretica”, appartenente alla Lega Caddea, che in passato era suddita dei Vescovi di Coira, mentre attualmente, continua il documento, vuole essere superiore al Vescovato e non tollera che venga eletta una persona che non approva, anzi al Vescovo pro tempore hanno fatto promettere alcune cose considerate contrarie e dannose alla dignità, alla libertà e all’autorità ecclesiastica: non deve rinunziare alla sua carica senza il consenso della Lega; non deve esaminare, indagare su questioni pertinenti alla religione, ma lasciare che ognuno <<viva a suo modo, conforme a gli ordini del paese>>;[59] che non si intrometta nel recupero dei beni ecclesiastici in mano ai laici; obbligo di rendere conto, se richiesto, alla Lega Caddea delle entrate dell’Vescovado. <<Questo ha ben fatto residenza in Coira, cioè nel Vescovato, ma non si può negare che fin qui ha poco atteso a visitar la sua diocesi et fare altri offitij pastorali con le sue anime>>.[60]  Di tutto ciò era già stato informato il Pontefice.

Vengono elencate quattro cause principali come responsabili delle eresie dilagate in questi territori, la prima è che molti dei Signori Grisoni sono corrotti e contrari alla religione cattolica, per cui anche i loro sudditi sono molto esposti <<ad ogni pericolo d’infettione>>, soprattutto in quei luoghi in cui hanno trovato rifugio gli eretici fuggiti dall’Italia, <<…li quali sono molto più arrabbiati contra la fede catolica, e per altro più atti istromenti del Demonio a corrompere gli altri, che non sono i naturali Grisoni et paesani pur corrotti. Onde è quasi meraviglia che queste Valli non sieno molto più corrotte di quello che sono poi che non arriva il numero de gli Eretici in esse, alla decima parte de catolici, o, in circa, con tutto che vi s’aggiunge anco l’abbandono, per dir così, del suo Vescovo, il quale vedendosi maltrattato da Signori Grisoni con l’usurpatione d’alcune raggioni temporali del Vescovato, et anco impedita molta parte dell’auttorità e giurisdittione ecclesiastica…>>.[61] Nel corso di tanti anni queste popolazioni sono state abbandonate dai loro Vescovi, i quali non si sono mai occupati delle loro anime, nonostante che in passato, cioè prima della Riforma, non avessero mai incontrato impedimenti, quindi la causa principale del dilagare delle eresie è l’incuria dei Vescovi verso i loro fedeli.

La seconda motivazione consiste nella mancanza di sacerdoti: le chiese sono vacanti, ma il popolo ha bisogno dei ministri spirituali e tale situazione ha fatto sì che siano stati accettati <<…ciascuno che loro si presenti in habito da prete ancorch’egli non habbia dimissionaria né facultà alcuna dal suo ordinario, anzi ancorch’egli sia sospeso et privato da esso ordinario di poter celebrareo amministrare sacramenti, pur l’accettano eziandio senza consenso ne auttorità dell’Ordinario di essi popoli e paesi Grisoni, overo suoi suditi, si come anco tolerano, et danno ricapito ad apostati, sfratati et fuggitivi, et a sacerdoti che continevano in publico concubinato con donne e figlioli in casa, celebrando cotidianamente, e talvolta hanno anco accettato puri laici, li quali essercitavano tutti gli officij sacerdotali in apparenza…>>.[62] Prima di stare senza ministri spirituali accettano anche gli eretici, questo avviene anche tra i riformati, infatti quando non hanno ministri, accettano anche quelli cattolici, come avviene in Mesocco, i cui abitanti sono per la maggior parte eretici, ma hanno accolto un predicatore Gesuita e sono molto numerosi coloro che vanno ad ascoltarlo, <<…tanto che bisogna che predicando egli dentro la Chiesa, presso la porta, il popolo l’ascolti di fuori per che non cape in Chiesa, et uno di questi giorni vi stavano con patienza, anco mentre nevicava loro addosso. Però essi eretici sono diligentissimi in mandar predicanti in tutti i luoghi, dove n’è bisogno et il Cantone di Zurich in particolare manda in abbondanza predicanti a tutto questo paese de Grisoni, dove si parla tedesco, et per questa via entrano ne luoghi cattolici, come s’è detto e di già hanno guadagnato da cinque o sei anni in qua molte pievi della lega di Cadede>>.[63]

La terza causa consiste nel comportamento deplorevole dei sacerdoti, che con la loro vita dissoluta danno il cattivo esempio al popolo, il quale non rispetta più l’autorità ed ha perso la deferenza dovuta verso il clero, anzi, contagiati da questi modelli <<…hanno abbandonato la vera religione per poter più liberamente caminar per la larga strada>>.[64]

La quarta causa viene definita la più importante di tutte le altre, poiché nonostante che la legge e l’accordo tra le Tre Leghe permetta al popolo di scegliere tra la religione cattolica e quella riformata, nessuno deve permettersi di denigrare le rispettive fedi, specialmente durante le prediche. Un decreto risalente al 1581 esclude tutti i preti e i frati forestieri indistintamente, ad eccezione di quelli di nazionalità svizzera e di coloro che essendo stranieri, fanno giuramento di fedeltà e di residenza ai loro Signori. Non meno grave il fatto che gli eretici parlino dai pulpiti male della Chiesa cattolica e del clero <<…et fanno molte altre insolenze et irrisioni contra la religione catolica senza alcuna punitione>>.[65]  Molto grave ed incisivo è anche dare asilo a tutti i fuggiaschi ed apostati italiani e di altre nazioni, anche perché nella maggior parte dei casi sono sostenuti a spese delle Chiese locali, nonostante la popolazione sia cattolica. Quando un prete cattolico, prosegue il manoscritto, predicando al popolo, sottolinea argomenti pertinenti alla religione, ma che possono evidenziare gli errori delle eresie, viene <<…accusato e punito dai giudici secolari con ogni pretesto, et per questa vi hanno messo tanto timore et rispetti humani nel Vescovo et Canonici della Cathedrale di Coira, che se bene vi si celebra la messa non ardiscono però di predicarvi>>.[66]

La quarta parte del documento contiene i rimedi ad una situazione tanto grave, poiché l’enorme dilagare dell’eresia in questi paesi è un grande pericolo anche per l’Italia <<di qua da monti>> e soprattutto per la vicina città di Milano, dove gli eretici possono trovare rifugio, quindi urge trovare delle soluzioni per evitare un’ulteriore espansione delle eresie: la perdita di migliaia di anime di quei Paesi suscita compassione e afflizione, che deve spronare la carità del Pontefice ad aiutarli come essi desiderano e chiedono. Durante le Diete, i Cattolici si sono lamentati dei torti e delle violenze fatte loro e soprattutto di non poter vivere cattolicamente, ma anche nell’ultima Dieta, tenutasi a Tavau o Tavate, non hanno ottenuto nulla, anzi le ragioni esposte hanno dato luogo ad un tumulto che per poco non sono dovuti ricorrere alle armi, tutto ciò è dovuto al fatto che i Cattolici sono inferiori per numero e per voti, conseguentemente non hanno il coraggio di <<…mostrarsi liberamente quando bisognava per timor di non esser esclusi da gli offitij publici, alli quali, prevalendo sempre di voto gli heretici, non sono facilmente ammessi quelli che si scoprono esser assai Zelanti della Religione cattolica…>>.[67]

Sostanzialmente i rimedi consistono nel cacciare, da tutti quei paesi, gli apostati e i sacerdoti indegni, sostituendo questi ultimi con altri che svolgano i loro compiti conformi alla religione cattolica e parlanti la lingua tedesca, nei luoghi “al di là dei monti”, anche se ciò è ritenuto quasi impossibile, creare nuove scuole e Seminari, che saranno certamente frequentati dai figli dei Signori di quelle terre, come già accade a Milano e a Mesocco, molto importante sarebbe poter fondare un Collegio a Coira, senza il contributo del Vescovo di questa città, in quanto molto gravato dai debiti <<…ma converrà che si faccia sotto nome del Vescovo et la sostentazione che se li darà da Nostro Signore sia secretissima>>.[68] <<La somma dunque di tutti i remedij si riduce a perseverar anco con la visita personale incominciata, in risvegliare, consolare, allettare, animare, et confirmare opportunatamente quei popoli con varij offitij paterni verso di essi…>>.[69]  Maggior numero di sacerdoti italiani invece occorrerebbe nei paesi sudditi ai Grigioni, ossia in Valtellina e Val Chiavenna, ma non sono certamente posti ambiti a causa dei bassissimi redditi dei benefici, che dovrebbero essere integrati con provvisioni annue. <<Et per animar i sacerdoti a questa impresa, come Nostro Signore già nel tempo della peste corporale di Milano diede al Signor Cardinale di Santa Prassede piena facoltà di porsi valere, etiandio doppo la peste estinta dell’opera de sacerdoti regolari d’ogni ordine et anco secolari d’altre diocesi, anco senza consenso ne licenza die superiori, molto più si potrebbe spedire un Breve di simil facoltà amplissima per aiuto di quelli paesi nella peste spirituale dell’anime…>>.[70] I consigli continuano dicendo che sarebbe opportuno concedere indulgenze e grazie spirituali per spronare i sacerdoti ad accettare il governo di queste parrocchie; inoltre, lasciare ai loro posti gli apostati e i fuggitivi italiani meritevoli e che da molti anni hanno cura di quelle anime, anche se illegalmente, poiché conoscono bene la lingua e le usanze di quei popoli e potrebbero fare del bene in futuro se fossero sciolti dalle censure.

Il terzo punto, considerato il più difficile, poiché si tratta di introdursi in questi paesi e, con determinazione, mettere fine ad una situazione non più sostenibile dai Cattolici: emblematiche sono le situazioni in cui si trovano la Val Chiavenna e la Valtellina, dove i Cattolici sono pronti a tutto pur di essere liberi nella loro professione di fede, certamente la visita del Cardinale Borromeo sarebbe un grande incoraggiamento e sia i sudditi che i Signori sono disponibili ad aiutare con ogni mezzo la venuta del Prelato, che anche in questi luoghi avrebbe lo stesso successo avuto in Mesolcina. <<Potrebbesi aiutare anco di fuori quest’offitio con lettere di tutti i Prencipi maggiori del Christianesimo procurate dalli Nuntij di Nostro Signore come dall’Imperatore, Re di Francia, Re Cattolico, et forse Venetiani, ma senza manco delli Svizzari Catt.ci alli quali già ha mandato il Sig.r Card.le e in occasione simile, cioè per le cose di Valle Mesolcina, che quanto a Venetiani non si spera molto in questa materia, per i rispetti di Stato considerabili in loro: ma potrebbe N .S. tentar ogni via […] scrivendo anco per ciò Brevi oportuni, et commettendogli di non dar tutte provisioni che levassero, in mano del medemo Sig.r Card.le per valersene oportunatamente […] non sarebbe di poco aiuto anco l’andata del med.o Sig.r Card.le in così fatta occasione a trattarne ex professo etiam co ‘l nome di N. S. con le tre leghe, et con le comunanze de popoli de Signori. Con la qual occasione d’haver a trattar con loro passarebbe per quelle due Valli de sudditi dando quel calore che bisognasse a catt.ci almeno privatamente, quando gli trovasse impedimento da SS.ri di far offitij spirituali co’ popoliin publico, di che non possiamo ancora accertarci>>.[71] A questi rimedi, continua il documento, si possono aggiungere alcuni aiuti: i sacerdoti dovrebbero avere ampia autorità di assolvere dai casi riservati, specie quelli riguardanti l’usurpazione dei beni ecclesiastici e i contratti usurari, per riavvicinare i responsabili alla Chiesa. Colmare il bisogno di libri spirituali e per il catechismo da distribuire al popolo perché leggendoli si renderebbero conto dei propri errori; il Pontefice dovrebbe dare aiuti economici per ristrutturare le chiese fatiscenti. Di grande utilità sarebbe affiancare al Vescovo di Coira, poco pratico di governo, un Vicario esperto, in tal modo il Prelato avrebbe più tempo per fare visite pastorali ogni anno e assistere ai Capitoli.

Pur essendo evidenziate le cause della rovina spirituale e i mezzi per cercare di rimediare, ma con gli ultimi avvenimenti <<…si è venuto in cognizione, che non è espediente trattar con detti Grisoni per termini amorevoli, et civili, ma che più conviene trattar con maniera grave et risentita valendosi de mezzi che fossino timore o forza di farli condiscendere al giusto conveniente et honesto in favore de Catolici, per che i capi ch’hanno in mano e con i quali bisogna trattare, essendo per la maggior parte eretici, hanno per scopo l’allargar la setta et falsa religione loro, et estinguere et annichilare la religione catolica […] Gli altri poi che non sono al governo, oltre che non s’ha occasione ne commodità di trattar con loro, non hanno communemente tanta capacità di ragione et restano impressi dalli capi del governo e da predicanti… >>.[72] Anche i ministri francesi non hanno il coraggio d’intervenire efficacemente, nonostante i loro rapporti con i Grisoni, per cui non sono di nessun aiuto, quindi restano solo due modi: il primo è quello di trattare con loro con molta autorità, <<…tale ch’habbino occasione di temere che nel paese fra di loro o con Svizzeri confederati nasca discordia e disparere, sapendo essi che tutta la grandezza e potenza loro consiste nella unione e colliganza…>>.[73] Questo modo potrà giovare sia ai cattolici sia ai riformati. <<L’altro mezzo da usare con i Grigioni è la forza, poiché sono coscienti di andare contro le loro leggi e di negare richieste ragionevoli perché hanno perversa e corrotta volontà e, volontariamente, non concederanno mai cose per la conservazione del cattolicesimo…>>.[74]

In una lunga lettera non datata, ma certamente scritta nel 1584, poiché si parla della visita nella Valle Mesolcina effettuata “l’anno passato”, del Borromeo al duca di Terranova, Governatore di Milano,[75] troviamo corrispondenza con quanto descritto nella “Instruttione “ suddetta, nel documento sono ripetute le gravi condizioni in cui versano i Cattolici, in particolar modo quelli della Valtellina e della Valchiavenna, poiché la Visita Apostolica in Mesolcina è già avvenuta e, come scrive il Prelato, con grande successo: in soli quindici giorni <<…essa Valle, con molta facilità, e suavità, si è riformata tutta, e rinovata spiritualmente…>>,[76] gli apostati restituiti alla loro religione, i sacerdoti scandalosi cacciati e sostituiti con altri ligi al loro dovere e stato ecclesiastico, istituite scuole pubbliche cattoliche e una Casa per i Gesuiti, convertiti moltissimi eretici, tra i quali persone importanti e autorevoli, <<…et nell’occasione di disturbi ricevuti per conto della conversione, et del progresso loro spirituale hanno mostrati segni grandi di voler piu tosto perder la vita, che partirsi dalla obbedienza di Santa Chiesa catolica, protestando cio pubblicamente nelle chiese, et nelle piazze sia le donne et i fanciulli piccioli>>.[77] Nessun accenno ai roghi delle donne accusate di stregoneria.

Il Cardinale auspica, poi, che la Santa Sede attui tutti i mezzi possibili per quei popoli, affinché possano fare tutte quelle cose che permettono loro di vivere cattolicamente <<…et pur da poi che l’eresia cominciò a entrare in questi paesi, vi e legge et ordine universale di tutte tre Leghe, che ciascuno possa vivere liberamente nella religione catolica, o nella falsa setta dell’eresia>>.

Tornado all’antefatto della visita, già l’anno precedente, Carlo si era fatto nominare dal successore di Pio V, Gregorio XIII, Visitatore Apostolico di tutte le diocesi svizzere:.[78] Il documento è datato 27 novembre 1582.

Con una lettera del 19 giugno 1583 il Cardinale informa Monsignor Speciano[79] della visita che farà in alcuni luoghi della Svizzera, avendone facoltà per breve del Pontefice, ma gli chiede di poter avere l’autorità pro tempore di dare l’indulgenza plenaria nelle località che saranno oggetto di tale visita.[80] Da buon diplomatico annuncia la Visita Apostolica all’Imperatore, al Re di Francia e a Filippo II, affinché i loro ambasciatori persuadessero i Grigioni a non impedire la visita o a dare fastidio, molto chiara ed esplicita è la richiesta che Borromeo fa al Nunzio di Francia in una sua lettera del 21 luglio 1583: <<Sopra poi quello che le ha scritto il Cardinale di Como della visita mia in paese di Grisoni, nel primo luogo veniva uno officio di procurare da Sua Maestà per efficaci lettere ordine al suo Ambasciatore che tiene presso quei Signori Grisoni, che facci ogni opera con loro et ai signori medesimi lettere conformi perché in quei loro paesi et di loro sudditi, dove mi occorrerà di andare o passare e specialmente nella Valtellina, o in altre valli et parti massimamente di qua dei Monti non mi si impedisca ch’io possa liberamente esercitare tutti quegli officii spirituali et pastorali, che io voglio fare in queste parti et altri luoghi dove vado per ajuto et consolazione delle anime dei fedeli et honor di Dio>>.[81] Chiede la stessa libertà e sicurezza per i suoi collaboratori. <<Di questi officii parlo in questo modo, perché dire a loro che il Papa mi manda là con autorità sua a visitarli, troverebbe incontro più duro ed inespugnabile…>>.[82] Prosegue dicendo che è aspettato con ansia dai cattolici di quei luoghi, i quali hanno fatto supplica ai loro Signori affinché l’Arcivescovo non sia impedito nei suoi offici, ma il dubbio più grave <<…è in quei fuggitivi d’Italia, che fanno là ricorso, et vi hanno ogni lor rifugio, ché sono la fece del mondo, et per la maggior parte non solo heretici, ma apostati, et altrimenti anco criminosi et facinorosi huomini, et disperati, i quali, come si parla di cosa, che tocchi ad aiutare i catolici di quei paesi, et massime come vedessero per qualche principio di buono indirizzo, o riscaldamento spirituale, al che ne va in conseguenza che fra poco tempo essi ne siano affatto scacciati, perché quei paesi sudditi di qua da’ Monti sono delli dieci i nove catolici, arrabbieranno et tumultueranno tanto, et tanto cattivi officii faranno presso quei Signori Grigioni, che gl’indurranno facilmente ad impedire a me il progresso in queste opere, ed ai catolici di là il corso di quel bene che fosse cominciato, et ogni altra occasione di poter essere aiutati spiritualmente>>.[83] Carlo continua la sua lunga lettera dicendo al Nunzio di fare quanto prima ciò che gli ha chiesto per il bene di tutti, <<…ma avverta che sarà più profittevole e fruttuoso, se Sua Maestà lo farà come da sé, senza mostrare che sia stato procurato a Sua Santità, et molto meno da me, oltra che anche non gioverebbe a questo mio governo spirituale di Milano, che si sapesse di questi ministri Regii, che io abbia procurato questo aiuto a quei paesi per questa mia (sic) via forastiera>>.[84] Continua spiegando il fine della Visita Apostolica consistente in due punti principali: lasciare libertà di religione e di culto ai cattolici e non tollerare che gli esuli dall’Italia, soprattutto gli ecclesiastici eretici e condannati, trovino rifugio presso i Grigioni, un esempio di questo lo troviamo in una lettera delle autorità della Mesolcina diretta al Prelato del 17 dicembre 1582, in cui si parla di un certo Fra Benedetto, il quale dopo avere abbandonato il suo Ordine senza licenza dei superiori e si era rifugiato a Soazza, dove aveva continuato a prendersi cura delle anime positivamente. Il Consiglio Generale chiede al Borromeo una dispensa per regolarizzare la posizione del frate e lasciarlo come curato del luogo, come se fosse un prete secolare; ma in una lettera del 9 dicembre 1583, ossia dopo che Carlo ha effettuato la Visita e si è reso conto della situazione, rispondendo che terrà tra i suoi raccomandati anche Fra Benedetto, ma al momento è meglio che esso torni nel suo convento per <<…rimettere quello che ha perso di fuori…>>, perché per aiutare il prossimo è necessario che prima aiuti se stesso.[85]

Galles de Mont, Landrichter, ossia capo della Lega Grigia, scrive al Cardinale una lettera datata 28 agosto 1583, in cui dice che avendo partecipato al “bitag” dello scorso mese tenutosi a Coira, alcuni “predicanti” presenti avevano palesato il dubbio che con l’imminente venuta di Borromeo in quelle Valli temevano dei danni verso la loro religione, quindi pregarono i “Signori” di impedirgli tale passaggio. Galles de Mont, continua dicendo che perorà caldamente la Visita Apostolica, che <<…non solamente gli cattolici, ma ancora gli adversarij non solo s’accontentorno del passaggio ma eziandio ordinarno che gli Sig.ri Ufficiali della Valle gli facessero le debite accoglienze, et cortesie>>.[86] Il mittente continua sostenendo che, avendo parlato con Monsignor Stupano, ha appreso che a quella riunione dovevano essere mandate alcune lettere del Cardinale ai “Signori” presenti e a lui per ottenere il permesso scritto per la suddetta Visita, ma <<Ne essendone presentate alcune ne a detti signori, ne a me, acciò non potessimo provedere, come haveressimo provisto di meglio, et havendo visto l’instigatione delli predicanti, ho pensato, et tengo per securo, che le lettere sue non habbino hauto fedel recapito, ma siano venute alle mani d’essi adversari predicanti, o d’altri loro seguaci>>. Galles de Mont termina dicendo che non avendo ricevuto nessuna lettera non era stato possibile fare alcuna approvazione scritta, ma che sicuramente sarebbe accolto con tutti gli onori, però se l’Arcivescovo volesse la “licenza” scritta, l’avrebbe potuta ottenere nel prossimo “bitag” di San Martino prossimo <<…et con poca spesa si farà con bona espedittione>>.[87]

Nel mese di agosto 1583 giunse a Milano una delegazione svizzera con a capo il Ministeriale della Bassa Mesolcina Giovanni Battista Sacco e il collega Giovanni aMarca, Ministeriale di Mesocco con lo scopo di invitare personalmente l’Arcivesco a compiere la Visita Apostolica, ottenere l’invio di un inquisitore e accordarsi sulla venuta dell’Arcivescovo.[88] Da persona prudente, Carlo inviò prima Francesco Borsatto,[89] Gesuita e avvocato con il compito di preparare quei popoli alla Visita e per informarsi della legislazione della Valle, non volendo operare fuori della legge.[90]Borsatto partì e il giovedì 6 ottobre arrivò nella Valle Mesolcina, dove venne ricevuto dal Ministeriale Sacco, <<…avendo ordinato benissimo le cose del governo della chiesa sua, sotto la cura di Monsignor Audoano Lodovico Inglese suo Vicario Generale, che fù poi Vescovo di Cassano, in modo che non potevano patire detrimento notabile per l’assenza sua, determinò di dar principio alla detta visita, circa il fine di quest’anno 1583>>.[91]

La Valle Mesolcina, italofana, abitata fin dall’età neolitica, deriva il toponimo dal fiume Moesa che la percorre, fa parte del Cantone dei Grigioni (Svizzera), a Nord confina con la valle del Reno, a Est con l’Italia a Ovest con la Riviera e la Val Calanca, a Sud con il Canton Ticino, con cui comunica per mezzo del Passo di San Bernardino; due alte catene montuose ostruiscono la Valle, limitata ad ovest dalla Valle Calanca e ad est dalla Valle del Lirio. La catena montuosa orientale segna il confine tra la Svizzera e l’Italia e si prolunga fino a formare i monti nel luganese, prendendo il nome do Catena Mesolcina. Alle popolazioni originarie si sovrappose la dominazione barbarica e il passo del San Bernardino (Mons Avium) divenne una delle principali vie di comunicazione tra la Pianura Padana e l’altopiano retico.[92]

La Mesolcina fu una delle prime Valli che aderì al Cristianesimo, anche se non siamo a conoscenza dell’evangelizzazione, che senza dubbio proveniva dall’Italia del Nord, prima con l’evangelizzazione romana fino al secolo V, poi con quella merovingia-carolingia, secondo il Vieli ciò fa supporre che il Cristianesimo sia stato accolto privatamente, più tardi professato pubblicamente senza persecuzioni e martiri.[93]

Da tempo remoto la Valle dipese, forse anche politicamente, dal Vescovo di Coira e che da questo viscontato sia derivata la signoria dei Sax (Sacco), proprietari fondiari nella Resia san gallese, durante il secolo IX, divenuti poi visconti in Mesolcina, ma nel XII secolo non compaiono i Sacco della linea primogenita, ma quelli del ramo dei Sax, il cui capostipite fu Alberto deTurre de Sacco, fedele al Barbarossa e fratello di Rainero, Vescovo di Coira. Il figlio di Alberto, Enrico fu l’iniziatore della potenza della casata, quando sotto Fedrico II gli viene confermato il possesso della Mesolcina, della Valle superiore del Reno, quella di Blenio e anche l’avogadria del monastero di Disentis con l’Ursera, affermando in tal modo sotto il diretto controllo imperiale i valichi di San Bernardino, Lucomagno e Gottardo. Tutto ciò indusse i Sacco a mire più vaste: Bellinzona e lo sbocco nella pianura, mettendo però i Signori della Mesolcina in contrasto con il partito guelfo: Enrico di Sacco lascia l’Imperatore e, nel 1242, occupa Bellinzona, che nel 1249 tornerà alle dipendenze di Como, come capo dei guelfi, insieme con Enrico d’Orello di Locarno. Dopo la morte di Enrico, abbiamo il declino della famiglia, a causa della divisione in vari rami.

Nel 1480 Giovanni Pietro de Sacco, oppresso dai debiti e detestato dal suo popolo, vendette la Signoria con tutti i suoi possessi e diritti al conte Gian Giacomo Trivulzio per la somma di sedicimila fiorini, il nobile milanese divenne il nuovo Signore della Mesolcina  e nel 1496 strinse un’alleanza con le Tre Leghe, sancendo in tal modo l’appartenenza della Mesolcina ai Grigioni. Tre anni più tardi Trivulzio soccorse i Grigioni minacciati dall’esercito imperiale di Massimiliano d’Austria, contribuendo alla vittoria della Lega. Gian Giacomo morì nel 1518 e a lui successe il nipote Gian Francesco, giovanissimo e debole di carattere, che col tempo fu privato dell’autorità e nel 1256 le Tre Leghe fecero demolire il castello di Mesocco, obbligando il giovane a ritirare le sue milizie, la Signoria dei Trivulzio finì nel 1549 quando Gian Francesco firmò un trattato con i rappresentanti della Mesolcina e della Calanca, per il quale rinunciava a tutti i suoi diritti feudali in cambio di ventiquattromilacinquecento scudi d’oro, che dopo una prima somma, il resto venne pagato a rate da tutti i comuni del Moesano: fu la fine del regime feudale e l’inizio di una libertà ottenuta senza violenze: il governo fu assunto dalle autorità locali e il potere legislativo esercitato dalla Centena,[94] quello esecutivo dal Consiglio generale di valle e quello giudiziario dal Tribunale dei Trenta Uomini che si radunavano a Roveredo o a Mesocco.[95]

Soazza e Mesocco con “motu proprio” entrarono a far parte della Lega Grigia nel 1480, successivamente (1496) anche il resto della Mesolcina con la Val Calanca si unirono alla suddetta Lega. Già dalla Signoria dei de Sacco la Valle era divisa in due Vicariti quello di Mesocco e quello di Roveredo, mentre amministrativamente era formata da tre squadre o circoli: quella di Mesocco, la squadra di Mezzo, che comprendeva Soazza, Lostallo, Cama, Verdabbio e Leggia e la squadra di Rovereto con Grono, Roveredo e San Vittore. La Valle Mesolcina non aveva il vincolo di sudditanza politica, in quanto Comungrande, ossia una comunità delle valli, entrate a far parte come componente paritario nella Federazione delle Leghe, quindi libera nelle proprie decisioni, come la Valle di Poschiavo, che al tempo faceva parte della Diocesi di Como e quella di Bregaglia che insieme alla Mesolcina appartenevano a quella di Coira, ma,  diversamente dalle altre, la Mesolcina era ed è anche oggi quasi totalmente cattolica.[96]

Nel 1555 veniva stipulata la Pace di Augusta tra cattolici e protestanti, in cui fu sanzionato il principio del “cuius regio eius religio”, riconoscendo in tal modo la libertà religiosa solo al principe, non al popolo. Se la maggior parte della Diocesi milanese era sottoposta a Filippo II, il cattolicissimo Re di Spagna, molte pievi delle valli svizzere erano terre di confine e quando oltre il San Bernardino scoppiò la Riforma queste vennero a contatto con i protestanti delle varie dottrine, che si diffusero rapidamente. Le autorità dei Cantoni protestanti e di quelli cattolici erano fermamente decisi a mantenere la loro tradizione di autonomia stabilita nelle Diete di Ilanz del 1524 e del 1526, dove era stata proclamata la libertà di culto nella Repubblica delle Tre Leghe. Anche la Mesolcina risentì delle condizioni civili, religiose e morali di questo periodo storico: <<…i delitti di sangue e i reati contro il buoin costume erano diventati tanto frequenti e tanto gravi che durante la dominazione dei Trivulzio il principe e la centena s’illusero di mettervi argine, emanado spesso capitoli criminali minaccianti pene severissime contro chi portava armi, cercava liti, assaliva e feriva il prossimo o dava scandalo fornicando persino – ciò che era più ripugnante – “in gradi bus prohibitis cum parenti bus”…>>.[97]

Il clero era ignorante, molti preti sapevano a stento leggere e scrivere, gli aspiranti al sacerdozio, rari, tutti appartenenti a famiglie facoltose, avevano una formazione molto superficiale, anche per la mancanza di seminari, la disciplina e la moralità lasciavano a desiderare e troppo scarsi erano i contatti col Vescovo diocesano di Coira, il quale non aveva l’obbligo delle Visite pastorali. Viste le condizioni generali di vita, la Riforma fu vista come un rinnovamento sociale, un’illusione in un futuro migliore e forse per questi motivi fu abbracciata da molti abitanti della Valle.[98]  Vieli sostiene che nonostante tutto in Mesolcina non ci furono né polemiche né esiti pubblici sulle nuove dottrine, nessun ecclesistico si proclamò palesemente favorevole alla Riforma, ad eccezione del comune di Mesocco, più esposto geograficamente alle infiltrazioni provenienti dalla Valle del Reno, dove fu creata una comunità evangelica.[99]

Nel 1549 arrivò a Mesocco il locarnese Giovanni Beccaria, cacciato dalla sua città per apostasia, nato nel 1510 circa, dopo gli studi di teologia, aveva aderito alla fede riformata, istituì una scuola dove insegnava ai figli delle famiglie riformate, più tardi il Sinodo retico lo accettò tra i propri ministri e fu nominato parroco riformato di Mesocco.[100] Questo fu solo un episodio, ovviamente dopo Giovanni Beccaria arrivarono in questi territori altri protestanti e non mancarono i neofiti tra le famiglie del posto. Nel 1556 una numerosa comunità riformata di Locarno avrebbe voluto stabilirsi in Mesolcina, ma i cinque Cantoni cattolici d’accordo con la Lega Grigia vietarono il loro stanziamento, la comunità si diresse a Zurigo, facendo tappa a Roveredo a causa dei rigori invernali.[101]

A causa delle pressioni che la Lega dei Grigioni aveva esercitato contro i riformati in Mesolcina ci furono grandi attriti con i protestanti della Valle del Reno e poco mancò che ne scaturisse una vera lotta armata: era il 1560. Con la Dieta di Coira venne stabilito che la Lega Grigia tollerasse la Riforma nella Valle e furono assegnate due chiese di Mesocco ai riformati perché potessero celebrare il loro culto.[102]

<<Sebbene la Mesolcina non avesse abbracciata la riforma, come si ha veduto nel Capitolo precedente, i suoi parti tanti non mancavano però di mantenere con segretezza negli animi quello spirito d’innovazione, che dai pergami veniva con artificio inculcata anche da quei pochi preti vallerani, i quali bramavano di vicere nella licenza. In simili disordino di religione, la popolazione era divenuta per lo più superstiziosa e di corrotti costumi, per cui necessitò più volte che la Regenza di Valle si riunisse espressamente per cercar di provvedere a tali inconvenienti; ma tutte le misure che si adottavano, riuscivano sempre infruttuose, anzi la demoralizzazione di più in più andava crescendo.

La fama di S, Carlo Borromeo allora Arcivescovo di Milano eccitò il Consiglio di Valle a spedir a quel Cardinale una deputazione per consultarlo e supplicarlo del suo aiuto sullo stato deplorabile in cui si trovava la Mesolcina.

Nel 1583 in agosto fu tenuto un apposito consiglio che nominò alcuni principali del paese per far l’ambasciata, i quali arrivati in Milano, furono dal venerabile Prelato accolti colla massima amorevolezza, e promise loro con benignità che entro quell’istess’anno si sarebbe portato in persona nella Mesolcina per ajutarli e provvedere a quanto desideravano; tanto più ch’egli era benissimo informato della demoralizzazione e del desiderio di riforma religiosa che esisteva nella Mesolcina come in tutte le vallate contigue alla sua Diocesi, per cui impiegava l’instancabile suo zelo per impedire l’avanzamento degli scismi ed eresie nel suo dominio spirituale, col portarsi in persona ove il bisogno l’esigeva…>>[103]

Da una lettera di Giovan Battista Sacco al Cardinale, datata 29 luglio 1583, veniamo a conoscenza che il Ministrale chiede che sia inviato anche un inquisitore per procedere contro i sospettati di stregoneria: <<…fargli memoria a proteggere d’un Inquisitore di queste malefice, quale esperto et idoneo, accioche quando s’appresenterà l’occasione, sappiamo dove raccorsi à torlo…>>,[104] ossia dove rivolgersi per averlo in caso di bisogno. In una lettera del 4 ottobre 1583 che Carlo scrive a Roma al Cardinale Savelli,[105] in cui dice che manderà Francesco Borsatto a Rogoredo: <<Quanto alle cose di Rogoredo, et parte contorno hora si comincerà darle qualche buon principio, havendo io fatta risolutione di mandare là di presenteil Dottore Borsato, che già alcuni dì sono si trovava qui meco: la quale andata è stat da me incaminata in occasione della istanza fattami novamente a nome di quelle Communità da uno Ambasciatore et altri principali, tutti catolici, et di auttorità di quei paesi, che si ritrovano qui a Milano, perché io le dessi uno Inquisitore a processare molte persone per conto di streghe.La quale andata è stata risolta da me in occasione della instanza fattami nuovamente a nome di quella comunità da uno ambasciatore et altri principali tutti catholici et di autorità di quei paesi, che si ritrovano qui a Milano perché colà dessi uno inquisitore a processare per conto di Streghe. L’ho dunque deputato con soddelegatione ampla delle altre mie facoltà in quei paesi, et sono partiti insieme questa mattina. Essi mostrano buona volontà, et desiderio dell’aiuto di quelle parti, et di dare ogni possibile favore, et calore per promovere le fatiche, et diligenze, che piglierà il detto Monsignor Borsato per il servizio, et bene spirituale del publico>>.[106] Francesco Borsato fu giudicato, dal Borromeo, l’uomo giusto per svolgere l’attività d’inquisitore, poiché occorreva, come riferisce in una lettera sempre al Savelli del 18 agosto dello stesso anno, una persona prudente e moderata, perché la giustizia secolare era molto più spietata di quella ecclesiastica,specialmente in casi di “stregherie”, Borsatto era considerato dal Borromeo anche come “precursore” della sua visita nella Valle Mesolcina, ma appena libero da un impegno molto importante,[107] lo avrebbe raggiunto con un predicatore e altre persone, <<Si manda là con pretesto dell’officio della Santa Inquisizione contra quelle streghe et nel medesimo tempo comincerà a poco a poco fare qualche officij spirituali>>,[108] da quanto scrive, le sue intenzioni non sembrano quelle di sterminare le streghe e gli eretici, ma piuttosto riportare queste persone sulla giusta via con esercizi spirituali. Il Cardinale viene assicurato dagli ambasciatori che non avrà nessun impedimento nell’attuare tutto ciò che si è prefissato, anzi propongono e fanno <<…instanza, che si eriga là un Collegio, o Seminario, assignandovi N. S.re reddito sufficiente, et per questo afferiscono essi di dare una buona casa, commoda, et conveniente, io che vedo quanto fondamento, et commodità spirituale ne risultaria universalmente; mi sono grandemente consolato di questa prattica, massime che mi dano speranza, che anco dà Padri heretici di tutte le Leghe si mandaranno molti figlioli allenarsi in quel Collegio […] In tutto il paese di Grisoni, parlo di SS.ri, come questo, non de’ sudditi, come Chiavenna e Valtellina, non vi è si può dire Maestro di Lettere>>.[109]

Da questi e da altri documenti studiati, sembrerebbe non chiara la distinzione tra eresia e stregoneria, in quanto i due termini vengono usati per indicare sia gli eretici che le streghe,sembra che i confini tra magia e stregoneria non siano molto delineati, come ad esempio nel seguente passo che troviamo nell’opera del Possevino, in cui dice che Carlo <<…scoprì quasi tutto quel paese infettato di streghe e stregoni, e ne ridusse a penitenza più di cento, ma da dieci, o in circa donne, vecchie per lo più le quali havevano commessi homicidije notabilmente danneggiato il paese, et erano quelle che seco conducevano le pute quasi fanciulle, cō terrore delle altre, al braccio secolare>>.[110] Mentre in passo successivo troviamo che il Cardinale: <<…non si sdegnava di mettere molte hore in ragionare alle volte con semplicissime, mà ostinatissime, et ignorantissime donnicciole heretiche, ricevendo anco alle volte da esse risposte assai indegne…>>.[111] Ancora nella relazione, relativa al 16 novembre 1583, del Gesuita Achille Gagliardi, al seguito del Borromeo durante la Visita: <<Questa misera Provincia tutta ora in mano di Apostati sfratati che servivano da Pastori, et seminavano alcuni mala dotrina, altri col male esempio di vita, et con la larghezza della continenza sua, e con gli altri fabbricavano la perdizione loro et di tutto il paese, nel quale (ben occultamente) già cominciava a entrare in molti la heresia. Il Proposito capo della Chiesa ora capo delle Streghe che vi son qui molte et in più luoghi ogni settimana con gran gente havevano, con quelle solite abominazioni del loro ballo, comercio col diavolo con uccisioni d’animali, d’huomini, et massime fanciulli per mezzo di certa polve fatta di rospi, et ossa di morti et altri orrendi peccati>>.[112] Questa relazione che sembra riprendere molto dalle antiche pratiche contadine, ci rende l’idea della fervorosa fantasia del Gagliardi, ma anche di una mentalità che non era diffusa solo nel popolo, nelle persone semplici ma anche in persone di cultura e di ceti sociali più elevati.

L’Autorità romana fin dal secolo XII cercò di travisare la natura essenzialmente benefico, positivo della “Società di Diana”, <<…infatti la credenza nelle streghe malefiche, operatrici di atti criminali che danneggiavano uomini, animali e beni materiali, si sovrappone a quella delle seguaci di Diana, dea appunto dei parti e della fertilità. Successivamente i demonologi del XV secolo si adoperarono a dimostrare la reale presenza diabolica nell’antico rito “e la consapevole complicità delle donne che vi partecipavano, conferendo a tali credenze quell’unità e quell’organicità che avevano perduto nel corso del tempo” (M. R. Lazzati)>>.[113]

Nel 1326 circa, Giovanni XXII emanò la bolla “Super illius specula” ponendo le basi per la relazione strega uguale eretica, che si allontanava sempre di più dal “Canon Episcopi” del secolo IX, in cui la vera superstizione consisteva nella credenza del volo notturno. Con la bolla di Innocenzo VIII “Summis desiderantes affectibus” del 1484 avviene la fusione della stregoneria con la “pravitas haeretica”, dando il via alla caccia alle streghe, che per quasi tre secoli fu associata alla storia occidentale.[114] <<Forse la stregoneria serviva bene a dare un volto locale alla paventata intrusione forestiera degli eretici, la cui estensione era bruciante. Comunque il principio era codificato. In questo contesto va esaminato il Borromeo […] Non è possibile un’analisi della posizione dell’Arcivescovo Carlo riguardo alle manifestazioni di religiosità popolare o alle abusive espressioni magico.religiose senza tener conto del Decretum tridentino De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum, et de sacris imaginibus. E’ indiscussa la fedeltà di Carlo Borromeo alle disposizioni tridentine; del resto ciò rientrava nella struttura mentale essenzialmente giuridica del Borromeo: senza la quale non ne comprenderemmo la personalità>>.[115] Da un attento esame degli editti, delle Visite pastorali, dell’epistolario e degli “Acta Ecclesiae Mediolanensis” riusciamo ad “entrare” un poco nella mentalità del Presule, ma che si tratti di culto o di magia e di abusi, va considerato che chi studia oggi il periodo in cui opera Carlo possiede un’ottica completamente diversa da quel tempo, <<…attenta non solo  ai dati storico-religiosi, ma anche a quelli folkloristici, antropologici, etnologici>>.[116] Ma forse la vera eresia non comincia dove c’è superstizione?

Borromeo, comunque, fu molto rigoroso verso gli abusi di devozione popolare e in una lettera inviata all’Arciprete di Monza del 22 aprile 1567 troviamo un esempio di tale rigore: sembra che molta gente accorresse in un luogo tra Milano e Monza perché alcuni sostenevano di avere visto la Madonna apparsa sopra gli alberi del posto, quindi il Prelato incarica l’Arciprete di fare un sopralluogo e con “diligenza” far tagliare quegli alberi e demolire eventuali costruzioni fabbricate per questa circostanza, perché non voleva che il popolo fosse ingannato con simili illusioni.[117] Durante la peste del 1576, detta peste di San Carlo, l’Arcivescovo da una parte proibisce varie cose per evitare il contagio, vieta di toccare le reliquie, esorta cautela verso le immagini e le donazioni, ma poi tollera le immagini sacre, anzi esorta che tali immagini, nel caso in cui venissero rimosse, dovrebbero essere sepolte sotto i pavimenti delle chiese o nei cimiteri: ciò fa pensare che esse abbiano acquistato un carattere sacro da ostacolarne la distruzione.[118] In conclusione si può dire che le frontiere tra la pietà popolare, la superstizione e la magia siano spesso molto precarie.

Munito di una subdelega, Borsatto partì quella stessa mattina e il 6 ottobre arrivò in Mesolcina, ricevuto dal Ministrale Sacco, l’inquisitore Gesuita fece convocare la Centena per il giorno 9 a Lostallo, per dare pubblicamente l’autorizzazione ai suoi procedimenti giudiziari, alla venuta del Cardinale ed agli eventuali provvedimenti che sarebbero stati presi. Questo fa capire quanto il Borromeo si muovesse con i “piedi di piombo” e nella più stretta legalità. Il 10 ottobre l’inquisitore spedisce una relazione al Presule, in cui lo mette al corrente delle decisioni prese dalla Centena e gli illustra la situazione religiosa della Mesolcina: <<Cominciarò hora ad attender à questi processi che riescono cumolo grande di persone et cause>>,[119] certamente i processi si riferiscono alle persone accusate di stregoneria; poi dice che la prossima domenica avrebbe cominciato a comunicare il popolo e dopo pranzo avrebbe cominciato <<…a introdurre la Dottrina cristiana, havendone in estremo tutti bisogno, non sapendo per la maggior parte quasi forse il segno della santissima Croce>>.[120] I messali erano vecchi e gli arredi sacri erano tanto sporchi da non potersi vedere, per cui dispose che fosse provveduto subito a tutto ciò che era necessario per l’altare e per officiare <<…poi che nella visita non si avrà da far riforma, ma crederò una forma nuova, tanto ogni cosa si trova in malo stato, et senza preti et chi le pasca, che poi sarà cura di V. S. Ill.ma, be si dirò che in questa valle non vi sono molti heretici scoperti, ma si ben disordine, et diffetti assai importanti, per quel ch’io scopro>>.[121]

In un documento scritto di pugno da Francesco Borsatto, troviamo una specie di promemoria comprensivo di dodici punti, sulle facoltà del Crdinale da chiedere al Pontefice ed all’Inquisizione a Roma in vista della visita nella Valle Mesolcina, tale documento non è datato e vi sono presenti alcune cancellature che noi riportiamo, ciò farebbe supporre che si tratti della la minuta della lettera che poi verrà spedita alla Santa Sede.

Le facoltà che Carlo vuole ottenere dal Papa servono per metterle in atto durante la Visita in Mesolcina: andando a visitare questi luoghi dei Grigioni può trovare eretici che negano la Trinità, la verginità di Maria, la morte per la Redenzione, i quali non potranno essere ammessi all’abiura, ma condannati alla pena di cui alla Costituzione Apostolica di Paolo IV dell’anno 1555.[122] Il Borsatto, quindi, chiede ampie facoltà per il Cardinale e per altri da lui designati e le specifica, come detto, in dodici punti: <<Andando l’Ill.mo et R.mo S.r Car.le S.ta Prassede ne paesi de svizzeri et Grigioni, tra quali vi possono esser heretici, che negano la Santiss.ma Trinità, divinità di Christo, la conceptione de Spirito Santo, e la morte per la redenzione, over la virginità di Maria, quali per Constitutione Apostolica di Paolo IIII sotto l’anno 1555 non potranno esser admessi all’abiura la prima volta, ma condannati nella pena di detta Constitutione. Et per il più se vi ricorrana sacramentarij, et oriondi d’Italia, et anco de forastieri, et che vi stanno, et che vi vanno alle volte, et forsi che hanno una et più volte abiurato, et quasi potriano venir al premio della Chiesa, essendo semplicemente admessi senza abiura publica, o privata formale, et quali ancor per il più sono quelli che sollevanoi terrieri per poter vivere. Si mette in consideratione a Nostro Signore che quei S. Ill.mi del supremo tribunal della S.ma Inquisitione in Roma, che non saria farsi male a dar per breve particolar facoltà a detto Ill.mo S. Cardinale S.ta Prassede, che potesse per se o altri da lui elletti, in….endo alle altre facoltà, et oltre quelle, per le cose infrascritte.

Prima potesse admetter a suo arbitrio al premio di S.ta Chiesa ogni heretico anco sacramentale et de sudetti di qual si voglia sorte benche meritasse la pena dell’ultimo supplicio la prima volta, et li oriondi d’Italia et apostati si de religiosi, come pretti, et secolari,

Secondo potesse admetterli, et reconciliarli alla S.ta Chiesa Romana benche havessero una et più volte abiurato, et fosse stato longissimo tempo in heresia.

Terzo se ben fossero stati predicatori, et instruttori d’altri, stampatori, et authori o compositori d’heresie, o libri heretici.

Quarto potesse reconciliarli o con abiuratione publica, o privata, et anco parendoli spediente senza abiuratione formale, mentre però si facesse rogito per il notaro della reconciliatione, absolutione, abiuratione, d’ogni heresia ch’havesse tenuto, et penitenza salutare in presenza de due testimonij, col descriver però il nome, cognome, patria, stato, et qualità dell’heretico penitente, acciò per ciascuna non s’havesse a far longo processo, scritture et abiuratione formale, che fossi in questo modo molti potriano ritornar, et dimandar misericordia et aiuto.

Quinto facoltà d’assolver liberamente in foro fori da ogni irregularità et combatta per qual si voglia causa et heresia come di S˜. senza sospenderli o tenerli sospesi a tempo ad arbitrio  di S.S. Ill.me secondo li parerà spediente, o almeno authorità di assolver quei ch’hora vivono cattolicamente, mentre però tra tempo da esser limitato da S.S.Ill.me vengino all’obedienza de suoi superiori, et che ha tanto possino celebrar, et trattar i suoi negotij per ritornar in Italia et paesi catolici.

Sesto che le gratie concesse da N. S. con lettere delli Ill.mi S.ri Cardinali Savello, Maffeo et Como, fossero tutte distese nell’istesso breve prevalessene bisognando, et mostrar a quelle genti cosa ordinaria et autentica secondo il popolo ricerca: primo di poter sudelegar ad ogni persona perita sacerdote et ecclesiastica le medeme facoltà o tutte o perte secondo le parerà conveniente. Secondo che si possa trattar per S.S.Ill.ma et altri da lei haver a esser nominati, o che la compa gnargno (non capibile) liberamente ogni cosa publicamente et  privatamente con ogni heretico et persona di quei paesi senza incorso di pena alcuna, cercando però di scansar più che si potrà la loro conversatione.

Settimo che ritrovandosi qualche religioso apostata, pentito de suoi errori, et ritornato con sincerità di cuore, potesse assolversi in foro fori, et foro poli, et per l’irregularità et heresie, con restituirgli anco alla religion sua et suoi monasteri, non ostando qual si voglia cosa in contrario con quel modo però penitenze o pene tempo et conditioni, che giudicarà bene S.S.Ill.mo considerata ogni circostanza et qualità del penitente.

Ottavo trovandosi alcuna persona che volesse solamente in foro poli confessare i suoi errori et heresie, possa assolversi et admettersi massime s’allegharà causa o timor del confessare le heresie et errori in foro fori, dovendo star et habitar in quei paesi, et purche sia oriundo di quelle terre. (a sinistra a piè di pagina, ossia c. 257r., : “Questa facoltà mi par che sia già concessa per Breve apportato con l’alterationi? In foro fori per giuramento)

Nono auttorità d’assolver ogni officiale S.r o Magistrato di quei paesi ch’havesse tolto o usurpato beni, denari, o frutti, o mobili della Chiesa, ovvero ingeritosi in cause ecclesiastice, et di quelle cavatene pene et utilità, rimettendo a S.S. Ill.ma il far restituire il mal tolto, o commutarlo o dargli altra pena o penitenza considerato il stato et conditione di quel tale.

Decimo possi terminar ogni sorte di lite di qual si voglia cosa o persona di Chiesa o mossa o da moversi a qual giudice ecclesiastico possa appartenere anchor che prendesse lite nanti tribunali ordinarij o altri giudici, et senza il consenso di qual si voglia persona.

Undecimo non saria male che S.S. Ill.ma havesse facoltà a consolatione delli Catho.ci che vi si trovano nelle Città, Castella e luochi principali, di conceder in qualche Chiesa, a qualche altare Indulgentia plenaria ogn’anno in un certo giorno, a quelle persone d’ogni sesso che contrite e confesse comunicassero et pregassero per l’unione de principi, essaltationi di S.ta Chiesa et estirpatione d’heresie.

Duodecimo facoltà di ordinare estra tempora et diebus continuus etiam non festivis in quelle terre però, et di quei preti che S.S. Ill.ma giudicarà ispediente convertirsi per il bisogno delle Chiese et contento delli catolici che vi sono con auttorità di dispensare super statem  (a sinistra in basso: “Questo poco sarà bisogno, ma non può nocere>>.[123]

Carlo Borromeo partì per la Mesolcina il 9 novembre 1583, del suo seguito facevano parte anche il Gesuita Achille Gagliardi,[124] il Francescano Francesco Panigarola,[125] entrambi molto validi nella predicazione: Panigarola particolarmente esperto anche nella confutazione delle tesi di Calvino, il Canonico Arciprete Ottavio Albiati (Ottavio Abbiate Forerio) e il suo Segretario Bernardino Morra.[126] La visita non si presentava come un’impresa facile a causa di problemi religiosi e politici, da non sottovalutare poi il periodo invernale molto rigido, che, in quei paesi, rendeva gli spostamenti difficili ed anche pericolosi, in una lettera da Roma, del 5 novembre, del Cardinale Speciano a Carlo si legge: <<Questa sarà in risposta della lettera di Vostra Signoria delli 28 del passato, et credo che la ritroverà occupata assai nelle faccende de Grigioni, nelle quali qui si ha grande opinione che Vostra Signoria Illustrissima sia per fare, con l’aiuto del Signore, del frutto assai; sebbene alcuni di questi Illustrissimi dubitavano che non sia sicuro il fidarsi intieramente di andar così alla libera in quei paesi, et al pur Cardinali che vi sono stati hanno paura grande ch’ella non patisca notabilmente per la neve et freddi, nelli quali molti ogni anno pericolano. Ma io spero ch’Iddio benedetto le assisterà in ogni cosa, et a questo fino qui se ne faranno orationi da persone di molto spirito>>.[127]

Da una dettagliata relazione di Gagliardi del 16 novembre 1583, veniamo a conoscenza che durante la Visita a Tessarete, lui stesso resta stupito dall’affluenza del popolo accorso per le confessioni, le comunioni e per la Cresima, ma soprattutto per come le persone erano bene istruite nella dottrina e per la loro onestà di vita. Il Prelato, la sera dell’undici novembre, fu ospitato nella casa di Bernardino Ruscone <<…alle Taverne, ove oprò un miracolo…>>[128] : chiese al padrone di casa di conoscere i suoi sette figli, ma al cospetto dell’Arcivescovo ne vennero solo sei, mancava la figlia maggiore di circa tredici anni, la quale era andata a cercare un vestito adeguato per comparire davanti a un personaggio così importante, ma nel momento in cui fece l’atto di prendere il vestito da una grossa cassa, il coperchio <<…fatto d’un assone grandissimo di noce con cornice ferrea all’intorno qual era sufficiente per il sol peso spezzare una pietra, e colse sotto tutt’e due le braccia e tramortì. La servente che era andata a chiamarla corse al padrone scapigliata piangendo che la figlia era morta>>.[129] Il padre accorse nel luogo dell’incidente, prese la figlia in braccio e questa aprì gli occhi e sorridente disse: <<Pà, non mi sono fatta nessun male, quel gentiluomo vestito di rosso qual è in stufa mi ha tenuta lui et mi ha salvata>>.[130]

Borromeo proseguì la sua visita facendo tappa nel monastero degli Zoccolanti a Bellinzona, per proseguire poi nella Valle Mesolcina, fu a Rogoredo il 12 novembre, dove rimase fino al 17, ispezionando anche i luoghi circonvicini. Dalla relazione di Padre Gagliardi veniamo a conoscenza della povertà di questi luoghi soggetti ad apostati che fungevano da Pastori, predicando dottrine eretiche e dando cattivi esempi di vita, trascinando gli abitanti di Rogoredo e dintorni: <<Il Proposito capo della Chiesa ora capo delle streghe che vi sono qui molte et in più luoghi ogni settimana con gran gente havevano, con quelle solite abominazioni del loro ballo, comercio col diavolo con uccisione d’animali, d’huomini, et massime fanciulli per mezzo di certa polve fatta di rospi, et ossa di morti et altri orrendi peccati. Tutto il paese era pieno d’usure, vi sono moltissimi matrimonij illeciti per essere in gradi prohibiti, vi sono nemicitie tra principali, per le quali ne sono seguiti grandi homicidij, vi è estrema ignoranza, per non essere chi insegni né costumi, Né dottrina Christiana, né pure un poco di grammatica, si atende à crapula et buon tempo. In questo stato habbiamo ritrovato questo paese, al quale è piaciuto a Dio dare la gratia di questa visita con molta benedizione>>.[131] Il quadro dipinto dal Gagliardi non era certamente roseo, quindi per rimediare a tante miserie, Carlo iniziò a digiunare e a mangiare solo pane ed acqua e impose al suo seguito di nutrirsi solo con pesce; le giornate erano molto laboriose e poco il tempo per riposare: la mattina presto, prima il Panigarola poi anche il Cardinale cominciavano a predicare, e dopo la Messa c’erano le confessioni fino alle diciannove, dopo la cena <<…s’attende a negotij per due hore […] Alle 22 hore di casa il Sig.or Cardinale va in Chiesa et si cantano le litanie et si fa la dottrina cristiana, insegnando, et domandando ai fanciulli il Sig.or Cardinale stesso, il Panigarola, et io le cose necessarie alla salute…>>,[132] senza, tuttavia, fare riferimento alle eresie, perché era stato ritenuto opportuno agire in tal modo per ristabilire il popolo nella fede, infatti Gagliardi dice nella relazione che la Chiesa era sempre piena di persone attentissime. <<La sera sino a 3 hore e più di notte il Sig. Cardinale ci tiene in consulta, ne si può cenare d’ordinario per l’altre occupazioni sino alle 5 hore di notte>>.[133]

Il primo giorno vennero comunicate 500 persone, il secondo 500 su una popolazione di poco più di 1500 anime. Una parte degli usurai fecero promessa di restituzione, l’altra parte si impegnò di seguire gli ordini del Prelato: <<…per ricevere, et usare nell’avvenire contratto lecito de censi, o simili. Dei censi ne resterà forma autentica per uso di tutto il paese […] Quanto all’heresia si sono riconciliati non pochi alla S.ta Chiesa, tra quali i principali di tutta la Valle che molt’anni erano stati in errore sedotti in Germania l’uno dal Vergeri, l’altro da Pietro Martini. […] Quanto alle streghe il prevosto con 15 o 16 di queste male donne sono state poste in prigione et sene farà una severa giustitia di fuoco, et tutte l’altre che segretamente erano macchiate di questo vitio, senza enorme successo criminale, ch’erano molte si sono ridotte a penitenza, con segno di quella>>.[134] Nella sua relazione, Gagliardi non parla molto delle “streghe” si limita a quanto riportato. Ma in una lettera dell’8 dicembre al Cardinale, Padre Carlo, gesuita al seguito di Carlo Borromeo durante la visita in Mesolcina, dopo avere espresso il successo della visita, così scrive: <<Lunedì passato, come quella haverà inteso, furono condotte alla morte quattro di quelle donne incarcerate. La qual fu di questa maniera. Fu fatta una grande catasta di legne, fascine et paglia; et havendo il carnefice strettamente legata ciascuna di loro sopra una tavola da per sé con fune, la buttò sopra della catasta con la bocca in giù, et subito si diede il fuoco intorno intorno, onde si vidde una fiamma horribile, che tutte le loro ossa et membra ridusse in cenere.Prima io riconcilia ciascuna stando già sopra le tavole distese, et ligate, et Monsignor Stoppano et altri due Reverendi insieme le aiutammo nel Signore con li debiti conforti. Né potrei abbastanza esplicarle con quanta contrizione, et prontezza han preso questo supplicio, rassegnate in Dio con profondo riconoscimento, et pentimento dei lor peccati, essendosi confessate et comunicate con gran devotione, facendo intiera oblatione delle anime, et della vita loro al Creatore Dio. Era quella campagna piena di gran popolo, et tutti con altissima voce gradavano Gesù, et si sentivano ancor esse gridare, et invocare quel santissimo nome in mezzo delle ardenti fiamme, tenendo ciascuna al collo le lor corone con l’ave Maria benedetta. Io ho gran speranza della salute di tutte per li chiari segni, che si son visti in loro, di buona contrizione>>.[135] Il Cardinale risponde da Bellinzona, esprimendo la sua consolazione per la conversione in extremis delle condannate, vedendo nel loro comportamento una speranza per la loro salvezza eterna. Nella lettera datata 18 dicembre dello stesso anno, il Gesuita annuncia al Prelato che sono state giustiziate altre tre donne <<…nomate Caterine delle altre incarcerate, che restavano come all’altre passate […] Le abiurate non son mai comparse et io non ho potuto far quella diligenza che tuttavia desidero…>>[136]

Un processo per stregoneria poteva essere indetto solo se almeno tre persone avevano denunciato l’uomo o la donna indiziati o accusati da altra persona stimata strega o stregone, quindi venivano incarcerati e successivamente portati davanti all’Inquisitore per essere interrogati la prima volta liberamente, poi sotto tortura. Il processo, che poteva dilungarsi anche per molti giorni, veniva definito con la sentenza emanata dal braccio secolare, composto da trenta uomini del Tribunale di Valle. Il verdetto veniva letto in pubblico, senza, tuttavia, rendere noti i nomi delle altre persone implicate. La pena poteva spaziare dal bando dalla Valle al supplizio del fuoco, in alcuni casi erano considerati la grazia e il perdono, a patto che i condannati abiurassero.[137] “Ecclesia non novit sanguinem”, quindi l’esecuzione della condanna non competeva alla Chiesa, ma al braccio secolare: lo Stato riconosceva ed eseguiva le sentenze dei tribunali ecclesiastici. Quando gli accusati venivano portati davanti all’Inquisitore, non ammettevano la loro colpa, anzi la facevano ricadere su altre persone, dando luogo ad una serie di nomi, dettati anche dalla vendetta personale, allora si doveva ricorrere alla tortura per estorcere la confessione, che, al tempo, diventava strumento fondamentale perché le prove non erano sufficienti se non c’era la confessione dell’imputato. Il giudice era obbligato ad applicare la tortura per constatare se anche subendo atroci sofferenze l’accusato insisteva nel proclamare la sua innocenza; la tortura, nella Valle, consisteva nel legare la persona per le braccia o per la vita, appendere dei pesi ai piedi e tirarla in alto con una ruota. Chi non confessava veniva torturato più volte, tanto da preferire la condanna a morte alla tortura.

La superstizione e la stregoneria era talmente radicata in questi luoghi, come del resto in tutta l’Europa, che molti indiziati erano convinti di essere streghe e stregoni, per altri era un vanto ed un modo per essere al centro dell’attenzione pubblica. Molto diffusa era la propensionea riunirsi in congreghe e in ogni villaggio vi erano dei punti in cui di notte si riunivano i seguaci di queste combrincole e, credendosi realmente in rapporti con Satana, commettevano atti gravemente offensivi alla religione e offesa, violazione ai suoi simboli, oltre che a balli e atti osceni e peccaminosi.[138]

Il Prevosto citato era Domenico Quattrino, il quale fu denunciato e subito destituito, al suo posto fu designato Pietro Stoppani, Oblato milanese, il quale ebbe l’incarico di curato di Roveredo e di Santa Maria in Calanca.[139] Consegnato al Braccio secolare, sotto tortura confessò molti dei delitti commessi, tanto che correva voce della sua condanna a morte, condanna che non ebbe mai luogo: <<In ciò furono tratti in inganno parecchi autori, dagli accenni delle relazione, ove è detto che il Quattrino fu condannato, senza avvertire che questa parola significa sentenziato e giudicato reo del delitto. Ma non si parla mai della pena>>,[140] che, secondo il D’Alessandri consistette nella perdita della cura e ridotto allo stato secolare, inoltre lo studioso riporta alcune frasi di due documenti in cui compare Domenico Quattrino, relativi al 1587, cioè quattro anni dopo la visita di Borromeo.[141]

Mentre la visita in Mesolcina procedeva tra roghi e pentimenti, tra grandi accoglienze e non pochi timori, il Ministrale Giovanni aMarca, uno dei più accaniti sostenitore della necessità di tale visita, si trovava a Milano in missione diplomatica presso i delegati del Re di Spagna, nello stesso tempo un’altra delegazione delle Tre Leghe si trovava nella stessa città, di cui faceva parte anche Pietro Mazzio di Roveredo, il quale fu denunciato come eretico da un cerusico di Milano. Ludovico Audoano, Vicario Generale di Carlo, avvisò subito il Prelato di questo grave inconveniente con una sua lettera del 21 novembre 1583: <<Questi giorni passati mi fu fatta notificazione contro un messer Pietro Masso Grisione del loco di Roveredo, qual si trovava qui, che fosse heretico marcio, contro il quale, si per le capitolazioni, si anche per haverne fatta parola con quelli de’ la Congregazione del s……. di casa, mi risolsi di non far altro tanto più che essendo da poi statto da me l’Ambasciatore dei Sig.ri Grisoni, mi disse che V. S. Ill.ma era alogiata in casa di esso m.e Pietro. Il notificante vedendo che cossì presto comme forse haveria voluto, non si essequì, fece l’istessa notificazione al Padre Inquisitore, il quale relassò la cattura contra di d,o dinunciato, essendo poi statto detto Ambasciatore dal d.o Imp.re gli scoperse ch’il dinonciante se ben non heretico, fosse un gran furbo e nemicissimo del d.o m.r Pietro, per causa de homicidij erano seguiti tra tra di loro et che d,o denunciato anche andava a messa a Coira>>,[142] quindi manda al Borromeo la copia della notifica e gli chiede di informarsi, se lo ritiene opportuno, su questo fatto, in quanto a lui è venuto il sospetto che il querelante non abbia agito <<…con mala intentionedi offendere con uno stesso colpo il dinonciato, e causare con quella gente qualche disgusto…>>.[143] Cominciò la caccia al presunto eretico da parte dell’Inquisizione, tutto ciò creò una grande preoccupazione in Giovanni aMarca, la cui missione probabilmente mirava ad ottenere appoggi e vantaggi al Borromeo per la sua visita, ma questo fatto rappresentava un grande affronto verso Mazzio, la cui reazione poteva essere quella di istigare disagi al Cardinale,[144] visto le sue importanti relazioni politiche che intratteneva e forse i timori di aMarca non erano infondati perché in una lettera del 26 novembre 1583, Bernardino Morra, scrive che, in un primo tempo, a Coira, per quello che era stato fatto a Milano ad uno di loro, si pensava addirittura di arrestare il Borromeo, poi le acque si calmarono dopo che Morra presentò le scuse a Mazzio, il quale restò soddisfatto.[145]Dalla lettera successiva, del 19 novembre, che Giovanni aMarca scrive a Carlo, dopo le giustificazioni per il suo dilungarsi a Milano a causa dei suddetti motivi, apprendiamo che in sua assenza il Cardinale può valersi di suo fratello Nicolao per la riunione “Beitag” che si terrà a Coira, durante la quale il Prelato avrebbe dovuto ottenere un invito o almeno un permesso ufficiale per una sua visita a Coira e per un’azione più vasta in Valtellina.[146]

Il 22 novembre Borromeo si trovava a Mesocco e sperava di poter varcare il passo del San Bernardino, per continuare la visita nel restante Grigione cattolico e in Valtellina, quando fu comunicato il divieto della Dieta adunata a Coira, con grande soddisfazione del Vescovo della città, Peter de Raschèr, il quale non vedeva di buon occhio la visita.[147] Il Cardinale mandò subito dal Vescovo di Coira il suo segretario Bernardino Morra per rendersi conto di quale fosse stata realmente la situazione. Morra ragguaglia il Prelato sul difficoltoso viaggio attraverso la montagna coperta di neve e nella tormenta: <<…giunsi qui a Sancto Bernardino a mezza montagna con salute, però a notte perché trovai la strada piena di neve che non si poteva cavalcare in ogni luogo, ne prima d’hieri l’haverei potuta fare perché la strada era stoppa affatto nel basso, dove li venti delli giorni passati hanno condutta la neve molto alta>>.[148]  Questo nella lettera del 20 di novembre, in quella relativa al 21 le condizioni atmosferiche sono ulteriormente peggiorate: <<Hieri subito che giunsemo in cima alla montagna nel calare le notti un vento che ci sono li vestiggi della stradda ci riempì in modo le basse, che dopo haver cavato i cavalli in tre o quattro luoghi con grandissima difficoltà dalla neve nella quale erano quasi sepolti, fossemo forzati lasciarli dietro con le robbe…>>;[149]  il vento era fortissimo e la neve ghiacciata sugli occhi, impediva loro la vista, quindi Bernardino Morra procedeva dietro al Todeschino, ossia Ambrogio Fornerio, servitore di Borromeo andando alla cieca, poiché la neve aveva coperto ogni traccia di sentieri; ma scrive anche della generosa ospitalità ed aiuto che riceveva da popolazioni che, ormai, professavano altra fede, addirittura descrive l’interesse che in alcuni luoghi mostrano per la venuta di Carlo Borromeo: <<…dove trovassimo tanta amorevolezza con prontezza in aiutarci massime per recuperare i cavalli, che non si potrebbe dir maggiore. Così andarono quattro o sei huomini (i) qualli a notte gli condussero con grandi difficoltà, sì che Mons.r Ill.mo mio riconosco l’aiuta da singolare gratia n’ha voluto far Iddio, che invero non potrei esprimere i pericoli grandi che habbiam passati, tanto che mi par un sogno […]L’exhibitor del presente è fratello del S.r Ministralle de questi paesi de Valle di Rheno et bene principale in questa terra, qual ci ha alloggiato con tanta amorevolezza ch’io sono restato confuso, e’ m’ha detto (che) anche loro fecero consiglio sopra la venuta di V. S. Ill.ma quale aspetano con grande desiderio con bona volontà di riceverlo et alloggiarlo, et che farano accomodare la stradda della montagna sì che potrà passare facilmente…>>.[150] Il fratello del Ministrale, ossia la persona che ha dato aiuto, affiderà al Borromeo un suo figlio quindicenne per farlo studiare nel Collegio di Roveredo.[151]

Da Coira, dove era arrivato il 22 novembre, Morra scriveva che il Vescovo <<spiritualia negligit, temporalia dilapidat>>, cioè si occupava molto di più delle cose temporali che non di quelle spirituali, facendo una vita lussuosa e dissoluta,[152] ma il compito di Morra era quello di verificare gli ordinamenti del Vescovo nei confronti del Cardinale, il quale stava agendo in luoghi a lui sottoposti, inoltre doveva appurare se fosse stata gradita una sua sosta a Coira, poiché sarebbe passato da quei luoghi per andare al Castello di Hohenems ospite di suo cognato Annibale Altemps, marito sella sorellastra Ortensia. In realtà a Borromeo non interessava tanto di poter predicare nella Cattedrale di Coira, cosa che gli sarà sconsigliata dal Vescovo, ma di persuadere lo stesso Vescovo a revocare il divieto della sua visita in Valtellina: <<Hieri matina giunsi qua in Coira a bonhora, fui raccolto da Monsignor Reverendissimo lietamente, mostrò gran sodisfatione e contento dell’officio che feci seco insieme di Vostra Signoria Illustrissima in darli conto della causa della venuta sua costì, e delle cose ivi seguite. Non haveva inteso prima dell’arrivo di Vostra Signoria Illustrissima costì, perché suo fratello il Conte non è sin’hora ritornato da Milano, ma ben haveva havuto aviso che la voleva venirci per passar poi in Altemps. […] et mi disse che se havesse saputo dell’arrivo suo nella valle Mesolcina sarebbe lui venutoo almen mandato personea basciar le mani aVostra Signoria Illustrissima et invitarla a venir sin qui, come mostra haverne desiderio grande, per farle vedere le miserie di questa sua Chiesa rispetto al governo et ererethij spirituali…>>.[153] Nonostante la diplomazia che Morra usa nella sua lettera, ci sembra poco probabile che il Vescovo di Coira non fosse al corrente che Borromeo si trovava in Mesolcina già da dodici giorni circa e che lo venisse a sapere proprio dal Segretario del Cardinale, anche se in un’altra lettera di Morra al Cardinale datata 26 novembre troviamo: <<Questa mattina solamente Monsignor Vescovo ha ricevuto la lettera del Ministrale de Roveredo con la quale gli dava aviso dell’arrivo di Vostra Signoria Illustrissima in cotesta Valle, così che non era meraviglia se non mandava persona o lettere per compimento et debito suo>>.[154] Il compito del Segretario di Borromeo non si presentava certamente facile: avrebbe dovuto affrontare l’aperta avversione di molti e, soprattutto, le incognite delle soluzioni dell’imminente Dieta: <<…et in conclusione il parere commune sì di Monsignor Reverendissimo, come d’un suo fratello ch’è qua, d’un suo Castellano, del Proposito, et anco del Signor ladrito Galles,[155] col quale ho ragionato questa sera ch’è giunto qua di Borgogna, è che Vostra Signoria Illustrissima sia per ottenere poco o forse niente col passaggio suo di qui, et che più tosto fosse per aportar qualche sospetto nell’animo de popolari che si ritroverano qua alla Dieta, quelli non sono soliti regersi nelle deliberationi con la ragione, ma più tosto con passione et affetto troppo grandi che hanno all’augumento della religione nova, della quale sono le doi parti delle voci>>.[156] Si deduce che, in definitiva, la presenza del futuro Santo avrebbe sortito più guai che vantaggi, anche per quanto riguarda il proseguo della vista in Valtellina, non vi sono speranze di avere il permesso: <<…si crede che gl’officiali di collà non permetteranno che Vostra Signoria Illustrissima faccia atione alcuna spirituale…>>.[157] Nel frattempo, Bernardino Morra cerca parlare a lungo con l’Ambasciatore di Francia, il quale è arrivato da pochi giorni con molto denaro, destinato, probabilmente, a pensioni e spese militari, ma anche molto vantaggioso nell’influenzare le disposizioni.[158] Durante la sua permanenza in Coira, Morra capisce chiaramente che la minoranza cattolica è paralizzata dalla paura, quindi, secondo le decisioni che saranno prese dalla Dieta, il Segretario non sa se è opportuno continuare ad insistere sulle proposte o abbandonarle se non dovessero dare risultati positivi, tutto ciò si può fare, continua Morra, senza mettere a repentaglio la posizione del Borromeo se è lontano, mentre se si trovasse a Coira sarebbe una sconfitta clamorosa. Tra le righe possiamo capire che, diplomaticamente, il Segretario consiglia al Cardinale di abbandonare l’idea del viaggio oltre San Bernardino, come poi avvenne,[159] portando anche l’esempio del Vescovo di Como, il quale: <<…à procurato d’otenere da questi Signoridi poter andare a visitare Valtellina come sua diocesi, et intendo che ha usato diversi mezi anco di quelli che piaciono et trastullano qua, però che mai ha potuto otener cosa alcuna […] l’istesso Ambasciatore di Francia va molto ritenuto et con segretezza nel trattare cose pertinenti la nostra Religione per non dare sospetto a questi popoli quali maggiormente non s’appagano di ragioni, et fra le altre cose mi disse hieri che tre ò quattro giorni passati nel elettione del borgomastro giurarono tutti questi cittadini di non venire alla chiesa per sentir messa, d’indi nasce che sono puniti poi quei che vi vengono >>.[160] Queste due lettere di Morra sono datate 23 e 24 novembre, ma al 23 dello stesso mese risale anche la lettera latina di Pietro Rascher,  Vescovo di Coira, il quale dopo avere parlato con il Segretario del Cardinale scrive chiaramente che una venuta del Borromeo in questa città dovrebbe necessariamente limitarsi ad una mera visita privata: se il Cardinale vuole passare per Coira per recarsi dal cognato, i cittadini lo accoglieranno con i più alti onori e non impediranno una visita alla Cattedrale, ma non vorranno che tenga un discorso al popolo e anche se lo volessero, verrebbe dissuaso dallo stesso Vescovo, perché, in momenti così delicati, sarebbe fuori luogo e sedizioso.[161] La lettera è datata agli idi di novembre che cadevano il 13 del mese del vecchio calendario, quindi rapportata al computo del nuovo calendario risulta scritta il 24 di novembre.[162]

In un’altra lettera del 2 dicembre, Pietro Rascher insiste sulla difficoltà suscitate da parte dei riformati sopra un’eventuale intromissione del Borromeo negli affari della Diocesi: al “bitag” delle Leghe, i Cattolici ribadivano che il Cardinale doveva essere ricevuto senza riserve, la parte opposta si opponeva con forza e il Vescovo venne a trovarsi tra l’incudine e il martello, ovviamente ebbero la meglio gli scismatici molto più numerosi degli altri: <<E contra novum Scisma Sectantes in nos fulgurabant. Sic inter malle(u)m et incudem constitutus, tandem maior pars in deliberando meliorem vincit>>.[163]

Viene decretata la concessione del libero passaggio, attraverso quei luoghi, al Borromeo e al suo seguito, con ordine di accoglierlo con il degno omaggio. Questa lettera deve essere stata scritta dal Vescovo prima di ricevere quella che il Cardinale gli scrive il 28 novembre, dove gli comunica la sua rinuncia al proseguimento del viaggio, essendosi prolungati più del previsto i tempi della visita in Mesolcina, e a Milano lo aspettano i suoi doveri di Arcivescovo, essendo vicino il Natale, oltre ad altri improrogabili impegni: il consiglio di Bernardino Morra è stato ascoltato e la dignità del futuro Santo è salva.[164]

La Valtellina e la Valchiavenna furono sempre ecclesiasticamente dipendenti dai vescovi di Como, civilmente appartenevano al Ducato di Milano dal 1335, ma quando i Francesi, nel 1499, occuparono il detto Ducato, invasero anche queste Valli, usando soprusi ed esigendo tasse non sempre legali fino al 1512, quando i Francesi furono costretti ad abbandonare Milano, sconfitti dalla Lega Santa, che improvvisamente si era alleata con Venezia, con i Savoia e la Svizzera per frenare l’esagerato potere della Francia. Come da accordi con gli alleati, i Grigioni entrarono nelle Valli il 27 giugno 1512 e con il giuramento di Teglio vennero annesse alle Tre Leghe, il cui dominio durò fino al 1797. L’importanza della Valtellina come crocrocevia europeo e la proclamazione della libertà di culto favorirono l’immigrazione di riformati italiani. La situazione non era molto diversa da quella della Mesolcina: gli stessi problemi religiosi e morali dividevano i Cattolici dai Riformati e i primi, visto l’esito positivo della visita in Mesolcina, aspettavano la venuta del Borromeo nelle loro Valli, tutto questo lo possiamo apprendere da una lunga lettera che il Prelato scrive senza specificare il destinatario, ma all’inizio troviamo “Per Franza”: <<Dall’essempio del bene seguito nella Valle Mesolcina, il S. Cardinale prese ferma speranza di far gran frutto nella Valtellina, et così determinò d’andarvi come havea anco designato prima…>>,[165] ma tutto ciò fu impedito durante la Dieta di Coira, come già detto, <<…et perché non haveano ragione alcuna , si valsero dell’occasione di certa voce quale allora si era cominciata a spargere, che si trattasse nuova lega fra i Grisoni et il Re di Spagna, con dire che il S. Cardinale non voleva andare in quei paesi loro per fine spirituale, ma per detta nuova lega et negotij di stato…>>. L’Ambasciatore di Francia, col quale Bernardino Morra trattò particolarmente l’argomento della visita in Valtellina, si mostrò favorevole all’inizio, <<…ma poi entrato anco esso in sospetto, et gelosia del sudetto trattato di nuova lega, si raffredò, et forse fece qualchi ufficij contrarij…>>. Successivamente i Grigioni mandarono in Valtellina e Valchiavenna quindici commissari <<…la maggior parte heretici dove hanno tormentato aspramente l’Arciprete di Sondrio, quale si trovava già detenuto sotto pretesto c’havesse tenuto mano a certi rumori, et risse che poco avanti occorsero in Sondrio fra catolici, et heretici..>>, nonostante sia poi stato dichiarato innocente fu condannato a pagare più di 200 scudi per delle inesistenti spese, peggio ancora fu costretto a promettere, sotto giuramento, diverse cose non specificate.[166] Furono incaricati trenta uomini della Valtellina e dei luoghi vicini per andare a Coira a recriminare per i tanti soprusi patiti dagli abitanti cattolici, ma da un documento senza data e senza destinatario troviamo: <<Quelli c’havranno la cura del maneggio della negotatione della Lega co’l Re Catolico, si risolsero ultimamente d’andarsene a Coira, con disegno di trattar la apertamente, con una buona somma di danaro, et vi andarono, ma il Capo della Lega delle Dritture, non vi comparve, et eglino quando hebbero aspettato sette giorni, forse parendogli troppa indignitàdel loro Re si risolsero di partire senza parlare di questo negotio, et così è restato estinto affatto per adesso>>. [167] Bernardino Morra, in una lettera del 10 agosto 1584 riferirà al Cardinale di avere appreso dal Todeschini, che a sua volta aveva avuto la notizia da persona sicura, che i Gigioni vivevano nella paura di perdere la Valtellina e i loro commerci con Milano, tanto che hanno avuto un incontro segreto con i Cantoni “eretici” e sembra che “habbin fatto lega particolare”, ma alla Dieta che si terrà a Bada il 26 dello stesso mese parteciperanno sia i Cantoni cattolici sia quelli riformati, per cui, suggerisce il Segretario, è necessario mandare uomini bene informati sulla situazione per dimostrare le ragioni dei Cantoni cattolici. Da notare la capillarità della rete di informazioni che il Borromeo aveva costituita non solo nei luoghi sottoposti alla sua giurisdizione, ma in tutta l’Italia.[168]

L’Arciprete di Sondrio, Giovanni Giacomo Pusterla scrive alcune lettere al Cardinale durante la sua detenzione, da cui apprendiamo che il 19 aprile1584 si trovava in prigione per le accuse suddette, in realtà perché si oppose all’istituzione di un collegio, ufficialmente pluriconfessionale, ma chiaramente di ispirazione riformata. I cattolici si ribellarono a tale iniziativa, per timore che la scuola avrebbe favorito la religione riformata ed avrebbe portato dei gravi frutti morali, presto scoppiò un tumulto che si trasformò in un caso politico quando le Tre Leghe inviarono dei commissari per fare indagini sulla sommossa, furono arrestati alcuni uomini per sospetto di avere fomentato tale sommossa, tra questi vi era l’Arciprete di Sondrio e dalla prigionia scrive al Borromeo: <<Hoggi è il quinto giorno, ch’io con mio fratello, et doi altri buoni catholici ci troviamo prigioni del S.r Gov.ori nostro per difensione di S.ta chiesa, per la quale si sollevò tutto il nostro popolo contra heretici, come credo ceh V.S. Ill.ma haverá inteso da diversi predicatori di questa Valle […] Ha puochi giorni, ch’io ricevei altre sue mandatemi da Mons.r R.mo nostro di Como, alle quali non so che altro respondere per non esser presso di me. Uscito che sarò di prigione, attendero ad esequir fedelmente quanto ella me haverà commesso, come anche farò circa le Commissioni matrimoniali mandatemi, et ogni cosa, ch’ella si degnerà di commandarmi.Di Sondrio il 19 di Aprile 1584. Devotissomo Servitore. L’Arciprete di Sondrio carcerato per S.ta fede>>.[169] Un’altra lettera, del 28 maggio dello stesso anno, ci informa che <<Qui in prigione, dove io sono ancora per la gratia di Dio, ho ricevuta la consolatoria lettera di Vostra signoria Illustrissima la quale m’ha portato abundante spirito per tollerare le gran persequtioni, che habbiamo da nemici di Santa Chiesa […]La nostra detentione si va allongando, et dubbito che la causa si porti nel prossimo Pithac del Corpus Domini, nel qual haveremo maggior contrasto che non habbiamo qui, perche allora li Predicanti Luterani si ritrovano tutti in Coyra al loro Synodo che fanno…>>.[170]

In una lettera, dell’11giugno, scritta dal nipote dell’Arciprete di Sondrio, Nicolò Pusterla al Cardinale, possiamo capire che la situazione era molto grave: <<Come servo obedientissimo di Vostra Signoria Illustrissima l’aviso di tutto quel che qui è bisogno per il servitio di Dio. Ho trovato nella mia aggionta, mio zio l’Arciprete di Sondrio anco priggione, et la cosa assai piu pericolosa di quel che io credevo havendo egli oltre la priggionia datta securtà di domila scudi per esser stato accusato di rebelle et di seduttore. Et in vero, come ho inteso qua, l’anticolleggio si sarebbe piantato, se l’armi non fossero state interposte, et ancora che dal esser state pigliate l’arme nati questi puochi travagli pur molti beni ne sono nati…>>,[171]ossia i Riformati si sono ritirati e la sommossa ha accentuato il fervore dei Cattolici. Nicolò continua dicendo che lo zio non è in grado di pagare una tale somma, quindi supplica il Borromeo d’intercedere presso la Santa Sede, affinché arrivi da Roma qualche aiuto economico. Nicolò Pusterla era Canonico di Coira e dall’inizio della lettera possiamo notare che faceva parte degli “informatori” che l’Arcivescovo aveva ovunque. Nel 1590 fu nominato dal popolo Arciprete di Sondrio, essendo lo zio stato costretto a fuggire a Roma, ma anche lui fu vittima dei Protestanti e sembra sia morto in prigione, avvelenato dal Governatore della Valle.[172]

Il 13 di giugno, Giovanni Giacomo Pusterla scrive a Carlo che finalmente lui e gli altri carcerati sono stati tutti rilasciati, ma egli ha dovuto pagare duemila scudi, gli altri mille a testa, con l’obbligo di essere a disposizione del Governatore e di non lasciare la città di Sondrio, ma i Giudici tardano a spedire la causa, forse, suppone il mittente, per poterla presentare al prossimo <<…Pithac per darci forse o maggior travaglio, o qualche castigo a lor modo tanta e’ la persequtione che habbiamo da questi indemoniati heretici>>.[173] Il Pusterla, comunque, non demorde, infatti così scrive il 22 giugno: <<Dapoi ch’io son uscito di prigione con segurtà però di representarmi, non ho mancato di far tutti quei offici gagliardi, che mi siano stati possibili, per unire questi popoli, accio facessero li suoi messi speciali per la causa di religione da mandarsi al prossimo Pithac, con persuaderli che il Signore con suoi potenti instromenti è per aiutarci adesso, quando da se stessi non si manchino. Tuttavia io veggo che questa Valle, contra ogni mia dissuasione fattagli, vuole preferire la causa de’ Signori Commissarij, che s’habbino da levare, alla causa spirituale della religione, cosa che è contra il vero ordine, et che poi secondo l’occasione che ne haveranno, attenderanno ancora alla causa spirituale secondariamente. […] Credevo, et desideravo andar io stesso al prossimo Pithac, ma per la segurtà data, non posso partirmi di Sondrio>>.[174] In un documento senza data e senza firma troviamo i <<Rapporti di alcuni particolari in materia della fede agitatai nella presente Dieta de Sig.ri Grisoni fatta in Coyra>>, dal quale apprendiamo, dal primo punto, che i Signori dei cinque Cantoni svizzeri hanno riferito, durante la Dieta, di avere ricevuto delle lettere dal Pontefice, dal Re e dai Signori veneziani, in cui affermano di avere sentito dire che i Grisoni non lasciano libertà di culto ai loro sudditi cattolici e di voler istituire un Collegio luterano in Valtellina, che, per essere ai confini degli stati dei suddetti mittenti, <<…porta pericolo certo alle anime de loro popoli…>>, quindi è desiderio che l’Istituto non venga eretto, <<accio si possa continovar nella passata buona vicinanza, che altrimenti per essere inovatione contra le conventioniloro, se sarebbono tenuti per conservazione de loro stati farli altra provvigione…>>, pertanto, considerando gli inconvenienti che potrebbero verificarsi, esortano  a non  <<aggravar gli loro sudditi nelle cose della fede>>.[175] Il Cardinale Savelli viene informato dell’istituzione del collegio dal Borromeo, in una sua lettera del 18 agosto 1583, quindi quasi un anno prima dei suddetti fatti: <<Ho havuto la certezza della fondazione do quel Colleggio d’heretici in Sondrio, al quale quei Signori Grigioni haveano applicata l’entrata della prevostura di Tir (Tirano) ma i Cattolici si sono in modo adroprati, che hanno attenuta la metà di quell’entrata, per poter, ancor essi, fondar una scuola Cattolica. Il che è di men male, in cosa pessima com’è quella…>>.[176]

Il secondo punto tratta dei predicanti eretici …<<che ressidono in quello paese che si trovano in Coijra al n° de 65 inc.a in al sinodo che facevano, hanno decretato che nelli loro paesi de sudditi non sia accettato ne admesso alcun prete ne frate forastiero, et di più che tutti quelli che ci soni siano espulsi…>>.[177]

Dal terzo punto veniamo a conoscenza che sono stati incaricati quindici “Sindicatori”con ampia autorità, per inquisire e processare nel territorio della Valtellina e Valchiavenna e punire tutti quelli che hanno <<…parlato contra gli hereticio fatto qualche movimento de Zelanti et buoni cat.ci nella osservazione della quadragesima et feste secondo il calindario novo, et de altre cose al tempo che furono scacciati gli R.di Padri Predicatori da Chiavenna a da Valtellina, et in altri tempi, de quali persone ne hanno in nota in quantità, et detti sindicatori hanno autorità di piantar sudetto collegio et di lasciar, ma si dubita per instigatione de predicanti et altri maligni spiriti havrà pur troppo effetto, massime per esserne tra detti 15 solo 3 inc.a de catolici. Hanno ancora autorità di reformar et aggravar il processo del R.do Arciprete di Sondrio non contentandosi del formato perché gli parerà leggiero da non poter satiar lìingorda voglia dell’avaritia>>.[178]

Il 27 giugno 1584 “Li Amb.ri della generale libera Lega Grisa, di presente in Coijra congregati”in una lettera dichiarano la loro non contrarietà all’erezione di un Istituto, anzi esprimono la loro ammirazione per questo cristiano proposito.[179]

Molto interessante è la lettera che Scipione Calandrini,[180] noto eretico lucchese trasferitosi in questi luoghi, scrive, a sua discolpa, al Governatore e al suo Vicario, circa una presunta disputa che il Borromeo avrebbe fatto in Chiavenna per far capire le differenze tra la religione cattolica e quella protestante, ma soprattutto per mettere in evidenza gli errori di quest’ultima, ma, secondo alcune persone, tra questi fra Francesco da Balerna predicatore francescano, che i riformati avrebbero impedito tale discussione. Data l’importanza del documento, riportiamo il testo integralmente: <<Ill. Signore Governatore e voi Mag. co S.r Vic. Ro Essendomi statto detto da piú persone degne di fede che Fra Francesco da Balerna franciscano al presente predicatore in S. Gervasio habbia detto et affirmato ch ‘l Cardinal Borromeo habbia voluto piantar una disputa in Chiavenna sopra le differenze della Religione per far conoscere i nostri errori, e che noi non l’habbiamo voluto consentire, e che se li nostri Illustrissimi Signori permettessero che egli venisse in Valtellina con li suoi Theologi che disputariano con noi e ci convincariano, ma che noi l’impediamo. E di più essendo certificato ch’egli va tentando hor questo hor quello de li nostri, e che non havendo dal principio ricusato di confrontarsi con meco sopra gli articoli discrepanti tra noi, anzi essendosi offerto di mettere ancora le cose in scritto, poi quando si è voluto venire all’effetto, dandogli solamente tre conclusioni, non ne ha voluto far nulla, dicendo essergli prohibito da gli suoi superiori di disputar con noi e che io doverei andare a Como o a Milano, dove sarei convinto, e che si constituerà qui prigione se medesimo, facendo ancora venire tre o quattro gentil huomini Principali di Como che staranno qui per hostaggi fino che io con quelli fussero meco ritornassimo a casa, e simili altre cose. Per tanto havendo fatto consideratione sopra le dette cose mosso dal debito dell’officio mio e della mia vocatione che è di difender la verità con ogni debito modo, e resistere alle oppugnationi di essa, e stabilire gli infermi contra le tentationi che sono lor fatte e dare occasione agli alieni di aprire gli occhi alla verità, e accostarsi alla dottrina sincera, ma non ho voluto ne potuto mancar di presentarmi dinanzi alle SS. VV. con supplicarle di far domandare il detto frate Francesco, e fargli intendere la mia risposta, e la mia protesta quale io faccio alle proposte sue, la qual risposta e protesta è la seguente. Prima che non si troverà mai esser vero, che il Cardinale Borromeo habbia procurato che si facesse una disputa in Chiavenna sopra le differentie della Religione, molto meno è vero, che da noi tal disputa sia stata impedita.

