ALDO MANUZIO

 

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Aldo Manuzio, umanista, editore e stampatore (Bassiano, presso Sezze, 1450 circa – Venezia 1515),ha dato all’umanesimo europeo ottime edizioni di classici greci, latini e italiani, contrassegnate dal 1502 dalla famosa marca tipografica dell’ancora e del delfino, ripresa poi anche dai suoi successori.

 

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Nelle sue prime edizioni si firma latinamente Aldus Mannucius, dal 1493 Manucius e dal 1497 Manutius, che dai posteri è stato poi re-italianizzato in “Manuzio”. È probabile che il nome originario fosse “Mandutio” (Mandutius). Che il vero nome potesse essere Teobaldo Mannucci è notizia priva di fondamento, sostenuta dall’edizione di pubblico dominio dell’Enciclopedia Britannica ma non confermata dalla letteratura scientifica.

 

Per l’accuratezza filologica e la bellezza tipografica dei suoi prodotti, per il suo spirito d’iniziativa, Manuzio è ritenuto il più grande tipografo del suo tempo e il primo editore in senso moderno. Dopo aver studiato latino e greco a Roma e a Ferrara, nel 1482 si ritirò a Mirandola presso Giovanni Pico; nel 1483 era a Carpi, istitutore del principe Alberto Pio, che gli concesse poi di aggiungere al suo il nome della famiglia Pio. Iniziò la sua attività a Venezia nel 1494 con le edizioni di Museo e di Teodoro Prodromo; nel 1495 ristampava gli Erotemata di Lascaris e dava inizio alla monumentale editio princeps di Aristotele, che portava a termine (5 volumi) nel 1498, lo stesso anno in cui uscivano l’editio princeps di Aristofane e le opere del Poliziano. Del 1499 è il celeberrimo Polifilo di Francesco Colonna, il più pregiato libro a figure del Rinascimento.

Con il Virgilio del 1501, stampato nel corsivo,inciso da Francesco Griffi da Bologna (carattere detto ben presto italico o aldino), Manuzio creava il prototipo del libro moderno. Adottati in successive edizioni, il formato e il carattere avevano una rapida fortuna ed erano presto imitati. Seguirono altre numerose edizioni di classici, specialmente greci (Tucidide, Sofocle, Erodoto, Euripide, Pindaro, Platone, Omero, Demostene e altri oratori, ecc.). Dal 1508 gli fu socio il suocero A. Torresani. Oltre che curare le edizioni di classici, alle quali premetteva dotte dissertazioni, Manuzio diede una grammatica greca (1515) e una latina (1502), un trattato di metrica, le vite di Ovidio ed Arato, traduzioni da Esopo e Focilide. Nel 1502 aveva fondato l’Accademia Veneta, che raccolse studiosi greci e italiani e fu strumento efficace per la diffusione dell’ellenismo di cui Manuzio è ritenuto a ragione uno dei primi e certo il più grande propulsore.

 

 

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Miniatore fiorentino (?) attivo a Venezia all’inizio del XVI secolo
Quinto Orazio Flacco, Opere,Venezia, Aldo Manuzio, 1501
Dedica di Aldo Manuzio a Marin Sanudo e Frontespizio con il Ritratto di Orazio
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana

 

Lucica Bianchi

La Lena: Ariosto’s Reflection on the Commodification of Human Experience

 

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Il giornale presenta l’articolo (in lingua inglese) della Dott.ssa Alessandra Brivio,col titolo “La Lena.Le riflessioni di Ariosto sulla mercificazione dell’esperienza umana”

Alessandra Brivio si e’ laureata in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Milano nel 2001, e ha poi conseguito il Master in Storia Europea presso la University of California, San Diego. Attualmente vive negli Stati Uniti dove insegna materie umanistiche presso la University of California, San Diego ed e’ nella fase conclusiva del corso di dottorato in Storia moderna. Alessandra e’ particolarmente interessata alla storia culturale e religiosa di Milano durante il dominio Spagnolo, ed in particolare alla credenza negli untori durante la peste del 1630.

