PICCOLO VIAGGIO NELLA PRODUZIONE TESSILE ARTIGIANALE
Quando i nostri nonni erano bambini ogni aspetto della vita quotidiana derivava dal lavoro dell’uomo senza l’ausilio di macchine ne tanto meno dispositivi elettronici. Non essendoci nemmeno tutti i negozi di cui si può disporre ora ne consegue che anche i vestiti indossati erano prodotti di manifattura totalmente artigianali in ogni fase del processo produttivo dal reperimento della materia prima a tutte le fasi di lavorazione che portano al prodotto finito.
Coltivazione delle piante da tessuto
Tra le famiglie di contadini era usanza che ciascuna coltivasse anche piante adibite alla produzione di fibre di tessuto da lavorare artigianalmente per ricavare indumenti, prevalentemente lino e canapa. Tali piante venivano strappate immediatamente dopo la maturazione e messe a bagno per 40 giorni in un pozzo d’acqua o in un prato umido di rugiada. Dopodiché si procedeva alla battitura tramite un arnese costituito da un tronco di legno con un intaglio nel quale veniva messa la pianta e poi sbattuta contro un altro tronco. Questo procedimento serviva per estrarre dalla pianta la fibra tessile vera e propria che veniva passata in uno strumento chiamato frantoio (simile solo per il nome allo strumento usato per le olive) per ricavare il filo di tessuto da lavorare unendolo ad altri fili tramite uno strumento chiamato carel (una sorta di treppiede azionato con un pedale con una ruota dove venivano posizionati i fili da tessere) col quale si ricavava un gomitolo da portare alle testore (le tessitrici) che ricavano per tutta la comunità indumenti asciugamani lenzuola e biancheria da ridistribuire equamente tra le varie famiglie.
Lavorazione della lana
La materia prima di questo tessuto era ovviamente il vello delle pecore allevate però anche per il latte e la carne.
Con la lana si facevano coperte, calze, golf e indumenti invernali in genere.
Il compito di lavorare artigianalmente la lana spettava alle donne di casa oppure alle magliaie che svolgevano questo servizio, dietro giusto compenso, per tutta la comunità.
Le pecore venivano tosate di norma in primavera poi dopo la tosatura si provvedeva alla cardatura senza però lavare prima la lana che veniva lavata soltanto dopo essere stata filata. La lana appena tosata presenta infatti una pellicola unta, preservando la quale il processo di lavorazione risulta molto più facile e da come risultato dei fili sottili coi quali è possibile creare del tessuto pregiato. Lo strumento di cardatura della lana era costituito da due tavolette di legno nelle quali venivano piantati dei chiodi. Facendoli scorrere uno contro l’altro con la lana in mezzo essa diventava liscia, soffice e priva di nodi. Dopo la cardatura si formavano i rotoli di lana che venivano filati col carel dopo averli stipati in ceste. Durante il processo di filatura si formavano collegando il carel ad un altro strumento denominato bicocca (composto da un cilindro formato da sei bacchette e due coperchietti) tramite un filo di lana. La bicocca era munita di una sorta di pedale azionando il quale la lana si svolgeva a poco a poco dal carel e andava a formare le matasse. È solo a questo punto che la lana poteva essere lavata dopo aver formato dei veri e propri gomitoli tramite uno strumento apposito chiamato aspo munito di una manovella azionando la quale si formava il gomitolo partendo dalla matassa. In alternativa si poteva semplicemente tirare il filo di lana e farlo passare intorno ad un braccio per ottenere il medesimo risultato.
Allevamento dei bachi da seta
Nelle famiglie si usava allevare bachi da seta cioè bruchi molto piccoli che venivano venduti a scopo di allevamento in botteghe specializzate.
Anche questa mansione era tipica delle donne che portavano a casa i bruchi in ceste grandi come scatole da scarpe per poi trasferirli in scatole di legno che gli uomini costruivano appositamente variando le dimensioni a seconda della grandezza dei bachi.
Nei loro contenitori i bachi crescevano nutriti con foglie di gelso che inizialmente, quando i bachi erano ancora tendenzialmente piccoli e immaturi, venivano tagliate finemente a pezzi piccoli che venivano aumentati di dimensione in relazione alla crescita dei bachi.
Prima della maturazione i bruchi avevano per la maggior parte una colorazione tendente al bianco sporco. Ce n’erano però di più rari che avevano una colorazione grigia ferrosa e che venivano denominati in gergo cavaleér feree che significa appunto bruchi ferrosi.
Una volta maturi i bruchi avevano aumentato le loro dimensioni e assunto una colorazione giallo pallido ed erano pronti per tessere il loro bozzolo. Gli allevatori mettevano nei contenitori dei bastoncini di legno dove i bruchi si arrampicavano e si avvolgevano nei bozzoli (in dialetto galet) aventi la forma di noccioline americane (di dimensioni però leggermente maggiori rispetto a questi ultimi) di colore bianco sporco o giallo pallido che dopo un po’ di tempo le famiglie vendevano ai tessitori.
Le famiglie allevavano moltissimi bruchi stipati in tanti contenitori gli uni sugli altri sopra degli scaffali che si raggiungevano, per nutrire i bruchi o raccogliere i bozzoli, adoperando delle scalette.
Le donne di famiglie diverse molto spesso si aiutavano a vicenda in questa attività e molto spesso contribuivano anche i bambini ai quali tutto veniva presentato sotto forma di gioco. Gli adulti donavano loro dei bruchi che essi allevavano da soli per poi vendersi i loro bozzoli insieme agli adulti.
Chi comprava i bozzoli provvedeva poi a recapitarli a chi li lavorava o li lavorava direttamente scaldandoli in modo da dipanare i fili ed intrecciarli per ottenere il favoloso tessuto.
Antonella Alemanni
https://museoetnograficotalamona.wordpress.com/2016/04/20/quando-non-cerano-i-grandi-magazzini/