Di più che non si trovava mai esser vero, che da noi sia statto impedito, che il medesimo non si facesse in Valtellina, quando il Cardinal Borromeo havesse ricercato tal cosa da nostri Ill.mi S.ri cioè che fusse ordinata da loro Ill.me Sig.re ma publica con li suoi debiti ordini e regali, quali si usano nelle dispute publiche, nella quale si confrontassero i Theologi dell’una e dell’altra parte, per discutere con argomenti e ragioni vere e farne le differentie della Religione, come è statto fatto più volte in Germania, in Inghilterra, in Francia, e nella helvetia.

Di più che basta l’animo di fare che il detto Cardinale ricerchi tal cosa da nostri Ill.mi S.ri si come ho detto, io prometto fare ogni opera possibile con li miei compagni, e Hon.di fratelli Ministri della parola di Dio appresse de nostri Ill.mi S.ri che gli sia concessa la sua domanda, protestando dinanzi a Dio e a tutto il mondo che noi non ci ritireremo mai indietro da simile confronto, anzi che lo desideriamo sommamente si per sapere che è desiderato da molti dell’una e dell’altra Religione, come ancora per essere questa una delle vie principali da far venire molti in cognitione della verità.

Quanto poi al mio particolare ch’egli dice, ch’io vada a Como, o a Milano, per disputar là essendo prohibito a lui di disputare qui. Rispondo. Prima che questa sua fuga, perché si sto arrivando da ogni uno con quanta pena sia prohibito a qualunque persona si sia in Como, Milano, e in qualunque altro luogo la Chiesa Romana ha imperio assoluto di disputare delle cose della Religione, non meno di quello sia prohibito alli suoi seguaci di disputarne altrove.

Di poi la vocation mia e di miei compagni non è d’andar quà o là senza legittima vocatione  a predicare o disputare, ma solamente dove siamo chiamati con li modi prescritti dalla parola di Dio. Ma esso e li suoi simili andando qua e là, e potendo venire a disputare con noi in questi paesi liberi senza alcuno periculo, dove sono tutte  due le Religioni, e dove si dee cercar di disinganare quelli ch’essi affermano esser in errore, doveriano venire quà a simili confronti con noi, e non invitare noi là dove non habbiamo ne possiamo andare senza esser notati di poco prudenti.

Ma perché dice di dare sofficiente sicurta e 5 ostaggi per me e per quei compagni che fussero meco, per mostrargli quanto io mi confidi, non nella sofficientia mia, ma nella buona conscientia e nella buona causa nostra, se egli operera che in Como o in Milano si faccia una disputa che sia publica, e che io con due compagni siamo domandati alli nostri Ill.mi S.ri dando il salvo condotto come va dato, con le sicurta e hostaggi ch’egli dice: io prometto fin hora dinanzi a Dio e a tutto il mondo di andare, e disputare con ogni sincerita secondo la gratia, che Iddio mi dara: Con questo pero che tutti li atti e gli argomenti con le risposte loro siano messi in scritto, accioche possiamo render conto a li nostri Ill.mi S.ri e alle nostre Chiese di tutto quello sara seguito, e acciché ogni persona pia et d’intelletto possa vedere chi habbia torto o ragione.

E quando tal cosa non posso ottenere dalli suoi superiori da basso e che si contentino che senza fare altre andate ne di noi in là ne di essi in qua ( per mostrare che siamo pronti di venire in tutti modi a ogni legittimo confronto) si contentino dico che si disputi per via di scritture, le quali senza pericolo alcuno e senza spesa si possono andare inanzi e in dietro, io offerisco loro ancora questo mezzo. E così si potra cominciare dalle tre conclusioni presentate al detto frate Francesco, che trattano della autorita, sofficentia, e sola Regola della Santa Scrittura in tutte le cose appartenenti alla fede, alla vita, e al governo della Chiesa Christiana e vera Catholica e Apostolica.

Questa è la risposta e la protesta mia, la quale fo a voce dinanzi alle S.re V.te e la do in scritto, sotto scritta di mia propria mano, accioche la facciano intendere al detto frate Francesco e ne ricerchino la risposta. Di che ne supplico le SS. VV. Con ogni desiderio maggiore che per me farsi possa, pregando la Divina Maesta per ogni loro perpetua felicita.

In Sondrio alli X di marzo 1584

Scipione Calandrius Ministro della parola di Dio, in Sondrio, manu propria>>.[181]

Il Cardinale aveva capito che la situazione presente in Valtellina era legata più ad interessi temporali ed economici che non a quelli religiosi e si era reso conto che non poteva avere successo la sua visita se non fosse appoggiata dall’azione politica. Il suo desiderio non era quello che le due Valli fossero tolte ai Grigioni per darle alla Spagna, voleva che le condizioni dei Cattolici fossero meno dure. In una sua lettera il Cardinale Speciano non nasconde a Carlo che a Roma c’era preoccupazione per le conseguenze che si sarebbero riscontrate se la Spagna avesse conquistato la Valtellina; l’Arcivescovo rispondeva che non credeva che la Spagna mirasse a quella conquista, ma se mai accadesse egli sarebbe riuscito a convincere il Re ad un compromesso pacifico con i Grigioni, limitando l’azione solo a fini religiosi. Questo fa capire la consapevolezza del Borromeo di padroneggiare la situazione politica dello Stato di Milano e di poter rivolgere la politica monarchica spagnola ai fini dei suoi disegni di restaurazione spirituale e religiosa.[182]

L’Arcivescovo non perde tempo a far valere la propria autorità e in una lunga lettera al Governatore di Milano, Duca di Terranova, descrive la situazione di queste due Valli e quello che urge fare, data l’importanza del documento riteniamo opportuno trascrivere i passi più significativi: dopo avere con precedenti missive informato il Governatore della Visita in Mesolcina e spiegato i gravi disagi cui sono sottoposti i cattolici della Valtellina e Valchiavenna, tanto da chiedere aiuti, sarebbe una buona occasione fare di tutto sollevare questi popoli da tante oppressioni, con grande vantaggio della religione Cattolica.  <<Hora perché dalla lettera che mi ha scritto S. M.tà per questa causa, vedo quanto essa desidera ch’io continui gli officij che incominciai l’anno passato in beneficio spirituale di quei paesi, e promette d’aiutare e favorire dal suo canto in tutto quello che si conoscerà esser spediente, et a questo effetto mi dice S. M.tà ch’io posso andar comunicando con V. Ecc.za quello che occorre, in ch e lei possa aiutar questo servitio del Sig.re tanto importante>>. Continua parlando delle cause che hanno portato alla situazione attuale e che non si discostano molto da quelle della Mesolcina; i rimedi consistono nel visitare quei popoli, provvederli di validi religiosi, esortarli con ogni mezzo per farli tornare nel culto di Dio, impedire agli eretici <<…finché non si ha braccio ne forza di levar la libertà loro diabolica, di vivere nell’eresie, almeno procurando di andar disingannando molti sedutti, istruendo gli ignoranti, come sono per lo più quelle genti  […] Il che tutto si è veduto con effetto manifestamente nella Valle Mesolcina deve la visita solamente di quindici giorni, e sue conseguenze, essa Valle, con molta facilità, e suavità, si è riformata tutta, e rinovata spiritualmente>>. I provvedimenti che il Borromeo vorrebbe prendere sono gli stessi attuati in Mesolcina, <<Ne basterebbe l’impedir l’erettione di quella scuola eretica, che disegnano i Grigioni di piantare in Sondrio terra principale della Valtellina, perché sebbene questa e cosa d’imporetanza, per il danno che risulterebbe da essa scuola alla religione cat.ca in quei paesi, et altrove massimamente a questo Stato di Milano, per la vicinità sua, e Commercio, nondimeno restando tuttavia privi li cat.ci delli aiuti spirituali […] Vi sarebbe un’ altro capo da dimandarsi, cioe che nelle terre del sud.to paese loro non fossero più accettati e tollerati e fuggitivi d’Italia, S. M.tà può pretendere questo, anco per ragione di Stato, et di buona vicinanza…>>, infatti i Grigioni sostengono, continua il documento, di voler essere in buoni rapporti con il Re di Spagna, soprattutto per il commercio con l’Italia e lo Stato di Milano, ma è proprio con questi contatti che le eresie si propagano anche per mezzo di libri proibiti, quindi il Prelato suggerisce al Governatore un certo comportamento: <<Quanto al modo co’l qual s’ha procedere, per ottener da Grigioni, che diano alli catolici del paese loro queste ragionevoli sodisfationi V. Ecc.za vede che non è spediente trattar con loro, per i termini amorevoli, e civili, perché essendo eretica la maggior parte de capi, li quali hanno il governo in mano, conosciamo, ch’ogni libertà, che si dia a Cat.ci e contraria allo scopo e fine loro, che e d’allargar l’eresia et annichilar la relig.ne cat.ca. […] E’ necessario dunque trattar con loro risentitamente, dimandando che devano lasciar i paesi, e popoli loro e dei suoi sudditi, mass.e di Valtellina, e Valle di Chiavenna e contorni di qua da monti nella libertà di vicere cattolicamente, nel modo, che si e esplicato di sopra, con protestargli che altrimente S. M.tà non potrà di meno, che non porga ogni aiuto e soccorso a catt.ci, acciò possino havere la sudetta intera libertà>>. Certamente, prosegue il Cardinale, la richiesta del Re deve essere molto risoluta per ottenere lo scopo, un altro mezzo che può essere molto convincente <<…è la proibizione totale del commercio de popoli di quel paese, con questo stato di Milano, perché V. Ecc.za ha a sapere, ch’l governo loro è in mano d’alcuni capi li quali per esser la maggior parte eretici […] Et perché intendo che V. Ecc.za da pochi giorni in qua ha serrata la tratta de’ grani di questo Stato, crederei fosse espediente tenerla serrata particolarmente per essi Grigioni, et ch’ella, presentandosi occasione, si lasciasse intendere, che non la vuole concedere, per gli aggravij, et oppressioni fatte a cattolici del paese loro, mass.e della Valtellina e contorni, che sono di qua da Monti, affinche questo penetrasse alle orecchie de popoli di la da monti, li quali forse potrebbero far motivi tali, contra i sud.ti capi eretici del governo>>. Quasi alla fine della lettera, il futuro Santo mette da parte la diplomazia ed esplicitamente scrive che se il Re non dà rapidamente il suo aiuto, i Grigioni potrebbero allearsi con gli Svizzeri cattolici, alleanza che sarà discussa nella prossima Dieta, e allora tutti gli aiuti saranno vani, in quanto le loro forze saranno maggiori. Il Governatore, quindi, cominci subito con la proibizione della tratta dei grani e pubblichi la causa di tale divieto, ottenga quanto prima il permesso del Re per chiedere ai Grigioni di ristabilire la libertà per i cattolici, facendo leva sulla giustificazione di aiutare i cattolici,   avvertendoli di impedire il loro commercio e di prendere sotto la sua protezione gli stessi cattolici. <<…tenendo per fermo che in occasione di tanta importanza, quanto e l’aiuto di tante anime, l’aprir la porta di far progresso fin oltre di la dà monti, alla conversione di quei popoli; et la sicurezza di questo suo Stati di Milano non mancherà di dar subito a V. Ecc.za quelli ordini e risoluzioni, che sono necessarie, et che convengono alla pietà, e zelo Christiano, col quale S. M.tà ha sempre havuta particolar protettione dalla religione catolica>>.[183]  

In un documento, relativo al primo dicembre 1583, giorno della Dieta, Bernardino Morra così scrive: <<1583 il dì primo Decembre o sia pitacho de Signori Grigioni, Io Bernardino Morra comparvi doppo haver presentata la lettera (spazio vuoto) dissi alli Signori ivi congregati che potevano essere circa 70, che haveva havuto commissione da Monsignor Cardinale Santa Prassede mio padrone di venir qua a Coyra a dar conto a Monsignor Reverendissimo delle cose occorse e successe nella valle Mesolcina pertinenti al spiritual, come a pastore t ordinario, accioche potesse dare quelli ordini et far quelle provvigioni che fossero necessarie per aiuto dell’anime di quella Valle, et di qui ringratiar le signorie loro dell’amorevol offerta che haveano fatto a Sua Signoria Illustrissima di raccoglierlo et honorarlo volendo venir a transitar per il loro paese e dominio…>>,[184] quindi il Segretario dice di trovarsi li per salutare e ringraziare tutti a nome dell’Arcivescovo, il quale essendo indisposto non avrebbe potuto passare per quei luoghi e per questo porgeva le sue scuse. Fu detto al Morra di ritirarsi che subito gli avrebbero dato la risposta, poco dopo fu chiamato da Galles de Mont, Landrichter della Lega Grigia, che a nome di tutti disse che erano sempre stati favorevoli al Borromeo nel servirlo ed onerarlo quando a lui sembrerà opportuno “transitar” per il loro paesi non mancheranno di mostrare questa loro buona volontà. Morra risponde che al momento non ha disposizioni per programmare tale visita,  <<…ma ben credeva che Monsignor Illustrissimo non hebbe ne pensiero di transitar per quei paesi per far visita formale ne cercar giurisdittione, ma solo per far li suoi cercoli spirituali nelli luoghi cattolici per giovar a prossimi come ogn’anno è obligato di far e così mi partei con intentione che mi dessero risposta in scritto>>.[185] Il documento riporta la firma di due testimoni. La risposta la conosciamo.

In una lettera del 3 dicembre, scritta da Roma e indirizzata a Carlo Borromeo, il Cardinale Speciano si congratula per l’esito positivo della visita in Mesolcina, ma non riesce a credere come possa fare visite formali, non perché non le debba essere permesso, ma essendo il paese tanto povero e “malavezzo”, come fanno ad eseguire poi quello che viene ordinato, specialmente se ciò comporta delle spese, come è solito avvenire in queste visite formali della Chiesa. <<Et quanto alla correttione di costumi, spero che ella sarà obedita, massime se lo si lasciarà intendere di voler tornare , o mandar Monsignor Borsato, di cui non voglio lasciar di dar conto a Nostro Signore et della sodisfattione che egli da in queste visite, et poiché Vostra Signoria Illustrissima ha paura che il Vescovo di Coira dia più fastidio che aiuto, s’ella vorrà si farà officio qui che gli sia scritto caldamente in questa materia, perché è troppo gran Travaglio et insoportabile l’haver paura che il Vescovo a cui per officio proprio tocca d’aiutare, di sfavorisca simil impresa>>.[186]  Altre lettere del Cardinale Speciano ci informano di come il Papa e la Corte pontificia si rallegrino e preghino per l’esito della visita, che non deve essere abbandonata visto i frutti dati, le lettere sono datate 10, 17, 24, 31 dicembre 1583:[187] questo ci fa capire che Carlo ha tutto l’appoggio della Santa Sede e la rinuncia nel proseguire la visita non sembra essere bene accolta dal Cardinale Savello: <<Ho dato al Signor Cardinale Savello la scrittura de’ Grigioni, la quale ha letto non già con la solita consolazione, et veggo quanto saria stata più espediente se si fosse andato a dar il primo assalto al luogo più principale per ogni cosa potrò resultare a maggior servitio et honor di Dio, ma bisogna, credo io, risolversi d’andar una volta a Coira all’improviso, acciò si levi la commodità et tempo alli predicanti d’opporsi, così come hanno fatto questa volta che sono stati creduti perché quei populi simplici non sapevano il procedere di lei…>>.[188]

Carlo Borromeo tornò a Milano gli ultimi giorni di novembre, numerose furono le disposizioni ordinate per tutti gli affari ecclesiastici, che dovevano garantire i frutti della visita, che il futuro Santo scrive in una lettera inviata all’amico Cardinale Gabriele Paleotti, quando ancora si trovava a Bellinzona il 9 dicembre, in cui dice di avere trovato <<…le cose del culto divino sordide et inculte et come deserte trovato affatto: colpa et negligenza dei sacerdoti vecchi…>>,[189] i quali una parte erano di quei luoghi e non seguivano nessuna riforma, erano senza disciplina e conducevano una vita dissoluta; l’altra parte erano forestieri, vagabondi, fuggitivi ed apostati. Si può immaginare quanto gli abitanti di questi paesi siano bisognosi di aiuto spirituale visto gli esempi che hanno avuto da coloro che dovevano guidarli al bene. Il Cardinale, continua dicendo che ha lasciato nelle parrocchie solo quei sacerdoti che gli sembravano “tollerabili”, gli altri sono stati rimandati ai loro ordini religiosi oppure rimossi dalle loro cariche, assicurandosi che tutti siano aiutati, ad eccezione di <<…uno più importante et principale dei contorni sono stato sforzato dare in potere de braccio secolare, convenendo così per la gravezza et enormità de’ suoi delitti et per leggi de’ sacri canoni…>>.[190] Si tratta di Domenico Quattrino, Prevosto di San Vittore, di cui abbiamo parlato prima. Per quanto riguarda il popolo, l’Arcivescovo ha visto grande attitudine e desiderio di essere aiutato, quindi non sono mancate le pratiche religiose, seguite da gran numero di persone e con molta devozione, che hanno riportato molti alla religione cattolica in tutti i luoghi visitati, anche se qualcuno è rimasto “ostinato”. La lettera si conclude con un riferimento alle presunte streghe: <<Si è atteso anco a purgare la Valle dalle streghe la quale era quasi tutta infettata di questa peste con perditione di molte anime, tra le quali molte si sono ricevute misericordiosamentea penitenza colla abiurazione, alcuni dati alla corte secolare come impenitenti, con publica exetutione della Justitia>>.[191]

Borromeo prese anche provvedimenti per i matrimoni, poiché molte erano le unioni illegali, per l’esecuzione dei testamenti e contro l’usura. Data la situazione generale, anche l’istruzione pubblica si trovava in uno stato deplorevole, tanto che Carlo provvide immediatamente a far mandare due maestri da Milano a Roveredo; decretò la fondazione di un collegio in cui avrebbero insegnato quattro Padri Gesuiti, fu subito allestita la prima sede provvisoria in casa del Ministrale Giovan Battista Sacco, ossia Palazzo Mazzio, poi quella definitiva a Palazzo Trivulzio, che nel 1549 era stato riscattato dalla Valle che ne divenne proprietaria, nel 1552 fu venduto dalla Valle, per la somma di 1700 scudi d’oro, al Capitano Marchino aMarca, ma riscattato di nuovo dalla Valle in occasione dell’istituzione del collegio. Gli ultimi giorni di dicembre erano già arrivati due maestri Gesuiti e tutto era stato disposto per accogliere 10 o 12 alunni, infatti in una lettera datata 8 gennaio 1584 di Padre Carlo a Borromeo troviamo: <<…sappia, che già facciamo la schuola nella stanze del Palazzo, ove andremo ad abitare la settimana che verra, havendo fatto acconciare tre buone stanze, et la cucina; et mi risolvo di fare anco accomodare due altre camere, et una stanza da basso molto capace et apropriata per le scole, però che queste non sono bastevole per si copiosa moltitudine, che concorre; perciò sarà ben sollecitare la provvisione assegnata da Nostro Signore>>.[192]  Il 23 gennaio Padre Carlo suggerisce, in una sua lettera, al Cardinale di sollecitare il Pontefice per l’acquisto del palazzo prima che qualcuno metta i bastoni tra le ruote, evidentemente aveva reso adatte altre stanze perché gli alunni erano più di cento.[193]

Per l’apertura dell’Istituto occorreva il permesso delle Tre Leghe, ma i Protestanti, che erano in maggioranza, scatenarono la loro offensiva a causa della presenza dei Gesuiti, che si rifugiarono nella prima sede e il Collegio dovette essere chiuso nel 1585.[194]

Nicola aMarca, fratello del Ministrale Giovanni, va a Coira il 10 gennaio 1584 e trova grandi tumulti nella città a causa della visita de Cardinale nella Valle Mesolcina, dell’istituzione del Collegio di Gesuiti e soprattutto contro il Ministrale, considerato fautore della visita, motivo di tante conversioni: <<Et questo tumulto veneva dal Imbasciatore di Francia, che si dubitava che li nostri populi volessino fare lega con il Re Catholico di Spagna, et co’ il Duca (di Savoia) per respetto di Geneva, come si dubitava>>.[195]

Le ragioni del divieto posto a Borromeo dalla Dieta e di tutti gli altri disordini, non sono solo di origine religiosa ma anche politico. Non meno preoccupante è il tenore della lettera che Galles de Mont scrive all’Arcivescovo il 13 gennaio, dove dice che non ha potuto rispondere subito ad una sua lettera per la grande confusione creata dai ministri Luterani sempre per le stesse cause, e lui è accusato di avere sostenuto la venuta del Cardinale in Mesolcina, di essere cattolico e in buoni rapporti con Borromeo. Parla brevemente delle vessazioni che i Luterani fanno ai Cattolici, ma anche se dovesse costargli la vita rimarrà sempre Cattolico, conclude dicendo che vorrebbe scrivergli più spesso, ma <<…non havendo messi fiddati non ho sapetto che fare per li grandi rumori et tumulti che erano nelle bande nostre. […] Post Scriptum la Liga nostra Grisa è in grande confussione co’ le altre du Lighe et una parte della Liga nostra quali sono Luterani aiutano favorire le altre due Lighe per questa causa>>.[196]  Un’altra testimonianza della prepotenza degli scismatici e delle insurrezioni le troviamo in due lettere di Giovan Battista Sacco al Cardinale datate 9 e 21 gennaio 1584, in cui dice di essere stato detenuto per nove giorni in prigione ad Ilanz ed essere stato liberato dopo avere pagato mille Ducati di cauzione, che spera poter recuperare, tutto ciò ad opera de Protestanti e dell’Ambasciatore di Francia.[197] Tutto ciò è ribadito anche in un’altra lettera di Giovanni Marca del 30 gennaio.[198]

Tutto ciò si può riscontrare in un documento non datato, in cui viene fatta una breve relazione della Visita: il Cardinale era desiderato ed aspettato anche dagli eretici di là dei Monti, ma da Coira, dove egli sperava di poter fare opere più grandi di quelle fatte nella Valle Mesolcina, arrivò il divieto di effettuare una visita formale: <<Ma il Demonio commosse i predicanti heretici di tutto il paese alla religione catolica, et così convennero a Coira nel medesimo tempo della Dieta in gran numero facendo consiglio et prattiche non solo per impedir l’ondata del Signor Cardinale nelle sudette valli, ma per sovertir le cose fatte nella valle mesolcina con dir ch’era contra le legi, et confederationi delle tre Leghe l’haver chiamato un inquisitor d’heresie, et l’haver accettato il Signor Cardinale, et gl’aiuti suoi, e principalmente insistevano sopra l’essibitione ch’el popolo fece al Signor Cardinale d’una casa loro per habitat ione de Secolari figlioli suoi, et de’ Maestri ch’havevano da insegnar a essi figliuoli, con dir ch’era un castello, et fortezza, in modo che se bene in generale gli fosse buona disposizione et inclinazione a ricever per bene l’ondata del S. Car.le ne paesi loro nondimeno sedutti dalli predicanti cominciorno i Signori a mostrar mala sodisfattione delle opere del S.r Car.le nella valle Mesolcina, et quantoche l’Auditore mostrasse ad alcuni di loro come l’inquisitore non era stato mandato per causa d’heresie formali, ma solo per stregarie, com’era in effetto, et che la venuta, et ricevimento del Sig.r Car.le et le attioni sue non erano contra, anzi conformi alla lege loro, quali concedono ch’ogn’uno possa viver cattolicamente o nella setta Zuingliana o heretica come a ciscuno pare…>>.[199]

Il documento prosegue dicendo che la casa offerta per abitazione per i maestri dei figli non era né un castello né una fortezza, ma solo una casa che sarebbe servita a beneficio pubblico, tuttavia prevalse l’autorità dei “predicanti”, tanto più che l’Ambasciatore di Francia, il quale, in un primo tempo, si era mostrato favorevole verso il Cattolicesimo e con Bernardino Morra, fece poi marcia indietro ritirandosi da quei compiti che si era offerto di fare, anzi si schierò dalla parte dei “predicanti”, avvalorando le loro ragioni. Durante la Dieta furono eletti dei giudici particolari appartenenti a tutte tre le Leghe, <<ma in maggioranza heretici, quali havessero da ricognoscer le cose seguite per opera del S.r Car.le nella valle Mesolcina>>.[200]

Alla fine di novembre, come sappiamo, Borromeo tornò a Milano e alcuni “de’ principali” di questi luoghi furono citati a comparire davanti ai suddetti giudici delle Tre Leghe, vennero incarcerati con vari pretesti, ma furono poi rilasciati e prima di Natale rimandati alle loro case, uno di loro, “Hieronimo Borgo” di Bellinzona, fu condannato alla pena capitale per avere detto “alcune cose”, ma poi graziato, è probabile che Gerolamo Borgo,[201] sotto tortura, abbia rivelato i tentativi per procurarsi l’aiuto del Re di Spagna e del Ducato di Savoia a favore dei Cattolici: <<…forse perché dicesse ciò che s’à inteso haver deposto ch’el Padre Achille Gagliardo giesuita, qual era col S.r Car.le nella valle Mesolcina una volta ragunaste seco del trattato della nova lega con Savoia, il che afferma esso Padre non esser vero, onde si crede che gli heretici, quali hanno più in odio la congregatione d’essi Padri Giesuiti che tutte l’altre de religiosi, et claustrali habbino fatto gratia al sudetto borgo acciò dicesse questa bugia, della quale dissegnano valersene per far che tutto il paese universalmente abborrisca detta cong.ne, et a ciocché, sì come non permessero che continuasse il collegio d’essi Padri, che si cominciò nella terra de ponti della val Tellina, così non sia permesso quello che de’ medesimi Padri ha pensato il S.r Car.le di piantar nella val mesolcina si per insegnar a figlioli, come per gl’altri essercitij spirituali al qual già s’è dato principio con gran contento, et sodisfattione del popolo d’essa valle>>.[202]

L’Ambasciatore di Francia, il quale aveva cambiato opinione, come già detto, stette dalla parte degli scismatici durante il processo e rifiutò di dare al popolo e ad altri i soliti “stipendi” che era solito dare ogni anno, in tal modo si era reso odioso non solo agli uomini della Valle, ma anche ai capi della Lega Grigia, composta nella maggior parte da cattolici.[203]

Il documento prosegue spiegando le grandi vessazioni che subiscono i cattolici nei paesi dei Grigioni, soprattutto nella Valchiavenna e in Valtellina, in quanto suddite delle Tre Leghe, nonostante che per legge ognuno possa seguire la religione che vuole. (V. documento)

Da una lettera firmata Giovanni Battista Franciosi, Cancelliere di Locarno, del 12 febbraio, spedita da Varese, veniamo a conoscenza che: <<L’Ambasciator di Francia, havendo visto suscitar qualche rumori contra lui, non solo ha haiuto in Bada, ma etiandio ha richiesto alle tre Leghe littere di ben servito, dando motto di fare partenza, però le lettere gli sono state negate, anzi d’alchuni particulari è stata assalita la Casa con animo di trattarlo male, ma esso non ardì dargli orecchia ne risposta, anzi si serrò in casa. La Lega Grisa deve havere intimato guerra all’altre due leghe, non volendo cessare de suoi humori et capritij di volersi impedire di castigare li suoi per errori puossino haver fatto>>.[204] La missiva continua dicendo che stanno facendo una Dieta a Coira, dove sono aspettati i Messi del Cardinale, che tratteranno “i fatti” con molta diplomazia. Sempre dallo stesso mittente, ma in data 5 marzo 1584 e spedita da Mesocco, si può apprendere che alcuni “Jusdicenti”della Valle che avevano partecipato alla Dieta, indetta per la Lega Grigia, in Jant avevano sporto due querele verso i “Regenti” della Valle: la prima per avere accettato Borromeo in questi luoghi e <<…et seco haver fatto lega, et capitolatione segreta, seconda di haver accetatto et seguito la nuova riforma dil Calendario, con grave lamenta che ciò fuossi da essi fatto in pregiuditio della Lega lor et senza farne saputa…>>.[205]  Franciosi prosegue con una lista di sanzioni date: ai “Regenti” di Rogoredo novanta scudi, come a quelli di Mesocco, a quelli di Calanca venticinque, e a tutta la Valle centoventi scudi. Hanno poi condannato a pagare venticinque scudi il Ministrale Battista Sacco e altra spesa non ancora specificata nel momento in cui è stata scritta la lettera, al medico di Soazza, Giovanni Pietro Antognini fu comminata la sanzione di venti scudi e altra somma non ancora specificata. Ancora da definire restava la causa del Podestà di Mesocco. Venne anche stabilito per tutti i religiosi abitanti nella Valle l’obbligo di presentarsi al Vescovo di Coira, senza la cui licenza non avrebbero potuto officiare, tale ordine lascia stupito il suddetto clero, che, come scrive il mittente, spera che il Borromeo scriva al Vescovo di Coira per provvedere <<destramente a questo fatto>>. Tutto questo è stato riferito dal Ministrale Giovanni Carletto di Calanca. Non manca una lettera del Dottor Antognini, il quale oltre ribadire gli stessi fatti, aggiunge che a lui <<…hanno ordinato che dobbiamo vivere all’anno vecchio fino a tanto che le lighe non accettarano il nuovo anno […] hanno poi fatto instanza assai in voler sapere si havevamo fatto qualche Capitoli (alleanze)>>.[206] Tutto ciò è confermato anche da Giovanni Battista Sacco in una sua missiva del 12 marzo 1584, da dove apprendiamo anche che <<…la scolla de nostri padri Jesuitti sia suspesa sina atanto che ditti padri se presentino da Mons.r. nostro di Cuojra hovero se meglio piacerà a sua Ill.ma Sig.ria di scrivere a nostro Mons.r Episcopo voglia venir luij in persona a vesetar la diocesi sua per debito et confirmare questi nostri padri per non  descomodar quelli signori>>.[207] Seguono alcune lettere datate marzo 1584, in cui si parla delle attività pastorali e delle richieste di nuovi preti per le varie chiese della Valle.[208]

La partenza dei Gesuiti per Coira, per l’approvazione vescovile secondo le decisioni della Dieta, è del 2 aprile, padre Costanzo e padre Giovanni Battista si mettono in cammino con un cavallo avuto in prestito da padre Gentile Besozzo, mittente della lettera al Cardinale.[209] Arrivati in città <<Con più meraviglia in Coira ci guardavano et molti putti insieme cominciarono a fare romore con cridare il che mi causò un poco di paura pur mi raccomandavo al Sig.re, et sia qui eterno. Si conosse che sopra la porta della citta erano pitture de santi ma sono levate, resta solo da una banda parte della santa Judit con il capo d’Holoferne piaccia al Sig.re che per mezzo della beatissima Vergine si trochi il capo al Heresia, poi che al vedere quella citta è causa di piangere>>.[210] Svolte le loro incombenze, dubitando che la loro presenza in città fosse gradita, si rimisero subito sulla via di ritorno e durante una sosta in un’osteria videro un quadro raffigurante i Santi Pietro e Paolo, gli uomini presenti chiesero chi fossero i due alla guida, la quale disse che erano due gentiluomini milanesi, dando adito di pensare che si trovassero in questi luoghi per “il negozio di Spagna”, ma chiarita la loro identità, approfittarono dell’occasione del dipinto per parlare ai presenti <<…delli grandi travagli che hebbero li Apostoli per matenere la loro fedde massime di quello che a s. Paulo fu detto in Roma dalli Judei: De secta hac notum est nobis quia ubique et contradicitur et a questo proposito dissi loro quatro parole che vedevo le gustavano, mi pregorno stassi con loro quella sera mi scusai non potere ma quando ritornasse per quelle bande lo faria…>>.[211] Questo fatto fu di grande consolazione per i due Gesuiti, perché constatarono il bisogno di molte persone di parlare di fatti religiosi. La lettera fu spedita da Roveredo da padre Costanzo Gamma a Borromeo, il 14 aprile 1584, quindi al ritorno del viaggio a Coira.

Padre Carlo ragguaglia l’Arcivescovo con una sua lettera del 15 aprile 1584, in cui dice che dopo la visita la situazione è molto migliorata nei paesi della Bassa Mesolcina, dove gli abitanti <<…cominciano a detestare le usure, et altri peccati […] Io non potrei dire quanto tutti ci amano, et riveriscono… >>.[212] Non può dire le stesse cose Ambrogio Moresio, parroco di Mesocco, che nello stesso giorno scrive al Borromeo un resoconto sulle condizioni degli abitanti di Mesocco: i Luterani vanno ad ascoltare le prediche, ma <<…non vogliono accettar se non quel che lor quadra come fanno heretici>>, continuando con i loro riti e condannando i modi di amministrare i sacramenti della Chiesa cattolica. Nonostante ciò alcuni di loro hanno consegnato i libri luterani scritti in lingua tedesca. I Cattolici, per la maggior parte, si sono confessati e comunicati, ma sono ancora molti quelli che non hanno aderito a questi sacramenti, perché hanno promesso alla Lega di continuare a seguire il vecchio calendario che non coincide con la Pasqua di quello gregoriano,[213] ma, dice il mittente che sono tanto rozzi ed ignoranti che bisogna prenderli come sono. Ci sono ancora degli usurai pubblici molto ostinati. Sono state eliminate alcuni eccessi, come quello di suonare le campane per tutta la durata della Messa e le donne non piangono più in chiesa durante la celebrazione dell’ufficio per i defunti, tali lamentazioni impedivano di ascoltare le funzioni. Moresio continua dicendo che non viene più importunato come prima per seppellire i morti subito dopo il decesso. Sono stati celebrati alcuni matrimoni secondo la forma del Concilio tridentino. Sono stati fatti solo piccoli progressi, infatti il parroco inizia la sua lettera con queste parole:<<Di quel poco frutto che Nostro Signore si è degnato di operar in questa piccola vigna di Mesocco dopo la partita di V. S. Ill.ma…>>.[214] Il 23 maggio, padre Carlo, in una sua lettera al Cardinale, conferma le numerose difficoltà incontrate a Mesocco: <<Ma se Musoch si espugnerà con la divina et infallibil verità, gran vittoria si acquisterà; in quei giorni in cui sono stato, ho conosciuto che l’inimico lì tiene il suo castello, et si bene vi sono alcune anime timorate, nondimeno i contrapesi sono molto potenti>>.[215]

Nonostante la ferrea volontà del Borromeo di rigenerare completamente e secondo i decreti del Concilio di Trento l’istituzione della cura pastorale di questi luoghi della Valle Mesolcina, furono rieletti i sacerdoti che erano stati sospesi con il pretesto che erano originari della Valle, anche se al loro posto il Cardinale aveva mandato altri religiosi. Molte furono le dispute per l’accettazione del nuovo calendario e numerosi i documenti in cui se ne parla, il Prelato invia lettere a Galles de Mont, al Preposito di Coira, al Ministrale di Roveredo, alla Lega Grigia, ai Ministrali e al Consiglio della Valle Mesolcina, in cui dice che non si può tornare a quello vecchio, perché incorrerebbero nelle censure di cui nella Bolla pontificia, inoltre la non osservanza creerebbe grossi disguidi.[216] Alla fine ci fu un compromesso: sarebbe stato osservato il nuovo calendario solo per le feste liturgiche, ma, rispetto al resto del Cantone verrebbe seguito quello vecchio: <<Circha al calendario siamo stati travagliati pur troppo. Et fra noij dilla valle era gran confusione, hora Iddio laudatto habbiamo riduto e fatto a bono fine, che che nel scriver litere holtra li Monti scriver alla vechia, nel resto si sottoponiamo in tutto alla obedientia de nostri sacerdotti et fare le feste quando da lor ne sara comandatti>>.[217] Ma da una lettera del 25 agosto veniamo a conoscenza che il parroco di Santa Maria di Calanca ha celebrato la festa dell’Assunzione e tutte quelle precedeti secondo il vecchio calendario, andando conttro gli ordini ricevuti e suscitando “grande mormorazione” in tutta la Valle.[218]

I problemi da risolvere e le difficoltà erano ancora moltissime ed a tutto questo si aggiungeva la mancanza di possibilità economiche delle parrocchie, i morti seppellita dai civili per la scarsità del clero, specialmente quello “habile”, la confusione negli officianti e nel popolo causata dal contrastato passaggio al nuovo calendario, che essendo decretato dal Papa veniva rifiutato dai riformati e da alcuni preti cattolici per timore dei Signori delle Leghe, infine in molti luoghi della Valle stavano progredendo i casi di peste. Numerose sono le lettere del Cardinale in risposta a tante richieste e lamentele, il quale era, come sempre, molto informato dai suoi “uomini”, soprattutto da Sacco e da Giovanni Pietro Stoppani, nominato Vicario della Valle Mesolcina dal futuro Santo, di tutto ciò che accadeva in quei luoghi e dintorni.

Tra la miriade dei documenti esistenti riguardanti la Visita Apostolica del 1583, certamente il più importante è costituito dalla relazione inviata dal Cardinale Borromeo a Roma al Cardinale Paleotti, essa è divisa in tre parti: la prima è spedita da Roveredo il 15 di novembre; la seconda è la “Relatione sumaria del successo della visita della valle Mesolcina doppo l’altra relatione, del 29 novembre; la terza si tratta di un’aggiunta spedita successivamente da Bellinzona il 9 dicembre . Le tre relazioni sono state pubblicate frammentariamente da Paolo d’Alessandri nel 1909 e integralmente da Rinaldo Boldini nel 1962. Noi riporteremo i passi più significativi, rimandando per una lettura completa alle opere dei suddetti autori.

La prima relazione si apre con una spiegazione della Lega Grigia, che è divisa in otto parti, quattro delle quali cattoliche e quattro “eretiche”, la Visita Apostolica viene effettuata in una delle otto parti, divisa in due “governi principali”, Roveredo e Mesocco, i cui abitanti sono circa undicimila: <<…’l popolo minuto è comunemente catholico assai semplice, et atto alla obbedienza se non che corre senza ritegno alcuno à mangiar cibi prohibiti in ogni giorno, quando si trova in paesi eretici, ma alcuni massime de principali sono heretici ne è meraviglia, sì per il continuo commercio et collegatione c’hanno con gli altri Grigioni convicini eretici, come anco perché sono qui vissuti molti anni quei due famosi eretici il Trontano, et il Canessa, et vi morì anco gli anni passati quel Lodovico Besozzo… […] Hora essendosi fatti varij officij privati non si è trovata alcuna dispositione ad abiuratione nel foro esteriore ancorchè secreta, né pur via da far processi in questo genere fuori della cosa delle strghe sì perche queste genti sono assai sospettose di natura, et inimici ad ogni cosa che paia à loro di legame come per la convetione che hanno insieme le tre leghe, che ciascuno possa viver a suo modo, ne si incolpi alcuno per questo conto>>.[219] In questa prima relazione, quindi, Borromeo dà una valutazione abbastanza positiva della popolazione, che è ancora osservante e rispettoso, ma molto ignorante e confuso dal pessimo esempio del clero eretico e corrotto e da quello delle persone autorevoli.

Molto comuni e profondamente radicate erano le superstizioni e la credenza ai malefici, tanto che eresia e perversità sono accomunate, non dimentichiamo che Borromeo durante il suo primo Concilio Provinciale ordinava che maghi, malefici, incantatori e chiunque avesse fatto patto col Diavolo venisse severamente punito ed escluso dalla congregazione dei fedeli;[220] il Borsatto, che, come scrive il Possevino, aveva <<…prattica grandissima di queste materie di heretici e di streghe…>>,[221] accostando i termini “stregheria-eresia”, doveva essere veramente molto pratico della materia, poiché in poco tempo <<…ne sono in processo circa 40 e processate più di 100…>>,[222] un numero molto elevato se pensiamo che la popolazione globale di tutta la Valle Mesolcina ammontava a undicimila anime, addirittura come possiamo apprendere anche da una testimonianza di Monsignor Ottaviano Forerio, Arciprete di Milano, <<Il Si.r Cardinale fece abiurare in una sala circa 150 (involti in stregamenti)>>.[223]

Le streghe erano “governate” da apostati, fuggitivi, scomunicati e irregolari. In questo primo ragguaglio si parla anche della creazione di un collegio di padri Gesuiti a Roveredo, degli usurai e dei matrimoni irregolari, cioè con parentela proibita o per divorzio.

“La Relatione sumaria del successo…”, ossia la seconda, inizia parlando dell’altra parte della Mesolcina, il cui centro è Mesocco. Questa parte <<…si è trovata nelle cose della fede molto più infetta che l’altra>>, perché adiacente alla Valle del Reno, quindi più soggetta all’eresia calvinista, dilagata maggiormente nell’alta Valle confinante col nord: <<…è per la maggior parte heretica; è vero che pochi huomini sono a casa stando fuori per mercantia, le cui donne pure sono heretiche, et i figliuoli allevati nella medesima perditione>>. L’Arcivescovo parla dell’abbandono in cui versano le chiese, del culto che non viene officiato, a causa della condotta e del concubinato dei preti; della pratica dell’usura, ancora dei matrimoni irregolari e dei libri eretici da eliminare. Una causa molto importante per la diffusione delle eresie, continua il Borromeo, <<…è l’habitatione qui che n’hanno havuto quei tre nomati nell’altra relatione, cioè il Canossa, Trontano, et poi il Besozzo, et prima di loro tutti, un frate Aurelio Apostata dell’ordine franciscano Zocolante, che fù primo seminatore di questa Zizania, oltre che ve ne habitano adesso ancora alcuni arrabbiati, et ostinati grandemente nell’heresie, et spetialmente un Franceso Socino da trent’anni in qua, et doi, o tre altri del paese qua, tra i quali è il figlio del Trontano con le famiglie loro, et alcun’altre donne diaboliche à fatto, ma sopra tutti quel Socino è il sostegno qui di questa peste…>>.[224] Anche in questa relazione troviamo, come nella prima, la stessa forma degli esrcizi spirituali proposti alla popolazione che, anche in questi luoghi, ha partecipato numerosa e con grande interesse.

Il futuro Santo torna a Roveredo, dove si occupa della spedizione delle cause delle streghe, le cui sentenze sono state emesse parte il 28 e parte il 29 novembre <<…con le abiurationi di quelle, che si ricevono à penitenza, intorno alle quali abiurationi non s’è anchora fatta intiera risolutione del luogho, et modo più o meno publico, per la varietà de li humori, et fattioni, che sono ne gli huomini di questa valle […]di non condannare mai a morte alcuno se non confessa formalmente il delitto, quantunque fusse convitto per mille testimonij…>>.

La terza relazione comprende tutti i nomi e i cognomi delle presunte streghe e degli eretici: quattro (4) streghe impenitenti, condannate per la loro confessione e consegnate al braccio secolare; altre sei (6) sempre impenitenti e “convinte” seguirono la sorte delle prime quattro. Le presunte streghe bruciate vive furono, dunque, dieci e non undici o dodici come riportano vari articoli.  Il Prevosto Domenico Quattrino, di cui abbiamo parlato prima, fu condannato, oltre che per avere confessato di essere uno stregone e capo delle streghe, anche per altri delitti, quindi fu degradato dal Borromeo e dato al braccio secolare. [225]

Sedici (16) furono le persone, imputate e sospettate di “stregharie”, sottoposte a tortura furono assolte dopo l’abiura e le penitenze: <<…et alcune per altre ragioni hanno purgato gli indicij, sì che tutti questi sono stati assoluti>>.[226]

La lista dei sospettati, non sottoposti a tortura, ma dopo aver <<…fatta purgazione canonica sono stati assoluti, e liberati con penitenze salutari>> è composta da cinquantasei persone tra uomini e donne e, dai loro cognomi, sembrerebbero coinvolte intere famiglie.[227]

Quattordici (14) sono le presunte streghe confesse, ma penitenti, che hanno abiurato privatamente, ma alla presenza di molti testimoni, dopodiché sono state liberate con “penitenze salutari”, quindi non sottoposte a giudizio formale.[228]

Cinque donne e due uomini confessarono di essere streghe e stregoni, ma a causa dell’età ( non sappiamo se troppo giovani o troppo vecchie) furono liberate senza l’abiurazione, facendo solamente la penitenza.[229]

In contumacia, con il termine di sei mesi a comparire per essere ascoltati, in quanto sospettati, furono condannate cinque persone.[230]

Nel Ms. F 166 inf., a c. 524v. e 532v. troviamo un indice di eretici di vari luoghi della Valle Mesolcina e di coloro che si sono convertiti, tra questi figura anche Samuele Viscardi, detto Trontano, figlio dell’eretico Giovanni Antonio.[231] I convertiti sono diciotto più un certo Todesco che ha promesso di convertirsi; viene poi precisato che non sono descritti minuziosamente gli eretici di Mesocco, confinanti con la Valle del Reno, perché troppo numerosi, mentre la lista con i nomi delle streghe, <<…che sono venute à penitenza sono al numero de 22 in circa, ma si manderà col primo ordinario>>. Da evidenziare che molti degli eretici descritti appartengono a ceti elevati: <<gente di molto seguito, et auttorità per podestarile et officij di governo essercitati>>. Troviamo ministrali, podestà, cancellieri, notai con le loro mogli e figli.[232]

La terza relazione continua dicendo che sono cominciati i lavori per il Collegio, e prima di Natale potranno abitarci i padri Gesuiti per poi cominciare le lezioni agli allievi che sono già un centinaio circa. Per ciò che riguarda le streghe: <<Hanno a Roveredo fatto abbruggia vive le quattro streghe condennate per la confessione, l’altre che furono condennate come convinte, le hano fatto confessar tutte ecctt’una, sì che fra pocchi dì potrebero forse anco far la medesima essecutione contra esse, se bene alcuni dicano che una o doi otteranno gratia della vita dal popolo>>. Il Prevosto Quattrino ha confessato, sotto tortura, i suoi “enormi delitti”, <<…sì che dicevano di volerlo far morir anch’esso, vero è che sin’hora non hanno fatto essecutione alcuna>>. Esecuzione che, come abbiamo già detto, non fu mai fatta.

Il rapporto termina dicendo che alcuni sacerdoti e frati dal comportamento indegno e corrotto sono stati sollevati dal loro incarico e cacciati da questi luoghi.

Questa Visita Pastorale così travagliata ebbe anche grandi successi, poiché, essendo compito generale del Borromeo di ristabilire le condizioni religiose, morali e di purificare la Valle dalle streghe, in molti luoghi raggiunse i suoi scopi, ma certamente non ritenne completata la sua opera, non potendo proseguire la visita in Valtellina e Valchiavenna, dove il bisogno di risanare le condizioni religiose sarebbe stato altrettanto necessario.

Carlo Borromeo, personaggio scomodo, pieno di contraddizioni e tanto discusso, ma nonostante la sua presunta misoginia, aiutò moltissime ragazze povere, si prese cura sempre delle sorelle e combinò loro matrimoni con i partiti appartenenti alle famiglie più importanti d’Italia: i Colonna di Roma, i Medici di Firenze, i Della Rovere di Urbino, i Gonzaga di Mantova, dal folto epistolario trattenuto con esse si può capire l’attaccamento che avevano con il fratello, anche se Carlo preferiva il rapporto epistolare a quello personale. Molti lo hanno criticato per il suo modo di vivere, per quanto molto ricco improntò la sua vita all’insegna dell’estrema sobrietà: pane e acqua, vesti logore dall’usura; poche ore di sonno in un letto di tavole. Effettuava le Visite pastorali nella sua diocesi senza preoccuparsi della stagione, quando altri Vescovi aspettavano la stagione mite per non soffrire il caldo e il freddo.

Quando arrivò come Arcivescovo a Milano, in quella città retta dal Re di Spagna tramite Governatori assistiti dal Senato, che vivevano nel lusso sfrenato in palazzi fastosi, con numerosa servitù, ma dietro la pomposità delle feste, balli e spettacoli c’era l’inizio della decadenza di Milano e della Lombardia, depredate continuamente dal fisco spagnolo e la mentalità di questo Governo arretrato, rimasto agli ideali cavallereschi medievali, sfrontato, che spadroneggiava in casa d’altri, come ben ce lo descrive Manzoni all’inizio del suo romanzo “I Promessi Sposi”, dando un’idea molto chiara della Lombardia e di Milano sotto l’egemonia ispanica, gravemente decaduta sia nella sfera morale che religiosa: da più di un secolo i suoi predecessori non risiedevano nella città, questa è la Milano che trovò Borromeo, la cui severità di vita non poteva andare bene a molti abituati a tali costumi, per questo ci furono scontri tra il Prelato e il Governo, che certamente gli resero la vita tormentata e burrascosa sia dal punto di vista ecclesiastico sia da quello civile. Malgrado le controversie giurisdizionali, molte riforme caroline furono attuate, trasformando profondamente la struttura della sua Diocesi, che risultò infine composta da 6 regioni e 65 pievi, in cui vi erano 2220 chiese secolari, 46 collegiate, 753 parrocchiali, 783 benefici semplici, 631 oratori, 7 collegi per chierici, 136 conventi di vari ordini religiosi, 740 scuole di dottrina cristiana, 886 confraternite, 24 congregazioni e 40 istituti di assistenza.[233]

Tra tanti casi di esecuzioni di streghe, quello della Mesolcina è molto e bene documentato: bisogna ricordare che sia la letteratura sia la scienza guiridica del secolo XVI presentava la stregoneria come una realtà. Le leggi della maggior parte dei Paesi europei, il codice criminale “Nemesis carolina”, emanato da Carlo V nel 1532, gli statuti civili della Mesolcina stabilivano il rogo per i condannati per stregoneria e tra i centocinquanta circa accusati di tale reato solo dieci furono le persone condannate, infatti il Borromeo in una lettera al Vescovo di Bergamo, in cui parla dei successi avuti durante la visita in Mesolcina, così si esprime: <<Si è anco atteso a purgare con essatta diligenza il piu che si è potuto la Valle dalle peste delle strghe, che possedeva tante anime di quel paese>>.[234]  In tale contesto storico, Carlo Borromeo, come Arcivescovo della Diocesi più importante del mondo cristiano e Delegato pontificio, soprattutto indefesso paladino della Chiesa di Roma e tenace fautore della Controriforma, doveva rispondere alle attese della società civile, che pretendeva una condotta perentoria per coloro che diramavano le eresie, le superstizioni e la stregoneria, ma tutto questo non significa che fosse un uomo senza difetti.

Non possiamo certo non considerare che Carlo era anche un uomo del suo tempo, e ricoprendo una carica così alta non possiamo biasimarlo se il suo sogno era quello di riportare la Chiesa ai valori e alla moralità primitiva, attuando i decreti emanati durante il Concilio di Trento, avviando un grande lavoro di riforma della sua Diocesi, contro l’abusivismo, la corruzione e l’arbitrio di coloro che occupavano alte cariche, non sempre ci riuscì, ma conseguì molte “vittorie” e creò numerose e valide istituzioni in gran parte con spese personali.

Durante la peste del 1576, vista come un castigo divino necessario per liberare Milano dal peccato, si prodigò sfidando il contagio e aiutando la popolazione; cercò di arginare l’espansione della Riforma con sistemi di sorveglianza sui forestieri provenienti dal Nord, sempre a tale scopo esercitò un forte controllo sulla stampa, scomunicò uomini importanti e come tutti i grandi uomini fu molto amato e molto odiato.

La sua credenza nella stregoneria è veramente sconcertante e condivisa da molti uomini anche di elevata cultura e altolocati del suo tempo, ma bisogna anche considerare che, all’epoca, non erano ben chiari i limiti tra magia ed eresia, anche se questo non scusa la morte sul rogo di varie persone, le cui condanne, tuttavia, secondo le approfondite ricerche fatte da Rinaldo Boldini risulta che in nessun resoconto delle visite pastorali effettuate dal Borromeo, al di fuori della Mesolcina, vengano indicati processi di stregoneria istruiti dal Cardinale: <<Si fa colpa da taluno al Borromeo di aver crudelmente fatto colpire gente incolpata di stregoneria, e di aver perseguitato sotto il pretesto di stregoneria e fatto mandar al rogo gente colpevole solo di persistere nel protestantesimo. Nessuno ne ha però finora addotto la prova. Io ho consultato un abbondante materiale, letti parecchi dei processi di stregoneria svoltisi a quell’epoca a Roveredo, ho fatto con viva curiosità scientifica le maggiori possibili ricerche ma non ho trovato neppure indizi sicuri  carico di lui per una persecuzione religiosa di questo genere>>.[235] L’inquisitore Borsatto, che, come detto, fu in Mesolcina circa un mese prima del Prelato, processò oltre cento persone sospette di stregoneria, tra queste anche il Prevosto Domenico Quattrino, di cui quaranta furono riconosciute colpevoli di questo reato, ma molte di loro si pentirono pubblicamente e quindi furono graziate. Nel 1909, Paolo d’Alessandri scrive che tali condanne si ridussero a circa una dozzina di persone. In ogni caso, nel diritto del Grigione, spettava al braccio secolare, costituito da giudici laici vallerani, il diritto di emettere una sentenza di morte, di eseguirla oppure di graziare il condannato e tale diritto non ammetteva la condanna a morte se non c’era anche il riconoscimento del reato, senza pentimento, dell’imputato. Come nel resto dell’Europa, anche in Svizzera i processi per stregoneria aumentarono intensamente sia nei Cantoni riformati sia in quelli cattolici dopo la metà del XVI secolo per diminuire solo verso la metà del secolo successivo, anche se nei Grigioni moltissimi processi documentati risalgono alla seconda metà del secolo XVII, (dal 1580 al 1655 si contano almeno 1000 processi), l’elevato numero fu probabilmente causato anche ad una forte frammentazione dell’amministrazione dell’alta giustizia.

Tipico dei processi per stregoneria in questi luoghi fu il poco rispetto per le norme dell’ordinamento del Tribunale Criminale Imperiale, emanato da Carlo V durante la Dieta di Augusta del 1530 e entrato in vigore nel 1532: la “Constitutio criminalis Carolina” aveva la funzione di unificare il diritto nell’Impero e impedire l’arbitrio in abito di giustizia penale; infatti, da molto tempo, era sufficiente una sola testimonianza attendibile per la condanna per malificio: in Svizzera, prima di procedere alla tortura non veniva rispettata la prassi di inviare il fascicolo ad un’autorità preposta, come disposto nella “Constitutio criminalis Carolina”, secondo cui solo il maleficio era condannabile. Molti processi per stregoneria erano originati da conflitti tra vicini e parenti, i capri espiatori erano spesso persone con difetti fisici, donne vedove e sole o che si comportavano in modo non conforme, i periodi di carestie vedevano un aumento di queste accuse e questo spiega, anche se in parte, perché questi processi abbero il loro culmine negli anni che vanno tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, periodo noto per gravi problemi di ordine sociale, economico, politico e religioso.

Lo stretto legame tra eresia e stregoneria fu anche il retaggio di un’ortodossia confessionale, che spesso cercava delle certezze nella demonizzazione di credenze non autorizzate. La diminuzione e poi la cessazione di questi processi alla fine del secolo XVII, sembra sia stata determinata anche dalla stabilizzazione delle Chiese confessionali, che rafforzarono la loro presenza tramite la disciplina ecclesiastica, il catechismo e le visite, molto importante fu il potere della filosofia razionalista sulla dogmatica del diritto, particolarmente sulla produzione delle prove giudiziarie.[236]

Alla fine del secolo XVI, la morte di dieci donne presunte streghe non fece grande scalpore presso l’opinione pubblica, anche perché non erano state uccise, ma purificate.

Questa non fu l’unica Visita pastorale che il Prelato fece in questi luoghi, poiché durante il suo episcopato andò personalmente per ben cinque volte nelle Tre Valli svizzere, raggiungendo a dorso di mulo o a piedi le zone di alta montagna e le parrocchie più isolate.

L’attività pastorale era ritenuta dall’Arcivescovo fondamentale per capire le necessità dei fedeli e i mezzi con cui attuare i suoi disegni di restaurazione religiosa, egli percepiva come un suo profondo dovere di ecclesiastico portare uno stimolo vitale nella logora impostazione della Chiesa di Roma con i decreti del Concilio di Trento, e, allo stesso tempo, attuare una barriera efficace al dilagare delle dottrine riformate, che dal nord si diffondevano nella sua Diocesi e in tutta l’Italia.

Ma non può non essere ricordato come il motivo fondamentale dell’abbandono della fede cattolica venga, dal Borromeo, fatto ricadere sui sacerdoti, sulla loro negligenza della predicazione evangelica, sulla loro vita peccaminosa e l’apostasia come conseguenza estrema del non bene operare. Per L’Arcivesco Borromeo: <<Se i sacerdoti saranno santi, similmente sarà santo il popolo>>.

Nella relazione finale della causa di canonizzazione di Carlo Borromeo, un intero capitolo viene dedicato all’impegno che il futuro santo ha impiegato nella difesa della fede e nella lotta contro le eresie: la Congregazione Romana dei Riti doveva dimostrare che il Cardinale aveva ottemperato in modo esemplare a  quello che il Concilio tridentino indicava come primo dovere del vescovo, ossia la difesa della fede.

L’azione dell’Arcivescovo di Milano nella repressione dell’eresia nella sua Diocesi e dintorni aveva assunto notevole importanza, tanto che in un’ode del 1610, scritta da Agrippa d’Aubigné, calvinista francese, troviamo scritto in modo molto sarcastico: <<S’il falloit par la perfidie/ Faire la guerre à l’hérésie/ Dispenser d’un serment formé/ Et faire tomber dans un piège/ Ceux qui n’adoroient pas le Sainct-Siège/ On employait Sainct Boromé.[237] (Se occorreva, con la perfidia/ Fare la guerra all’eresia/ Dispensare da un giuramento pronunciato/ E fare cadere nella trappola/ Coloro che non adoravano la Santa Sede/ Si faceva ricorso a San Borromeo). Questi versi sferzanti, ma molto emblematici, ci fanno capire la centralità della lotta contro l’eresia nel programma di Carlo dal 1566, anno del suo trasferimento definitivo a Milano, fino alla sua morte, d’altra parte fin dagli inizi del suo episcopato aveva chiaramente palesato di fare dei decreti del Concilio di Trento la base tenace( coerente perseverante pertinace) della sua azione pastorale e se la difesa della fede rappresentava per lui il primo dovere di un vescovo, certamente si rese conto dei pericoli ai quali era esposta la Diocesi di Milano, geograficamente inserita in una regione a stretto contatto con i territori protestanti e che ne aveva subito presto le conseguenze, tanto che già nel 1563 Filippo II aveva chiesto al Pontefice (Poi IV) di introdurre l’Inquisizione spagnola nello Stato di Milano. Progetto fallito prima di entrare in vigore a causa del malcontento del Collegio cardinalizio e, soprattutto, delle proteste dei cittadini milanesi, intimoriti che fosse reso operante un tribunale con procedure molto più severe di quelle vigenti, comunque quando nel 1566 circolava la voce che il Re di Spagna tentasse di nuovo di far introdurre la suddetta Inquisizione, Borromeo espresse la sua decisa opposizione.

Prima di stabilirsi definitivamente a Milano, il Cardinale, nel settembre 1565, presiedette il primo Concilio provinciale, facendo pronunciare a tutti i presenti la professione di fede tridentina, ossia quella norma che Pio IV aveva resa obbligatoria già nel 1564, per tutti coloro che erano investiti di benefici ecclesiastici, consistente in una solenne dichiarazione di adesione alle fondamentali verità della fede cattolica, all’accettazione dei provvedimenti tridentini e delle condanne contro le eresie in essi enunciate, tutto ciò fu ribadito nel III Concilio provinciale del 1573 e in quello del 1579 (V Concilio), in cui Borromeo stabilì che la professione di fede fosse obbligatoria per il clero secolare e regolare, i cui appartenenti avevano licenza di confessare o predicare, ma anche ai laici che, per la loro professione, avessero ascendenza particolare su altri, quindi l’obbligo, che già valeva per i docenti, fu diffuso anche per i medici e nel 1582, durante il VI Concilio provinciale tale obbligo fu esteso anche ai librai e agli stampatori.

Teoricamente l’obbligo della professione di fede rappresentava una garanzia all’ortodossia, con la conseguenza di una serie di rigorosi controlli, di un sistema di sorveglianza e di una rete di informazioni molto stretto, che sconvolse coloro che erano vissuti nell’incuria e nella negligenza dei decenni precedenti. Non bastava esercitare una stretta sorveglianza sulla popolazione milanese e in quella delle diocesi vicine per prevenire l’eresia, ma occorrevano anche misure di controllo sugli stranieri provenienti dai paesi protestanti, data l’intensità dei traffici commerciali con la Svizzera, i Grigioni  e la Germania. Nel 1573, durante il III Concilio provinciale, Borromeo aveva emanato disposizioni per cui chi doveva andare in paesi protestanti, doveva chiedere prima una permesso al parroco o al delegato diocesano se si fosse trattenuto per piú di un anno, gli interessati dovevano essere muniti di un attestato, firmato dal proprio vescovo o da chi ne faceva le veci, in cui era dichiarato che l’intestatario era e viveva da buon cattolico e fin dalla partenza veniva strettamente sorvegliato, in tal modo il Borromeo aveva precorso le norme emanate poi nel 1580 da Gregorio XIII. Tutte queste misure cautelative erano però insufficienti, in quanto non potevano controllare coloro che arrivavano a Milano provenienti da paesi che avevano aderito alle nuove dottrine, poichè i trattati commerciali conclusi tra lo Stato di Milano, la Svizzera e le Leghe Grigie permettevano anche ai mercanti non cattolici di praticare i loro scambi nel Ducato milanese e il fatto che tali accordi fossero garantiti da istituzioni laiche, limitavano il potere ecclesiastico, che non poteva impedire ai mercanti di passare al di qua delle Alpi. La sorveglianza dei forestieri era quindi demandata ai parroci, i quali imponevano ai cattolici il divieto di ogni rapporto con tali persone. Le pressioni del Cardinale sulle autorità laiche per ridurre la circolazione degli eretici, non sempre veniva accolta, anche perché i vari governatori, oltre non avere sempre buoni rapporti con il Borromeo, erano combattuti tra la politica controriformistica di Filippo II e la tutela degli interessi commerciali e dei rapporti di vicinato con la Svizzera ed i Grigioni. Carlo, con l’aiuto della Santa Sede, riuscì ad ottenere che tutti quelli che a causa di una condanna per eresia erano fuggiti dallo Stato, fossero impediti (interdetti) della libertà di commercio.

La frequenza degli interventi legislativi evidenziano la priorità che il Cardinale assegnava alla lotta contro l’eresia nel suo programma episcopale: l’azione preventiva doveva essere finalizzata ad una azione repressiva che si sarebbe concretizzata in un’eventuale condanna di coloro che fossero risultati rei dell’accusa di eresia, quindi l’attività dei vescovi non poteva limitarsi all’emanazione di norme preventive contro l’infiltrazione e diffusione dell’eresia. Nella Diocesi di Milano, come anche in altre diocesi italiane, i tribunali competenti per i reati in materia di fede erano il Tribunale vescovile e quello dell’inquisitore, i cui rapporti erano regolati da una Costituzione papale emanata nel 1317 ed ancora in vigore ai tempi del Borromeo, la quale stabiliva che sia il vescovo che l’inquisitore potevano istruire le cause indipendentemente l’uno dall’altro, mentre non potevano procedere nelle fasi principali del processo separatamente, soprattutto nel momento della sentenza, che doveva essere pronunciata da ognuno dei due giudici obbligatoriamente presenti e con il voto favorevole di ambo le parti.

Dopo la prima istituzione della Congregazione dell’Inquisizione del 1542, il papato aveva iniziato ad esercitare un’azione sempre più capillare e con ampie facoltà sull’attività svolta dal Santo Uffizio e dai tribunali episcopali, segnando in tal modo l’inizio di un processo di accentramento dei poteri nella lotta contro l’eresia.

Borromeo tiene una stretta corrispondenza con il Cardinale Scipione Rebiba[238] prima e con il Cardinale Giacomo Savelli,[239] dopo la morte del primo, entrambi Grandi Inquisitori della Congregazione della Romana e Universale inquisizione, e, da questo scambio epistolare possiamo evincere che la lotta contro l’eresia si svolgesse ormai sotto l’attenta vigilanza di Roma, infatti la Congregazione non si limitava a spedire a Carlo istruzioni e direttive per i processi, ma ne verificava anche l’esito facendosi mandare le copie delle sentenze e spesso anche l’intero fascicolo processuale. Nonostante ciò il Cardinale di Milano, nel 1582, quando fu nominato Visitatore Apostolico in Svizzera e nei Grigioni, ottenne facoltà amplissime, come assolvere e riconciliare eretici, avvalersi della collaborazione di religiosi senza chiedere permessi ai loro superiori e poter subdelegare tali facoltà. Tutto questo era dovuto all’alta considerazione che la Santa Sede aveva nei confronti di Carlo Borromeo sia sotto il pontificato di Pio V che sotto quello di Gregorio XIII, affidandogli incarichi e missioni molto importanti anche fuori dello Stato di Milano, tutto questo non implicava un’esautorazione del Tribunale dell’Inquisizione milanese, anzi, sembra, dalla scarsissima documentazione rimasta, che i due tribunali operassero osservando le proprie regolamentazioni, anche se l’Arcivescovo aveva un certo controllo sulle attività del Santo Uffizio in materia di repressione anticlericale, e, spesso ci fu reciproca collaborazione ad eccezione di alcuni occasionali conflitti.

Il Borromeo conosceva la situazione della Valle Mesolcina ed era cosciente che la lotta contro l’eresia che si era propagata in quei luoghi non poteva essere combattuta come chiara (autentica)repressione, quindi cercò di darle un’impronta missionaria che sfociò in un numero considerevole di conversioni, di cui, oltre al fervore del Cardinale e dei suoi collaboratori, non fu estranea l’attività dei predicatori Francesco Panigarola e Achille Gagliardi, riuscendo a mantenere nella maggior parte del popolo della Valle la fede cattolica. Il futuro Santo si preoccupò molto anche per ottenere il supporto economico dalla Santa Sede per il mantenimento del Collegio fondato a Roveredo, e, dopo il divieto di recarsi in Valtellina, si avvalse anche delle autorità civili milanesi per ottenere una più ampia libertà di culto per i cattolici della Valtellina e Valchiavenna.

Abbiamo visto che la richiesta di procedere contro le streghe e stregoni della Valle era stata fatta dalle autorità civili della Mesolcina, richiesta che il Cardinale accolse mandando l’inquisitore Borsatto a Roveredo prima ancora della propria partenza verso questi luoghi e in una lettera, già menzionata, al Cardinale Savello del 18 agosto 1583 troviamo: <<Intanto mando a V. S. Ill.ma la copia d’una lettera scrittami dal Ministrale di Roveredo, principal persona della Lega Grigia, dove ella vedrà la richiesta che quelle genti mi fanno d’un inquisitore. La persona che si dimande, è necessario che sia molto circospetta e moderata, perché quelle genti procedono terribilmente alla cieca contro ogni persona, di cui sospettino un poco, in questo particolare, per l’estremo odio ch’eglino hanno alle stregherie>>.[240] Sembra, quindi, che il Borromeo abbia agito di conseguenza, convinto che la giustizia ecclesiastica sarebbe stata più moderata di quella secolare.

La prevenzione e la repressione delle eresie rapprentarono per Borromeo un obiettivo molto importante nella sua attività episcopale, e, se, in molti casi, riuscì nel suo intento di difensore della fede cattolica, fu dovuto anche ad una più approfondita preparazione e responsabilizzazione del clero, attraverso varie iniziative mirate a favorire la rinascita della vita religiosa.[241]

 

 

 

 

 

 

 

[1] Cfr. A. Prosperi-P.Viola, Corso di Storia.  Dal secolo XIV al secolo XVII, Einaudi Scuola, Milano 2004, p. 266 e segg.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Cfr. D. Maselli, Alla ricerca delle radici della Riforma Protestante e della Riforma Cattolica, Firenze 1994, p. 18 e segg.

[5] D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit., p. 22.

[6] Ibid.

[7] Cfr. A. Agnoletto, Storia del Cristianesimo, Milano 1978, pp. 257-259; Si veda anche A. Prosperi,I tribunali della Coscienza: inquisitori, confessori, missionari, Einaudi 1996)

 

[8] Cfr. L. Fabbri, La Visita Apostolica di Monsignor Giovan Battista Castelli nella Diocesi di Volterra nel 1576, in “Tra Riforma e Controriforma. Note biografiche e Storiche a cura di D. Maselli, Firenze 1996, p. 143 e segg.

 

[9] In questo brevissimo e non esaustivo escursus della storia del secolo XVI, abbiamo evidenziato solo i fatti più rilevanti e finalizzati al presente articolo

[10]A. Agnoletto, Storia del Cristianesiomo cit…, pp. 269-272.

[11] L’Ordine degli Umiliati nacque nel XII secolo come aggregazione di laici desiderosi di vivere in comunità simile a quella apostolica e seguendo in modo rigoroso i dettami del Vangelo, in contrasto con i costumi rilassati e con la ricchezza ostentata del clero, nel 1201 furono riconosciuti ufficialmente da papa Innocenzo II i tre ordini composti da religiosi appartenenti all’”Ordo canonicus”, da laici che vivevano in comunità con “formula et regula vitae” e da laici che avevano scelto la vita coniugale. La loro diffusione in Lombardia fu capillare anche grazie alle autorità ecclesiastiche milanesi che ebbero un atteggiamento favorevole nei loro confronti e già nel 1216 erano circa 150 le comunità regolari e considerevole il numero dei laici rimasti con le proprie famiglie impegnati in attività commerciali ed artigianali, occupandosi principalmente della lavorazione della lana e creando fiorenti manifatture tessili, che permettevano ingenti disponibilità economiche che davano adito ad attività di prestito o di assistenza economica esercitata anche dalla casa di Brera, la più importante di Milano. La crisi, iniziata già alla fine del XIII secolo a causa dell’influenza politica del governo signorile prima e di quello ducale dopo, ma anche ai forti contrasti nati in seno dell’Ordine, toccò il culmine dopo il Concilio tridentino, e quando Carlo Borromeo, nominato protettore dell’Ordine nel 1560 da Pio IV, cercò con polso di riportare gli Umiliati all’osservanza delle norme tridentine, sospettati di posizioni eretiche, soprattutto di calvinismo, nacque una grande opposizione all’interno dello stesso Ordine, che portò al celeberrimo attentato alla vita di Borromeo da parte di Gerolamo Donato detto il Farina. Gli Umiliati vennero soppressi nel 1571 con una bolla di Pio V, il Farina e i due Prevosti complici Girolamo di Cristoforo e Lorenzo da Caravaggio, rei confessi sotto tortura, condannati a morte.. Cfr. M.P.Alberzoni, Gli Umiliati e San Bernardo, in “Storia Illustrata di Milano”, a cura di F. Della Peruta, vol. II, Milano 1992, p521 e segg.; M. Lunari, Appunti per una storiografia sugli Umiliati tra Quattro e Cinquecento, in “Sulle tracce degli Umiliati in Lombardia”, a cura di M.P. Alberoni, A. Lucioni, Milano 1997, p. 45 e segg.

[12] Cfr. D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit., p. 26 e segg.

[13] Le notizie, non certamente esaustive, sulla vita di San Carlo Borromeo, sono state tratte da: C. Bescapè, De vita et rebus gestis Caroli S. Rom. Ecclesiae Cardinalis tit. S. Praxsedis et archiepiscopi Mediolani, Ingolstadt 1592, ed. italiana con testo latino a fronte, a cura di Angelo Majo, traduzione di Giuseppe Fassi, note di Enrico Cattaneo, Nuove Edizioni Duomo, Veneranda Fabbrica del Duomo, Milano 1983; G. P. Giussani, Vita di san Carlo Borromeo, Roma 1610, ristampa Firenze 1858; G. B. Possevino, Discorsi della vita et attioni di Carlo Borromeo, Roma MDLXXXXI; C. Orsenigo, Vita di san Carlo Borromeo, vol. I e II, Milano 1929. Si veda anche D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit.

[14] E. Rotelli, La figura e l’opera di S. Carlo Borromeo nel carteggio degli ambasciatori estensi, in “Studia Borromaica, n. 4, Accademia San Carlo, Milano 1990, pp. 133-145.

[15] D. Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., pp. 30-32.

[16] Carlo organizzò I matrimoni delle sue sorelle: Camilla con Cesare Gonzaga, Geronima con Fabrizio Gesualdo principe di Venosa, Anna con Fabrizio Colonna, la sorellastra Ortensia con Annibale Von Hohenems. La sorella Isabella divenne suora con il nome di Corona.

[17]Cfr. Ibid.; Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., p. 30-31; http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-carlo-borromeo_%28Dizionario-Biografico%29/

[18] Ibid.

[19] Ibid., p. 32.

[20] L. Pastor, Storia dei Papi della fine del Medio Evo, Roma 1950, Vol. VII, pp.91-92. Nel 1524 il Cardinale Gian Pietro Carafa, Vescovo di Chieti, creò, con Gaetano da Thiene, una comunità religiosa di chierici regolari chiamati teatini dal nome latino di Chieti: Theate; si trattava di preti che vivevano in comunità e in povertà, preparandosi rigorosamente alla cura delle anime, essi volevano essere d’esempio al clero ignorante e detentore di benefici ecclesiastici che non dimoravano nelle proprie sedi. Cfr. A. Prosperi-P.Viola, Corso di Storia.  Dal secolo XIV al secolo XVII, Einaudi Scuola, Milano 2004, p. 291. L’Ordine religioso dei Teatini era noto anche per le sue tendenze religiose e mistiche.

[21] H. Jedin, Carlo Borromeo, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1971, p. 14. Jedin vede il Borromeo come il modello del Vescovo post-tridentino, altri studiosi come l’incarnazione dello “Stimulus pastorum” ed in tal modo assunto come modello di vita pastorale.

[22] Niccolò Ormaneto nacque a Verona nel 1515, fin da giovanissimo frequentò il circolo del Vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, nel 1538 si addottorò in “utroque iure” presso lo Studio di Padova. Il Vescovo Giberti lo mandò a Roma nel 1541 per presentare al papa Paolo III le “Costitutiones” della diocesi e nella città eterna fece parte del circolo del cardinale Reginald Pole, nello stesso anno fu nominato dal Giberti Arciprete di Bovolone. Nel 1549 partecipò al conclave del Cardinale Ercole Gonzaga e nel 1553 fu tra gli assistenti del Cardinale Pole e designato legato in Inghilterra da Giulio III, dove svolse importanti missioni. Dopo la morte del Cardinale Pole tornò nella sua parrocchia di Bovolone, ma nel 1563 fu assistente del Cardinale Bernardo Navagero al Concilio di Trento, l’anno successivo Borromeo lo nominò suo vicario nell’Arcivescovado di Milano. Nel 1566 papa Pio V lo chiamò a Roma e nel 1570 lo nominò Vescovo di Padova. Dal 1572 al 1577 fu Nunzio in Spagna, morì a Madrid (1577). Cfr. C. Marcora, Niccolò Ormaneto, vicario di San Carlo (giugno 1564-1566), in “Memorie storiche della diocesi di Milano, VIII (1961), pp. 209-590.

[23] Cfr. F. Buzzi, Religione, cultura e scienza a Milano. Secoli XVI-XVIII, Milano 2016, 317 e segg.

[24]Oltre alle biografie precedentemente citate Cfr. D. Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., p. 34.; http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-carlo-borromeo%28Dizionario-Biografico%29/

 

[25] D. Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., pp.34-35.

[26]“San Carlo nel primo suo concilio provinciale ordinava che maghi, malefici, incantatori, e chiunque fa patto tacito o espresso col diavolo sia punito severamente dal vescovo, ed escluso dalla congregazione dei fedeli. Nel suo rituale stabilisce le penitenze che devono applicarsi a maghi, per 5 anni, a chi getta tempeste, anni 7 in pane e acqua, a chi canta fascinazioni, tre quaresime; a chi fa le legature e malie, due anni. Egli aveva vietato che nessuno in predica dicesse il giorno della fine del mondo” C. Cantù, Gli eretici d’Italia. Discorsi storici di Cesare Cantù, Torino 1866, vol. III, p. 387.

[27] Con la pubblicazione della bolla “In Coena Domini” del 1568 i rapporti tra gli Stati italiani ed europei ed il Papato divennero molto tesi: in essa si vietava ai principi di accogliere persone di religione non cattolica nei loro Stati e di avere con esse rapporti e corrispondenze. I sovrani non potevano imporre gabelle, pedaggi, prestiti, decime sui beni dei chierici senza l’autorizzazione della Curia romana; si vietava di punire per colpe civili i cardinali, i prelati e i giudici ecclesiastici, i loro agenti, procuratori e congiunti; si vietava, inoltre, di ricorrere al Concilio ecumenico contro le sentenze papali ritenute ingiuste. Le rendite delle chiese, monasteri e i benefici ecclesiastici non potevano essere confiscati dalle autorità laiche; tutte le cause concernenti questioni del genere dovevano essere di competenza del foro ecclesiastico e non di quello temporale. Viene proibito al principe l’esercizio dell’”exequatur” sulle concessioni e i decreti pontifici. Il principe che occupasse le terre di proprietà della Chiesa o le muovesse guerra era scomunicato. La reazione degli Stati europei e di quelli italiani fu, naturalmente, molto vivace di fronte a questa forma di teocrazia di carattere medievale.

[28] Cfr. E. Rotelli, La figura e l’opera… cit., p. 135.

[29] Biblioteca  Ambrosiana, Ms. F 42 inf., c. 392r. D’ora in poi B. A.

[30] B.A. F 39 inf., c. 42.

[31] B.A., F. 39 inf., cc. 101-102.

 

[32] B.A., F 42 inf., cc. 226-234.

[33] Cfr. Ibid., pp.38-39. Tra le tele dipinte da Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, presenti nel Duomo di Milano, ce n’è una rappresentante la scena dell’attentato a Carlo Borromeo, dove si può vedere il Farina in piedi con in testa un cappello ornato da una grande piuma, che imbraccia l’archibugio, da cui esce un lampo vermiglio diretto verso la schiena dell’Arcivescovo raffigurato inginocchiato in preghiera.

[34] Cfr. E. Rotelli, La figura e l’opera… cit., p. 137.

[35] G. P. Giussani, Vita di San Carlo Borromeo Prete Cardinale del titolo di Santa Prassede, Arcivescovo di Milano, Brescia MDCXIII, Libro IV, p. 185.

[36] B. Ulianich, Carlo Borromeo e i Protestanti, in “San Carlo e il suo tempo”, Atti del Convegno Internazionale…..Milano 1984, vol I, p. 137.

[37] Cfr. D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit., p. 39 e segg.

[38] B. A., Ms. F 166 inf., cc. 496r-508v. Nel descrivere il documento riportiamo le informazioni nella stessa successione in cui sono esposte, e spesso trascrivendo le stesse parole, poiché cambiandole in termini attuali non avrebbero una resa linguistica come le originali.

[39] Ibid., c. 496r. La Repubblica delle Tre Leghe venne siglata, come già detto, nel 1471 a Vazerol tra le tre Leghe Grigioni: Lega Caddea, Lega Grigia e Lega delle Dieci Giurisdizioni. La Lega Caddea o Lega della Ca’ di Dio, deriva io suo nome, come ci spiega il documento, dalla sua sottomissione alla totale giurisdizione della Chiesa, in tedesco Gotteshausbund, in romacio Lia da la Chadé; il Cantone dei Grigioni, il cui capoluogo è Coira, è l’unico in cui le lingue ufficiali sono tre: italiano, romancio e tedesco.