 

La Lena: Ariosto’s Reflection on the Commodification of Human Experience

(per leggere l’articolo click sul link)

 

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La Lena è la più felice commedia di Ludovico Ariosto,composta subito dopo il Sacco di Roma(1527). E’ritenuta la migliore commedia ariostesca, di ambientazione ferrarese e scritta in versi, caratterizzata da elementi comici e realistici che si inseriscono tra la ‘scena’ e la ‘città’. Rappresentata a Ferrara una prima volta nel 1528 (insieme al Negromante e alla Moscheta del Ruzante) e una seconda volta nel 1529, viene ripresa poi nel 1532 in un ciclo di spettacoli al quale partecipa anche Ruzante, con modifiche in alcune scene e l’inserimento di un nuovo prologo. Viene stampata in questa stesura definitiva nel 1535 in due edizioni legate alla prima stampa del Negromante (Venezia 1535) e poi in una nuova ristampa, presso Gabriele Giolito de’ Ferrari, nel 1551. La protagonista, Lena, esprime un’immagine comica che non attiva un meccanismo teatrale vero e proprio ma funge piuttosto da catalizzatore di difetti, sommando in sé le leggi aride dell’utile e dell’egoismo, dell’immobilismo e della mera ‘economicità’ della vita umana. In lei si sommano caratteri realistici inediti rispetto a quelli della ruffiana della commedia latina. La scena ferrarese è ricca di richiami concreti e di spunti interessanti per il pubblico che però, a differenza dei Suppositi, viene messo a contatto con una città che promana, nelle sue pieghe più sottili, un senso di malessere e di larvato pessimismo. Al centro della commedia vi è la vicenda del giovane Flavio, figlio di Ilario, innamorato di Licinia, figlia di Fazio. Per avere la fanciulla Flavio fa affidamento su Lena, ruffiana e vicina di casa, da tempo amante di Fazio. Complice della donna è il sordido marito Pacifico, mentre il regista delle operazioni è il servo Corbolo. Dopo alterne vicende segnate dai perversi disegni di Lena, la mezzana è condannata ad una frustrante sconfitta mentre Flavio e Licinia coronano il loro sogno d’amore. La struttura della fabula riduce al minimo il gioco degli incastri e degli scambi, concentrandosi sulla vicenda lineare dell’amore di Flavio per Licinia, senza superfetazioni narrative.

LA LENA.PLOLOGO

Ecco La Lena che vuol far spettacolo
Un’altra volta di sé, né considera,
Che se l’altr’anno piacque, contentarsene
Dovrebbe, né si por ora a pericolo
Di non piacervi; che ‘l parer de gli uomini
Molte volte si muta, et il medesimo
Che la matina fu, non è da vespero.
E s’anco ella non piacque, che più giovane
Era alora e più fresca, men dovrebbevi
Ora piacer. Ma la sciocca s’imagina
D’esser più bella, or che s’ha fatto mettere
La coda drieto; e parle che, venendovi
Con quella inanzi, abbia d’aver più grazia
Che non ebbe l’altr’anno, che lasciòvisi
Veder senz’essa, in veste tonda e in abito
Da questo, ch’oggi s’usa, assai dissimile.
E che volete voi? La Lena è simile
All’altre donne, che tutte vorrebbono
Sentirsi drieto la coda, e disprezzano
(Come sian terrazzane, vili e ignobili)
Quelle ch’averla di drieto non vogliono,
O per dir meglio, ch’aver non la possono:
Perché nessuna, o sia ricca o sia povera,
Che se la possa por, niega di porsela.
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Frontespizio (1588) per la commedia La Lena

GIACOMO LEOPARDI

 

 

Leopardi-Giacomo

 

 

Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798 in una famiglia della nobiltà clericale di provincia: il padre, conte Monaldo, era un erudito bibliofilo di idee reazionarie; la madre, Adelaide dei marchesi Antici, una donna dispotica, religiosa fino al fanatismo. Primogenito di dieci figli (ne sopravvissero cinque), Giacomo nutrì un affetto profondo per il fratello Carlo e per la sorella Paolina. Ebbe come istitutori il gesuita Giuseppe Torres e l’abate Sebastiano Sanchini; ma fu soprattutto un autodidatta, esploratore febbrile della ricca biblioteca paterna. Nel 1809 scrisse la prima poesia, il sonetto La morte di Ettore, cui seguirono altri componimenti in italiano e in latino, traduzioni da Orazio, dissertazioni filosofiche e due tragedie.