[40] Cfr. Dizionario storico della Svizzera (DSS), Locarno 2002. Nel documento troviamo: “porta per insegna un Camorso forse per che  sotto la sua giurisd.ne sono monti altissimi dell’Engadina superiore et inferiore”. B. A., Ms. F 166 inf., c. 496v.

[41] Antica famiglia originaria di Valvenosta nel Trentino, di cui un discendente fu Vescovo di Coira nel 1213, ma dal Dizionario  (DSS) risulta che dal 1209 al 1221 fu Vescovo Arnold von Mätsch.

[42] B. A., Ms. F 166 inf., c. 496v.

[43] Ibid.

[44] Ibid.

[45] Ibid., 496v e497r.

[46] Ibid., c. 497r.

[47] Ibid. Forse si tratta di Paul Ziegler von Ziegelberg, il quale fu Vescovo di Coira nella prima metà del Cinquecento.

[48] Ibid., c. 498r.

[49] Ibid.

[50] Ibid., 498v.

[51] Ibid.

[52] Ibid., 499r.

[53] Ibid.

[54] Ibid., cc. 499r-500r.

[55] Ibid., c. 500v.

[56] Ibid., c. 5001r.

[57] Ibid.

[58] Ibid.

[59] Ibid., c. 501v.

[60] Ibid.

[61] Ibid.

[62] Ibid., c. 502r.

[63] Ibid., cc. 502r-502v.

[64] Ibid., c. 502v.

[65] Ibid.

[66] Ibid., c. 503r.

[67] Ibid., c. 503v.

[68] Ibid., c. 504v.

[69] Ibid., c. 504r.

[70] Ibid., c. 504v.

[71] Ibid., c. 505v.

[72] Ibid., c. 507r. E’ probabile che questo documento sia stato scritto dopo I divieti posti dalla Dieta di Coira al Cardinale di proseguire nella sua visita in Valtellina e Chiavenna , come era di suo proposito.

[73] Ibid.

[74] Ibid., c. 507v.

[75] Carlo d’Aragona Tagliavia, principe di Castelvetrano nacque a Palermo il 25 dicembre 1521, primogenito di Giovanni, marchese di Terranova e Antonia Concessa d’Aragona Alliata dei baroni di Avola, da cui ereditò le baronie di Avola e Terranova, elevate poi a marchesati nel 1543; dal padre ricevette il possesso del Marchesato di Terranova, della Contea di Castelvetrano e delle Baronie di Pietra Belice e Burgio Milluso. Fin da bambino seguì il padre al servizio dell’esercito imperiale spagnolo, nel 1539 e nel 1543 fu Governatore della Compagnia della carità di Palermo, dove, nel 1545 circa, iniziò la sua carriera politica come Capitano di giustizia, designato “Magnus Siculus” fu per 40 giorni reggente del trono di Spagna in attesa della maggiore età di Filippo, dopo il 1557, anno dell’abdicazione di Carlo V. Tra i numerosi titoli poteva fregiarsi anche di quello di Capitano generale e Presidente del Regno di Sicilia, Filippo II lo investì dei titoli di Duca di Terranova e di Principe di Castelvetrano. Ammiraglio e gra Conestabile del Regno, nel 1571 prese parte alla battaglia di Lepanto, in seguito ricoprì nuovamente l’incarico di Presidente del Regno di Sicilia dal 1571 al 1577, dove fu molto coscienzioso nel governare i suoi feudi, in particolare quello di Castelvetrano, dove fondò un convento, istituì un Monte di Pietà e la Compagnia dei Bianchei dediti alla cura dei malati e all’assistenza dei condannati a morte, ingrandì e fece decorare la chiesa di San Domenico, costruita dai suoi avi e avviò la riqualificazione urbanistica di Palermo. Dalla monarchia spagnola ebbe importanti incarichi anche fuori dalla Sicilia e il 18 ottobre 1582 fu nominato Governatore di Milano e come tale fu inviato, nel 1588, per stipulare la pace con i Cantoni svizzeri, ricoprì il governatorato fino al 1592, dopo la morte di Filippo II, il suo successore, Filippo III, lo nominò Presedente del Supremo Consiglio d’Italia. Morì a Madrid il 23 settembre 1599 e fu seppellito nella chiesa di San Domenico di Castelvetrano come da sua disposizione testamentaria. Fu citato dal Manzoni nel suo romanzo “I Promessi Sposi” come autore di due gride che riguardavano i bravi: “ Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per spegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità. Fin dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustruissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitano Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro essi”. A. Manzoni, I promessi Sposi, Cap. I. Stabilì che i governatori venissero appellati col titolo di Magnifici o Spectabiles, e il Senato Potentissime rex, a quest’ultimo tolse il potere di avocare a sé le cause di spettanza dei giudici inferiori. Per una più ampia e dettagliata storia di questo personaggio si vedano le due opere di R. Canosa, Storia di Milano nell’età di Filippo II, Roma 1996; La vita quotidiana a Milano in età spagnola, Milano 1996.

[76] B. A., Ms. F 166 inf., c. 536r.-540v.

[77] Ibid.

[78] P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo riguardanti la Svizzera e i suoi territori, Tipografia Artistica, Locarno 1909, p.321. Riportiamo parte del documento: “Cupentes pro nostro pastorali officio ut Helvetiorum et Rethorum popolorumque eis subiectorum provinciae, quae superioribus saeculis sincerae fidei christianaeque religionis culto eminere solebant nunc vero aliqua in parte, istigante humani generis hoste, deformatae existunt, quas paterna et singulari quadam protectione prosequimur, Visitationum apostolica rum remedio, adjuvante Domino, restituantur, atque divino culti et animarum saluti quantum cun Deo possumus consolamus, circumspectionem tuam quam alias de eximia integritate, prudentia ac religionis catholicae zelo plurimum in Domino confissi nostrum et apostolicae Sedis generalem et specialem Visitatorem, Reformatorem et Delegatum in Cremonensi, Bergomensi ac Brixiensi et aliis tunc espressi civitatibus et diocesibus “Motu-proprio” deputavimus, facultatesquae ad id opportunas etiam quasqumque ecclesia set sacristias quarumcumque persona rum regularium tam vivo rum, quam mulierum quorum vis ordinum et Congregationum, visitandi et reformandi tibi tribuimus prout in nostris diversis litteris tibi directis plenius continetur: in Costantiensi, Lausanensi, Sedunensi, Curiensi, Basiliensi, Consensi aliiaque Helvetiorum et Rethorum praedicatorum dominio quomodocumque subjectis Civitatibus, diaecesibus et locis universis Visitatorem Reformatorem ac nostrum et apostolicae sedis generalem et specialem Delegatum in omnibus et singulis authoritatibus et facultatibus in predictis literis espressi, aucthoritate apostolica tenore praesentium “Motu-simili”ad nostrum et Sedis Apostolicae beneplacitum constituimus et constitutionibus…”

[79] Cesare Speciano nacque a Cremona nel 1539 da Giovanni Battista, capitano di giustizia, consigliere e senatore nella Milano di Francesco II Sforza. Fu ordinato presbitero per l’Arcidiocesi di Milano nel 1567 e come appartenente ad una nobile famiglia ebbe una rendita fissa con l’Abbazia commendataria di San Pietro all’Olmo, Borromeo lo nominò Canonico ordinario del Duomo di Milano e Prefetto della Casa vescovile. Fu a Roma come Referendario e Segretario della Congregazione dei Vescovi e Regolari nel 1577 e nel 1584 fu nominato Vescovo di Novara. Fu Nunzio apostolico alla corte di Filippo II in Spagna dal 1586 al 1588. Impegnato nella promozione delle riforme del Concilio tridentino, cercò di attuarle anche nella sua diocesi, interessandosi principalmente della disciplina, della moralità e dell’istruzione del clero affinché fosse meglio preparato nella cura delle anime; lottò per sradicarle superstizioni e nel 1590 emanò l’editto “De superstitionis evitandis”, in cui descrisse molte credenze e miti diffusi a quel tempo. Nel 1590 tenne un Sinodo per rafforzare la riforma nel clero e l’anno successivo fece ampliare il palazzo vescovile e il coro della cattedrale di Novara. Dal 1591 fu Vescovo di Cremona e dal 1592 al 1598 fu Nunzio apostolico a Praga alla corte di Rodolfo II. Nel 1600 fondò a Cremona il Collegio dei Gesuiti a cui lasciò in eredità tutti i suoi beni. Nel 1602 fu impegnato in un difficile caso diplomatico di mediazione per conto dell’Imperatore Rodolfo II. Morì a Cremona nel 1607. Cfr. http:77it.cathopedia.org/wiki/Cesare_Speciano

[80] Cfr. B.A., F 69 inf., c. 176r.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 324.

[81] B.A., F 69 inf., c. 219r.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 325-327.

[82] Ibid.

[83] Ibid.

[84] Ibid.

[85] Cfr. B. A., F. 69 inf., c. 346r.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 359; R. Boldini, Documenti intorno alla visita di San Carlo Borromeo in Mesolcina, Poschiavo 1962, p. 5.

[86] B. A., Ms. 164, c. 441r.

[87] Ibid

[88] Cfr. G. A. aMarca, Compendio storico della Valle Mesolcina, Lugano 1838, p.131 e segg.

[89] Monsignor Francesco Borsatto, mantovano, Protonotaro Apostolico,”Dottore nell’una e l’altra legge degno di essere annoverato trà più famosi che da molti centinara d’anni infin’ora siano stati […] havevaquesto Prelato in particolare prattica grandissima di queste materie di heretici e di streghe per haverci posto studio grande, et essere stato molti anni Advocato della Santa Inquisizione in Mantova>>. Cfr. G. B. Possevino, Discorsi…cit., p. 177; A. Agnoletto, Religione popolare, Folklore e magia nei documenti borromaici, in “San Carlo e il suo tempo”, Atti del Convegno Internazionale nel IV centenario della morte, (Milano, 21-26 maggio 1984), Roma 1986, p. 885.

[90] Cfr. F. D. Vieli, Storia della Mesolcina scritta sulla scorta dei documenti, Ed. Grassi & Co., Bellinzona 1930, p. 150.

[91] Cfr. G. P. Giussano, Vita di San Carlo… cit., p. 382.

[92] Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/valle-mesolcina_%28Enciclopedia-Italiana%29/; Molte notizie che seguono sono state riprese anche da G. A. aMarca, Compendio Storico della Valle Mesolcina, Lugano 1838, pp.131-132.

[93] Cfr.F.D. Vieli, Storia… cit., pp. 22-26.

[94]La Centena è una divisione amministrativa usata storicamente nei paesi nordici e germanici per dividere una regione più grande in unità geografiche più piccole. Il nome è derivato dal numero cento. Era un sistema usato tradizionalmente dai popoli germanici, descritto fin dal 98 da Tacito

[95] Cfr. F. D. Vieli, Storia… cit, p. 105 e segg.

[96] Cfr. C. Donati a cura di, Alle frontiere della Lombardia: politica, Guerra e religione nell’età moderna, Milano 2006, p. 44 e segg.; http://mobile.hls-dhs-dss.ch/m.php?article=18033.php

[97] F. D. Vieli, Storia… cit, pp. 135-137.

[98] Ibid.

[99] Ibid., p. 140.

[100] Giovanni Beccaria, nato a Locarno nel 1510 circa, dopo gli studi di teologia abbracciò la fede riformata ed esercitò con successo l’insegnamento. Cacciato dalla sua città, si rifugiò a Mesocco, dove aprì una scuola frequentata dai figli delle famiglie riformate di Locarno. In seguito venne nominato parroco riformato di Mesocco. Nelle sue lettere a Heinrich Bullinger, teologo, riformatore e Antistes (Vescovo) della Chiesa riformata di Zurigo, Beccaria scriveva che a Mesocco nessuno andava più alla messa , che molti erano pronti ad abbandonare la religione cattolica per essere liberi da vincoli finanziari ecclesiastici e da doveri spirituali, ma rifiutavano di provvedere al mantenimento della nuova chiesa, non erano interessati alle funzioni religiose ed erano immorali. Nel 1556 Beccaria partì al seguito di una comunità protestante per Zurigo, nel 1559 riprese il suo posto di parroco riformato a Mesocco, ma non essendo tollerato dai Cantoni cattolici, il comune della città lo allontanò ed egli si rifugiò a Chiavenna, per fare tornare l’anno successivo a Mesocco, dopo il ricorso fatto dai riformati grigioni contro l’espulsione del Beccaria, in quanto non colpevole di delitti comuni, ma la situazione era cambiata e molte persone autorevoli avevano voltato le spalle alla Riforma: osteggiato, deluso e stanco Beccaria si riparò a Bondo, dove morì nel 1580. Cfr. F. D. Vieli, Storia… cit, p.140 e segg.

 

[101] Ibid. p. 144.

[102] Ibid.

[103] G. A. aMarca, Compendio Storico… cit., pp.131-132.

[104] B. A., Ms. P 23 inf., c. 228r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 7-8.

[105] Giacomo Savelli, discendente dall’antica e nobile famiglia romana che contava tra i suoi discendenti tre papi e alcuni cardinali, nacque a Roma il 28 ottobre 1523, da Giambattista e Costanza Bentivoglio, la nonna paterna, Camilla Farnese, era cugina di Paolo III, il quale lo inviò a Padova, dove si laureò in “utroque iure”, intraprese la carriera ecclesiastica quando aveva solo sedici anni e l’anno successivo fu creato cardinale diacono. Ebbe numerosi e importanti incarichi e fu molto legato alla Marca, dove dal 1551 al 1555 si adoperò per difendere le coste dai Turchi. Nel 1557 fu chiamato da Paolo IV a far parte della Congregazione dell’Inquisizione e nel 1560 fu nominato Vicario di Roma sempre dallo stesso papa, il quale aveva stabilito, nella riforma dei tribunali romani, che la carica fosse affidata ad un cardinale. Savelli prese, fin dall’inizio, una serie di provvedimenti conformi ai principi del Concilio di Trento per moralizzare il clero, disciplinare il culto delle reliquie e soprattutto per ciò che concerneva le funzioni pastorali dei parroci, si adoperò per il controllo e il governo dell’ordine e della morale nella città di Roma. Nel 1560 gli fu assegnata la Diocesi di Benevento, che visitò solo nel 1567 a causa dei numerosi impegni con il Pontefice. Nel 1562 Pio V lo chiamò di nuovo a far parte della Congregazione dell’Inquisizione, dove si occupò principalmente di tenere la corrispondenza con i vicari e inquisitori: un esempio sono le numerosissime missive tra il Savelli e Carlo Borromeo. Dal 1577 al 1583 fu creato Cardinale Vescovo di Sabina, di Tuscolo e di Porto. Alla morte di Scipione Rebiba, nel 1577, divenne Inquisitore Maggiore, occupandosi attivamente nel controllo e repressione delle eresie, superstizioni e stregoneria. Durante il conclave del 1585 fu proposto tra i papabili, ma su di lui gravava una fama negativa diffusa dai suoi opoositori che gli attribuivano diversi figli naturali, in realtà incise la sua politica a favore di Alessandro Farnese e della Spagna, che condizionò negativamente, in seguito, l’atteggiamento di Sisto V nei suoi confronti. Savelli morì a Roma il 5 dicembre 1587 e il Papa, non dimenticando il suo rancore, non tenne conto del suo testamento.

Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/giacomo-savelli_(Dizionario-Biografico)/

 

[106] B. A., F 69 inf., c. 256 r. e v.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo…cit., p. 328.

[107] Per la lettera al Savelli Cfr. B. A., Ms. P 23 inf., c. 228r.; A. Borromeo, L’opposizione all’eresia. Apostolo e “genio” pratico della riforma, in “Il grande Borromeo tra storia e fede”, Milano 1984, pp. 223-255. Il “negotio” che il Borromeo stava terminando riguardava il matrimonio della principessa Margherita Farnese, proposto dal Cardinale Alessandro Farnese per un’alleanza antifiorentina dei Farnese con i Gonzaga, la cui rivalità risaliva ai tempi di papa Paolo III (Farnese). Margherita, figlia del principe Alessandro Farnese e Vincenzo Gonzaga, unico figlio di Guglielmo duca di Mantova e futuro duca di Mantova, si erano uniti in matrimonio con una solenne cerimonia officiata nella Cattedrale di Piacenza il 2 marzo 1581, ma dopo poco tempo la principessa, che portava una dote di trecentomila scudi, si rivelò inabile al matrimonio a causa di un impedimento congenito di Margherita, che avrebbe potuto risolvere con un delicato intervento chirurgico, caldamente sconsigliato dalla nonna, Margherita d’Austria, e anche dallo stesso Borromeo. La causa fu demandata da Gregorio XIII al Borromeo, come Delegato Pontificio, il quale, accertata dai medici l’inabilità fisica della donna, dichiarò nulla la loro unione e autorizzò il duca Vincenzo a poter contrarre nuove nozze. La principessa Margherita, il primo ottobre dello stesso anno, entrò nel monastero di San Paolo di Parma, dove fece professione religiosa, prendendo il nome di Maura Lucenia. Cfr. C, Poggiali, Memorie storiche della città di Piacenza. Compilate dal Proposto Cristoforo Poggiali Bibliotecario di S.A.R., Tomo X, Piacenza MDCCLVI, pp. 194-197; E. Costa, Spigolature storiche e letterarie, Parma 1887, p.17 e segg.; http://www.it/enciclopedia/margherita-farnese_(Dizionario-Biografico/)

[108] B. A., F 166 inf. cc. 254r.- 259r-260r.

[109] Ibid.

[110] G. B. Possevino, Discorsi… cit., pp. 177-178.

[111] Ibid. p. 180.

[112] B. A., F 166 inf. C. 492r. e segg.; P. D’Alessandri, Atti di S.Carlo…, cit., p. 335-336.

[113] A. Agnoletto, Religione popolare, Folklore e Magia nei documenti borromaici, in “San Carlo e il suo tempo”, Roma 1986, p. 870 e segg.

[114] Cfr. A. Agnoletto, Religione popolare… cit., p. 871.

[115] Ibid.

[116] Ibid.

[117] Cfr. F. Molinari, San Carlo Borromeo tra mito e storia, in “Quaderni camuni”, 8, 1979, p. 336.

[118] Cfr, A. Agnoletto, Religione popolare… cit., p. 876.

[119] R. Boldini, Documenti… cit., pp. 9-10.

[120] Ibid.

[121] Ibid.

[122] Il 23 maggio 1555, all’età di settantanove anni, il Cardinale Pietro Carafa fu eletto Papa con il nome di Paolo IV, nei suoi quattro anni di pontificato, egli ebbe come obiettivo principale la lotta alle eresie e una seria riforma della Chiesa e tra le molteplici occupazioni sia di carattere spirituale che politico, quella cui si dedicò maggiormente fu il Sant’Uffizio, attuando cambiamenti e, spesso, prendendo personalmente le decisioni più importanti; ampliò le facoltà d’intervento dell’Inquisizione assegnandogli la competenza sulla bestemmia e sulla simonia, intensificò le pene e comminò la pena capitale nel corso del primo processo per chi confutasse la Trinità, la divinità di Cristo e la verginità della Madonna, più tardi anche per chi celebrasse messa, ascoltasse confessioni, approfittasse dell’eucaristia senza avere ricevuto l’ordine sacro. Nel complesso, durante il papato di Paolo IV il Santo Uffizio ampliò notevolmente la sua sfera d’azione e le sue competenze a reati come la bestemmia, l’omosessualità e la simonia, quest’ultima era uno dei cardini su cui si basava la sua lotta per la riforma della Chiesa. Cfr. A. Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Mondadori 2006, p. 398; L. Fabbri, Per fede e per dignità: il caso di Abramo e Agnoluccio ebrei, in “I Tesori alla Fine dell’arcobaleno”, https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2017/07/05/per-fede-e-per-dignita-il-caso-di-abramo-e-agnoluccio-ebrei/?

[123] B. A., Ms. F 69 inf. cc. 256r.-257v.

[124] Achille Gagliardi nacque a Padova nel 1537circa da Girolama Campolongo e da Ludovico, alla prematura scomparsa del padre  fu affidato insieme con i fratelli ad un precettore e dopo la morte della madre si trasferì a Roma per entrare nella Compagnia di Gesù. Nel 1562 ebbe l’incarico di insegnare nel Collegio Romano prima etica, poi logica, fisica e metafisica, nel 1568 fu nominato rettore del Collegio di Torino. Svolgendo nel contempo molte altre attività, che suscitarono gelosie nelle autorità religiose torinesi che lo accusarono di troppa ambizione e inefficienza nella direzione del Collegio, ma egli riuscì ad ottenere di nuovo la fiducia. Nel 1572 ebbe la cattedra di teologia scolastica nel Collegio di Brera  a Milano, ma non assunse tale incarico a causa dell’insistenza del Duca di Savoia, presso il quale ebbe attività diplomatiche e di mediatore con la Santa Sede, tali stretti rapporti finirono quando Gagliardi fu chiamato a Roma, nel 1575, per occupare la cattedra di teologia scolastica, dove trovò un clima molto burrascoso con polemiche dottrinarie ed altre riguardanti la Compagnia di Gesù; le sue prese di posizione furono la causa per cui dovette lasciare Roma nel 1579. Il Borromeo, il quale lo stimava molto, lo chiamò a Milano in occasione della sua visita in Mesolcina, che lo impegnò molto anche come predicatore. Tornato a Milano divenne direttore spirituale di Isabella Cristina Berinzaga, la cui assidua frequenza con la “mistica” destò molte perplessità, inoltre nella sua opera “Breve compendio di perfezione cristiana”, vennero riscontrati gravi errori dottrinari, fu fatta esaminare a Roma e anche i teologi Gesuiti si pronunciarono contro la sua divulgazione. Non era di questa opinione il futuro Santo, il quale manda una copia al Cardinal Savello per avere la licenza di stamparla e scrive queste parole: “…ha composto un catechismo volgare che è come una instruttione piena, breve et chiara della fede per uso et servizio principalmente dei paesi dei Grisoni […]  il qual libro mi è piaciuto grandemente et sarebbe utile in ogni luogo…”  P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 328.  Tornato a Milano nel 1593, fu riconfermato Preposito di San Fedele, ma le riprese frequentazioni con la Berinzaga, che considerava direttamente ispirata dalla parola divina, lo spinsero a rimettere l’incarico. Dopo molte vicissitudini e una vita piuttosto movimentata  (che non spiegheremo in questa sede), fu nominato rettore del Collegio di Bologna nel 1604, in condizioni di salute pessime, morì a Modena il 6 luglio 1607. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/achille-gagliardi_%28Dizionario-Biografico%29/

[125]Girolamo (Francesco) Panigarola nacque a Milano nel 1548 da nobile famiglia, studiò a Pavia, a Bologna e a Pisa, nel 1567 entrò nei frati Minori Conventuali,prendendo il nome di Francesco nel 1571 Pio V lo mandò a Parigi per frequentare le lezioni di teologia della Sorbona. Insegnò a Bologna, Firenze e a Roma, non trascurando il suo compito di predicatore e come tale, tra il 1574 e il 1587 fu in numerose città italiane: tale fu la fama come predicatore, che divenne un punto di riferimento per la predicazione del suo tempo: principi, ecclesiastici e nobili fecero a gara per ottenere la sua presenza, il Borromeo lo volle spesso come predicatore ufficiale nel Duomo di Milano, anche il Papa assisteva alle sue prediche. A Torino tenne le sue conferenze contro Calvino, confutando le tesi contenute nell’”Institutio religionis Christianae”: <<…contro i libertini e gli ateisi trattò di affermare da parte di tutti i credenti, che esiste un solo Dio; contro ebrei e musulmani, si trattò di sostenere, da parte di tutti i cristiani, che Cristo è Dio, ovvero che la rivelazione cristiana è vera; infine, contro i protestanti, si trattò di dimostrare che la vera Chiesa è quella cattolica, in quanto corrispondente alla volontà di Cristo. Rifiutando la definizione che Calvino fornisce di Chiesa, basata sulla predestinazione degli eletti, come pure quella degli anabattisti che fanno coincidere la Chiesa con la comunità dei giusti, Panigarola mette in campo la distinzione intercorrente tra “chiesa militante” e “chiesa trionfante”, distinguendo due modi diversi di essere uniti a Cristo nell’unica Chiesa>>. F. Buzzi, Religione, cultura e scienza a Milano. Secoli XVI-XVIII, Milano 2016, p. 185 e segg. Dal 1582 al 1584, salvo alcune eccezioni, fu a Milano per servire l’Arcivescovo e alla morte di Carlo Borromeo fu incaricato di fare l’aorazione funebre. Nel 1586 fu suffraganeo del Vescovo di Ferrara e nel 1587 fu eletto Vescovo di Asti e nella stessa città morì il 31 maggio 1594.

[126] Bernardino Morra nacque a Casale Monferrato nel 1549 da una famiglia patrizia di Chv asso, dopo gli studi giuridici entrò al servizio dei Gonzaga, che lasciò per seguire la carriera ecclesiastica. Nel 1575 si trovava già presso il Borromeo, il quale l’anno seguente lo nominò Auditore generale della Diocesi di Milano, con funzioni parificate a quelle di vicario. Nello stesso tempo in cui Carlo si trovava in Mesolcina, Morra andò a Coira come suo inviato per svolgere un’importante missione diplomatica con i Grigioni; alla morte del Prelato, Morra continuò a seguirne le orme e nel 1586 fu nominato Vicario generale della Diocesi di Milano, in seguito fu Protonotaro apostolico. Nel 1595 ebbe la nomina di Segretario della Congregazione dei Vescovi e poi, chiamato da Clemente VIII, che lo volle come coadiutore nella riforma disciplinare della Chiesa, Prefetto del Palazzo apostolico. Nel 1598 ottenne la nomina di Vescovo di Aversa, svolgendo il suo governo vescovile sul modello borromaico.Morì ad Aversa il 17 marzo 1605. Cfr. http://WWW.treccani.it/enciclopedia/bernardino-morra_(Dizionario-Biografico)/

[127] B. A., Ms. F 166 inf., c. 11r.

[128] P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo…, cit., pp. 333-334.

[129] Ibid.

[130] Ibid.

[131] Ibid., pp. 335-336.

[132] Ibid.. p.336.

[133] Ibid.

[134] Ibid., pp. 336-337. Pietro Paolo Vergerio nacque a Capodistria nel 1498. Giurista, professore universitario e riformatore religioso, dopo la morte prematura della moglie Diana Contarini, si mise al servizio della Chiesa: fu Nunzio in Germania nel 1533 presso la corte di Ferdinando d’Asburgo, esperienza che lo rese grande conoscitore del mondo tedesco e protestante, tre anni dopo fu consacrato prete e vescovo da Papa Paolo III che gli assegnò prima la diocesi di Modrus in Croazia poi quella di Capodistria. Nel 1540 fu rappresentante ufficiale di Francesco I re di Francia alla dieta di Worms, dove, su ordini della Curia pontificia, si oppose ai propositi conciliativi di Carlo V. Riprese i contatti con i principali riformatori tedeschi e si allontanò dall’ortodossia cattolica tanto da essere denunciato come luterano nel 1544, l’anno successivo fu processato e assolto a Venezia. Nel 1549 fu esule in Svizzera, dopo avere rifiutato l’opportunità di discolparsi presso la Curia romana, dopo un lungo giro di divulgazione del luteranesimo in questa nazione, svolseun’intensa attività propagandistica politico-religiosa in Germania, nei Grigioni e in Valtellina, mostrandosi accanito avversario del papato. Dal 1561 al 1562 fu molte volte nella città di Coira, dove fece propaganda anticonciliare e divulgò numerosi libretti d’ispirazione luterana. La sua copiosa produzione letteraria fu essenzialmente propagandistica. Morì a Tubinga il 4 ottobre 1565. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/vergerio-pietro-paolo-il-giovane_%28Enciclopedia&#8230;

[135] B. A., F 69, c. 349 r.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 358; F. D. Vieli, Storia… cit., pp. 153-154.

[136] B. A., f 166, c. 343 r.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 359; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 28-29.

[137] Cfr. http:// blogs.dotnethell.it/silvanopollena//Il-cardinale-Borromeo-e-le-streghe-della-Mesolcina-e-Calanca_7331.aspx

[138] Cfr. F. D. Vieli, Storia cit…, pp. 162-164.

[139] Ibid., p. 151.

[140] P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 354.

[141] Ibid., in nota.

[142] B. A., Ms. F 166, c. 164r. Ludovico Audoeno (Lewis Owen) nacque in un piccolo villaggio del Galles nel 1532, Studiò prima nel collegio di Wincester e dal 1554 ad Oxoford, che lasciò nel 1561 per proseguire gli studi  di dottorato in diritto e teologia. Fu canonico della Cattedrale di Camrai e arcidiacono a Hainault, successivamente andò a Roma, dove sotto il pontificato di Sisto V e di Gregorio XIII ricoprì le cariche di Referendario di segnatura e Segretario della Congregazione per i Vescovi e i Regolari. Fu uno dei promotori della fondazione dei Collegi inglesi di Douai e Roma e nel 1578 fu nominato Rettore del Morys Clynnong di Roma, ma aspre rivalità tra studenti gallesi e inglesi indussero questi ultimi a chiedere un rettorato guidato dai Gesuiti, poiché sostenevano che i Gallesi erano favoriti rispetto agli Inglesi. Il Papa, forse per allontanarlo da Roma, mandò Ludovico Audoeno a Milano presso il Cardinale Borromeo, dove ricoprì la carica di Vicario dal 1580 al 1584, anno della morte del Borromeo, ma due mesi dopo era di nuovo presso la Corte pontificia e nel 1588 Sisto V lo nominò Vescovo della diocesi di Cassano all’Ionio e nel 1591 fu nominato Nunzio apostolico a Lucerna per la Svizzera, pur continuando a risiedere a Roma, dove morì il 14 ottobre 1591 e fu sepolto nella cappella del Collegio inglese. Cfr. https://it.cathopedia.org/wiki/Lewis-Owen

[143] Ibid.

[144] Cfr. B.A., f 166 inf., c. 107 r. e v.; R. Boldini, Storia… cit., p. 11.

[145] “… ho procurato di parlare col Ministrale Maggio al quale ho dato convenio di sodisfattione, sì che da lui non reusciva alcun male effetto, del successo a Milano, ma già che ne aveva raguardo con alcuni di questa città sì che gli animi erano alterati molto grandemente, in tanto che poco prima che fossero gionte le lettere di V. S. Ill.ma uno ragionando col Todeschino disse che per ricompensa di quel che s’era voluto fare a Milano a uno di loro, bisognava che hora retenesser V. S. Ill.ma veramente che magnifica occasione del negotio che si tratta…”. B. A., F 166 inf., c. 197 r.; R. Boldini, Storia… cit., p. 19.

[146] Cfr. B.A., F 166 inf., c. 107 r. e 122 r.; R. Boldini, Documenti…cit., pp. 11-12.

[147] Peter de Raschèr nacque a Zouz nel 1549, fu educato nella certosa di Buxheim in Svevia e compì gli studi a Ingolstadt. Dopo essere stato eletto Canonico del Capitolo della cattedrale di Coira, fu parroco di Bergün e cantore del Capitolo cattedrale nel 1578, fu eletto Vescovo di Coira nel 1581. Di indole remissiva, delegò ai suoi vicari  i primi tentativi di riforma; dopo la visita di Borromeo in Mesolcina, dette disposizioni al clero sull’amministrazione dei sacramenti e la condotta dei religiosi, fece pubblicare nuove copie del messale e del breviario, nel 1598 promulgò nuovi statuti per il Capitolo cattedrale. Morì a Coira nel 1601.Cfr. http://mobile.hls-dhs-dss.ch/m.php?lg=126318php

[148] B. A., F 166 inf., c. 134 r; R. Boldini, Documenti… cit., p. 13.

[149] Ibid., c. 149 r.; p. 14.

[150] Ibid.

[151] Ibid.

[152] Cfr. F. D. Vieli, Storia… cit., p. 154.

[153] B. A., Ms. F 166 inf. c. 179 r.e v.

[154] B. A., Ms. F 166 inf., c. 197 r.

[155]  Si tratta di Galles de Mont, capo della Lega Grigia.

[156] B. A., Ms. F 166 inf. c. 179r.

[157] Ibid.

[158] Cfr. B. A., Ms. F 166 inf. c. 197 r.

[159] Cfr. R. Boldini, Documenti… cit., pp. 15-16.

[160] B. A., Ms. F 166 inf., c. 184r.; R. Boldini, Documenti…cit., pp. 18-19.

[161] “Cives nostri Curienses omnes C. V. Ill.mam maximo honore excipient accedentem, et non minori prosequentur discendentem, visitationes etiam Ecclesiae meae minime impedient, sermone vero ad populum nullum fieri volent, et si vellent, certe ipse qui statum patriae mentesque nostratum, utcumque iam perspectas habeo, dissuaderem; rem namque hanc, plerique rusticorum in hac  praesertim temporum pernicie, novamet seditioni proximam (licet immerito) suspicarentur tamen, sed de hac re alias”. R. Boldini, Documenti… cit., p. 21.

[162] Papa Gregorio XIII emana il nuovo calendario il 24 febbraio 1582: quello vecchio, che era stato emanato da Giulio Cesare, aveva i giorni di circa undici minuti più lunghi del giorno astronomico, quindi nel secolo XVI risultava che l’anno civile aveva accumulto dieci giorni di ritardo rispetto a quello astronomico. Questa riforma del calendario ebbe luogo proprio nel culmine delle lotte religiose e i Protestanti non vollero riconoscerlo, in quanto promulgato dal Papa. In Svizzera, i Cantoni cattolici decisero di adottare il nuovo calendario dal 10 novembre 1583 mentre quelli Riformati lo adottarono solo dal 1701; nelle terre dei Grigioni il calendario gregoriano non fu accolto in una precisa data, ma fu applicato nel secolo seguente e divenne normativa comune solo nel 1811, a causa delle violente lotte religiose, Cfr. R. Boldini, Documenti… cit.,  p. 22.

[163] B. A., Ms. F 175 inf. c. 166 r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 24-25.

[164] Ibid., c. 156r.

[165] B. A., Ms. 166 inf. c. 555r.-558v. “Per Franza”.

[166] Cfr. Ibid., c. 557v. Gli abitanti delle due Valli erano circa centomila, dei quali “due o tremila” eretici, il documento continua dicendo le vessazioni che vengono fatte ai Cattolici, i quali sostengono di non poter più sopportare una simile situazione. Per la storia della Valtellina e Valchiavenna si veda: G. Romegialli, Storia della Valtellina e delle già Contee di Bormio e Chiavenna, Vol. II, Sondrio 1834.

[167] B. A., Ms. P 24 inf., cc. 592v.-594v.; e c. 666r.

[168] Cfr. B. A., Ms. F 170 inf., c. 342r.

[169] B. A., Ms. F 168 inf., cc. 411r e v.

[170] B. A., Ms. F 169 inf.cc. 217 r. e v.

[171] Ibid., c. 281r.

[172] Cfr. A. Lanfranchi a cura di, Il Libro delle memorie del Canonico Fanti di Sondalo, Parte III, in “Bollettino Storico Alta Valtellina, n. 15, Anno 2012, p. 35.

[173] B. A., Ms. F 169 inf., c. 297r.

[174] Ibid., cc. 365r e v.

[175] B. A., F 166 inf., c. 112r. “…di che si promettevano grata risposta et che altrimenti facendo de non voler consentir a questi loro amichevoli avisi et essortationi et nunc gli protestavanode non darci alcuno aiuto occorrendo gli intervenga qualche fortuna, et che vogliono essere escusati d’haver fatto il debito loro, sopra quale esposizione detti SS.ri Grisoni non gli hanno dato alcuna grata ne buona risposta, ma sono restati sdegnati della protesta fatta da detti SS.ri Amb.ri Svizzeri quali si partirono malissimo sodisfati”.

[176] B. A., Ms. P 23 inf. (II), c. 228r.

[177] B. A., Ms. F 166 inf., c. 112r.

[178] Ibid., c. 512v.

[179] B. A., Mss.P 24 inf., c. 513 e 524, le minute sono datate “fine di luglio 1584” per lo Speciano e 2 agosto dello stesso anno per il Cardinale Savello; F. 166 inf., c. 511r. : “Così poiche per molti degni rispetti questa loro richiesta ci pare molto strana; et particolarmente che altre nostre vicine nationi, non comportarebbano che noi erigessimo uno Seminario o Collegio Evangelico nelli nostri paesi sudetti; pone per cio noi non havemo mai detto contra a quelli, che errette scole di Giesuiti, et altri conventi ne manco ci è mai venuto in pensiere di cercar di volerle obiurare. La onde si persuadiamo totalmente che nessuno ne habbia a contradire ne di volerlo levere con minacie queste ne altre honorate inovationi. Ma particolarmente restiamo sumamente admirativi, et ci pesa, che detti SS.ri Amb.ri in nome de loro SS.ri et supp.ri nella conclusione della loro instruttione per desviarne con minacie, di uno tanto Christiano proposito, ci hanno fatto intendere, che in caso dela loro richiesta, et essortatione, non potesse haver loco presso di noi, che si protestano, occorendo caso che percio ne resultasse qualche fastidij contrarietà, et inquieti, che essi non ci vorranno dar agiuto ne assistenza…”

[180] Scipione Calandrini, figlio illegittimo di Giuliano di Filippo, nacque probabilmente a Lucca nel 1540 circa. Fu affidato alle cure di un precettore, il quale fu poi arrestato a Lucca nel 1556, trasferito a Roma e condannato al rogo, fu spiccato un mandato di cattura anche per Scipione, che, avvertito, riuscì a fuggire, rifugiandosi nei Grigioni e poi a Ginevra, dove ottenne la cittadinanza nel 1559 e prestava servizio come ministro della Chiesa italiana. Fu uno dei primi lucchesi a convertirsi alle dottrine riformistiche, indipendentemente dai contatti con i riformati d’oltrape. Poche le notizie negli anni tra il 1562 e il 1572, nel 1566 si trovava di Nuovo a Ginevra, dove insegnava gratuitamente dialettica e retorica al “Collège”, ma due anni dopo, non avendo ottenuto la cattedra di filosofia, andò ad Heidelberg, dove oltre che studente, fu insegnante di filisofia, teologia e lettere. Fu in Valtellina nel 1570 circa, come pastore di Morbegno e nel 1575 partecipò alla Dieta di Coira, nel 1577 fu a Sondrio, dove continuò la sua attività pastorale, ma anche una massiccia opera di propaganda ed educazione: organizzò un ginnasio, in cui aveva grandissima parte l’educazione umanistica, suscitando la reazione dei cattolici.Scrisse molte opere, di notevole rilievo è il metodo di dibattito da lui proposto, ossia di interventi alternati e non disturbati da interruzioni. Fu al centro, insieme con Nicolò Rusca, delle drammatiche vicende che sfociarono nel tristemente famoso “Sacro Macello della Valtellina” del 1620. Nel 1594 riuscì a sfuggire ad un agguato il cui mandante fu Michele Chiappino, che venne poi arrestato e durante l’interrogatorio confessò di avere agito, a sua volta, per conto del Rusca, che si difese strenuamente dicendo aanche di essere stato in buoni rapporti con Scipione: entrambi furono giustiziati. Calandrini morì, probabilmente, verso gli inizi del XVII secolo. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/scipione-calandrini_(Dizionario-Biografico)/

 

[181] B. A., Ms. F 168 inf. cc. 93 r.-94v.

[182] Cfr. L. Prosdocimi, Riforma borromaica e conservatorismo politico. Dalle controversie di giurisdizione alla convergenza, in “San Carlo e il suo tempo, Atti del Convegno Internazionale nel IV centenario della morte (Milano, 21-26 maggio 1984), Roma 1986, p. 705.

 

[183] B. A., Ms. F 166 inf. cc. 536r-540v.

[184] B. A., Ms. F 166 inf., c. 541r.

[185] Ibid.

[186] Ibid., c. 164r.

[187] Cfr. B. A., Ms. F 166 inf., cc. 324r., 325r., 392r., 467r.

[188] Una lettera è scritta dal Cardinale Savello, il quale comunica a Borromeo di avere data al Pontefice la relazione da lui scritta e il decreto emesso dai rappresentanti delle Leghe durante Dieta, la data risale al 10 dicembre 1583. Cfr. B. A., Ms. F 166 inf., c. 292r.

[189] Cfr. R. Boldini, Documenti… cit., p. 27; B. A., Ms. F 69 inf., c. 331r.

[190] Ibid.

[191] Ibid.

[192] R. Boldini, Documenti… cit., p. 32; B. A., Ms. F. 167 inf. ,c. 58r.

[193] B. A., Ms. F 167 inf., c. 126r. La lettera continua con le spiegazioni delle sue occupazioni giornaliere.

[194] Cfr. Vieli, Storia… cit.,  p. 152; R. Boldini, Documenti… cit., p. 28.

[195] B. A., Ms. F 167 inf., c. 72r; R. Boldini, Documenti… cit., p.35.

[196] B. A., Ms. F 167 inf., c. 85r; R. Boldini, Documenti… cit., p. 35.

[197] Cfr. B. A., Ms. F 167 inf. c. 65r. e 122r., R.Boldini, Documenti… cit., pp. 36-37.

[198] Cfr. B. A., Ms. F 167 inf., c. 182 r.; R. Boldini, Documenti… cit., p. 39.

[199] B. A., Ms. F 166 inf., c. 560r.

[200] Ibid., c. 560v.

[201] La condanna di Gerolamo Borgo viene riportata nella lettera del 30 gennaio 1584, edita da Boldini e in un’altra lettera del 12 febbraio dello stesso anno scritta da Battista Borgo, nipote di Gerolamo, il quale scrive che lo zio è stato accusato di avere avvertito il Cardinale che <<…non li dovesse alhora andare atento che gli erano grandissimi romorri nelle lige, ma che lasase prima fare li pagamenti di Franza;li quali si facevano alhora, sopra la quale querella fu datto al detto mes. Jeronimo mio cio (zio) acrissimi tormenti, atalle cheli fu bisogno confessare il tutto>>. B. A., Ms. 167 inf. c. 270r.; R. Boldini, Documenti…cit., pp.41-42.

[202] B. A., Ms. F 167 inf., c.561r. Pubblicata una parte da P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit.,  pp. 362-363.

[203] B. A., Ms. F 167 inf., cc. 561r e 561v.

[204] Ibid., ms. 167, c. 261r.

[205] B. A., Ms. F 168 inf., c. 37r.

[206] B. A. Ms. F. 168 inf., c. 105r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 43-44.

[207] B. A., Ms. F 168 inf. c. 126r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 44-45.

[208] Cfr. R. Boldini, Documenti… cit., pp. 45-46. In una delle lettere si apprende che Giovan Battista Sacco è stato riconfermato Ministrale.

[209] Ibid. , p. 46.

[210] B. A., Ms. F 168 inf., c. 374r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 47-48.

[211] Ibid.

[212] B. A., Ms. F 168 inf., c. 380r. e v.; R. Boldini, Documenti intorno… cit., p. 49.

[213] Numerose sono le lettere che parlano dell’applicazione del nuovo calendario, che, come già detto, nel Cantone dei Grigioni non fu adottato unanimamente, infatti Nicolò Venusto, Prevosto di Coira, in una lettera a Pietro Righini, parroco di San Domenico di Calanca scrive che “Essendo informato dal Sig,r Ministrale di Calanca che parte servano il calendario Nuovo, et altri il vecchio, et da questa osservazione ne vengano dispareri grandi […] per tanto essendo noi tutti informati quale sia la mente delli s.ri delle tre lighe di sopra di questo et a parte confermata dalla liga Grisa, per oviare a dissordini che potriano cascare, per la presente vi facciamo intendere che voi serviate detto calendario vecchio, come noi, et questo per modo di provisione, sin’a nuovo ordine di Monsig.r R.mo nostro vescovo di Coira, il medemo farete intender alli altri et di questa risolutione se ne informerà se sara bisogno Mons.r Ill.ma cardinal Borromeo”. In un’altra lettera del29 giugno, Giovan Battista Sacco, Ministrale di Roveredo, scrive al Borromeo che “La Valle Calanca và ostinata sola nell’osservatione di detto Calendario, per timore di detta Ligha nostra…” B. A., Ms. F 169 inf. cc. 220, 221, 279, 382; R. Boldini, Documenti intorno… cit., pp. 55-57.

[214] B. A., Ms. F. 168 inf., c. 385 r. e segg.; R. Boldini, Documenti intorno… cit, pp. 50-52.

[215] B. A., Ms. F. 169, c, 159r.; R. Boldini, Documenti intorno… cit., p. 53.

[216] Cfr. B. A., Ms. P 24 inf. (II), cc. 405r., 406r. e v., 407 r.e v., 409 r. e v.

[217] La lettera è scritta da Giovanni Battista Sacco, il 29 luglio 1584. R. Boldini, Documenti intorno… cit., pp. 57-58.

[218] Cfr. Ibid., pp. 62-63.

[219] B. A. , Ms. F 166 inf., cc. 517 . Un’altra copia la possiamo trovare nel Ms. D 216 inf., c. 70 r e segg., che non si discosta dalla prima se non in qualche termine che non cambia il contenuto;  R. Boldini, Documenti… cit., pp. 65-75. Giovanni Antonio Viscardi, detto Trontano dal luogo d’origine in Val Vigezzo, fu predicatore delle nuove dottrine a Mesocco nel 1554 circa, quando raggiunse il Beccaria (Canessa), il quale si trovava a predicare nello stesso luogo fin dal 1549, quest’ultimo parì da Mesocco nel 1560, il Trontano rimase ancora per dieci anni, lasciando,alla sua partenza, un figlio che figurerà tra gli eretici poi convertiti. Cfr. R. Boldini, Documenti intorno… cit., p. 74 in nota. Lodovico Besozzo, fu discepolo del Trontano, ma all’epoca della Visita era già morto. I tre erano molto noti come eretici.

Fra i rifugiati in Svizzera c’era il prete Giovanni Beccaria, nobile milanese, il quale possedeva dei beni a Locarno, dove aveva la cittadinanza. A Roma aveva frequentato Occhino, Carnesecchi, Vermigli e tornato a Locarno vi diffuse i loro insegnamenti “…sotto il manto di una scuola di letteratura, anzi l’arciprete che nol sospettava l’invitò a fare alcuni sermoni, che piacquero assai”. Il 19 agosto 1549, dopo una lunghissima disputa circa il testo evangelico Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam, sulla confessione auricolare, sul merito delle opere buone, il commissario che presiedeva l’evento fu talmente esasperato dalle risposte equivoche del Beccaria che dette ordine di metterlo in carcere, ma trenta giovani suoi seguaci riuscirono a liberarlo ed egli si rifugiò nella Mesolcina, dove si sposò e fece l’educatore dei figli degli italiani aderenti alla Riforma. “I Zuricani permisero erigesser una chiesa italiana nel tempio di San Pietro, con proprio pastore, che fu Giovanni Beccaria, il quale si conformasse ai riti e ai dogmi del Cantone, giurasse obbedienza al magistrato e al sinodo: provedendolo di cinquanta zecchini, centoquindici brente di vino, diciotto moggia di grano e due di avena”. Ebbe contatti con Heinrich Bullinger, famoso teologo e riformatore svizzero, ma presto i rapporti divennero burrascosi e il Beccaria fu rimosso dall’incarico e sostituito dal senese Ochino, che poco dopo fu anche lui cacciato, Beccaria tornò a Mesocco, dove gli fu permesso di restare e di istruire i giovani, cambiò il suo nome e si fece chiamare Kanesgen. In seguito fu di nuovo cacciato e trovò rifugio in Chiavenna, così scriveva ad un amico:”Dopo una lunga e grave disputa con questi nemici di Cristo, vinse la parte di mandarmi via, a patto però che i fratelli possano avere un altro predicante”. Spesso Beccaria o Kanesgen tornava a Mesocco, fiché fu cacciato con forza in seguito ad un’istanza di Borromeo nel 1571. Poche le notizie su Lodovico Besozzo e Giovanni Antonio Viscardi, detto Trontano. Cfr. C. Cantù, Gli eretici d’Italia… cit., Vol. III, pp. 85-90.

[220] Cfr. la nota n. 26 del presente lavoro.

[221] Ibid.

[222] Ibid.

[223] P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 361.

[224] Per alcune notizie su questi personaggi si rimanda alla nota n. 219 del presente lavoro.

[225]B. A. Ms. F 166 inf. c. 520 e segg.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p.354 e segg.; R. Boldini, Documenti… cit., p. 72 e segg. Riportiamo i nomi come sono scritti  nel Ms. : le prime quattro sono “Madallena Lorenzona, Madallena Bollasia, Gioanina Garoppa, Caterina de Pravo”. Seguono le altre sei i cui nomi sono: “Caterina Biasela, Domenica Bollasca, Caterina Nasona, Caterina Mascietta, Nisola Pedrazza, Caterina Bolla”. Per il Prevosto Quattrino si veda a p. 22-23 del presente lavoro.

 

[226] I loro nomi: “Antonia Morella, Madallena Belotta, Domenica Pedranda, Caterina et Ursina de Bassoti, Gioanina Nicola, Dominica Tognetta, Madallena Bocheta, Caterina Garleta, Agata Maceta, Nisola Malagigi, Margarita Melita, Ursina et Henrico Pravi, Maffia Gera, Dominica Gasoppa”.

[227] I 56 sospettati erano i seguenti: “Maffia et Nicola de Rivio, Caterina et Gioanina de Tognallo, Caterina de Togni, Gioanina Tina, Ursina Danza, Caterina Tiocha, Hinina et Antonia de Pravo, Pietro et Gioanni de Togni, Gioanni Comascio, Beltramo Travia, Tomaso Pizzona, Domenica Julina, Ursina et Gioani del Truso, Ursina Mascieta, Margarita Simoneta, Giovanni Cabiollo, Gioanina de Togni, Maddalena de Tinti, Ursina et Margarita de Togneti, Pietro et Dominica et Maffia de Togneti, Domenica Tadea, Giulio Buslono, Maffia Stefanona, Maffia Righeta, Ursina Garleta, Petroluno de Beffeno, Domenico Trusso, Gioanina Bassolla, Gioanina Masceta, Simoni de Simoneti, Dominica Margotia, Maffiera de Megno, Caterina di Gianino, Maffia Buscona, Dominia Morellina, Madallena Toppa, Caterina Nottona, Meneghina de Tartaini, Vanina de Pravo, Madallena Barbera, Dominica et Dominico Moreli, Giacomo Trusso, Georgio Trusso, Gioanni Gero, Himina et Agostino de Simoneti, Dominica stolta”.

[228] Riportiamo i loro nomi: “Dominica Guglielmazza, Margarita Villana, Caterina de Scerro, Margarita de Gianello, Stefana Bollasca, Antonio de Pravo, Gioanina Callasia, Margarita Masceta, Gioanina et Ursina de Andrioli, Gioanina et Antonio de Pravo, Maria de Tinti, Caterina Trussa”.

[229] I liberati per l’età erano: “Angela Morina, Caterina Labertalla, Caterina Berlenga, Giacomo Giappino, Domenico Friollo, Madalena et Gioanona de Albertalli”.

[230] “Domenico Pravo, Tadeo et Dominica de Rorré (di Roveredo), Tullio Togneta, Margarita Rigazza”.

[231] In una minuta di lettera del Borromeo datata 4 luglio 1584 e diretta allo Speciano troviamo che: “…mi viene scritto ultimamente dalla Valle Mesolcina che in Musocho…” tra i comvertiti si trova Samuele eretico e figlio del Trontano. B. A., Ms. P 24 inf. (II), c. 449r.

[232] Cfr. B. A., Ms. F 166, c. 524v. e 532v. R. Boldini, Documenti intorno… cit., pp. 73-75.

[233] Cfr. http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/storia/?unita =03.05)>

[234] B. A., Ms. F 69 inf., c. 329r.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo…cit., p. 357.

[235] F. D. Vieli, Storia… cit., p. 153.

[236] Cfr. http://mobile.hls-dhs-dss.ch/m.php?article=l11450.php ; si veda anche F. D. Vieli, Storia… cit., p. 162.

[237] A. Borromeo, L’opposizione all’eresia… cit., (Sur l’apothéose du cardinal Boromé in A. D’Aubigné, Oeuvres a cura di H. Weber, Paris 1970, ( Collection la Pléiade), p. 343) << Se occorreva, con la perfidia/ Fare la guerra all’eresia/ Dispensare da un giuramento pronunciato/ E fare cadere nella trappola/ Coloro che non adoravano la Santa Sede/ Si faceva ricorso a San Borromeo>>.

 

[238] Scipione Rebiba nacque a San Marco d’Alunzio (Messina) nel 1504, da Francesco e dalla nobildonna Antonia Filingeri dei conti di San Marco. A Palermo compì studi giuridici e si laureò in “utroque iure”; tra il 1536 e il 1537 si recò a Roma, dopo avere preso gli ordini maggiori; la sua carriera ecclesiastica si svolse sotto la protezione di Gian Pietro Carafa, fondatore dei teatini e Cardinale dal 1536. Dopo essere nominato vescovo in più sedi, Rebiba fece ritorno alla Curia, dove fu creato Protonotario apostolico, ad altre prestigiose nomine si affiancò anche quella di Ministro delegato del Santo Uffizio romano a Napoli. In questi anni il Cardinale Carafa era diventato molto potente come cardinale della Congregazione dell’Inquisizione, fondata nel 1542 e nelle sue mani il Santo Uffizio divenne uno straordinario strumento per la repressione dell’eresia e delle posizioni di dissenso interne alla Chiesa. A Napoli Rebiba fece una spietata campagna antiereticale contro i seguaci di Juan de Valdés, che, dopo la sua morte, ci fu una vasta diffusione delle dottrine valdesiane, già condannate dal Santo Uffizio, tra personaggi dell’aristocrazia e dell’alto clero. Nel 1555 il Cardinale Carafa fu eletto papa con il nome di Paolo IV, facendo della politica dell’Inquisizione quella del papato, Rebiba fu subito chiamato a Roma, dove, nello stesso anno, fu nominato Governatore della città; qualche anno prima era stato definito da un agente di Ferrante Gonzaga una “persona temerarie senza alcun rispetto”, che “procede inconsideratamente contra ognuno”. Rebiba diresse il processo contro Giovanfrancesco Lottini, segretario del Cardinale Guido Ascanio Sforza, con lo scopo di dimostrare l’esistenza di una congiura contro il Pontefice, ordita da cardinali, aristocratici italiani, agenti asburgici agevolati da Carlo V e dal figlio Filippo. Sempre nello stesso anno Rebiba fi creato Cardinale e gli fu concesso di abitare nel palazzo apostolico; con la sua formazione giuridica fu collaboratore prezioso nella complessa politica condotta dal Carafa, coinvolgendolo nella politica antiasburgica del Pontefice. Oltre che nella sfera politico-diplomatica, Rebiba ebbe incarichi molto importanti anche dal punto di vista ecclesiastico. Il 13 aprile 1556 fu nominato Arcivescovo di Pisa, anche se Cosimo de’ Medici aspirava a tale carica per il figlio Giovanni, ad eccezione di un breve periodo di residenza il nuovo Arcivescovo governò la Chiesa pisana per mezzo di vicari, lasciò tale governo nel 1560. Nel 1556 ebbe la nomina a Cardinale del Santo Uffizio rafforzando il suo impegno nella lotta contro le eresie, Paolo IV morì nel 1559, suo successore fu Pio IV . Rebiba fu accusato di coinvolgimento nell’assassionio della moglie di Giovanni Carafa, di avere contraffatto dei brevi concernenti l’Arcivescovato di Pisa e di altri crimini che portarono, la notte del 7 febbraio 1561 al suo arresto e al carcere in Castel Sant’Angelo per quasi un anno: di fronte al Tribunale ebbe un contegno reticente e sprezzante senza mai tradire i Carafa, il 31 gennaio 1562 fu scarcerato per non luogo a procedere. Fu reintegrato ed ebbe varie cariche. Con l’elezione a papa dell’inquisitore Ghisleri nel 1566, il quale prese il nome di Poi V, fu ripresa la politica del predecessore e Rebiba tornò ad abitare nel palazzo apostolico e fu riammesso nel Santo Uffizio, dove diresse importanti processi, in cui la repressione anticlericale era accompagnata da torture, roghi e abiure. Anche con il successore di Pio V, Gregorio XIII, Rebiba godette di ampie facoltà nell’ambito del Santo Uffizio e il suo contributo lo possiamo cogliere nelle lettere con le quali guidò l’azione repressiva dei vescovi e dei nunzi. Scipione Rebiba morì a Roma il 23 luglio soffocato da un boccone di cibo durante il pasto, fu sepolto nella chiesa teatina di San Silvestro al Quirinale. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/scipione-rebiba_%28Dizionario-Biografico%29

[239] Per Giacomo Savelli si rimanda alla nota n. 104 del presente lavoro.

[240] B. A., Ms. 23 inf., c. 228r.; A. Borromeo, L’opposizione all’eresia. Apostolo e “genio” pratico della riforma, in “Il grande Borromeo tra storia e fede”, Milano 1984, pp. 223-255.

[241] Cfr. A. Borromeo, L’opposizione all’eresia. Apostolo e “genio” pratico della riforma, in “Il grande Borromeo tra storia e fede”, Milano 1984, pp. 223-255.

 

 

 

 

 

 

LEONARDO E L’IDEA DI UNA NUOVA UNITA’ DELLA NATURA CON L’ARTE E LA SCIENZA

Nota Redazione: S’informano i gentili lettori della rivista “I Tesori alla fine dell’arcobaleno” che a causa di un errore tecnico riscontrato nelle note biografiche della prima stesura dell’articolo, “Leonardo e l’idea di una nuova unità della natura con l’Arte e la Scienza” viene pubblicato di nuovo nella forma corretta. Ci scusiamo per il disagio.

LOREDANA FABBRI

“ Nessun effetto è in natura sanza ragione, intendi la ragione e non ti bisogna sperienza”

Leonardo da Vinci 

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Il dipinto “Battesimo di Cristo” è un’opera del Verrocchio, ma Leonardo vi disegna l’angelo che regge la tunica in basso a sinistra, compiendo così il suo primo lavoro, dove è già evidente lo stile che caratterizzerà tutte le sue opere: l’angelo è visto di tre quarti di spalle e presenta una spiccata dinamicità  in contrasto con l’impianto quattrocentesco del dipinto, particolarmente con la staticità dell’angelo accanto, disegnato dal Verrocchio, della cui bottega Leonardo fece parte dal 1469 circa, anno del suo trasferimento a Firenze con il padre, e dove crebbe artisticamente concependo la figura umana, scolpita o dipinta, non immobile, ma inserita nello spazio.[1]

Nel decennio che va dal 1460 al 1470, la bottega del Verrocchio fu la più fiorente e importante di Firenze e costituì il fulcro del rinnovamento artistico di questa città, dove Leonardo imparò le tecniche di tutte le arti. Molti artisti del Rinascimento italiano studiarono pittura, scultura e fecero pratica nella sua bottega, oltre Leonardo, anche il Perugino, poi maestro di Raffaello, si formò artisticamente in questa bottega. Dopo la morte di Donatello (1455), Andrea del Verrocchio divenne lo scultore preferito della famiglia de’ Medici, fino a quando l’artista si trasferì a Venezia per la realizzazione della statua equestre del condottiero Bartolomeo Colleoni e proprio mentre stava lavorando a questa statua, il 25 giugno 1488, nominò, nel suo testamento, come prosecutore della sua opera, che tranne le rifiniture era quasi terminata, Lorenzo di Credi.  Andrea del Verrocchio morì a Venezia il 7 ottobre dello stesso anno. [2]

Il giovane Leonardo vive nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, che sarà anche il suo primo protettore e colui che lo raccomanderà a Ludovico Sforza, detto il Moro. Lorenzo de Medici è un politico abilissimo, che sa risolvere le situazioni più difficili, ma è consapevole anche di non poter invertire gli eventi storici, la sua diplomazia è perfetta come la sua poesia, la sua politica è permeata dal pensiero che “del doman non v’è certezza”. Gli ambienti culturali sono saturi del Neoplatonismo fiorentino, “filosofia della crisi”, crisi dei grandi valori affermati dall’Umanesimo all’inizio del Quattrocento, ma anche delle grandi aspirazioni politiche e culturali di Firenze.

L’Italia dell’epoca di Leonardo, ossia quella tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, è caratterizzata da un profondo cambiamento causato dalla modifica degli equilibri internazionali ed interni, quando Lorenzo il Magnifico muore (1492) si instaura a Firenze un breve e debole periodo repubblicano. All’inizio del secolo successivo, gli Stati Regionali italiani perdono la propria autonomia per i disegni espansionistici della Francia e della Spagna, le quali si contenderanno il territorio italiano, che dopo la morte di Lorenzo è visto come oggetto di spartizione tra le due monarchie, che, dopo varie lotte, con il trattato di Noyon del 1516, viene confermato alla Francia il Ducato di Milano e alla Spagna quello del Regno di Napoli, anche se non bastò a far cessare le rivalità tra le due monarchie.

La progressiva potenza degli Asburgo portò papa Clemente VII de’ Medici a costituire un’alleanza con la Francia, la Repubblica di Venezia e Firenze con Lega di Cognac, ma non fu in grado di evitare il sacco di Roma nel 1527, che suscitò orrore in tutto il mondo cattolico: i Lanzichenecchi, per la maggior parte tedeschi e luterani, misero la città sotto assedio e saccheggiata per giorni. Il Papa, barricato in Castel Sant’Angelo, fu costretto alla pace con l’Imperatore, ottenendo la restaurazione della propria famiglia a Firenze. Con la pace di Cambrai del 1529, la Francia rinunciava alle mire sull’Italia e alla Spagna veniva riconosciuto il possesso di Napoli e di Milano. Ma i conflitti franco-spagnoli continuarono fino alla pace di Cateau-Cambrésis, che mise fine allo scontro tra le due monarchie per l’egemonia europea: la Spagna consolidò il proprio dominio in Italia, che durò fino al 1714.

A Firenze, Leonardo trascorre dodici anni di metodica formazione e intensa sperimentazione. I suoi studi affrontano ogni campo dello scibile: dalla scienza alla pittura, dall’urbanistica, all’ingegneria; profondamente affascinato dal volo, una “leggenda” narra che osservasse per lunghe ore il volo degli uccelli dalla cima del Masso della Gonfolina, uno sperone di roccia nei pressi di Lastra a Signa, per poi ricavarne materiale per i suoi saggi.

Gli studi di botanica, anatomia, in particolare l’ottica, in cui l’occhio è considerato il tramite tra l’immagine e l’anima, sono derivati dal rapporto esistente tra scienza ed arte. Leonardo, partendo da una concezione quattrocentesca, concepisce la produzione artistica come lo specchio della natura, che deve essere indagata e studiata profondamente per essere degnamente rappresentata. Egli sostituì l’idea filosofica che l’artista dovesse imitare la natura con la convinzione che suo compito fosse invece l’indagine scientifica delle leggi della natura, della quale era indispensabile comprendere il funzionamento in modo da ricrearla poi nell’opera d’arte.

Di Leonardo scrittore abbiamo una curiosa testimonianza nelle “Favole”, una raccolta di componimenti brevi, che nascondono seri ammonimenti in un miscuglio di dottrina ed arguzia: il termine “favola” deriva dal latino “fabula” che significa parlare e il fine di questo antichissimo genere letterario era quello di trasmettere, in forma orale, la tradizione, i principi, i valori della società, quindi destinata a dare un significato e ad offrire risposte agli eventi della vita quotidiana, storie semplici e immediate con fine moralistico, perché non è importante la storia, ma l’insegnamento che il lettore ne deve ricavare. La Natura è il personaggio onnipresente nelle favole del genio toscano, nei suoi elementi: l’acqua, l’aria, il fuoco, la pietra, le piante e gli animali; l’uomo invece è un estraneo guastatore di ogni cosa, come lo definisce Leonardo nelle sue profezie. Oltre che interrogare la natura con il suo spirito indagatore, ne rimane affascinato, anche se possiamo cogliere un certo pessimismo sul comportamento dell’uomo e sulle manifestazioni della natura. Spesso troviamo che il predatore viene predato, il raggiratore viene raggirato e molte volte è la forza cieca della natura a vincere su tutto. Tra i soggetti, le piante sono quelli preferiti, e ad ognuna viene attribuito un carattere umano: al giglio e al cedro la superbia, al fico l’esuberanza, anche gli animali e gli oggetti hanno attributi umani: il granchio diventa simbolo dell’ingenuità, l’aquila della goffaggine, la talpa della bugia, la lepre della viltà,  lo specchio della vanità, il rasoio dell’indolenza etc.

Le favole furono composte tra il 1490 e il 1493 circa, quando Leonardo si trovava presso la corte sforzesca, dove la tradizione favolistica era molto diffusa e probabilmente furono scritte per animare e divertire le feste di Ludovico il Moro e dei suoi ospiti. Esse sono scritte sul modello di Esopo e di Fedro, anche se Leonardo mantiene una sua chiara identità, e mettono costantemente in guardia dai pericoli dell’ignoranza e della presunzione, poiché per Leonardo <<La vera saggezza nasce dalla conoscenza della Natura e da una vita armoniosa con essa>>, evidenziando soprattutto l’importanza di non superare i limiti della natura, argomento attualissimo. In esse, come anche nelle facezie e nei proverbi, emerge tutta l’eredità di quel mondo popolare toscano, che fu determinante nella prima formazione di Leonardo.

I suoi scritti non derivano da un’attività separata da quella artistica, poiché arte e scienza, secondo Leonardo, hanno in comune lo scopo della conoscenza della natura; la pittura, massima tra tutte le arti, è la stessa scienza, perché <<si estende nelle superficie, colori e figure di qualunque cosa creata dalla natura>>; ciò che la distingue dalla scienza è che quest’ultima <<penetra dentro i medesimi corpi>>. Per il maestro toscano la natura, è scritta in caratteri geometrici; l’arte ne coglie l’aspetto qualitativo, cioè quella proporzione esistente nei corpi che ne costituiscono appunto la bellezza, invece la scienza esprime gli stessi rapporti in termini di leggi matematiche, rifacendosi in tal modo alla tradizione platonica.

Scrivere sulla vita di Leonardo è come aggiungere una goccia nel più grande degli oceani, ma un breve sguardo sui dati biografici ci informano su avvenimenti molto importanti che mettono in luce la complementarietà di arte e scienza nella formazione e nelle attività del grande maestro, ad esempio in età adolescenziale, aveva circa diciassette anni quando cominciò a frequentare la bottega del Verrocchio, ricevendo una formazione sia artistica che artigianale, dove non veniva insegnato solo il disegno e la pittura, ma anche le “Artes mechanicae”, che davano la possibilità agli allievi di divenire ingegneri, ricercatori e sperimentatori.[3]

Tali riferimenti biografici consentono di evidenziare le principali caratteristiche del pensiero vinciano: questa preparazione veniva diramata empiricamente e tale formazione differenziava questi “tecnico-artisti” dai letterati e dai filosofi con una preparazione culturale molto diversa, che li faceva sentire inferiori, ma questo è anche il periodo in cui a Firenze l’empirismo si coniugava con la scienza, ne sono un chiaro esempio il Brunelleschi e il Ghiberti, il primo applica la matematica all’ottica, ricavando le leggi della prospettiva, il secondo, nei suoi “Commentari” consigliava, anzi raccomandava ai pittori di approfondire le loro conoscenze nella grammatica, filosofia, geometria, astrologia, prospettiva, medicina, anatomia, disegno, avvicinando le arti meccaniche a quelle liberali, “obbligando” questi artisti ad intraprendere studi umanistici, soprattutto un’adeguata conoscenza letteraria e della lingua latina, che continuava ad essere la lingua ufficiale della scienza.[4]

Perché Leonardo non pubblicò mai le sue esperienze, le meditazioni e le invenzioni, a cosa era dovuto questo isolamento scientifico? Sembra impossibile e non accettabile che la causa sia stata una sorta di complesso d’inferiorità, che come autodidatta e inesperto della lingua latina e dell’ignoranza del greco, che invece erano fondamentali per gli umanisti, lo abbia portato a tale isolamento, il suo temperamento, che spaziava da un grande calore intellettuale ad un impressionante gelo sentimentale, poteva affascinare, ma non spiegare il problema della sua mancanza di comunicazione scientifica. A chi lo accusa di essere un “omo sanza lettere”, egli ribatte con orgoglio di derivare la propria scienza direttamente dalla natura: <<So bene che, per non essere io litterato, che alcuno presuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere>>.[5]

Occorre tenere presente che in Italia, intorno al Cinquecento, l’artista, l’ingegnere, il matematico ha bisogno del favore di principi, re e papi, sia per vivere sia per studiare e nelle lettere che Leonardo invia presso vari potenti per offrire loro i suoi servigi ricorre spesso la conferma che lui è in grado di attuare ritrovati che nessun altro conosce e nelle stesse lettere elencava le proprie molteplici capacità di ingegnere civile e militare, architetto, scultore  e pittore. D’altra parte tutta l’epoca in cui egli visse, fu caratterizzata da un relativo isolamento nel campo della ricerca, l’indagine sperimentale era vista dalla Chiesa con sospetto e tutti i risultati non conformi alle dottrine teologiche erano condannati.

Quando Leonardo da Firenze si trasferì a Milano, la sua attività si basò soprattutto sull’architettura e l’ingegneria militare, poiché erano questi i compiti assegnati da Ludovico il Moro al maestro, anche se si applicò alla scultura e alla pittura e proprio in questo periodo milanese crebbe il suo interesse per i problemi scientifici, in seguito si dedicò anche alle fortificazioni e all’idraulica, senza trascurare la pittura, certamente alla corte sforzesca trovò l’ambiente favorevole allo sviluppo dei suoi interessi scientifici sia in ambito della fisica che in quello delle scienze naturali; qui conobbe il frate francescano Luca Pacioli, matematico e filosofo, e per la sua opera più importante, “De Divina Proportione”, sarà proprio Leonardo a realizzare ben cinquantanove disegni geometrici inseriti nell’opera dell’amico matematico. Il trattato è fondamentale per capire l’arte e la cultura dell’Umanesimo prospettico e riassuntivo di tutto il pensiero di Pacioli. Non è strano che Leonardo fosse attratto dai calcoli dell’amico, perché lui stesso, nel 1490 circa, disegnò la celeberrima rappresentazione delle proporzioni ideali del corpo umano inscritto in un quadrato e in un cerchio, ossia il cosiddetto uomo vitruviano, intuizione che ebbe seguendo l’opera di Marco Vitruvio Pollione (attivo nella seconda metà del I secolo a. C.) tradotta da Francesco di Giorgio Martini, che fu quella di trasferire in un’immagine la logica architettonica, combinata con il calcolo algebrico e con la geometria lo studio delle proporzioni del corpo umano: l’uomo è scientificamente proporzionato, facendo in tal modo del disegno un’arte scientifica, che può vedere quello che la natura compie.[6]

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Il tema del rapporto intercorrente tra la scienza e l’arte in Leonardo è un tema cui si sono dedicati molti studiosi e le valutazioni e le considerazioni che essi esprimono, testimoniano grandi disparità,  il filosofo Ernst Cassirer (1874-1945) così scrive: <<Dalla fusione delle due facoltà fondame tali che caratterizzano Leonardo, cioè dalla libertà e dalla vivacità della fantasia estetica e dalla purezza e dalla profondità della speculazione matematica, si origina il nuovo concetto di esperienza>>.[7] Già Gerolamo Cardano e Giorgio Vasari ebbero delle incomprensioni verso la sintesi di Leonardo tra arte e scienza, in particolar modo Vasari, il quale ravvisa nel superamento della regola matematica e sull’asserzione della “licenza” l’attuabilità dell’ideale specifico di tutte le arti.

Per altri Leonardo rappresenta il vertice di un grandioso disegno atto a realizzare una sintesi tra arte e scienza, ossia a dare basi scientifiche alla pittura, che vide partecipi gli artisti rinascimentali: <<Quelli che s’innamorano della pratica senza la scienza, sono come i nocchieri che entrano in naviglio senza timone o bussola, che mai hanno la certezza dove si vadano. Sempre la pratica deve essere edificata sopra la buona teorica, della quale la prospettiva è guida e porta , e senza questa nulla si fa bene>>.[8]

Il passaggio dall’empirica medievale (scienza della visione, ottica) alla scienza della rappresentazione pittorica (perspectiva artificialis o pingendi) ebbe inizio con Filippo Brunelleschi (1377-1446), successivamente con Leon Battista Alberti (1404-1472) e Piero della Francesca (1416-1492), fino a Leonardo (1452-1519), il quale quando superò l’idea di utilizzare solamente la matematica, idea molto riduttiva, come tramite per dare rigore formale all’idea di bellezza, per arrivare al concetto che forma geometrica, luce, ombre e colori erano in grado di dare ad un’opera artistica efficacia fisica e soffio poetico, così scrive nel “Trattato della pittura”: <<D’un medesimo colore posto in varie distanze ed eguali altezze, tale sarà la proporzione del suo rischiaramento quale sarà quella delle distanze che ciascuno di essi colori ha dall’occhi che li vede>>.[9]

Per il maestro toscano, la pittura è la “sola imitatrice di tutte le opere evidenti in natura”. E questa identità tra arte e scienza, come Leonardo dice nel Trattato della pittura, altro non è che un aspetto dell’unitarietà del mondo, governato dalle medesime leggi, sia che si tratti della fisica che della medicina, dell’architettura, dell’idraulica. Convinzione “illuministica”, nel senso che Leonardo crede di poter dominare il sapere, proprio perché riconducibile ad un unicum. <<Se tu spezzerai la pittura, la quale è solo imitatrice de tutte l’opere evidenti de natura, per certo tu spezzerai una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme: aire, siti, piante, animali, erbe, fiori, le quali sono cinte d’ombra e lume. E veramente questa è scienzia e legittima figliola di natura; ma per dir più corretto, diremo nipota de natura perché tutte le cose evidenti sono state partorite dalla natura. Adonque rettamente la chiamaremo nipota d’essa natura e parente d’Iddio>>.[10]

Leonardo da Vinci Tutt'Art@ + (3)

Negli anni fiorentini, per Leonardo, prospettiva e disegno si configurano come scienza. Più tardi i disegni nei quali si esercita a sezionare il corpo umano oppure un’architettura o il progetto di una macchina per volare sono la dimostrazione del medesimo approccio. Nel Codice Atlantico parlerà di “medico architetto” oppure di “cupola del Cranio”, sovrapponendo due ambiti. Paragonerà i fiumi alle vene. Penserà che lo sfregamento degli organi vitali possa tradursi, nel disegno, in passaggio del tratteggio per linee parallele a quello curvilineo.

Si è parlato di Leonardo come neoplatonico, umanista, antiplatonico e antiumanista, artista, scienziato, metafisico, empirista, rendendo il Da Vinci un soggetto passivo e avvolto in un alone di mistero, tutte queste antitetiche interpretazioni hanno cercato un minimo comune denominatore nella filosofia, che unificasse il suo poliedrico sapere: nel XIX secolo, quando si affermò il Positivismo come movimento filosofico e culturale, che ricusando le astrattezze della metafisica, si limitava ad organizzare i dati delle scienze sperimentali, Leonardo venne osannato come il precursore di tutte le scienze moderne, in seguito, agli inizi del XX secolo, l’originalità del suo pensiero fu molto ridimensionato.

Gli studiosi sono concordi nell’affermare che sia nell’arte sia nella tecnica Leonardo è stato grandioso e riconoscono l’altissimo valore delle sue opere, ma per ciò che riguarda la produzione scientifica e filosofica l’opinione diventa molto difficoltosa, così si esprime Paolo Rossi, pur riconoscendo vari intuizioni importanti, che, tuttavia, restano isolate nell’ambito delle sue opere : <<…la ricerca di Leonardo, che è straordinariamente ricca di balenanti intuizioni e di geniali vedute, non oltrepassa mai il piano degli esperimenti curiosi per giungere a quella sistematicità che è una delle caratteristiche fondamentali della scienza e della tecnica moderne. […] Leonardo non ha alcun interesse a lavorare a un corpus sistematico di conoscenze e non ha la preoccupazione (che è anch’essa una dimensione fondamenta ledi ciò che chiamiamo tecnica e scienza) di trasmettere, spiegare e provare agli altri le proprie scoperte>>.[11] Ancora più complicato è stabilire quale sia il ruolo  del genio toscano nella storia della filosofia, argomento che ha suscitato numerosi dibattiti tra studiosi e che nei primi anni del secolo XX vede impegnati in tale discussione, anche se in modo diverso, i due maggiori rappresentanti della filosofia italiana: Benedetto Croce e Giovanni Gentile.[12]

In un saggio del 1906, dedicato a Leonardo filosofo, Benedetto Croce sostiene che l’artista toscano non fu filosofo, o per lo meno lo fu in modo indiretto, per metonimia, infatti <<verso l’osservazione e il calcolo effonde ogni suo entusiasmo>> bramando al <<possesso del modo esterno>> ma i filosofi veri <<celebrano la potenza dello spirito […] non quella dei cinque sensi>>,[13] secondo Croce la filosofia non può essere interpretazione della natura, né l’arte può porre le basi partendo dall’operatività del soggetto, quindi Leonardo non può essere filosofo in quanto naturalista, conseguentemente non era possibile per lui impostare una teoria dell’arte e un’estetica, perché Croce sostiene che: <<l’estetica è disciplina speculativa, e presuppone e compie insieme il sistema, una disciplina in cui vi è necessità di trascendere il fenomeno […] Leonardo non riesce a distinguere due cose affatto diverse: l’impronta dell’anima del creatore nell’opera d’arte (che è poi la sostanza stessa dell’opera d’arte) e l’invasione illegittima dell’arbitrario individuale: lo stile e la maniera>>.[14] Croce sostiene anche che Leonardo non solo non riesce a percepire la “liricità” della realizzazione artistica, ma suppone di “tecnicizzare” questo processo, uscendo in tal modo dall’ambito dello spirito, ma essendo fuori dallo spirito non può essere filosofia. Nel “Trattato della pittura” di Leonardo, secondo Croce, possiamo trovare solo <<un gran libro di tecnica>>, non certamente la filosofia dell’arte.[15] A Leonardo, per il filosofo abruzzese, mancava proprio quella coscienza dell’interiorità che si realizza nell’opera d’arte, la fantasia creatrice, la natura lirica e passionale propria della creazione artistica

Nei primi anni del Novecento, Leonardo fu oggetto di un rinnovato interesse da parte degli studiosi, che con la sistemazione delle sue opere, lo celebrarono come genio universale e simbolo dello scientismo, che attribuiva alle scienze fisiche e sperimentali e ai loro metodi, la capacità di soddisfare tutti i problemi e i bisogni dell’uomo, scientismo proprio del Positivismo, ma lo stesso Croce, nella premessa del saggio, per chiarire i dubbi sulla natura provocatoria di ciò che sarà il suo discorso scrive: <<Perché quelle conferenze erano, nel loro complesso, manifestazione dell’odierna moda del culto leonardesco, io volli reagire nel trattare il tema a me assegnato e fare alquanto l’avvocato  del diavolo. Dico ciò, perché s’intenda l’intonazione del mio discorso>>.[16] Secondo Croce la filosofia deve essere intesa come un cammino che inizia col pensiero ellenico, e tramite il Neoplatonismo, il Cristianesimo e la Scolastica, si lega a Cusano, a Bruno, a Cartesio, a Spinoza, per arrivare a Kant e all’Idealismo del XIX secolo: questo è il percorso del pensiero filosofico e la sua peculiarità è quella di una costante riflessione critica sul contenuto delle altre scienze, allora, come sostiene Croce, Leonardo non appartiene a quella sfera del pensiero, ma volto a celebrare la potenza della matematica, ritenendola il punto di partenza indiscutibile di ogni conoscenza certa, negando il valore della verità alle scienze speculative, in cui non c’è certezza in quanto non si avvalgono dell’esperienza.[17]

Il filosofo abruzzese critica anche l’attributo di “uomo universale” dato al maestro toscano, sostenendo che la fama di apolitico di cui si fregiava Leonardo, distaccato completamente dagli affari pubblici, non si combina con l’immagine di uomo universale e la poliedricità attribuitagli si deve intendere come <<bilateralità di attitudini, attitudine di pittore e attitudine di scienziato naturalista; e l’aggettivo universale esprime enfaticamente e iperbolicamente la meraviglia destata da quella duplice attitudine, degna certamente di meraviglia>>.[18] Il giudizio del Croce è negativo anche per ciò che riguarda l’arte <<Se ciò che sono venuto finora esponendo è esatto, si comprende come a Leonardo, afilosofo in quanto naturalista, e antifilosofo in quanto agnostico, dovesse riescire impossibile pensare una teoria dell’arte e un’estetica. Perché l’estetica è disciplina speculativa, e presuppone e compie insieme il sistema; e di tutte le manifestazioni dell’attività umana l’arte è forse quella, la quale, più generalmente e immediatamente, fa sentire il bisogno di una considerazione, che trascenda il fenomeno>>.[19]

Alla totale estraneità di Leonardo di fronte alla filosofia di Croce, fa riscontro l’opinione di Giovanni Gentile, il quale inizialmente non considera Leonardo filosofo, ma poi elogerà la profonda spiritualità di artista e di scienziato. Gentile si chiede: <<Chi non conosce le benemerenze di Leonardo nell’esaltazione dell’esperienza, come strumento di certezza e di verità della cognizione, and’egli, senza dubbio, precorre a Galileo e Bacone?>>.[20]

All’inizio del suo saggio Gentile scrive. <<Se per filosofo s’intende chi abbia scritto dei libri per dare una soluzione almeno di qualcuno dei problemi filosofici, o una trattazione sistematica d’una dottrina appartenente al sistema della filosofia, Leonardo non fu un filosofo. Nei suoi manoscritti non si troverebbero insieme due pagine di argomento filosofico. Se per filosofo s’intende chi, come Socrate, sdegnando quei discorsi muti e quasi morti che sono consegnati alle carte e vi restano fissi, incapaci di rispondere alle inattese difficoltà e alle sempre nuove domande del lettore, non abbia mai scritto di filosofia, ma abbia tuttavia suscitato con l’insegnamento vivo una scuola, che ha perpetuato e fecondato il pensiero, promovendo così un moto spirituale, che da lui ripeta la sua prima origine, Leonardo non fu un filosofo. I suoi scolari ammirarono in lui l’artista, il sommo artista; il movimento filosofico del Cinquecento non solo non fa capo a Leonardo, ma ne ignora il nome. […]Il suo spirito è dominato da molti interessi teoretici e speculativi, anzi si può dire attratto da tutti i problemi della scienza, ma è retto nel profondo dall’istintiva vocazione dell’artista, da desiderio sempre inesausto della visione pittorica, dei colori e delle linee, dalle quali traluce l’anima umana. […]Leonardo artista e scienziato (naturalista e matematico), è filosofo dentro alla sua arte e alla sua scienza: voglio dire che si comporta da artista e da scienziato di fronte al contenuto filosofico del proprio pensiero, che non svolge perciò in adeguata e congrua forma filosofica, ma intuisce con la genialità dell’artista e afferma con la dommaticità dello scienziato. La sua filosofia, in questo senso, non è un sistema, ma l’atteggiamento del suo spirito, ossia le idee, in cui si adagiò quel suo spirito possente, creatore d’un mondo di immagini, umane o naturali, ma tutte egualmente espressive di una ricca, commossa vita spirituale: è la cornice del quadro in cui egli vide spiegare quella infinita natura che era esposta al suo avido occhio di indagatore>>.[21]

L’esperienza leonardesca è per Gentile libera da ogni pregiudizio, in quanto uno strumento di verità, una fonte primaria del sapere, che gli derivava anche dall’ambiente culturale stimolante della Firenze del suo tempo, che con il Neoplatonismo vengono rimesse in gioco molte problematiche accantonate precedentemente. In un passo del “Codice Atlantico Leonardo scrive: <<Nessuno effetto è in natura sanza ragione. Intendi la ragione, e non ti bisogna esperienza>>, Gentile accosterà queste parole a quelle con cui Schelling <<formulò il concetto di una scienza a priori: la ragione di cui parla Leonardo, è a priori per l’appunto come l’idea schellinghiana>>.[22] In tal modo il filosofo esalta il genio di Leonardo celebrandone la potenza artistica e la natura di ricercatore, riconoscendogli un’appartenenza a quella linea di pensiero che dal Neoplatonismo arriva fino all’Idealismo.

Completamente opposti gli atteggiamenti dei due filosofi: Croce cerca di abbattere il mito di precursore del moderno scientismo nel genio toscano, opponendosi al pensiero del Positivismo; Gentile cerca di trovare in Leonardo quei principi che saranno fondamentali nella storia della filosofia successiva.[23]

Oggi si tende a vedere in Leonardo una delle più alte espressioni della cultura umanistico-rinascimentale: il passaggio al pensiero moderno realizzato, prodotto fuori dalla tradizione erudita nel vincolo di conoscenza e di dominio tecnico della natura. Il suo concetto di sapere scientifico, del metodo seguito, l’importanza attribuita sia all’esperienza che alla matematica, lo posiziona come anticipatore di Galilei: alla cultura scolastica contrappose l’osservazione diretta della natura, che si esprime anche nella sua opera artistica.

Secondo alcuni studiosi, pur riscontrando negli scritti di Leonardo influssi del pensiero di Guglielmo d’Occam e dei filosofi naturalisti del XV secolo italiano, egli subì particolarmente l’influenza di Nicola Cusano: la natura come un unico organismo vivente, un macrocosmo che si individualizza nel microcosmo umano, il fenomeno delle maree, gli eventi vulcanici testimoniano il vibrare della vita della natura, il tendere degli elementi al Tutto, i loro continui mutamenti trovano corrispondenza nel maestro toscano nel microcosmo dell’organismo vivente.

Altri storici, evidenziano il carattere meccanicistico e antianimistico della sua concezione della natura, il suo modo di concepire la matematica sembra asserire un atteggiamento concreto di fronte alla stessa natura, poiché tale scienza si contraddistingue come disciplina indiscussa e rigorosa, viene accolta come regola imprescindibile del mutare della natura, che appare come un intreccio caotico di forze ed effetti, di cui solo la matematica può comprendere l’ordine di questo apparente caos.

Leonardo scrive a questo proposito:<<chi biasima la somma certezza della matematica, si pasce di confusione e mai porrà silentio alle contraditioni delle soffistiche scientie con le quali si impara un etterno gridore>>.[24] In tal modo la matematica diventa strumento basilare della conoscenza della natura, accanto all’esperienza, che costituisce l’altro cardine del metodo scientifico del maestro toscano. Egli, infatti, polemizza contro le scienze <<che principiano e finiscono nella mente>>, ed elogia l’importanza dell’esperienza, poiché, per Leonardo, è all’origine di tutte le nostre conoscenze. La natura è retta da <<ragioni>>, cioè da leggi: <<nessun effetto è in natura sanza ragione>>. Una volta che l’esperienza ci mette in contatto diretto con la natura, per mezzo della matematica possiamo scoprire e formulare leggi e una volta conosciuta la legge, da questa possiamo dedurre gli effetti, anche senza ricorrere di nuovo all’esperienza. Questo è il senso della celeberrima asserzione <<intendi la ragione e non ti bisogna esperienza>>.

L’unione di arte, scienza e tecnica rappresenta l’aspetto più importante dell’opera del maestro toscano, che rispecchia il distacco dell’uomo rinascimentale dall’unità teologica del sapere medievale e dall’autorità della Bibbia, facendo emergere quel rapporto diretto dell’uomo con la natura che è condizione essenziale per il sorgere della scienza moderna.[25]

In tal modo si può considerare Leonardo come uno degli artefici di quella “rivoluzione copernicana” che segna l’inizio della ricerca scientifica moderna, attuata dal naturalismo rinascimentale, che ribalterà il rapporto ragione-natura, analogamente a quella di Copernico sul rapporto Terra-Sole, compiuta nella seconda metà del Cinquecento.[26] Senza nulla togliere al pensiero Scolastico medievale, anzi ammirandone la capacità dei dotti di questo periodo di dedurre le leggi naturali da una semplice analisi mentale, che, tuttavia, nega il carattere di scienza a tutto quello che non sia pura speculazione e le “arti meccaniche” sono considerate, con un certo disprezzo, inferiori.[27]

Leonardo rappresenta chiaramente questo mutamento radicale: scompare il filosofo che pretende di indagare l’universo con gli schemi mentali da lui elaborati, per far posto allo scienziato, che esplora la natura con la ricerca e la sperimentazione e agli occhi del maestro toscano si presenta un mondo intero da scoprire e il suo fine è quello di conoscere e comprendere la natura nella sua infinita complessità e varietà, non chiarire i fenomeni ancora incomprensibili, tenendo presente che all’epoca di Leonardo, come dirà poi Engels, la ricerca scientifica “doveva lottare per conquistare lo stesso diritto all’esperienza”.[28]

Attualmente, alcune asserzioni di Leonardo possono sembrare semplici o ovvie, ma all’epoca esprimevano un vero e proprio rovesciamento del sapere dei vari rami della cultura: per gli studiosi umanisti contemporanei del tempo ha carattere scientifico solo quella cognizione <<che nasce e finisce nella mente>>, ossia quella conoscenza partorita dall’esperienza è da considerarsi come meccanica, quindi da collocarsi ad un livello più basso e non da considerare vera scienza. Diversamente per Leonardo <<le scienze che principiano e finiscono nella mente>> sono prive del carattere di verità, non sono scienze vere, infatti egli le definisce <<le bugiarde scienze mentali>>, poiché <<in tali discorsi mentali non accade esperienza, senza la quale nulla si dà certezza>>.

Leonardo è mordace e pungente contro gli pseudo scienziati metafisici e così si esprime nei suoi scritti: <<Se bene, come loro, non sapessi allegare gli altori, molto maggiore e più degna cosa a leggere è allegando la sperienza, maestra ai loro maestri. Costoro vanno gonfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro, ma delle altrui fatiche, e le mie a me medesimo non concedono; ma trombetti e recitatori delle altrui opere potranno essere biasimati>>. <<Ma a me pare che quelle scienze sieno vane e piene di errori, le quali non  sono nate dall’esperienza, madre di ogni certezza, o che non terminano in nota esperienza, cioè che la loro origine e mezzo e fine non passa per nessuno dei cinque sensi>>.[29]

Tutto ciò non significa che la posizione di Leonardo porti ad un empirismo acritico o ad un culto positivistico del dato sensibile, semmai può implicare un certo materialismo scientifico piuttosto rigoroso, che implica la netta separazione tra scienza e teologia, vanificando la magia medievale, le forme estreme di credulità, che speravano di poter dominare la natura, proprio perché la scienza medievale non aveva carattere sperimentale e operativo. In un’epoca in cui il filosofo naturale è costretto a far conoscere il suo pensiero in una forma che non contrasti direttamente con le dottrine della Chiesa. Così scrive Leonardo: <<O mirabile e stupenda necessità, tu costringi con la tua legge tutti li effetti, per brevissima via, a partecipare delle lor cause. Questi son li miracoli>>, è forse esaltazione della conoscenza e non del mistero o affermazione delle leggi necessarie della natura e non poesia dell’inconoscibile?[30]

Riportiamo anche l’opinione di Eugenio Garin su Leonardo con le sue stesse parole: <<In verità Leonardo da Vinci, vissuto in uno degli ambienti più colti e completi d’Europa, iniziatosi all’indagine più sviluppata e aggiornata del tempo, trovò poi, nei circoli pavesi, milanesi, veneti e settentrionali in genere, una più forte accentuazione di quelle discussioni logiche e fisiche che già dal Trecento andavano consumando un’indagine antica del mondo. Artista mirabile e scrittore originalissimo, non fu certo lui a creare il metodo sperimentale, o la sintesi fra matematica ed esperienza, o la fisica nuova, ma può bene assurgere a simbolo del trapasso da una profonda elaborazione critica, di cui talora egli compendia i resultati, alla formulazione di concezioni rinnovate. Prese contatto con i processi metodici e con le teorie meccaniche che avevano ormai oltrepassato il vecchio aristotelismo e recò, qui come altrove,  contributi larghissimi di limpide osservazioni. Tuttavia mentre sul terreno filosofico non raggiunse una visione nuova del reale ma si limitò a ripetere con finezza variazioni di temi diffusi, sul terreno scientifico, se non elaborò teorie d’insieme originali, in più d’un caso approfondì tesi feconde che trovava già formulate. Osservatore instancabile fissò con meravigliosa eloquenza le sue esperienze, ma non sempre oltrepassò l’andamento degli esperimenti “magici”; sentì con geniale intuizione il grande valore della tecnica, e fu certo uno straordinario “ingegnere”, ma in più di un caso inseguì visioni fantastiche senza mettersi per le umili vie dei processi necessari alle realizzazioni concrete; ed anche in questo fu a volte più simile a un Ruggero Bacone che non a un Galilei. Fu, soprattutto, esponente caratteristico di un’epoca e di una città d’eccezione, dell’inquietudine di un mondo che mutava. Ma, in questo, non fu più eccezionale di molti altri dell’età sua aperti a ogni interesse, consapevoli della centralità dell’uomo che con le proprie mani costruisce il proprio mondo>>.[31]

Paisagem_do_Arno_-_Leonardo_da_Vinci

Il famoso “Paesaggio” datato 5 agosto 1473, di cui attualmente gli studiosi sono divisi per quanto riguarda il luogo, è un disegno di Leonardo conservato presso la Galleria degli Uffizi (Gabinetto dei Disegni e delle Stampe) a Firenze, in cui possiamo vedere la personalissima scrittura leonardesca riporta: “Dì de Sta Maria della Neve/Adì 5 daghosto 1473”, la veduta di un fiume, con alberi, cespugli e campi coltivati, si apre tra due promontori scoscesi. Il disegno, probabilmente tratto dal vero, mostra spunti reali familiari all’artista per la sua infanzia trascorsa in campagna.

A deluge

Un altro celeberrimo disegno, conservato a Windsor, risalente al 1517-1518, facente parte della serie dei “Diluvi”, rappresenta una collina rocciosa sotto un diluvio, che piega gli alberi trascinati giù per la collina, la pioggia si convoglia in una cascata e il primo piano risulta pieno di acqua gorgogliante e vorticosa.

Questi due disegni: uno realizzato a diciassette anni circa, l’altro negli ultimi anni della sua vita, ci fanno capire il radicale cambiamento avvenuto nella rappresentazione della natura: Leonardo parte da un concetto benigno verso la natura, per arrivare, dopo molti anni, ad una percezione distruttiva e negativa, in cui l’essere umano è costretto a soccombere, non avendone il controllo. Quest’assillo per la distruzione può essere visto come l’espressione profondamente personale di un uomo che si approssimava alla fine, un artista che aveva visto alcune delle sue più grandi creazioni incompiute o distrutte, che aveva un profondo senso della trasformazione di tutte le cose, che temeva il caos nell’intelletto, nella natura, nella politica e che soprattutto riconosceva l’impossibilità dell’unità del sapere.

Leonardo da Vinci è stato, dagli studiosi di tutte le epoche a lui posteriori, osannato e demolito, lodato e criticato, ma ancora oggi, a distanza di cinque secoli dalla sua morte, è forse l’unica persona cui diamo l’aggettivo di “genio universale”, perché questo personaggio straordinario non fu un genio, ma il genio e vogliamo terminare con queste sue parole: <<So bene che, per non essere io litterato, che alcuno presuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere. Gente stolta! Non sanno questi tali ch’io potrei, sì come Mario rispose contro a’ patrizi romani, io sì rispondere, dicendo: “Quelli che d’altrui fatiche se medesimi fanno ornati, le mie a me medesimo non vogliano concedere”. Diranno che, per non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare. Or non sanno questi che le mie cose son più da esser trattate dalla sperienza, che d’altrui parola; la quale fu maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio e quella in tutti i casi allegherò>>.[32]

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NOTE

1 Il Battesimo di Cristo è un’opera a olio e tempera su tavola di Andrea del Verrocchio, databile tra il 1475 e il 1478, conservata presso la Galleria degli Uffizi a Firenze. Andrea di Michele, detto il Verrocchio nacque a Firenze nel 1436 circa da Michele di Francesco di Cioni e da Gemma sua prima moglie, dal suo primo maestro, l’orafo Giuliano del Verrocchio prese il nome con cui è più conosciuto. Fu scultore, orafo e pittore, guidò un’importantissima bottega d’arte a Firenze, in cui, oltre a dipingere e a scolpire, venivano realizzate armi ed armature pregevoli ed oggetti che per la loro creazione richiedevano un’alta preparazione artistica ed un considerevole impegno tecnico. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/andrea-di-michele-detto-il-verrocchio_(Dizionario-Biografico)/

2 Ibid.

3 Cfr. A. Marinoni a cura di, Arte e scienza in Leonardo da Vinci, in “Leonardo da Vinci”, Tutti gli scritti. Scritti letterari, Milano 1952, pp. 7-27.

4 Ibid.

5 Codice Atlantico, f. 327v. e Treccani. Comunque tra le migliaia di fogli dei manoscritti non mancano scritti che possono essere considerati letterari, in quanto connessi a generi della letteratura contemporanea, principalmente popolare e orale come le favole, i motti, le facezie, i proverbi, gli indovinelli, le profezie, il bestiario (Codice H).

6 Luca Pacioli nacque nel 1445 circa a Borgo San Sepolcro, vicino ad Arezzo, da Bartolomeo, allevatore di bestiame, e Maddalena Nuti, non ancora ventenne si trasferì a Venezia, dove frequentò le lezioni di Domenico Bragadin, pubblico lettore di matematiche della Repubblica nella Scuola di Rialto, il quale lo istruì nell’aritmetica e nell’algebra. Ebbe la carica di precettore presso Antonio Rompiasi, mercante che abitava nel quartiere della Giudecca, che il Pacioli seguì in molti dei suoi viaggi, arricchendo in tal modo le sue conoscenze ragionieristiche e le competenze nel campo della mercatura. Nel 1468 ottenne la carica di pubblico lettore di matematica e di Canonico in San Marco, due anni dopo scrisse il suo primo libro di matematica, dedicato ai tre figli di Rompiasi. Agli inizi del 1470 si trasferì a Roma, ospite di Leon Battista Alberti, entrando in contatto con personaggi famosi, successivamente aderì alla regola dei francescani Minori, con il nome di fra Luca di Borgo. Si dedicò allo studio e all’insegnamento della matematica in varie città, nel 1494 tornò a Venezia dove pubblicò presso la tipografia di Paganino de’ Paganini l’opera “Summa de aritmetica, geometria, proporzioni et proporzionalità”, dedicato a Guidobaldo da Montefeltro, che fu il primo libro stampato di aritmetica e algebra, che  ebbe grande diffusione e dette grande fama al Pacioli. Dal 1496 al 1499 fu a Milano al servizio di Ludovico Sforza e fu in questo periodo che conobbe ed ebbe inizio l’amicizia e la collaborazione scientifica con Leonardo da Vinci. Nel 1499, quando Ludovico il Moro dovette fuggire da Milano invasa dal re di Francia Luigi XII, Pacioli e Leonardo si rifugiarono a Mantova sotto la protezione di Isabella d’Este. Pacioli continuò a spostarsi di città in città, ebbe alti incarichi e a Bologna fu nominato membro del gruppo dei lettori del prestigioso Studio bolognese, in seguito insegnò oltre che a Bologna, a Pisa, Firenze e Perugia, fino a quando fu chiamato da Leone X all’Archiginnasio presso la corte pontificia, dove incontrò di nuovo Leonardo. La “Summa…”, divisa in “Tractati”, non è considerata un’opera originale: riprende elementi già noti nel passato, ma resta il primo trattato generale di aritmetica e algebra, l’autore vi inserì anche capitoli che no riguardavano direttamente l’aritmetica e la geometria, ma che si addentravano nel campo dell’economia, pur non essendo un economista, preparò introdusse un materiale e si servì di un linguaggio tecnico che successivamente sarebbero entrati a far parte della scienza economica. Pacioli, da esperto nella computistica, insegnò come fosse possibile risolvere con l’algebra problemi di ordine economico, guadagnandosi in tal modo la paternità delle regole per la tenuta dei libri a partita doppia, chiaramente esposte nel “Tractatus undecimus (De computi set scripturis)” della “Summa…”, la celeberrima opera (incunabolo) che lo ha reso immortale. In quanto alla paternità della partita doppia non tutti gli studiosi sono concordi, ma anche se Pacioli non ne fu l’inventore, fu certamente il primo divulgatore attraverso l’uso della stampa, la cui diffusione fu anche dovuta alla lingua volgare (misto di toscano e veneziano) usata dall’autore e, quindi, resa fruibile ad un numero maggiore di lettori non necessariamente letterati. Luca Pacioli morì tra aprile e ottobre 1517, non certo il luogo: Borgo Sansepolcro o Roma? Per i rapporti tra Leonardo e Luca Pacioli si veda A. Marinoni, Leonardo, Luca Pacioli e il “De ludo geometrico”, in “Atti e memorie dell’Accademia Petrarcadi lettere, arti e scienze di Arezzo”, nuova serie, XL, (1970-1972). Pp. 3-28; Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/luca-pacioli_%28II-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Economia%29/

7 E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza, Torino 1978, vol. I, tomo 2, p. 368.

8 Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, n. 77.

9 Ibid., N. 195.

10 Trattato della Pittura, § 12.

11 P. Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 43.

12 Cfr. G. Giandoriggio, Leonardo filosofo di Croce e di Gentile, in “Il Pensiero Italiano”, Rivista di Studi Filosofici, Vol 1 (2017), n. 1.

13 B. Croce, Leonardo filosofo (1906), in “B.Croce, Saggio sullo Hegel, Bari 1948, (IV ed.), p. 212.

14 Ibid., p. 224. Il corsivo è nostro.

15 Ibid.,p.229; E. Franzini,Il mito di Leonardo. Sulla fenomenologia della creazione artistica, in “Spazio filosofico”, Milano1987, p.23.

16 B. Croce, Saggio sullo Hegel…, cit., p. 213.

17 Ibid., p. 218.

18 Ibid. p. 224.

19 Ibid., p. 226.

20 G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze 1955, p. 199.

21 Ibid.

22 Ibid., Schelling definisce la sua filosofia della natura “fisica speculativa a priori”, ossia intesa come un tentativo di organizzare in maniera sistematica il materiale offerto dall’esperienza e dalla scienza.

23 Cfr. G. Giandoriggio, Leonardo filosofo di Croce e di Gentile, pp. 1-15.

24 Cfr http://www.sapere.it/enciclopedia/Leonardo+da+Vinci.html#id_Odc56ca6-aaeb-34be9883 Leonardo da Vinci, Fogli di Windsor, Royal Library, ff. 1908- 19118.

25 Ibid.

26 Cfr. L. L. Radice, La filosofia della natura e la scienza nel pensiero di Leonardo da Vinci, in “L’uomo del rinascimento”, Roma 1958, pp. 17-44.

27 Ibid.

28 Ibid.

29 Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, f. 117, r.b, in “Scritti letterari”, a cura di A. Marinoni, Milano 1974, p. 147.

30 Ibid.

31 E. Garin, La cultura fiorentina nell’età di Leonardo, in “Scienza e vita nel Rinascimento Italiano, Bari, 1965, pp. 57-85.

32Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, f. 119, v. a, pp. 148-149.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’UNIVERSO IN UNA STANZA: MANFREDO SETTALA E L’AMBROSIANA

Loredana Fabbri

 

                                                                                                                       “Niuna cosa entra ad abitar nel palagio

                                                                                                                   dell’intelletto che passata non sia per la porta

                                                                                                                                       necessaria dei sensi”

                                                                                                                                        (Manfredo Settala)

manfredo_ritratto

A mia madre

Il secolo XVI fu segnato da gravi contrasti religiosi, conseguenza della Riforma iniziata da Lutero nel 1517, contrasti che divisero l’Europa a metà e costrinsero la Chiesa cattolica a rivedere le proprie strutture e la propria condotta: la parte centrosettentrionale protestante e quella meridionale cattolica, con notevoli conseguenze non solo di carattere religioso, ma anche sul piano culturale e sociale, lo scontro di potere poi determinò un clima ostile e conflittuale, combattuto soprattutto con le armi dell’Inquisizione. Tale situazione si aggravò ulteriormente nel 1563, alla conclusione del Concilio di Trento, che tredici anni prima era stato convocato per cercare di ricostituire un’intesa tra cattolici e protestanti, divenendo però il centro della nuova ideologia della Chiesa di Roma, la quale dava una risposta alla Riforma protestante.

Il Cinquecento fu un secolo drammatico e pieno di contrasti: dalla mutazione dei valori per la religione, la politica, il pensiero filosofico e scientifico, l’arte, scaturiscono le idee sulle quali si fonderà la struttura culturale dell’Europa moderna. La religione non è più vista come la rivelazione di verità eterne, ma come ansiosa ricerca di Dio nell’anima umana; non esiste più l’obbedienza ad una autorità, ma una scelta che comporta la consapevolezza dell’uomo di fronte a Dio; allo stesso modo, la nuova scienza non è più vista come l’unica sapienza fondata e tramandata sull’autorità delle antiche Scritture, ma come indagine della realtà; in politica non prevale più l’affermazione di una gerarchia di poteri che derivano da Dio, ma un conflitto di forze in cerca di un equilibrio temporaneo. L’arte non è più osservazione e riproduzione dell’ordine del creato, ma ansiosa ricerca della propria natura, della ragion d’essere e dei propri fini: non ha più senso rappresentare nell’arte la forma dell’universo se questa è sconosciuta ed oggetto d’indagine, come non ha senso contemplare l’armonia del creato se Dio non si trova là, ma nell’interiorità dell’anima che combatte per la propria salvezza. Il metodo della ricerca e dell’esperienza scientifica, l’atteggiamento verso Dio, la disciplina della vita religiosa ed anche l’arte nel suo attuarsi fanno parte di questi comportamenti umani, che concorrono alla salvezza spirituale ed è proprio questo il problema di questo periodo: l’atteggiamento antropico, il rapporto tra individuo e Stato riflette quello tra uomo e Dio, se per i protestanti ciò che lega l’uomo a Dio è la grazia (e non si può far niente per ottenerla), per i cattolici, invece, Dio ha predisposto i mezzi per la salvezza e se la storia è il percorso compiuto dall’umanità verso la salvezza, bisogna proseguire su questa strada senza fermarsi. La cultura è una delle vie di salvezza, ma tutti gli uomini hanno il diritto al salvarsi, non solo i dotti, allora bisogna che la cultura arrivi in tutti gli strati sociali, che ogni lavoro anche quello più umile abbia un’origine culturale e un fine religioso, il lavoro dell’artista, dell’artigiano e dell’operaio non deve essere fine a se stesso, ma “ad maiorem Dei gloriam”, e sarà proprio su questi ultimi principi che Federico Borromeo fonderà prima la Biblioteca Ambrosiana il 7 settembre 1607, che sarà inaugurata nel 1609, poi la Pinacoteca il 28 aprile 1618 che Federico doterà con la donazione della sua collezione di pitture e disegni, creata in vista della costituzione dell’Accademia del Disegno a compimento e integrazione della Biblioteca, che doveva servire da esemplare e sostegno economico ad una futura “Accademia di Belle Arti”, finalizzata alla formazione e all’educazione del gusto estetico in conformità alle disposizioni del Concilio di Trento. Nel 1621, dunque, fu creata la nuova istituzione, il cui primo Presidente fu il pittore Giovan Battista Crespi, detto il Cerano. All’Accademia aderirono pittori e scultori famosi e nel periodo iniziale ebbe vita fiorente, ma nel 1776, dopo un periodo di progressiva decadenza, cessò di esistere e confluì nell’Accademia di Brera.[1]

Il Seicento, conseguentemente, è il secolo delle crisi e delle contraddizioni, l’uomo, dopo i profondi rivolgimenti del Cinquecento, non presenta un’unità spirituale, politica, religiosa e sociale, ma è travagliato da molteplici e contraddittorie richieste, da passioni e impulsi che ne frantumano la vita nei più opposti atteggiamenti, ciò nonostante egli cerca un ordine, un’unità ed un equilibrio, quando non ci riesce cede alla sensazione, all’istinto. Nel campo filosofico si dibatte tra empirismo e razionalismo, tra meccanicismo e finalismo; in quello scientifico tra Tolomeo e Copernico, tra Aristotele e Galilei, tra il principio di autorità e lo sperimentalismo. In ambito artistico prevale il Barocco, emblema della crisi di sensibilità e trionfo dell’irrazionale (una rivoluzione culturale in nome dell’ideologia cattolica); il contrasto tra ragion di stato e libertà, tra giusnaturalismo e contrattualismo domina nella dottrina politica, mentre nella religione infuriano le lotte tra cattolici e calvinisti, tra intolleranti e giansenisti. Il Seicento è anche il secolo dell’espansione coloniale degli Stati Europei, il periodo del grande sviluppo commerciale e capitalistico dell’Europa occidentale nel mondo: il centro economico si sposta dal Mediterraneo alla Manica e al Mare del Nord, dall’Italia e dalla Spagna all’Inghilterra e all’Olanda, dove si afferma e domina il capitalismo commerciale che sfocerà nel liberismo, in contrapposizione alle senescenti teorie della Riforma e della Controriforma. L’Italia, chiusa nel dominio spagnolo, affermato con la pace di Cateau Cambrésis, non partecipa alle grandi mutazioni spirituali e politiche dell’Europa, ma come disse Francesco De Sanctis rimase: <<estranea a tutto quel movimento di idee e di cose da cui uscivano le giovani nazioni d’Europa>>. Giudizio cui si oppose Benedetto Croce sostenendo che pur non potendo negare la complessa e generalizzata crisi che interessò l’Italia in quel periodo, non ne addossò la colpa al malgoverno spagnolo, ma al fatto che se l’Italia non fu in grado di reagire, ciò fu la dimostrazione che quella italiana era <<una decadenza che si abbracciava a una decadenza>>. La Spagna controllava direttamente la metà della penisola, avendo il suo dominio sul ducato di Milano e i regni di Napoli, Sicilia, Sardegna e su molti altri Stati italiani, estranei alla sua diretta autorità, ma gravitanti nella sua sfera di controllo; ciò che nel passato era stato florido e ricco s’isterilì, le mutate condizioni del regno di Napoli furono una palese dimostrazione e quelle decadenti della Lombardia furono eccellentemente descritte nelle pagine dei “I Promessi Sposi”, dove Manzoni ci fa toccare con mano l’ipocrita superbia di un governo che fa le leggi, ma non sa o non vuole farle rispettare, dove il particolarismo è regola e la prepotenza diventa giustizia.

E’ questa l’età in cui operano i due Borromeo ed è in questo periodo che a Milano vive il carismatico Lodovico Settala, discendente della casata che prende il nome dal toponimo dell’omonimo borgo, situato ad est di Milano, feudo dei Settala fin dal secolo IX, anche se la famiglia faceva orgogliosamente risalire le proprie origini a San Senatore, Arcivescovo di Milano intorno al 477.[2]  La casata annoverava anche un Passaguado Settala, il quale fu tra coloro che nel 1171, dopo la distruzione di Milano ad opera del Barbarossa, costruirono le nuove mura della città; nel 1213 papa Innocenzo III nominava Arcivescovo di Milano Enrico Settala e con Manfredo, morto verso il 1210, la nobile famiglia vantava anche un beato, Lanfranco, agostiniano e vissuto nel XIII secolo, apparteneva alla suddetta famiglia, e fu fondatore della Chiesa e Convento di San Marco in Milano, dove tutt’oggi si può vedere la sua tomba, opera di Balduccio da Pisa.[3]  Fecero parte della casata, dunque, uomini di Chiesa, di toga, di spada, ma è con il giureconsulto Lodovico, insegnante presso l’Università di Pavia e vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo che ebbe inizio la ricca biblioteca di casa Settala, dando luogo a quel vasto interesse culturale, peculiare degli uomini del Rinascimento italiano, che troverà la piena manifestazione, nell’ambito di questa famiglia, nel protofisico Ludovico e in Gerolamo, suo fratello, ma soprattutto in Manfredo, figlio di Ludovico.[4]

Lodovico Settala nacque a Milano il 7 febbraio 1552, fu allievo dei Gesuiti della stessa città, dove compì i primi studi, a sedici anni sostenne la tesi di fisica, a venti si laureò in medicina all’Università di Pavia. L’anno successivo venne iscritto al Collegio medico di Milano e per un periodo di tempo insegnò medicina presso l’ateneo pavese, insegnamento che lasciò per dedicarsi alla professione privata nella sua città.[5] Gli studi su Galeno, Aristotele e Ippocrate lo portarono ad allargare i propri orizzonti culturali, occupandosi di filosofia, di morale e di letteratura. Durante la peste del 1576, si prodigò insieme a Carlo Borromeo per la prevenzione e il soccorso (Durante questa epidemia, Ludovico fu eletto a deputato per il quartiere di Porta Orientale per le sue conoscenze di pubblica igiene, nel quale ufficio dette importanti disposizioni igienico-sanitarie per l’assistenza dei malati): ciò dette modo a Lodovico di trarne fonti per la realizzazione di opere scientifiche ed anche una grande esperienza, che sarà preziosa durante la nuova epidemia di peste del 1630, quando la sua opera sarà ancora necessaria nonostante la tarda età.[6] Di lui scrive il Manzoni: << Il protofisico Lodovico Settala, che, non solo aveva veduto quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovanissimo, sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come nella terra di Chiuso, era scoppiato indubitalmente il contagio.>> Ed ancora: <<Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di medicina all’università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d’altre università, Ingolstad, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza s’aggiungeva quella della vita, e all’ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficiare i poveri.>>[7]

Alla fine del XVI secolo e l’inizio del XVII, la nascita di “nicchie” di potere costituite dalle famiglie più importanti di Milano permette a Ludovico di prendere il controllo delle cattedre mediche dell’Università di Milano ed altre importanti cariche, quando Ludovico ricopriva la carica di protofisico, che, come dimostra il racconto di Manzoni, gli permise di ottenere un grande credito presso le autorità cittadine e, nonostante l’età avanzata, fu considerato all’avanguardia rispetto agli altri medici del tempo, proprio per questo fu accusato dal popolo di voler terrorizzare i cittadini milanesi a causa delle sue teorie sui rischi del contagio. Ludovico Settala ebbe un forte legame con l’arte e stretto fu il suo rapporto con il pittore Daniele Crespi, che è il personaggio maggiormente menzionato nelle sue relazioni scientifiche, infatti, oltre a commissionargli i ritratti dei membri della famiglia, Crespi assisteva come illustratore alle indagini scientifiche per la scoperta e lo studio dei vasi linfatici che Ludovico effettuava insieme al figlio Senatore, anche lui medico, e a Gaspare Aselli, nel 1623 circa; chiamato, come altri, non solo per approfondire la sua conoscenza dell’anatomia con osservazioni dal vero, ma principalmente per rilevare puntualmente ciò che veniva scoperto durante le dissezioni effettuate su animali.[8]. <<Conferma di questo impegno sono le tavole, pur non firmate, che accompagnano il celebre testo a stampa che presenta per la prima volta al pubblico con immagini la scoperta del sistema linfatico. L’opera da considerarsi la prima in cui vennero realizzate puntuali illustrazioni anatomiche stampate in xilografia a quattro colori, fu pubblicata dopo la prematura morte di Aselli, avvenuta nel 1625, per cura dello stesso Senatore e del collega Alessandro Tadino, pochi anni dopo importante referente per i rilevamenti dei casi di peste nel territorio lombardo. Si metteva così in pratica quella sperimentazione scientifica diretta di cui Galileo era da tempo convinto, e forse il più noto, assertore che includeva osservazione, determinazione del problema, formulazione dell’ipotesi, verifica sperimentale delle ipotesi formulate, raccolta dati a cui, in questo caso, prendevano parte anche pittori e miniatori, elaborazione dei risultati e loro pubblicazione>>.[9]

Le scoperte geografiche compiute tra la fine del XV e durante il XVI secolo fecero conoscere agli studiosi europei una grande varietà di animali e vegetali esotici, il cui studio doveva essere svolto solo con l’osservazione diretta, tutto ciò evidenziò che le nozioni tramandate dagli antichi non sempre potevano dare spiegazioni esaustive, con il conseguente progressivo abbandono della cieca fiducia nei testi classici. Il nuovo metodo, introdotto da Galileo Galilei, basato sulla verifica sperimentale, era ormai divenuto il fondamento della scienza moderna. L’osservazione diretta divenne un procedimento sempre più utilizzato e l’abbandono dei riferimenti classici furono favoriti anche dall’invenzione di strumenti come il cannocchiale e il microscopio, rendendo accessibili campi di indagine molto estesi e completamente sconosciuti dagli antichi. La necessità dello studio dal vero favorì anche la formazione di collezioni scientifiche: nacquero gli erbari, vere e proprie raccolte di piante disseccate, nel settore zoologico si sviluppò la tassidermia,[10] che tutt’oggi rappresentano un grande patrimonio scientifico dei musei di storia naturale.[11]

Ludovico Settala, grazie ai suoi eclettici interessi, si rendeva perfettamente conto del valore del proprio patrimonio, che comprendeva, tra gli altri oggetti, l’eccezionale raccolta di circa diecimila volumi iniziata dai suoi avi e aiutato dal fratello Gerolamo, quindi, nel suo testamento, redatto nel giugno del 1632, istituì un fedecommesso in favore dei figli maschi, che veniva esteso anche alla nascente Galleria del figlio Manfredo.[12] Ludovico morì il 12 settembre 1633 a Milano, lasciando diciotto figli, di cui solo uno seguì la carriera medica come il padre.[13]

L’arte del XVII secolo, affonda le sue radici nella cultura aristotelica, che rimase al centro della coscienza intellettuale europea dalla fine del Trecento a tutto il Seicento e a buona parte del secolo successivo, pur rappresentando l’ortodossia dominante, fu avversata da molti e considerata una filosofia pagana non conciliabile con il pensiero cristiano, quindi, a partire dal XVI secolo, si affermarono nuovi sistemi filosofici contrari alla visione aristotelica del mondo. Nel Seicento, un nuovo metodo sperimentale si prefiggeva di indagare le scienze e di rinnovarle profondamente (Francis Bacon), Cartesio espone le proprie opinioni sull’indagine scientifica. Il nascere di varie forme di atomismo e meccanicismo, offrono una visione alternativa a quella aristotelica, le spiegazioni matematiche sulla Natura, le nuove interpretazioni dello spazio contraddicevano quelle aristoteliche, arrivando al superamento della distinzione tra naturale e artificiale, tra celeste e terrestre. Galileo è un poco l’emblema di questa nuova mentalità, che considera la storia e l’autorità poco o nulla. L’arte, nella concezione barocca, non ha lo scopo di imitare e riprodurre la natura, ma quella ri-crearla: l’artista barocco ingaggia una gara con la natura e affida alle sue opere il compito di mostrare la sua abilità creativa. Nasce il gusto di collezionare oggetti particolari come ad esempio gli “ushabti”, che facevano parte di quella cultura magica, sacrale del tempo, anche se la funzione di tali oggetti è ambigua e non appare chiara: un mobile impreziosito da intarsi e gemme preziose ha funzione di contenitore o è apprezzato per le sue decorazioni? L’oggetto esotico incuriosisce e incuriosiscono molto anche i materiali usati, c’è una ricerca ed amore per il minuscolo, il “miniaturistico” e, soprattutto, per i materiali preziosi usati.[14] Anche gli animali imbalsamati fanno parte di tali collezioni, ma tra il 1520 e il 1720 si è capito quello che prima sembrava una fantasia bislacca è verità e questi animali esistono nella collezione Settala: non c’è più la dimensione della Wunderkammer, l’animale viene ora studiato e viene imbalsamato, cogliendone la cinesi. Sulle volte dei grandi palazzi vengono dipinti i pianeti: il mondo di tenebre è ora squarciato dalla luce che viene dal cielo, dall’alto. Quello che accomuna ciò che abbiamo vissuto è il rapporto tra Natura, opera di Dio che mette nelle mani dell’uomo, e cultura.[15]

Nell’Europa del Cinquecento e del Seicento cresce, dunque, l’interesse per la raccolta di reperti naturalistici, che sono presenti anche in collezioni dell’uomo di lettere, nel cui “studiolo” si potevano vedere anche “naturalia” accanto ai ritratti di uomini illustri, raccolta di medaglie e strumenti scientifico-matematici, ed è per questo fenomeno di gusto per la raccolta amatoriale che si diffusero, anche se tra persone di alto livello sociale, le Wunderkammern, in cui i reperti naturalistici raramente vengono conservati allo stato originale, ma vengono impreziositi con montature artistiche che esulano dalle esigenze scientifiche, frutto di un collezionismo particolare, effettuato dalle classi dominanti e preordinate (anticipate) dalle “Collectanea rerum memorabilium” del mondo antico (Posidonio, Plinio, il De mirabilius auscultationibus pseudo aristotelico), tardo-antico (Solino, Pomponio Mela, Cosma Indicopleuste) e dalle enciclopedie medievali (dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia agli Specula di Vincenzo di Beauvais), ma caratterizzate dal senso pragmatico e dall’esigenza sperimentativa e autoptica della conoscenza moderna. Con l’arrivo della modernità, collezionare naturalia, cioè oggetti provenienti dalla natura e mirabilia o artificialia, ossia prodotti dalla natura, ma manipolati e artisticamente definiti dall’artefice,  significa realizzare l’aspirazione di ricostruire l’universo in una stanza: la Wunderkammer diventa un modo per viaggiare senza muoversi, un luogo capace di restituire una visione panottica e sincronica della poliedrica pluralità del creato: Wunderkammer è un termine tedesco, traducibile con “stanza delle meraviglie”, le prime importanti Wunderkammern nascono nel Nord Europa e si sviluppano soprattutto nella metà del secolo XVI, quando nella pittura emerge il gusto prezioso ed eccentrico del manierismo.[16] In molte raccolte erano presenti anche oggetti con valore apotropaico, usati particolarmente per prevenire l’azione dei veleni. Molto famose erano le raccolte dell’arciduca Ferdinando del Tirolo, dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, del re di Danimarca Cristiano IV, di Federico Augusto il Forte, principe elettore e sovrano di Polonia, a Milano famosa fu la “chambre des meravilles” del canonico Manfredo Settala, a Verona quella di Francesco Calzolari, quella di Anna Maria Luisa de’ Medici, principessa elettrice del Palatinato, a Roma, presso il Collegio Romano quella, ancor più famosa, dell’erudito olandese, amico del Settala, Athanasius Kircher.[17]

L’uomo di questo periodo vuole soddisfare quella sete di conoscenza della totalità dell’esistente che è in lui, ma non trova una spiegazione nella teologia e non è ancora soddisfatta dalla scienza, incuriosito dalla scoperta di nuovi mondi e dai resoconti di queste terre lontane, è fortemente stimolato all’osservazione diretta e alla classificazione della realtà naturale ed proprio questo il clima in cui vengono concepite e prolificano le “collezioni di meraviglie”.

Nella Wunderkammer del ‘500 e ‘600 il contenuto scientifico delle raccolte naturalistiche non era ancora separato dall’aspetto artistico-estetico: l’interesse per i reperti naturalistici derivava, in gran parte, da tutto ciò che appariva insolito, mostruoso, fuori dal comune (gemelli siamesi, strani incroci tra esseri umani animali e vegetali), dando luogo a collezioni stravaganti, spesso frutto di assemblaggi ed alterazioni dei soggetti. Questo collezionismo enciclopedico, che anche in Italia ebbe molta fortuna in epoca rinascimentale, permise, la raccolta di materiali curiosi, eterogenei, che furono l’origine dei moderni musei. Vennero creati dispositivi per definire confini ed estensioni, per determinare posizioni di astri, che furono abbelliti e decorativa materiali preziosi e raffinate incisioni, divenendo più strumenti da “vedere” che da “usare”.[18]

Manfredo Settala nasce l’8 marzo 1600 a Milano, ma nonostante la notorietà del personaggio, mancano le notizie sulla sua infanzia ed adolescenza: di grande importanza fu la visita che effettuò, all’età di quindici anni, presso la corte dei Gonzaga a Mantova, dove il giovane poté ammirare una grande quantità di strumenti scientifici e di rarità naturalistiche che non potevano non destare in lui curiosità e fascino.[19] Il periodo universitario fu molto importante per la sua formazione: dopo gli studi di lettere, retorica e filosofia, a ventun anni si laureò in giurisprudenza all’Università di Pavia, trasferitosi in Toscana, si dedicò agli studi della scienza e della sperimentazione presso gli atenei di Pisa e di Siena, in quest’ultimo ebbe l’occasione di frequentare le lezioni insieme a Fabio Chigi, il futuro papa Alessandro VII, di cui divenne amico, mentre a Pisa frequentò lo Studio pisano, dove venne a contatto con l’ambiente scientifico e soprattutto con la matematica e l’astronomia, che Manfredo continuerà a coltivare: ne sono un esempio le lenti e gli strumenti ottici da lui costruiti.[20] Terminati gli studi, nonostante le difficoltà economiche in cui si trovava la famiglia, partì per un viaggio in Oriente, che iniziò nel 1622, quando riuscì a convincere il padre a trovargli raccomandazioni e denari per realizzare questa sua aspirazione: partì prima per la Sicilia, imbarcandosi sulle galere dei Medici, da qui arrivò a Costantinopoli, dove soggiornò per circa un anno, poi proseguì il suo viaggio lungo le coste dell’Asia Minore e a Cipro, fece ritorno nel 1629 sbarcando nel porto di Livorno e proseguendo poi per Milano carico di materiali naturalistici e dati etnografici raccolti durante questi anni e definiti da lui stesso “turcheschi”.[21]

E’ del 21 novembre 1629 la lettera che il padre Ludovico scrive a Manfredo, biasimandolo per la sua condotta mondana in contraddizione con la vita ecclesiastica che lui stesso aveva scelto senza esserne costretto, ricevendo il diaconato il 18 marzo 1628 dal Cardinale Federico Borromeo,[22] evidentemente Manfredo non ricevette la missiva o perlomeno non rimase molto scosso dall’accorata lettera paterna, poiché Ludovico ripeté, calcando di più la mano, gli stessi rimproveri in un’altra lettera datata 30 dicembre 1629: <<Acciò più non vi venisse in pensiere che havendovi mandato con Carlo a Pisa vi havessi mandato in esilio, vi scrissi una longa lettera paterna alli tanti di novembre, la quale spiacemi non esservi capitata, però con questa di nuovo suplisco, esortandovi a riceverla con affetto figliale, come so, che viene da Padre amorevole zelante del ben vostro dell’Anima, del Corpo e dell’amore. Sapete che Carlo era desideroso di andare a Pisa a Studio e che io quasi vi era condisceso, ma ritiratomi per la mia infirmità e scarsità di denari per la puoca corrispondenza delle entrate quasi a niente ridotte per la guerra, tempeste di due anni et infiniti altri infortunii, ma li sospetti crescenti di peste mi fecero mutare pensiero et essendomi ricordato che tante volte haveva sentito da voi che in simile caso havereste fuggito in coteste parti ancora senza denari, pensai in uno medesimo colpo sodisfare ad un vostro desiderio, dar compagnia pratica a Carlo et assicurar due figlii da li pericoli della peste, facendo forza alla mia debole borsa se ben questo fu il primo motivo è però vero vi erano molte altre cose, che a ciò invitavano. Vi vedeva prima in abito ecclesiastico sì, ma smezzato, al quale però sapete da me non essere stato promesso, ne havendo scorto in voi quello che si ricerca a tale habito: vedeva in fatti da poi non corrispondere non attendendo pure un pocho alle attioni ecclesiastiche, ne apena sapendo le cose a ciò pertinenti fin da secolari sapute: non si frequentavano li Sacramenti, i digiuni dovuti, o non vi erano, o in tutto imperfetti. Ma nelle cose secolari vedeva che eravate arrivato all’età di trent’anni, ne pure pensare a fatti nostri e al fine sapete la povertà della Casa, le entrate andare in niente per l’età e infermità mia poco poter guadagnare, e meno durare, e perciò bisognar pensare a fatti suoi, a niente impiegarsi di utile, mandandovi fuori forsi vi sarebbe venuto pensiere di mettervi a qualche servitù. Ma se ciò non fosse seguito, sperava almeno, che restando fuori un puoco sarebbe seguito alcun altro bene, prima che vi haverei levato da pratiche domestiche, che a me et a vostro zio passavano il cuore, e per l’anima, e per l’honore, e quel che più noi pensavate ciò farvisi sapere da nostra madre: essendo al incontro da ogn’altra parte fattosi sapere: questo era il principale, che ci moveva ad absentarvi al quanto, perché il tempo e l’absenza raffredda tal passione. Con questa peregrinazione, ancora che a me dispendiosa, sperava ancora oltre le cose dette, alle quali facendo riflessione sperava dover intravenire qualche mutazione et emendazione, essendo che ancora in Casa vi era che emendare, così dal essere troppo fastidioso con la servitù, e in altre cose, non vi spiaccia che da un vostro amorevole padre, al quale conosceva che molto vi era al cuore il non darli disgusti, siate di questi vostri diffetti ammonito, che pure so che la natura bona riceve da man destra, e non da mano sinistra e che mancho si arossisce legendo che sentendo le parole. Desidero però che in voi faccino buona impressione, sicuro che vengono da padre, che altro non desidera che il vostro bene. Assicurandovi ancora che quando pure non vi piaccia farvi a servitù con alcuno, potrete ritornare a casa, ricordandovi della povertà di Casa e della quiete dell’animo, del corpo e della conservazione dell’honore di questa nostra Casa da me pure a tal stato ritornata, ma fratanto costì vi trattenerete con quella maggior ritiratezza nelle spese, che fia possibile in questi tempi tanto calamitosi e carestiosi, finché si vegga a che termine questa peste che ci circonda, ancor che fin qui nella Città si siamo diffesi, nel che a me tocca una buona parte per il carico di Protomedico. Iddio Nostro Signore vi prosperi e facci che questa mia vi sia profittevole: la ricevuta della quale desidero, che con una vostra accusiate. Milano 30 dicembre 1629. Vostro amorevole padre Lodovico Settala>>.[23]

Questa, come pure l’altra lettera del 21 novembre ci mettono a conoscenza dei rapporti non sempre facili intercorsi tra Ludovico e Manfredo, ma dalle missive apprendiamo anche una nuova permanenza del figlio a Pisa per accompagnare il fratello minore Carlo, il quale svolgeva i propri studi presso l’Università di quella città e l’amore paterno per allontanare i due figli da Milano, dove l’epidemia della peste mieteva numerose vittime. Ma dal tenore delle lettere traspare anche la preoccupazione del padre per il futuro di Manfredo, che a trent’anni non aveva ancora trovato una stabilità sociale ed economica, nonostante avesse accettato il diaconato l’anno precedente, Ludovico non lo riteneva idoneo per la carriera ecclesiastica a causa del suo comportamento morale non adeguato, che oltre a lui stesso, recava danno all’immagine della famiglia e a quella dello zio Gerolamo, canonico ordinario del duomo di Milano. Il padre, infatti, suggerisce a Manfredo una sistemazione presso una corte principesca.

Nel 1630, il Cardinale Federico Borromeo concesse a Manfredo il canonicato di San Nazaro in Brolo, come si può vedere dallo “status personalis”,[24] basilica nelle vicinanze del palazzo paterno, carica che l’Archimede milanese, come verrà soprannominato più tardi dal suo amico Pietro Paolo Bosca, Prefetto dell’Ambrosiana,[25] manterrà per tutta la vita, assicurandogli una rendita vitalizia che gli avrebbe permesso di dedicarsi interamente alla sua collezione e ai suoi studi.[26]

Nello stesso anno, Ludovico morì colpito dalla peste e, alla morte del padre, Manfredo si trovò da solo a curare e ad arricchire le raccolte dei Settala, anche se Lodovico, con suo testamento del 5 giugno 1632, aveva lasciato con fidecommesso tutte le collezioni ai quattro fratelli Antonio, Senatore, Manfredo e Carlo Andrea.[27] I primi due morirono dopo poco tempo e l’ultimo, minore di Manfredo, abbracciò la carriera ecclesiastica, lasciando al fratello la libertà di occuparsi sia della biblioteca paterna sia delle raccolte scientifiche. Comincia così l’attività frenetica di Manfredo con contatti con la corte fiorentina dei Medici e con i maggiori esponenti dell’ambiente scientifico toscano, allora all’avanguardia e tra i più importanti d’Europa.[28] Dagli editori europei arrivavano al palazzo di via Pantano, dove abitava il Canonico, numerose casse di volumi richiesti da lui, ebbe frequenti contatti con missionari, soprattutto Gesuiti, i quali gli fornivano notizie e materiali da paesi molto lontani: partecipò assiduamente alla vita sociale e culturale di Milano, dove aveva occasione di incontrare personaggi famosi e di alto rango che lo onoravano della loro amicizia.[29] Manfredo era dotato di un’abilità manuale fuori del comune: lavorava molto bene al tornio e tanti oggetti del suo Museo furono modellati da lui, usando materiali come il legno, l’avorio, il vetro, il quarzo e vari metalli, il suo laboratorio era situato in alcuni locali della Basilica di San Nazaro in Brolo, dove egli era canonico e dove forgiava scatole, lenti per microscopi, coppe, congegni meccanici, strumenti di fisica, astrologia. Non mancava la pratica di esperimenti chimici e la distillazione di essenze ed olii.[30] La fama della sua Galleria cresceva sempre di più e personaggi famosi come Anna Maria d’Austria, Cosimo III di Toscana, Giovanni Rucellai ed altri gli facevano visita per ammirare i lavori dell’”Archimede di Milano” come veniva chiamato il Settala. Dopo i numerosi viaggi giovanili, Manfredo sembra che raramente abbia lasciato Milano, ad eccezione della visita a Roma nel 1665, quando fu eletto papa Fabio Chigi, con il nome di Alessandro VII, suo compagno di studi e amico. Durante il soggiorno nella Città eterna, ebbe modo di frequentare il gesuita Atanasio Kircher, con il quale Manfredo era già in contatto epistolare e rappresentava per lui un interlocutore valido e autorevole, poiché il religioso si interessava alla tecnica di strumenti ottici e ai fenomeni inerenti le scienze naturali, inoltre gli era stata affidata la cura del futuro Museo Kircheriano, presso il Collegio Romano della Compagnia di Gesù. Al suo ritorno a Milano, Manfredo affidò a Paolo Maria Terzago, fisico collegiato, la redazione di un catalogo ragionato di tutto ciò che conteneva la sua Galleria, l’opera, scritta in latino, quindi non accessibile a tutti, comprendeva sessantasette capitoli e descriveva tutti gli oggetti che costituivano il Museo ed era corredata da sette brevi trattazioni monografiche sui cristalli, coralli, conchiglie fossili, agate, ambra, magnete naturale. Tra l’enorme quantità di materiale raccolto da Manfredo c’era anche un meteorite recuperato da una gamba di un frate del convento di Santa Maria della Pace di Milano, ucciso dalla caduta della <<Pietra del fulmine qual amazò un frate zoccolante>>,[31] l’opera fu pubblicata a Tortona nel 1664, avvalendosi Manfredo dell’aiuto del fratello Carlo Andrea, Vescovo di quella città.

Manfredo era in contatto con molti studiosi di tutta Europa, con i quali intratteneva una copiosa corrispondenza e in una di queste lettere, scritta il 1 agosto 1667 a Henry Oldenburg della Royal Society di Londra, società scientifica di grandissimo prestigio, Manfredo scrive: <<…sub Mediolanensi coelo Pallas potius ut Bellona excolitur quam ut scientiae diva veneratur. Desunt naturalia profitentibus Maecenates, Magnatesque accumulandis opibus, non illustrandae naturae desudant. Sagatior non qui libros plurimos, sed libras innumeras congesserit>>.[32] Ossia che sotto il cielo di Milano, Pallade è più onorata come dea della guerra che venerata come dea della scienza. Mancano i mecenati interessati alle cose della natura e i potenti si affaticano ad accumulare ricchezze, non ad illustrare la natura. Non è più sagace chi ha accumulato il maggior numero di libri, bensì moltissime libbre. Insomma pare proprio che Manfredo si lamentasse dei cittadini milanesi per la poca considerazione che avevano per lo sviluppo della scienza, preferendo gli affari economici.[33] Ma solo due anni dopo la pubblicazione dell’opera di Terzago, i milanesi sentirono il bisogno di un’edizione italiana del catalogo, con un contenuto dal tenore più divulgativo, per venire incontro alle richieste di molti interessati all’argomento, smentendo in tal modo le lamentele del Settala.[34] La redazione italiana del catalogo fu affidata a Pietro Francesco Scarabelli e fu stampata sempre a Tortona nel 1666, un’altra edizione vide la luce sempre nello stesso luogo nel 1677, questo fa supporre che l’opera in italiano dello Scarabelli ebbe un vasto consenso ed è in questa seconda edizione che viene inserita la famosa incisione di Cesare Fiori dalla prospettiva infinita, dove si può “abbracciare” il contenuto della stanza, infatti gli oggetti coprono tutta la superficie comprese le pareti e il soffitto, si può indovinare il contenuto dei cassettini, delle urne e ciò che si nasconde dietro i drappi, creando nello spettatore l’incredulità e la tentazione ad entrare per scoprire tutti i tesori della Galleria. L’opera di Cesare Fiori rappresenta il Museo di Manfredo molto idealizzato, poiché le fonti ci informano che era ripartito in quattro stanze.[35]

Manfredo morì il 6 febbraio 1680 e proprio con le sue esequie, in cui furono esposti gli oggetti più curiosi della sua Galleria, cominciò quel lento declino che porterà il Museo ad una quasi estinzione. Sei giorni dopo ebbe luogo un sontuosissimo funerale nella basilica di San Nazaro, dove fu apprestato un fastoso catafalco, secondo l’uso barocco del tempo, addobbato con moltissimi oggetti appartenenti alla Galleria, a cui, la maggior parte di essi, non fecero ritorno.[36] Per onorare il defunto, anche presso il Collegio dei Gesuiti a Brera fu organizzata una specie di rappresentazione teatrale, in cui vennero portati in processione vari e significativi pezzi della Collezione che non furono più restituiti.[37] Ancora più pomposa fu l’omelia pronunciata dal gesuita Giovanni Battista Pastorini: <<Nato da così chiari Maggiori il Signor Manfredo Settalasi tenne obbligato a render sua con l’opere la gloria a lui tramandata col Nome, anzi giudicò, che foosse debito di gratitudine aggiunger onore alle Immagini de gli Auoli suoi, dalle quali tanto ne riceveva. Perciò s’accese nel di lui petto una sì gentil fiamma d’imparare, di sapere, di conoscere, di vedere, che non vi fù fatica, non vi fù studio, ch’egli non volesse intraprendere. Ancor biondo di crine uscì della Patria, scorse Provincie, vide Paesi, conobbe nazioni, notò costumi, intese segreti, osservò forme di Governo, apprese Prudenza, ne mosse un passo senza guadagno della Ragione. […] e si fè conoscere da letterati di maggior grido; acquistò l’amicizia di molti grandi; rintracciò vestigi d’antichità; imparò maniere diverse; osservò molti miracoli dell’arte, e della Natura; e ritornossene a’ suoi ricco di que’ tesori… […] Mà nel riposo in Patria ogn’un di voi è testimonio, che non in ozio vile lasciò languire la lena, mà, che, trattenesse l’ore dovute à Dio, ne’ suoi studj priuati, e nei suoi gentili lauori tutto spendeua il prezioso tesoro del tempo, datoci per Patrimonio dalla Natura. Però ricordevole d’un suo detto familiare potius mori quam otiari, si diede per onesto diletto ad un’impiego, che lo rendesse in qualche maniera imitatore dell’opere di Dio.>>[38] Una commemorazione in cui, a parte la retorica barocca, viene messa in evidenza la destrezza di Manfredo di essere allo stesso tempo un uomo di Dio e un uomo di scienza.

Per ciò che riguarda la documentazione sul Museo settaliano, abbiamo accennato all’opera in lingua latina di Paolo Maria Terzago del 1664 e alle due edizioni, in italiano, di Pietro Francesco Scarabelli edite nel 1666 e nel 1677, queste tre edizioni del catalogo, pubblicate nell’arco di tredici anni, ebbero un enorme successo editoriale in tutta Europa, ma non sono le fonti più antiche per lo studio della Galleria di Manfredo, poiché, l’edizione di Scarabelli del 1666 ci informa che era, come già detto precedentemente, corredata da sette brevi trattazioni monografiche, in cui erano riprodotti i disegni ad inchiostro, a tempera e ad acquerello di circa trecento oggetti facenti parte della raccolta, che Settala commissionò a vari artisti, noti nell’ambiente milanese contemporaneo, raccogliendo poi in gruppi le illustrazioni di materiali simili, anticipando le divisioni in sezioni del museo moderno, con note sui reperti scritte di propria mano, molto utili per capirne la natura, la provenienza, le tecniche e gli utilizzi. Di questi sette codici illustrati vennero perse le tracce, solo agli inizi del Novecento vennero ne recuperati cinque: tre si trovano presso la Biblioteca Ambrosiana, due presso la Biblioteca Estense di Modena, non conosciamo tracce degli ultimi due.[39] Molto importanti sono anche i resoconti e le notizie che Manfredo riceveva dai viaggiatori, dagli studiosi, e dagli scritti di coloro che visitarono il Museo.

Gli interessi artistici di Manfredo sono già evidenti nell’ingaggio di artisti milanesi per la creazione del catalogo illustrato della sua raccolta, ma è documentato che egli raccolse molti dipinti e sculture di artisti lombardi noti, come Bernardino Luini, Fede Galizia, Cerano, Camillo e Cesare Procaccini, Daniele Crespi, Melchiorre Gherardini, Annibale Fontana ed altri. Il 4 marzo 1669, nella prima Congregazione della rinnovata Accademia Ambrosiana, testimonia la presenza del Settala, che non fu certamente casuale, non solo per il prestigio della sua Galleria, ma anche per le esperienze di collezionista  e per la sua politica di promozione della cultura artistica del luogo, che lo legavano alle vicende dell’arte milanese.[40] Considerevole fu anche l’interesse per l’archeologia, collezionando urne cinerarie, lucerne e vasi balsamari, usciabti, scarabei apotropaici, varie parti di mummie, tutti oggetti che oltre il valore artistico avevano il ruolo di attestare il culto dei morti nell’antichità.[41] Nel suo laboratorio Manfredo eseguiva lavori di artigianato e costruiva strumenti meccanici e di precisione, distillava essenze ed olii e fabbricava strumenti musicali: celebri sono gli specchi ustori capaci d’incendiare una tavola di legno distante sette metri, le sfere armillari, i compassi, gli orologi, gli automi meccanici e flauti ricavati dalle chele di gamberi. Numerosi erano gli oggetti di gusto barocco, come le lenti deformanti, i vasi lavorati a tornio fatti con materiali strani, le sculture di dimensioni piccolissime, il rosario con i segni dello zodiaco. Il lungo viaggio che Manfredo fece negli anni giovanili suscitò in lui un grande interesse per l’etnografia e con una grande curiosità per le culture di popoli lontani.[42] Grande fu anche l’interesse per la storia naturale, <<…tuttavia, i reperti naturalistici non furono raccolti privilegiando esclusivamente il criterio del raro quanto per svolgere una funzione di divulgazione che, in una città come Milano, colmava la gravissima lacuna culturale prodotta dall’aristotelismo imperante e dall’emarginazione dai filoni più vivi del pensiero scientifico seicentesco. Schierato apertamente a favore della nuova scienza sperimentale, Manfredo, pur effettuando limitate attività di ricerca (dissezioni anatomiche in compagnia dell’Aselli e di Stenone, raccolta di fossili e animali) si riservò il ruolo del divulgatore colto e del promotore piuttosto che quello dello scienziato. >>[43]

Dopo la morte dei due fratelli maggiori, Manfredo, come già detto, divenne fidecommissario, tale istituto ebbe origine nel diritto romano, fu poi largamente impiegato a partire dal XVI secolo e consisteva in una disposizione testamentaria attraverso la quale il testatore istituiva erede o legatario un soggetto determinato con l’obbligo di conservare i beni ricevuti, che alla sua morte andavano automaticamente ad un soggetto diverso indicato dallo stesso testatore. In data 16 luglio 1672, Manfredo fece redigere dal notaio Carlo Cadolini il suo testamento in favore del fratello Carlo Andrea, dei nipoti e dei loro discendenti maschi primogeniti (senza dispersioni e alienazioni). In caso di estinzione della discendenza diretta, la collezione era destinata alla Biblioteca Ambrosiana.[44] Nel suo testamento il testatore parla degli oggetti che compongono la sua Galleria, dicendo che <<…sunt mea propria tantum…>>, che gli eredi non hanno nessun diritto su tale materiale e che questa grande collezione era dovuta alla sua attività di ricerca, al suo lavoro manuale, agli acquisti fatti con i proventi che gli derivavano dal suo canonicato e a quelli fatti durante i suoi viaggi, ai doni ricevuti da importanti e numerosi amici sparsi in tutta l’Europa: <<…quae habeo in dictis locis Gabinetti, ea omnia per me sunt conflata, aquisita et cumulata pro parte, mea propria industria, labore et parsimonia et pro parte propriis meis pecuniis, proventis ex peculio meo quasi castrensi, nimirum ex dicto meo Benefitio Canonicatus, per me gravisi ab annis quadraginta duo bus citra et ultra immo multae res existentes in dicto meo Gabinetto ex infra descriptis mihi Testatori donatae et largitae sunt etiam a diversis Princibus Europae ac aliis meis Amicis diversis respective temporibus quando profectus sum ad varias partes regione set Civitates nedum Italiae, verum etiam Europae.>>[45]

Manfredo Settala morì il 6 febbraio 1680 e la data del suo funerale, celebrato sei giorni dopo la sua morte, coincide con l’inizio della dispersione del suo Museo. In lettera di Carlo Settala, erede ed esecutore testamentario di Manfredo inviata al nipote (Francesco) e datata 11 febbraio 1680 leggiamo: “Signor Nipote, Ricevo due delle sue delli 6 e 7 corrente dalla quale intenda il passaggio all’altra vita del Signor Manfredo con sentimenti santissimi e con cordoglio universale, ho visto la particolarità del funerale, con dimostrazioni riguardevoli e la parzialità del Signor Conte don Paolo Monti veramente amorevolissimo della Casa. Quanto alla disposizione testamentaria della Galleria, converrà esaminarla (e vedere come parla il testamento del Signor Ludovico mio Padre toccante essa Galleria, e V.S. procurerà accennarmela), poiché vi sono le cose antiche di Casa quelle e li moltissimi danari dati dal Signor Senatore Padre e le molte mie preziose. Circa li quadri stupisco come habbi disposto di ciò che non è suo, poiché sono quasi tutti toccati in mia parte e altri portati da Toscana, Roma, Napoli e fatti fare in Milano, e copiare, oltre quelli quattro del Ceriano, Ficiano, Louino, Aretino, et altri sono communi, come del Signor Ludovico, avo e padre mio, converrà ch’a suo tempo faccia la dichiarazione il Signor Francesco per togliere ogni ombra, e quanto alla Galleria si consulterà il modo per formarne una protesta. Gradisco saper s’abbi lasciato una messa quotidiana, come mi disse voler fare, il che saria d’aggravio grande alla Casa […]Quanto alla cassetta, che non si trova, ove suppone vasi denari in oro, egli era tanto in ciò secreto, che non so ove si possi far capo per saperne conto, vero è che avendo palesato (ma non so come e quando il danno trovatogli) e probabile non ve ne havesse altro…”.[46]

Il 18 settembre 1670 e il 2 luglio 1678, Manfredo aveva fatto cospicue donazioni di libri alla Biblioteca Ambrosiana, con una clausola in cui si diceva che il donatore se ne riservava l’uso vita natural durante: ciò dimostra gli ottimi rapporti del Settala verso questa istituzione, di cui era anche Conservatore.[47]

Il primo erede fu, dunque, il fratello Carlo, Vescovo di Tortona e con lui cominciarono i dubbi che in seguito porteranno alla lunghissima causa tra gli eredi Settala e l’Ambrosiana. Il 21 febbraio 1680, cioè pochi giorni dopo la morte di Manfredo, l’erede ed esecutore testamentario scrisse una lettera al Prefetto dell’Ambrosiana Pietro Paolo Bosca, rendendo effettive le donazioni dei libri sopraccennati: “Annesso alla sua amorevolissima lettera ricevo la lista che il Signor Manfredi ha lasciati a cotesta tanto insigne Bibliotheca, della quale essendo io tanto partiale accerto V. S. che sento gran piacimento della memoria ha havuto di detta nobilissima libraria, della quale tengo vivissima memoria anch’io, havendo preparato un donativo, che non sarà inferiore a quello di mio fratello. Gradirò bene che V.S. veda quali di detti libri habbia la Bibliotheca per non privarne di quelli che siano duplicati la Casa, come mi accerto dalla compitissima sua amorevolezza. Il ritratto del Sig.r Manfredi sarà consegnato al più longo a maggio che spero, a Dio piacendo, secondo il solito, portarmi a milano, et all’hora si vedrà quale sarà più adattato per ricever l’honore di collocarlo in cotesto gran Museo, di che ne dovrà meco la Casa tutta restar a V.S. et a cotesti S.ri tenutissima. Gradirò che in ciascun libro si compiaccia farci porre Manus D. Manfredi Septale Patritiis Mediolanensis, il che sarà d’incentivo ad altri di regalare altre simili opere”.[48] In una nota sul margine destro quasi alla fine del folio troviamo: “della cui molta cognizione desideraria haver notitia distinta delle materie e particolarità contenute nell’annessi 26 volumi enontiati nell’ingionto foglio e bramaria non fossero incorporati in modo nell’Ambrosiana, siche venendo io a Milano il prossimo maggio, come alle volte soglio, li potessi una volta vedere in casa mia con commodità”.[49] In un documento rogato da Tommaso Buzzi, Notaio Apostolico della Curia Arcivescovile di Milano, compare la lista dei libri donati e in un piccolo foglio troviamo che: <<Li Libri segnati con la + si sono avuti da signori Settala a diì 27 giugno 1680 e li segnati con questa linea — sono i duplicati restituiti, quelli che non anno alcun segno sono ancora da restituirsi dalli sudetti Signori (circa 15 senza segno)>>.[50]

Alla morte del Vescovo di Tortona (1682) il Museo passò a Francesco (canonico di San Nazaro come lo zio), il quale morì nel 1716, senza che vi fossero altri eredi maschi, conseguentemente la Biblioteca Ambrosiana sarebbe dovuta entrare in possesso del Museo settaliano, ma ciò fu impedito dalle azioni giudiziarie promosse dai collaterali della famiglia Settala, azioni che si definirono soltanto nel 1751, venendo così a rispettare la volontà di Manfredo. La lunga vertenza intercorsa tra la famiglia Settala e la Biblioteca Ambrosiana è nota: il 13 agosto 1711 moriva Francesco Settala, canonico di San Nazaro come lo zio ed ultimo erede maschio secondo la linea di primogenitura discendente da Senatore, fratello di Manfredo, il quale aveva nominato, con suo testamento, erede universale il conte Carlo Settala, appartenente ad un ramo collaterale della famiglia e con un atto di notorietà distingueva tra gli oggetti effettivamente appartenenti al Museo dello zio Manfredo e quelli che provenivano dalla famiglia o che erano stati raccolti ed aggiunti da lui stesso, infine esprime il desiderio che questa parte della Galleria potesse restare a coloro che erano uniti da legame di agnazione alla famiglia, riconoscendo, tuttavia, i diritti dell’Ambrosiana su tale Museo.[51]  Pochi giorni dopo la morte del canonico Francesco, il 25 agosto, si riunì la Congregazione dei Conservatori, per dare incarico al canonico del Duomo e al prevosto di Santa Maria Podone di reperire negli archivi la copia del testamento di Manfredo e risolvere la faccenda, ma il 3 marzo 1712, da un verbale della Congregazione risulta che la copia del testamento non era stata ancora trovata, quindi insieme con il prevosto viene incaricato, al posto del canonico del Duomo, il prefetto dell’Ambrosiana Giuseppe Antonio Sassi a tale compito. L’anno successivo, il 16 febbraio 1713, si riunisce di nuove la Congregazione, poiché la questione era ferma al punto di partenza e sia il canonico del Duomo che il prevosto vengono delegati, con ampi poteri, ad andare dagli eredi Settala per definire la questione della donazione: il 9 giugno fu redatto un compromesso della durata di sei mesi per la ricomposizione amichevole tra le due parti, la Biblioteca Ambrosiana e il conte Carlo Settala. Da un verbale della Congregazione risalente al 22 gennaio 1715, apprendiamo che il caso sta chiaramente prendendo la via giudiziaria, infatti nello stesso anno il 16 dicembre la controversia risulta avocata (assunta) presso il Senato. La vertenza subisce un arresto per vari motivi e il contraddittorio che si doveva tenere il 29 settembre 1718 in presenza del Senatore di Milano, non ebbe luogo a causa dell’assenza del Senatore dalla città e nel verbale datato 21 giugno 1720 risulta che il contraddittorio non era ancora stato tenuto e che ci sarebbe stato un tentativo di risolvere la questione per via amichevole, evidentemente i tentativi fallirono e il 14 gennaio 1723 la Congregazione si rende conto che la lite non era risolvibile per via amichevole e che restava solo la via giudiziaria. Il fatto si complica ancora di più quando si ripresenta (sulla scena) la marchesa Caterina Settala Del Pozzo, la quale aveva già affrontato una causa contro Francesco Settala, negli anni 1698-99, per il possesso della Galleria, ma la causa non va avanti: tutto viene rimandato sia per le ferie del Senatore, sia per l’avvicendarsi di nuovi delegati, insomma arriviamo al 3 luglio 1730 quando la marchesa Caterina Settala Del Pozzo comunica di rinunciare ad ogni pretesa. Negli anni successivi tutto tace: i delegati, sempre con la stessa procedura, vengono incaricati di continuare l’istanza. E’ difficile capire se questa situazione di ristagno sia stata dovuta a delle difficoltà procedurali o all’incapacità e alla mancanza di volontà dei delegati della Congregazione dei Conservatori, comunque il procrastinarsi della causa rendeva sempre più probabile il rischio di alienazione e dispersione del patrimonio del Museo Settala. Dal verbale del 6 febbraio 1750 veniamo a conoscenza che Senatore Settala, fratello di Carlo si era intromesso per contestare all’Ambrosiana il diritto nell’eredità della Galleria; il 16 settembre dello stesso anno viene annunciato alla Congregazione che finalmente era pronta la relazione per il dibattito risolutorio! Il 19 febbraio 1751 il Senato emette la sentenza in cui viene riconosciuta la piena validità del fedecommesso di Manfredo e il diritto della Biblioteca Ambrosiana a subentrare nel possesso del Museo, gli oggetti facenti parte di esso devono essere riconosciuti avvalendosi dell’inventario di Scarabelli inserito nel testamento di Manfredo, Carlo e Senatore Settala erano tenuti alla consegna di tali oggetti, ma il conte Carlo Settala impugna la sentenza perché, prima della consegna del materiale, pretende che l’Ambrosiana dia debita garanzia di tutela e di conservazione, per la trattazione dell’eventuale consegna nomina procuratore il proprio figlio Antonio. Il 1° luglio 1752, la Congregazione prende in considerazione che necessita dare le dovute garanzie sulla custodia della Galleria, ma l’argomento viene di nuovo discusso in Congregazione il 25 gennaio 1753, evidenziando anche i nuovi contrasti circa l’identificazione degli oggetti appartenenti al Museo: il conte Carlo affermava di avere consegnato tutto ciò che rientrava nei diritti dell’Ambrosiana e che non era propenso a rilasciare altro (a far avere). Dal verbale successivo datato 29 maggio dello stesso anno veniamo a conoscenza che il Senatore aveva ingiunto al Settala di completare la consegna di tutti quei materiali spettanti all’Ambrosiana entro otto giorni, ingiunzione che il conte Carlo non rispettò, perché nel verbale del 29 novembre, sempre dello stesso anno, la Congregazione viene informata del contraddittorio tenutosi davanti al Senato: “…al termine del quale fu intimata la consegna di alcuni cammei e della collezione delle medaglie e di quant’altro era di spettanza dell’Ambrosiana; tuttavia l’esecuzione dell’ordine era rimasta sospesa a causa del periodo delle ferie […] finché nella riunione del 7 agosto 1755 si chiede di mettere in ordine le cose avute dai signori Settala: indizio chiaro che la consegna dei materiali ancora mancanti era stata finalmente completata”.[52] Si concludevano in tal modo le vicende di una lunghissima causa durata quasi quarant’anni per una, a dir poco, difficile eredità, cominciata con il problema di riconoscere gli oggetti effettivamente appartenenti al Museo di Manfredo non ricorrendo, secondo gli eredi, all’inventario compilato da Scarabelli, perché il tempo aveva logorato molte cose, altri oggetti erano stati inseriti nel catalogo “ad ostentationem”, per fare bella figura ma non erano mai esistiti, molti provenivano dalla collezione di Ludovico, padre di Manfredo, altri erano stati raccolti dal nipote canonico Francesco, altri erano stati rubati, come si evince da una lettera di Manfredo scritta al fratello Carlo, Vescovo di Tortona del 14 aprile 1666: “Questo anno 1666 a me molto infausto piaccia a Nostro Signore me la mandi buona la prima di già saperà la cosa de’ libri e delle dieci doppie, patientia ma hora a da sapere, Hieri mentre Carlo mostrava il Gabinetto a certi Francesi arivò al scrittoio delle medaglie d’oro et vide che non ve ne era manco una, restò pensando che io li havessi mutato loco, me lo mandò a dire, finito il nostro Capitolo, vado a casa e trovo che erano state rubate, rimasi tutto attonito, ma quelle d’argento non le toccorono, andai a vedere nell’altro scrittoio dove sono li anelli ne vidi che ve ne mancavano tre de’ più belli, che ero certo hebbi a cascar in terra il primo è stato la bellissima turchesa che era di nostro padre, cioè quella di Pio Quarto, il secondo anello, quello dove era il bellissimo Platone, tanto stimato da tutti per la sua conservazione, il terzo annelo era quello che mi donò il Signor Canonico Moroni Bibliotecario del Signor Cardinale Barberino che certo le prometto Monsignor mio, che non so dove mi sia, et questo non puol esser altro che uno ben prattico o famigliare, poiché alla sera vi erano et al mezzo dì, venendo quelli Francesi, non vi erano più: o mi sono stati rubati la notte o la mattina di giorno, poiché l’uscio in cima della scala è sempre aperto, haveran visto dove si pone la chiave et chiavette, et così haveranno fatto il colpo colpo certo che mi atterisce sì per non saper di chi fidarmi per l’avvenire, ma questo cosa certa è che è persona molto pratica, et inteligente, ne ho voluto partecipar a Vostra Signoria Illustrissima che so ne deriverà qualche cordoglio, poiché io con tanto stento li ho posti insieme et hora tutto in un colpo levatemi. Io non volevo lasciar le chiavi, né le chiavette, ma li Signori Nipoti pareva che io non mi fidassi di loro, così lasciavo la chiave et chiavette, hora veda come è andato patientia piaccia a Vostro Signore non si inoltri più et con tal fine li sono et sarò sempre “.[53] La Galleria non apparteneva per intero a Manfredo, infatti molti pezzi appartenevano al padre Ludovico e molti altri furono aggiunti dal canonico Francesco, quindi gli eredi, cominciando dal fratello Carlo, erano propensi a distinguere ciò che spettava effettivamente all’Ambrosiana dai beni di famiglia, che dovevano restare tali, anche in base al testamento di Ludovico del 5 luglio 1632, in cui dava in custodia la sua collezione a Manfredo con un “fedecommesso” che impediva qualsiasi alienazione o frazionamento dei beni di famiglia, quindi non cedibile a terzi. Ma nell’istanza al Senato del 18 gennaio 1698, Francesco riconobbe piena validità alle disposizioni testamentarie dello zio Manfredo ed ammise il diritto di successione dell’Ambrosiana nel momento in cui si sarebbe estinta la linea maschile di primogenitura, non facendo mai riferimento ai vincoli familiari presenti nelle disposizioni di Ludovico. Il testamento di Manfredo, di chiara interpretazione, divenne, in tal modo, la base di tutta la vertenza e a conferma di ciò fu la sentenza del Senato emessa contro Caterina Settala a favore di Francesco.[54]

Dopo tanti anni e tanti “disguidi” la Galleria di Manfredo non aveva certamente potuto conservare quell’unità organica e particolare con cui era stata creata ed anche l’Ambrosiana non contribuì a ciò che era rimasto di organicità: furono acquistati altri oggetti da un’altra collezione e uniti alla Galleria; furono fatti degli scambi di materiali, senza considerare gli espropri del 1796 e del 1798 da parte dei Francesi, i prestiti ad altre istituzioni e non restituiti, le concessioni fatte di vari oggetti.

Nei primi anni del Novecento, quando era Prefetto dell’Ambrosiana Antonio Maria Ceriani, il futuro papa (Pio XI) Achille Ratti riordinò il Museo Settala, basandosi sul Catalogo Scarabelli, quella stessa copia che era stata allegata al testamento di Manfredo, rendendolo disponibile al pubblico, nonostante le grandi difficoltà incontrate. Una nuova riorganizzazione della Galleria fu realizzata dal Prefetto Giovanni Galbiati negli anni 1926-34, di cui lascia una particolareggiata descrizione nella sua guida dell’Ambrosiana, pur restando evidente il miscuglio tra i reperti originali e quelli provenienti da altre donazioni. Durante la seconda guerra mondiale, la notte tra il 15 e il 16 agosto Milano venne bombardata, anche l’Ambrosiana fu colpita: i danni furono incalcolabili e la Galleria Settala perse molti dei suoi reperti; nel 1970, per acquistare spazio, l’Ambrosiana cedette al Museo di Storia Naturale di Milano importanti oggetti dei reperti zoologici rimasti mentre molti furono rifugiati nei depositi  ed altri ceduti. A questo punto possiamo dire che il Museo Settala era definitivamente disgregato, frazionato ed un tentativo di ricostruzione sarebbe pressoché impossibile.[55]

Le collezioni del centro Europa erano concepite per essere contemplate dal sovrano e pochi erano i visitatori ammessi a queste meraviglie, destinate ad una solitaria meditazione. Più tardi, nel Seicento, l’erudito vide nella propria collezione uno strumento per catalogare i molteplici aspetti dell’universo, formando un’enciclopedia del sapere di facile consultazione ed è proprio questa impronta che Manfredo intende dare alla sua “Galleria”: non una “chambre des meravilles”, ma un luogo di documentazione e d’incontro tra studiosi in campo naturalistico e tecnico e ciò appare evidente dalla corrispondenza intercorsa tra Settala e Redi, Kircher, Oldemburg.[56] Nel 1646, dopo la visita alla Galleria di John Evelyn, letterato con interessi verso gli studi antiquari, il quale nel suo resoconto descrisse vari oggetti appartenenti al Museo di Manfredo, questo divenne tappa d’obbligo per i visitatori stranieri e nel 1664, ormai famoso, ricevette delle visite molto importanti: quelle di Balthasar de Monconys, consigliere del re di Francia, che dimostrò molto interesse per l’attività tecnica e i lavori al tornio di Manfredo; John Ray, famosissimo botanico inglese, il quale ebbe molto interesse per gli specchi ustori, quelli deformanti e per gli automi e i “moti perpetui” costruiti dall’Archimede milanese; Philip Skippon, autorevole naturalista e parlamentare inglese, che, nel resoconto del suo tour europeo, segnalò tra le novità in campo meccanico alcune invenzioni create da Manfredo come orologi a pendolo, torri cilindriche per lo studio dei “moti perpetui”. Walther von Tschirnhaus, uno degli inventori della porcellana d’arte europea, si recò, nel 1676, a Milano per incontrare Manfredo che gli rivelò alcuni fondamentali segreti per la produzione della porcellana.[57] Tutto questo ci fa capire che il Canonico milanese aveva concepito la sua Galleria come un centro di ricerca, in cui era possibile il confronto e la verifica delle proprie ricerche con quelle degli studiosi di passaggio a Milano. Dopo la morte di Manfredo la Galleria da laboratorio sperimentale divenne un luogo delle meraviglie, visitato più per ammirare gli oggetti stravaganti che per il valore della raccolta: il Museo stava diventando obsoleto e non appagava più le esigenze scientifiche degli studiosi illuministi, se nel 1699 lo scrittore francese Francois J. Deseine definiva con queste parole il Museo settaliano: <<Una delle più belle curiosità di Milano è il gabinetto del signor Francesco Settala, canonico di San Nazaro, messo insieme dal signor Manfredo Settala, suo zio, dove si può vedere tutto ciò che la natura e l’arte hanno di più singolare>>,[58] quarant’anni dopo Charles de Brosses, primo presidente del Parlamento di Digione, magistrato, umanista e storico, il quale in una sua lettera del 1739 non mancò di criticare aspramente la Galleria settaliana: <<Quanto alla collezione di Settala, tanto celebrata in tutti i libri su Milano, essa ha la sorte di tutte le collezioni, che è quella di deperire a poco a poco>> e ancora: <<Gli eredi del canonico Settala hanno venduto o regalato una parte delle rarità che lo componevano. Ci si può tuttavia divertire ancora a rimirare alcune buone cose che restano nelle otto o dieci sale che compongono la galleria, e che sono piene di molte cianfrusaglie>>.[59]

Attualmente che cosa resta di tutto il materiale artistico, scientifico, etnico, curioso, bizzarro che costituiva il Museo di Manfredo? Presso la Pinacoteca Ambrosiana il visitatore può ancora ammirare vari oggetti ed avere un’idea, se pur lontana, di quello che fu la Collezione settaliana: di seguito diamo la descrizione, non completa ed esaustiva, di quello che, a nostro avviso, può destare maggiore interesse e curiosità.