 

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La biblioteca di Casa Leopardi

Nel luglio del 1812 Giacomo iniziò “sette anni di studio matto e disperatissimo” che contribuirono al peggioramento delle sue già precarie condizioni di salute: imparò da sé il greco e l’ebraico, intraprese lavori filologici di eccezionale impegno, stese una Storia dell’astronomia (1813) e un Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), interessante per le pagine sugli stupori infantili, sui sogni e sugli incubi notturni, sulla quiete dell’ora meridiana, sul terrore dei fulmini e delle tempeste. Dopo la sconfitta di Gioacchino Murat a Tolentino, scrisse, con spirito antifrancese, Agli’Italiani. Orazione per la liberazione del Piceno (1815). Non interrompeva intanto il suo esercizio poetico, componendo fra l’altro, nel 1816, l’Inno a Nettuno (che finse di tradurre da un originale greco), le due Odae adespotae (in greco e in latino) e l’idillio funebre Le rimembranze. Più importanti furono le traduzioni dei classici: gli Idilli di Mosco e la Batracomiomachia pseudo-omerica nel 1815, il I libro dell’Odissea e il II dell’Eneide nel 1816, la Titanomachia di Esiodo nel 1817.

 

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Edizione delle Opere di Leopardi, Napoli 1835

La conversione letteraria

Allo studio appassionato di queste grandi opere Leopardi fece in seguito risalire la sua “conversione letteraria”, ossia la scoperta della vocazione poetica che, rivelatasi tra il 1815 e il 1816, fu in realtà il risultato di profondi turbamenti interiori che coinvolsero le esperienze letterarie. Da un lato l’angoscia per l’aggravarsi della malattia, il timore della morte, il rammarico per una giovinezza che appassiva già al suo primo fiorire: stati d’animo espressi in modi tumultuosi, ma personali, nella cantica Appressamento della morte (1816). Dall’altro un’ansia di evasione, una volontà fremente di liberarsi dalla prigionia di Recanati. Nel 1816 tentò di inserirsi nella polemica tra classicisti e romantici con una Lettera (rimasta inedita) in cui contestava l’esortazione di Madame de Staël a rinnovare la letteratura italiana attraverso la traduzione e lo studio degli scrittori stranieri. Nel 1817 iniziò la corrispondenza con Pietro Giordani, letterato classicista e liberale, che riconobbe per primo il genio del giovane poeta. Ancora nel 1817 provò l’improvvisa fiammata d’amore per la ventiseienne cugina di Monaldo, Geltrude Cassi Lazzari, che da Pesaro era venuta in visita a Recanati e che gli ispirò l’Elegia I(poi intitolata Il primo amore), l’Elegia II e il bellissimo Diario del primo amore, dove gli stadi e gli effetti dell’innamoramento sono analizzati in una prosa rapida, estremamente limpida.

Lo Zibaldone

Il 1817 fu un anno di svolta. Tra il luglio e l’agosto fissò le prime annotazioni dello Zibaldone, che crescerà a dismisura fino alla data 4 dicembre 1832, raggiungendo la mole di 4526 pagine manoscritte. Lo Zibaldone è uno sterminato laboratorio in cui si alternano pensieri filosofici e abbozzi di studi, pagine di compiuta poesia e fulminei appunti introspettivi, analisi minuziose dei congegni della memoria, dei sensi e dei sentimenti, riflessioni sui rapporti tra individuo e società, dissertazioni filologiche, considerazioni sulle lingue e sulle letterature antiche e moderne. Sono celebri le indagini minuziose sulla percezione dei suoni e sulla vista di spazi e oggetti che suggeriscono l’infinito; quelle sulla noia, sulla malinconia, sul riso, sulla giovinezza e sull’amore, un materiale che alimenterà la poesia dei Canti. L’opera fu pubblicata per la prima volta negli anni 1898-1900, con il titolo Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura; ma dal 1845 si conoscevano i 111 Pensieri, che Leopardi stesso aveva preparato per la stampa ricavandoli in gran parte dallo Zibaldone.