Appena varcata la soglia dell’ingresso della Pinacoteca Ambrosiana, sulla sinistra c’è una teca che raccoglie vari piccoli oggetti provenienti dalla Collezione di Manfredo Settala, oggetti che hanno incuriosito nel passato ed attirato numerosi ed anche celebri visitatori, ma che anche oggi non hanno perso il loro interesse. Oltre a due astrolabi, di cui parleremo più avanti, possiamo vedere una piccola statuetta di usciabti, cioè quelle statuette che venivano collocate nelle tombe egiziane per servire il defunto sostituendosi ad esso nei lavori che dovevano svolgere nell’aldilà, secondo la religione osiriana. Queste statuine funerarie, risalenti al Medio Regno, facevano parte del corredo funebre di personaggi importanti, ebbero il massimo utilizzo durante il Nuovo Regno, per scomparire nell’età Tarda.[60] Una lucerna a tre beccucci, unico esemplare rimasto dello otto menzionate nel “Museo Settaliano del 1677, sopra di questa vediamo due balsamari, ossia due vasetti di vetro di un tipo comune, risalenti al I secolo d. C. e usati come contenitori di balsami.[61] Molto belli sono tre piccoli quadretti dipinti ad olio su lapislazzuli, il primo eseguito da Giovan Battista del Sole, figlio di Pietro, nacque probabilmente a Milano negli anni 1615-1625. Sconosciute le notizie intorno alla sua formazione, che non può essersi svolta all’Accademia Ambrosiana, in quanto chiusa nel 1630 a causa della peste e riaperta nel 1669. La sua produzione artistica sia pittorica che incisoria è documentata a partire dagli anni 1644 circa, molte delle quali perdute. Dopo un periodo trascorso a Varese, fece ritorno a Milano intorno al 1663, dove eseguì sette disegni su lapislazzulo per la Collezione di Manfredo Settala, oggi perduti. L’artista si dilettava anche con le acqueforti, poca certezza si ha per i disegni, alcuni dei quali sono conservati all’Ambrosiana, ma la loro attribuzione appare quanto meno discutibile. Nessuna notizia ci è giunta circa la sua morte che si può collocare dopo il 1673, ultimo anno in cui viene documentata l’attività del pittore.[62] Il dipinto, “Tempesta di mare con barche”, raffigura un galeone, una galea e un’altra imbarcazione piccola in balia delle onde, è di forma ovale, (10,7×4,7 cm.) racchiuso in una cornice in legno dipinto color ebano. Gli altri due dipinti, sempre di forma ovale e di 11,5×4,7cm. il primo e 10×4,2cm. il secondo, rappresentano rispettivamente “Il ratto di Europa” e “Incontro di Glauco e Scilla”, sono inseriti in un’unica cornice di legno dipinto color ebano. Non sono descritti nel catalogo latino di Terzaghi, ma li troviamo nella traduzione italiana dello Scarabelli: <<Quadro con cornice di Ebano, in cui sono incassati due ovati di Pietra Lazzuli: in un de’ quali è dipinta Europa figlia di Agenore involata da Giove: e nell’altro un’altra favola di Ovidio>>, cioè l’incontro tra la ninfa Scilla e Glauco, divinità marina che susciterà la gelosia della maga Circe con la conseguente trasformazione della fanciulla in mostro marino.[63] La paternità delle due piccole opere fu spesso attribuita a Giovan Battista del Sole, in seguito a Giovan Battista Maestri, detto il Volpino, per le scelte stilistiche, riscontrabili nei disegni e nei quadri, si caratterizzano come peculiari di questo artista, di cui non si conosce né il luogo né la data di nascita, presupponibile intorno al 1640. Proveniente da una famiglia di pittori, il Volpino fu più noto come scultore ed allievo di Dionigi Bussola, grazie al quale fu introdotto tra gli scultori della cattedrale milanese tra il 1658 e il 1661. Quando il 4 novembre 1668, riaprì l’Accademia Ambrosiana, la cattedra di scultura fu assegnata al Bussola, anche il Volpino fu ammesso tra gli artisti. Nel 1669 sposò Paola Rossi nella chiesa di San Calimero e proseguì operò per il Duomo di Milano fino al 1680, anno della sua morte.[64]  Il piccolo paesaggio con ponte, vicino agli altri descritti, è stato dipinto su pietra paesina, il cui disegno naturale è stato arricchito per rendere il soggetto più piacevole; la cornice è in ebano e metallo dorato.[65]

Altri oggetti che possono incuriosire molto il visitatore sono le piccole sculture di figure antropomorfe fatte di semi, conchiglie, ali di insetti, che si trovano sempre all’interno della bacheca, dal tipico gusto barocco e rappresentanti molto bene il gusto eclettico di Manfredo Settala. Risalenti al XVII secolo, le vesti e i volti barbuti dei soggetti denunciano l’origine nordica di una produzione artigianale di qualità. Così vengono descritte dallo Scarabelli: <<Quattro scatole, nella prima delle quali si vede un mezzo corpo armato fatto di verdi Mosche Indiane, tolta la faccia che è composta di Mosche del Congo del colore del bronzo, e la barba che da i loro piedi è formata. I capelli non sono altro che piccole fibre tolte da’ semi de’ fiori; così ancora il collaro. Gli occhi sono di vetro imitante il rubino. Per bottoni al vestimento servono i semi de’ fiori. Il rimanente del torace è tutto mosche, come dicemmo dell’India, che mischiate con alcuni altri anima lucci rossi vengono a formare con molti individui distinta il vago, e curioso ritratto di un solo. Nella seconda scorgersi un altro simile mezzo corpo, ma con barba assai più lunga, e con la faccia di maggior grossezza somigliante a uno Svizzero, con capigliatura di semi di fiori, e con petto pur di seme ma giallo formato. Nella terza ravvisasi un altro mezzo corpo molto bizzarro nella sua fabbrica, ma di gran lunga da altri diverso. Simile a questa terza è la quarta scatola, che parimente ha in se un mezzo corpo della medesima fattura che habbiamo detto. Due donne composte di varij semi di fiori, col capo di più minori semi, l’uno dall’altro assai diversi industriosamente composto>>.[66]

Proseguendo la visita alla Pinacoteca, il visitatore, arrivato alla sala numero otto, detta Sala della Medusa, in cui sono conservati dipinti del XIV-XVI secolo e una vasta gamma di oggettistica, può ammirare un “Astrolabio latino”.[67]

L’invenzione dell’astrolabio è attribuita a Ipparco di Nicea (IIsecolo a.C.) il quale conosceva la proiezione stereografica, cioè la tecnica di rappresentazione grafica di un solido geometrico su un piano. I primi astrolabi furono realizzati ad Alessandria d’Egitto, poi a Bisanzio; fu il dominio islamico in Spagna e in Sicilia che diffuse, già dal X secolo, la conoscenza dello strumento in Europa, dove cominciò la sua costruzione a partire dal XIV secolo in Francia, Inghilterra e nel nord d’Italia. Indipendentemente dall’utilità per gli astronomi e topografi, gli astrolabi divennero oggetti di grande valore, specialmente quelli in ottone finemente incisi ed entrarono a far parte delle collezioni di principi e di nobili come simbolo di raffinatezza culturale. L’astrolabio iniziò il suo declino nel XVII secolo, quando furono introdotti nuovi strumenti e metodi di calcolo.[68]

Questo astrolabio, su cui dorso è incisa la data del 1500, possiede inconsuetamente un calendario zodiacale, in cui vengono indicati i pianeti dominanti e permette di indicare la posizione di trentotto stelle. Sul dorso è visibile un calendario annuale e zodiacale con l’inizio della primavera all’11 marzo ed quadrato delle ombre su cui possiamo vedere sovrapposto il doppio tracciato delle ore ineguali, dette anche Temporali, Antiche, Naturali, Giudaiche, Bibliche, Canoniche, Planetarie…, esse sono le più antiche e si computano a partire dall’alba al tramonto, dividendo l’arco diurno sempre in dodici parti uguali, con la conseguenza che esse sono più corte d’inverno e più lunghe in estate.[69]

Sempre nella stessa sala non possono non incuriosire e non attirare l’attenzione del pubblico (turista) le sfere armillari:

La sfera armillare deriva il suo nome dal latino “armilla” che significa anello, cerchio, braccialetto Eratostene (III secolo a.C.) è ritenuto l’inventore della sfera armillare, detta anche astrolabio sferico. E’ un antico strumento astronomico, una specie di mappamondo formato da un vario numero di cerchi: quello dell’equatore celeste, dell’eclittica, del meridiano attraversati dall’asse della terra cui se ne possono aggiungere altri come l’orizzonte e i paralleli; la terra è rappresentata al centro della sfera. Era utilizzata sia a scopo di osservazione sia a scopo didattico, infatti serviva a descrivere il moto dei corpi celesti e come orologio solare equatoriale. A partire dal secolo XVII alle sfere tolemaiche furono annesse quelle rappresentanti il sistema copernicano, in cui attorno alla centralità del Sole ruotavano gli anelli planetari.[70]

La prima sfera è in ottone, alta 30,4 cm. ed ha un diametro di 25,5cm. Questa sfera armillare porta la data del 1644 e la firma di Manfredo Settala: “MANFREDUS SEPTALIUS FECIT M.DC.XXXXIV”. Nella corona circolare possiamo leggere i nomi dei venti in latino; composta dall’anello equatoriale e da quelli raffiguranti i tropici, dai circoli polari e, perpendicolari a questi, dagli anelli dei coluri: solstiziale ed equinoziale. L’eclittica è rappresentata da una fascia su cui sono incisi i segni zodiacali con i rispettivi nomi, internamente si trovano due anelli ortogonali nei quali è fissato un piccolo globo colorato rappresentante la terra. Un dispositivo mobile dello strumento descrive l’epiciclo della Luna secondo il sistema tolemaico. La Biblioteca Ambrosiana conserva anche il disegno autografo del Settala, che riproduce la sfera, dotato di una legenda che spiega come l’oggetto riporti vari motti.[71]

Molto interessante anche la seconda sfera armillare, che faceva parte della collezione della famiglia Settala e fu costruita a Milano nel 1549 da Giannello Torriano: “IANELLUS*MEDIOLANI*1549*F*”, cremonese, molto famoso per la costruzione di strumenti astronomici e orologi, la firma del costruttore  la possiamo vedere lungo la linea dell’Equatore. Lo strumento è in ottone, alto 26 cm. e con un diametro di 17,1cm. Partendo da una base circolare si diramano quattro settori che sostengono una corona circolare in cui troviamo i nomi dei punti cardinali e inserito in essa un cerchio rappresentante il mediano celeste, dove si trova una sfera formata dall’equatore e dagli anelli dei tropici e dei cerchi polari, perpendicolari a questi gli anelli dei coluri (solstiziale ed equinoziale). L’eclittica è raffigurata da una fascia in cui sono incisi i nomi dei mesi e i simboli dei segni zodiacali, all’interno della sfera, su due sistemi mobili, è imperniata la terra. Un’altra iscrizione “HERMETIS DELPHINI”è forse riferita al primo proprietario?[72]

Questa terza sfera armillare, montata su un elegante supporto inciso, sarebbe appartenuta, secondo la tradizione, a San Carlo Borromeo. All’interno di questo prezioso oggetto, un dispositivo in ottone dorato segna l’epiciclo lunare secondo il sistema tolemaico: l’inizio dell’equinozio di primavera è fissato al 21 marzo, ciò fa capire che la sfera è stata costruita dopo il 1588, anno in cui si ebbe la riforma gregoriana del calendario, quindi in contraddizione con la tradizione che la vuole appartenuta a San Carlo, morto il 3 novembre 1584. La sfera, di fabbricazione italiana, reca in una corona circolare i nomi dei mesi e i simboli dei quattro punti cardinali. Nella corona è inserito un cerchio meridiano graduato, in cui è fissata una sfera, formata dagli anelli dell’equatore, dei tropici, dei cerchi polari, perpendicolare a questa si trovano gli anelli dei coluri (solstiziale ed equinoziale), mentre una fascia graduata rappresenta l’eclittica con incise le costellazioni e fra i poli della sfera si trova la terra. La sfera, utilizzata soprattutto per spiegare il movimento lunare, è molto rara.[73]

Ancora nella Sala della Medusa, non molto evidenziato, in alto in una vetrina, possiamo vedere un piccolo ritratto di Manfredo all’età di settantasette anni.[74] L’iscrizione sul bordo di questa medaglia in legno, che molto probabilmente fece da modello per la realizzazione di medaglie in bronzo, ci fa conoscere non solo il soggetto e l’età, ma anche l’autore di questa piccola opera lignea: Cesare Fiori, pittore, incisore, architetto, nato a Milano intorno al 1636 da Girolamo, a soli otto anni realizzò il ritratto del padre defunto. Alla fine del 1670 risale il suo matrimonio con Maria Elisabetta Ignazi, dalla quale ebbe quattordici figli. Nel 1673 Cesare Fiori risulta iscritto alla seconda Accademia Ambrosiana  ed è probabile che sia stato tra i fondatori; nel 1698 fece parte degli artisti che apprestarono i disegni per la statua di Sant’Ambrogio, attuata in argento dall’orefice Sparoletti per il Duomo di Milano. All’ottavo decennio del Seicento appartengono la maggior parte delle medaglie eseguite su disegno del Fiori, tra queste anche quella rappresentante Manfredo eseguita nel 1677; in occasione delle esequie del Settala (1680), Fiori eseguì vari disegni allegorici, perduti, che esaltavano la figura e le opere dell’Archimede milanese, con il quale fu attivo collaboratore. L’ispirazione barocca è evidente nelle linee ondulate, nei panneggi stropicciati e nei chiaro-scuri che distinguono i ritratti, realizzati poi in medaglie di bronzo (Biblioteca Ambrosiana; Castello Sforzesco) ed è proprio questo “linguaggio” barocco che distingue Cesare Fiori nel panorama milanese, in cui l’arte barocca ebbe un impiego piuttosto ristretto. L’artista morì a Milano il 3 giugno 1702.[75]

Nella stessa Sala, è custodito anche un planetolabio, probabilmente di origine tedesca, risalente agli inizi del secolo XVI: si tratta di un particolare astrolabio con il quale si poteva individuare la posizione dei pianeti durante i dodici mesi dell’anno, quindi era un congegno più astrologico che astronomico, poiché era utilizzato per predire gli oroscopi, basandosi sulla posizione dei pianeti rispetto allo zodiaco. Possiamo vedere, infatti, un calendario annuale e zodiacale con l’equinozio al 10,20 di marzo; su dei cartigli disposti tra le ore planetarie leggiamo: “Vite”, “Census”, “Fratrum”, “Patrum”, “Filiorum”,  “Servorum”, “Mulieris”, “Mortis”, “Itineris”, “Regis”, “Fortune”, “Laboris”. I cinque cerchi concentrici divisi in dodici settori, posti al centro indicano le posizioni dei pianeti nel corso dell’anno. In modo originale è fissato (incentrato) il cerchio mobile dell’eclittica con i segni zodiacali e otto lancette con i simboli dei pianeti indicati.[76]

Bellissime e molto eleganti sono le coppe o versatoi ricavate da conchiglie di Nautilus a forma di chiocciola, che fin dal Medioevo vengono importate in Europa dai porti della Cina Meridionale, dove le botteghe erano specializzate nella decorazione dei gusci in madreperla. Dal XVI secolo, grazie ad orafi abilissimi, si diffonde la moda di incastonare queste meraviglie oceaniche dentro raffinate montature in argento dorato. La coppa inventariata con il n. 2350 è una conchiglia di Nautilus polita, traforata a giorno, montata su una base circolare di legno tornito nero e marrone, tramite una lamina metallica cesellata. Anche quella inventariata con il n. 2351 è una conchiglia di Nautilus polita, traforata a giorno, montata su un sostegno circolare di legno sagomato a balaustra e con attacco a forcella terminante a giglio. Entrambe le coppe sono databili alla prima metà del XVII secolo e non è da escludere che le montature in legno siano state eseguite dallo stesso Manfredo.[77]

L’orologio da tavolo con astrolabio è solo un esempio di quelli posseduti da Manfredo nel suo Museo.[78] Nell’opera del Terzaghi e poi nella traduzione dello Scarabelli l’elenco degli orologi non segue un ordine sistematico, ma sono descritti senza seguire una classificazione tipologica e da questo elenco ne risultano venti circa, tra questi descritti uno dei più importanti quello conservato presso la Pinacoteca Ambrosiana. Si tratta di un orologio meccanico, astronomico ad edicola a pianta rettangolare con cassa di ottone dorato, finemente cesellato ed è databile intorno al 1580, così viene descritto da Scarabelli: <<Frà i maggiori un’Hrologio quivi si mira non punto dissimile nella construttura  da quello di cui la Città di Strasburgho si pregia. Nella prima delle otto sfere maggiori, che nella superficie esterna delle quattro facce dell’horologio sono distribuite, osservasi la lunghezza di ciascun giorno, e notte dell’anno, e col suono di diverse campane l’hore da’ suoi quarti regolarmente si distinguono. In altra sfera si scoprono di mezzo rilievo, i dodici Segni dello Zodiaco. In altra sfera si comprendono i nomi di ciascun’ giorno della Settimana in mezze figure di rilievo risultante. In altra i quarti si discernono; in altra l’hore Astronomiche si ravvisano. In altra le Babiloniche si disegnano. Nell’altra sfera maggiore dirimpetto alla mentovata scorgesi un’ Astrolabio di esquisito artificio, per il quale raggirandosi il Sole nella Coda del Drago, che ivi è riposto, frà l’ombrose caligini del suo Eclisse fa spiccare il deliquio de’ proprij splendori, e con ritrovato assai riguardevole le quadrature della Luna, e di tutti i Pianeti mirabilmente si raffigurano>>.[79] Tutte queste indicazioni sono visibili su sei quadranti disposti sui due lati maggiori: il quadrante principale indica le ore ultramontane (con inizio a mezzanotte e a mezzogiorno) e le ore all’italiana (con inizio mezz’ora dopo il tramonto); l’ora del sorgere e del calare del sole con l’immagine visiva della durata del giorno e della notte; in basso a destra possiamo vedere i mesi con i segni dello zodiaco e a sinistra il quadratino della sveglia. Nel lato posteriore dell’orologio possiamo osservare l’ora siderale, la posizione delle principali stelle; l’età della luna, la testa e la coda del dragone. In basso a destra i giorni della settimana e a sinistra la regolazione del tempo. Questo bellissimo orologio ha la superficie riccamente decorata e sbalzata con motivi vegetali.[80]

Più avanti, nella sala numero sedici, dedicata alla pittura lombarda del XVII secolo, il turista può ammirare due dipinti eseguiti da due famosi pittori lombardi: il “Ritratto di Manfredo Settala” di Daniele Crespi e il “Suicidio di Lucrezia Romana” di Melchiorre Gherardini.

Il primo dipinto, olio su tela, di 44×33 cm., ci mostra un “giovin signore” dal volto pallido e malinconico, raffigurato a mezzo busto, con il viso ruotato di tre quarti, che indossa un abito scuro, con un candido colletto che illumina il volto del giovane. Ma ciò che cattura l’attenzione è uno strano oggetto, ben evidenziato contro il fondo scuro, sorretto da una mano cerea e curata che lo sorregge: è un vasetto in avorio lavorato al tornio con perizia e pazienza, probabilmente di produzione di Manfredo. Il coperchio del piccolo vaso ricorda una scala a chiocciola, terminante con una punta acuta, sulla quale c’è una sfera, l’ostentazione dell’oggetto sembra alludere alla caducità, alla fragilità e alla complessità della vita, che si può facilmente spezzare come questo stelo d’avorio tenuto stretto delicatamente tra le dita. Il ritratto, databile al primo ventennio del Seicento, costituisce una delle prime opere ritrattistiche di Daniele Crespi, di evidente ispirazione caravaggesca, è pervenuto alla Pinacoteca Ambrosiana probabilmente nell’ambito della donazione del Museo Settala.[81]

Non sono certi né il luogo né la data di nascita del pittore Daniele Crespi, figlio di Gaspare, discendente da una famiglia di pittori di Busto Arsizio e parente di Giovan Battista Crespi, detto il Ceriano, il quale fu anche suo maestro, probabilmente nacque a Milano negli ultimi anni del Cinquecento e nonostante la morte prematura avvenuta a causa della peste del 1630, Crespi è considerato uno dei maggiori esponenti del Seicento lombardo. Nel settembre 1621, cominciò a frequentare i corsi, anche se per pochi mesi, dell’Accademia Ambrosiana, interessandosi molto all’arte del Ceriano, direttore della Scuola di pittura della suddetta Accademia e a quella di Giulio Cesare Procaccini, come si può evincere dai numerosi dipinti di quel periodo. Importante fu il rapporto con Ludovico Settala: fu il personaggio maggiormente menzionato nelle relazioni scientifiche scritte dal protofisico, infatti, come già detto, oltre a fare i ritratti dei membri della famiglia, Crespi assisteva come illustratore alle indagini scientifiche che Ludovico effettuava, chiamato non solo per approfondire la sua conoscenza dell’anatomia con osservazioni dal vero, ma soprattutto per rilevare ciò che veniva scoperto durante le dissezioni effettuate su animali. In seguito la ricerca di una contenuta intensità drammatica, l’attento studio della modellazione e degli incarnati e il netto contrasto tra luce ed ombra portano l’artista ad un inedito linguaggio iconografico ed espressivo, evidente frutto dell’incontro dell’esperienza caravaggesca con quella della Scuola del Seicento lombardo. Oltre alle opere di soggetto religioso commissionate dai maggiori ordini monastici del milanese, Crespi fu molto famoso anche come ritrattista, tra le sue opere figura anche il ritratto di Manfredo. Daniele Crespi morì a Milano il 19 luglio 1630, lasciando incompiuta la sua opera di maggiore impegno: il ciclo di affreschi della Certosa di Pavia, che furono terminati dai suoi collaboratori.[82]

La seconda tela, risalente al 1630 circa, raffigura l’eroina romana Lucrezia nell’atto di uccidersi.[83] Lo storico Tito Livio ci narra che durante il regno dell’ultimo re di Roma Tarquinio il Superbo, Lucrezia, figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Collatino, venne violentata da Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo, il quale si introdusse nella sua camera da letto armato di spada, la donna cercò di fare resistenza, ma minacciata di morte e di gravi calunnie, cedette all’adulterio. Il giorno dopo Lucrezia raccontò l’accaduto al padre e al marito, poi con un pugnale si tolse la vita. La verecondia e la pudicizia erano, presso i Romani, considerate le più importanti virtù che una donna potesse possedere, di conseguenza l’adulterio era una colpa gravissima. Il fatto ebbe dei risvolti politici determinanti, infatti il marito, il padre ed un amico di famiglia provocarono e guidarono una sommossa popolare che alimentò l’insoddisfazione che i romani avevano verso i metodi tirannici dell’ultimo re di Roma, i Tarquini vennero cacciati via e costretti a rifugiarsi in Etruria: lo stupro subito da Lucrezia e il conseguente suicidio furono la causa immediata della rivolta che rovesciò la monarchia e stabilì la Repubblica Romana. Scarabelli descrive così il dipinto: <<Quadro grande singolarmente stimato, historiato dal successo di Lucrezia Romana in atto di uccider se stessa, con attorno i suoi Parenti, che con diverso atteggiamento rimirano quell’atroce spettacolo. Fu dipinto dal Gran Cerano, nel quale superò se stesso>>.[84] La tela è oggi attribuita più correttamente a Melchiorre Gherardini, allievo e genero di Giovan Battista Crespi, detto il Cerano.

Melchiorre Gherardini, soprannominato il Ceranino, nacque probabilmente a Milano nel 1607, fu allievo del Cerano e fece parte dell’Accademia Ambrosiana, sposò la figlia del suo maestro Camilla e, nel 1632, ereditò dal suocero la bottega e l’abitazione. In tutte le sue numerose opere ritroviamo lo stile del maestro, pur riuscendo ad acquisire una sua personalità e più tardi un avvicinamento ai modi di Daniele Crespi, caratterizzato soprattutto dalla scelta dei colori più caldi e l’ammorbidirsi dei contorni, per arrivare, intorno al 1636, ad una maniera più autonoma. Nell’ultimo decennio della sua vita Gherardini sembra non avere prodotto molte opere e da quelle conosciute notiamo una fase chiaramente barocca; non molti sono i disegni a lui attribuiti, molti dei quali si trovano presso l’Ambrosiana. Gherardini fu anche incisore, attività attestata fin dal 1630. Il pittore morì a Milano nel 1668.[85]

Nella collezione di Manfredo erano presenti anche due oggetti particolarmente curiosi e molto famosi: il Mantello Tupinambá e l’Automa, il primo, in restauro, sarà esposto all’Ambrosiana in un prossimo futuro,[86] il secondo si trova oggi al Museo del Castello Sforzesco.

Il Mantello Tupinambá, inventariato con il n. 2605, è fatto di penne, piume, fibre di cotone e ananas, ha forma trapezoidale con un cappuccio all’estremità superiore, è lungo circa 155 centimetri e largo 128 ed veramente un “unicum”, ampiamente descritto dallo Scarabelli, è testimone delle culture e tecniche artigianali amerinde, quindi si può considerare un oggetto di alto valore scientifico ed artistico. La decorazione del mantello rappresenta forse l’immagine stilizzata di un uccello, che, indossato durante le cerimonie religiose, riusciva a coprire tutto il corpo dell’officiante, trasformandolo in un essere piumato simile ad un grande uccello dai vari colori. Il manufatto è principalmente composto di penne e piume di “Eudocimus ruber” o più semplicemente ibis rosso, mentre una parte minore è composta di quelle dell’ara scarlatta (Ara macao, uccello appartenente alla famiglia Psittacidae, Categoria tassonomica: Specie, diffuso in America Centrale e Meridionale), ara militare (Ara militaris, Come l’altro) e oropendolo (Psarocolius, uccelli appartenenti alla categoria tassonomica Genere e dell’orine dei Passeriformi). Il mantello, formato da circa nove file di penne, ha come base, su cui sono state intessute tali penne, una fitta rete di cotone e ananas, mentre il cappuccio è composto di sole penne. Un particolare molto interessante è il processo di colorazione delle piume: il colore giallo è reso con le piume dell’oropendolo e con quelle dell’ibis rosso, ricolorate tramite una tecnica chiamata “tapirage”, consistente nella modifica del colore del piumaggio sull’uccello vivo, tecnica diffusa nell’antica tradizione dell’America del sud. Il mantello ebbe grande importanza  e suscitò molta curiosità nella collezione settaliana, non a caso il valore del manufatto fu ribadito anche nella stampa di Cesare Fiori, che rende una visione panoramica del Museum di Manfredo: il mantello è riconoscibile appeso nella parte di destra in alto della galleria. In una annotazione Settala stesso lo descrive come “Vesta di sacerdote d’India…”, che ricevette in dono da Federico Landi, principe di Val di Taro, il quale possedeva una collezione di oggetti rari nel suo castello di Bardi vicino a Piacenza, ma nel dono c’erano compresi anche una sonagliera di frutti di “Thevetia neriifolia”, da una corona e da una cintura. Tale abbigliamento era indossato dai “Pagé” o sacerdoti durante le danze rituali, infatti queste popolazioni pregavano con la danza, che veniva effettuata, insieme col digiuno, prima di dare inizio ad ogni impresa importante, come la guerra, le migrazioni, in previsione di calamità e fenomeni naturali minacciosi. Il mantello Tupinambà sembra essere il più importante tra gli otto ancora esistenti in tutta Europa.[87]

<<Un cassettone dal quale esce all’improvviso una spaventosa faccia di demonio che si mette a sghignazzare, a cacciare la lingua e a sputare in faccia ai presenti, il tutto in mezzo ad un enorme fragore di catene di ferro e di ruote adattissimo per produrre un vero terrore>>, così definisce l’automa costruito da Manfredo Charles de Brosses, il quale durante una sua visita a Milano nel 1739, non perse l’occasione di visitare ed ammirare il Museo Settala, restando particolarmente colpito da questo automa meccanico, noto come lo “Schiavo incatenato”.[88] In realtà sembra che, girando una manovella l’automa, in legno intagliato, muovesse gli occhi , la lingua ed emettesse sia un suono sia del fumo dalla bocca.  Fin dall’antichità l’uomo ha sempre desiderato di far compiere a dei meccanismi quelle funzioni, non sempre gradevoli, riservate agli umani, quindi l’ingegno umano insieme ad eccezionali effetti speciali furono capaci di creare creature che riuscirono a stupire in ogni epoca per la loro somiglianza con demoni, figure mitologiche ed animali: ad Efesto, dio del fuoco, furono attribuite varie invenzioni tra cui macchinari semoventi; a Dedalo, padre di Icaro, la mitologia attribuisce la creazione di alcune statue lignee che muovevano occhi, braccia e gambe. Talos, il gigante di bronzo, fabbricato da Efesto, o da Dedalo, ma secondo il mito di origine ignota, posto da Minosse a guardia dell’isola di Creta, con il compito di fare il giro dell’isola tirando pietre contro coloro che si avvicinavano alle coste, impedendo lo sbarco ai nemici o di fermare i cittadini senza il consenso del re, a coloro che riuscivano a raggiungere l’isola, venivano raggiunti da Talos, che entrato nel fuoco, faceva diventare il suo corpo metallico incandescente e poi stringeva forte al petto gli sventurati e li stritolava e bruciava. Prima di Creta, il gigante sembra sia stato in Sardegna, dove aveva ucciso molti uomini con lo stesso sistema, provocando nei malcapitati il cosiddetto “riso sardonico”, ossia una dolorosa contrazione delle labbra a causa delle ustioni. Talos era invincibile, ad eccezione di un punto della caviglia dove si trovava l’unica vena che andava dal collo alla caviglia, chiusa da una sottile membrana, in cui scorreva il suo sangue; la leggenda dice che quando la spedizione degli Argonauti sbarcò sull’isola, il gigante metallico fu ucciso da una freccia scagliata da Peante, uno degli argonauti, mentre un’altra versione racconta che Talos sia morto a causa della fuoriuscita del sangue causata dall’urto della caviglia contro una roccia.[89] La testa grottesca dell’automa, eseguita nella prima metà del Seicento, è probabile che sia stata adattata al busto di una statua cinquecentesca raffigurante “Cristo alla colonna” o “San Sebastiano morente”. Lo splendido e orrido demonio-automa in legno di ciliegio intagliato si trova attualmente nella collezione di ArtiApplicate del Castello Sforzesco ed è forse divenuto l’emblema di come Manfredo amasse i “curiosa”, oltre ai “naturalia” e agli “artificialia”, ossia tutto quello che può incuriosire o stupire in quanto fuori dalla norma, con evidente gusto barocco.

Come già detto il fenomeno delle Wunderkammern, nacque nel Sedicesimo secolo, come eredità dello studiolo umanistico, che fu il primo esempio di ambiente destinato alle varie collezioni, ma anche antenato delle istituzioni museali; gli studioli erano ambienti piuttosto piccoli ed appartati, in cui i Signori raccoglievano gli oggetti più importanti delle loro collezioni: quello di Lorenzo il Magnifico a Palazzo Medici e quello di Francesco I in Palazzo Vecchio costituivano due esempi ammirevoli nella città di Firenze, il primo per la ricchezza della raccolta, il secondo, realizzato tra gli altri da Vasari, come “rifugio” del granduca in cui coltivava i suoi interessi alchemico-magici. L’evoluzione dello studiolo si ha con la nascita della Galleria Rinascimentale, che, nell’Europa del Nord, diviene il modello delle prime Wunderkammern, ma se le Gallerie accoglievano soprattutto statue e quadri, l’attenzione dei principi del Nord Europa era attratta principalmente dai fenomeni naturali e dalle curiosità scientifiche, poiché le Wunderkammern dovevano generare la considerazione per la reputazione del collezionista, il quale era riuscito ad impossessarsi di oggetti di grande valore, ma, allo stesso tempo, doveva suscitare lo stupore, la meraviglia, la sorpresa di fronte a oggetti inconsueti. Generalmente la Wunderkammer era una grande stanza con le pareti ricoperte di scaffali di legno alternati ad armadi e stipetti, dove venivano esposti i reperti o “mirabilia” della collezione, anche il tetto veniva usato per appendere animali essiccati, il tutto era rigorosamente organizzato: da una parte i “naturalia”, ossia gli elementi forniti dalla natura stessa, che erano tanto più sorprendenti a seconda della forma, della dimensione e della provenienza geografica, dall’altra gli “artificialia”, cioè tutto quello che era stato realizzato dall’uomo, legati alla peculiarità e alla complessità delle tecniche utilizzate per la loro realizzazione. In conclusione lo scopo delle Wunderkammern era quello di ricostruire l’universo in una stanza ed è per questo che al collezionista veniva assegnato una specie di facoltà creatrice, che ancora oggi conserva tutto il fascino di un personaggio come Manfredo Settala e la sua stupenda collezione, anche se paragonare la Collezione Settala con le Wunderkammern è sbagliato, perché Manfredo voleva fare della sua raccolta un centro di ricerca e d’incontro per il confronto e la verifica tra le varie ipotesi poste dagli studiosi, quindi con un fine prettamente scientifico e dinamico e non statico della Wunderkammer, dove i pezzi collezionati erano posti in modo da essere solo contemplati, pur mantenendo la tendenza barocca per gli oggetti strani e la propensione al collezionismo di dipinti, disegni, incisioni, libri, monete, armi. Tutto ciò è comprovato anche dai rapporti epistolari e personali che Manfredo intrattenne con personalità famose in ambito culturale dell’epoca.[90]

Il Museo Settala rappresenta l’ultimo tentativo dell’uomo barocco di ricostruire su termini moderni e aggiornati l’idea di unità del sapere propria del Rinascimento. <<Fu il Museo Settala inizialmente una vera enciclopedia oggettiva del Seicento, curiosa per l’epoca in cui fu raccolta, interessante ai moderni per la storia della scienza.>>[91]

NOTE

1 Cfr. F. Buzzi, La Pinacoteca Ambrosiana, www.costantinianorder.org/magazine/la-pinacoteca-ambrosiana.italiano.html

2 Poche sono le notizie su questo Vescovo: vissuto nel corso del secolo V, fin da giovanissimo decise di seguire la carriera ecclesiastica, forse influenzato anche dal Vescovo di Como Sant’Abbondio. Intorno al 450 ebbe dal Papa (San Leone Magno) il compito di recarsi a Costantinopoli per discutere con il Patriarca e con l’Imperatore circa l’eresia eutichiana, al suo ritorno ebbe altri importanti incarichi e godendo di grande stima tra il clero e tra il popolo arrivò a coprire la carica di vescovo di Milano, morì tre anni dopo la sua nomina e fu sepolto nella chiesa di Sant’Eufemia, che lui stesso aveva fatto costruire in territorio milanese, nell’anno 475. Cfr. http:77www.santiebeati.it/dettaglio/92056

3 Cfr. V. Ascani, voce Giovanni di Balduccio, in “Enciclopedia dell’arte Medievale, 1995, VI, pp. 703-711. Figlio di Balduccio di Alboneto nacque probabilmente a Pisa nel 1300 circa, fu scultore e architetto attivo in Toscana e in alcune città del nord Italia dal 1318 al 1350 circa. Giovanissimo svolse il suo apprendistato nel cantiere dell’Opera del Duomo di Pisa, nel 1334 circa si trasferì in Lombardia, al servizio di Azzone Visconti, per il quale, in quegli stessi anni, lavorarono vari artisti tra cui Giotto. Dal 1349, quando gli fu offerta la nomina a capomastro del cantiere del Duomo di Pisa, da lui rifiutata, la mancanza di documentazione non permette di costruire il periodo successivo: si ipotizza che la sua morte sia avvenuta intorno al 1349. Il monumento funebre del Settala, in ottimo stato di conservazione, è contraddistinto dalla presenza del defunto, vestito del saio nero agostiniano, disteso sopra un letto di parata, vegliato da due diaconi ed altri due personaggi reggono la cortina funebre. Nel frontale Lanfranco viene rappresentato in cattedra (è probabile che avesse insegnato teologia presso l’Università di Parigi) davanti ad una folla di ascoltatori, nelle due nicchie ai lati sono raffigurate Sant’Agnese, a sinistra, con l’agnello in braccio e Santa Caterina d’Alessandra, a destra, con un libro, la palma del martirio tra le mani e la ruota dentata, simbolo del supplizio patito dalla Santa. Il sarcofago, nella parte inferiore, presenta due ordini di mensole decorate con stemmi della famiglia.

4 Gerolamo Settala è il primo personaggio della famiglia menzionato in un documento della Biblioteca Ambrosiana: “Hunc codicem D. Septala patritius Mediolanensis et Modoetiae Archiepresbiter dono dedit anno 1607”, Gerolamo fu Vicario generale di Carlo Bescapè, Arciprete a Monza, e nel 1618 fu nominato Canonico ordinario e Penitenziere maggiore del Duomo di Milano; Manzoni, nel XVI capitolo del suo romanzo, lo ricorda come colui che con una sua predica riesce a calmare la folla in un momento molto critico. Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana e il Museo Settala, in “Storia dell’Ambrosiana”, pp.205-255.

5 Cfr. http//www.treccani.it/enciclopedia/ludovico-settala_%28Enciclopedia-Italiana%29

6 Fu nominato protomedico il 9 gennaio 1628. Cfr. B. Corte, Notizie istoriche intorno a medici scrittori milanesi, Milano 1718, p. 137 e segg.

7 A. Manzoni, I Promessi Sposi, Edizione del 1840, capp. XXVIII, XXXI.

8 Cfr. L. Facchin, Ludovico Settala: un intellettuale barocco fra scienza e arte, in www.enbach.eu/content/ludovico-settala-un-intellettuale-barocco-fra-scienza-e-arte

9 L. Facchin, Ludovico Settala… cit.

10 La tassidermia è l’arte di conciare le pelli degli animali per la conservazione e di imbottirle per dare loro l’aspetto e l’atteggiamento degli animali vivi a scopo scientifico. Le pratiche per la conservazione dei cadaveri umani e degli animali erano molto antiche e diffuse presso molti popoli, ma le origini della tassidermia, cioè della preparazione per scopi scientifici datano dal Rinascimento con l’istituzione dei musei di musei di storia naturale. Cfr.http://www.treccani.it/enciclopedia/tassidermia_%28Enciclopedia-Italiana%29/ )

11 Cfr. L. Galli Michero-M. Mazzotta a curadi, Wunderkammer: arte, natura, meraviglia di ieri e di oggi. SKIRA, Milano 2013, pp. 79-80.

12 Cfr. A. Squizzato, Tra arte e natura: il Musaeum di Manfredo Settala, spazio, memoria, “esperienze” e “trattenimento” nella Milano seicentesca, in “Wunderkammer: arte, natura, meraviglia di ieri e di oggi. A cura di L. Galli Michero-M. Mazzotta. SKIRA, Milano 2013, p. 47.

13 Data la numerosa prole, il palazzo di famiglia, situato nell’odierna via Paolo da Cannobio,  era diventato troppo piccolo per tutta la famiglia, quindi Ludovico fece costruire un palazzo più spazioso in piazza San Ulderico, oggi via Pantano 26. Cfr www. storiadimilano.it/Personaggi.Milanesi%20illustri/settala/manfredosettala.htm

14 Le notizie sono state riprese da appunti personali dell’autrice, tratti da varie lezioni del Professor Andrea Spiriti.

15 Ibid.

16 Cfr. . A. Aimi-V. De Michele-A. Morandotti a cura di, Septalianum Musaeum. Una collezione scientifica nella Milano del Seicento, Museo Civico di Storia Naturale di Milano, Firenze 1984, pp. 21-24.

17Cfr. Ibid. p. 21 e segg.; F. Dori, Il museo Settala. Wunderkammer adunata dal sapere e dallo studio, in “POLITesi>Tessi Specialistiche/Magistrali,A.A.:2012-2013http://hd1.handle.net/10589/87923

18 Cfr. L. Galli Michero-M. Mazzotta a cura di, Wunderkammer: arte, natura, meraviglia ieri e oggi, SKIRA, Milano 2013, pp. 79-80.

19 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala nella Milano del XVII secolo, Milano 1938, p 1 e segg.

20 Ibid.

21 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala…cit., p. 1 e segg.; M. Navoni, L’Ambrosiana e il Museo Settala, in “Storia dell’Ambrosiana”, pp.208-209.

22 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., pp. 209-214.

23 B. A., Archivio dei Conservatori, 163, fasc. 2.

24 Lo “Status personalis” di Manfredo era il seguente: “Status personali set temporalis die 30 aprilis 1673. Manfredus Septalius filius quondam domini Ludovici Regii Protofisici in universo Mediolani dominio, ac domina Angele Arona iugalium annos natus septuagintatres habitum clericalem suscepit de licentia Emminentissimi quondam Cardinalis Federici Borromei gloriose semperque recolende memorie de anno 1621, prout ex litteris in Cancelleria expedits sub die. Ad ordines fuit promotus de anno 1628 die decima octava martii a supradicto Emminentissimo prout ex litteris datis sub die suprascripto et anno.

Ad sacrum vero sub diaconato de anno 1631 ad titolum canonicatus in Ecclesia insigni Collegiata Sancti Nazarii de quo canonicata fuit pro visus eodem anno ab eodem Emminentissimo, prout ex litteruis in Cancelleria espeditis sub die.

Canonicatus supradictum possidet de presenti et est sub titulo S. Ulderici

Eius redditus consistent in tribus petti terre pertica rum in totum 440. Circiter iacem in territorio Sexti Ultriani Plebis Sancti Iuliani huius diocesis ex quibus annuatim percipiuntur de nitido libre cinquecentum.

Solvitur eidem prebenda etiam per Venerandum Capitulom eiusdem.

Ecclesia annuus fictus libellarius librarum viginti septem, et modia octo sicale, et milii.

Humanioribus litteris, ac Rettorica et philosophie studiis operam in Braidensi Collegio iuri vero Pontificio, et C.sareo in Gymnasio Pisano, in quo laurea doctoralis fuit donatus, prout ex Instrumento recepto per Professionem fidei emisit in Synodo Diocesana trigesima prima”. B. A., Archivio dei Conservatori, 163, fasc. A, c. 3r.

25 Pietro Paolo Bosca nacque in provincia di Alessandria nel 1632, dopo la laurea andò a Milano, dove entrò negli Oblati e insegnò nei seminari lombardi. Fu Prefetto dell’Ambrosiana dal 1668 al 1681, fu poi nominato Protonotaro apostolico da papa Innocenzo XI, passando all’arcipretura della basilica di Monza. Tra i suoi molteplici scritti, oggi in gran parte perduti, quello più famoso fu: “De origine et statu Bibliothecae Ambrosianae Hemidecas”, fu amico di Manfredo Settala, che soprannominò l’Archimede milanese. Morì a Monza nel 1699. Cfr. http//www.treccani.it/enciclopedia/pietro-paolo-bosca_%28Enciclopedia-Italiana%29/; A. Squizzato, Tra arte e natura… cit., p. 45-49. Per la grande capacità di Manfredo di costruire congegni meccanici di precisione, per l’abilità dell’uso del tornio, per la costruzione di strumenti ottici e specchi ustori, anche Filippo Piccinelli, biografo, lo definì “l’Archimede del nostro secolo”. Cfr. V. De Michele, L’Archimede milanese, in “Kos”, 3, 1986, n. 24, p. 19 e segg.; M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 215. Non è certo se il soprannome di “Archimede milanese” al Settala sia stato dato per primo dal Bosca o dal Picinelli.

26 M. Colombo, Manfredo Settala, l’Archimede Milanese, in www.storiadimilano.it/ Personaggi/Milanesi%20illustri/settalamanfredosettala.htm

27 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala…cit., p 1 e segg.;

28 Ibid.

29 Ibid.

30 Ibid.

31 Ibid.; Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 232.

32 G. Bardelli, http://pikaia.eu/la-cultura-non-si-mangia/

33 Cfr. Ibid.

34 Il testo italiano fu pubblicato sempre a Tortona nel 1666 e nel 1677 venne stampata una seconda edizione con varie aggiunte. Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala nella Milano del XVII secolo, Milano 1938, p 4 e segg.; M. Navoni, L’Ambrosiana… cit., p. 219

35 Ibid.

36 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…, cit., p. 236.

37 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 237; M. Colombo, Manfredo Settala… cit., http://www.storiadimilano.it/Personaggi/Milanesi%20illustri/settala/manfredosettala.htm

38 Orazion funebre per la morte dell’illustriss. Sig. Can. Manfredo Settalanell’esequie celebrate in Milano da suoi nipoti nella Basilica di S. Nazaro detta dal P. Gio. Battista Pastorini della Compagnia di Gesù, in Milano. Nella Stampa Arcivescovile. MDCLXXX., pp. 11-12-13.

39 Cfr. A. Aimi-V. De Michele-A. Morandotti a cura di, Septalianum Musaeum…cit., p. 28.; M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., pp. 221-233. In queste pagine Navoni fa un’ampia descrizione del contenuto dei tre volumi.

40 Cfr. A. Aimi-V. De Michele-A. Morandotti a cura di, Septalianum Musaeum…cit., pp. 32-33.

41 Ibid., p. 33.

42 Ibid., p. 34 e segg.

43 Ibid., p. 39.

44 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala…cit., p 5.

45 Cfr. B.A., Archivio dei Conservatori, 150, fasc. A; M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 233.

46 B. A. Archivio dei Conservatori, 163, fasc. 4.

47 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., pp. 232-233.

48 B. A., Archivio dei Conservatori, 161, fasc. G, cc. 1r.e v.

49 Ibid.

50 B.A., Archivio dei Conservatori, 161, fasc. D

51 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana e il Museo Settala, in “Storia dell’Ambrosiana”, p. 241; B.A., Archivio dei Conservatori, n. 161, fasc. O, c. 1r. “Dal fu Signor Canonico Manfredo Settala mio zio fu lasciata alla Biblioteca Ambrosiana la Galleria, e perché nel di lui testamento restò inchiuso un libro in stampa del contenuto in detta Galleria, nel qual libro ci sono molte cose ad ostentazione, molte altre che non vi furono, e molte che non erano parte della Galleria, perciò non doverà attendersi detto libro, massime rispetto alli quadri, mentre quelli, che di ragione potevano essere del detto Signor Manfredo, si riducono a quelli che si ritrovano nella Sala de Specchi, e talli ritratti del medesimo Signor Manfredo, essendo tutti li altri quadri descritti in detto libro tutti vecchii di Casa, come così attesto con mio particolar giuramento, sì come molte cose delle descritte in detto libro erano in casa prima del medemo Signor Manfredo, e molte sono state da me messe doppo, onde non cadono sotto detta disposizione; et però in quanto a questo particolare mi rimetto a ciò si farà dà Signori miei esecutori, ben è vero, che se fosse possibile con qualche honesto temperamento conservare al mio Erede la detta Galleria, mi sarebbe molto caro per la conseguenza dell’honorevolezza, desiderarei continuata nella mia Agnazione”.

52 M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 248.

53 B. A., Archivio dei Conservatori, 162, fasc. C. c. 23r.-24r.

54 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 247.

55 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala…cit., p 6; M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., pp. 251-252.

56 Cfr. A. Aimi-V. De Michele-A. Morandotti a cura di, Septalianum Musaeum…cit., pp 30 e segg.

57 Ibid.

58 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., pp. 239-240.

59 A. Aimi-V. De Michele-A. Morandotti a cura di, Septalianum Musaeum…cit., pp 31; M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p.240.

60 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI, Mondadori Electa 2010, p. 34.

61 Ibid., p. 35.

62 Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/del-sole-giovanni-battista_(Dizionario-Biografico)/

63 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI, Mondadori Electa 2010, pp. 59-61.

64 Cfr. http:/www.treccani.it/enciclopedia/maestri-giovan-battista-detto-il-volpino_(Dizionario-Biografico)/

65 AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI…cit., pp. 79-80.

66 P. F. Scarabelli, Museo ò Galeria Adunata del sapere, e dallo studio del Sig. Canonico Manfredo Settala Nobile milanese. Descritta in Latino dal Sig. Dott. Fis. Coll. Paolo Maria Terzago et hora in Italiano dal Sig. Pietro Francesco Scarabelli. Dott. Fis. Di Voghera. 1677   Et hora ristampata con l’aggiunta di diverse cose poste nel fine de medemi capi dell’opra. In Tortona 1677: per Nicolò, e fratelli Viola, p. 223.)

67 Inv. 1009;  Astrolabio latino; Rame, 24,7 cm. (diametro); Secolo XVI; Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

68 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI…cit.,  p. 62.

69 Inv. 1009; Rame (24,7 cm. diametro); Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

70 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI…cit., p. 71.

71 Inv. 304; Sfera armillare tolemaica; Ottone (h. 30,4 cm.-diametro 25,5 cm.); Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

72 Inv. 305; Ottone (h. 30,5-diametro 17,1 cm.); Sfera armillare tolemaica; Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

73 Inv. 306;  Sfera armillare; Ottone argentato (h. 39 cm.-diametro 22,1 cm.); Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

74 Inv. 338;  Cesare Fiori, Milano, 1636 . 1702; Ritratto di Manfredo Settala; Legno di bosso intagliato, 10 cm. (diametro).

75 Cfr. G. Fogolari, Il Museo Settala, in “Archivio Storico Lombardo”, s. 3, XIV (1900), p. 118 e segg., http://www.treccani.it/enciclopedia/cesare-fiori_(Dizionario-Biografico)/

76 Inv. 1010; Planetolabio; Rame, 42 cm. (diametro); Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

77 Inv. 2350-2351; Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

78 Inv. 307; Orologio da tavolo con astrolabio; Bronzo dorato (h. 32,3 cm.); XVI-XVII secolo; Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

79 Cfr. L. Pippa, Orologi e strumenti del Museo Settala, il primo Museo scientifico milanese, in “La voce di Hora”, Milano, N. 11, dicembre 2001, p.7e segg.

80 Ibid.

81 Inv. 492; Daniele Crespi; Busto Arsizio, 1597/1600 – Milano, 1630; Ritratto di Manfredo Settala; Olio su tela (44x33cm.).

82 Cfr. http://www.treccani,it/enciclopedia/daniele-crespi_(Dizionario-Biografico)/

83 Inv. 214; Melchiorre Gherardini; Milano, 1607 – 1675; Suicidio di Lucrezia Romana; Olio su tela (107x77cm.).

84 P. F. Scarabelli, Museo ò Galeria Adunata del sapere…cit., p. 238.

85 Cfr. A. Spiriti, Gherardini, Melchiorre, detto il Ceranino, http://www.treccani.it/enciclopedia/gherardini-melchiorre-detto-il-ceranino_(Dizionario-Biografico)/

86 Comunicazione orale.

87 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala nella Milano del XVII secolo, Milano 1938, pp. 20-21; AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI…cit.,  pp.48-51.

88 Cfr. M. Colombo, Manfredo Settala, l’Archimede Milanese, in http://www.storiadimilano…cit.

89 Cfr. M. Pugliara, Il mirabile e l’artificio: creature animate e semoventi nel mito e nella tecnica degli antichi, Roma 2003, <<L’Erma>> di Bretschneider, p. 90 e segg.

90 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 215 e segg.

91 G. Galbiati, Itinerario per il visitatore della Biblioteca Ambrosiana della Pinacoteca e dei monumenti annessi. Biblioteca Ambrosiana, Milano 1951, p. 192.

 

 

 

 

 

 

LA FIGURA DELLA MADONNA NELLA COLLEZIONE DI FEDERICO BORROMEO

di LOREDANA FABBRI

PREMESSA

Lo scopo di questo lavoro è di “accompagnare” il visitatore in un percorso particolare: la figura della Madonna nei dipinti attualmente esposti nella Pinacoteca Ambrosiana e provenienti dalla collezione privata del Cardinale Federico Borromeo, il quale ne fece dono all’Ambrosiana nel 1618. La descrizione dei quadri, non certamente esaustiva, preceduta da una sommaria biografia dell’autore, è stata realizzata in modo semplice, evitando condizionamenti strettamente tecnici ed accademici, per poter dare un aiuto ai visitatori ad ammirare la bellezza delle opere ed a comprendere il “linguaggio” simbolico dell’iconografia cristiana. Questa “guida” ha una sua peculiarità: non è corredata dalle foto delle opere descritte, perché è stata concepita come una “visita guidata” e, nonostante la struttura, non è e non vuole essere un catalogo, ma vuole, come già detto “accompagnare” il pubblico in uno specifico percorso all’interno di quello molto più ampio che il visitatore può effettuare nella Pinacoteca Ambrosiana.

 

La bibliografia su Federico Borromeo è vastissima, anche se molti scritti su di lui hanno un carattere prevalentemente celebrativo e agiografico: “Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu uno degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidirsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. […]In Federigo arcivescovo appare uno studio singolare e continuo di non prender per sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto sé stesso insomma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio dé poveri: come poi intendesse in fatti una tal massima, si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo mantenimento e quello della sua seritù; e dettogli che seicento scudi (scudo si chiamava allora quella moneta d’oro che, rimanendo sempre dello stesso peso o titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa; non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del suo poi era così scarso e sottile misuratore a sé stesso, che badava di non mettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d’una squisita pulizia: due abitudini notabili in fatti, in quell’età sudicia e sfarzosa. Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della sua mensa frugale, li assegnò a un ospizio […]. Cure, che potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa, di una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de’ più colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non bastando a quella spesa l’entrate ordinarie, furon ristretti a due); […] v’unì un collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un collegio d’alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno; v’unì una stamperia di lingue orientali, dell’ebraica cioè, della caldea, dell’arabica, della persiana, dell’armena; Una galleria di quadri, una di statue, e una scuola delle tre principali arti del disegno”.[1] Per Manzoni, il Cardinale doveva essere il modello delle virtù che si devono associare ad un’autorità religiosa, trascendendo dai dati storici e dandoci di Federico Borromeo un ritratto idealizzato di uomo avviato alla santità attraverso l’esercizio delle sue virtù, l’antitesi ad una società sfarzosa e “marcia” in cui doveva vivere: una biografia che si può definire una pagina di forte sapore agiografico, [2]

La figura del Cardinale è molto complessa e scrivere su di lui significa implicare molti fenomeni: religiosi, storici, sociali, di costume, culturali, poiché la sua importanza non si limita a quella che fu la sua attività in relazione alle arti, che è l’aspetto che in questa sede interessa maggiormente, quindi per ciò che riguarda la sua vita accenneremo solo  alle tappe più significative.

Federico Borromeo nacque a Milano il 18 agosto 1564 da Giulio Cesare, fratello del padre di San Carlo e da Margherita Trivulsio, mostrò presto interesse e inclinazione per gli studi e fu in questo assecondato dal cugino Carlo che lo inviò, quattordicenne, a Bologna presso il Cardinale Paleotti, Vescovo di quella città e una delle figure più autorevoli della Controriforma, (anche per quanto riguarda i suoi riflessi nell’arte, autore del “Discorso intorno le immagini sacre e profane” 1582), ma lo richiamò presso di sé dopo poco più di un anno, essendosi delineata nel giovane Federico una vocazione religiosa, nel 1580 gli fece vestire l’abito ecclestico e lo mandò a Pavia a completare la sua educazione, dove conseguì, nel 1585, la laurea in Teologia. Nel 1584 la morte del cugino determinò una svolta nella sua vita; i parenti e i molti prelati legati alla memoria di Carlo cominciarono ad adoperarsi perché Federico si trasferisse a Roma, per farsi conoscere ed apprezzare dal neoeletto papa Sisto V. Anche quando fu eletto cardinale, nel 1587, continuò la sua vita di studi e di preghiera sotto la direzione di San Filippo Neri, il quale divenne, dopo Carlo, il suo secondo maestro spirituale, maestro di vita e guida nella sua attività e nelle sue decisioni. Ebbe molti incarichi consoni alla sua vocazione di erudito più che impegni di politica ecclesiastica, sempre a Roma fece parte di un mondo erudito che lo collegava a studiosi italiani ed europei (Baronio, Orsini, Maffei, Strozzi, Marco Welser e Giusto Lipsio furono suoi amici), e nel 1593 divenne Cardinale protettore dell’Accademia di San Luca, appena fondata da Federico Zuccari.[3] Nell’aprile del 1595 Clemente VIII nominò Federico Arcivescovo di Milano, carica a cui si oppose con una certa resistenza sia per le difficoltà obiettive che sapeva di trovare a Milano, sia per il “rilassamento” del clero dopo la morte di Carlo e durante l’episcopato del successore Gaspare Visconti, a tutto questo si univa il ricordo del modello di santità e lo zelo pastorale del cugino che avevano lasciato un’impronta difficilmente ripetibile; solo l’insistenza di San Filippo Neri riuscì a persuaderlo ad accettare tale incarico che ricoprì per trentasei anni, ispirandosi, sin dall’inizio, al  modello di governo di Carlo.[4] Dopo poco più di un anno di episcopato, si assentò da Milano a causa di controversie giurisdizionali con il Governo spagnolo: Federico volle recarsi a Roma per seguire personalmente la sua causa, tornò a Milano nel 1601.[5]

La sua produzione letteraria, oltre alle opere pastorali e spirituali, è imponente e si trovano tutte presso la Biblioteca Ambrosiana, da lui fondata nel 1607 e aperta al pubblico l’8 dicembre 1609, dotata di libri a stampa e manoscritti acquistati con le proprie rendite e le proprie energie, poiché il Cardinale ne fece uno degli impegni fondamentali della sua attività di uomo e di ecclesiastico.[6] E’ noto che queste raccolte continuarono ad ampliarsi anche dopo la sua morte e che anche attualmente fanno della biblioteca Ambrosiana, uno dei più importanti centri mondiali della cultura umanistica.

Secondo la “Costitutiones Collegii ac Bibliothecae Ambrosianae” questa istituzione doveva essere uno strumento per risollevare la cultura, dopo la decadenza delle università e delle accademie di tipo tradizionale, ma anche e soprattutto una cultura alla portata di tutti e per tutti. Creò un Collegio trilingue per diffondere tra i giovani la conoscenza delle lingue antiche ed anche della lingua italiana.[7]

Alcuni anni più tardi, alla Biblioteca Federico affiancò la Pinacoteca (29 aprile 1618), donando ad essa la sua “quadreria” e la sua vasta raccolta d’arte figurativa, che andarono a costituire il nucleo più significativo della Pinacoteca: i dipinti e i disegni prediletti di Federico erano quelli attribuiti ai maestri del Cinquecento, ai leonardeschi lombardi e ai contemporanei italiani e fiamminghi. Il Cardinale completava in tal modo il grandioso progetto iniziato nel 1607 con la creazione della Biblioteca Ambrosiana, vera e propria custode di scienza e cultura nel cuore di Milano, ovviamente in conformità del Concilio tridentino e con le nuove esigenze dell’arte sacra. <<Non s’appagò l’animo grande del Cardinale Federigo d’aver rimesse col Collegio Ambrosiano le lettere più fiorite e d’aver aperta nella Libraria una pubblica scuola di tutte le scienze al mondo […] architettò nella di lui vastissima mente nuovi disegni a far rifiorire nella Lombardia tutte le arti liberali per eguagliare anche in questo la città di Milano all’antica Atene e a Roma moderna. […]  Così si formò il bel teatro in cui i capi della repubblica pittorica ebbero il loro nicchio, come il Tiziano, il Giorgione, Leonardo da Vinci, il Sordo, Andrea del Sarto, Alberto Durero, il Luino, Raffaele d’Urbino e della scuola, il Caietano, l’un e l’altro Bassano, Paris Bordone, Calisto da Lodi., il Mantegna, il Tempesta, il Rubens e Fede Galizia, il Vaanstunmich, il Rathnamer, Giulio Campi, il Perugino, il Civoli, il Caraccio, il Cerano, il Morazzone, il Figino, il Bramantino, Luca d’Olanda, Pietro da Cortona. Mosse pure con stimoli d’oro il pennello mirabile del Brueghel sino a pagarsi le gemme dipinte al prezzo delle vere, onde fe’ que’ sforzi dell’arte cui ora anche di perfettamente copiare diffidano li pittori. Pregiasi perciò la Galeria Ambrosiana di racchiudere in ventisette pezzetti di quadri di questo gran pittore un impareggiabile tesoro mentre il mondo tutto appena ne vanta tant’altri della stessa mano, oltre che per li solo quattro elementi che sono li veri originali, come attestano le lettere…>>.[8] Borromeo si avvalse anche di molte altre opere di numerosi artisti famosi dei suoi tempi, tra i quali Paul Bril e Caravaggio; non trascurando la scultura.[9]

La cosiddetta Controriforma ebbe sulle arti conseguenze analoghe a quelle sugli altri rami della cultura e del pensiero, che svilupparono una tendenza ad opporsi a tutte le conquiste dell’Umanesimo rinascimentale  e soprattutto al razionalismo individuale, per retrocedere ad uno stato di cose feudale e medievale e a quel predominio ecclesiastico proprio del Medioevo, le opere degli artisti furono sotto il controllo della Chiesa. Diversamente dall’epoca rinascimentale, dopo il Concilio di Trento, i manieristi preferirono soggetti che potevano mettere in evidenza gli aspetti teologici o sovrannaturali. La figura della Madonna divenne il simbolo della lotta antiprotestante, il suo culto comportò la fondazione di numerosi santuari dedicati alla Vergine, specialmente alla Vergine del Rosario, la quale ebbe grande incremento dopo la battaglia di Lepanto nel 1571 ed anche l’Assunta ebbe una notevole fortuna iconografica.

Secondo San Carlo Borromeo niente doveva essere in discordia con le Sacre Scritture o con la tradizione della Chiesa.[10]

Federico cerca di imitare in tutto il governo pastorale del cugino Carlo e dopo la canonizzazione di quest’ultimo, nel 1610, l’imitazione è elevata a devozione, a preghiera d’intercessione, ne è testimonianza l’imponente statua del cugino fatta erigere da Federico ad Arona, su modello del Colosso di Rodi e disegnata dal Cerano.[11]

Tra le numerose opere da lui scritte, alcune ci mostrano un universo in cui si svolgono fenomeni soprannaturali, attraverso le presenze angeliche, le unioni mistiche e gli inganni dei demoni: una cosmogonia animata dal soprannaturale in contrasto con la visione aristotelica-razionalista, che portò Federico a prendere posizioni nei casi di stregoneria e di monache visionarie, visione ben diversa da quella del suo vecchio padre spirituale San Filippo Neri, il quale era molto diffidente su tali argomenti.[12]

L’interesse per l’arte fu sempre vivo nel Borromeo, infatti non si fermò alla donazione della sua raccolta, ma, due anni dopo, nel 1620, fondò l’Accademia di pittura, scultura e architettura, nella quale convocò i migliori artisti milanesi presieduti da Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, e dai maestri Giovan Andrea Biffi (scultura), Carlo Buzzi e Fabio Mangone (architettura). Questa istituzione fu concepita da Federico non tanto in funzione della Pinacoteca, quanto come scuola per i giovani artisti. Compose un trattato: “De pictura sacra” e un inventario delle opere donate alla Pinacoteca intitolato “Musaeum Biblithecae Ambrosianae”.

La carestia del 1628-1629 e la peste del 1630 sono avvenimenti troppo noti anche per le polemiche suscitate dal comportamento del Cardinale: esaltato da alcuni, criticato da altri, ma da quanto risulta dalla documentazione sappiamo che donò con grande generosità gran parte delle rendite ecclesiastiche e le somme di denaro destinate in precedenza al mecenatismo. Durante l’epidemia della peste organizzò forme di assistenza spirituale e materiale ai malati, avvalendosi dell’aiuto sia del clero secolare che regolare e della continua presenza personale nelle zone più colpite della città e nel lazzaretto, condividendo prima, con la classe dirigente milanese, le incertezze sulla contagiosità della malattia, poi la credulità nei cosiddetti untori, anche se con riserva come scrive nel trattato “De pestilentia”. La peste fu vista dal Borromeo come un flagello di Dio, come un castigo per i peccati e la corruzione del mondo.[13]

Federico Borromeo morì dopo una breve malattia il 21 settembre 1631, mentre era intento alla ricostruzione della vita ecclesiastica di Milano: il morbo aveva ucciso due terzi del clero secolare della città. Come scriverà il suo biografo Rivola, Federico muore tenendo nella mano destra il Crocefisso e nella sinistra la penna, come simboli della sua instancabile attività di religioso e di uomo di cultura. Venne sepolto in Duomo, presso l’altare della Madonna dell’Albero.[14]

Tra i numerosi scritti di Federico, molto importanti ai fini di questo lavoro sono il “De Pictura sacra” e il “Musaeum” pubblicati rispettivamente nel 1624 e nel 1625, quindi quando il Borromeo scrive questi testi, le opere non gli appartengono più da alcuni anni, infatti la donazione alla Pinacoteca Ambrosiana risale al 1618.

Nell’introduzione dell’opera “De Pictura Sacra”, pubblicata nel 1624, troviamo un preambolo di Federico alle “Leges Observandae in Academia”: <<Nell’istituire la Scuola o Accademia di pittura, scultura e architettura non ci mosse alcun motivo umano, ma fu intenzione dell’animo nostro di preparare gli artisti ai lavori del divin culto e di rendere alquanto migliori in questo campo quelle arti. E’ infatti abbastanza noto che molti pittori, scultori e architetti, poiché non hanno fatto strada o nei precetti o nella pietà che dovrebbero apportare nella produzione di tali opere sacre, spesso mancano gravemente e dipingono i divini misteri e i fatti umani, o progettano i templi sacri e le abitazioni degli uomini senz’alcuna distinzione del sacro e del profano, ed hanno più riguardo alle comuni regole dell’arte che alla pietà e alla santità dei luoghi, dei tempi e delle cose stesse. Per la qual cosa noi vogliamo che sia regola della nostra Accademia che, oltre all’arte della pittura e della scultura, vi sia qualche docente che insegni i doveri delle virtù cristiane e che, all’udire di frequente simili ragionamenti, gli artisti siano formati anche alla pietà e religione. Converrà che essi conoscano bene i misteri della nostra sacrosanta Fede, la cui conoscenza invero contribuisce non poco alla perfezione delle arti. Poiché, come sarebbe assurdo pubblicare libri infarciti di errori e che tendessero a corrompere i costumi, e converrebbe anzi distruggere libri di tal genere; così nella composizione di immagini e di edifici bisogna badare che nulla rimanga di cui gli animi dei mortali siano indotti al male e all’errore>>.

Nel Capitolo V il Cardinale spiega come dovrebbe essere l’immagine della Madonna: <<Bisognerebbe conservare i simboli e i misteri che si usano a raffigurare la Vergine Santissima, e la sua persona dev’essere effigiata con quanto più si possa immaginare di maestà e decoro. Badino i pittori di non fare anche in ciò qualcosa contro il decoro e la verità della storia. Alcune scritture infatti tramandarono a proposito della Vergine Deipara cose che sono tutt’altro da approvare, e sbaglierebbe chi, volendo dipingere la sua nascita, si attenesse al racconto, abbastanza diffuso, che ne fa l’opuscolo sulla Natività della Beata Vergine indirizzato a Cromazio e a Eliodoro. Anche nel dipingere la sua morte bisogna evitare la puerilità di qualche racconto, al quale non pochi vedo che prestan fede, e piuttosto conviene seguire la testimonianza di Dionigi Areopagita, il quale racconta che a quel santo decesso erano presenti, oltre gli altri, San Giacomo, cugino del Signore, San Pietro, Timoteo e lo stesso Dionigi.>>.[15] <<Alcuni furono a buon diritto incerti sul modo in cui rappresentare il mistero della concezione della Vergine. Noi pensiamo che si possa dipingere una bambina ravvolta nei suoi panni, adagiata in mezzo ad una grande luce, e attorno a quella luce Angeli maggiori e minori; la stessa personcina e gli Angeli vorremmo alquanto velati e fra i celestiali splendori apparire le tre divine Persone, esse pure leggermente adombrate. Soltanto a questo modo riteniamo che si possa ritrarre questo sublime mistero, che non cade sotto gli occhi degli uomini né rientra nell’arte dei pittori, ma viene intravisto sotto le allusioni degli scrittori e grazie all’intelligenza degli osservatori>>.

<<Non si deve poi rappresentare la Deipara svenuta ai piedi della croce, perché ciò è contrario alla storia e all’autorità dei Padri […] i quali tutti esaltavano la fortezza della Santissima Vergine, che dicono essere stata ammirabile specialmente durante la passione del Figlio>>.

<<Che l’immagine della Santissima Vergine somigliasse a quella di Divin Volto è pure confermato da Niceforo, e perciò i pittori devono sforzarsi di avvicinarsi il più possibile a quel modello […] E perché i pittori con più esattezza ritraggano al naturale l’immagine della Beata Vergine, proporrò l’esemplare che lo stesso Niceforo ci ha lasciato: “I costumi, le forme e la misura della sua persona, come dice Epifanio, erano i seguenti. In ogni cosa appariva onesta e grave, parlava poco e solo il necessario, attenta ad ascoltare, affabile assai, prestava a tutti l’onore e la venerazione conveniente, era di giusta statura benché vi sia chi dica essere stata alquanto più alta della media. Con tutti gli uomini teneva una dignitosa libertà di parola, senza riso, senza eccitazione e soprattutto senza ira. Per colorito, tendeva a quello del frumento, capigliatura bionda, occhi penetranti con le pupille chiare e quasi del colore dell’oliva. Le sopracciglia incurvate e di un bel nero, il naso un po’ lungo, le labbra tonde e soffuse della soavità delle parole; la faccia non rotonda né angolosa ma alquanto allungata, come piuttosto lunghe erano mani e dita. Era infine schiva di ogni fasto, semplice dal volto aperto, senz’alcuna mollezza ma di umiltà eccelsa, contenta delle vesti di color naturale e dalle sue stesse mani preparate, come si vede ancor oggi nel santo velo del suo capo. Per dirlo in una parola, tutto in lei mostrava una grazia celestiale>>. Nel VI capitolo, intitolato “Del nudo”, Federico sostiene: <<… appare ancora la sconvenienza di quelli che effigiano il divino Infante nell’atto di poppare così da mostrare denudati il seno e la gola della Beata Vergine, mentre quelle membra non si devono dipingere che con molta cautela e modestia>>.

Il “Musaem” non ebbe grande successo né alla sua pubblicazione né nelle riedizioni successive, anche se è di grande interesse per capire i gusti e le capacità critiche di Federico. L’idea di scrivere questo testo gli deriva da un suggerimento di alcune persone appartenenti al suo seguito e appassionate d’arte, le quali, osservando dei quadri e delle statue che il Cardinale aveva fatto sistemare in un’ala della Biblioteca, lo esortano a scrivere un testo in cui descrivere accuratamente tutte le opere raccolte in tale sede: è lo stesso Borromeo che racconta questo aneddoto all’inizio del “Musaeum”.[16]  (p. 3) Lo scopo didattico dell’opera è icastico (indiscutibile): è ideata ad utilità degli allievi dell’Accademia, in un passo del testo, parlando di alcune riproduzioni fatte eseguire da Antonio Mariani, copiandole da originali di Raffaello troviamo: <<Se gli allievi vorranno imitarli con cura, sarà esattamente come se avessero davanti agli occhi le opere dello stesso Raffaello. Se però nello studio e specificatamente in questa imitazione saranno troppo pigri, attribuiscano a sé stessi tale colpa>>.[17]

La prima opera in cui troviamo raffigurata la Madonna si trova nella Sala 1, in cui sono esposti una parte dei dipinti facenti parte della Collezione del Cardinale Federico Borromeo.

Scheda n. 1

Bernardino Luini

Dumenza?, 1480 circa – Milano 1532

SANTA FAMIGLIA CON SANT’ANNA E SAN GIOVANNI

Inv. 92 (Sala 1)

Tempera e olio su tavola; 118 x 92 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

 

Federico descrive così questo dipinto nell’Atto di donazione del 1618: <<Una Madonna con Sant’Anna, Nostro Signore e San Giovanni piccoli con San Giosefo di mano di Bernardino Luino, alta due braccia, e larga un’e mezzo, con cornice dorata, quadro principale>>.[18] Dipinta probabilmente intorno al 1530, era tra le preferite del Cardinale, e lui stesso indicava come modello per questa tavola il cartone di Leonardo attualmente conservato alla National Gallery di Londra, a cui Luini aggiunse San Giuseppe alla sinistra della Madonna.

Bernardino Luini (Bernardino de Scapis), figlio di Giovanni Donato, nacque a Dumenza (Varese), nel 1480-82 circa, ma non sappiamo se fosse figlio della prima o della seconda moglie del padre. Forse è nel 1500 che il pittore andò a Milano, in quanto è menzionato per la prima volta come figlio ed erede di Giovanni in un documento del 1501, sempre nello stesso anno compare in un contesto di pittori lombardi come teste ad un atto e risulta residente a Milano nella parrocchia di San Carpofaro, presso Porta Cumana. Non è chiara la sua formazione artistica, ma si presume che sia avvenuta presso artisti varesini, poiché quando arriva a Milano aveva quasi venti anni, è probabile anche che sia continuata con maestri operanti in questa città. Intorno al secondo decennio del XVI secolo, sposò Margherita de Lomatio, dalla quale ebbe quattro figli, di cui due pittori. Sembra che il Luini abbia compiuto un ipotetico viaggio a Roma per studiare la “maniera moderna”; il Vasari lo descrive come un pittore molto delicato, che <<valse ancora nel fare ad olio così bene come a fresco e fu persona molto cortese e servente de l’arte sua, per il che giustamente se li convengono quelle lodi che merita qualunche artefice che, con l’ornamento della cortesia, fa così risplendere l’opere della sua vita come quelle della arte>>.[19] Forse fu proprio questo giudizio che dette origine alla definizione “Il Raffaello di Lombardia”, come venne chiamato in seguito. Tra il 1504 e il 1507 pare che l’artista abbia trascorso questo periodo a Treviso, dove ebbe legami con scultori lombardi operanti in questa città, assimilando influenze locali. Nel 1509 circa Luini torna a Milano e si mette in contatto con i nuovi maestri “moderni”: Zenale, Bramantino e con la committenza aristocratica milanese, alcune opere di questo periodo appaiono fortemente influenzate dal Bramantino, la cui fama si era consolidata con l’assenza di Leonardo dalla città. A partire da questi anni si susseguirono le commissioni al Luini da parte dei monasteri: è un periodo molto fecondo ed una agiatezza ormai acquisita, che segnerà il culmine della sua maturità artistica. Bernardino, nella sua amplissima produzione, si misurò anche nella pittura di devozione privata, come attesta il cospicuo numero di opere di piccolo formato presenti nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo ed anche se i modelli rimangono di derivazione leonardesca, seppe però trasformare l’ineguagliabile stile di Leonardo in immagini di vera umanità. La morte dovette avvenire prima del mese di luglio del 1532, come si può evincere da un documento in cui viene dato il saldo di lire 100 al figlio per gli affreschi eseguiti dal Luini a Lugano.[20]

L’opera, registrata per la prima volta nel Codicillo del 15 settembre 1607 ad aggiunta del testamento stilato da Federico nel 1599, fa ipotizzare che sia entrata in possesso del Cardinale nell’arco di tempo che intercorre tra le due date.[21] Copia su tavola di un cartone leonardesco, che divenne una delle preferite del Cardinale e che fece collocare in posizione dominante nella collezione ambrosiana. Luini varia, ache se di poco, le misure del cartone di Leonardo (da 141,5 x 104 a 118 x 192), perdendo però la stupenda torsione di Maria sulle ginocchia di Sant’Anna e il gioco dei piedi nudi di entrambe su un piano di pietre che richiama la “Vergine delle rocce” di Leonardo. Inserisce la figura di San Giuseppe calvo, con barba e bastone; Sant’Anna, Maria e Gesù procedono uno dall’altro, raffiguranti tre generazioni sovrapposte, che ripropongono uno schema iconografico femminile usato nelle Trinità medievali, in cui lo svolgersi teologico va dal Padre al Figlio per mezzo dello Spirito, che viene richiamato dall’indice di Sant’Anna puntato verso il cielo e da quella mano si diffonde una luce, grazie alle tecniche leonardesche dello sfumato apprese dal Luini, che si riflette sui volti dei personaggi, diventando in tal modo il centro  dove gli sguardi si incrociano. Maria e Anna costituiscono un tutt’uno, da cui Gesù si protende benedicendo Giovanni, che con la sua veste corta, rispetto alle nudità di Gesù, indica un’età maggiore e l’inizio della sua missione; dietro Giovanni, appoggiato al bastone vediamo Giuseppe, testimone silenzioso, il quale protegge e custodisce la Sacra Famiglia.[22] Nel “De pictura sacra” Federico sostiene che lo scopo principale delle opere a soggetto religioso sia quello di suscitare devozione e questo capolavoro è particolarmente conforme agli ideali iconografici ed estetici del Borromeo.

Negli ultimi anni, il dipinto è stato oggetto di opinioni divergenti sull’attribuzione della paternità, ma nulla toglie alla bellezza armoniosa e alla classica composizione dei personaggi emergenti dal buio del fondo.

 

Scheda n.2

Tiziano (Tiziano Vecellio)

Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia 1518

ADORAZIONE DEI MAGI

Inv. 202 (Sala1)

Olio su tela; 120 x 223 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: 1559-1560

 

Della vita di Tiziano sappiamo quasi tutto: la sola data importante non nota è quella di nascita, che si può comunque fissare tra il 1488 e il 1490 a Pieve di Cadore; si dice che l’artista, inorgoglito del ruolo di “grande vecchio”della pittura veneta traeva in inganno i contemporanei, dichiarando un’età molto superiore a quella reale. A nove anni lascia Pieve di Cadore per Venezia e, durante il primo decennio del Cinquecento, in un momento di cambiamenti fondamentali per l’arte veneta, Tiziano compie le tappe di un apprendistato completo e progressivo: all’inizio presso Sebastiano Zuccato, mosaicista, da cui apprese il senso del colore come materia; poi con Gentile Bellini, dove acquisisce una certa attitudine al ritratto e la capacità di pensare in grande; infine presso Giovanni Bellini, fratello di Gentile, dove completa la sua formazione accogliendo il concetto del “tonalismo”, consistente nell’abbandono progressivo del disegno per stendere direttamente i colori sul quadro, per ottenere effetti di luce naturale sui paesaggi e nelle figure, questa nuova tecnica iniziata con il Bellini, fu sviluppata da Giorgione e dallo stesso Tiziano. Nel 1508 inizia la collaborazione con il Giorgione, immedesimandosi nel suo mondo poetico e impadronendosi della tecnica del ritratto gigionesco, con figure a mezzo busto, dipinte con pazienti e minute pennellate, che rendono dettagliati i lineamenti e l’abbigliamento. Giorgione muore di peste nel 1510, Tiziano ha così l’opportunità di diventare il punto di riferimento dell’arte veneziana e nel 1513 riceve il primo incarico ufficiale per Palazzo Ducale, lavora per privati, patrizi veneziani e mercanti nordici, dichiarando trionfalmente l’uso caldo e vibrante del tonalismo: Tiziano si può considerare ormai l’artista più importante di Venezia e quando, nel 1516, muore Giovanni Bellini, prende il suo posto come pittore ufficiale della Repubblica veneta. Dal 1518 al 1521Vecellio si occupa della decorazione del “camerino” di Alfonso d’Este, duca di Ferrara, il quale è il primo signore non veneziano a commissionargli importanti lavori: la sua poliedricità gli permette di reinventare soggetti pagani rivelando un gusto classico carico di sensualità, l’artista deve barcamenarsi tra le corti di Ferrara e Mantova, poiché Federico II Gonzaga lo vuole alla sua corte seducendolo con allettanti prospettive economiche, inviti e doni. Nel 1528 Tiziano entra in contatto con Michelangelo e con l’Imperatore Carlo V, divenendo in breve il pittore preferiti del sovrano e per oltre quarant’anni Vecellio terrà un ottimo rapporto con la corte spagnola, inviando a Madrid molte opere. Ormai Tiziano è molto famoso, è il pittore della natura, in grado di far vivere ogni suo soggetto: è in questo periodo che arrivano a Venezia alcuni artisti “manieristi”, i quali concepiscono l’opera d’arte in modo molto diverso da quelli veneziani, Tiziano cerca di trovare un’intesa tra  la propria percettibilità per il colore e lo studio grafico dei manieristi, basato sull’imitazione dell’antico e sul rapporto con Michelangelo e Raffaello, questi esperienze manieristiche sono rivolte soprattutto ai grandi dipinti a soggetto religioso, invece nei ritratti non solo conserva la sua peculiarità, ma operai primi tentativi di una particolare stesura del colore che diverrà la sua nuova particolarità. Tra il 1545 e il 1546 Tiziano sarà ospite presso papa Paolo III Farnese ed entrerà in contatto con i capolavori dell’antichità classica e del Rinascimento romano, confrontando il proprio stile con quello di Michelangelo. Durante gli anni Sessanta, il Maestro affida sempre più spesso alla sua bottega l’esecuzione delle riproduzioni di originali celeberrimi, oggetto di grande richiesta dei mercanti d’arte e collezionisti, mentre lui si dedica ai propri interessi commerciali, tornando spesso nel Cadore. I dipinti di questi anni ci mostrano una stesura più densa, pastosa, ricca: i colori non evidenziano più le luminose trasparenze delle opere giovanili, con soggetti che spesso trasmettono un angoscioso pathos. Fino alla fine Tiziano creò capolavori su capolavori, tanto da non poter distinguere l’apice della sua attività, perché essa è tutta una serie di culmini. La peste uccide Tiziano il 27 agosto 1576, il figlio Pomponio dilapiderà l’ingente patrimonio del pittore più ricco della storia in soli cinque anni.[23]

Secondo quanto lasciano intuire le iniziali presenti in ogni angolo (H di Henri intrecciata con la D di Diane) della cornice originale del dipinto, intagliata dal famoso intagliatore Flaminio Boulenger, il quadro fu commissionato dal Cardinale Ippolito d’Este per donarlo a Enrico II re di Francia e a Diana Poitiers, sua amante, ma sia per i ritardi nella consegna da parte di Tiziano sia per l’improvvisa morte del re di Francia (1559), l’opera non andò mai in Francia e fu destinata da Ippolito alla cappella del palazzo di Monte Giordano a Roma. Morto il cardinale Ippolito nel 1572, il dipinto fu acquistato da San Carlo Borromeo e poi lasciato in eredità all’Ospedale Maggiore di Milano. Intorno al 1588 fu comprato da Federico Borromeo, il quale nel suo “Musaeum” definì il dipinto in ragione de <<…la moltitudine delle cose che contiene […] una scuola per i pittori, perché ne possono trarre, come dal corno di Amaltea, molti insegnamenti>>.[24]  Nel Codicillo del 15 settembre 1607 il dipinto è posto come primo dell’elenco dei quadri donati dal Cardinale all’Ambrosiana: “Un quadro di lunghezza di tré braccia et mezzo et due di altezza con cornicioni dorati di mano di Tiziano, dentro vi l’Adorazione dei Magi con dodici figure humane in circa et intorno a quattrro cavalli”.[25] In realtà le figure umane sono quindici, senza contare il corteo sullo sfondo, che segue la via indicata dalla stella e i cavalli sono sei. La composizione dell’opera è divisa in due parti dal sostegno della capanna e caratterizzata dallo sviluppo orizzontale, all’interno l’epifania, con la Madonna che porge il Bambino ai Magi e questi, in adorazione, offrono al Salvatore oro, incenso e mirra; sullo sfondo di un paesaggio collinare. Sotto la luce rosata del cielo i Magi giungono dall’Oriente per adorare il Messia “Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo, Mt. 2,2”. Da destra un gruppo di figure si avvicina lentamente verso la scena principale, ambientata sotto un’umile capanna, dove possiamo vedere la Madonna vestita di rosso con un bellissimo manto azzurro cupo sopra una base di legno, la quale mostra ai Magi il Bambino Gesù completamente nudo, di fianco, all’estremo margine sinistro, si trova Giuseppe assorto in meditazione. Ai piedi della capanna vediamo un cagnolino con la zampa posteriore sollevata, emerso dopo un restauro, coperto in passato perché ritenuto scandaloso da un austero cortigiano del Cardinale Ippolito. Il cavallo che sfrega il muso sulla zampa, che secondo l’opinione di Federico “caccia via una mosca che ivi lo punge”, sembra replicare, con il suo inchino, il gesto di umiltà del suo padrone davanti al Salvatore.[26] Questo capolavoro ci mostra la tecnica corsiva tipica dello stile maturo di Tiziano, di cui la critica sembra avere individuato una replica del dipinto dell’Escorial: altre due versioni autografe si trovano nel Museo del Prado di Madrid e nel Museum of Art di Cleveland. L’episodio dei Magi fu fonte d’ispirazione per molti artisti rinascimentali, ma l’opera di Tiziano, con la ricchezza dei particolari e lo splendore dei colori, ci fa condividere ed “entrare” nella scena narrata nell’Evangelo.[27]

Scheda n. 3

Tiziano (Tiziano Vecellio)

Pieve di Cadore, 1489/1490 – Venezia, 1576

LA MADDALENA

Inv. 208 (Sala1)

Olio su tela; 96 x 74 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: 1540 c.

 

Per una sommaria biografia di Tiziano si veda la scheda n. 2.

La tela non rappresenta la figura della Madonna, come farebbe supporre il titolo del presente lavoro, ma rappresenta Santa Maria Maddalena, personaggio molto caro a Federico Borromeo, il quale lodava Tiziano per aver saputo conservare l’onestà del soggetto nonostante la nudità rappresentata. La santa è raffigura come l’immagine di vero amore verso Cristo e di sincera penitenza, infatti possiamo notare in questo dipinto i tre elementi caratteristici che una rappresentazione classica della Maddalena doveva contenere: estetico, penitenziale ed estatico; il primo rappresentato dalla bellezza femminile, il secondo dall’austerità dello scenario, il terzo è reso dal volto rapito nell’estasi della penitente.

L’arte, per Federico Borromeo, doveva comunicare non solo pensieri, ma anche intense emozioni e la “Maddalena” di Tiziano doveva commuovere, rallegrare e confortare chi la guardava quanto la “Madonna della ghirlanda” di Brueghel e di Rubens, anche se nel “De Pictura sacra”non ammette nessun tipo di nudità: <<Un requisito necessario del Bello, di cui sopra parlammo, è l’evitare ogni nudo che non sia strettamente richiesto dalla verità del mistero o che possa offendere la delicatezza d’animo e scemare la devozione degli osservatori. E da parte mia non ho mai potuto capacitarmi dell’artificio pittorico di rappresentare uomini o anche donne nude, dal momento che né gli uni né le altre vediamo girare in tal costume per le vie e per le piazze, e se anche qualcuno ciò vedesse , gli riuscirebbe certo sgradevole e ributtante. E non è poi cosa nuova il rivestire e velare le nudità, poiché già l’antica pittura dei Romani usava questa pratica, disdegnando il malvezzo dei Greci, che si compiacevano di figure ignude.[…] Quindi appare ancora la sconvenienza di quelli che effigiano il divino Infante nell’atto di poppare così da mostrare denudati il seno e la gola della Beata Vergine, mentre quelle membra non si devono dipingere che con molta cautela e modestia>>.[28] L’opera era già in possesso del Cardinale Federico dal 1607, comprata da una vedova che chiedeva trecento scudi, ma il Cardinale volle pagare settecento scudi, valutando tale cifra giusta per un dipinto di Tiziano. In epoche successive gli esperti classificarono la tela sotto la dicitura “Bottega di Tiziano” e ritenuta replica del dipinto autografo conservato presso la Galleria Palatina di Firenze, fino a quando da un restauro e ripulitura dell’opera (2008) è ricomparsa la scritta in stampatello  “Titianus fecit” accanto al piccolo vaso d’alabastro contenente l’unguento con cui Maddalena, unse Gesù prima della morte, vaso reso invisibile dalla patina del tempo, che con la sua mancanza aveva fatto dubitare gli studiosi sull’autenticità dell’opera. La conferma dell’autenticità del dipinto è data anche dalla scoperta di un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana del 1685 (redatto dal sacerdote Biagio Guenzati, dottore dell’Ambrosiana), in cui viene riferito l’episodio dell’acquisto della Maddalena “di mano di Tiziano”.

Scheda n.4

Pitati Bonifacio de’, detto Bonifacio Veronese

Verona 1487 circa – Venezia 1553

SACRA FAMIGLIA CON SAN GIOVANNINO, TOBIOLO E L’ARCANGELO RAFFAELE

Inv. 205 (Sala 1)

Olio su tela; 152 x 116 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: 1525 c.

 

Bonifacio de’ Pitati, detto Bonifacio Veronese nacque a Verona nel 1487 circa, il padre era “armiger”, ossia uomo d’armi di rango non elevato. Le scarse notizie rendono difficoltose l’individuazione della data, le circostanze del trasferimento della famiglia a Venezia e il percorso formativo del pittore. Sembra che Bonifacio abbia trascorso un periodo di apprendistato nella bottega di Jacopo Palma il Vecchio, divenendo, in seguito, suo collaboratore. A partire dal 1520 circa comincia la produzione di quadri di devozione privata, con evidenti caratteri autonomi, anche se l’ascendente palmesco è sempre presente. Le opere sono caratterizzate da paesaggi d’ispirazione nordica, contrapponendo alla negatività del mondo la positività del “locus amoenus” popolato da presenze divine. Nel 1528 muore Palma il Vecchio e con lui scompare una delle più importanti botteghe di Venezia, Bonifacio completò alcune opere del maestro rimaste incompiute, questa fu una buona occasione per Pitati, il quale ebbe l’opportunità di avere nuove committenze, infatti venne scelto per il completamento del palazzo dei Camerlenghi eretto sulle rovine dell’incendio del 1514, il palazzo era stato voluto dal doge Gritti per accogliere tutte le magistrature finanziarie della Repubblica. Al tempo era pittore ufficiale della Serenissima Tiziano ed è probabile che la scelta sia caduta su Bonifacio per la sua affidabilità professionale, per la lunga esperienza presso Palma il Vecchio ed anche per i suoi compensi decisamente contenuti. E’ questo il periodo in cui l’artista consolidò la propria posizione nella corporazione (fraglia) dei pittori: il suo nome compare nelle liste dei maestri d’arte nel 1530, l’anno successivo, con nomina della corporazione, compare con Tiziano e Lorenzo Lotto nel gruppo dei “dodici aggiunti”per la gestione di un lascito del pittore Vincenzo Catena. Nel 1531, Lotto stabilisce, per testamento, che le opere incompiute fossero portate a termine dal Pitati, risale a questi anni un chiaro avvicinamento a temi tipicamente lotteschi. Nel giro di pochi anni raggiunse una buona posizione economica che seppe amministrare con molta oculatezza; riuscì ad ottenere alcune importanti commissioni ecclesiastiche, integrati con la produzione di dipinti di destinazione privata. Dopo il 1548 la sua attività ebbe un drastico ridimensionamento; morì a Venezia nel 1553.[29]

La Santa Famiglia con San Giovanni, Tobia e l’arcangelo Raffaele fu dipinta tra il 1525 e il 1527, quando entrò a far parte della collezione, l’opera fu attribuita a Tiziano, poi a Giorgione, attualmente è attribuita a Bonifacio Veronese. La Madonna, con uno sguardo molto tenero, porge a San Giuseppe un frutto per ristorarlo, mentre lui regge in braccio il Bambino, accarezzandogli amorevolmente un piedino. Davanti alla Madonna possiamo vedere San Giovanni, Precursore del Messia, vestito con la pelle di cammello, che lascia scoperta gran parte del piccolo corpo, nella mano sinistra tiene la croce di canne e nella destra il cartiglio con la scritta: “Ecce Agnus Dei”, A destra del quadro troviamo l’Arcangelo Raffaele e Tobia, quest’ultimo, seguito dal suo cane, regge con la mano un pesce, da cui, secondo quanto narrato nel Libro di Tobia, estrasse il fiele per curare suo padre dalla cecità. Sullo sfondo possiamo vedere un paesaggio agreste, nella cui vegetazione spicca un albero di fico, che occasionalmente può apparire in alternativa del melo come albero della conoscenza. Sul lato sinistro, sempre sullo sfondo, si può vedere una città edificata sulla cima di una collina, su quello destro un paesaggio declinante verso il mare. Il dipinto non solo è considerato tra i più grandi capolavori del pittore, ma anche di tutta la pittura veneziana post giorgionesca.

Scheda n.5

Tiziano (Tiziano Vecellio) copia da

Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia 1518

MADONNA COL BAMBINO, SAN GIOVANNI E SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA

Inv. 801 (Sala 4)

Olio su tela; 70 x 105 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: metà secolo XVI

 

Per una sommaria biografia di Tiziano si veda la scheda n. 2.

Questo dipinto venne attribuito dal Cardinale Federico a Tiziano, ma, in seguito, i critici lo hanno giudicato opera del fratello, Francesco Vecellio, seguace e stretto collaboratore del più famoso dei Vecellio, o, in modo più generico, alla scuola del grande Tiziano.

La scena che si presenta è molto equilibrata: la Madonna, avvolta in un manto che le copre anche la testa, tiene in braccio il Bambino nudo nell’atto di dare una croce a Santa Caterina d’Alessandria, che indossa una veste molto sontuosa. La Santa è una martire del IV secolo, ma qualche critico ha avanzato l’ipotesi che possa trattarsi di Sant’Elena, madre di Costantino imperatore, anche se il cardinale Borromeo parla della Santa suddetta. Nell’angolo inferiore sinistro possiamo vedere il piccolo San Giovanni, il quale porta sul braccio destro il cartiglio, sul cui leggiamo, in caratteri gotici, le parole “Ecce Agnus”, ossia l’inizio della frase con la quale San Giovanni rivelò l’identità di Gesù. Gli artisti rinascimentali danno grande importanza al tema dell’infanzia di Cristo, poiché. anche da fanciullo, Gesù è consapevole della propria missione salvifica, che gli artisti non mancano di rappresentare simbolicamente. Sullo sfondo a destra domina la raffigurazione del Colosseo.

Scheda n. 6

Jacopo Bassano (Jacopo da Ponte)

Bassano del Grappa, 1510 circa – Vicenza, 1592

RIPOSO DURANTE LA FUGA IN EGITTO

Inv. 207 (Sala 4)

Olio su tela; 118 x 158 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: 1547 circa

 

Jacopo dal Ponte, detto Bassano nacque nel 1510 circa da Francesco il Vecchio e da Lucia Pizzardini a Bassano del Grappa. Inizialmente fu addestrato dal padre, modesto pittore provinciale, nella sua bottega, in seguito si trasferì a Venezia, dove passò un periodo come socio nella bottega di Bonifazio de’ Pitati. Tornato in patria riprese il lavoro nella bottega del padre e dei fratelli, dove assunse, progressivamente, un ruolo di primo piano non disdegnando, tuttavia, di eseguire decorazioni per feste, pitture per mobili e armature, ceri pasquali, stendardi processionali ed anche disegni per figure di marzapane, attività che i fratelli continuarono dopo la morte del padre, pur dipingendo anche quadri, alcuni dei quali firmati col nome di Jacopo. La scarsa documentazione non permette di conoscere possibili viaggi del Bassano, il quale ampliò il suo repertorio formale e di soggetti tramite una vasta raccolta di stampe, dalla quale prendeva spunti per figure singole, scenari e numerosi dettagli che componeva e ricomponeva fino ad una completa personalizzazione: i grandi pittori del suo tempo (Tiziano, Durer, Cransich, Girolamo da Carpi, Parmigianino) erano una fonte non usuale per un pittore artigiano di provincia e questa vastità di materiale giocò un ruolo molto importante nella sua autoeducazione e nella ricerca di vie personali di espressione. Nel 1541 Bassano fu esentato da tutte le tasse in considerazione dell’eccellenza della sua arte. Jacopo Bassano fu manierista? E’ indubbio che a Venezia vide queste novità e nel periodo che va dal 1538 al 1545 le sue opere non ne sono indenni, ma il suo approccio fu sempre fortemente individuale, molto personale e sempre condizionato dal naturalismo di ciò che lo circondava. Al tempo, Jacopo era quasi sconosciuto a Venezia e forse il suo isolamento e la sua sensibilità pittorica lo trattennero dal seguire la corrente, che abbandonò gradatamente dopo il 1545. I conflitti tra cattolici e protestanti durante la Riforma, turbarono molto Jacopo, il quale sembra, ma non è provato, accettasse idee protestanti, tanto che fu costretto ad abbandonare Bassano e rifugiarsi ad Enego nei Sette Comuni, certamente fu tormentato da sentimenti contrastanti consistenti alcuni nel sostenere i principi della Controriforma, altri nel considerare il testo biblico come unica fonte autorevole per raffigurare temi religiosi, tutto ciò fu all’origine del suo naturalismo immediato e antiretorico. Bassano raggiunge il culmine della sua fama quando, intorno alla metà del secolo, le commissioni da parte dei laici e degli ecclesiastici aumentarono al punto che nella bottega di famiglia ebbero bisogno di aiuti.[30]

Chiaramente in contatto con le correnti artistiche veneziane (Tintoretto, Schiavone e soprattutto Tiziano), che ispirarono all’artista il tono crepuscolare, l’illuminazione aspra, la pennellata sciolta e virtuosistica di questo periodo.

Jacopo sposò Elisabetta Mezzari: dal matrimonio nacquero diversi figli, tra cui Francesco il Giovane, il quale collaborò molto con il padre e nel 1576 circa padre e figlio fissarono un modello prestabilito di pitture “di genere” a soggetto biblico, dipingendo tele di formato medio ( circa 90×123 cm.) con entrambe le firme, destinate al grande mercato attraverso la produzione di repliche dello studio, tali opere furono riprodotte dai figli e da altri pittori fino al XVII secolo inoltrato e di alcuni soggetti furono fatte più di cinquanta versioni per ciascuno, la prima e più fortunata serie fu quella con le “Stagioni” (Vienna, Kunshistorisches Museum). Questa collaborazione continuò anche quando Francesco si trasferì a Venezia, aprendo in questa città una specie di filiale della bottega, Jacopo aiutava il figlio prediletto con consigli e con bozzetti per importanti commissioni. Già ottantenne ottenne la commissione che aveva sempre aspettato: “L’Adorazione dei pastori” per San Giorgio Maggiore. Nel suo testamento, redatto nel 1592, assegnò parte dei beni a due figli, meno dotati come pittori, e una parte al figlio Leandro, suo collaboratore dopo il trasferimento a Venezia di Francesco e che aveva raggiunto il successo nella stessa città; non menziona Francesco, il quale, oppresso da demenza paranoica, si era ferito mortalmente gettandosi da una finestra del suo studio. Jacopo Bassano morì il 13 febbraio 1592, tre giorni dopo la dettatura del testamento.[31]

La tela fu acquistata a Venezia nel 1612 dall’arciprete del Duomo di Milano Alessandro Mazenta Rusca, che lo acquistò nel novembre 1612 sul mercato antiquario veneziano, insieme ad altre due opere e lo donò al Cardinale Federico. Lontano dal mondo visionario e dalle improvvise sciabolate di luce del Tintoretto, Jacopo rende vivo con un raffinato linguaggio paesano la monumentalità statica di esempi precedenti, che sono alla base della costruzione ancorata a una forte solidità formale (strettamente piramidali nelle figure centrali). La visione trasmette un senso di dolcezza e serenità verso gli uomini e il creato, alla cui base sta il fatto evangelico.

Bassano dà all’opera un moderato movimento a vortice intorno al gruppo centrale di Maria col Bambino, che avvia l’avvolgimento di tutte le figure: sulla sinistra, San Giuseppe e il pastore costituiscono una specie di piramide a base allargata e le altre due figure contribuiscono nell’accerchiamento del gruppo. Gli interstizi del quadro sono riempiti da particolari bucolici: pecore, cani, rendendo l’opera colma, ma quello che più colpisce è l’uso della luce che è come rugiada che rinfresca, dando al dipinto un aspetto serico e rorido. Complessivamente la scena è animata da un grande dinamismo: la cestina con le fasce è di un realismo apodittico, come anche le due figure che sembrano trattenere l’asino e il pastore in ginocchio sulla sinistra. Dinamica è pure la triangolazione che Bassano crea tra gli sguardi della Madonna che guarda Giuseppe, il quale contempla il Bambino che gioca con il velo mosso dal vento della Madre. Quello che distingue il Bassano dalla rappresentazione manieristica è proprio questo movimento compositivo che si realizza in una consistenza plastica e non solo in atteggiamenti: il senso della realtà lo tiene legato all’immagine senza  farla sfumare nella mera finzione, il realismo di Jacopo è basato sull’esperienza concreta del vivere e si esprime attraverso un pacato naturalismo che rifugge da ogni retorica. Il dipinto risulta perfettamente equilibrato, di elevato dinamismo e impatto visivo.

Scheda n.7

Tiziano (Tiziano Vecellio) copia da

Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia 1518

MADONNA COL BAMBINO, SAN GIOVANNI BATTISTA E SANTA CECILIA

Inv. 200 (Sala 4)

Olio su tela; 72 x 105 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: metà secolo XVI (1540-1560)

 

Per una breve biografia di Tiziano Vecellio si veda la scheda n. 2.

Questo dipinto è così descritto da Federico Borromeo nel Codicillo del 1607: “Un altro quadro parimente di Titiano, dentro vi quattro figure dal mezzo in su cioè una Nostra donna col bambino nudo in grembo, un San Giovanni Battista et una Santa Cecilia con cornici nere, et toccate con fili d’oro lungo un braccio e tré quarti alto un braccio et un quarto”.[32] Nell’Atto di donazione del 1618 troviamo: <<Una Beata Vergine, con Bambino nudo in grembo, San Giovanni Battista, e Santa Cecilia, parimenti di Tiziano, con cornici nere, e toccate con fogliami, e fili d’oro, lunga un braccio e tre quarti, et alto un braccio e sette oncie>>.[33] Nel “Musaeum” l’opera che può essere identificata con quella suddetta è descritta così: “Ugualmente di Tiziano è una Vergine col Bambino e Santa Caterina alla sua sinistra, in atto di fanciulla, con fattezze tenerissime espresse”.[34] Se questa descrizione si riferisce allo stesso dipinto, il Cardinale fa un errore sul nome della Santa. Quest’opera, risalente alla metà del secolo XVI, è stata eseguita da un allievo di Tiziano, anche se il Borromeo l’attribuisce a Tiziano stesso, da notare San Giovanni Battista è rappresentato anacronisticamente come adulto con la croce in mano, ma dal Vangelo sappiamo che Giovanni era nato solo sei mesi prima di Gesù. Riconoscibile dall’organo che tiene in mano è Santa Cecilia, la quale essendo patrona della musica sacra l’organo è il suo classico segno iconografico.

Scheda n.8

Agostino Carracci, ambito di

Bologna, 1567 – Parma 1602

MADONNA INCORONATA

Inv. 758 (Sala 5)

Olio su tela; 155 x 130 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: 1601 circa

Agostino Carracci nacque a Bologna nel 1557, il padre Antonio fu un sarto di origine cremonese, fratello maggiore di Annibale e cugino di Ludovico. Iniziò precocemente la carriera di incisore, si formò nell’ambiente tardo-manieristico bolognese, dove frequentò le botteghe di Prospero Fontana, Bartolomeo Passarotti e di Domenico Tibaldi, nel 1582, dopo essere stato per breve tempo a Roma l’anno prima, si trovava a Venezia, dove entrò in stretti rapporti con il Veronese e il Tintoretto, l’anno successivo fu a Milano, nel 1583 circa, tornò a Bologna e nel 1588-89 fu di nuovo a Venezia dove gli nacque un figlio naturale, Antonio, di cui sembra che Tintoretto fosse stato il padrino. Nel decennio tra il 1580 e il 1590, nonostante l’attività principale del Carraccio fosse quella di fare riproduzioni a incisione, eseguì molti dipinti con evidente influenza dell’arte veneziana e vasto fu il campo dei suoi interessi, che spaziarono da quelli letterari e musicali allo sviluppo della caricatura come genere, dalla matematica alla retorica e alla poesia, nell’ambito dell’incisione mise a punto una tecnica che ebbe molta influenza su quest’arte fino al XX secolo. Morì il 23 febbraio 1602 e fu sepolto nel Duomo di Parma.[35]

Il dipinto, raffigurante l’incoronazione della Vergine, è una copia di un particolare dell’affresco del catino absidale della chiesa di San Giovanni Evangelista di Parma, eseguito dal Correggio e rimosso prima del crollo della chiesa del 1587, ordinato da Federico Borromeo dopo il 1601, anno in cui il Cardinale ritorna a Milano. Nell’Atto di donazione del 1618 troviamo: <<Una Madonna con le mani in croce in atto di esser coronata, dal mezzo in su più grande del naturale copiata dal Caracciolo Bolognese, da quella del Correggio, che già si vedeva in Parma in una Tribuna, alta tre braccia e larga due e mezzo, senza cornici>>.[36] Quello che Federico scrive nel “Musaeum” è ancora più dettagliato: “Fu opera del Correggio una Vergine coronata di stelle tiene gli occhi fissi al cielo e vi ascende. Ho detto “fu”, perché avendola egli dipinta su un muro di Parma, ora è quasi scomparsa e sarà fra breve perduta, se non si dirà conservata da questa nostra copia. Noi almeno teniamo nel conto dello stesso modello, dal quale lo ricavò uno dei fratelli Carracci, pittori tanto valenti”. Il Cardinale commissionò questa copia nel 1601, dopo il suo ritorno a Milano e certamente si rivolse ad Agostino, il quale, in quel periodo, era attivo alla corte dei Farnese e lo stesso Cardinale dette grande valore all’opera, considerandola non minore rispetto all’originale.[37] Sempre nel “Musaeum” Federico scrive: <<Vorrei anzitutto far presente che fin troppo instabili sono le umane cose e che in troppo breve istante si corrompono tutte e si dissolvono. Per questo sarebbe stato auspicabile, a vantaggio di tutti gli uomini, che, come ci sono giunte le trascrizioni degli antichi libri, così ci fossero potute pervenire anche le copie dei quadri celebri e che il diligente lavoro degli antenati consentisse la trasmissione di tali opere alle età successive>>.[38] Questo passo ci fa comprendere quanto fossero importanti le copie di capolavori artistici che il tempo stava distruggendo: l’esecuzione di tali repliche erano strumento fondamentale per la trasmissione ai posteri di opere dei grandi maestri.

Scheda n.9

Federico Barocci, detto il Fiori replica di

Urbino, 1535 – Urbino 1612

PRESEPE

Inv. 153 (Sala 6)

Olio su tavola; (olio su tela per Lombardia beni culturali)135,4 x 110 cm. (106 x134 per Lombardia beni culturali)

Donazione: Legato Cardinale Federico Borromeo, 1631

Datazione: post 1598

Federico Barocci, detto il Fiori, nacque ad Urbino nel 1535 discendente da famiglia di artisti, suo nonno, milanese, fu scultore e lavorò alla decorazione del Palazzo ducale di questa città, il padre fu valente incisore di gemme e abile orologiaio: da lui Federico apprese i primi rudimenti del disegno, nel 1549 fu mandato a Pesaro dallo zio Bartolomeo Genga, architetto del duca Della Rovere, dove, oltre lo studio, ebbe occasione di osservare accuratamente le opere di Tiziano ed altri artisti veneti, che facevano parte della collezione del duca Guidobaldo II. Dopo il suo ritorno ad Urbino, si trasferì a Roma, dove proseguì i suoi studi facendo copie e disegni, distinguendosi dagli altri allievi per la sua bravura. Nel 1557 tornò ad Urbino, poi fu di nuovo a Roma, dove ebbe importanti commissioni, ma dovette interrompere la sua carriera a causa di una grave malattia intestinale: correva voce che fosse stato avvelenato da colleghi invidiosi della sua bravura; i medici lo giudicarono inguaribile e gli consigliarono di tornare nella sua città, dove il clima era migliore, infatti il Barocci, ad eccezione di brevi assenze, non si allontanò più da Urbino, ciò causò l’isolamento dalla grande arte romana. Continuò il suo lavoro e nonostante la sua salute precaria riuscì ad eseguire il grande numero di commissioni che riceveva. Influenzato forse dalle prediche di Filippo Neri, il quale cerca un collegamento tra il regno spirituale e la vita della gente comune, nel 1566 il pittore entra a far parte dell’Ordine laico dei Cappuccini ed abbraccia i principi della Controriforma in materia di arte religiosa redatti durante il Concilio di Trento. Nel 1572 ebbe l’incarico di ritrarre il principe Francesco Maria II Della Rovere, per celebrarne il ritorno dalla battaglia di Lepanto: fu l’inizio di un legame professionale e personale tra il pittore e il principe che durò per il resto della loro vita. L’ultimo decennio del secolo XVI fu un periodo molto produttivo per l’artista e le sue opere si trovano nei grandi musei europei, compresa una “Natività” (1597 circa) eseguita per il duca Francesco Maria, che si trova al Prado di Madrid. Nel 1606 circa Federico Barocci fu colpito da una febbre che non lo abbandonò più, debilitando ulteriormente le sue condizioni fisiche, tuttavia continuò il suo lavoro anche se molto lentamente, si dice che non avesse mai terminato entro il tempo stabilito una commissione, ma ciò non era dovuto solo alla sua salute, ma anche ad un metodo di lavoro molto complesso che comportava numerosissimi disegni e studi preparatori, oltre ad una complicata tecnica di verniciatura. Morì ad Urbino il 30 settembre 1612. Nonostante fosse un uomo molto infelice e sofferente, le sue opere, con i colori lieti, le immagini serene, ottimistiche, non riflettono mai le sue pene fisiche o le angosce psicologiche. Il suo carattere difficile, scontroso, malinconico e irascibile gli impedì di abitare al palazzo ducale, dove stette solo per un breve periodo cedendo alle insistenze del Duca. Lo stile elegante fa del Barocci un importante esponente del Manierismo italiano e dell’Arte della Controriforma, anticipando i modi del Barocco: le sue opere sono piene di figure rappresentate in energica azione e se le figure dei manieristi hanno spesso atteggiamenti eccessivi e innaturali deformazioni, le sue figure sono sempre rispondenti alla struttura organica e la loro espressione conforme alla situazione psicologica. Contrariamente agli spazi disordinati dei manieristi, Federico preferiva una visuale pittorica limitata, che da un primo piano ristretto sale prontamente in alto, tutto ciò calcolato matematicamente e proporzionato a contenere le figure e i loro movimenti. Con la pittura di maniera Barocci condivideva anche l’arbitraria manipolazione del colore, anche se l’artista usava tutti i colori (primari, secondari e intermedi) in gradazione molto satura senza servirsi delle linee di contorno, per le ombre usava il colore complementare dell’oggetto che le proiettava, con l’esito che le zone d’ombra si presentano come spazi continui di colore ondeggiante, a differenza dei pittori manieristi, i quali usavano, in grande maggioranza, colori intermedi, delimitati da linee di contorno più marcate e per le ombre lo stesso colore dell’oggetto in un tono più tetro e fuligginoso. Molto importante la mole dei suoi disegni, paragonabile dal punto di vista quantitativo solo a quella di Leonardo, da cui si evince la grande abilità dell’artista e l’accuratezza dello studio della forma esterna della composizione, nonché la sua grande sensibilità per il colore, usando la carta del colore che avrebbe avuto la forma nel quadro per studiare le luci e le ombre e spesso si avvaleva di gessi di vari colori su carta neutra per lo studio dei colori degli oggetti.[39]

Quest’opera fu molto amata da Federico Borromeo, tanto che entrò a far parte della collezione della Pinacoteca Ambrosiana solo dopo la scomparsa del Cardinale (1631): è possibile che l’abbia tenuta nel suo studio presso il Palazzo Arcivescovile fino alla morte. Con il Codicillo del 1607 Borromeo lasciava al suo esecutore testamentario una “…tabule Christi Domini Nativitatem a Federico Barotio depictam continentis”, estromettendola in tal modo dalla prima donazione all’Ambrosiana del 1618.[40] Un quadro identico si trova al Museo del Prado di Madrid, fu commissionato da Francesco Maria II Della Rovere, duca d’Urbino nel 1605 per donarlo alla regina di Spagna Margherita d’Austria, che, probabilmente è la versione originale vista dal Borromeo: il dipinto milanese è oggi definito una “replica autografa”.[41] Questo bellissimo dipinto prende vita dalla luce che illumina tutta la stalla, richiamando alla memoria quel passo del Vangelo di Giovanni (Gv 1,9), in cui si dice: <<Venne al mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo>>. Nel quadro manca qualsiasi fonte di luce naturale o artificiale, poiché la luce irraggia dal volto di Gesù Bambino, deposto in una mangiatoia, sul quale vegliano il bue e l’asino e la cui testa è adagiata su un guanciale bianco, il manto blu di Maria avvolge il Bambino. Il dipinto è investito da una luce diagonale che colpisce Maria, che con un atteggiamento di delicato ed affettuoso sentimento contempla il Figlio, ossia il mistero dell’Incarnazione: Dio che si fa uomo. Giuseppe emerge dalla penombra e indica ai pastori, sulla soglia della stalla, il Bambino Gesù. Il pittore accosta un linguaggio personale con lo stile veneziano definito “naturalismo mistico, la sua tendenza alla finzione è bilanciata equilibrata da una grande sensibilità nel gestire la luce, creando un’atmosfera poetica.

Scheda n.10

Il Sordo

Secondo quarto del XVI secolo

MADONNA ADDOLORATA

Inv. 1193 (Sala 6)

Olio su tavola: 46 x 31

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: ?

La mancanza di documentazione impedisce una biografia di questo pittore, il cui nome ricorre frequentemente nelle fonti milanesi. Nel 1666 viene menzionato in un’ opera della collezione del canonico Manfredo Settala,[42] mentre alcuni dipinti del Sordo sono menzionati dal Biffi e dal Lattuada: il primo ricorda alcune opere in contrada Larga, il secondo cita un quadro grande con la Madonna presso l’oratorio di Sant’Ambrosiano agli Scolari (oggi non più esistente). Bona Castellotti menziona sette dipinti del Sordo nella collezione Visconti; inoltre sia nell’Atto di donazione di Federico Borromeo dell’anno 1618 sia negli inventari dell’Ambrosiana sono citati, oltre quelli di seguito descritti, altre opere dello stesso artista. Attribuito al Sordo e proveniente dalla collezione Monti proviene anche il “Cristo alla colonna”, attualmente presso la quadreria dell’Arcivescovado di Milano, questo dipinto insieme con il “Cristo coronato di spine” e la “Madonna addolorata” della Pinacoteca Ambrosiana sono le sole testimonianze rimaste di questo pittore.[43]

<<Una testa di Cristo, et un’altra della Madonna appassionati di mano del Sordo, d’altezza di nove once l’una e larghe sei, senza cornice>>.[44] E’ così che Fedrico  Borromeo, nell’Atto di donazione, attribuisce questi due dipinti al Sordo, nome di un pittore che ricorre frequentemente nelle fonti milanesi e negli inventari dell’Ambrosiana sono citati altri due dipinti eseguiti dallo stesso pittore: una “Pietà” e una “Madonna col Bambino, San Giovannino e l’angelo”.[45] Queste due opere insieme con il “Cristo alla colonna”, che si trova nella quadreria dell’Arcivescovado di Milano,[46] sono le sole testimonianze dei dipinti del Sordo citato nelle fonti milanesi, in cui possiamo notare un’influenza del Sodoma, ma soprattutto risentono della lezione di Leonardo come gran parte della pittura lombarda del Cinquecento.[47]

La Tavola è parallela a quella del “Cristo coronato di spine” ed entrambe mostrano uno sfondo scuro dal quale affiorano intensi e drammatici i due volti simbolici della fede cristiana, perfettamente in linea con la spiritualità formalizzata nel Concilio di Trento. Il volto di Maria è rigato dalle lacrime e soffuso da una tristezza dolente, mente quello di Cristo è solcato dal sangue che scende dalle ferite procurate dalla corona di spine.

Scheda n.11

Jan Brueghel, Girolamo Marchesini

Bruxelles, 1568 – Anversa, 1625; Milano, prima metà del secolo XVII

ACQUASANTIERA

Inv. 271 (Sala 7)

Argento sbalzato; 47 x 38 cm

Smalti su avorio; 7 x 5 cm

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: prima metà del secolo XVII

Jan Brueghel il Vecchio, discendente da una famiglia di pittori da generazioni, nacque a Bruxelles nel 1568, il padre Pieter fu uno dei più illustri pittori del Cinquecento, morì quando Jan era molto piccolo: le opere del padre furono per lui un modello. Frequentò la scuola di Anversa e studiò la pittura ad acquerello con la nonna materna Mayken Verhulst. Il suo primo viaggio in Italia risale al 1589 e nel 1595 fu al servizio del Cardinale Federico Borromeo, il quale fu il suo più importante mecenate: alla fine del Cinquecento, quando Borromeo iniziò la sua collezione di opere d’arte, i suoi acquisti furono rivolti quasi esclusivamente a paesaggi e poiché questi erano i soggetti preferiti dei pittori fiamminghi, il Cardinale si rivolse ai suoi amici Jan Brueghel e Paul Bril.[48] Dal 1610 è operante alla corte di Bruxelles; per la sua bravura nel dipingere velluti e fiori, l’artista viene soprannominato Brueghel Velluto, per la resa coloristica vellutata dei suoi dipinti floreali e Brueghel Fiore e proprio per questa sua straordinaria abilità viene chiamato per dipingere fiori nelle opere di altri artisti, come le ghirlande intorno alle Madonne di Peter Paul Rubens. Nel 1603 muore Isabella, moglie del pittore, lasciandolo con due figli, due anni dopo Brueghel si sposa di nuovo con Catharine van Marienberghe con la quale avrà altri otto figli. L’artista morì ad Anversa nel 1625 di colera, quando era al culmine della sua fama, il suo stile, che aveva preso dal padre, fu continuato dai suoi figli (Jan Brueghel il Giovane e Ambrosius Brueghel) e dai nipoti fino al XVIII secolo.[49]

Girolamo Marchesini, miniaturista operante a Milano nella prima metà del secolo XVII, della cui opera il Cardinale si avvalse spesso, anche se molti lavori sono andati perduti. Federico Borromeo palrla di lui nel “Musaeum”, lo loda come autore raffinato della miniatura e che “soggiornò a lungo in casa nostra”.[50]

Nell’Atto di donazione del 28 aprile 1618, Federico Borromeo non menziona l’acquasantiera come un unicum, ma cita le sei miniature incorniciate in argento, di cui quattro di Jan Brueghel e due di Girolamo Marchesini, << Una Testa di Maria Vergine miniata dal detto Girolamo Marchesini in un’ovato di larghezza meno di quattro dita legato in argento. Una Testa di un Salvatore piccola, la quale viene da Giulio Clovio, miniata da Girolamo Marchrsini miniatore>>,[51] mentre nel “Musaeum”parla delle miniature come già assemblate in una specie di scrigno, che non sembra essere l’acquasantiera, probabilmente creata più tardi, anche se sempre nel secolo XVII. L’acquasantiera, d’argento sbalzato, accoglie sei miniature disposte a fiore: quattro piccoli ovali dipinti con estrema accuratezza da Jan Brueghel, che rappresentano l’Inverno con processione del Santissimo Sacramento, fatta aggiungere dal Borromeo; Gesù che porta la Croce e in mezzo alla folla incontra le pie donne, la Crocifissione e la Tempesta, che stupiscono per l’ampiezza delle scene e per i numerosi dettagli, così sono descritte dal Cardinale nell’Atto di donazione: <<Un’ovato di larghezza meno di quattro dita dov’è un Inverno con una processione del S. Sacramento, legato in argento di mano di Brueghel. Un altro ovato della medesima grandezza e della medesima mano di una Tempesta di mare, con la Santissima Vergine Maria circondata da splendori, ornato parimenti d’argento. Nostro Signore che porta la croce con molte altre figure, fatto da Giovanni Brueghel, in un ovato d’avorio, lungo quattro dita. Un Crocifisso con molte figure dell’istesso Brueghel in un ovato d’avorio dell’istessa misura>>.[52] Nella processione è raffigurato un villaggio fiammingo in inverno, sul fiume ghiacciato vediamo alcuni pattinatori e sullo sfondo la processione sta avanzando sulla riva del fiume coperta di neve. Nel secondo “ovato” descritto, la Madonna appare durante una violenta tempesta, sotto di Lei possiamo scorgere due navi in pericolo e i marinai che cercano la salvezza in piccole imbarcazioni. Nella terza miniatura Cristo incontra le pie donne e Veronica, la folla seguita dai soldati; nello sfondo è rappresentata la città di Gerusalemme circondata da un ampio paesaggio. I due profili sacri sono opera di Girolamo Marchesini su originali di Giulio Clovio per il volto del Redentore e di Bernardino Luini per il volto della Vergine.[53] L’acquasantiera non è un’opera di collaborazione, poiché le sei miniature furono acquistate separatamente tra il 1607 e il 1618.

Scheda n.12

Jan Brueghel, Bruxelles, 1568 – Anversa, 1625; Hendrick van Balen, Anversa, 1575 – 1632

VERGINE COL BAMBINO IN UNA GHIRLANDA DI FIORI

Inv. 71 (Sala 7)

Olio su tavola e rame; 27 x 22 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: 1608 circa

Per una sommaria biografia di Jan Brueghel si veda la sceda n. 10

Hendrick van Balen nacque ad Anversa nel 1575, da Willem e Machteld van Alten, sembra sia stato allievo di Adam van Noort, nel 1592 viene citato come maestro, nel 1609-10 decano della gilda dei pittori e nel 1613, dopo un viaggio a Roma e il ritorno ad Anversa, fu decano della “Confrérie des Romanistes”. Nel 1605 sposò Margriet Briers, dalla quale ebbe undici figli, tre dei quali furono pittori. Molte delle sue opere sono collaborazioni con altri artisti, soprattutto con Jan Brueghela cui fece sfondi e ornamenti in molti suoi dipinti. La sua specializzazione erano i soggetti mitologici e allegoriche di piccole dimensioni, dipinti su rame e su legno, che includevano spesso figure nude in una scena mitologica o religiosa, in un ambiente idilliaco. Negli ultimi anni della sua carriera fu molto influenzato da Antoon van Dyck: il ritratto suo e quello della moglie, che adornano la sua tomba sono forse opera di van Dyck. Le sue opere si trovano sparse in molte gallerie europee. Morì nella stessa città in cui era nato nel 1632

Durante il secolo XVII nei Paesi Bassi, il genere floreale nella pittura simboleggiava implicitamente il messaggio morale della “Vanitas” ed anche il concetto di caducità insito nella bellezza di un fiore, infatti spesso venivano raffigurati nella stessa opera fiori di stagioni diverse per dimostrare che tali dipinti non erano oggettivi ma comprendevano un evidente messaggio morale. Madonne col Bambino circondate da ghirlande di fiori sono un tema che nell’Europa del Seicento ebbe grande fortuna grazie alle opere di pittori fiamminghi come Brueghel il Vecchio, Rubens e Antoon van Dyck, questo genere contraddistinse anche la città di Genova del tempo, che, sulla scia dei rapporti commerciali, ebbe contatti con l’arte delle Fiandre. A Milano la tendenza per questo genere nacque per i contatti commerciali con Genova, ma soprattutto grazie al Cardinale Borromeo e al suo interesse per la pittura dell’amico Jan Brueghel, Questo dipinto venne realizzato su diretta commissione di Federico ed è molto importante in quanto si tratta della prima versione  di una composizione ideata da Brueghel. La Madonna col Bambino è attribuita ad Hendrick van Balen, nella ricca ghirlanda di fiori si distinguono camelie, mughetti, ciclamini, roselline e tanti altri tipi di fiori, oltre a frutti come fragole e ribes e qualche insetto, tra cui una farfalla e un grillo, la ghirlanda è il simbolo di tutta la natura, che il mistero dell’Incarnazione , manifesto dal Bambino in braccio della Vergine, ha riportato al suo originario splendore. Il genere pittorico delle Madonne inghirlandate, in cui l’unione di tema naturale e immagine sacra riusciva a esprimere con estrema efficacia la bontà divina, secondo la concezione devozionale dell’arte di Borromeo. Il Cardinale era in possesso di tre quadri di questo tipo: oltre al presente, il secondo ancora di Brueghel e di un collaboratore non individuato, attualmente al Museo del Louvre e databile al 1617 circa; il terzo, del 1621, sempre di Brueghel e di Pieter Paul Rubens, al presente al Museo del Prado. Quest’opera non  solo fu il primo dipinto di questo genere, ma addirittura sembra sia stata la prima della pittura fiamminga in generale, così viene descritta da Borromeo nell’Atto di donazione: <<Una Madonna col fanciullino in braccio in un ovato, con una corona d’intorno di vari fiori di mano del medesimo Brueghel, di larghezza di quattro once; e cinque e mezzo d’altezza, con cornice e con coperta miniata d’oro>>.[54] La lettera di Brueghel al Borromeo del febbraio 1608 ci informa che verso la fine del 1607, l’arcivescovo rimandò il quadro a B., con la richiesta di aggiungere un paesaggio a mo’ di sfondo delle sacre figure: <<Non mancho d industriarme intorno al quadretto del compertemento delli fiori: nel quale secondo l’ordine di V.S.Ill. ma accomodero dentro una Madona con paisetto. Spero et credo che, si alcuna opera mia habbia piaceuto a V.S.Ill. o dato gusto, che questa habbiada suportare tutte…>>.[55] Il dipinto si può definire un quadro in un quadro: i fiori danno l’impressione allo spettatore di essere collocati sulla parete in cui è appeso il dipinto interno alla ghirlanda, assumendo l’effetto di un tromp l’oeil.

Scheda n.13

Andrea Schiavone (Andrea Meldolla)

Zara, 1510/1515 circa – Venezia, 1563

ADORAZIONE DEI MAGI

Inv. 198 (Sala 1)

Olio su tela; 185 x 222 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: circa metà del XVI secolo

Andrea Meldolla, detto lo Schiavone, nacque a Zara negli anni 1510/1515, da genitori originari di Meldola, vicino a Forlì, infatti il padre Simone ricoprì in quegli anni la carica di Conestabile della Serenissima nella città dalmata, il soprannome di Schiavone viene dato ad Andrea proprio per la sua provenienza: in dialetto veneto significa “slavo”. Le scarse notizie biografiche non permettono né la ricostruzione della formazione dell’artista né il suo arrivo in Italia, anche se le sue opere giovanili portano ad escludere un apprendistato nella città di nascita, ma a collocare la produzione di Mendolla tra l’arte veneziana e la cultura figurativa manierista dell’Italia del centro. E’ stato ipotizzato che il pittore si sia trasferito a Venezia nella seconda metà del quarto decennio del XVI secolo e che abbia trascorso un periodo nella bottega di Bonifacio de’ Pitati (v. scheda n.4), ma più probabile sembra un periodo di discepolato presso il Parmigianino (Francesco Mazzolla), la cui influenza domina in tutte le opere dello Schiavone, è comunque certo il suo grande impegno nello studio delle opere del presunto maestro, forse da autodidatta. L’opera di pittura più antica documentata dalle fonti (oggi perduta) fu commissionata a Mendolla da Vasari nel 1540 per farne dono a Ottaviano de’ Medici. Fu a lungo impegnato nell’ambito della grafica, tanto da essere considerato tra i più importanti incisori del Cinquecento veneziano. La pittura rapida e abbreviata dell’artista esemplifica emblematicamente quella tecnica “di tocco” che fece scalpore nel contesto lagunare della metà del Cinquecento, per cui gli vennero mosse aspre critiche da parte di prestigiosi commentatori come Pietro Aretino e Paolo Pini, i quali disapprovarono l’eccesso di rapidità e sinteticità d’esecuzione ed anche la mancanza di compiutezza. Schiavone raggiunse la punta più alta della sua fama quando, nel 1557, ricevette il saldo della sua opera più importante: i tre tondi per la decorazione del soffitto della sala della Libreria Marciana di Venezia, la cui realizzazione architettonica era stata da poco ultimata sotto la responsabilità di Iacopo Sansovino. Accanto alle numerose commissioni pubbliche, si moltiplicarono anche quelle private, in cui prevaleva il tema mitologico, concepite per un raffinato collezionismo, ma è soprattutto in varie tele di soggetto sacro, che la produzione tarda di Mendolla raggiungerà i vertici più alti. Andrea Schiavone morì a Venezia il 1° dicembre 1563.[56]

Non abbiamo notizie sulla committenza del dipinto, da una lettera datata 23 novembre 1612, scritta da Alessandro Mazenta Rusco da Venezia, antecedente l’acquisizione da parte del Cardinale, veniamo a conoscenza che lo scrivente informa Borromeo che entro due giorni gli avrebbe inviato anche un quadro di Andrea Schiavone.[57] Nell’Atto di donazione viene così descritto: <<Un’adorazione dei Magi, alta braccia tre, larga quattro, di Andrea Schiavone Discepolo di Titiano>>.[58]L’opera, uno dei capolavori dell’artista, è considerata come un ottimo esempio della pittura di maniera: la composizione pittorica è molto animata, quasi roteante secondo il movimento a spirale della colonna tortile e in ogni forma è applicata la figura serpentinata manierista, nel re che si inginocchia ai piedi del Bambino, nell’altro mago che si inchina e porge un piatto con un vaso decorato, nel san Giuseppe che contrappone il movimento delle braccia allo scatto del volto e infine nel gruppo dei cavalieri che affollano la destra della composizione; anche la Madonna col Bambino in braccio presentano entrambi queste caratteristiche della rappresentazione di un ideale di bellezza attraverso una distorsione delle proporzioni. Il dipinto è volutamente sbilanciato a sinistra, dove la Sacra famiglia è messa in evidenza dalla grande colonna tortile, che sembra non avere fine, arrestato orizzontalmente dall’angelo che reca una corona onoraria. In questo “elegantissimo presepio”, come è stato definito il quadro, sul fulcro compositivo del Bambino convergono tutte le figure in una cascata disordinata, che danno un tocco di dinamismo combinato con uno sfolgorante andamento cromatico, denso di  accensioni, dissonanze e cangiatismi, che richiama il Parmigianino.

Scheda n.14

Vespino (Andrea Bianchi)

Milano, prima metà del secolo XVII

VERGINE DELLE ROCCE

Inv. 1174

Olio su tavola 193 x 119 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: secondo decennio del secolo XVII post 1611

Andrea Bianchi, detto il Vespino o il Copista, fu attivo a Milano verso la fine del Cinquecento e il primo trentennio del secolo successivo. Sconosciute restano la sua vita e la preparazione artistica: dalla testimonianza di Federico Borromeo e da un’opera del Borsieri che riprende tale testimonianza veniamo a conoscenza che il Vespino, su incarico del Cardinale, fece la copia del “Cenacolo” di Leonardo, quella della “Vergine delle rocce”, ora alla Natinal Gallery di Londra, la “Sant’Anna con la Madonna e Gesù Bambino” dal famoso cartone; una “Madonna e Santa Elisabetta”, una “Sacra Famiglia” e il gruppo delle tre Marie della “Crocifissione”, copiate dal Luini; del Parmigianino riprodusse un ritratto di giovane: Borromeo giudicò tali copie “fatte con diligenza”. Dagli scritti di Federico sappiamo quanto per lui fosse importante la copia di un’opera famosa sia come esercitazione dell’artista, ma soprattutto perché restasse di esse documentazione certa, quando si temeva che l’originale potesse essere perduto, tutto ciò è dimostrato nella copia del “Cenacolo”, in cui il Cardinale fece scrivere: “Reliquiae Coenaculi fuggente hac tabula exceptae sunt ut conservaretur Leonardi opus” ( Le immagini originali del Cenacolo, perlomeno quelle che restano, stanno scomparendo; questa copia è stata fatta perché l’opera di Leonardo possa essere in qualche modo conservata). Oltre a queste celeberrime copie, Borromeo commissionò al Vespino una parte delle effigi di uomini celebri, per decorare i ballatoi della Sala federiciana e della Sala Fagnani, le opere furono eseguite su esempi presi nella maggior parte dei casi nel Museo Giovio di Como, all’esecuzione di questo enorme lavoro (90 tele nella prima sala, 83 nella seconda) furono chiamati anche Antonio Mariani e Giuseppe Franchi. [59]

La “Vergine delle rocce”, prima commissione certa ricevuta da Leonardo al suo arrivo a Milano, è un’opera duplicata dallo stesso maestro con alcune varianti e se pure dipinti a Milano, oggi si trovano al Louvre di Parigi e alla National Gallery di Londra. La copia della “Vergine delle rocce”, eseguita dal Vespino,

è molto fedele alla versione che si trovava nella cappella dell’Immacolata Concezione del Convento di San Francesco Grande, vicino alla Basilica di Sant’Ambrogio, ora nella National Gallery di Londra, tale copia è molto interessante per il fatto che non compaiono né le aureole della Vergine, del Bambino e di San Givannino né il bastone con la croce tra le mani del piccolo Battista, questo prova che nemmeno Leonardo aveva previsto questi elementi nella sua versione di Londra, ma che furono aggiunti per motivi devozionali in un secondo tempo: non prima della metà del XVII secolo. La lettura di questo quadro, come anche degli originali, è molto complessa: la grotta, dove è ambientata la scena, riporta al mistero del grembo materno destinato ad accogliere il Figlio di Dio, i massi intorno alla Madonna rievocano il “Cantico dei Cantici”in cui si parla della donna amata come di una colomba nascosta tra le rocce: la Vergine è chiamata per essere Madre di Dio e che stende la sua mano come a protezione di Colui che darà la vita per la salvezza dell’umanità.[60]

Scheda n.15

Vespino (Andrea Bianchi)

Milano, prima metà del secolo XVII

MADONNA CON SAT’ANNA E GESU’ BAMBINO CHE SCHERZA CON L’AGNELLO

Inv. 819 (Aula Leonardi)

Olio su tela; 142 x 109 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Datazione: secondo decennio del secolo XVII

Per una sommaria biografia di Andrea Bianchi, detto il Vespino si veda la scheda n. 14

La copia della “Madonna con Sant’Anna e Cristo Bambino che scherza con l’Agnello” fu presa dal Vespino direttamente da un disegno di Leonrdo, forse il cartone di Esterhazy, che allora si trovava a Milano, oggi presso il Szépmüvészeti Museum di Budapest, infatti Borromeo così la descrive nell’Atto di donazione: <<Una Madonna con S. Anna e Christo Bambino che scherza con l’Agnello, dipinta da Ms. Andrea Bianchi detto il Vespino, non copiandola da altro quadro simile dipinto, ma solo imitandola dal Cartone di Leonardo. E’ senza cornice, et alta braccia due e mezzo, e larga due>>.[61] L’abilità del Vespino si può notare proprio nella perfetta adesione all’originale, anche se l’espressione dei volti e la gradazione cromatica evidenziano il divario temporale tra l’esecuzione dell’originale e la copia. Lo sfondo di questo dipinto ha tonalità cromatiche scure, caratteristiche dello stile del Vespino e della pittura dell’epoca, ma la singolarità della copia consiste nella collocazione dello scenario: un paesaggio con un centro abitato anziché uno sfondo naturalistico, come nell’originale.

 

 

MADONNE NOTE

1 A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXII.

2 Ibid.

3 Cfr. G. Gabrielli, Federico Borromeo a Roma, in “Archivio della Società romana di Storia Patria, LVI-LVII (1933-1934), p. 157 e segg.

4 Cfr. C. Marcora, Un diario sulla morte dell’Arcivescovo Gaspare Visconti e sulla nomina del Cardinale Federico, in “Memorie Storiche della Diocesi di Milano”, II 1955, p. 135 e segg.

5 Gravi contese tra arcivescovo e governo civile c’erano state anche durante l’episcopato di Carlo, ma furono superate negli ultimi anni dell’episcopato di Carlo grazie alla sua forte personalità; Federico non aveva ereditato dal cugino la grande capacità politica, quindi non fu capace di trovare un accordo di fatto e si lasciò trascinare dalle manovre diplomatiche e dal formalismo giuridico. Ci furono innumerevoli riunioni della commissione cardinalizia e lunghissime discussioni, finalmente, nel 1615, venne sottoscritta dal Borromeo e dal nuovo governatore di Milano Pedro de Toledo Osorio la “Concordia iurisdictionalis inter forum ecclesiasticum et forum saeculare Mediolani”, ratificata poi da papa Paolo V e da Filippo III nel 1617 e pubblicata nel 1618 a Milano. Con questo atto la Chiesa milanese acquista ampli poteri giurisdizionali. Queste controversie giurisdizionali ebbero un costo molto elevato: le spese sostenute dalla sola parte ecclesiastica ammontarono a 105.000 scudi, oltre al danno che la diocesi subì per la lunga assenza dell’Arcivescovo, della paralisi della vita ecclesiastica e dal sovvertimento dei valori che essa subì. Cfr. L. Prosdocimi, Il diritto ecclesiastico dello Stato di Milano dall’inizio della signoria viscontea al periodo tridentino, Milano 1941, p. 318 e segg.

6 Al momento dell’inaugurazione la Biblioteca contava 12.000 manoscritti e 30.000 opere a stampa. Tra il 1611 e il 1620 la Biblioteca viene ingrandita, su progetto di Fabio Mangone, incorporando altri edifici (Scuole Taverna che si spostano in via Santa Maria fulcorina, di fronte al Luogo Pio dell’Umiltà) e con la costruzione della Galleria delle statue e dei quadri, nasce il primo nucleo della Pinacoteca.Cfr.www.storiadimilano.it/repertori/cronologia_federigo/cronologia_federigo.htm

La documentazione relativa all’attività pastorale di Federico Borromeo è conservata presso l’Archivo della Curia Arcivescovile di Milano.

7 Nel febbraio 1603 gli Oblati di San Sepolcro rivolgono una supplica al Tribunale di Provvisione per ottenere alcune modifiche della piazza, finalizzate alla costruzione della Libreria, ossia la futura Biblioteca Ambrosiana, i cui primi disegni per la costruzione di un modello in legno furono eseguiti da Lelio Buzzi, il quale poi, l’anno successivo, abbandonerà l’incarico a causa di contrasti sorti sul progetto. I lavori iniziarono a giugno nell’area di tre case acquistate dal Cardinale. Cfr. www.storiadimilano.it/repertori/cronologia_federigo/cronologia_federigo.htm

8 B. Guenzati, Vita di Fedrigo Borromeo, a cura di Marina Bonomelli, Ambrosiana – Bulzoni, Milano 2010, p. 216-218.

9 Cfr. Ibid., p. 218.

10 Cfr. C. Borromeo, Instructiones Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae, Milano 1577, 1.I, cap. 17.

11 La statua detta San Carlone fatta costruire ad Arona nel 1624 da Federico, è alta 23 metri.

12 I processi alle streghe furono molto numerosi durante il suo episcopato e dal 1599 al 1631 furono nove i roghi di rei di stregoneria, numerosi furono anche i casi di monache estatiche da lui dirette spiritualmente. Tutti argomenti noti e non pertinenti in questa sede. Per questie opere di Borromeo si vedano i lavori curati da Francesco di Ciaccia: Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum. Liber unus/ Fedrico Borromeo. Bulzoni, Roma 2006; De cognitionibus quas habent demone liber unus/Federico Borromeo, Ambrosiana – Bulzoni, Milano 2009; Manifestazioni demoniache/ Federico Borromeo, Terziaria, Milano 2001.

13 Pur riconoscendo l’efficienza delle norme per l’igiene e l’isolamento, indisse preghiere pubbliche e la famosa processione dell’11 giugno, che riunì una gran folla dietro il corpo di San Carlo, con le disastrose conseguenze nei giorni successivi di un’esacerbazione della peste.

14 Cfr. www.storiadimilano.it/repertori/cronologia_federigo/cronologia_federigo.htm

15 Cfr. F. Borromeo, Musaeum, a cura di P. Cigada, Claudio Gallone editore, Milano 1997. Pseudo Dionigi Areopagita, De Divinis Nominibus, c. 3. Federico cade in errore, poiché Dionigi non solo non fu testimone, ma si tratta di un personaggio d’invenzione risalente al secolo VI, al cui nome sono attribuiti scritti di contenuto dottrinale, affine al neoplatonismo.

16 F. Borromeo, Musaeum cit., p. 3.

17 Ibid. p. 51.

18 A.S.M., Fondo Notarile, Cancelleria Arcivescovile, Filza n. 138, atto n. 39, Atto di donazione all’Ambrosiana della collezione del Cardinale Federico Borromeo, f. 3.

19 G. Vasari, Le vite (1550), a cura di L. Bellosi-A. Rossi-G. Previtali, II, Torino 1991, p. 680. Nella seconda edizione delle “Vite” (1568) Vasari parlerà del Luini in modo molto più semplice.

20 Cfr., L. Beltrami, Luini: 1512-1532: materiale di studio, Milano, Tip. U. Allegretti, 1911, p. 473.

21 Cfr. B. A., Codicillo del 15 settembre 1607 al testamento di Federico Borromeo, Ms. S.P.II 262, n. 5; AA.VV., Pinacoteca ambrosiana, Mondadori Electa S.P.A., Milano 2005, Tomo I, p. 162.

22 Cfr. www.alfredotradigo.it/articoli14/04-14-1.htm; L. Beltrami, Luini, Milano 1911.

23 Cfr. C. Fabbro, Tiziano. La vita e le opere, Pieve di Cadore, 1968; C. Gibellini, a cura di, Tiziano, I Classici dell’Arte, Milano, Rizzoli, 2003; S. Zuffi, Tiziano, Mondadori Arte, Milano 2008; F. Accordini, Vita dell’insigne pittore Tiziano Vecellio già scritta da anonimo autore, riprodotta con lettere di Tiziano sulle nozze Mila-Lagnoli, Venezia 1809; A. Venturi, Tiziano, in “Storia dell’arte italiana, IX, iii, Milano 1928, pp. 183-186.

24 Cfr. www.memofonte.it/contenuti-rivista-n.2/occhipinti-la-dispersione-6.html

25 Cfr. B. A., Codicillo del 15 settembre 1607… cit., n. 5; AA.VV., Pinacoteca ambrosiana… cit., Tomo I, p. 280.

26 Cfr. AA.VV., Pinacoteca ambrosiana… cit., Tomo I, p. 284.

27 Cfr. http://www.restituzioni.com/opere/adorazione-dei-magi-5/

28 F. Borromeo, “De Pictura sacra”, cap. VI, Del nudo.

29 Cfr. www.treccani.it/enciclopedia/pitati-bonifacio-detto-bonifacio-veronese_(Dizionario Biografico; G. Ludwig, Bonifazio di Pitati da Verona, eine archivalische Untersuchung, I-II, in “Jahrbuch der Koniglich Preussischen Kunstsammlungen, XXII (1901), p. 61 e segg.; C. Ridolfi, Le meraviglie dell’arte (1648), a cura di D. von Halden, I, Berlino 1914, pp.284-295.

30 Cfr. E. Arslan, I Bassano, Milano 1960, pp. 153-160; G.B. Verci, Notizie intorno alla vita, e alle opere de’ pittori, scultori, e intagliatori della Città di Bassano, Venezia 1775, pp. 39-153; A. Venturi, Storia dell’Arte italiana, IX, 4, Milano 1929, p. 1113 e seg.

31 Cfr. F. Signori, Il testamento di J. Bassano, in “Arte venera”, XXXIII (1979), pp. 161-164.

32 B. A., Codicillo del 15 settembre 1607… cit., n. 5

33 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 2.

34 AA.VV., Pinacoteca ambrosiana… cit., Tomo I, p. 287.

35 Per la biografia di Agostino Carracci si veda: Stephen E. Ostrow, Agostino Carracci, Thesis (Ph. D.) New York University, New York, 1966; D. Posner, Carracci Agostino, in “Dizionario biografico degli italiani, v. 20, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1977.

36 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 3.

37 Cfr. AA.VV., Pinacoteca ambrosiana… cit., Tomo II, pp. 110-112.

38 F. Borromeo, Musaeum… cit., pp. 19-21.

39 Cfr. G.P. Bellori, Le vite dei pittori, scultori ed architetti moderni 1614-21, Roma 1931 (ed. fac-simile), pp. 165-196; A. Venturi, Storia dell’Arte italiana, IX, 7, Milano1934, pp. 879-953.

40 B. A., Codicillo del 15 settembre 1607… cit., f. 3r.

41 Cfr. www.lombardiabeniculturali.it/opere-arte/schede/L0030-00022/

42 P.M. Terzago, Museo, o Galleria adunata dal sapere e dallo studio del Sig. Canonico Manfredo Settalo, Tortona 1666, p. 250.

43 Cfr. G. Biffi, Pitture, scolture et ordini dell’architettura, 1704-1705, a cura di M. Bona Castellotti, Firenze 1990, p. 67; S. Lattuada, Descrizione di Milano, Milano 17317, I, p. 158, II p. 92; . M. Bona Castellotti a cura di, La quadreria dell’Arcivescovado, Milano 1999, p. 88 e seg.

44 A.S.M., Atto di donazione… cit., f.2

45 Cfr. M. Rossi – A. Rovetta a cura di, La Pinacoteca Ambrosiana, Milano 1997, p. 115.

46 Cfr. M. Bona Castellotti a cura di, La quadreria… cit., p. 88 e seg.

47 Ibid.

48 Cfr. F. Borromeo, Musaeum, p.2; P.M. Jones, Federico Borromeo e l’Ambrosiana: arte e Riforma cattolica nel secolo a Milano, p. Vita e Pensiero, Milano 1997, p 65.

49 Cfr. F. Crucy, Les Brueghel, Parigi 1928; www.settemuse.it/pittori_scultori_europei/brueghel_jan_older.htm

50 Cfr. http://www.lombardiabeniculturali.it/opere-arte/schede/L0150-00023/

51 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 2.52.

52 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 5)53.

53 Cfr. www.lombardiabeniculturali.it/opere-arte/schede/L0150-00023/

54 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 6.

55 P. M. Jones, Federico Borromeo e l’Ambrosiana: arte e Riforma cattolica nel XVII secolo a Milano, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 72.

56 Cfr. P. Rossi, A. Schiavone e l’introduzione del Parmigianino a Venezia, in “Cultura e società del Rinascimento tra riforme e manierismi, Venezia 1984, p. 189 e segg.; http://wwwtreccani.it/enciclopedia/meldolla-andrea-detto-lo-schiavone_(Dizionario –Biografico)/

57 Cfr. B. A., Ms. G 211 inf., n. 121; AA.VV.,  La Pinacoteca… cit., p. 268.

58 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 3.

59 Cfr. G. Borsieri, Il supplim. Della nobiltà di Milano del Morigia, Milano 1619, p. 65; C. Bianconi, Nuova guida di Milano, Milano 1787, p. 93; G. Galbiati, Itinerario dell’Ambrosiana, Milano 1951, ad indicem.

60Cfr.stefanofugazzi.wordpress.com/2014/02/26/la-vergine-delle-rocce-di-leonardo-due-versioni-e-molte-copie/;http://www.chiesa di milano.it/senza-categoria/la-vergine-delle-rocce-di-leonardodue-versioni-e-molte-copie-32281.html

61 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 1.

 

 

 

 

 

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PER FEDE E PER DIGNITÀ: il caso di Abramo e Agnoluccio ebrei

LOREDANA FABBRI

“Si può sconfiggere il generale che comanda tre armate,

ma non si può smuovere la ferma volontà di un uomo semplice”

(Confucio)

 

A Elena, amica e consigliera preziosa.

 

 

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Il Concilio Vaticano II ripudia ogni forma di antisemitismo, la dichiarazione “Nostra Aetate”, cioè Nel nostro tempo è uno dei documenti del detto Concilio, pubblicata il 28 ottobre del 1965, tale dichiarazione si riferisce al senso religioso e soprattutto ai rapporti tra la Chiesa cristiana e le altre religioni. Il documento consta di cinque punti, tra questi il “Decretum de Judaeis”, completato nel 1961. E’ la sezione più importante del documento, in quanto parla del rapporto tra Cristiani ed Ebrei, rapporto molto più prossimo che con altre religioni, ma soprattutto tratta delle accuse fatte tradizionalmente dal Cristianesimo contro gli Ebrei.[1]

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Dopo la visita alla Sinagoga di Roma, Giovanni Paolo II si esprime con queste parole: << La religione ebraica non ci è estrinseca, ma in un certo qual modo è intrinseca alla nostra religione. Abbiamo con essa dei rapporti che non abbiamo con nessun altra religione[…] Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, i nostri fratelli maggiori…>>.[2] La Chiesa cattolica, infatti, riconosce sia il vincolo con cui i cristiani sono legati con la stirpe di Abramo e che gli inizi della fede cattolica si trovano già nei patriarchi, nei profeti e in Mosè e che in seno al popolo ebraico sono nati gli apostoli, pilastri della Chiesa e i discepoli che hanno annunciato il Vangelo di Cristo.[3]

Molto importante nella dichiarazione “Nostra Aetate” è il punto in cui si legge e viene ribadito che anche se in grande maggioranza gli Ebrei non hanno accettato il Vangelo, hanno perseguitato la Chiesa cattolica e non hanno riconosciuto Gesù come figlio di Dio, non devono essere considerati rifiutati da Dio, né maledetti, in quanto rimangono ancora carissimi al Signore. Il documento esclude anche l’attribuzione collettiva di Israele nella morte di Gesù, non ritenendo colpevoli di questa morte né gli Ebrei del tempo né quelli di oggi. Troviamo, infine, la condanna di ogni forma di antisemitismo e tutte le persecuzioni contro gli ebrei: il documento conciliare “Nostra Aetate” rappresenta una chiarificazione dell’atteggiamento cattolico nei confronti dell’ebraismo, concludendo che l’antisemitismo non ha una legittimazione teologica. <<La Chiesa […] deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque.>> [4]

Secondo il parere del politologo Norberto Bobbio la dichiarazione “Nostra Aetate” ha rappresentato <<…una svolta vera, maggiore della stessa Riforma e della stessa Rivoluzione francese >>.[5]

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Quando nei secoli V e VI si forma il diritto romano-cristiano come braccio secolare dell’intolleranza cattolica, la religione cristiana è considerata come l’unica religione possibile, sancita dai Concili ecumenici; pure il dogma serve per dare unità culturale e ideologica, anche se la Chiesa di Roma spesso se ne serve per rivendicare un potere politico e per sottomettere chi la pensava diversamente. L’Editto di Tessalonica, conosciuto anche come “Cunctos populos”, emanato il 27 febbraio del 380, facente parte del codice teodosiano e giustinianeo, ordinava perentoriamente a tutti di essere cattolici: la società non era più divisa tra liberi e schiavi, ma tra fedeli e infedeli, quindi l’eretico diventa un soggetto pericoloso, un deviante, un criminale, che di conseguenza va punito severamente, con ciò veniva abolito ogni residuo di tolleranza verso il paganesimo e limitava gravemente la libertà di professione della fede ebraica.[6]

Agostino e Crisostomo consideravano gli ebrei figli del Diavolo e la diaspora il castigo per il deicidio commesso; non solo, ma san Giovanni Crisostomo sosteneva che << La Sinagoga non è soltanto lupanare e teatro, ma anche caverna di briganti e rifugio di bestie feroci…>>. San Girolamo scrive che se fosse lecito odiare degli uomini e detestare un popolo, il popolo ebreo sarebbe per lui l’oggetto di un odio speciale e profondo, perché fino ad allora nelle loro sinagoghe di Satana veniva perseguitato Gesù Cristo. Il vescovo di Milano Ambrogio parlava dei giudei come di un popolo “parricida” che continua a perseguitare Gesù e si vantava di avere ordinato l’incendio di varie sinagoghe: la posizione comune ai Padri della Chiesa fu che responsabile della morte di Gesù fu il popolo ebreo e non Pilato, da qui l’accusa di essere un popolo deicida.[7] Per arrivare a Carlo Borromeo, che vietò ogni rapporto tra ebrei e cristiani per la tutela della fede e della morale cristiana.[8]

Pietro il Venerabile (1092-1156), nono abate dell’abbazia benedettina di Cluny, ha avuto molte critiche per il suo atteggiamento verso gli ebrei ed emblematica è la sua famosa epistola a Luigi VII, in cui pronuncia una vera e propria esecrazione verso gli ebrei ed esorta il re a prelevare dai loro beni quei proventi di cui necessita per la guerra santa; ma, secondo Leclercq, il comportamento dell’abate è dominato da due sentimenti: “…l’amore degli uomini e l’amore della verità: L’affezione verso Cristo ha come corrispondenza l’avversione per il giudaismo e non l’odio per i giudei; esso genera, al contrario, il desiderio di sottrarre i giudei al giudaismo per far loro del bene e per impedire che nuocciano ai cattolici […] Si lasci loro la vita, ma si tolga loro una parte dei tesori che si sono accumulati a spese dei fedeli […] Il pretesto e la giustificazione di questa conclusione di Pietro il Venerabile è l’urgente bisogno che ha la Chiesa di provvedere alle spese della guerra santa: l’abate di Cluny propone un espediente, non si pronuncia qui contro i giudei in generale , ma contro quelli che si arricchiscono disonestamente”.[9]

Se diamo uno sguardo al passato, possiamo vedere che non sempre la Chiesa di Roma ed i pontefici sono stati tolleranti verso il popolo ebraico: già nel V secolo, papa Leone I Magno, nei sermoni concernenti la crocifissione di Gesù, chiamava empi gli Ebrei e li accusava della morte del Redentore. Fu Innocenzo III che, nel IV Concilio Lateranese del 1215, impose agli ebrei di portare un segno di riconoscimento che li distinguesse dai cristiani.[10] Nicola III, nel 1280 con la bolla “Vineam Sorec”, riprendendo i concetti di Innocenzo IV, il quale sosteneva che i giudei avevano il cuore coperto da un velo che li accecava, sostiene che Israele era stata scelta da Dio perché era una vigna da cui si poteva raccogliere l’uva dolce, ma che invece aveva prodotto aceto ed è paragonata alla pianta del fico seccata, che Gesù ordinò fosse bruciata, in quanto non dava più frutti buoni, inoltre viene accusata non solo di non avere accolto la grazia portata da Cristo, ma di essere responsabili della sua morte ingiusta e tale accusa è diretta a tutto il popolo, ad eccezione di coloro che si sono convertiti. Anche per papa Giovanni XXII il deicidio è collettivo, infatti nella bolla “Dudum felicis” del 1320 scrive che questo popolo è fuggiasco, vagabondo come Caino, ha rifiutato Cristo, la Legge, i Profeti, per seguire il Talmud, il cui contenuto è pieno di errori e bestemmie, ciò non può essere tollerato ma condannato.[11]

Durante il Medioevo nacque e si diffuse rapidamente una leggenda: la credenza che gli ebrei sacrificassero bambini e usassero il loro sangue per celebrare riti magico-religiosi, tutto questo  rappresentò, nel corso dei secoli, una grave minaccia per le comunità ebraiche, poiché, i loro membri  potevano essere accusati  di tale delitto, divenendo vittime di linciaggi, processi sommari ed espulsioni. Queste credenze acquisirono rapidamente un posto centrale nell’immaginario antiebraico cristiano, tanto da poter superare indenne il secolo dei Lumi e restare ancora vitale in quello successivo.

Quando nel 1348 in tutta Europa scoppia una terribile pestilenza: la morte nera, sono gli Ebrei ad essere accusati di avvelenare i pozzi con lo scopo di diffondere la malattia, l’accusa deriva anche dal fatto che essendo segregati e seguendo rigorose norme igieniche, non molto diffuse al tempo, la peste mieteva tra loro un numero minore di vittime.[12]

Fino alla metà del Cinquecento le condizioni degli Ebrei in Italia furono forse migliori di quelle degli Ebrei del resto dell’Europa, ma con la Controriforma le cose cambiano notevolmente: Paolo III con la bolla “Licet ab initio” del 21 luglio 1542 istituisce, su fondamenta preesistenti, la “Sacra Congregazione della romana e universale inquisizione” altrimenti detta “Congregazione del Sant’Uffizio”, con tale provvedimento fu istituita la “Commissario et Inquisitores Generales” composta da sei cardinali per far fronte al diffondersi delle dottrine eterodosse in Italia (Gian Pietro Carafa, Juan Alvarez de Toledo, Pietro Paolo Parisio, Bartolomeo Guidiccioni, Dionisio Laurerio, Tommaso Badia), futura “Congregazione dell’Inquisizione”, fornita di ampia autorità sul controllo delle eresie, dove viene generalizzato l’uso della repressione, anche violenta, come strumento di difesa dell’ortodossia. Il sistema repressivo della vecchia Inquisizione medievale, veniva ora rinnovato su basi amministrative centralizzate, senza possibilità di conciliazione o accomodazione per coloro che avrebbero insistito nei loro diabolici errori. Il 14 gennaio 1542, Paolo III emana la bolla “In apostolici culminis”, che ordinerà di agire con la massima severità nei confronti di coloro che daranno adito al minimo sospetto e sempre nello stesso anno (21 marzo) emanerà un’altra bolla: “Cupientes Iudaeos”, che obbligava gli ebrei alla conversione coatta: consenso o conversione, ma se fossero tornati al giudaismo sarebbero stati perseguiti come eretici. Più tardi, nel 1581, la bolla  “Antiqua Iudeorum improbitas” emanata da papa Gregorio XIII ribadiva la possibilità per gli inquisitori, in casi particolari, di agire anche contro gli ebrei non battezzati, quindi non soggetti all’accusa di apostasia: gli Ebrei saranno costretti a convertirsi oppure verranno relegati nei ghetti: nel primo caso potranno conservare i loro beni.[13]

L’abiura è l’atto di ritrattazione dei propri errori da parte dell’eretico dopo la condanna dell’Inquisizione. La procedura consolidatasi prevedeva tre tipi di abiura: “de levi” o “de vehementi suspicione”, a seconda che la presunzione di eresia fosse leggera o grave, e “de formali” nel caso in cui l’eresia fosse pienamente accertata. Generalmente nel primo caso l’abiura si svolgeva in forma semiprivata, in presenza dell’inquisitore, del notaio e di due testimoni, nel secondo caso in pubblico ( chiesa o piazza pubblica). Nel corso del XVI sec. Si diffuse anche la variante dell’abiura segreta (o privata), simile a quella “de levi” ma con la significativa differenza che non era preceduta da nessun processo. Era concessa in caso di spontanee comparizioni. L’abiura, nel caso del manoscritto cui facciamo riferimento, era concessa sia ai Cristiani che agli Ebrei.[14]

Nel 1555 salì sul soglio pontificio il Cardinale Gian Pietro Carafa, prendendo il nome di Paolo IV e tra le molteplici occupazioni sia di carattere spirituale che politico, quella cui si dedicò maggiormente fu il Sant’Uffizio, attuando cambiamenti e, spesso, prendendo personalmente le decisioni più importanti; ampliò le facoltà d’intervento dell’Inquisizione assegnandogli la competenza sulla bestemmia e sulla simonia, intensificò le pene e comminò la pena capitale nel corso del primo processo per chi confutasse la Trinità, la divinità di Cristo e la verginità della Madonna, più tardi anche per chi celebrasse messa, ascoltasse confessioni, approfittasse dell’eucaristia senza avere ricevuto l’ordine sacro. Paolo IV intervenne anche contro coloro che erano considerati comunemente i nemici di Cristo e rappresentavano una grave minaccia per la società cristiana: gli ebrei. Con la bolla “Cum nimis absurdum” del 1555, di cui parleremo anche più avanti, segregò quelli di Roma in un ghetto e gli altri sparsi nella penisola vennero concentrati in poche città (Bologna, Ancona, Ascoli, Imola, Recanati). Sempre nello stesso anno rivolse il Santo Uffizio contro i marrani provenienti dal Portogallo e residenti ad Ancona, i quali fino a quel tempo avevano goduto di privilegi papali: furono processate molte persone, confiscati beni e messi al rogo 25 di esse.[15]

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Si ebbe, quindi, in questo periodo, una svolta nell’atteggiamento più condiscendente accordato dai papi nel passato, con l’atteggiamento di Paolo IV si esacerbò quello “stato giuridico” fondamentalmente solido e un adeguamento ai rigidi concetti degli Stati monarchici, favorevoli alle restrizioni e alle espulsioni degli ebrei. Dopo una riorganizzazione dell’Inquisizione, si ebbe una repressione sempre più metodica controllata da Roma, che limitava la libertà degli ebrei, dando in tal modo una svolta irreversibile all’attività dell’Inquisizione.[16]

Il successore di Paolo IV fu eletto nel conclave dell’otto gennaio 1566, domenicano piemontese, Pio V, al secolo Michele Ghisleri, proseguì il cammino già intrapreso del suo predecessore e protettore, instaurando una linea ferrea nella repressione del dissenso degli eretici e degli ebrei.  Emanò la bolla “Hebraeorum”, per la quale ordinò l’espulsione dei giudei da tutte le terre dello Stato Pontificio, ad eccezione di Roma ed Ancona, ed accusava gli stessi di deicidio e stregoneria. Sempre Pio V, nel 1570, immette nel Messale romano la preghiera “Oremus et pro perfidis judeis”, preghiera che fu modificata nel 1959 da Giovanni XXIII. Elio Toaff, intitola il suo volume, edito nel 1990, “Perfidi giudei, fratelli maggiori”, riferendosi a due locuzioni usate da due papi in epoche storiche diverse. La prima asserzione fa parte della preghiera sopracitata recitata durante la liturgia del Venerdì Santo dopo la lettura del Vangelo della passione di Gesù, quindi si tratta di una invocazione dei cristiani per la conversione degli ebrei al cristianesimo. La seconda perifrasi fu enunciata da Giovanni Paolo II, dopo la visita alla Sinagoga di Roma, avvenuta il 13 aprile 1986. Le diverse angolazioni, che queste due formule affermano, riassumono il cammino che ha impegnato la Chiesa e il mondo cattolico, per un verso è stata avviata una rivisitazione profonda degli stereotipi antiebraici presenti nella dottrina e nella liturgia cristiane (perfidi giudei), dall’altra parte si è assistito alla nascita di un dialogo interreligioso edificato su presupposti nuovi e fuori dalle dialettiche conversionistiche che al contrario avevano reso sostanziali le prospettive cattoliche sull’ebraismo fino a quel momento (fratelli maggiori).[17] Nel 1581 papa Gregorio XIII con la bolla “Tempore Suo”, riafferma tutte le costituzioni dei suoi predecessori e sempre nello stesso anno, con la bolla “Antiqua Judaeorum” sostiene che la colpa dei padri è ancora più grande nei figli, i quali continuano a perseverare nel loro errore.[18]

Con Sisto V i consistenti cambiamenti di Paolo IV e Pio V subirono un’attenuazione con il breve “Christiana pietas” del 22 ottobre 1586, in cui autorizza gli ebrei a risiedere di nuovo dentro le mura delle città dello Stato, con il permesso di esercitare la professione medica e le attività commerciali, qualche anno più tardi fu concesso loro anche il prestito e di disporre di sinagoghe e cimiteri propri. Lo scopo del Papa non era un atto di tolleranza, ma era principalmente di carattere economico, per poter riscuotere tasse di ingresso, di residenza ed entrate daziarie. Non ci furono cambiamenti fino a quando non fu eletto Clemente VIII: il 17 agosto 1592 il cardinale vicario di Roma emanò un bando che cercava di sospendere le concessioni date e i rapporti che si erano instaurati con i cristiani e il 25 febbraio 1593 lo stesso pontefice emanò la bolla “Caeca et obdurata Hebraeorum perfidia”, in cui veniva stabilito l’obbligo di residenza per gli ebrei nei ghetti di Roma, Ancona e Avignone, ordinando l’espulsione entro tre mesi per coloro che non avessero obbedito. “Fu l’ultimo allontanamento coatto dello Stato pontificio. La condizione degli ebrei restò immutata sul piano della normativa fino all’arrivo delle truppe francesi alla fine del Settecento”.[19]

Nel 1572 papa Gregorio XIII impose agli ebrei romani l’obbligo di assistere settimanalmente, nel giorno di sabato, a prediche che avevano il fine di convertirli alla religione cattolica. Queste prediche “coatte” si tennero nel corso dei secoli , con risultati invero assai modesti, in sedi diverse, tra le quali Sant’Angelo in Pescheria, San Giorgio al Ponte Quattro Capi (oggi San Gregorio della divina Pietà) e nel Tempietto del Carmelo. L’obbligo fu revocato solamente nel 1848 da Pio IX (secondo una antica tradizione, gli ebrei si preparavano all’ascolto tappandosi le orecchie con la cera). Il 6 ottobre 1586, con il motu proprio”Christiana Pietas”, papa Sisto V revocò alcune restrizioni e consentì un piccolo ampliamento del quartiere che raggiunse un’estensione di tre ettari.[20]

Guerre e ribellioni si collocano nel quadro generale della vita economica e sociale caratterizzato dalla lunga depressione che afflisse l’Italia per buona parte del Seicento e nei primi decenni del Settecento. Vere e proprie catastrofi demografiche furono la peste del 1630-31, questi episodi ebbero effetti e ripercussioni più gravi del solito, perché caddero in una congiuntura economica sfavorevole che impedì una rapida ripresa e colpirono una popolazione già fiaccata dalla carestia e dalla fame. La vita politica italiana languiva perciò in ogni suo aspetto, soffocata dalla dominazione politica della Spagna e dalla pesante atmosfera repressiva della Controriforma; solo Venezia e, per la sua posizione ecumenica, lo Stato Pontificio avevano qualche rilievo internazionale.

La situazione andò modificandosi all’inizio del Settecento, quando si allentò la pressione della Spagna e della Chiesa e, sia pure faticosamente, l’Italia cominciò a reinserirsi nelle correnti più vive della cultura e dell’economia europea.

Le nuove idee dall’Inghilterra e dalla Francia si diffusero in tutta Europa; la diffusione avveniva nei ceti aristocratici e intellettuali, ma era pur sempre il primo grande moto di opinione pubblica laica dell’età moderna. Tipica manifestazione di questo clima fu il successo della massoneria, l’associazione segreta dei “liberi muratori” che si richiamava a tradizioni e finalità associative ed etiche di carattere corporativo e che nella sua versione inglese (1717), accoglieva la concezione deistica e, secondo le idee illuministiche, si proponeva di lottare contro l’ignoranza e la superstizione e per la fratellanza universale.

In Italia la cultura illuministica si diffuse in ritardo rispetto agli altri paesi europei a causa del differente contesto storico-culturale della Penisola: l’arretratezza economica, l’immobilità delle istituzioni, l’instabilità politica dovuta alle guerre di successione, l’assenza di una borghesia capace di un consistente ruolo economico-sociale, l’assolutismo delle dinastie regie, la pesante atmosfera controriformistica, il prevalere di una cultura umanistica e storico-erudita su quella scientifica galileiana, producono per lungo tempo una situazione di stasi sociale ed intellettuale. Solo dopo la pace di Aquisgrana (1748), che assicura all’Italia un quarantennio di pace, la situazione generale del Paese comincia a dare segni di risveglio.

Anche il prestigio e l’influenza dello Stato pontificio subirono nel Settecento durissimi colpi, conseguenza del declino della potenza temporale e spirituale del papato e della gerarchia ecclesiastica, violentemente attaccati dai monarchi cattolici nella rivendicazione della loro piena sovranità e dai rappresentanti della nuova cultura, che nell’assolutismo e nel dogmatismo della Chiesa e in molti aspetti del culto cattolico vedevano forme di un passato ormai inconciliabile con i lumi della ragione.

È in questo contesto politico-economico e socio-culturale che Abramo Caivani ed Agnoluccio della Riccia vengono giustiziati: è il 24 novembre 1736, anche se la notizia si era sparsa per Roma già dal martedì 20 dello stesso mese, come sostiene colui che annota in prima persona il fatto minuziosamente e che sembra essere il Provveditore della Confraternita di San Giovanni Decollato, il quale ha seguito e assistito i due condannati fino all’ultimo istante della loro vita. La storia dei due ebrei è nota sia per la pubblicazione della relazione suddetta a cura di S. Foà e A. A. Piattelli, che non si discosta concettualmente da quella giacente presso la Biblioteca Ambrosiana, sia per il film “Confortorio”, del regista cinematografico pisano Paolo Benvenuti.[21] Abramo ed Agnoluccio sono <<condannati a morte per furti qualificati>>, nel caso specifico furto con effrazione, sotto il pontificato di Papa Clemente XII.[22]

Abramo ed Agnoluccio appartengono al ghetto di Roma, il più antico dopo quello di Venezia, fu istituito, come già accennato prima, da Papa Paolo IV il 14 luglio 1555 con la bolla “Cum nimis absurdum”, che pose una serie di limitazioni ai diritti delle comunità ebraiche presenti nello Stato Pontificio. Il ghetto sorse nel rione di Sant’Angelo accanto al teatro di Marcello, fu scelto quel luogo perché la comunità ebraica, che nell’antichità classica viveva nella zona dell’Aventino e, soprattutto in Trastevere, vi dimorava ormai prevalentemente e ne costituiva la maggioranza della popolazione.

È il periodo della Controriforma, la Chiesa ripristina misure drastiche verso gli ebrei, spiegando il perché di questo atteggiamento dovuto essenzialmente al notevole arricchimento di molti ebrei tramite l’usura, all’utilizzo di servitù cristiana. <<Poiché è assurdo e sconveniente che gli ebrei, che sono condannati per propria colpa alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di esser protetti dall’amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo ai cristiani, mostrare tale ingratitudine verso di questi, da rendere loro ingiuria in cambio della misericordia ricevuta, e da pretendere di dominarli invece di servirli come debbano; Noi, avendo appreso che nella nostra alma Urbe e in altre città e paesi e terre sottoposte alla Sacra Romana Chiesa, l’insolenza di questi ebrei è giunta a tal punto che si arrogano non solo di vivere in mezzo ai cristiani, ma anche in prossimità delle chiese senza alcun distinzione nel vestire, e che anzi prendono in affitto case in vie e piazze principali, acquistano e posseggono immobili, assumono balie e donne di casa e altra servitù cristiana, e commettono altri misfatti a vergogna e disprezzo del nome cristiano…>>.[23] La bolla escluse gli ebrei dal possesso di beni immobili, comprese le case del ghetto nelle quali dovevano abitare; impose loro l’obbligo di portare un segno di riconoscimento consistente in un distintivo giallo: un pezzo di stoffa gialla sul cappello per gli uomini e uno scialle dello stesso colore per le donne (glaucis coloris), vietò ai medici ebrei di curare i cristiani, ma soprattutto decretò la costruzione di ghetti, dove gli ebrei dovevano abitare separati dalle abitazioni dei cristiani e questo luogo doveva avere una sola entrata e una sola uscita, delimitati da mura costruite a spese degli ebrei, essi potevano lasciare il ghetto solo durante alcune ore del giorno, poi gli accessi venivano chiusi per mezzo di robuste porte. Inizialmente erano previste nel ghetto due porte che venivano chiuse al tramonto e riaperte all’alba, il numero degli accessi, aumentando l’estensione e la popolazione, fu successivamente ampliato  a tre, a cinque e poi a otto.

In ogni città dove c’era una comunità ebraica, poteva esserci solo una sinagoga, le altre dovevano essere demolite; la bolla proibiva di esercitare il commercio compreso quello dei beni alimentari destinati al sostentamento umano, ad eccezione di quello degli stracci e dei vestiti usati; di redigere i libri contabili e tutto ciò che riguardava gli affari in ebraico, ma dovevano essere esclusivamente in lingua italiana. Il sabato erano costretti ad assistere alle “prediche coatte”, il cui scopo era di convertire gli ebrei al cristianesimo. Papa Paolo IV con l’emanazione della bolla volle apportare una modifica al discutibile rapporto tra la Santa Sede e gli Ebrei, dopo un lungo periodo in cui i papi si barcamenarono tra protezione e persecuzione. La bolla “Cum Nimis absurdum”, oltre alle vessazioni agli ebrei, ebbe un risvolto negativo per l’economia dello Stato Pontificio e per l’Italia, causando la fuga di molti imprenditori ebrei ed operò una profonda modifica al rapporto tra la Santa Sede e gli ebrei, dopo un periodo di “tolleranza” da parte della Chiesa, che cambiò radicalmente la condizione giuridica e sociale degli ebrei. Dal divieto di esercitare qualunque commercio ad eccezione di quello degli stracci e dei vestiti usati (paragrafo 9 della bolla), come già detto, ebbe successivamente origine, in Roma, una tradizionale presenza di ebrei nel campo del commercio dell’abbigliamento e di alcuni dei suoi accessori ed anche la proibizione di possedere beni immobili, contribuì, a partire dagli ebrei dell’epoca, a rivolgersi verso i beni mobili per eccellenza: l’oro e il denaro. Da ciò ebbe origine quella liquidità che fu utile agli stessi papi per ottenere prestiti.