La conversione filosofica 

La crisi personale toccò l’apice nel 1819, allorché alle altre sofferenze si aggiunse una malattia agli occhi che lo costrinse a rinunciare anche alla lettura. Nel luglio un tentativo di fuga dalla casa paterna (per un viaggio a Roma) venne subito scoperto e sventato da Monaldo. Intanto l’ansia e lo scetticismo filosofico radicalizzavano la scoperta del nulla (“Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla”, Zibaldone). Che la realtà sia il nulla e che il nulla sia “solido”, sia fatto di materia, abbia un corpo, è il tragico paradosso alla base del pensiero leopardiano, in cui si generano a catena altri paradossi: l’enigma che il nulla-materia nasconde in sé provocando dolore è un gigantesco interrogativo pietrificato che la natura dissemina in mille frammenti, coinvolgendo nella sua inquietante domanda l’esistenza dei mortali. E dall’arcano “mirabile e spaventoso” racchiuso nel nulla nasce il bisogno disperato delle “illusioni”, anch’esse concepite e sentite nella sfera della corporeità, piaceri “vani” ma “solidi”. Nell’orizzonte del “nulla” Leopardi affrontò i grandi temi che erano stati al centro del pensiero settecentesco e che riemergevano, con soluzioni diverse, nel dibattito romantico: in solitaria meditazione, mise a fuoco una serie di antitesi. La prima antitesi è quella, risalente a J.-J. Rousseau, tra natura e ragione: la natura tende alla felicità, la ragione la distrugge; la natura è il regno del “bello”, delle illusioni, della poesia, mentre la ragione, portatrice del vero, inaridisce il cuore e dissolve i sogni. Il dualismo poesia-filosofia si tradurrà dunque nel contrasto fra “poesia di immaginazione” e “poesia sentimentale”. Per Leopardi la poesia autentica è soltanto la prima, perché prodotta dalla fantasia creatrice di miti; ma i moderni, immersi nell'”arido vero”, non sono capaci che di poesia sentimentale, una sorta di filosofia. Il riconoscimento dell’inevitabilità di una poesia nutrita di pensiero avvicinava Leopardi ad alcune posizioni dei romantici, ma con precisi limiti e insanabili dissensi. Nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (iniziato nel 1818) egli accettava i postulati critici della scuola romantica (il rifiuto dell’imitazione degli antichi e dell’abuso della mitologia), mentre dei principi costruttivi condivideva soltanto l’interesse per il “patetico”, interpretando però questa categoria come una dolorosa necessità, una rinuncia, senza adeguato compenso, al conforto della fantasia.

I primi canti 

Constatato il nulla universale, la poesia di Leopardi nasceva nel segno della precarietà, come paradosso, scommessa, tentazione: nasceva nel momento stesso in cui il poeta aveva decretato la morte della poesia. Dopo il fallimento di alcuni esperimenti romantici, la vera poesia leopardiana cominciò e si sviluppò su due registri distinti: le nove canzoni (1818-22) e i cinque idilli (1819-21), che costituiscono il primo nucleo di quello che diverrà il libro dei Canti, un “libro” che prenderà forma attraverso pubblicazioni parziali, incrementi, correzioni assidue del lessico e dello stile, passando per tre tappe fondamentali: l’edizione Piatti (Firenze, 1831), con 23 poesie; l’edizione Starita (Napoli, 1835) con 39 poesie; l’edizione postuma Le Monnier (Firenze, 1845), con 41 poesie.

 

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Le canzoni

Delle nove canzoni, le prime cinque sono in parte ispirate dalla proposta di Giordani di una poesia come “magistero civile” su modelli classici, ma anche dall’ansia indeterminata di grandi azioni che Leopardi manifestò più volte nelle lettere e nello Zibaldone. All’Italia e Sopra il monumento di Dante, del 1818, trattano di temi esplicitamente patriottici, avendo in comune il paragone tra un passato glorioso e un presente umiliato dalla schiavitù e dalla viltà. Anche la canzone Ad Angelo Mai (1820) è inizialmente impostata come esortazione alla riscossa civile, sennonché la decadenza e l’impotenza dell’oggi si estendono qui a condizione generale dell’umanità, che ha perso le illusioni di un felice stato naturale per precipitare in un’epoca dominata dalla nefasta cognizione del “vero”, generatrice della noia e del nulla.

 

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Lo Zibaldone nella sua prima edizione, venne pubblicato col nome Pensieri di varia filosofia e bella letteratura tra il 1898 e il 1900.