La comunità ebraica presente a Roma, che era la più popolata d’Italia, offrì quarantamila scudi per l’abrogazione di tale bolla, ma invano, perché questi provvedimenti decaddero solo nel 1870 per essere riproposti negli anni Trenta del Novecento. <<Paolo IV diede espressione a tutto il suo livore contro gli ebrei in una bolla destinata a farli precipitare in uno dei più profondi abissi di degradazione che mente umana possa immaginare>>.[24]

Proseguendo nella narrazione della relazione del manoscritto dell’Ambrosiana, veniamo a conoscenza che tutta la città di Roma era al corrente della condanna dei due ebrei: accusati di numerosi furti con scasso, reato per cui la giustizia del tempo prevedeva la pena capitale, infatti Abramo e Agnoluccio vengono condannati alla forca. La notte precedente l’esecuzione, dopo una funzione religiosa svoltasi nell’oratorio di Sant’Orsola, i condannati vengono assistiti fino ad esecuzione avvenuta: <<… per la conversione de’ quali e per la maniera di regolarsi in questo caso particolare che da gran tempo non era succeduto, non solamente io avevo ragunati congressi con alcuni de’ nostri fratelli più scelti e più anziani e ne avevo fatta stendere un’instruzione generale dopo la ragunanza tenuta nel Casino del nostro fratello principe di Forano domino Lorenzo Strozzi sotto il di 11 ottobre passato, ma ancora l’altro fratello signor cardinale Francesco Giovanni Antonio Guadagni, vicario di nostro signore, da se medesimo aveva procurato d’intercedere che per due giorni avanti l’esecuzione della giustizia entrassero nelle carceri Domino Deodato Barcali, nostro fratello et il predicator degl’Ebrei, acciò potesse aver più tempo nel persuadere ai condannati la verità delle massime di nostra fede.[25] Essendogli però stata negata questa grazia, ed avendo io avuta occasione di parlare posteriormente con Monsignor Governatore di Roma, quel che potei ottenere sopra questo particolare fu che dall’Ave Maria delle 24 in là restasse in mio arbitrio di poter ordinare che si desse alle sei la nuova della futura esecuzione della giustizia, senza obbligo di aspettare la mezza notte secondo il solito>>. [26]

Il venerdì 23 novembre, dal Tribunale, arrivò alla Confraternita “l’ordinario bollettino” per mezzo di Nicolò Spezzani, “nostro fratello”, con la comunicazione scritta dal Governo, in cui si ordinava l’esecuzione dei due ebrei il giorno seguente, ossia il sabato mattina, nella piazza di Ponte Sant’Angelo.[27]

Piazza di Ponte Sant’Angelo o più comunemente piazza di Ponte, deriva il suo nome dal vicino ponte Sant’Angelo, in passato era denominata anche “piazza degli Altoviti” per la presenza del palazzo di famiglia di questo casato. La piazza fu creata da papa Niccolò V, dopo il 1450, anno in cui fece restaurare anche il ponte a seguito di una tragedia in cui morirono molti pellegrini venuti a Roma per l’Anno Santo, in tale occasione il pontefice fece costruire delle piccole cappelle votive (1451-1454) sulla riva sinistra a ricordo del tragico evento, poi distrutte durante il Sacco di Roma dai Lanzichenecchi e successivamente fatte demolire da papa Clemente VII, il quale al loro posto fece erigere le statue di San Pietro (opera del Lorenzetti) e di San Paolo (opera di Paolo Taccone). Dal 1488 il ponte e la piazza divennero teatro di esecuzioni capitali. Nella piazza furono fatti dei lavori anche da papa Sisto IV con lo scopo di rendere più agevole l’accesso al ponte Sant’Angelo ai pellegrini che andavano a visitare la basilica di San Pietro. Si narra che questo pontefice, solo due ore dopo la sua elezione procedette alle prime impiccagioni per riportare un poco più di ordine in una città dove la delinquenza e la prepotenza erano diventate una vera e propria piaga. In passato, quindi, la piazza fu famosa non tanto per un importante mercato di pesce che vi si teneva e per la grande affluenza di persone attirate dai venditori ambulanti ed artisti, dai frequentatori delle numerose locande, osterie, taverne, ma per essere stata il luogo dove avvenivano le esecuzioni delle condanne capitali, eseguite, nella maggior parte dei casi, nel cortile del carcere di Tor di Nona. Piazza di Ponte sant’Angelo fu sempre il luogo da cui obbligatoriamente dovevano passare i pellegrini e i visitatori che si recavano nell’area vaticana, quindi un sito molto importante e transitato da un altissimo flusso di persone, ciò giustifica la presenza di un trivio che permetteva l’accesso alla piazza. In mezzo ad essa venivano invece eseguite le condanne esemplari, cioè quelle che, secondo la giustizia dello Stato della Chiesa, dovevano essere di esempio e di monito a tutto il popolo e i corpi dei giustiziati, con la testa staccata dal busto e infilzata su un palo e con le mani mozzate, venivano lasciati alcuni giorni per essere visti dai cittadini, che assistevano a questi spettacoli con partecipazione, commozione e qualche volta anche con divertimento. I padri accompagnavano i figli ad assistere a questi spettacoli a scopo educativo.[28]

Appena ricevuto, dal Tribunale, il mandato della condanna, continua il racconto del Provveditore, vennero chiamati i sacrestani e il cavaliere abate Achille Albergotti,[29] uno dei sacrestani ebbe l’incarico di accompagnare, in carrozza, alle carceri le persone preposte per la conversione dei condannati, mentre gli altri ebbero il compito di avvisare i “confortatori di numero”, oltre all’Arcivescovo Gamberucci,[30] Monsignor Amadori già Lami,[31] il Canonico Giovanni Andrea Ricci[32] e il signor Deodato Barcali “confortatori extra numerum”,[33] perché tutti si trovassero, a mezzanotte, all’oratorio di Sant’Orsola <<col padre governatore abbate Domenico Martelli, il quale e per esser questo caso straordinario e perche secondo la sudetta instruzione, dovevano li due ebrei star separati, fors’egli di aiuto con me e con la persona di uno di detti ebrei sostenere le veci di provveditore>>.[34] I Confortatori convenuti erano numerosi, proprio perché i due condannati dovevano essere separati l’uno dall’altro; arrivati all’oratorio, recitarono le consuete preghiere, si vestirono adeguatamente e muniti di grosse lanterne si avviarono al carcere, dove arrivarono circa un’ora dopo: <<Quindi nel tempo si vestivammo de’ nostri sacchi, giunsero il padre Teuli dominicano di santa Sabina e suo padre compagno predicatore degl’ebrei e tutti uniti assistemmo non solo alla benedizione dell’ Acqua Santa fatta dal nostro capellano con cotta e stola, ma ancora alla benedizione che si fece tanto della nostra capella e stanza contigua, com’e’ il solito, quanto della stanza che si chiama dell’ A.C. [35]e dell’ altra stanza precedente a quella de’ tormenti, le quali due ultime ci erano state fatte consegnare da monsignor Governatore di Roma, avendolo io preventivamente pregato com’era nell’instruzione, affinché gli ebrei potessero star separati>>.[36]

La Compagnia dei “Battuti” o dei “Neri”nacque a Firenze nel 1355, dopo più di un secolo esercitò anche a Roma la pratica dell’assistenza ai condannati a morte, anche se in questa città esistevano già diverse confraternite laiche che si dedicavano alla sepoltura dei morti, ma solo a quella dei propri membri. L’associazione clericale che svolgeva assistenza e organizzazione funeraria era la “Romana fraternitas” ostile verso le confraternite laiche, ostilità che portò papa Gregorio IX, nel 1237, ad emanare una normativa dove veniva proibito la formazione di associazioni laiche per quel tipo di attività. Ma nonostante il divieto le confraternite della Misericordia, specialmente a Firenze, continuarono ad assistere i malati e a dare ai morti la sepoltura. Durante l’epidemia di peste del 1448,[37] alcuni Fiorentini, che si erano trasferiti a Roma, avevano fondato la “Compagnia della Pietà”, che oltre ad attività benefiche, assistevano gli ammalati e seppellivano i cadaveri abbandonati e visto lo stato d’incuria spirituale e temporale in cui erano lasciati i condannati alla pena capitale nella città eterna, essi diedero vita alla “Confraternita di San Giovanni Decollato”, e, nell’ultimo decennio del Quattrocento, vi costruirono una chiesa con accanto un oratorio, dove i confratelli si riunivano in preghiera.[38] La bolla di Innocenzo III, del 15 febbraio 1490, sancì l’istituzione della Confraternita sotto la protezione di San Giovanni Battista, patrono di Firenze, la cui sede era presso la chiesa di Santa Maria della Fossa, sotto il Campidoglio. Dal 1542, il Tribunale del Santo Uffizio impose il problema della salvezza delle anime dei condannati, quindi la Confraternita non si limitò più al sodalizio, ma si legò ad una funzione fondamentale dello Stato, seguendo il percorso dall’organizzazione dei tribunali di “ancien regime” fino alle condanne di quelli ottocenteschi. Seppellire i condannati, dopo avere ricomposto i loro corpi dilaniati dalla giustizia papale, era anche un modo di toglierli dalla vista della comune sensibilità come esempi minacciosi per il popolo: i cadaveri venivano lasciati per diverso tempo nel luogo dell’esecuzione come ammonimento deterrente, in particolar modo l’esecuzione di persone non pentite rappresentava l’emblema del conflitto con la giustizia e la società. Dopo il Concilio di Trento, la Compagnia assunse un ruolo completamente diverso da quello delle confraternite preconcilio: non si trattava più di esortare il condannato ad una morte cristiana, ma di un dialogo “ad personam” per la salvezza dell’anima, una grande responsabilità pilotata da un gruppo ristretto, i cui affiliati dovevano essere approvati dall’istruttoria dei maestri dei novizi e ammessi tenendo conto della fama del candidato, che non doveva assolutamente far parte di altre confraternite e associazioni. L’assistenza al condannato era un grande merito anche per i confortatori, i quali, nel pentimento e nella confessione di questi miserabili, trovavano il luogo di salvezza della loro anima: “Beati misericordes quoniam ipsi misericordiam consequentur”. Altro obiettivo importante per i confortatori era il riconoscimento, da parte del condannato, della condanna ricevuta, così l’esecuzione della sentenza veniva posta come un modo per liberare il condannato dai dolori che avrebbe patito per il peccato commesso, insomma il morituro doveva essere predisposto a riconoscere di avere meritato la morte. I confortatori avevano la facoltà di usare mezzi forti per convincere i condannati alla salvezza delle loro anime; tutto ciò avveniva, in genere, nella cappella del carcere di Tor di Nona, ma dopo la metà del XVII secolo, nelle Carceri Nuove di via Giulia, poco distanti dall’oratorio di Sant’Orsola, dove i confortatori venivano designati e si preparavano alla conforteria, quindi si recavano al carcere, vestiti del sacco nero e del cappuccio, restituivano al capitano il mandato del tribunale e cominciavano a cercare di  persuadere il condannato, il quale poteva lasciare il suo testamento che i confortatori aiutavano nella stesura: dei lasciti poteva beneficiare, oltre che i parenti, anche la Confraternita, facoltà già concessa con la bolla di Innocenzo VIII “sine preiudicio fisci”. All’alba iniziava la processione che dal carcere portava il condannato, su di un carro o a piedi, sul luogo del patibolo, seguito dai confortatori, che lo lasciavano solo per consegnarlo al boia e riprenderlo ad esecuzione avvenuta e dopo che il corpo era rimasto visibile al popolo sul patibolo, aveva quindi luogo la sepoltura quando non veniva consegnato alla Sapienza per gli studi di anatomia. Durante il corso dei secoli lo statuto della Confraternita fu riformato più volte e secondo quello relativo al Settecento, la struttura di questa associazione era formata da un governatore, che era la prima autorità, due consiglieri, un provveditore, un camerlengo, un segretario, otto confortatori, tre maestri dei novizi, quattro infermieri, due operai, un maestro delle cerimonie, un computista, un esattore e un servo. Potevano essere ammesse anche le donne, perché, secondo i confratelli, le loro preghiere erano molto efficaci presso Dio, ma la loro funzione era esterna all’attività istituzionale, poiché consisteva, sostanzialmente, nella preghiera.[39]

Questi confortatori legittimati spesso avevano comportamenti prestabiliti ed esaltati, che non sfuggivano alla critica del popolo, Giuseppe Gioachino Belli, con la sua sarcastica poesia, dedicò loro il seguente sonetto:

Er confortatore

Sta notte a mmezza notte er carcerato

Sente uprir er chiavistello de le porte,

e ffasse avanti un zervo de Pilato

a ddije: “Er fischio te condanna a mmorte”.

Poi tra ddu’ torce de sego incerato,

co ddu’ guardiani e ddu’ bbracchi de corte,

entra un confortatore ammascherato,[40]

coll’occhi lustri e cco le guance storte.[41]

Te l’abbraccica ar collo a l’improvviso,

strillanno: “Alegri, fijo mio:riduna

le forze pe vvolà ssu in paradiso”.

“Che alegri, cazzo! Alegri la luna!”

Quello arisponne: “Pozziate èsse acciso;

pijatela pe vvoi tanta fortuna”.

Roma, 13 settembre 1830

Dopo la benedizione si riunirono tutti i presenti e decisero di non parlare inizialmente di religione, specialmente della loro fede religiosa con i condannati, ma di portare loro conforto per poter affrontare la pena capitale. Ritornati nella cappella dell’oratorio, i Confortatori recitarono le consuete preghiere alle quali fu aggiunta l’orazione “Pro perfidis Iudeis”, << Nell’istesso tempo io copiai il mandato della condanna a morte per furti qualificati>>.[42]

Al Canonico Giovanni Andrea Ricci insieme a Deodato Barcali fu affidato il compito di convertire al Cristianesimo Abramo, a Monsignor Amadori già Lami e all’Avvocato Giacomo Lavajani quello di convertire Agnoluccio. <<Mi astenni però di consegnare a loro le nostre divote tavolette, riserbandomi a fare questo ogni volta che Iddio avesse convertito gl’increduli>>.[43]

Alle due di notte Abramo incontrò per la prima volta i Confortatori in una stanza del carcere e cominciò a piangere disperatamente, dicendo che non aveva ucciso nessuno e che la pena capitale gli sembrava immeritata, ma se doveva morire <<… morir voleva nella sua religione e morire in grazia del suo Dio d’Isdraele, Abramo, Isac e Giacob>>.[44] I due Confortatori, visti gli accordi precedenti, non vollero entrare in argomenti riguardanti la religione, anche se Abramo ripeteva continuamente di voler morire in grazia del suo Dio d’Israele. Chiese dove sarebbe stato sepolto ed espresse il desiderio di vedere i suoi parenti, ma gli fu risposto che non conoscevano il luogo della sepoltura e che non era loro facoltà accordargli visite, allora piangendo chiese di poter essere assistito nella sua religione da un tale chiamato Zacchia. Poco dopo fu fatto entrare il Padre predicatore degli Ebrei, col quale fu lasciato solo per circa un’ora: << Agl’argomenti del Padre Predicatore e de Confortatori sopra la venuta del Messia, profetizzata fra gl’altri da Zacchia, rispose che non lo credeva venuto ed alla profezia sudetta non poter rispondere per non aver studiato, ma che in sostanza voleva morire giudeo e morire senza battesimo, bastandogli di avere a dosso la circoncisione>>.[45] Abramo cominciò a pregare <<…recitò varie sue preghiere>> e non ascoltò più i Confortatori che insistettero tutta la notte affinché si convertisse al Cristianesimo, <<… dicendo ch’egl’era innocente e che chi aveva fatto il male era fuggito>>.[46]

Per non avere rimorsi di coscienza, il Provveditore pensò che fosse opportuno >>…a conversione di questi perfidi, avendo io avuta una nota di Rabini battezzati, mandatami dal nostro fratello conte Gaetano Zati, feci che il sagrestano Cicciaporci conducesse in carrozza il signor Giovanni Antonio Costanzi neofito e già Rabino, il quale giunto alle sette e un quarto, si trattenne per mezz’ora con esso>>.[47] Ma anche il tentativo dell’ex rabbino convertitosi al Cristianesimo e che, per esperienza, aveva, senza dubbio, dovuto sostenere una grande battaglia interiore prima di fare la sua scelta, risultò vano, <<…ei volle persistere e camminare nelle sue tenebre>>.[48]

Il tentativo di convinzione proseguì fino alle nove, quando Abramo cominciò a parlare di cose che non riguardavano la religione: disse di avere venticinque anni, un padre, due fratelli minori ed altri parenti, che desiderava lasciare gli orecchini che portava a sua madre e che lasciava libera di potersi sposare, dopo la sua morte, con chi avesse voluto Brunetta Spizzichini, sua promessa sposa, augurandole buona fortuna.<<Desiderava ancora che Isac, suo padre e Samuelle, suo zio vadino da Loretta Cristiana, la quale abita sotto l’Arco de Censi e si facino dare un abito nuovo di stamigna nero e un fagotto di velluto rossino e che portino detto velluto a Francesco Legnini, il quale li darà scudi quattro, soggiungendo che la medesima donna aveva in mano di suo un ferrajolo di panno pavonazzo, un redingot color d’uliva, un paja di puntine da scarpe e quattro bottoni d’argento sodo, una camicia di tela d’Olanda e un corpetto a due petti di flanella bianca e finalmente una camisola a due petti di panno turchino e tutta la sua roba desiderava fosse data alli suoi due fratelli minori.>>.[49]

In tal modo Abramo lascia dette le sue ultime volontà, un testamento orale, che non sappiamo se fu mai rispettato. Dalle nove alle dieci il Padre Predicatore raddoppiò le sue fatiche per la salvezza di quell’anima, ma ancora una volta tutto fu vano. Nel frattempo era arrivato al carcere Padre Pietro Maria, Procuratore generale dei Cappuccini accompagnato da un altro religioso e da tale Filippo Fabi, quest’ultimo chiamato dal Procuratore precedentemente per <<assisterci in diverse occasioni ed occorrenze di quella notte>>.[50] Alla vista di queste persone, la reazione di Abramo fu quanto mai violenta: << l’ebreo che stava sedendosi s’alzò infuriato in aria di spavento come fanno gl’ossessi nel vedere o toccare le cose sacre. Faticava il religioso in persuaderlo di entrare nell’ovile di Santa Chiesa, ma vedendosi egli stretto cominciò a dir mille spropositi e parlare con più ardire e pertinenza che non aveva fatto di prima e giunse sino ad esprimere molte proposizioni temerarie, talmente che vedendo per tre quarti d’ora il religioso non allontanarsi da lui, si mise a passeggiare sino alle ore 11 senza esser abbandonato dal medesimo>>.[51] Fino a quando arrivò il Padre Carmelitano Francesco Tizzoni, ebreo poi convertitosi al Cristianesimo,[52] il quale era stato accompagnato in carrozza dal convento di San Grisogono al carcere dal sacrestano Achille Albergotti. Padre Tizzoni, bensì conoscesse la lingua ebraica, vane furono anche le sue parole, cosicché dalle ore dodici alle tredici intervenne anche Padre Piccolomini, Rettore del Collegio Germanico Gesuita,[53] il quale trovò Abramo sempre più ostinato a voler morire nella sua religione, poiché sosteneva che solo restando fedele al suo credo sarebbe andato in Paradiso, <<…si mise nuovamente ad orare nella sua lingua, con pianto ed apparente fervore, mescolando le preci sacre con le profane, sin tanto che giunse le 13 e nel veder aprir la finestra si alzò in piedi mostrando di orare verso il lume del giorno secondo l’uso giudaico>>.[54]

In modo parallelo, si svolge la vicenda di Agnoluccio: non da meno fu l’insistenza con quest’ultimo, il quale alle due e mezza fu portato nella stanza “precedente a quella de’ tormenti”, assistito dai Confortatori, che ascoltò con molta pazienza per circa mezz’ora, poi chiese di poter conferire con Monsignor Gamberucci: << Prendemmo una pochetta di speranza nell’ udire che giusto egli ricercò del sudetto prelato, in casa di cui era solito di praticare. Fu pertanto esaudito col presentargli innanzi il suo Arcivescovo Gamberucci, nel veder il quale s’alzò dalla sedia ov’ei riposava in atto di abbracciare il Prelato e diede in un dirottissimo pianto, dicendogli che moriva innocente e che essendo condannato per furti, Monsignor stesso poteva essergli testimonio che in tanto tempo di pratica in sua casa non gli era mai mancato cos’alcuna>>.[55] Il prelato, dopo avere rassicurato Agnoluccio del comportamento corretto nella sua casa, cominciò a parlare di religione e conversione, ma l’Ebreo fu irremovibile e disse al Monsignore: <<Comandatemi altro che in questo non vi posso servire, volendo io morire nel seno d’Abramo>>.[56] Dopo le tre entrarono nella stanza altre persone, sempre per lo stesso scopo, ma la sua risposta fu sempre la stessa: << Lasciatemi stare, voglio morire in grazia di Giacob e Isac, non voglio sentir prediche, insomma sono nato ebreo, voglio morire nella mia (185) Legge secondo Abramo,Isac e Giacob>>.[57]

Al clero e ai laici riuniti nel carcere per i due Ebrei non restò che pregare fervidamente per il miracolo della conversione, ma se lo spirito è debole, il corpo lo è ancora di più, infatti il Procuratore, <<… facendo riflessione che bisognava in qualunque maniera ristorarsi per poter reggere a tutto l’ incomodo dell’ intera notte, ordinai una civil e pulita, ma parca e modesta refezione di freddi cibi magri, che dalle ore 5 alle 6 stette preparata in un’altra stanza discosta, affinché ognuno a vicenda potesse refocillarsi senza intermettere l’importante affare e spirituale impresa per la quale eramo ivi adunati>>.[58]

I due Confortatori e Monsignor Gamberucci tornarono da Angelo dopo le sei, l’Ebreo chiese perdono al Prelato se non lo avesse servito bene nel tempo che era stato a lavorare nella sua casa <<…e fece altri simili atti, quali se fossero stati animati dalla vera religione, si poteva giudicare essere atti di buona morale…>>.[59] Tutto questo andò avanti fino alle ore otto, ma i tentativi per convertirlo al Cristianesimo furono vani, quindi fu ritenuto opportuno passare ad argomenti temporali ed interrogato dal Procuratore in persona, rispose di essere Agnoluccio della Riccia, di anni 36, di avere la madre chiamata “Pasiensa” e la moglie “Rachel”, sostenne di avere depositato presso la Curia del Vicario, tramite il Procuratore Rocco Ercolani <<… un pagherò di scudi 80, ridotto a soli scudi 46, per trovar il quale Rocco si incorra ad un certo Sabbato Ebreo, Procuratore in Ghetto, desiderando che in conto di restituzione di dote di sua moglie si consegni il medesimo pagherò a Giuseppe del Borgo, cugino di detta sua moglie ed in conto di detta restituzione volle che andasse un altro pagherò di scudi 20, fatto a favore del quondam Giuseppe Terracino e rimasto in una cassetta del canterano di sua casa e del tutto si faccia consapevole Pasiensa e sua moglie Rachel. Un ferrajolo ed un sciugatore ricuperandosi dalle mani de’ guardiani vuole che lo abbia Salomone Isac di Segni; due para calzoni che stanno in casa di Loreta, figlia di Mastro Paolo Presciatore si restituaiscano al figlio di Asdrubal Veneziano, in mano della qual donna stanno ancora diversi bollettini del Monte, spettanti a detto Asdrubal, quali vuole che si dividano tra la madre e la moglie in conto di dote, bramando non siano picche fra di loro. Soggiunse in fine di tenere più e diversi crediti, quali tutti rimetteva ai debitori, siccome rimetteva le ingiurie a coloro che accusandolo erano stati occasione di questa sua morte>>.[60] A queste parole il Padre Predicatore gli chiese perché se con tanta lucidità rimetteva le ingiurie a chi lo aveva offeso, condonava i crediti ai suoi debitori, si preoccupava che tra la madre e la moglie non ci fossero litigi, come poteva non avere la razionalità per capire che la vera fede era quella Cristiana? Insistendo su vari passi del Vecchio Testamento per conferire maggiore veridicità alle sue parole: <<come può essere che non abbiate gl’occhi dell’ intelletto aperti alle predizioni de’ vostri stessi Profeti, le quali sono appieno verificate nella venuta del nostro Christo?>>,[61] Agnoluccio rispose che non voleva cambiare Cristo, il Predicatore insistette dicendo che non era un Cristo diverso, ma il medesimo che era già venuto e che non doveva venire come falsamente credevano loro Ebrei, lo consigliò di pregare Dio per illuminarlo e fargli capire quali delle Leggi era quella giusta: l’ebraica o la cristiana. Nel frattempo entrò nella stanza il signor                                     Giovanni Costanzo (laico), anche lui per fare atto di convinzione, ma alle prime parole che questi pronunciò, Agnoluccio dette in escandescenze, poi quando si fu calmato un poco rispose: << Che cosa vuole? Io ho già stabilito di morire Ebreo>>.[62]

Verso le nove fu fatto rientrare Monsignor Gamberucci, ma anche questa volta l’esito fu negativo e sia con il Padre Carmelitano sia con Padre Generale dei Cappuccini si mostrò prima inquieto, infastidito, poi taciturno, infine disattento e disinteressato, addirittura sembrava addormentarsi. Per non avere rimorsi di coscienza, il Procuratore fece cercare <<… un certo signor Giacomo Cavallo Neofito, dei costumi e dottrina del quale mi aveva informato il signor Cardinal Corradini, in occasione ch’ io pensando al felice evento che costoro si potessero convertire, dovendoli vestire da neofiti, credei ben fatto partecipare il tutto a detto porporato, il quale non solo offerì tutta la sua assistenza, gentilmente rendendo grazie alla nostra compagnia, ma ci diè ancora notizia del detto Cavallo, quale per altro era gran tempo che dimorava a Napoli e per ciò in questa notte non fu ritrovato>>.[63]

Intanto stava spuntando l’alba del giorno stabilito per l’esecuzione e il Procuratore ordinò che si cominciassero a celebrare “i santi sacrificij”, senza però lasciare soli i due condannati, furono celebrate due messe e tutti i presenti pregarono con fervore per la conversione dei due Ebrei, senza però dire messa per loro, come invece erano soliti celebrare per coloro che condannati muoiono “nel grenbo di Santa Madre Chiesa”.

Intorno alle quindici arrivò al carcere, senza essere chiamato, Francesco Ferretti, già Rabino di Ancona, ma convertito poi al Cristianesimo, il quale, con il permesso del Procuratore, fu fatto entrare nella stanza di Abramo e in quella di Angnoluccio e con argomenti validi, con l’esempio di se stesso, esortandoli e scongiurandoli, mettendosi addirittura in ginocchio davanti ad ognuno di loro, cercò di far atto di convinzione affinché i due condannati ricevessero il battesimo, ma i due reagirono allo stesso modo: non potendo turasi le orecchie con le dita, perché avevano le mani legate, voltando le spalle allontanandosi da Ferretti per non sentire ciò che diceva. <<Costoro però o non rispondevano, o andavano qualche volta sputando e crollando la testa, del che accortisi li Confortatori dissero a medemi che andavano tutti in Capella a pregare Iddio per la loro conversione. Agnoluccio non rispondeva, ma Abramo, correndoci appresso nel partire da lui dicevaci: “Non voglio, non voglio, non pregate per me, non ne voglio saper niente”>>.[64]

Il Procuratore, vedendo approssimarsi le diciassette, non poteva non dar corso alla giustizia a causa dell’ostinazione dei due Ebrei, quindi dette ordine di avvisare la Compagnia di far celebrare la messa nell’oratorio di Sant’Orsola <<… non la solita messa per gl’agonizzanti, ma la corrente, celebrata la quale furono recitate le litanie della Beatissima Vergine, non con l’ora pro eis, ma con l’ora pro nobis. Non mancai però io di fare gl’ultimi sforzi, ordinando che s’introducesse il carnefice e l’ aiutante alla presenza de’ condannati, a quali dissero che li avrebbero e lentamente e con strapazzo fatti morire se non si fossero convertiti, ma a queste cose benché dette separatamente e all’ uno ed all’ altro, fu d’ambedue risposto nello stesso modo, cioè : “Fa quello che vuoi, voglio morire ebreo e se mi strapazzerai ne dovrai render conto a Dio”>>.[65]

Segue la relazione, sempre molto particolareggiata, degli ultimi istanti prima dell’esecuzione che riporteremo interamente trascritta dal manoscritto, poiché descrivendola con altre parole perderebbe sicuramente la propria efficacia: <<Era in questo tempo la Compagnia per strada venendo col Christo inalberato con le due torcie e non facendo orazione in pubblico, ma ciascuno tacitamente dentro se stesso, che però essendo stato avvisato che stava ferma al cantone di Santa Lucia del Confalone, diedi ordine che si calassero li rei, i quali ad uno per volta montarono sulle carrette che li aspettavano assieme con due Confortatori per ciascheduno, che sotto al braccio portavano le Tavolette. Arrivata a Ponte, la nostra Compagnia trovò la Conforteria divisa da un telone nero in due parti e collocata l’immagine del Crocefisso nella parte interna dov’era l’altare e dove stava preparato tutto ciò ch’era necessario per il Battesimo e Cresima in caso di conversione, il tutto portato dalla Capella delle carceri per mano del nostro sagrestano; nella parte esterna furono trattenuti i condannati per fare le ultime prove, le quali tentate e ritentate, rispose Abramo: “Perdete tempo, andiamo”. Per la qual cosa legato dal carnefice, andando francamente al patibolo con faccia avanti era seguitato dal Confortatore Canonico Giovanni Andrea Ricci e dai due sagrestani unitamente meco che ai piedi delle scale ci mettemmo a pregarlo in ginocchioni, acciò in quel momento di tempo lasciasse il giudaismo, ma persistendo nella sua ostinazione fu tratto sopra le Forche accompagnato dal Confortatore, che replicò alcune volte brevi ed efficaci parole, alle quali non ebbe altro che : “No, no” , onde abbandonato, lo lasciò in mano del carnefice miseramente morire.

Si raddoppiorono le premurose instanze e preghiere con Agnoluccio, che dalla porta della Confortaria fu fatto specchiare nel giustiziato compagno, ma anch’ esso volle seguitare le pedate dell’ altro, dicendo: “Voglio andare in Paradiso”, per lo che accompagnato da Monsignor Amadori già Lami, sagrestani e me Provveditore e provato con le medeme esortazioni, si ostinò nella sua pertinacia e dopo aver guardato fissamente il cadavere dell’ altro perduto ebreo, fu dal boia strozzato.

Dei cadaveri si prese cura il carnefice d’ordine del Governo e dal quale la domenica immediatamente seguente, sigillati in una sacoccia, mi furono mandati li Capestri per farli abbrucciare a suo tempo.

E così quantunque tutt’i fratelli ed altre persone sudette abbino lodevolmente faticato a onore e gloria di Dio, della Santissima Vergine e del glorioso nostro Protettore San Giovanni Battista, non di meno ebbe infelice fine l’ esecuzione di questa giustizia>>.[66]

Quel sabato 24 novembre 1736 gli abitanti di Roma si trovarono davanti ad un vero e proprio spettacolo, perché l’esecuzione capitale, non solo a Roma, rappresentava una grande manifestazione, cui gli spettatori accorrevano numerosi: assistevano al rituale della preparazione del condannato fino all’esecuzione con grande bramosia, curiosità ed anche a scopi educativi, come già accennato prima, e due esecuzioni nello stesso giorno erano veramente uno spettacolo unico o perlomeno non usuale. Il condannato, preparato psicologicamente dai confortatori, affrontava con consapevolezza il momento dell’esecuzione, la morte diveniva la grande protagonista di una rappresentazione da non perdere, che si concludeva con la processione, la sera tardi, che accompagnava il cadavere fino alla chiesa di San Giovanni Decollato, dove veniva sepolto nella fossa comune.

Generalmente i “Confortatori” avevano a loro disposizione dodici ore di tempo per esplicare il loro ufficio, ma, nel presente caso, trattandosi di due Ebrei e di un << caso particolare che da gran tempo non era succeduto…>> avevano ottenuto dalle autorità competenti una proroga di sei ore, quindi avevano diciotto ore per convincere i due condannati ad abiurare la  loro religione per abbracciare quella cristiana . Non per analogia, perché i casi sono molto diversi, ma non possiamo fare a meno di rievocare la figura di Manfredi, figlio naturale poi legittimato di Federico II e nipote di Costanza d’Altavilla, descritta da Dante nella “Divina Commedia, terzo canto del Purgatorio (vv.112/145), il quale morì scomunicato e le sue ossa vennero rimosse dal cumulo dei sassi presso il ponte di Benevento, in ottemperanza alle norme vigenti nei confronti degli scomunicati. Manfredi, tuttavia, si trova tratto in salvo per l’eternità per essersi pentito dei suoi peccati in punto di morte. Il ruolo dei confortatori è quello di ingaggiare una lotta contro i demoni, che si vogliono impadronire dell’anima del condannato che non vuole convertirsi e che considerano già di loro proprietà, le preghiere dei confortatori si fondono con quelle della folla e le suppliche sono rivolte in particolar modo alla Madonna, e, ancora una volta, la scena ci rievoca la Divina Commedia, quando Buonconte da Montefeltro narra la propria vicenda, svelando perché il suo corpo non fu mai trovato sul luogo della battaglia di Campaldino: dice che da quella battaglia si allontanò ferito alla gola e giunto nei pressi della confluenza del torrente Archiano nell’Arno, cadde morto invocando il nome di Maria. Un angelo scese dal cielo a portare via la sua anima, sottraendola al Diavolo, che gridando di rabbia fece scempio del corpo di Buonconte.[67]

I “Confortatori” intensificano la loro impresa per vincere la resistenza dei due Ebrei che rifiutano la conversione e sperano non solo che accettino di ricevere gli ultimi sacramenti, ma che la pena della morte sia frutto della volontà divina, in tal modo la folla accorsa assisterebbe ad un esempio altamente edificante, in quanto modello di morte cristiana.  Il giudizio umano si è arrogato il diritto di interferire col volere imperscrutabile di Dio e l’uomo, tanto più l’uomo di chiesa, appare gretto, quando misura con la bilancia i comportamenti terreni, dimostrando di saper cogliere solo il Dio giusto, perdendo invece di vista il Dio buono. Anche se esercitata con scopi benefici, l’oppressione dello spirito non è meno violenta di quella del corpo. L’incomunicabilità tra gli uomini diventa assoluta quando ciascuno di essi si rivolge nella preghiera al proprio Dio, credendolo diverso da quello degli altri: si fronteggiano senza riuscire a stabilire un punto di contatto.

_Note:_____________________________________________________________________________

[1] Cfr. Nostra Aetate, 1965. Questa dichiarazione è piuttosto breve ed è composta di cinque punti: 1 Introduzione; 2 Il riconoscimento del senso religioso nella vita di ciascun essere umano; 3 La stima verso gli Islamici; 4 Il vincolo che lega il Cristianesimo e l’Ebraismo; 5 Il principio di fratellanza e dell’amore universale. La sezione dedicata alla religione ebraica consta di quattro punti da cui abbiamo rilevato quanto scritto nel testo. La dichiarazione si conclude chiedendo che tutti gli uomini si riconoscano come fratelli e con la condanna di “qualsiasi discriminazione tra gli uomini o persecuzione perpetrata per motivi di razza e di colore, di condizione sociale o di religione”.

[2] Nostra Aetate, 1965

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990.

[6]  Cfr. Codice Teodosiano, XVI, 1, 2 (27 febbraio 380 emesso dagli imperatori Graziano, Teodosio I e Valentiniano II. Il decreto dichiara il credo niceno religione ufficiale dell’Impero, proibisce innanzitutto l’arianesimo e in secondo luogo anche i culti pagani. Per combattere l’eresia si impone a tutti i cristiani la confessione di fede aderente alle deliberazioni del Concilio di Nicea. Il testo venne preparato dalla cancelleria di Teodosio I e poi venne inserito nel codice Teodosiano da Teodosio II. La nuova legge riconosceva alle due sedi episcopali di Roma e Alessandria d’Egitto il primato in materia di teologia.

[7] Giovanni Crisostomo, Adversus Judaeos, Omelia I,3 Le omelie contro gli Ebrei sono otto e risalgono agli anni 386-387, tali omelie furono utilizzate nei secoli successivi come pretesto per le persecuzioni contro gli Ebrei, soprattutto dai nazisti tedeschi nel tentativo di legittimare l’Olocausto. Molto celebri le frasi di san Girolamo e di sant’Ambrogio, come, del resto, quelle di altri santi di questo periodo, in cui furono numerosi i trattati contro gli Ebrei.

[8] Cfr. San Carlo e il suo tempo, Atti del Convegno Internazionale nel IV centenario della morte, (Milano, 21-26 maggio 1984) Edizioni di Storia e Letteratura,vv. 1-2. Questi citati sono solo pochi esempi tra i più significativi di persecuzioni contro gli ebrei da parte della Chiesa, non essendo questo articolo il contesto più adatto.

[9] Jean Leclercq, Pietro il Venerabile, Jaca Book, Milano 1992, p. 180 e segg.

[10] Già il califfo Omar, nel VII secolo, aveva ordinato che tutti coloro che non erano mussulmani, quindi anche gli ebrei e i cristiani, viventi nei paesi arabi, portassero un pezzo di stoffa gialla cucita sul petto o sulla schiena. Ora anche papa Innocenzo III, dopo molti tentativi inutili di convertire gli ebrei, impose questo contrassegno, che per le donne era un velo giallo, contrassegno delle meretrici. L’Inghilterra fu il primo paese cristiano che impose il segno giudaico, mentre in Italia questa disposizione fu adottata in tempi diversi secondo i vari Stati: Venezia fu il primo che aderì a tale disposizione e il pezzo di stoffa gialla fu sostituito con un cappello dello stesso colore. Cfr. Breve storia degli ebrei d’Italia –Morasha, www.morasha.it/ebrei_ italia 02. html, consultato il 24 giugno 2015. Il volume è pubblicato nel 1961 dall’Histadruth Hamorim (Associazione insegnanti Ebrei d’Italia, Milano) a seguito di un seminario organizzato nel 1959 a Vigo di Cadore.

7 Cfr. C. Nitoglia, a cura di, Bolle pontificie sul giudaismo: sette secoli di costante e ininterrotto magitero, Effepi, Genova 2011.

[12] Ibidem

[13] Cfr. C. Nitoglia, a cura di, Bolle pontificie,cit.

[14] Cfr. Biblioteca Ambrosiana (da ora in poi B.A.), Trotti 451, c 1 v. e segg.

[15] Cfr. A. Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Mondadori 2006, p. 398.

[16] Cfr. A. Del Col, L’Inquisizione in Italia… cit., p. 224 e segg.

[17] Cfr. E. Toaff, Perfidi Giudei Fratelli maggiori, Arnoldo Mondadori, Milano 1990. Cfr. anche E. Mazzini, Perfidi giudei o fratelli maggiori? La ricezione della Declaratio Nostra Aetate nella stampa cattolica italiana(1965-1974), in Laboratoire Italien, Politique et Societé, Online 2012. Elio Toaf, rabbino di Livorno, si trasferì a Roma nel 1951 dove divenne rabbino capo, fino al 2001, anno in cui lasciò l’incarico e assunse il titolo di rabbino capo emerito. Storico è l’incontro con Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986 nella Sinagoga di Roma; fu un gesto dirompente: per la prima volta un pontefice veniva ospitato in un Tempio ebraico. L’incontro scaturì anche dalla volontà di Toaff di favorire il dialogo tra religioni diverse, ma soprattutto tra quella cristiana e quella ebraica.

[18] Cfr. C. Nitoglia, a cura di, Bolle pontificie,cit.

[19] A. Del Col, L’Inquisizione… cit., pp 523-524

[20] Cfr. C. Benocci, Il Rione di S. Angelo, Roma, Edizioni Rari Nantes, 1980; A. Berliner, Storia degli ebrei di Roma. Dall’antichità allo smantellamento del ghetto, Milano, Bompiani, 2000.

 

[21] Il film di Paolo Benvenuti è stato presentato al festival di Locarno del 1992 e pellicola non è stata distribuita al cinema, ma è passata in televisione sui canali RAI e satellitari, non esiste in versione VHS o DVD. Cfr. anche “Anonimo Religioso”, Giustizia degl’Ebrei seguita nel sabbato 24 novembre 1736, introduzione di S. Foà, postfazione di P. Modigliani, Carucci, Roma 1987. S. Foà a cura di, Le “Croniche” della famiglia Citone… cit.

[22] Cfr. B.A.., Ms. P 178 sup., p. 177 e segg. Il manoscritto comprende 28 titoli: si tratta di trascrizioni di fatti molto noti, accaduti nei secoli XVI-XVII-XVII, trascritti da anonimo nei primi anni dell’Ottocento, come possiamo evincere dalla scrittura. La trascrizione di un’altra fonte relativa al fatto dei due ebrei romani Abramo e Agnoluccio, la possiamo trovare in S. Foà a cura di, Le “Croniche” della famiglia Citone, Trascrizione dall’ebraico e traduzione di A. A. Piattelli, Prefazione di G. Sermoneta,  Edizioni di Storia e Letteratura,Roma 1988, p. 296. Le due trascrizioni: quella appena citata e quella del manoscritto della Biblioteca Ambrosiana, non differiscono nel contenuto, nel manoscritto da noi consultato cambiano solo alcuni termini che, però, non incidono concettualmente. Clemente XII, al secolo Lorenzo Corsini, nacque a Firenze il 7 aprile 1652 da nobile famiglia, la quale si era distinta nel servizio della Chiesa. Nel 1677, dopo avere studiato nella sua città, si trasferì a Roma presso i Gesuiti del Collegio Romano, sotto la protezione dello zio Cardinale Neri Corsini, il quale rinunciò all’Arcivescovado di Firenze per favorire la carriera del nipote nella Curia romana, ma quando nel 1672 lo zio Cardinale non poté rifiutare il Vescovado di Arezzo, anche il nipote lasciò Roma per trasferirsi a Pisa per seguire gli studi giuridici, dove si laureò “in utroque iure” nel 1675. Alla morte del padre, il quale aveva sperato che Lorenzo prendesse in mano le redini della famiglia, seguì le orme del fratello Ottavio e decise di intraprendere la carriera ecclesiastica e tornato a Roma, per 80.000 scudi acquistò l’ufficio di reggente della Cancelleria, divenendo poi referendario delle due Segnature. Papa Alessandro VIII lo nominò Arcivescovo il 10 aprile 1690, quando ancora non era sacerdotee il 18 giugno fu consacrato Vescovo, dopo avere ricevuto gli ordini maggiori. Fu eletto papa il 12 luglio 1730, all’età di settantotto anni. All’estinzione dei Farnese, tentò invano di far valere i diritti della Santa Sede sul ducato di Parma; si mantenne neutrale durante la guerra di successione polacca; ebbe varie controversie giurisdizionali con i Borboni di Napoli e con Carlo Emanuele III di Sardegna. Numerose furono le opere fatte edificare a Roma e nello Stato Pontificio come la Biblioteca Corsiniana, il cui nucleo originario, ospitato nel palazzo di piazza Navona, contava più di 40.000 volumi, ma l’opera più nota fu sicuramente la Fontana di Trevi, che sostituì quella disegnata da Leon Battista Alberti nel 1453; nel 1732 fu completata la costruzione delle Scuderie Papali. Cercò di risanare le finanze con il ripristino del gioco del lotto, abolito da Benedetto XIII; emanò la prima bolla pontificia contro la massoneria del 23 aprile 1738, scomunicando coloro che ne facevano parte. Morì il 6 febbraio 1740 e la sua tomba si trova a San Giovanni in Laterano. Cfr. C. Rendina, I papi, storia e segreti, Newton&Compton Editori, Ariccia 2005, pp. 724 e segg. Per un’esaustiva storia e bibliografia sui pontefici si veda: L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, XV, Roma 1933.

[23] Cum nimis absurdum. Riportiamo lo stesso passo della bolla pontificia in latino: <<Cum nimis absurdum et inconveniens esista ut iudaei, quos propria culpa perpetuae servituti submisit, sub praetextu quod pietas christiana illos receptet et eorum cohabitationem sustineat, christianis adeo sint ingrati, ut, eis pro gratia, contumelian reddant, et in eos, pro servitute, quam illis debent, dominatum vendicare procurent: Nos, ad quorum notitia nuper devenit eosdem iudaeos in alma Urbe nostra et nonnullis S.R.E. civitatibus, terris et locis, in id insolentiae prorupisse, ut non solum mixtim cum christianis et prope eorum ecclesias, nulla intercedente habitus distinzione, coabitare, verum etiam domos in nobilioribus civitatum, terrarum et locorum, in quibus degunt, vicis et plateis conducere, et bona stabilia comparare et possidere, ac nutrice set ancillas aliosque servientes christianos mercenarios habere, et diversa alia in ignominiam et contemptum cristiani nominis…>>

[24] A. Milani, Storia degli ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1963, p. 274. Gli Ebrei, loro malgrado, si adattarono a queste nuove condizioni di vita e la società del ghetto assunse quasi ovunque la stessa fisionomia, era composta da tre classi sociali: banchieri, cenciaioli e sussidiati, questi ultimi erano coloro che non essendo riusciti ad integrarsi e a svolgere qualche lavoro, vivevano alle spalle della comunità . Molti ghetti, ben organizzati, diventano centri di studi, che gli Ebrei frequentano la mattina presto e la sera tardi, ossia prima e dopo la giornata di lavoro, quelli italiano divennero famosi per gli studi ebraici, Livorno, ad esempio, fu chiamata “la piccola Gerusalemme”. Ben visti dalle varie Signorie e dal popolo minuto, perché hanno bisogno dei loro prestiti, avverse le repubbliche, formate da una borghesia dedita ai commerci, poiché temono la concorrenza. La condizione degli Ebrei italiani subisce un ulteriore peggioramento nel 1733, quando sotto il pontificato di Clemente XIII, il cardinale Petra prepara un particolareggiato codice antiebraico con nuove restrizioni e imposizioni, il quale venne poi rinnovato con papa Benedetto XIV (Prospero Lambertini). Con il pontificato di Clemente XIV, gli ebrei trascorrono un quinquennio di relativa pace, ma il suo successore Pio VI (1775) emana un editto in cui alle antiche misure persecutorie, vengono aggiunte delle altre che avranno gravi ripercussioni su tutto il popolo ebreo d’Italia, unica città che non ha mai avuto un ghetto e in cui gli Ebrei possono vivere tranquilli, è Livorno, importante porto commerciale del Granducato di Toscana. Cfr. R. Calimani, Storia dell’Ebreo errante. Dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme al Novecento, Mondadori, Milano 1987; www. morasha.it/ebrei_italia/ebrei_italia06.html

[25] Adeodato Barcali, romano, ebbe varie ed importanti cariche ecclesiastiche, morì, probabilmente, nel 1772. Cfr. C. De Dominicis, Chi era chi? Uffici, cariche ed officiali della Roma pontificia, v. I (anni 1716-1798, Roma 2011,  p. 37.  Lorenzo Francesco Strozzi, primo principe di Forano e secondo duca di Bagnolo, nato nel 1674 e morto nel 1742, discendente di una delle più importanti e antiche famiglie di Firenze e forse la più ricca della città, grazie all’attività finanziaria che permise ai discendenti di aprire numerose filiali bancarie in tutta Europa, attività in cui si distinsero molti uomini di questa famiglia, numerosi furono anche quelli che si distinsero come condottieri militari di valore e uomini politici; pochi furono coloro che seguirono la carriera ecclesiastica, tanto che si conosce un solo cardinale: Lorenzo Strozzi. Cfr. Marcello Vannucci, Le grandi famiglie di Firenze, Newton Compton Editori, 2006. Cardinale Guadagni, nato a Firenze nel 1674 e morto a Roma nel 1759, unico figlio del marchese Donato Guadagni e di Maddalena Corsini, discendente dalla nobile famiglia fiorentina dei Guadagni, dopo la laurea conseguita a Pisa in “utroque iure” fu ordinato sacerdote ed entrò nel convento di Santa Maria delle Grazie di Arezzo come Carmelitano Scalzo. Nel 1724 fu fatto vescovo di Arezzo da papa Benedetto XIII e dopo quattro anni fu elevato alla porpora dal papa Clemente XII, zio materno (Lorenzo Corsini), il quale lo elevò poi al rango di cardinale nel 1731, rimase vescovo di Arezzo fino al 1732, quando il papa lo chiamò a Roma come suo vicario per la diocesi di Roma fino alla morte. Nel 1738 divenne abate commendatario dell’abbazia di Grottaferrata e nel 1750 cardinale-vescovo di Frascati. Morì a 84 anni e fu sepolto nella Chiesa di Santa Maria della Scala, nel 1763 si aprì il processo per l’inizio della causa di Beatificazione Cfr. http://www.diocesifrascati.it>chiesa_tuscolana

[26]Fino al 1870, il Vice Camerlengo o Governatore di Roma era una delle cariche più importanti della Curia romana ed era preposto al mantenimento della pace e dell’ordine nella città. Governatore nel 1730 era il Cardinale Giovanni Battista Spinola, nato a Genova il 16 luglio 1681, pronipote e nipote di due Cardinali: Giambattista Spinola (1615-1704) e Giambattista Spinola (1646-1719). Ricoprì prestigiose cariche, ma ebbe gli ordini sacri solo il 15 febbraio 1728, quindi papa Benedetto XIII lo nominò Governatore di Roma e Vice Camerlengo il 30 maggio dello stesso anno. Tenne la carica di Governatore di Roma fino a quando Clemente XII lo elevò alla porpora cardinalizia nel Concistoro del 28 settembre 1733, attribuendogli la diaconia di San Cesario in Palatio. Nel 1741 fu Prefetto della Congregazione dell’immunità ecclesiastica, nel 1746 divenne Camarlengo del Collegio Cardinalizio. L’ultimo anno della sua vita fu consacrato Vescovo da papa Benedetto VIV  il 9 aprile 1752, morì pochi mesi dopo, il 20 agosto. Cfr. C. De Dominici, Chi era chi? Uffici, cariche ed oficiali della Roma pontificia, I (anni 1716-1798), Roma 2011, p. 302

[27] De mandato per illustris et excellentissimi Domini Philippi Miroli F.V.D. illustrissimi et reverendissimi Domine Alme Urbis gubernatoris in criminalibus Locumtenentis. Mandatibus tibi Capitaneo Carcerus Novus, quatenus statim visis (set?) et Abram filium Isac Caivani et Angelum quondam Rabini de Riccia, Hebreos romanos in istis carceribus detentos, confessos, et ratificos de pluribus furti qualificatis, prout in processu ad quem et consignasse et consignari capitaneo Josepho Marie Scaiola Alme urbis Baroncello ad effectum illos super carru ad plateam Pontis ducendi, ibique altis furcis suspendi faciendo, ita ut omnino moriantur et mori debeant, eorumque anime a corporibus separentur, ut eis sit pena condigna et in aliorum transeat exemplum, quoniam in vim decreti ita mandavit.  Datum Rome die 24 novembris 1736. Philippus Mirogli Locumtenens pro domino Bartholommeo Zannettino pro caritate notario. Hiacintus Prenti substitutus. (Abramo figlio di Isacco Caivani e Angelo del fu Rabino della Riccia, ebrei romani, ritenuti in queste carceri confessi e rei di molti furti qualificati e si consegnano al Capitano Giuseppe Maria Scajola Bariggello di Roma, ad effetto di condurli sopra alle carrette alla piazza di Ponte Sant’Angelo ed ivi saranno appiccati sulle alte forche sicché morranno e debbono morire, e le loro anime si separano dalli loro corpi acciò sia per condegno o sia per esempio all’altro, giacché così si comanda dalla congregazione fatta  e dalla sentenza data contro alli medesimi rei. Dato in Roma questo dì 24 novembre 1736. Filippo Mirogli Luogotenente per Bartolomeo Zannetti Notaro dei poveri, Giacinto Preni Sostituto.) Filippo Mirogli, Secondo Luogotenente criminale del Governatore di Roma (1737-1749). Luogotenente criminale della Legazione di Ferrara (1750-1751). Uditore del Torrione di Bologna (1752-1757). Coadiutore di G.F. Toppi (1758-1759)  e procuratore gen. Del Fisco e della R.C.A. (1760-1764). Prelato della congr. Della città e Stato di Fermo (1758-1759), col voto consultivo solamente (1760-1761). Coadiutore (1758-1759) e procuratore fiscale di Roma, col voto consultivo solamente (1760-1764) C. De Dominicis, Chi era… cit., I, p. 209. Secondo il De Dominici, Mirogli fu Luogotenente criminale del Governatore di Roma dal 1737 al 1749, ma dal manoscritto vediamo che  Mirogli si firma con il suddetto titolo già nel 1736. Cfr. B.A., Ms. P 178 sup., p. 179.

 

[28] A Roma era famoso il detto che Sisto V avesse fatto mettere sul Ponte più teste di briganti di quante zucche vi fossero sui banchi del mercato che si teneva nella piazza. Tra i condannati vi furono anche personaggi appartenenti a famiglie importanti, come, ad esempio, Beatrice Cenci, sua sorella  Lucrezia e suo fratello Giacomo, giustiziati nel 1599. Una delle ultime condanne fu eseguita nel 1749. Cfr. www.romasegreta.it/ponte/piazza-di-ponte-s-angelo.html; http://www.annazelli.com/ponte-sant’-angelo-roma.htm

[29] Forse si tratta di Achille di Angelo Tommaso Albergotti, patrizio aretino e cavaliere di Santo Stefano, il quale ottenne la propositura di Empoli il 31 luglio 1745, ma morì in Arezzo il 17 aprile 1746, senza aver potuto prendere possesso della chiesa. Cfr. https://ilraccontodellarte.com

[30] Giovanni Battista Gamberucci, nacque a Roma il 4 luglio 1674, fu Primo Maestro delle Cerimonie pontificie e Segretario della S.C. del cerimoniale dal 1721 al 1738, nel 1725 fu Cameriere d’onore in abito paonazzo. Ricoprì la carica di Arcivescovo di Amasia in porti bus dal 1727 al 1738 e quella di Canonico di Santa Maria Maggiore dal 1734 al 1737, fu, infine, Consultore delle Indulgenze e S. Reliquie dal 1737 al 1738. Morì a Roma il 28 novembre 1738. Cfr. C. De Dominicis, Chi era… cit, I, p. 143.

[31] Giacomo Amadori già de Lami, livornese, fu Prelato della Concistoriale dal 1738 al 1758, Votante della Segnatura di Giustizia  dal 1740 al 1759, Cameriere segreto sopranumerario dal1741 al 1758. Nel 1754 divenne Segretario della congregazione particolare deputata sopra la Riforma dei tribunali di Roma, Votante della Segnatura di Grazia dal 1757, Decano della Segnatura di Giustizia sempre dallo stesso anno e Esaminatore dei vescovi in S. Canoni, tutte cariche che tenne fino al 1759, probabile date della sua morte. Cfr. C. De Dominicis, Chi… cit., pp. 18-19.

[32] Non abbiamo trovato notizie circa Giovanni Andrea Ricci.

[33] Adeodato Barcali, romano, Promotore fiscale del Card. Vicario per le materoie ecclesiastiche dal 1739 al 1772, parroco di San Biagio della Pagnotta dal 1739 al 1758, Cappellano segreto dal 1759 al 1769. Dal 1740 fu Esaminatore apostolico del clero romano, nel 1760 fu Canonico di Santa Maria ad Martyres, cariche che tenne fino al 1772, data forse della sua morte, del Concessum (1770-1772). Cfr. C. De Dominicis, Chi… cit., p. 37. Dal XV secolo sorsero varie confraternite religiose con l’incarico di assistere i condannati a morte fino agli ultimi momenti. Il compito del confortatore spirituale consisteva nel preparare alla “buona morte” il condannato alla pena capitale: gli somministravano l’ultimo pasto, lo confessavano e lo comunicavano, gli tagliavano i capelli se esso doveva essere decapitato, lo accompagnavano in preghiera durante il percorso che intercorreva dalle carceri al patibolo e davano poi cristiana sepoltura ai loro corpi. L’8 maggio del 1488 fu fondata la Compagnia di San Giovanni Decollato, detta dei “sacconi”, a causa della cappa nera che indossavano e del cappuccio che calavano sul volto per non rimanere nell’anonimato. L’istituzione della Confraternita fu approvata dalla Chiesa e i papi concessero alcuni privilegi, tra questi anche la facoltà di liberare un condannato a morte nel giorno in cui ricorreva la festa del patrono. L’ufficio di Confortatore comportava gravi responsabilità, quindi la scelta dei membri  avveniva basandosi sulle loro qualità morali e religiose. Molti uomini illustri fecero parte di questa Confraternita, tra cui San Roberto Bellarmino e Michelangelo Buonarroti. Cfr. Arciconfraternita di San Giovanni Decollato della Nazione Fiorentina in Roma, 1488-1988, Palombi, Roma 1988, p. 14 e segg.

[34] B.A., Ms. P 178 sup., p. 178.

[35] Forse con l’abbreviazione A.C. il Provveditore della Confraternita ed autore della relazione si riferisce alla stanza dell’”Auditor Camerae”, ufficio di cui si ha notizia fin dal secolo XII e verso la fine del XV era il giudice dei cardinali, dei funzionari della Curia pontificia e dei mercanti alla dipendenza della Curia. Si trattava di una magistratura di grande prestigio: le prerogative di chi occupava questa carica non conoscevano limiti, in quanto esecutore delle lettere apostoliche  e, quindi, diretto referente del pontefice. Tra le numerose facoltà, l’A.C. aveva quella di comminare pene spirituali, dalle quali solamente il papa poteva dare l’assoluzione. Nel 1736, quando furono condannati Abramo ed Agnoluccio, L’A.C. era Prospero Colonna, il quale tenne questo ufficio dal 1721 al 1739. Figlio di Filippo II Colonna, principe di Sonnino, Prospero era nato a Marino, feudo della famiglia sui Colli Albani, nel 1672, completati gli studi all’Archiginnasio di Roma nel 1694 fu subito nominato Protonotario apostolico da Innocenzo XII. Ricoprì le cariche di Vice Delegato a Ferrara e Chierico di camera sotto il pontificato di Clemente XI; nel 1721 papa Innocenzo XIII lo nominò Uditore di Camera, ufficio che lasciò quando, nel 1739, Clemente XII lo elevò al rango cardinalizio, nominandolo cardinale diacono di Sant’Angelo in Pescheria. Tra i vari importanti incarichi ebbe anche quello di membro della Congregazione della Fabbrica di San Pietro e della Sacra Congregazione della Consulta, dicastero che assolveva compiti della massima rilevanza (interpretazioni delle leggi, risoluzione di controversie giurisdizionali) oggi soppresso. Morì a Roma nel 1743 e fu sepolto nella basilica di San Giovanni in Laterano. Cfr. L. Cardarella, Memorie storiche de’ cardinali della Santa Romana Chiesa, VIII, p. 299; C. De Dominicis, Chi… cit., p. 100.

[36] Ibid., p. 179. E’probabile che si tratti di Domenico Teoli, romano, Lettore pubblico dell’Università della Sapienza nella Lingua ebraica e abate. Troviamo anche un certo Giuseppe Teoli, con gli stessi titoli, ma relativi ad anni posteriori. Cfr. C. De Dominicis, Chi… cit., p.310

[37] La peste del 1448 infestò l’Italia settentrionale, ma mieté molte vittime anche in Toscana insieme con le febbri malariche. Cfr. L. A. Muratori, Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1750, Monaco, 1763, IX, p. 230.

[38]La chiesa si trova in piazza Bocca della Verità, è dedicata a San Giovanni Decollato e nel chiostro si trova un piccolo museo, chiamato “Camera storica”, dove ancora oggi si conservano gli strumenti di giustizia dell’epoca, tra cui, sembra, quelli che servirono all’esecuzione capitale di Beatrice Cenci e di Giordano Bruno. La chiesa della Confraternita dedicata a San Giovanni Decollato, ospita opere di artisti appartenenti al periodo del Manierismo, che hanno subito l’influenza di Michelangelo e di Raffaello. Il pittore Francesco Salviati, manierista fiorentino, nella sua opera “Visitazione”volle inserire il ritratto del Buonarroti tra i personaggi, perché il maestro fu membro della Confraternita. L’interno della chiesa, a navata unica, è completamente decorato da pitture stucchi di celebri artisti, esempi significativi della presenza del Manierismo toscano in Roma.

 

[39] Cfr.http://ricerca.archiviodistatoroma.beniculturali.it/OpacASRoma/authority/IT-ASROMA-EACCPF0001-000118

[40] Vestito del suo sacco di confratello di San Giovanni Decollato, con cappuccio.

[41] Con l’espressione di studiata compassione.

[42] Ibid. p. 179 “…Abram filium Isac Caivani et Angelum quondam Rabini de Riccia, Hebreos romanos in istis carceribus detentos, confessos, et ratificos de pluribus furti qualificatis,…

[43] Ibid.

[44] Ibid., p. 180.

[45] Ibid., p. 181

[46] Ibid.

[47] Ibid., p. 182.

[48] Ibid.

[49] Ibid. Stamigna era chiamato un tessuto di lana sottile e rado, ma resistente, usato principalmente per colare e setacciare ed anche per confezionare bandiere. Il ferraiolo era un mantello.

[50] Ibid., p. 183.

[51] Ibid.

[52] Le ricerche su questo personaggio non hanno dato esito positivo.

[53] Si tratta di Francesco Volumnio Piccolomini, appartenente ad un ramo della famosa e nobile famiglia toscana, rettore del Collegio Germanico Ungarico di Roma, il quale nel 1735 fece riesumare i resti che si trovavano sotto l’altare della cappella dei Santi Primo e Feliciano nella basilica di Santo Stefano Rotondo in Coelio monte di Roma. Cfr. A. Antinori, Filippo Barigioni per il Cardinale Antonio Saverio Gentili. Il restauro settecentesco della cappella dei Santi Primo e Feliciano in Santo Stefano Rotondo (Estratto dal Fascicolo 21), in Bollettino d’Arte, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Anno V, n. I

[54] Ibid.

[55] Ibid., p. 184.

[56] Ibid.

[57] Ibid., pp. 184-185.

[58] Ibid., p. 185.

[59] Ibid.

[60] Ibid., p. 186.

[61] Ibid.

[62] Ibid., p. 187.

[63] Ibid. Pietro Marcellino Corradini da Sezze, nato il 3 giugno 1658, fu cardinale dal 1712, morì a Roma nel 1743. Cfr. C. De Dominicis, Chi… cit., p.105.

[64] Ibid., pp. 188-189. Si tratta di Sabbato Nachamù, rabbino di Ancona, convertitosi al Cristianesimo e battezzato col nome di Francesco Maria Ferretti, grazie all’intervento di Paolo Sebastiano Medici, livornese, ebreo convertito, professore di Sacra Scrittura e noto per la sua attività di predicatore, finalizzata alla conversione degli ebrei toscani e quelli sotto la giurisdizione della Chiesa. Cfr. L. Saracco, Medici, Paolo Sebastiano, in “Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, V. 73 (2009)

[65] Ibid., p. 189.

[66] Ibid., pp. 189-190.

[67] Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, canto V, vv.88-105.

PER UNA STORIA DEL DIAVOLO NELLA SUA VITA PUBBLICA E PRIVATA

LOREDANA  FABBRI

“Gli estremi si toccano, il serio torna spesso al ridicolo”

Il diavolo ha il potere di comparire agli uomini

in forme seducenti e ingannatorie”

(Shakespeare)

 

“E’ il diavolo a lottare con Dio, e il loro campo di battaglia

è il cuore degli uomini”

(F. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov)

 

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Codex Gigas, ossia “Codice Gigante”: un manoscritto enorme, del peso di 75 chilogrammi, lungo quasi un metro, 50 centimetri di larghezza e circa 20 di spessore. Al di là delle dimensione, questo codice, passato da religiosi a sovrani, tra cui Cristina di Svezia, miracolosamente salvatosi da un incendio, e oggi custodito a Stoccolma, nella Biblioteca Nazionale, è noto, alla luce del contenuto, con un altro nome, piuttosto sinistro: la Bibbia del diavolo. Oltre alle Sacre Scritture, a opere di Isidoro di Siviglia, Giuseppe Flavio e altri, contiene esorcismi e scongiuri, ma soprattutto una enorme, inusuale, inspiegabile immagine a tutta pagina del diavolo, circondato da ombre e incorniciato dentro un anomalo riquadro (nella foto).

Il diverso grado di credenze, con la quale il lettore s’accinge a percorrere questa breve, ma veridica istoria, determinerà l’importanza, il diletto ed il terrore, che potrebbe inspirare e la ragione di coloro che non si piegano a credere quanto non trovino fortemente dimostrato, senza sconoscere che le tradizioni cattoliche sceverate dalla superstizione, hanno il merito d’essere conseguenti, accoglierà questo lavoro quale documento abberazioni dell’umana fantasia, della umana severità per l’errore ed ingegnosa potenza a tormentarsi con enti fittizi, come se la realtà di mille altri non ci soprastasse premendo inesorabilmente oltre la misura ordinaria della pazienza! […]. Se il Diavolo è una infelice invenzione dell’uomo, perché pure lo ha inventato tremarne e deriderlo, per foggiarlo a suo talento?

 

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I dannati, particolare del Giudizio universale, Michelangelo, Cappella Sistina, Vaticano

Ma intanto quale è questo spirito delle tenebre, uomo, serpente o dragone che sovrasta volando sull’orizzonte di tutti i tempi? Nel cielo egli bestemmia e si butta cogli angeli, sulla terra inganna e precipita l’uomo e si serve di questo “ come d’un cavallo cui sprona e conduce a suo talento”; ei lo affligge, lo tormenta, lo stimola al peccato, e, nell’abisso, il fornisce d’aver peccato e d’essergli stato obbediente>>. [1]

Nel 1842 viene pubblicato un articolo di CH. Louandre: “Le Diable, sa vite, ses moeurs et son intervention dans les choses humaines”, in “Revue des deux mondes, 4ème série, tome 31, 1842”, di cui l’autore era collaboratore. Lo scrittore, figlio dello storico francese Francois César Louandre, nacque ad Abbeville nel 1812 e si laureò in lettere a Parigi, dove dette il suo contributo a diverse opere del tempo e alla “Revue des Deux Mondes” dal 1842 al 1854. Scrisse numerosi articoli di storia e archeologia. Nel 1855 divenne redattore del “Journal of General Education”. Numerose le sue opere tra cui “La sorcellerie” del 1852. Morì nel 1882.[2]

L’autore anonimo del manoscritto da noi reperito scrive quasi certamente nella seconda metà dell’Ottocento, in quanto si tratta della traduzione, probabilmente dal francese (esiste una copia edita a Porto nello stesso anno in lingua portoghese) dell’opera summenzionata, seguendo il testo originale ma arricchendo talvolta anche con considerazioni personali.

L’argomento centrale di tale opera è, ovviamente, Satana onnipossente, onnipresente in tutte le epoche e in tutti i luoghi come signore malefico e nemico dell’umanità, verso la quale egli è sempre in lotta, anche se poi ci saranno tempi in cui la stregoneria sarà il mezzo con cui gli uomini invocheranno il Maligno per carpirgli i segreti che daranno potere e ricchezze, cioè per concretizzare il sogno che tutti gli esseri umani, di qualsiasi condizione sociale e in qualsiasi tempo, hanno sempre cullato dentro di loro e senza scrupoli si sono “venduti” al Diavolo.

Il presente articolo è basato sulla trascrizione di un manoscritto che a sua volta è la trascrizione di un’opera edita, quindi un riassunto di entrambi, qualcosa di più agevole e più veloce per la lettura, insomma una sintesi del manoscritto reperito. L’ignoto trascrittore vuole forse attestare l’orma del Maligno nel difficile percorso terreno dell’uomo, nei contrapposti di caos-ordine, cielo-terra, amore-odio ed anche come il Diavolo, essendo, in tutti i tempi, perennemente presente nella memoria e nel cuore degli uomini, abbia contribuito allo sviluppo di una parte della letteratura. La marea bibliografica sull’argomento, aumentata soprattutto negli ultimi decenni del secolo XX, mostra chiaramente come Satana sia un pretesto per raccontare ed evidenziare i fenomeni e le sciagure dei suoi seguaci e delle sue vittime; si sono messe in primo piano le attività magiche, stregoniche, taumaturgiche e le possessioni, relegando la figura del Diavolo ad una modesta posizione di secondo piano, ma anche da questa posizione è sempre l’architetto delle insidie tese agli uomini.

Il Diavolo, fin dai tempi remoti, ha suscitato negli uomini paura e curiosità, fascino e repulsione. Satana è sempre stato onnipresente come Dio: questa è la realtà fondamentale che sta alla base dell’intera credenza. Si tratta di un manicheismo semplicista, ma molto efficace che fa della vita terrena una battaglia perpetua tra il Maligno e le creature. Il Diavolo e il suo esercito infernale possono fare il male entro limiti tracciati da Dio, ma si tratta di limiti ampi, perché approfittano delle debolezze umane.

Molti sono i nomi che nei secoli sono stati attribuiti al Maligno, due però sono indubbiamente i più usati: Diavolo (dal greco diábolos, col significato di “accusatore”, “calunniatore”) e Satana (di derivazione ebraica, che corrisponde a “nemico”, “avversario”); mentre l’origine del termine Demonio, molto diffuso, allude alla pluralità (i dáimones, gli eterei accompagnatori dei Greci) ed è in questa accezione che in genere viene impiegato normalmente quando si allude a manifestazioni plurali: corte infernale, legioni, geni.[3]

Alcuni testi medioevale distinguono Satana da Lucifero, la tradizione afferma invece la loro unità, in quanto usa indistintamente i due termini per indicare un solo personaggio, il Diavolo, personificazione del male. Il nome di Lucifero nasce dall’associazione del principe di Isaia (14,12; stella del mattino o figlio dell’aurora), che precipita dal cielo a causa del suo orgoglio, con il cherubino di Ezechiele (28,15; in cui si dice che la sua condotta era sempre stata perfetta fin dalla sua creazione, fino a quando in lui ci fu l’iniquità). Queste due figure si uniscono in quella di Satana, quando sia avvenuta tale fusione non lo sappiamo, ma Origene, nel III secolo, usa questi nomi riferendoli allo stesso personaggio.[4]

La presenza di Satana nella vita quotidiana è testimoniata ampiamente sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, la credenza nel bene e nel male, questa dualità di poteri invisibili, costituisce l’idea fondamentale delle religioni orientali ed è all’origine delle più antiche cerimonie rituali. All’inizio dell’era cristiana, questa credenza compare nell’idea dualistica dei manichei, dando luogo ad una nuova concezione: quella del Diavolo, nemico e rivale di Dio e capace di dare ai suoi adoratori una forza in grado di sconvolgere l’armonia nell’opera divina, che originariamente comportava solo cose buone.

A partire dall’era cristiana, con l’idea dogmatica di un solo Dio, sorgente del bene e del male, i poteri riconosciuti fino ad allora ai demoni si affievolirono e cessarono, momentaneamente, di ossessionare gli spiriti; ma nel III secolo d.C., i filosofi della Scuola di Alessandria, specialmente Plotino, mostrarono una stretta parentela con gli iniziati antichi, cercando di adattare le tradizioni esoteriche antiche con il nuovo misticismo del cristianesimo. L’azione dei demoni, considerata causa di tutti i mali, ossessionò gli uomini soprattutto in ciò che riguarda le malattie e l’origine demoniaca, o presupposta tale, di certi mali fisici, incitò i credenti alla recitazione di formule speciali.. L’esistenza del Diavolo fu proclamata negli atti del IV Concilio Lateranense del 1215, diffondendo a poco a poco una forma crescente di paura per le terribili manifestazioni di un’entità così potente.[5]

Il narratore, dopo una breve introduzione, si pone queste domande: <<Anche un problema potrebbe derivarne se il Diavolo è un angelo decaduto, perché pure peccò e peccava poté? Se il Diavolo è una infelice invenzione dell’uomo, perché pure lo ha inventato tremarne e deriderlo, per forgiarlo a suo talento? […] Rischiariamo adunque dapprima il mistero dell’origine del nostro protagonista>>.[6]

Il manoscritto continua, con voli pindarici, dicendo che la Sacra Scrittura parla spesso del Maligno, ma non troviamo scritto quando e perché Dio lo trasse dal nulla, tace sulla sua età, ma proprio per questo mistero, l’uomo è desideroso di sapere, di conoscere la verità su questa figura repellente e affascinante allo stesso tempo. Durante i primi secoli del Cristianesimo <<…Bardesane, ispirandosi alle tradizioni perfide del dualismo, innalza il Diavolo fino all’idea di causa e ne fa una specie d’essere sostanziale, cui oppone al Principio del bene. Prisciliano lo fa nascere dal caos e dalle tenebre. Taziano da un raggio della natura e della malvagità>>.[7]

L’Antico testamento, composto di testi scritti in diverse epoche: prima dell’esilio babilonese ai tempi di Gesù, non menziona il Diavolo. Nel Pentateuco e precisamente in Genesi, in cui dobbiamo distinguere due livelli: il racconto Jahvista, dal nome rivelato a Mosè, Jahvè ed il racconto eloista, che appella Dio Elohim, non viene mai accennato al Diavolo. Nella tradizione jahvista, si narra di Adamo ed Eva tentati dal serpente, ma non è specificato che il serpente sia il Diavolo.[8] In questa parte dell’Antico Testamento, l’identificazione del serpente con il Diavolo, la troviamo molto più tardi nel “Libro della Sapienza” (II:24), dove leggiamo: <<Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo (satan)>>, considerando che tale libro viene ritenuto scritto tra il III e il I secolo, il male viene attribuito a Dio, è da Lui che derivano sia il bene che il male, Jahvè è un Dio crudele, esigente, che spesso ricorre ad espedienti ed inganni per indurre l’uomo a sbagliare. E’ proprio questo Dio che ordina agli israeliti di sterminare gli abitanti della terra di Canaan e in Giosuè 11,20 leggiamo: <<Infatti era per disegno del Signore che il loro cuore si ostinasse nella guerra contro Israele, per votarli allo sterminio, senza che trovassero grazia, e per annientarli>>.

Dio prima spinge Abramo, che si è recato in Egitto, a fingere che Sara sia sua sorella e quando il Faraone si innamora di Sara e la fa portare nella casa sua credendola non sposata, Dio punisce il Faraone <<colpendo lui e la sua casa con grandi piaghe>>. [9]

Nella vicenda delle dieci piaghe d’Egitto, è Jahvè che indurisce il cuore del Faraone affinché non accolga la richiesta di liberare Israele e poi punisce quell’inasprimento dell’anima con le piaghe. Più volte infatti dice che il Signore rese ostinato il cuore del Faraone, che non volle lasciarli partire.[10]

Sempre in “Esodo” 4:21-24, Dio compie e dice cose orribili: <<Il Signore disse a Mosè : “Mentre tu parti per tornare in Egitto, sappi che tu compirai alla presenza del faraone tutti i prodigi che ti ho messi in mano; ma io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il mio popolo. Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito!”. Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire>>. Prima provoca il faraone poi lo punisce. C’è, dunque, un Dio terribile principio del bene e del male e non c’è necessità di un altro essere soprannaturale che induca l’umanità in tentazioni o semini malattie, morte e distruzioni.

Il male e la malattia sono concepiti come un castighi che vengono direttamente da Dio: nel brano di Esodo, 12: 29 in cui il Signore invia la decima piaga e fa morire tutti i figli primogeniti d’Egitto. Sembra sia Lui stesso ad uccidere: <<A mezzanotte il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto…>>. Ma pochi versetti prima (12,12-13) parlano anche di uno “sterminatore”, che sembra essere un soggetto diverso dal Signore: <<Il Signore passerà per colpire l’Egitto, vedrà il sangue sull’architrave e sugli stipiti: allora il Signore passerà oltre la porta e non permetterà allo sterminatore di entrare nella vostra casa…>> La teologia cristiana indica spesso nello sterminatore il Diavolo, ma questa è solo un’ipotesi che non giustifica i testi; in realtà, ai tempi in cui furono scritti c’era una certa sovrapposizione tra Jahvè e le creature che eseguivano i suoi comandi.

E’ nel V secolo a. C., nel libro di “Giobbe” che compare Satana, nel periodo successivo all’esilio d’Israele, quando il suo popolo passa dalla fase del nomadismo a quella stanziale, in cui la vita era meno pericolosa, proprio in questo periodo le scritture mostrano un Dio meno crudele ed esigente, da cui deriva tutto il bene: quindi si deve dare un’altra spiegazione alla derivazione del male. Dal libro di Giobbe, cap. 1 leggiamo:<<Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche satana andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a satana: “Da dove vieni?”. Satana rispose al Signore: “Da un giro sulla terra, che ho percorsa”>>. [11]

L’autore o meglio il trascrittore fa un lungo discorso sulle origini del Diavolo e dice che nella Giudea, al tempo di san Gerolamo, alcuni gli assegnavano per genitore Leviathan, il drago marino, altri il coro degli angeli che si unirono con le figlie dell’uomo prima del diluvio, ma da tale connubio, secondo la Scrittura, nacquero invece i giganti o i potenti dominatori della Terra. Dice che secondo sant’Agostino Dio avrebbe creato i buoni e i cattivi spiriti come fa un poeta, il quale, per dare risalto alle bellezze della sua opera, <<…vi sparge le antitesi…>>, ma nonostante la grande autorità che riconosce al vescovo d’Ippona, sostiene: <<…è probabile che l’artefice eterno, il quale ha fatto il mondo, vi abbia introdotto il male per una fantasia da retore. Questa la tradizione dogmatica, Satana ed i suoi angeli, innocenti e puri all’origine, appartenevano a quella classe d’intelligenze superiori che erano come le primizie della creazione>>.[12]

Continua spiegando che questi angeli abitavano le regioni della luce e Dio li aveva iniziati ai segreti della sua sapienza, ma presto decaddero dal loro posto elevato per orgoglio e per concupiscenza: <<… per orgoglio, cercando una maggiore elevazione delle proprie forze, senza chiederne la grazia, anzi disputando a Dio la possanza sovrana, […] per la concupiscenza domandando alle figlie degli uomini carezze e voluttà che pari spiriti non debbono conoscere>>.[13] Il Diavolo, quindi, non è altro che una creatura decaduta come l’uomo e da quell’istante in cui avviene la decadenza, comincia una nuova e desolata vita sulla terra, suo eterno esilio, avvolgendosi di ombre e di misteri, alienato dall’amore in cui era stato creato, egli è condannato alla pena più crudele: l’incapacità di amare <<…che malgrado le sue frequenti apparizioni e le numerose testimonianze di quelli che lo hanno veduto, egli è quasi impossibile di dare della sua persona una indicazione adatta>>.[14]

Fino al Basso Medioevo, la credenza generale fu che Lucifero, cioè il portatore di luce, “l’essere dal bell’aspetto”, come lo chiama Dante nel XXXIV canto dell’Inferno, l’angelo più bello, più saggio, più potente, il quale non doveva rispetto e sottomissione a nessuno se non a Dio, commise la colpa di superbia, scaturita proprio da questa sua superiorità che gli fece pensare ad un’eventuale modifica delle decisioni divine, nonostante Dio lo avesse certamente dotato di libero arbitrio, come aveva fatto con gli altri angeli ed anche con gli uomini.  Secondo san’Agostino, e per la maggior parte della Patristica, questo mondo è, senza dubbio, il regno di Satana e gli uomini sono i suoi sudditi.

Dopo le diverse congetture sull’origine del Diavolo e sostenuta l’esistenza di questa creatura, viene fatta una riflessione sul fatto se egli sia un’intelligenza fornita di organi, di un corpo, di un vero spirito. Ma non può essere un vero spirito, perché un vero spirito <<…è ciò che l’occhio non può vedere, l’orecchio non può sentire. Ora si vede il Diavolo, al dire di molti, lo si intende, egli parla. E non è un corpo, poiché non si può afferrarlo sotto una forma tangibile e varca le distanze con la rapidità del pensiero. E’ un essere indefinibile…>>.[15]

Lo scrittore continua dicendo che negli ultimi tempi del paganesimo e nell’arco di tempo tra il mondo antico e quello moderno, riferendosi al periodo di tempo che segna la fine della storia antica e l’inizio del Medioevo, il Diavolo appare sotto forme di animali mitologici come il dragone, l’ippocentauro, il fauno <<…e i loro lascivi ardori similmente a quel genio ingordo che sotto forma di grosso e lungo serpente di colore ceruleo e verde usciva dalla tomba di Anchise e gustava le vivande sagrificate su quella ai Mani del sepolto…>>.[16] Spiega che il suo corpo è formato da vapori esalati dalla terra oppure da particelle meno pure della sostanza eterna, definendolo poi un simulacro impalpabile, sottile come le nubi, ma sul quale la freccia e la spada lasciano impronte dolorose e se bruciato col fuoco lascia le ceneri simili a quelle dell’uomo. Anche Omero, nell’Iliade, descrisse vulnerabili i Numi che sul campo di battaglia troiano combatterono a favore dei loro protetti. Ma durante il Medioevo il Maligno si materializza e nelle sue molteplici metamorfosi attraversa tutta la scala della creazione: da uomo informe e incompiuto, diventa nano o gigante, rugoso o morbido, può essere cieco come una talpa, nero come gli abitanti dell’Etiopia o come coloro che fondono il ferro; ha il muso di una tigre, le unghie come il cinghiale e può tramutarsi a suo piacere in rospo, in orso, in corvo, in upupa, in serpente, quest’ultima forma è particolarmente amata da Satana, perché gli ricorda <<…la sua prima vittoria e tramutandosi alcuna volta in coda di giovenco, il che non manca d’essere piccante e strano>>.[17]

Il Diavolo, quando vuole indurre al peccato i preti e i monaci, assume le forme seducenti di donne molto belle con <<… la pelle liscia e vermiglia, le dita tornite e sottili che incantano i cavalieri dell’Epopea, quella agilità e incurvatura di reni che la Bibbia ha maledetto perché è fatale all’uomo>>[18]

A questo punto del manoscritto troviamo narrati fatti accaduti in tempi diversi e a varie persone sia laiche che ecclesiastiche, che non seguono un ordine cronologico: noi riportiamo quelli più significativi e interessanti.

Nel 1121, il Diavolo apparve con tre teste ad un monaco e gli ordinò di adorarlo perché pretendeva di essere la Trinità; invece nel XVI secolo apparve sotto forma di crocefisso, altre volte vestito con abito sacerdotale, con il pastorale in mano,   la mitra in testa e benediceva la gente che si inginocchiava al suo passare. Si diceva, addirittura, che era arrivato al punto di cantare i vespri nella chiesa del monastero di Clairvaux, in cui aveva pregato san Bernardo, ma ciò non deve suscitare meraviglia perché Satana ha sempre aspirato agli onori sacerdotali. Passano gli anni, scorrono i secoli, tutto cambia, ma non il Maligno, che rimane immutabile nella sua malvagità, il suo odio contro l’uomo è così forte che un giorno fu udito dire che provava più soddisfazione andare all’Inferno con l’anima di un dannato che ritornare in cielo nella sua primitiva felicità

Gli Ebrei attribuivano a Satana l’invenzione delle armi e degli ornamenti femminili, cioè di ciò che uccide i corpi e vince le anime.

Il Diavolo, spesso, fu paragonato, secondo le dottrine indiane, al Principio cattivo, che nel dualismo persiano si chiama Ariniane mentre in Egitto veniva appellato col nome di Tifone, i quali valutavano, come Satana, l’idea del delitto, del dolore, della morte, la lotta perenne delle tenebre con la luce e della menzogna con la verità. Ma tra il Maligno e gli spiriti del male orientali c’è un abisso, Ariniane e Tifone trionfano sul dio buono fino ad usurparne il trono, il Diavolo, invece, è sempre vinto: Dio conserva l’onnipotenza.[19]

Nel Medioevo, continua l’anonimo, la teologia, la filosofia, la stregoneria talvolta si uniscono e si confondono, tuttavia furono d’insegnamento per quanto riguarda l’azione, la caduta e il carattere del Diavolo. L’intenzione dell’autore è quella di seguirlo passo per passo dalla sua infanzia alla sua giovinezza, poi nella sua caduta e in tutte le fasi della sua vita pubblica e privata, che distinguerà in periodi precisi: <<I lettori non paurosi il vedranno prima della venuta di Cristo, come potente rivale ed oppressore contendere con Dio l’adorazione dei popoli; poi uscita la Buona Novella che da Sionne si diffuse per tutta la terra, lo vedremo diffendere gli altari del mondo pagano; attraverso il Medio Evo, assedierà i monaci e i fanti, si farà suggeritore complice e onnitore di tutti i delitti, l’autore di tutti i disastri; nel XVI° secolo vorrà metter bocca in tutte le dispute religiose, a tutte le arguzie; sarà hussita, luterano, calvinista, […] e talvolta anche papista>>.[20]

L’autore sostiene che presto saranno seimila anni da quando il Diavolo fece la prima comparsa sulla terra e l’umanità subisce le dolorose conseguenze di questa terribile manifestazione. Da quando tentò e fece cadere nel peccato Eva, inorgoglito per questo primo trionfo, non ha perso mai nessuna occasione di intervenire maleficamente negli affari di questo mondo e sotto vari nomi (Belzebub, Deval, Belfagor, Adramelec) contese al vero Dio l’adorazione dei popoli. Il mondo, che a causa del peccato di Eva, era assoggettato alla servitù del Maligno, doveva redimersi ad opera di una donna: Cristo annuncia alla Terra che sua Madre ha schiacciato la testa del serpente, il Diavolo, allora, sentendosi detronizzato, raccoglie tutta la sua malvagia audacia e tenta, invano, di fare di Dio la sua preda.

Nel V secolo Salviano, addolorato per il protrarsi del politeismo, esclamava: <<…ubique daemon…>>, [21] il quale, come sant’Agostino, vedeva nel culto degli idoli tutti i peccati dello spirito infernale.

Nella lotta tra la Chiesa d’Oriente e la nuova fede, l’acerrimo nemico dei cristiani non è considerato Cesare, ma il Diavolo. Gli anacoreti, dimenticati nella Tebaide, sono perseguitati da Satana nella loro solitudine, affliggendoli col rammarico, col desiderio dei piaceri abbandonati o appena intravisti e ancora ignoti, con l’angoscia che fa dubitare della bontà divina, ma soprattutto con quella tristezza profonda paragonabile allo spleen, che può portare l’uomo al suicidio.[22] A santa Pelagia mostra continuamente degli irresistibili gioielli con cui erano pagate le sue prestazioni quando era bellissima e giovane.[23]

Sant’Antonio fu, senza dubbio, il più perseguitato dal Diavolo: <<Antonio vuol leggere: Satana gli nasconde i suoi libri. Antonio incrocia le mani, piega le ginocchia, leva gli occhi al cielo ed invoca lo spirito di meditazione e le estasi silenziose: Satana, per isturbarlo, intuona i Salmi. Talora l’assale con armi più costosi, assume le forme attraenti d’una donzella, il sorriso, la voce, gli occhi penetranti; o disperato di non poterlo vincere colla minaccia, col disturbo, colla legge de’ sensi, vuol sedurlo col garbo di amichevoli e servili offizi; gli accende la lampada, gli fornisce acqua dalle vicine fonti. Finezze sprecate! Antonio risponde colla preghiera e col segno della Croce, sicché il Diavolo veggendosi vinto, ringhia il  muso, digrigna i denti e come fanciullo istizzito batte il sodo col piede e qualche volta fare gli cade innanzi in ginocchio e gli chiede perdono>>.[24]

Il narratore continua dicendo che una sera in una chiesa di Alessandria d’Egitto, dove tutti i diavoli si erano dati convegno, san Macario li vide sotto forma di fanciulli etiopi che correvano qua e là tra i monaci, alcuni passavano la mano sulle palpebre di quest’ultimi per addormentarli, altri mettevano loro un dito in bocca per farli sbadigliare, ciò accadeva ogni giorno, quando i monaci si trovavano all’ora del coro, per distrarli dalle loro funzioni. Satana ispirava un tale terrore che i monaci si alzavano la notte per stare in guardia: la loro difesa era la preghiera contro questo nemico che non dormiva mai. Nei monasteri occidentali la situazione non cambiava, specialmente quando qualcuno cercava di creare un luogo di preghiera, il Diavolo lo perseguitava con le sue perversità.[25]

Durante il Medioevo, prosegue l’autore, Satana, cosciente che l’ordine di san Benedetto gli sottraeva molte anime, sferrava contro questi monaci i suoi attacchi più violenti. Un giorno l’abate di Cluny, di cui non viene menzionato il nome, si era messo in viaggio per effettuare delle visite pietose e per conquistare delle anime, il Maligno si trasformò in una volpe e lo aspettò in un’imboscata dove gli saltò al collo per strozzarlo. Sulpizio il Pio, mentre andava di notte in una chiesa, preceduto da una fanciulla con un cero acceso in mano, incontrò Satana che prima spense il cero e poi lo assalì e tentò di cavargli gli occhi con le sue unghie.

Al tempo di san Norberto, perseguita molto i laici: va nelle loro cucine per avvelenare i loro cibi e quando vogliono bere si fa vedere nel fondo della ciotola sotto forma di un enorme rospo carico di veleno; a Citeaux sparge sul pesce escrementi di cavallo al posto della salsa. Nel XII secolo perseguita l’abate Guiberto nel suo convento di Nogent-sur-Seine, portandogli ogni notte ai piedi del letto i cadaveri di coloro che erano morti di morte violenta; più tardi, tra i frati Domenicani di Firenze, tormentò il Savonarola: <<…quando l’ardito oratore faceva la ronda di notte, lo spirito maligno adunava intorno a lui vapori sì densi che il domenicano si trovava come chiuso in una prigione di nubi, quando volea dormire lo riscuoteva gridando: “Savonarola!”, mutando ogni volta il tono della voce>>.[26]

Se Satana riesce a sollevare grandi tempeste nell’animo umano, ci riesce perfettamente anche nella natura, infatti è lui che soffia con violenza facendo cadere i raccolti maturi per terra e scoperchiare i tetti delle chiese; è lui che agitandosi nell’inferno dà luogo ai terremoti sulla terra, è lui che incendia le vie delle città attizzando la fiamma. In una città del nord della Francia, di cui non si menziona il nome sia nel manoscritto che nell’originale, si può vedere un quadro risalente al XV secolo sullo sfondo del quale, in un cielo azzurro intenso, è dipinto un recinto e al di fuori di questo si può vedere una lunga fila di frati e di Scabini, i quali portavano una cassa a forma di chiesetta: è la cassa di san Foillan, il fuoco è divampato in un sobborgo della città e gli Scabini con i frati vestiti di bianco e dei giovani coristi vestiti di rosso si sono recati nel luogo dell’incendio con le reliquie del santo, che miracolosamente spengono il fuoco, ma il Diavolo che sta spiando, riesce ad alimentare l’incendio con un grosso mantice da fucina <<… coll’ardore di un alchimista che vede la mossa dell’oro radunarsi in fondo al suo grogiolo e il fuoco avesse voluto insegnare che il mantice del Diavolo nelle città incendiate è più possente che le ossa dei santi>>.[27]

Satana è incendiario, complice, avvelenatore, assassino ed anche regicidio: nel 1340, a Parigi, fu l’artefice di un complotto tramato da Roberto l’Inglese ed alcuni monaci tedeschi contro Filippo di Valois; <<Nel 1416 strozza Miron de Montlhery per mezzo di Ugo di Crepy, suo parente. Filippo ripudia Berta, rapisce Bertrada; Giovanni Senza-Paura fa uccidere il duca d’Orleans, ma è il diavolo che volle l’assassinio e l’adulterio…>>.[28]

Nel secolo XII, in Sassonia, il Diavolo contende agli angeli il corpo di un usuraio che tramite la confessione si era riconciliato con Dio e la sua salma era stata esposta nella cappella di un conoscente. Quattro sacerdoti stavano pregando per la sua anima, quando improvvisamente quattro diavoli neri e quattro angeli luminosi vennero a sedersi ai lati del “cataletto” e ciascuno di loro, da entrambe le parti, recitarono un versetto dei salmi, ma i diavoli invocarono parole che punivano mentre gli angeli parole consolatorie, poiché l’usuraio si era avvicinato a Dio prima del trapasso: gli angeli ebbero la meglio e l’anima dell’uomo volò verso il Paradiso.[29]

Ma nel Medioevo, contrapposta alla visione drammatica dell’aldilà dantesco, troviamo anche l’ironia dei trovatori, nella fantasia dei quali, Satana si spoglia <<…del suo carattere oscuro e minaccioso. Esso non è più il leone ruggente che si aggira intorno ai santi, è un allegro compagnone, il quale aspetta il momento che i curati dicono la messa per andare a bere colle loro serve il vino delle decime>>.[30] Egli canta, scaccia la malinconia, seduce le badesse e gioca con i frati mendicanti la sua armatura e il suo cavallo per una tazza di vino. Anche l’Inferno assume un altro aspetto, ai fiumi di fuoco, alle piogge di zolfo, agli stagni di ghiaccio, i trovatori sostituiscono supplizi grotteschi che provengono dalla loro visione poco ortodossa della vita: <<La triste patria dei dannati diventa una vasta cucina, ove il diavolo mutato in guattero fa cuocere i malvagi in grandi caldaie e mangia lessati o con salsa ad aglio gli usurai e le meretrici>>.[31]

Nel secolo XVI, continua l’autore, Satana diventa anche teologo, impara la lingua ebraica e studia la logica. A Ginevra aiuta Calvino, in Germania commenta la Bibbia ed i Concili con Lutero: <<…si direbbe che le simpatie dell’orgoglio e della rivolta riavvicinano il riformatore e il demonio>>.[32] Qualsiasi cosa faccia Lutero, il Diavolo gli è sempre vicino, incoraggiandolo e scoraggiandolo, spesso deridendolo, lo incoraggia alla guerra e gli consiglia la pace, mettendo in lui il dubbio che lo stesso Lutero aveva gettato nel mondo cattolico. Il riformatore, non sapendo più cosa fare per liberarsi dal Maligno, un giorno gli tirò un calamaio e la macchia d’inchiostro rimase a lungo sul muro a testimonianza di tale disputa.

Il 27 maggio del 1562, verso le sette della sera, nella città di Anversa, Satana prese (strangolò, nell’originale) una giovane di buona famiglia colpevole di avere comprato <<…della tela fina a nove scudi l’una…>>,[33] per adornarsene in occasione di una festa nuziale. In questo caso il Maligno peccò di eccessivo rigore.

Nel Seicento, il Diavolo lascia le sue forme mostruose e bestiali, veste alla moda del tempo, si adorna di brillanti, di piume, porta la spada, tanto da sembrare un personaggio di corte. <<Lo scrittore Vier lo attaccò con un suo scritto e due secoli più tardi Voltaire, maligno più di lui, credette di avergli dato il colpo di grazia ferendolo con una pecca più terribile d’assai che il breviario e l’aspersorio dei frati, poco stante Devanger ha cantato la sua morte. Ma è ben vero che il diavolo è morto?>>. [34]

Nella vita del Diavolo, come nella vita dell’uomo, l’amore è un fattore molto importante: esso è amante, sposo, padre e sono molti i casi che testimoniano le sue galanterie; nei tempi più antichi visitava la madre di Augusto; <<…divideva con Filippo il talamo di Olimpia…>>;[35] in epoca medievale, il Diavolo si trasforma in incubo e succubo. Nel “Malleus Maleficarum”, nella parte in cui viene trattata la questione della procreazione, troviamo: << Noi diciamo pertanto tre cose: in primo luogo che questi diavoli commettono sconcissimi atti venerei non per godimento, ma per infettare l’anima e il corpo di coloro dei quali sono succubi o incubi; in secondo luogo che, con un atto simile, ci può essere una completa concezione o generazione da parte delle donne, perché i diavoli possono portare il seme umano nel luogo conveniente del ventre della donna e accanto alla materia qui predisposta e adatta al seme. […] In terzo luogo, nella generazione di siffatte cose ciò che avviene attribuito ai diavoli è solo il moto locale e non la stessa generazione, il cui principio non è una della capacità del diavolo o del corpo da lui assunto ma di colui al quale appartenne il seme, per cui chi è generato non è figlio del diavolo ma di un uomo>>[36]. Ciò significa che i succubi giacevano con gli uomini per poter raccogliere il loro seme, una volta che questi erano sfiniti, tale seme sarebbe poi stato utilizzato dagli incubi per fecondare le donne, infatti nel compimento dell’atto sessuale i demoni maschi sono Incubi e quelli femmina sono Succubi, che compaiono agli uomini sotto forma di giovani e bellissime donne, capaci di ineguagliabili arti seduttive ed erotiche e questo sembra sia stato giudizio comune. La tradizione demologica sosteneva anche che i demoni, pur avendo il potere, nei fianchi e nel ventre, non potessero procreare per la mancanza del seme. In alcune leggende, troviamo che i succubi potevano assorbire l’energia dell’uomo, di cui si alimentavano, fino a portarlo alla morte, inoltre lo spingevano al peccato con le loro tentazioni e ciò fu una delle spiegazione alle incontrollate polluzioni notturne che si verificavano nei soggetti più giovani.

Il Diavolo è padre, sposo, amante, e le sue attenzioni galanti sono convalidate da molte testimonianze. <<Era, del resto, una credenza comoda, che evitò più d’uno scandalo nei chiostri e più di un dolore ai mariti, che sovente hanno tante cose a raccomandare nelle loro famiglie>>.[37] Quando Satana ha queste avventure, cambia sesso: può essere un fantasma inafferrabile, che approfitta del sonno delle donne per commettere “dolci” furti a danno o a piacere delle prescelte, si posa lieve al capezzale di queste fanciulle e <<…quando la vigilanza del libero arbitrio si è assopita, egli macchia le nature più caste con colpa senza nome, che l’età di mezzo puniva col fuoco>>.[38]  Sostiene che gli Gnostici raccontino che al profeta Elia, quando fu rapito in cielo sopra un carro di fuoco, apparve un demone femmina, cioè succubo, il quale arrestò la corsa del suo carro e gli disse che gli aveva dato dei figli, il profeta, che non sapeva di essere un padre di famiglia, rimase molto meravigliato, ma il demone riuscì a convincerlo con la sua dialettica ed Elia si riconobbe come padre di una numerosa prole. Lo stesso demone commette ancora, durante il Medievo e in tutta l’Europa, intrighi e scandali, infatti lo vediamo nel XII secolo tormentare le notti della madre di Gilbert de Nogaret, nonostante questa sia una donna di grandi virtù e una fervida cristiana, forse, si chiede l’autore, se l’angelo addetto alla sua custodia avesse dato alla creatura satanica una esemplare ammonizione.[39]

Nel XVI secolo, Satana, sotto forma di una bella, giovane e prestante ragazza di nome Ermeline, vive in comune con i preti e i frati. In Germania riesce a sottrarre l’eredità ad una vecchia cameriera di un parroco, a cui era stata fedele per più di trent’anni. A Nantes, ai tempi di san Bernardo (1090-1153), il Diavolo si presenta vestito da militare in casa di un mercante, seduce la moglie e ogni notte giace presso l’uomo ignaro di tutto. Nel Brabante, sempre nella stessa epoca, il Diavolo chiede in moglie una ragazza appartenente ad un ceto sociale alto, la quale doveva entrare in convento, fa spese pazze per vestirsi alla moda dei tempi per essere all’altezza della fanciulla, che, vedendolo così vestito, lo crede un uomo di buona famiglia, nonostante ciò, questa volta prevale la fede, infatti la giovane gli risponde di cercarsi una moglie più bella fra le ragazze della città, perché lei non avrebbe mai lasciato il suo sposo celeste per un uomo. In Scozia, invece, dove c’era molta povertà, Satana comperava l’amore, pagandolo poi con denari falsi. In Italia corteggiava mandando mazzi di fiori e facendo serenate, insomma era molto più galante che nelle altre nazioni. In Germania scriveva in modo romantico alla maniera del Werter, di ciò facevano prova le lettere scritte durante una corrispondenza sentimentale intrattenuta con una giovane novizia presso il convento di Nazharet di Colonia, la quale fu sorpresa dal direttore mentre pregava il suo amante di portarla via da quel posto.[40]

Satana per farsi amare non ha bisogno di essere amabile, quindi è un privilegiato, riesce a sedurre anche le donne più restie e le sue signore gli sono fedeli. Ma qual è il suo segreto? Purtroppo non ci è dato conoscerlo, sappiamo che in genere preferisce ragazze di buona famiglia, le spose di Dio più belle e colte, ma nel 1640, non viene menzionato il luogo, il Diavolo riuscì a diventare l’amante di una bella e ricca ereditiera, che dopo qualche mese dall’inizio della tresca, la giovane venne scoperta dalla Santa Inquisizione, ci fu un enorme scandalo e fu condannata al rogo; la ragazza sperò fino all’ultimo momento che il suo amante venisse a salvarla, ma Satana arrivò solo per portare la sua anima all’Inferno.[41]

I figli nati da queste unioni sataniche non sono uguali a quelli degli umani, sono più magri e più pesanti, portano dentro loro stessi qualcosa che appartiene alla natura che allo stesso tempo è superiore e degenere del padre. Sono nani oppure giganti, mostri di scienza o di malvagità, come ad esempio il vescovo Guichard, che a Parigi viene considerato il figlio di Satana; l’incantatore Merlino, Norberto di Normandia, Attila e il suo popolo. <<Tra le grandi famiglie del mondo ideale e del mondo reale più d’un albero genealogico ha le sue radici nell’Inferno, solamente per una strana abnegazione, la goffaggine feudale si è impadronita di questa credenza per nobilitare i suoi blasoni e la casa dei Tagelloni, che si vanta di discendere dalle fate, le quali sono collaterali del diavolo, ne portava gli emblemi sul proprio stemma>>.[42]

Lo scrittore passa a parlare delle possessioni e dice che esse sono attestate, com’è noto, da Cristo stesso che liberò un posseduto da una legione di diavoli, e che si può credere alla Chiesa senza insultare la ragione, quando, per dimostrare se il presunto eretico era veramente colpevole, faceva appello alla dottrina della prova?  In tal modo la Chiesa insegnava che Dio permetteva al Diavolo di possedere l’uomo per poi punirlo come peccatore o provare la sua santità. La stregoneria, invece, racconta che per ordine di uno zingaro o di un pastore o di una vecchia donna, Satana lascia l’Inferno per possedere il corpo di una povera innocente o di un pacifico e innocuo cittadino, allora lo scetticismo è legittimo e ciò che Marescot nel 1598 scriveva a proposito di Marta Brossier, cioè che, nella maggior parte, i casi di possessione sono simulati.[43] <<In effetto è agevole cosa spiegare per cause naturali la presenza del diavolo nel corpo delle femmine. E come immaginavano gli uomini si effettuasse quella terribile unione? Secondo Giuseppe Storico, ebreo, accadrebbe per la trasfusione dell’anima dei morti condannati agli eterni supplizi nei corpi dei viventi. Seguendo una opinione più generale e più accreditata, si effettuerebbe per la trasfusione del diavolo stesso, sia che si conservi invisibile penetrando nei corpi, sia che vi si introduca sotto la forma di una mosca, d’un insetto o altro animale. Questa superstizione d’un secondo principio attivo in un medesimo ente porta nell’intima condizione dell’organismo uno spaventevole turbamento e dai primi giorni del Cristianesimo fino agli ultimi anni del secolo XVII i sintomi indicati di questa afflizione sovrumana sono dovunque i medesimi. Gli ossessi come i licantropi dei greci, si allontanano dalla società degli uomini per esegliarsi nei cimiteri e fin nel fondo delle sepolture, piangono e gemono senza motivo di dolore. Il loro volto prende il colore del cedro, le loro membra sono stirate e fatte pesanti, i loro occhi gonfi prorompono dalla testa, la lingua torta come una bacca di fagiuoli penzola sul mento. Movimenti convulsivi li levano d’un solo salto a parecchi piedi dal suolo e ricadono col corpo all’ingiù senza ferirsi. Felice d’Imola ne vide di tali che camminavano come le mosche sulla volta delle chiese. San Martino ne ha conosciuto altri che rimanevano per più ore sospesi in aria coi piedi volti al cielo, senza che il pudore rimanesse offeso. La presenza e il contatto con le cose sante raddoppia la loro tristezza. Quando si dà loro dell’acqua benedetta a bere, le loro labbra s’attaccano al vaso né è possibile il separarnele. Collocati avanti l’ostia essi si fanno in un rotolo e le loro membra cricchiano come legno secco che vien spezzato>>.[44]

Malgrado ciò essi hanno un’intelligenza vivissima, conoscono il passato e il futuro, conoscono tutte le lingue senza averle studiate e cosa strana senza muovere le labbra, nonostante ciò la loro anima non è alterata nella sua sostanza, quindi la carne appartiene al Diavolo e l’anima a Dio. L’anonimo dice che i preti conoscevano formule misteriose e minacce, cioè quelle formule recitate durante gli esorcismi e che qualche volta riuscivano a sottomettere gli ossessi che dovevano seguire un trattamento “igienico”. L’energumeno doveva digiunare quaranta giorni e quaranta notti, la prima settimana poteva mangiare solo pane freddo cotto sotto la cenere e bere acqua benedetta, le cinque settimane seguenti potrà bere il vino, mangiare il lardo, ma avrà cura di non ubriacarsi e si asterrà dal mangiare la tinca e l’anguilla (senza dubbio perché l’anguilla richiama il serpente e il serpente il Diavolo). Non ucciderà nessun animale né vedrà uccidere, eviterà di rendere impuri i suoi occhi, guardando un cadavere e quando il prete verrà per esorcizzarlo egli berrà dell’assenzio “usque ad vomitum”. San Pacomio aveva un’altra ricetta: faceva mangiare agli ossessi del pane benedetto tagliato a pezzettini che occultava fra dei datteri. Sant’Uberto ordinava dei bagni e nel 1080 accadde che un ossesso che per suo ordine era stato posto in un tino pieno d’acqua fredda, il Diavolo che, non poteva fuggire dalla bocca, <<…se ne andò sotto una forma tutt’aerea colla violenza d’una piccola tromba e sfondò il tino>>.[45]

La stregoneria insegnò ad evocare il Diavolo, dice l’autore, e anche a scacciarlo, la Chiesa contrapponeva la fede, la speranza la purezza come rimedio ai mali, al contrario la stregoneria si perse in pratiche oscure che spensero gli ultimi barlumi della ragione. La pratica magica prescriveva come sovrano rimedio di dare della valeriana nella casa dell’ossesso oppure di cospargere la soglia di casa di sangue di un cane nero e questi ultimi riti attecchirono più di quello di cospargere d’erba di valeriana la casa perché più comodi.[46]

Il 2 novembre del 1563, (nella versione portoghese 1565), circa quarant’anni prima della presunta possessione di Marthe Brossier, a Nicolina Obry di Vervins, presso Laon, mentre pregava sulle tombe dei suoi familiari, apparve la figura di un uomo che le disse di essere suo nonno, morto senza il sacramento della confessione e le chiedeva di far celebrare delle messe perché la sua anima potesse riposare in pace. I giorni seguenti l’antenato ricomparve alla giovane più volte, gettando Nicolina in una grande angoscia, tanto che cominciò a gridare, rotolarsi per terra con la bava alla bocca. Fu subito riconosciuta come indemoniata e, quindi, condotta nella chiesa del luogo per esorcizzarla. Luigi (Luis) Sourbaud, maestro di teologia, cominciò il rito, ma il Diavolo, che era salito sulla volta della chiesa, cominciò a tirare sassi all’esorcista ed ai presenti, tanto che il teologo fu costretto a rinunciare. A questo punto volle tentare l’esorcismo l’arcivescovo di Laon, duca e pari di Francia, al quale Satana disse che era un vero onore essere preso in considerazione da un alto prelato, ma che aveva convocato nel corpo della ragazza diciannove diavoli ben determinati. Il monsignore rimase sconcertato e il Diavolo, deridendolo, gli disse che sia lui che gli altri demoni si beffavano del suo rango e di Giovanni Leblanc (Giovanni Leblanc nel gergo di questo diavolo era Gesù Cristo) e se l’arcivescovo fosse stato capace di cacciare i diavoli dall’indemoniata, avrebbe fatto di lui un cardinale ed anche un papa, poi gli consigliò di andare a dormire. <<L’arcivescovo non desistette. Gli ugonotti che ridevano col diavolo del mal incontro avvenuto al prelato, si presentarono alla loro volta. Turnevilles et Conflans, ministri riformati, si recarono a Nicolina Obry: chi siete voi? donde venite? Chi ci ha mandati? E da quando in qua un diavolo può cacciarne un altro? comandò il diavolo: a cui Tournevelly- Io non sono un diavolo ma un servo di Cristo. Servo di Cristo! rispose Satana- ma in verità, Tournevelly, tu ti inganni, tu sei peggiore di me. Conflans per toglier d’impatto l’amico, che non sapeva che rispondere, si mise a leggere i salmi di Marat. Credi tu di incantarmi, gli disse Satana, con le tue graziose canzoni? Sono io che le ho fatte. Fortuna per la fanciulla che la Vergine si prese a cuore lo stato di quella, rispose a Satana di partire e partì, ma abbandonando Nicolina Orby, andò per vendicarsi a spezzare tutte le ardesie che coprivano la chiesa, strappare tutti i fiori del giardino del tesoriere, in seguito si mise in viaggio per Ginevra, ove chiamavanlo gli interessi della riforma>> [47]

Nel 1634, continua il racconto, in seguito alla deposizione delle religiose di Loudun e di Astaroy, capo dei diavoli dell’ordine dei Serafini, Urbano Grandier fu condannato al rogo e a questa condanna ebbe più parte attiva Laubandemont che Satana stesso e tutto questo fece perdere ai posseduti il poco credito che rimaneva loro.[48] In tal modo nelle leggende dell’Inferno tutto si confonde, tutto si amalgama: il riso e le lacrime, il grottesco e il terribile, il mistico e l’empio; l’uomo ha paura del Diavolo, ma non ha meno paura dell’uomo. Ci sono delle orazioni che per Satana fanno lo stesso effetto di un colpo di frusta ed egli è costretto a confessare che gli sarebbe più facile trascinare un asino da Milano a Ravenna che far peccare uno che reciti delle orazioni. Quando Satana viene sconfitto si vergogna perché crede di avere diritti di sovranità sul genere umano, tanto che certe volte va da Dio a lamentarsi delle sue sconfitte sulla terra.[49]

Fino ad ora, nella storia, era il Diavolo a perseguitare l’uomo, a sottometterlo, suo malgrado, al proprio impero, ai suoi capricci, ma d’ora in poi i ruoli cambiano, l’uomo va spontaneamente incontro a Satana, lo chiama, lo invita, gli offre la sua anima in cambio dei suoi favori e lo scopo è di sottometterlo ai propri comandi e carpirgli i segreti. Il giureconsulto Barthole parla di un processo in appello che il Diavolo intentò innanzi a Gesù Cristo contro gli uomini che avevano sconosciuto la sua potenza: san Giovanni teneva le funzioni di cancelliere, la Vergine di avvocato. Il Maligno perdette la causa e quando udì il decreto che respingeva la sua domanda, fuggì lacerandosi le vesti, ma gli angeli che avevano l’ufficio di uscieri, lo ricondussero ben legato all’inferno.[50]

<<La stregoneria istituì dei riti misteriosi per costringere Satana a manifestare la sua scienza, l’uomo correva dietro al potere e sarebbe andato a cercarlo fino all’inferno, quel potere che il suo orgoglio sognava. I più pazzi gli domandavano la sapienza: Alberto il Grande gli domandava i segreti della natura, l’abbate Trytheim, nel secolo XIV, il mistero dell’essere umano, Faust la scienza universale […] Luigi Goffredo di Marsiglia si dà al Diavolo per inspirare amore alle donne. Nel 1778 uno stalliere di Parigi che aveva perduto il suo peculio giocando, si vende per 10 scudi onde avere da mettere nuova posta al giuoco e verso lo stesso tempo l’inglese Ricardo Dugdale che voleva farsi il miglior danzatore del Lancashire, si vende per una lezione di ballo>>.[51]

Satana, che possedeva regni in ogni parte del mondo, ogni anno la notte di san Giovanni, la notte di giovedì e venerdì di ogni settimana, faceva inviti e ricevimenti solenni, invitava adulteri, invidiosi, eretici, giudei, donne della mala vita, ragazze che volevano seguire le prostitute e i malvagi destinati all’inferno, arrivavano da tutte le parti del mondo a quelle feste, celebri col nome di “ sabbati e di tregenda”.[52]

Il Diavolo, per risparmiare ai suoi ospiti la fatica del viaggio, donava loro un magico unguento per mezzo del quale valicavano lo spazio a cavallo d’una scopa, colla rapidità del pensiero. Qualche volta li portava sulle spalle, ma questo mezzo di trasporto non era senza pericolo, perché spesso accadeva che durante il viaggio, il Maligno, per il semplice gusto di far del male, tanto faceva che disarcionava i cavalieri, che si infrangevano al suolo cadendo dalle nubi.[53]

Già nei Capitolari si può leggere di donne che di notte viaggiano per l’aria per raggiungere Diana, ed è questa è la citazione più antica per i sabba nei documenti francesi, ma nell’arco di tempo che va dal secolo XIII al XVI se ne trovano menzionati molti, i luoghi d’incontro sono i cimiteri, le rovine di antichi edifici, boschi ed altri posti lugubri; ovviamente Satana, assumendo orribili forme, presiede dall’alto del suo scanno, mentre <<I presenti hanno la bestemmia sul labbro, la lussuria in cuore, pagani mostrano di celebrare la messa e sputano sul l’ostia, Satana predica l’empietà e il peccato, ci si legge l’Evangelo per riderne, i padri per insultare alla loro fede>>.[54] Quando il sabba viene convocato in vista delle feste, in cui la chiesa e i suoi fedeli praticano il digiuno, il Diavolo imbandisce splendidi banchetti e per divertire i convitati canta antiche storie oscene riprese dalle cronache dell’Inferno. <<Nei sabbati fiamminghi, sul principio del secolo XVI il diavolo dava talvolta grandi feste di ballo, alle quali la divisa di rigore era una nudità perfetta. Un vecchio turco apriva la danza con una giovane claustrale, vedevansi le streghe rapite tutta la notte da una ridda sfrenata, fremere ed agitarsi sotto invisibili baci e terminata la festa, vendevano al Diavolo, inginocchiategli innanzi il più spaventevole omaggio che una delirante immaginazione possa inventare>>.[55] Coloro che credono e sperano, ma che non riescono a trovare la felicità nella fede si rifugiano nell’estasi e nelle visioni, quelli che dubitano chiedono a Satana quelle cose terrene che non oserebbero mai chiedere a Dio; la Chiesa risponde a ciò con i roghi dell’Inquisizione sia per le streghe che per gli eretici.

Con le parole “vade retro Satana” l’autore “chiude” l’argomento su Satana e passa a parlare di entità che definisce “collaterali” al Diavolo, cioè di graziosi fantasmi, di fate, di silfi, di folletti che definisce: <<generazione appicciolita e raffinata dei vecchi demoni cristiani, che alle tradizioni de’ suoi avi tremendi messe le rimembranze della mitologia pagana e le leggende del mondo scandinavo>>.[56] In questo mondo di parvenze le fate esercitano una amabile potenza: sono regine pazzerelle e capricciose, hanno in mano uno scettro d’avorio e quando torna la primavera scorrazzano nell’aria in una conchiglia di madreperla tirata da farfalle. Nelle ore notturne esse danno origine a delle brezze leggere che fanno cullare i nidi e spargono sui fiori delle perle, portando i primi sogni d’amore alle giovani ragazze. Queste fate furono viste spesso ai matrimoni delle castellane o ai battesimi dei loro primogeniti, in cui cantavano in versi e in rime, poiché sono le sole, appartenenti al mondo fantastico, a coltivare le arti e le lettere. Ma queste creature sono, purtroppo, come l’uomo: mortali, la loro vita sulla terra è molto breve, così subiscono il destino riservato a tutte le cose belle, brillano per poco tempo e poi svaniscono. Per fortuna tutto non finisce con la morte, le fate, come gli uomini, hanno anch’esse un loro paradiso posto nel paese di Avallone.[57]

I silfi sono i diretti discendenti dei satiri e dei gitani, essi popolano i boschi e le valli, infastidendo le “forasette” come i loro libidinosi antenati molestavano le ninfe.

Le ondine, invece, stanno sdraiate sopra le piante vicino alle sorgenti, che sono le loro sedi; gli alastori vegliano lungo le strade, gli gnomi sulle valli. Ogni popolo, ogni paese, ogni villaggio ha il proprio spirito familiare come ogni focolare domestico dell’antichità aveva il suo dio.[58]

Quello che Socrate chiamava demone, in Germania diventa folletto, in Scozia si trasforma in gobelin e <<la sua vita misteriosa è legata alla capanna del mandriano, abita nell’atrio domestico, asperso di fuligine o nei fessi delle muraglie, a canto della celletta del grillo>>,[59] è servizievole, dolce, ma molto capriccioso, si prende cura delle mandrie in montagna oppure raccoglie le spighe di grano lasciate indietro nei campi per la famiglia che protegge. In Germania, aiuta i taglialegna ad abbattere i tronchi di alberi più grossi e resistenti; con le braccia nude e un grembiule di cuoio legato alla vita, va nelle miniere ad aiutare i minatori avvolgendo gli argani e li difende <<contro il genio delle fiamme cerulee, che veglia negli abissi>>.[60] Negli annali tedeschi, in cui si racconta del passato, ancora viene ricordato Heideking, folletto personale di un arcivescovo, il quale per trent’anni mondò i legumi per i pranzi del protetto. Si ricorda quel folletto che si dedicò per dieci anni come scudiero al servizio di un barone e non ci fu un paggio o uno scudiero più premuroso di lui: quando il barone usciva per andare a caccia, il folletto gli teneva la staffa e stringeva la briglia del focoso cavallo. Quando il barone galoppava alla guerra, lui gli correva davanti per illuminargli la via. Un giorno la moglie del cavaliere si ammalò gravemente, il folletto la curò con un unguento che subito la ristabilì in salute; il barone gli chiese chi fosse, lui che aveva riportato in vita la donna che Dio gli aveva data come compagna; il folletto rispose di essere un demonio, ma subito lo rassicurò dicendo che la sua unica felicità era quella di abitare con gli uomini e rendersi loro utile. Il cavaliere rispose che angelo o demonio che fosse gli doveva una ricompensa e gli offrì metà dei suoi beni, ma il folletto chiese solo cinque soldi per comprare una campana e collocarla nella povera chiesa del villaggio per richiamare i fedeli alle funzioni domenicali. Naturalmente il folletto-demonio fu accontentato dal cavaliere.[61]

Ma, continua il narratore, dopo che Shakespeare ha narrato di Titania, regina delle fate e sposa di Oberon, re dei folletti e Nodier del folletto d’Argan, è inutile parlare di questo argomento, tanto sono stati grandi questi autori.[62]

Per la collera di Dio, Satana fu bandito dal cielo e dalla terra a causa dello scetticismo degli uomini, allora il maligno si rituffò nelle tenebre, nonostante ciò la sua memoria è dappertutto “ubique daemon”, nei racconti popolari, nella poesia, in ogni forma di arte, perché, come dicono le leggende, prima di scomparire dal mondo ha voluto lasciare tra gli uomini le sue tracce innalzando monumenti per salvare la sua memoria. <<In Inghilterra edificò l’abbazia di Crowland, in Germania ha tracciato il piano della cattedrale di Colonia. Figli d’un secolo in cui anche l’inferno si vorrebbe messo in dubbio, noi non ci diamo molta pena di questo invisibile nemico, che minaccia di essere un giorno il signore di tutti. Se il suo nome temuto ritorna assiduamente sulle vostre labbra, ci è ragione che egli si è rifugiato nel vostro linguaggio, come li dei detronizzati del paganesimo si rifugiavano nella poesia. Dice che la parola di Dio la pronunciamo nell’Eire solenni, mentre il diavolo lo rammentiamo anche per esclamazione>>.[63] L’autore continua dicendo che fin dall’antichità tutti i grandi scrittori, dedicano a Satana almeno un capitolo delle loro opere: chi si occupa della sua sostanza, chi delle sue operazioni misteriose, chi del suo destino, altri della sua malvagità e delle sue astuzie. Nel XVII secolo l’inglese Giovanni Dee <<lega alla biblioteca di Oxford l’istoria delle sue conferenze con gli spiriti infernali, Giacomo I d’Inghilterra per occuparsi di Satana, oblia la cura del proprio regno. Del Rio e gli inquisitori che fanno bruciare le streghe per conferma dei loro sillogismi, dichiarano che negare il diavolo è dubitare di Dio e questi giureconsulti demoniaci, questi procuratori generali di Belzebub redigono il diritto consuetudinario dell’Inferno. Anche la filosofia quando si leva alle ultime sublimità si dà ancora qualche preghiera del demonio e Leibnitz gli dedica una pagina nella sua Teodicea. Sul teatro osceno e mistico dei nostri padri, dice che Satana ha parti importanti, mentre Dio quelle secondarie, come gli dei dell’Olimpo che guardavano le cose degli umani con distacco e senza prenderne parte>>.[64]

Nel Medioevo era un onore municipale per i cittadini, per gli artigiani e per gli artisti sostenere la parte del Diavolo, tanto che erano loro accordati vari privilegi, infatti a Chaumount in Francia agli attori che avevano sostenuto questa parte era concesso di vivere a loro piacere nel paese e da ciò sembra derivare questo detto: <<Se piace a Dio, alla santa Vergine, a messere san Giovanni, io sarò diavolo e pagherò i miei debiti>>.[65]

Satana aveva anche una grande importanza nei drammi del secolo XVI: a varie composizioni fu dato il titolo di “Diavoleria”. Le scene più corte erano rappresentate da due personaggi, quelle più lunghe da quattro, da qui il celebre detto “fare il diavolo a quattro”. Nell’opera dantesca Satana è una creatura orribile e gigantesca, più tardi, nel XVII secolo, con Milton si trasfigura e riprende qualcosa della sua primitiva bellezza. Anche gli scultori spesso si ispirano a questa figura che viene rappresentata con aspetto tetro e orribile, come il simbolo di una natura degradata, caduta dallo stato di intelligenza a livello di animali mostruosi: viene raffigurata con piedi caprini, maschera sul volto per testimoniare la sua duplice natura. Nelle chiese cristiane, durante il XII secolo si può vedere rappresentato in piedi dietro alle bilance che servivano per pesare le azioni dei defunti, proprio come gli dei infernali dell’Egitto. Nelle scene rappresentanti l’Inferno e il Giudizio, appare dotato di strumenti di tortura e di morte come i carnefici. In un bassorilievo nella cattedrale di Chartres, Satana spinge con forza i dannati dentro la gola di un dragone. Sulla tomba del re merovingio Dagoberto, il Maligno conduce, maltrattandola, l’anima dannata del nobile nella sede di Vulcano, forse a causa dei suoi delitti.[66]

La Chiesa, continua il narratore, cerca di trattenere i fedeli sulla via del bene per mezzo della paura: coi commenti e le prediche; anche le statue, le vetrate dipinte raffigurano spesso la laidezza del peccato, con figure grottesche che Ugo di San Vittore mostra mutilate a causa del vizio, senza orecchie, senza labbra, senza braccia, che si rotalono per terra cercando invano di riunire le loro membra al corpo. <<Qui l’arte ha espresso la vittoria del diavolo sull’uomo, altrove egli significa sotto altri simboli, le vittorie dell’Angelo e dell’uomo sul diavolo. Il dragone atterrato da san Giorgio, dall’arcangelo Michele non è altro che l’emblema di Satana vinto>>.[67] Anche la liturgia rinnova il ricordo delle sconfitte subite dal maligno. <<Les gargonilles, les tarvasqus, i basilischi, tutti quelli animali che si trovano in certe città nelle processioni solenni e che si gettavano in seguito alla sepoltura degli asini, come li scomunicati, era ancora il diavolo, che seguiva come i prigionieri nei romani trionfi, la cassa del santo che l’aveva vinto>>.[68]

Per spiegare queste stranezze della fantasia, in cui si mischiano e si confondono il misticismo e l’empietà, il terribile e il grottesco, l’autore sostiene che prima facciamo ricorso all’ignoranza e alla barbarie dei tempi passati, poi, riflettendo, possiamo capire che ogni forma di superstizione ha i suoi antecedenti e i suoi motivi, così dà una spiegazione alla credenza nell’apparizione dei morti: non è altro che il risultato del dogma dell’immortalità, infatti la seconda vita, quella rivelata dal Cristianesimo, quella in cui sono riposte tutte le speranze dei fedeli, l’anima conserva la memoria e le speranze della vita vissuta su questa terra, ma una volta libera e sciolta dai suoi legami è possibile che qualche volta faccia ritorno verso quella terra che conserva la sua spoglia mortale? In quella terra dove, forse, fa ritorno condotta dal ricordo e dall’amore di chi l’ha amata? <<In questi misteri della morte la credulità che ci fa sorridere non è dunque che la conseguenza immediata? della più cara fra le speranze che ci consolano>>.[69]

L’astrologia, che ha le sue radici nella scienza, cerca nei cieli e negli astri la spiegazione del futuro: perché crediamo in tutto ciò? Perché se è in grado di predire rivoluzioni che si compiono nell’immensità dello spazio, può essere in grado di conoscere cose che riguardano il breve cerchio del mondo e quello ancora più breve della vita. L’uomo, quindi, quando si smarrisce nell’assurdo cerca di trovare sempre qualche punto d’appoggio nella razionalità.

Nel Medioevo si crede nell’intervento continuo del Diavolo nelle cose del mondo, ma la verità, continua l’autore, è che fin dai primi tempi, l’intera umanità concepì la nozione di Satana per la coscienza dei mali che ella ha sofferto e quando scrittori come Bardesane, Magnete, Priscilliano o i Sataniani e i “Vodesi” innalzano il Diavolo come idea di causa e lo descrivono come viceré di questo mondo, lo fanno <<onde salvare il dogma della infinita bontà divina e si gettano così nell’eresia per non cadere nella bestemmia.>>.[70]

Proprio per questo l’eresia nega la divinità di Cristo, la purezza della Vergine, i sacramenti, ma rispetta Satana, esaltando la sua grandezza e dilatando i confini del suo super-io, come ha fatto Lutero. Satana è l’incarnazione dei sette peccati che uccidono l’anima, è un secondo dio della creazione: il dio dei malvagi, degli ambiziosi, dei prepotenti, degli avari. L’uomo è capace di adorare in due modi: con il misticismo che tende alla conoscenza assoluta, ai beni immortali; con la stregoneria, che cerca la potenza, la scienza, la fortuna, l’amore, cioè tutti i beni effimeri. <<Questa antica e cupa leggenda del diavolo è forse il simbolo, il più amaro della tristezza infinita cha c’è in tutti i tempi e in tutte le cose, dei semi del vizio, dell’oscuro istinto del male che trovasi in fondo di tutte le anime e che malgrado la sua follia, la sua stessa empietà ha esercitato sul passato una utile influenza. In questa vita, che è tutta ad un tempo una espiazione ed una prova, il cristiano, in faccia a questo nemico che l’assedio e l’assalto, è sempre adunato per la battaglia e sostiene la lotta con confidenza, perché egli sa che Satana non può vincere fuori quelle che cede e cedere vuole: non vincit mini volentem. […] Durante questo impero che Satana si mantenne lungo il corso di diciotto secoli, esso ha inspirato più terrore che Dio non inspirò d’amore, ma da questo terrore medesimo venne all’uomo una forza ed una confidenza per operare il bene che questi non sempre derivarsi dalla sola fede e più di un santo gli deve forse la sua salvezza e la aureola sua>>.[71]

Satana è colui che con fare seducente e serpentino si introduce nella mente degli uomini e più spesso delle donne, è l’attore camaleontico che con le sue apparizioni ingannatrici e false e con i suoi inganni e stratagemmi riesce a irretire l’animo dei mortali, in un universo di incontri veri o presunti, in cui la sua “professione” è sempre quella del tentatore.

NOTE

1 Biblioteca Ambrosiana (d’ora in poi B.A.), Ms. O 307 sup., c. 1 v. e segg.

Nel frontespizio del manoscritto, non datato, troviamo una specie di biglietto da visita con la seguente scritta:

“All’illustrissimo Signor Prefetto della Biblioteca Ambrosiana

Trovai in vecchie carte il qui unito fascicolo manoscritto, che offro alla Biblioteca, sperando che abbia qualche valore storico volle modo. Vi sono narrate le varie credenze popolari sul Diavolo presso vari popoli. Non so donde provenga questo vecchio manoscritto: ne ignoro l’epoca e l’autore: forse qualche paziente studioso potrà saperlo leggendo e studiando l’interessante opera”. Saluti e auguri.

Antonio Marcello Annoni

Ex capo ufficio Cassa di Risparmio Pubblicista-Insegnante Geografia Commerciale

Milano Corso Magenta 78

24\3\1922

2 Cfr. Wikipedia, https://fr.wikipedia.org/wiki/Charles_L%C3%A9opold_Louandre.

3Cfr. A. Coustè, Breve storia del Diavolo, Antagonista e angelo ribelle nelle tradizioni di tutto il mondo, WWW. Castelvecchieditore.com/spirale/mente_anima/estratti/diavolo.html.

4 Cfr. J.B. Russell, Il Diavolo nel Medioevo, Laterza, Bari 1987, prefazione.

5 L. Fabbri, Il Diavolo e l’Acquasanta, in “Chi ha spezzato il giorno delle piccole cose?”, A Domenico Maselli, Professore, Deputato, Pastore, E.P.A Media, Aversa 2007, pagg. 323-348.

6 B.A., Ms. O 307 sup., c. 3 v.

7 B.A., Ms.O 307 sup., c. 3 v. Bardesane fu un siriaco gnostico, fondatore del “bardesanismo” e uno scienziato, studioso, astrologo, filosofo e poeta, noto soprattutto per la sua conoscenza dell’antica India, su cui scrisse un libro, ora perduto. Bardesane nacque nel 154 d.C. ad Edessa da genitori benestanti. A causa dei disordini politici in questo luogo, Bardesane e i suoi genitori si trasferirono in un’altra città, dove fu cresciuto nella casa di un sacerdote pagano di nome Anuduzbar. A scuola, senza dubbio, imparò tutti i dettagli di astrologia babilonese, formazione che segnò per sempre la sua mente. All’età di venticinque anni, ebbe l’opportunità di ascoltare le omelie di Istaspe, vescovo di Edessa, fu allora che si convertì al Cristianesimo, fu battezzato e ammesso al diaconato o al sacerdozio. Prisciliano: vescovo spagnolo, nato in Galizia intorno al 340 e giustiziato a Treviri nel 385 su ordine dell’imperatore Magno Massimo, dopo essere stato denunciato da alcuni vescovi spagnoli. Da lui prende il nome il movimento del Priscillanesimo, che si diffuse in Spagna, Provenza e Aquitania, dove probabilmente sopravvisse fino al VI secolo specialmente in Galizia.Taziano: Apologeta cristiano, nato probabilmente in Siria tra il 120 e il 130. Educato alla cultura greca, fu forse un filosofo vagante sulla moda dei retori o cinici; convertitosi al cristianesimo, più tardi si avvicinò forse a scuole gnostiche e a lui gli eresiologhi antichi fanno risalire la setta degli Encratiti; staccatosi dalla Chiesa insegnò in Oriente, ma passò poi ad Antiochia di Siria. Dopo la conversione scrisse il “Discorso ai Greci”. Cfr. Wikipedia https://it. Wikipedia.org/wiki/Bardesane; https://it.wikipedia.org/wiki/Prisciliano; https://it.wikipedia.org/wiki/Taziano_il_Siro.

8 Cfr. A. T., Pentateuco, Genesi

9 Genesi, 12, 14-17

10 Cfr. Esodo, 7:4-5

11 Cfr. Andrea De Pascalis, Alla scoperta del Diavolo: L’Antico Testamento e i vangeli; http://www.disinformazione.it/diavolo.htm

12 B.A., Ms. O 307 sup., c. 4 v.

13 Ibid.

14 Ibid.

15 Ibid. c. 4 r.

16 Ibid.

17 Ibid. c. 5 v.

18 Ibid. c. 5 r.

19Cfr. B.A., Ms. O 307, c.7 r.

20 Ibid., cc. 8 r. e 9 v.

21 Cfr. B.A., Ms. O 307 sup., c. 10 r.; c. 11 v. Salviano di Marsiglia: scrittore cristiano del V secolo, forse nativo di Treviri; laico, dopo alcuni anni di matrimonio si ritirò a vita ascetica a Lérins; quindi, divenuto sacerdote, visse a Marsiglia. Nel De gubernatione Dei (8 libri, 439-451) contrappose ai vizi dei Romani le virtù dei barbari, sostenendo che questi erano lo strumento della Provvidenza per colpire i trasgressori della sua legge. Cfr. Salviano, De gubernazione Dei, V, 4-5, in IDEM, Oeuvres, II, a cura di G. Lagarrigue, Surces chrétiennes, 220, Paris, Les Edtions du Cerf, 1975, pp.320-29.

22 Il termine, di derivazione greca (splen), venne reso famoso durante il Decadentismo dal poeta francese Charles Baudelaire, con l’accezione di tristezza meditativa o melanconia, ma il concetto di spleen deriva dalla medicina greca e lo troviamo anche nel Talmud, concernente la milza come organo del riso.

23 Cfr. B.A., Ms. O 307 sup.,c.12 v. Santa Pelagia, visse nel III secolo ad Antiochia, era soprannominata Margherita per la sua splendente bellezza, famosa come attrice ma soprattutto come prostituta. Era solita attraversare la città preceduta e seguita da un lungo corteo di servi; ricoperta di gioielli preziosi e riempiendo l’aria di profumi e altri aromi. Un giorno assistettero al passaggio di questo corteo alcuni vescovi, i quali subito distorsero gli occhi da questa visione peccaminosa, ad eccezione del vescovo Nonno, il più anziano, il quale la fissò a lungo e poi disse agli altri vescovi che tale bellezza non poteva che rallegrare, aggiunse che essi avrebbero dovuto pensare a quante ore la donna avesse passato ad ornarsi in quel modo per piacere ai suoi amanti, noi invece che abbiamo la promessa di vedere nei cieli Dio onnipotente non abbelliamo né togliamo le brutture delle nostre anime, ma le lasciamo lì trascuratamente. La donna fu toccata dalle parole del vescovo, andò a inginocchiarsi ai suoi piedi e si fece battezzare, poi cambiò i suoi ricchi abiti con la tunica da penitente e andò a Gerusalemme a piedi, dove visse nella modestia assoluta, tanto che fu scambiata per un uomo e la vera identità fu scoperta solo dopo la sua morte. Cfr, Vitae Sanctae Pelagie meretricis, Patrologia Latina 73.

24 B.A., ms. O 307 sup., cc. 12 v. e 12 r. Si riferisce a Sant’Antonio d’Egitto, nato a Qumans (l’antica Coma) nel 251 circa e morto nel deserto della Tebaide nel 357, considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati. Quanto descritto nel testo ci è stato tramandato dal suo discepolo Atanasio di Alessandria, in “Vita Antonii”, in cui viene descritta la lotta contro le tentazioni di Satana, episodi che vennero in seguito ripresi anche da Jacopo da Varagine nella “Legenda Aurea”.

25 Cfr. B.A., ms. O 307 sup., c. 12 v. Sia dal manoscritto che dall’opera originale non si capisce se si tratti di san Macario il Grande o di san Macario Alessandrino, anche lui monaco e contemporaneo del primo (300-390) e ambedue discepoli di sant’Antonio abate.

26 B.A., ms. O 307 sup., cc. 12 v. e 12 r. San Sulpizio o Sulpicio, fu vescovo di Bourges dal 624 fino alla morte avvenuta nel 647, Cfr. Martirologio Romano, www. Santiebeati.it/dettaglio/39070. San Norberto era nato a Xantes in Germania nel 1080-1085 circa, fu fondatore di un ordine monastico: i Premostratensi e si dedicò anche all’evangelizzazione. Fu vescovo di Magdemburgo, morì nel 1134 e nel 1582 fu dichiarato santo. Cfr. Martirologio Romano, http://www.santiebeati.it/dettaglio/27650.

27 B.A., ms. O 307 sup., cc. 14 v. e 15 r. Nel Medioevo, gli scabini, uomini liberi (ingenui), istruiti nelle leggi (sapientes) di buona condotta (Deum timentes), che, nominati dal re, costituivano un corpo di giudici permanenti nell’ambito della contea o della centena, che si sostituiva ai rachimburgi. La loro istituzione risale all’età carolingia; erano nominati dai missi dominici, erano in numero di 7 o di 12 e il loro giudizio diveniva esecutivo per il tramite della sentenza pronunciata dal conte. Cfr. Encicl. Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/scabini/. La città del nord e il quadro descritto non sono identificabili, in quanto anche nell’opera originale non ne viene fatta menzione.

28 B.A., ms. O 307 sup., c. 15 r. Riportiamo il brano dell’opera originale di Louandre: “En 1118, Hugues de Crécy étrange Miron de Montlhery, son parent; Philip répudie Berthe et enlève Bertrade; Jean-sans-Peur fait tuer le duc d’Orleans: c’est le diable qui a voulu le meurtre et l’adultère; il est plus coupable que Jean-sans-Peur, Hugues et Philippe”. Da evidenziare le date che non coincidono: probabilmente Louandre si riferisce, con la sua data, al primo fatto, l’anonimo invece si riferisce all’assassinio del duca D’Orleans.

29 Cfr. Ibid., c.17v. E’ evidente l’allusione alla “Divina Commedia” di Dante, la diatriba tra gli angeli e i diavoli sembra una trascrizione del canto III del Purgatorio, il cosiddetto canto di Manfredi, figlio di Federico II e nipote di Costanza d’Altavilla, il quale muore scomunicato, ma si trova tratto in salvo per l’eternità per essersi pentito dei suoi peccati in punto di morte. Più avanti menziona ancora Dante e il canto XXXIV dell’Inferno, quando il poeta fiorentino dice di rimane sospeso tra la vita e la morte per l’impressione avuta dalla vista di Lucifero “Lo ‘mperador’ del doloroso regno” e continua a spiegare il canto fino quasi alla fine, sempre con lo scopo di rendere l’idea di quanto sia terribile Lucifero.

30 Ibid., c.19 r.

31 Ibid. Tutto ciò ricorda molto il mondo dei clerici vagantes, dove una folla caotica e allucinata domina la scena, le maleodoranti taverne piene di uomini e donne ubriachi, frati in cerca di piaceri che recitano blasfeme parodie dei testi sacri, buffoni, goliardi, che inneggiavano al vino, all’amore, al gioco, alla fugacità delle vicende umane,all’amicizia, alla celebrazione delle stagioni e dove Parigi era considerato il paradiso sulla terra, dove si cantavano quei canti oggi conosciuti come “Carmina Burana”, anche se l’autore dell’opera originale, edita nel 1842, non poteva conoscere questa raccolta di canti medievali, in quanto edita nel 1847 dal bibliotecario Johann Andreas Schmeller, il quale scoprì circa 250 poesie nel “Codex Buranus” , in latino, francese e medio-alto tedesco, edite appunto nel 1847 con il sottotitolo “Canti e poesie latine e tedesche del XIII secolo, da un manoscritto proveniente da Benediktbeuren”

32 Ibid., c. 20 v.

33 Ibid.

34 Ibid., c22 r. A questo punto terminano la prima e la seconda parte del manoscritto, la terza è compresa tra c.23 v. e la c.48r., ma l’ultima carta è cancellata con dei fregi dall’autore, in quanto ripetizione della carta precedente. La terza ed ultima parte parla dell’amore satanico, l’autore descrive o meglio trascrive l’amore nella vita del Diavolo.

35 Ibid., c 23v. Si riferisce a Filippo re di Macedonia e alla terza moglie Olimpiade, madre di Alessandro Magno. La   nascita di Alessandro, secondo una leggenda molto nota, fu circondata da notizie misteriose, diffuse forse dalla stessa madre: si diceva fosse stato concepito per opera di un serpente e per intervento di Zeus. Nei mosaici della fine del secolo IV d. C. di Baalbek, osserviamo che Filippo volge violentemente le spalle alla moglie, disconoscendo la paternità di colui che diverrà Alessandro il Grande. Cfr. C. Frugoni, Alessandro Magno , in Enciclopedia dell’Arte Medievale, 1991

36 J. Sprenger-H. Kramer, Malleus Maleficarum, Venetiis MDLXXVI, Parte I, Questione III; Cfr. F. Troncarelli, Le streghe, Newton Compton Editori, Roma 1983, p. 23 e segg.

37 B.A., ms. O 307 sup., c. 24 r.

38 Ibid.

39 Ibid., c. 24 v. Nel manoscritto troviamo Eliseo non Elia, probabilmente nel tradurre dal francese è stato confuso il maestro con il discepolo. L’anonimo trascrittore è solito riportare a piè di pagina le note che trova nell’opera originale: questa notizia è presente in “Vie de Guilbert de Nogent, Collect. Guizot, IX, 995. Si tratta di Guilbert de Nogent, monaco benedettino, storico e teologo, fu abate del monastero di Notre-Dame a Nogent, nato nel 1055 (alcuni testi riportano la data del 1053), morto nel 1124.

40 Cfr. Ibid., c. 25 r. e v.

41 Cfr. Ibid., c. 26 r.

42 Ibid., cc. 27r. e 27 v.

43 Cfr. Ibid. c. 28r. Il caso di Marthe Brossier, conosciutissimo nei minimi particolari, deve la sua eccezionalità ad alcuni fattori: con l’aiuto dei padri cappuccini di cui ella era ospite, rende la notizia nota a tutta Parigi e fornisce ai predicatori un nuovo motivo per scatenarsi ancora contro i protestanti. La formula stessa della possessione ricalca i casi di Nicole Obry, di cui accenneremo più avanti, di Jeanne Féry, di Perrine Sauceron, cioè Marthe è posseduta ma non ha patteggiato col Diavolo, come le streghe tradizionali, anzi si atteggia a vittima, bisognosa di esorcismi e supporto spirituale. Cfr. R. Mandrou, Magistrati e streghe nella Francia del Seicento, Laterza, Bari 1979, vol. I, p. 183 e segg.

44 Ibid., cc. 28 r. e 28 v.

45 Ibid., c29 r.

46 Cfr. Ibid., cc. 29v e 30 v. Segue il racconto di un esorcismo fatto da sant’Antonio, in cui il Diavolo non voleva andarsene dal corpo posseduto.

47 Ibid., cc.31 v. e 31 r. Il fatto è molto noto, ma l’elemento innovativo consiste nell’esorcismo pubblico, come più tardi avverrà per il caso Brossier, la quale conosceva molto bene, per averli letti più volte, gli esorcismi praticati su Nicole Obry davanti a centinaia di spettatori. Cfr. R. Mandrou, Magistrati…, p. 214-215

48 Il processo di Loudun fa parte dei tre grandi scandali del XVII secolo: Aix-en-Provence, Loudun e Louviers. Il processo svoltosi ad Aix-en-Provence nel 1611 riguardava un prete accusato di avere stregato una sua penitente, Madeleine Demandols de la Palud, che con le sue accuse fece condannare e giustiziare il prete dopo un breve processo. La ragazza subì per un anno gli esorcismi, riuscendo a convincere tutti della realtà del delitto diabolico. Il caso di Loudun fu ancora più scandaloso del primo: nel 1632 Janne des Anges, priora di un convento di orsoline si dice posseduta dal Demonio e con lei quasi tutte le altre consorelle, molte delle quali erano ragazze appartenenti alla piccola nobiltà locale, addirittura una era parente del cardinale Richelieu e un’altra dell’arcivescovo di Bordeaux. Come già Madeleine Demandols, anche Janne des Anges accusa di stregoneria un prete, Urbain Grandier, curato di S. Pietro al Mercato, canonico prebendario di Santa Croce, ottimo predicatore, confessore e letterato, molto conosciuto nel bel mondo anche per essersi fatto trascinare in avventure femminili poco convenienti alla sua posizione. Martin de Laubardemont, capo della commissione, condanna Grandier al rogo e la sentenza viene eseguita il 18 agosto 1634 al cospetto di seimila persone accorse da tutte le città vicine. La terza tragedia diabolica, quella di Louviers, che cominciata all’incirca nello stesso tempo di Loudun e finita nel 1647, sembra una squallida imitazione dell’eclatante processo di Loudun. Principali protagonisti della vicenda sono una semplice suora Madeleine Bavent, l’accusato Mathurin Picard, curato di Mesnil Jourdain, prete di buona reputazione. Sembra che i disordini si siano limitati ad alcune manifestazioni convulsive in varie religiose in seguito alle chiacchiere sorte per i fatti di Loudun. Il vescovo di Evreux non allarmò le autorità giudiziarie e non fece fare esorcismi; tutto fu messo a tacere e nel 1642 Picard morì e fu sepolto nella cappella del convento. Cfr. R. Mandrou, Magistrati…, vol. II, pp.224 e seg.

49 Cfr. B.A., ms. O 307 sup., cc. 32v.-33r

50 Si tratta certamente di Bartolo da Sassoferrato e della sua opera “Tractatus quaestionis ventilatae coram domino nostro Iesu Christo inter Virginem Mariam ex una parte et diabolum ex alia parte. Cfr. D. Quaglioni, La Vierge et le diable. Littérature et droit, Littérature comme droit, in Politique et Societé, 5/2005, pp. 39-55

51 B.A., ms. O 307 sup., c. 35r. Joannes von Heidenberg, detto Tritheim, era un monaco benedettino tedesco, nato a Trittenheim nel 1462, morto a Wurzburg 1516, abate a Sponheim, dove creò una famosa biblioteca trasferita in seguito in quella vaticana. Le sue opere trattano di teologia, storia, alchimia, medicina, ma fu anche autore del primo testo stampato di crittografia: “Polygraphiae libri sex”, anche se la crittografia moderna nasce con Leon Battista Alberti, quando un funzionario pontificio gli chiese di inventare un metodo di crittografia. Cfr. Enciclopedia Treccani, www. Treccani.it/enciclopedia/giovanni-tritemio

52 E’ con il “Canon Episcopi”, testo attribuito al Concilio di Ankara del 315, ma di origine carolingia, che si esamina la possibilità che alcune donne sostengano di avere la facoltà di compiere malefici o di cavalcare di notte sopra demoni con sembianze di bestie. Da questo documento, che conosciamo in due diverse edizioni risalenti al X-XI secolo, rispettivamente di Reginone di Prum e di Bucardo di Worms, che inizia la credenza nella “Società di Diana” e nel sabba. Cfr., F. Cardini, Magia, stregoneria, superstizioni nell’Occidente medievale, La Nuova Italia 1979, pp. 19 e segg.; C. Ginsburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi,Torino 1972; F. Troncarelli, Le streghe…, p. 25 e segg.

53 Cfr. B.A., ms. O 307 sup., c. 36 v.

54 Ibid., c. 37 r.

55 Ibid., c. 37 v.

56 Ibid., c. 38 v.

57 Cfr. Ibid., c. 38 v. L’autore si riferisce forse ad Avallion, città della Francia centrosettentrionale nel dipartimento dell’Yonne, il cui nome latino è Aballo e nella tavola Peutingeriana occupa un promontorio che domina la valle del Cousin. Ne Medioevo i duchi di Borgogna vi costruirono un castello. Cfr. Enciclopedia Treccani, www.treccani.it/enciclopedia/avallon_(Enciclopedia_dell’_Arte_Medievale)/

58 Cfr. Ibid., c. 39 r. I silfi sono i corrispondenti maschili delle silfidi, figure mitologiche agili, snelle, sono geni del vento e dei boschi, che si spostano nelle correnti aeree anche ad altezze vertiginose. Sono molto timidi anche se amano il contatto con gli uomini, spesso ingannandoli, specialmente quelle femminili; talvolta possono essere dolci, utili e se ritengono che l’aiuto loro richiesto sia giusto, fanno di tutto per aiutare il loro protetto. Le ondine sono creature simili alle fate, le ninfe o spiriti acquatici che stanno nei laghi, foreste, cascate, non possono avere un’anima fino a quando non sposano un uomo e non gli danno un figlio; sono state popolari nella letteratura romantica; molto presenti nel folklore germanico, dove sono descritte come creature simili alle sirene greche. Sono considerate esseri maligni o amichevoli secondo le varie tradizioni. Gli alastori sono figure della mitologia greca, personificazione della vendetta e delle lotte familiari, sono stati associati anche con i peccati che si tramandano da padre a figlio. Nella mitologia romana sono come i geni, o spiriti della casa, che incitano le persone ad uccidere e commettere altri peccati. Il termine gnomo indica uno spirito ctonio, poi il termine è entrato nel folklore europeo per designare gli spiritelli della terra, spesso, secondo le tradizioni, sono confusi con gli elfi e i gobelin. Secondo Paracelso, che fu il primo a menzionarli, si muovono all’interno della terra con estrema facilità e sembra che i raggi del sole possa trasformarli in pietra.

59 Ibid., c. 39 v. La figura del folletto sembra avere avuto origine dai Lari, geni della casa. Nel folclore europeo condivide caratteristiche siminili con il lutin, il coboldo, il brownie, il puck, il gobelin, il leprechaun.

60 Ibid., c. 39 v.

61 Cfr. Ibid., c.40 v.

62 Cfr. Ibid.; Cfr. W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate; Trilbyil folletto di Argail, traduzione a cura di Elena Grillo, Roma: Lucarini, 1988 Titolo originale: Trilby, ou le lutin d’Argail.

63 B.A., ms. O 307 sup., c. 41v.

64 Ibid., c. 42 r.

65 Ibid. Questa frase è inesistente nell’opera originale di Louandre

66Cfr. Ibid., cc. 43 r. e v. Dagoberto divenne unico sovrano di tutti i regni Franchi facendo uccidere le persone che ostacolavano la sua egemonia sul regno e tra questi anche il fratellastro Cariberto. Morì nel 639 a Parigi di dissenteria e fu sepolto nella basilica di Saint-Denis, che da allora divenne il luogo di sepoltura più prestigioso della Francia e dove più tardi saranno inumati Carlo Martello e Pipino il Breve. L’arredo fu affidato all’orafo sant’Eligio. Cfr. Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Dagoberto_|

67 Ibid., c. v.

68 Ibid, cc. 43 v. e 44 r. Le “gargonilles” sono le gronde gotiche; le “tarvasqus” i mostri mitologici; i “ basilischi”, nell’antichità e nel Medioevo, rappresentano rettili fantastici con cresta e corona sul capo e occhi fiammeggianti che uccidevano con lo sguardo.

69 Ibid., c. 44 v.

70 Ibid., c. 45 r.

71 Ibid., cc. 45 v. e 46 r.

 

 

 

 

 

 

Novità editoriale

 

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È innegabile che la storia degli ultimi due secoli e il più stretto contatto con la civiltà occidentale abbia innescato nei paesi musulmani un processo di trasformazione ad ogni livello. Abbiamo tra l’altro assistito a una polarizzazione fra due posizioni opposte: quella della modernizzazione dell’Islam e quella dell’islamizzazione della modernità. Grazie ai contributi di alcuni dei più qualificati islamologi italiani (Paolo Branca, Paolo Nicelli e Francesco Zannini) questo libro mette in luce, oltre le rappresentazioni tendenziose e le semplificazioni, la pluralità delle posizioni e la ricchezza del dibattito che pure esiste all’interno del mondo musulmano contemporaneo. Per i pensatori e gli intellettuali di cui qui si parla si tratta di assumersi positivamente la sfida della modernità senza limitarsi a subirla.

L’ALIMENTAZIONE NELL’ISLĀM SECONDO IL CORANO

ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE DI MILANO (INCONTRI PLENARI DI AGGIORNAMENTO IDR 2014-2015)

 

Dr. p. Paolo Nicelli, P.I.M.E.

Nel Corano (1) vi sono più di un centinaio di occorrenze nella radice akl, da cui deriva la forma verbale akala (mangiare), e 48 occorrenze della radice ¥‘m, da cui deriva il sostantivo ¥a‘…m (nutrimento) e 28 occorrenze per l’imperativo kul™ (mangiate!). «E vi ombreggiammo di nubi e facemmo scendere su voi la manna e le quaglie: “Mangiate, dicemmo, delle cose buone che vi abbiam destinato!” Ed essi, nella loro perversità non Noi offesero, ma se stessi. صلى الله عليه وسلم E quando dicemmo: “Entrate in questa città e mangiate quel che volete, in abbondanza, ma entrate per la porta prostrandovi e dicendo: Perdono! E Noi perdoneremo i vostri peccati e saremo larghi coi buoni!” صلى الله عليه وسلم Ma gli iniqui cambiarono quella parola in una diversa da quella che era stata loro ordinata, e sugli iniqui Noi inviammo un castigo dal cielo per la loro corruzione. صلى الله عليه وسلم E quando Mosè chiese acqua per il suo popolo e gli dicemmo: “Batti la roccia con la tua verga” e ne sgorgheranno dodici sorgenti e ogni tribù seppe a quale doveva bere. Bevete e mangiate ciò che Iddio vi manda e non portate malignamente corruzione sulla terra!”» (Sura della Vacca: II, 57- 60). «O uomini, mangiate quel che di lecito e buono v’è sulla terra e non seguite le orme di Satana, ch’è vostro evidente nemico» (Sura della Vacca: II, 168). «O voi che credete! Mangiate delle cose buone che la Provvidenza Nostra v’ha dato, e ringraziatene Iddio, se Lui solo adorate!» (Sura della Vacca: II,172). «V’è permesso, nelle notti del mese di digiuno, d’accostarvi alle vostre donne: esse sono una veste per voi e voi una veste per loro. Iddio sapeva che voi ingannavate voi stessi, e s’è rivolto misericorde su di voi, condannandovi quel rigore; pertanto ora giacetevi pure con loro e desiderate liberamente quel che Dio vi ha concesso, bevete e mangiate, fino a quell’ora dell’alba in cui potrete distinguere un filo bianco da un filo nero, poi compite il digiuno fino alla notte e non giacetevi con le vostre donne, ma ritiratevi in preghiera nei luoghi d’orazione. Questi sono i termini di Dio, non li sfiorate. Così Iddio dichiara i suoi Segni agli uomini, nella speranza che essi lo temano» (Sura della Vacca: II,187). «Ti domanderanno che cosa sia lecito mangiare, Rispondi: “vi sono lecite le cose buone e quel che avrete insegnato a prendere agli animali a preda portandoli a caccia a mo’ di cani (ché del resto non avete fatto che insegnare a loro ciò che Dio ha insegnato a voi). Mangiate dunque ciò che avranno preso per voi, menzionandovi sopra il nome di Dio; e temete Iddio, ché Dio è rapido al conto!”» (Sura della mensa: V, 4). «Mangiate delle cose lecite e buone che Dio vi dà provvidente e temete quel Dio in cui credete! صلى الله عليه وسلم Dio non vi riprenderà per una svista nei vostri giuramenti, bensì vi riprenderà per aver concluso giuramenti che poi avete violato: in tal caso l’espiazione sarà il nutrire dieci poveri con cibo medio di cui nutrite le vostre famiglie, o il vestirli, o l’affrancamento di uno schiavo. Chi non troverà mezzi per fare questo, digiuni tre giorni. Questa è l’espiazione per aver violato i vostri giuramenti quando vi sarete impegnati. Mantenete dunque i vostri giuramenti! Così Iddio vi dichiara i Suoi Segni affinché per avventura Gli siate riconoscenti» (Sura della Mensa: V, 88-89) In riferimento a: «O voi che credete, adempite ai patti. Vi sono permessi gli animali dei greggi eccetto quelli che ora vi diremo, e non dovrete permettervi la caccia mentre vi trovate in stato sacro: Dio certo decreta ciò ch’Egli vuole» (Sura della Mensa: V, 1).  2 «Mangiate delle cose sulle quali è stato nominato il nome di Dio, se credete nei Suoi Segni» (Sura delle Greggi: VI, 118). «Egli è colui che ha fatto crescere giardini, vigneti a pergolato e senza pergolato, e palme, e cereali vari al mangiare, e olive e melograni simili e dissimili. Mangiate del frutto loro, quando viene la stagione, ma datene il dovuto ai poveri, il dì del raccolto, senza prodigalità stravaganti, che Dio gli stravaganti non ama. صلى الله عليه وسلم Del bestiame, alcuni animali sono da soma, altri da macello: mangiate di quello che la Provvidenza di Dio v’ha dato, e non seguite i passi di Satana, ch’è per voi chiaro nemico» (Sura delle Greggi: VI, 141-142). «O figli d’Adamo! Adornatevi quando vi recate in un luogo di preghiera qualsiasi, mangiate e bevete senza eccedere, perché Dio non ama gli stravaganti» (Sura del limbo: VII, 31). «E i figli d’Israele li dividemmo in dodici tribù, in dodici comunità, e rivelammo a Mosè, quando il suo popolo gli chiese da bere: “Batti con la tua verga la roccia!” E dodici sorgenti ne sgorgarono, e tutti gli uomini seppero dove dovevano bere; e li ombreggiammo con la Nube e facemmo scendere su loro la Manna e le Quaglie, dicendo loro: “Mangiate delle buone cose che la Nostra provvidenza vi dona!” Ma non a Noi essi fecero torto, bensì a se stessi. صلى الله عليه وسلم E rammenta quanto fu detto loro: Abbiate questa città e godetevi come volete! E dite: “Perdono!” entrando per la porta con prostrazioni. Allora vi perdoneremo i vostri peccati e farem prosperare quelli che operano il bene!» (Sura del Limbo: VII, 160-161). L’imperativo kul™ (mangiate!), è associato al sostantivo ¥ayyib…t (cose buone), o all’aggettivo derivato dalla stessa radice ¥ayyib, opposti entrambi al sostantivo khab…’ith (cose immonde). Da questa breve analisi lessicografica possiamo già individuare i tre temi, quello teologico, quello giuridico e quello antropologico, cari alla dottrina islamica e alla prassi alimentare: i cibi sono un dono di Dio, una delle manifestazioni della misericordia, della benevolenza e quindi della provvidenza divina verso gli uomini (intesa come rizq – ciò di cui ha bisogno l’uomo), secondo quanto enunciato dal bismiall…hi ar-ra|mani ar-ra|imi (Nel nome di Dio il più misericordioso il più benevolente).

1. Il tema teologico: All…h Razz…q (Dio è il Provvidente)

Questo “nome di Dio” (2) mette in evidenza la provvidenza divina in riferimento all’uomo, inteso come colui che beneficia del sostentamento (rizq-ciò di cui ha bisogno), che Dio stesso ha stabilito per lui: «O uomini! Adorate dunque il vostro Signore che ha creato voi e coloro che furono prima di voi, a che possiate divenir timorati di Dio, صلى الله عليه وسلم il quale ha fatto per voi della terra un tappeto e del cielo un castello, e ha fatto scendere dal cielo acqua con la quale estrae dalla terra quei frutti che sono il vostro pane quotidiano; non date dunque a Dio degli eguali, mentre voi sapete tutto questo!» (Sura della Vacca: II, 21-22). «E quando Mosè chiese acqua per il suo popolo e gli dicemmo: “Batti la roccia con la tua verga” e ne sgorgarono dodici sorgenti e ogni tribù seppe a quale doveva bere. Bevete e mangiate ciò che Iddio vi manda e non portate malignamente corruzione sulla terra!» (Sura della Vacca: II, 60). La dottrina islamica della provvidenza e benevolenza divina è fortemente legata alla misericordia di Dio, il quale provvede a fornire all’uomo la sua porzione di sostentamento. Tale porzione è già stabilita da Dio stesso. La dottrina viene poi unita a quella fondamentale dell’adorazione di Dio e a quella della sottomissione totale a Lui (tawakkul), dottrina, questa, che definisce la relazione tra l’uomo, creatura di Dio, e il suo Creatore. Essa definisce anche l’atto libero della volontà del credente (mu’min) di aderire a Dio e alla Sua volontà significato nella preghiera dalla profonda prostrazione (suÞ™d), volta alla totale mendicanza dell’amore di Dio.(3) Il “timore di Dio” è condizione  fondamentale, ma allo stesso tempo diviene la meta, o l’ideale, a cui tendere. Tutta la creazione è, in quanto pensata, voluta da Dio per l’uomo stesso. Il tema lessicale del rizq designa, in termini più specifici, un sostentamento determinato (q™t muqaddar), come concetto di bene in generale (milk), oppure come il cibo (ghidh…’): «Non c’è animale sulla terra, cui Dio non si curi di provvedere il cibo, ed Egli conosce la sua casa e la sua tana: tutto è scritto in un Libro chiaro» (Sura di H™d: XI, 6). Il termine: animale (d…bba) e il termine: cibo (rizq), richiamano al fatto che con cibo non possiamo indicare un bene o una proprietà, poiché l’animale non è un soggetto giuridico, capace di possedere, ma è ugualmente parte delle benedizioni divine, poiché può accedere al cibo per il suo sostentamento. In questo caso, si vuole mettere in evidenza, in termini teologici, l’azione di Dio, che come Razz…q, provvede per il sostentamento di tutta la creazione, soprattutto l’umanità. Il conoscere la sua casa e la sua tana richiama al fatto che Dio è onnisciente e onnivedente, cioè conosce nel dettaglio l’uomo, i suoi pensieri, le sue azioni e, soprattutto, i suoi bisogni essenziali, legati all’alimentazione. Per questo il cibo (rizq), non può che essere legato a qualcosa di buono (¥ayyib…t); non a qualcosa di immondo (khab…’ith ). Alla stessa stregua, in termini giuridici, il cibo (rizq) quando designa la proprietà non può essere collegato a un bene illecito (|ar…m), ma a un bene lecito (|al…l). Pertanto, la povertà, che è causata dalle azioni illecite degli uomini, che perseguono dei beni illeciti, non può essere imputata a Dio, ma ai comportamenti illeciti, quindi peccaminosi, degli uomini.

2. Il tema giuridico: L’opposizione tra lecito (|al…l) e illecito (|ar…m).

Il Corano dice che i credenti devono mangiare solo ciò che è lecito, nel senso di “buono” ¥ayyib. Vi sono dei versetti che indicano dei divieti precisi, altri invece tendono a mitigare le leggi tribali preislamiche, sia in un contesto polemico antiebraico, sia nei in un contesto polemico contro le leggi dei politeisti arabi: «[…] per la empietà, infine, di questi giudei abbiam loro proibito delle cose buone che prima erano loro lecite e perché han deviato dalla via di Dio, di molto صلى الله عليه وسلم e perché han praticato l’usura che pur era stata loro proibita, per aver consumato i beni altrui falsamente; e abbiam preparato per i Negatori fra loro castigo cocente. صلى الله عليه وسلم Ma quelli fra loro che sono saldi nella scienza, i credenti che credono in ciò che è stato rivelato a te e in quel che è stato rivelato prima di te, quelli che fanno la Preghiera e pagano la Dècima, i credenti in Dio e nell’Ultimo Giorno, a quelli daremo mercede immensa» (Sura delle Donne: IV, 160-162). Il Corano esprime in chiave fortemente antisemitica il concetto di |ar…m, dichiarando che la proibizione inflitta agli ebrei su alcuni cibi è dovuta al fatto che essi hanno deviato dalla via di Dio attraverso due gravi atti d’infedeltà: 1) Il non aver riconosciuto la rivelazione coranica, la funzione profetica di Mu|ammad صلى الله عليه وسلم e l’inviato Gesù صلى الله عليه وسلم. 2) Il non aver riconosciuto la predicazione dei profeti, compreso quella del profeta Gesù صلى الله عليه وسلم e quindi il non aver accettato una sorta di “successione profetica”, che si compie definitivamente con la venuta del profeta Mu|ammad صلى الله عليه وسلم, inteso come il “Sigillo della rivelazione”. Tale atteggiamento, secondo questa visione polemica, li pone come “Negatori” (k…fir™n).(4) Il pensiero coranico di fondo sostiene la tesi che Dio ha dato la legge a Mosè per via della durezza del cuore del suo popolo, che aveva voltato le spalle al suo Creatore. I precetti ebraici sono 4 presentati come una punizione divina o come qualcosa che le autorità religiose del tempo hanno imposto al popolo, per la sua durezza del suo cuore. Da qui, la necessità di una Legge, quella islamica, che è più leggera di quella ebraica, capace di mitigare i precetti e le prescrizioni ebraiche. L’Islām coranico vuole quindi presentarsi come meno rigido della Legge ebraica i cui divieti alimentari non sono fatti propri dal Corano. In effetti, enunciando alcuni divieti alimentari che i musulmani devono seguire, il Corano dichiara che altri divieti alimentari sono obsoleti e quindi abrogati. Fatto salvo questo principio generale, la descrizione nel dettaglio dei cibi leciti e di quelli illeciti viene fatta dipendere più dalla Sunna e dalla Shar†‘a, che dal Corano stesso, che come indicato nella sura della Mensa, non scende nei dettagli, ma si limita ad indicazioni generali: «Vi son dunque proibiti gli animali morti, il sangue, la carne del porco, gli animali che sono stati macellati senza l’invocazione del nome di Dio, e quelli soffocati e uccisi a bastonate, o scapicollati o ammazzati a cornate e quelli in parte divorati dalle fiere, a meno che voi non li abbiate finiti sgozzandoli, e quelli sacrificati sugli altari idolatrici; e v’è anche proibito di distribuirvi fra voi a sorte gli oggetti: questo è un’empietà. Guai, oggi, a coloro che hanno apostatato dalla vostra religione: voi non temeteli, ma temete me! Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione e ho compiuto su di voi i miei favori, e M’è piaciuto di darvi per religione l’Islàm. Quanto poi a chi vi è costretto per fame o senza volontaria inclinazione al peccato, ebbene Dio è misericorde e pietoso» (Sura della Mensa: V, 3). In questi versetti (ay…t) coranici ciò che è importante per la nostra trattazione è la parte finale: «Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione…». Si tratta probabilmente di un’interpolazione meccana, nella sura quinta che è di origine medinese, apposta dal redattore per sottolineare la portata teologica delle prescrizioni alimentari islamiche, più mitigate rispetto a quelle ebraiche, ma più restrittive rispetto a quelle politeiste. Con la Legge islamica, Dio ha voluto indicare il suo favore al popolo musulmano, scegliendo la via mediana o il giusto mezzo, non troppo pesante da seguire, ma neppure troppo permissiva di fronte a comportamenti peccaminosi e quindi illeciti del politeismo arabo. Il tema di fondo è il principio etico islamico del fare il bene ed evitare il male.

3. Il tema antropologico: le leggi dell’ospitalità.

Il tema antropologico dell’ospitalità è profondamente legato ai due temi trattai: quello teologico e quello giuridico. L’ospitalità che porta in sé l’offerta di cibo è importante quanto la preghiera o tutto quanto è contenuto nel credo islamico (‘aq†da). L’ospitalità viene riferita alla prassi vigente tra le tribù del deserto detta: a¡abiyya (solidarietà), dovuta, per legge tribale, a coloro che si trovano in difficoltà per via delle difficili condizioni climatiche del deserto. Rifiutare l’ospitalità significava infrangere una legge fondamentale nella sua sacralità, ma voleva anche dire rifiutare l’assistenza alla creatura di Dio, che provvede soprattutto per chi è in difficoltà e a rischio per la sua vita. Offrire al viandante la tenda come protezione e il cibo come sostentamento durante il suo lungo viaggio valeva dire offrire la protezione e l’alimentazione al parente prossimo. Chi ospitava, era quindi responsabile dell’incolumità del viandante, come di chiunque accoglieva sotto la sua tenda, cosciente del fatto che Dio avrebbe provveduto a sua volta per lui in situazioni analoghe: «La pietà non consiste nel volgere la faccia verso l’oriente o verso l’occidente, bensì la vera pietà è quella di chi crede in Dio, nell’Ultimo Giorno, e negli Angeli, e nel Libro, e nei Profeti, e dà dei suoi averi, per amore di Dio, ai parenti e agli orfani e ai poveri e ai viandanti e ai mendicanti e per riscattar prigionieri, di chi compie la preghiera e paga la Dècima, chi mantiene le proprie promesse quando le ha fatte, di chi nei dolori e nelle avversità e nei dì di strettura; questi sono i sinceri, questi i timorati di Dio» (Sura della Vacca: II, 177). «Ti chiederanno che cosa dovran dar via dei loro beni. Rispondi: «Quel che date via delle vostre sostanze sia per i genitori, i parenti, gli orfani, i poveri, i viandanti; tutto ciò che farete di bene, Dio lo saprà» (Sura della Vacca: II, 215). 5 «Adorate dunque Iddio e non associateGli cosa alcuna, e ai genitori fate del bene, e ai parenti e agli orfani e ai poveri e al vicino che v’è parente e al vicino che v’è estraneo e al compagno di viaggio e al viandante e allo schiavo, poiché Dio non ama chi è superbo e vanesio» (Sura delle Donne: IV, 36). Questi versetti oltre ad associare il viandante alle categorie di persone sia famigliari che estranei, sottolinea il pericolo in cui incorre l’avaro di ospitalità, che nell’avarizia esprime la sua superbia non compiendo il bene ed esponendosi all’ira divina. Tuttavia, il Corano dice che Dio rifiuta anche coloro che donano per un tornaconto personale, cioè quello di mettersi in mostra davanti alla gente: «Né ama Iddio coloro che donano dei loro beni per farsi veder dalla gente e non credono in Dio e nell’Ultimo Giorno» (Sura delle Donne: IV, 38). Ecco dunque come l’ospitalità, legata al precetto religioso, recupera la prassi preislamica della solidarietà, inserendola nel contesto dell’esperienza religiosa del timore di Dio e della pratica del bene comune. Il Corano ha così recuperato le leggi dell’ospitalità dei beduini del deserto della Penisola Arabica, dando loro una connotazione religiosa. La violazione di queste leggi, ora sacralizzate, porta il credente alla perdizione. I due aspetti antropologici e sociali: 1) Quello della sopravvivenza del viandante in un’economia di sussistenza; 2) Quello dell’esistenza di una massa di individui ridotti alla povertà, incapaci di rispondere ai propri bisogni più necessari, fanno dell’alimentazione un fattore importante che apre, nell’esercizio della legge dell’ospitalità, all’esperienza della solidarietà, non più legata alle convenzioni tribali, ma alla fede in Dio.

 

1 Per le citazioni coraniche utilizzeremo: A. Bausani, Il Corano, Biblioteca Universale Rizzoli, Pantheon, Milano 2001.

2 Al-Razz…q (il Provvidente), è uno dei bei novantanove nomi di Dio.

3 Nicelli P., Al-Ghaz…l†, pensatore e maestro spirituale, Editoriale Jaca Book SpA, Milano 2013, pp. 47-73.

4 Il termine k…fir, plur: k…fir™n, assume nel Corano i significati differenti di “infedele”, “miscredente”, “negatore”. Dipende dal contesto in cui viene utilizzato e dalla polemica antigiudaica, anticristiana, oppure antiidolatrica, che si presenta nel testo.