Si delinea perciò un pessimismo radicale che si confermerà nelle Nozze della sorella Paolina(1821): crollata ogni speranza di intervenire sul presente, la virtù viene esaltata stoicamente per se stessa. In A un vincitore nel pallone (1821) si esaltano, per se stessi, l’agonismo e il rischio, rimedi unici a un’esistenza svuotata di qualsiasi valore e significato; la terribile conclusione (“Nostra vita a che val? solo a spregiarla”) segna il passaggio alle due grandi allegorie dell’infelicità umana, Bruto minore (1821) e l’Ultimo canto di Saffo (1822), dove ormai la natura non è più madre benigna ma crudele matrigna. Bruto morente distrugge il mito della virtù e, con il suicidio, si erge titanicamente contro la divinità insultandola. Saffo, “dispregiata amante” perché la natura le negò la bellezza, si vota anche lei al suicidio, ma la sua protesta, a differenza di quella di Bruto, ha intonazioni elegiache, intimamente dolenti e appassionate. Funzione di duplice congedo, dalle “favole antiche” dei pagani e dalla mitologia biblica, assolvono infine le altre due canzoni del 1822, Alla primavera e l’Inno ai patriarchi.

 

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La prima pagina della canzone All’Italia, con le correzioni di mano di Giacomo Leopardi

Gli idilli

Gli idilli veri e propri (“idilli, esprimenti, situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”) sono cinque: L’infinito (1819), Alla luna (1819), La sera del dì di festa (1820), Il sogno(1820-21), La vita solitaria (1821). Rispetto alle canzoni, le “situazioni idilliche” sono tutte concentrate e risolte nel soggetto: sono brani della “storia di un’anima”, che si svolgono in un determinato spazio e in un preciso momento, messi sempre in relazione, tramite la memoria, con altri momenti e con altre “avventure” interiori già sperimentate. Il mutamento è anche nello stile: non più l’ardua sintassi, il lessico fitto di arcaismi e latinismi delle canzoni, ma un linguaggio piano, che accosta sapientemente parole rare a parole trasparenti e quotidiane. Capolavori assoluti sono i componimenti brevi, L’infinito e Alla luna, che condensano, rispettivamente, la sensazione di vertigine davanti a un infinito suggerito per contrasto da elementi “finiti” e il piacere di una “rimembranza” sollecitata da un sublime, affettuoso dialogo con la luna.

 

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Il silenzio poetico 

Tra il 1822 e il 1828 la poesia leopardiana tacque, con due sole eccezioni: la canzone Alla sua donna (1823) è un addio alla donna ideale irraggiungibile, simbolo della poesia che fugge; l’epistola Al conte Carlo Pepoli (1826) è un componimento finissimo, in tono tra oraziano e pariniano, che imprime nuovo suggello a una stagione creativa che Leopardi ritiene definitivamente conclusa (nel finale egli dichiara di abbandonare la poesia per gli studi dell’”acerbo vero”). Furono sei anni tuttavia, questi del “silenzio”, di esperienze vive che portarono il poeta lontano dal “natio borgo selvaggio”. Nel novembre del 1822 andò a Roma, presso lo zio Carlo Antici, ma la città e il suo ambiente erudito-archeologico lo delusero profondamente: soltanto la visita all’umile tomba del Tasso lo commosse fino alle lacrime. Tornato a Recanati nel 1823, ne ripartì nel 1825, accettando l’offerta di curare per l’editore milanese Antonio Fortunato Stella un’edizione delle opere di Cicerone. Poi fu a Bologna, a Firenze (dove frequentò il Gabinetto Vieusseux e il gruppo dei liberali toscani) e a Pisa, che gli offrì il soggiorno più gradito e salutare.

Le “Operette morali” 

Leopardi scrisse quasi tutte le Operette morali tra il 1824 e il 1827. In esse si rintracciano alcuni temi centrali: quello dell’illusione e della felicità impossibile (per esempio, in Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo); quello della natura e del piacere (Dialogo della Natura e di un’Anima, Dialogo della Natura e di un Islandese); quello della noia peggiore del dolore (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez); quello che riguarda, più in generale, la responsabilità dell’individuo verso se stesso e verso la società (Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie). Nuove tematiche introducono prose più tarde (1832), come il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, nelle quali affiora una visione più pacata e insieme più eroica della vita. Le Operette sono a un tempo un libro di filosofia e di poesia: idee e ragionamenti si trasfigurano quasi sempre in immagini e allegorie, grazie a una prosa lavoratissima che rinnova modelli antichi (soprattutto i dialoghi di Luciano) con “leggerezza apparente”, con soluzioni originali e vivaci che consentono l’alternanza di meditazione e ironia, di aperture liriche e serrati scambi dialettici.

 

 

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I “Grandi idilli”

Durante il soggiorno a Pisa, nel 1828, Leopardi scrisse alla sorella Paolina parole che annunciavano la sua rinascita alla poesia: “Dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta”. I versi erano Il risorgimento e A Silvia. Seguirono i canti Il passero solitario, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composti tra il 1829 e il 1830 a Recanati, dove il poeta era stato costretto a ritornare nel novembre del 1828, perché gli era stato sospeso l’assegno dello Stella e perché le sue condizioni di salute erano peggiorate. Si trattenne poco meno di un anno e mezzo, soffocato da una malinconia che era “oramai poco men che pazzia”; in quella disperazione nacque la maggior parte dei cosiddetti “grandi idilli”, la cui composizione era stata preceduta da un lungo approfondimento teorico della poesia come pura lirica svincolata dall’imitazione, dalle regole, da fini pratici. “Canto” è la denominazione che si afferma in questo periodo, e Canti sarà il titolo dell’edizione del 1831, sancito in quella del 1835: un titolo senza precedenti, nella tradizione letteraria italiana, che cancella ogni indicazione di “genere” e “sottogenere” per esaltare la poesia “senza nome”, la poesia in assoluto.

 

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Una pagina con i versi “A Silvia

Il risorgimento è una singolare celebrazione della “rinascita del cuore” composta in strofette metastasiane. Su tutt’altro registro i capolavori successivi: A Silvia, canto alla giovinezza perduta e non goduta; Le ricordanze, canto che nasce dalla memoria di un mondo e di un’età popolati di fantasie e illusioni; Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia è rivolto al mistero della natura e dell’esistenza. Il sabato del villaggio e La quiete dopo la tempesta formano il dittico degli “apologhi del borgo” e per situazioni e stile possono essere avvicinati solo al Passero solitario, in cui rifluisce la “rimembranza”, tema dominante, nella prospettiva limpida e “mitica” del villaggio e della casa paterna: il paesaggio e la memoria diventano improvvisamente luoghi e figure da favola, in cui si condensa una struggente nostalgia di sogni e fantasie della fanciullezza. Nel Canto notturno la meditazione e la liricità si fondono entro più vasti orizzonti: lo spazio del borgo è sostituito da uno spazio desertico, ignoto e sconfinato; la voce del poeta diventa quella di un misterioso “pastore errante” che interroga la luna con una serie di incalzanti domande sul perché della propria esistenza, sul perché della vita e dell’universo.

 

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Il risorgimento, vv. 1-20: autografo conservato nella Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» di Napoli.

La nuova poetica e gli ultimi canti 

Nel 1830, accettato un prestito dagli amici fiorentini, Leopardi lasciò per sempre Recanati. A Firenze riallacciò antichi rapporti e altri ne strinse, fra cui quello con l’esule napoletano Antonio Ranieri (che diverrà l’inseparabile “sodale” degli ultimi anni) e quello con l’affascinante Fanny Targioni Tozzetti, che gli accese una violenta e sfortunata passione. Dal 1833 visse, sempre più malato, a Napoli, dove morì il 14 giugno 1837.

Tutta l’ultima fase della vita di Leopardi è caratterizzata dal rifiuto del suo passato di sdegnosa o malinconica solitudine. Nel dissolversi dell’energia fisica, egli avvertiva un prepotente bisogno di affermare il proprio io, la propria filosofia “disperata ma vera” contro ogni facile visione ottimistica della realtà. Di qui il suo disprezzo per le filosofie spiritualistiche del tempo e la derisione dell’ingenuo entusiasmo dei liberali (nella Palinodia al marchese Gino Capponi del 1835, nella satira I nuovi credenti e nel poemetto Paralipomeni della Batracomiomachia, dello stesso periodo). Di qui, soprattutto, gli ultimi canti del cosiddetto “ciclo di Aspasia” (composti fra il 1832 e il 1835), ispirati da un amore negato (la passione per Fanny) eppure interamente vissuto e sofferto con i sensi e con l’anima; le due canzoni “sepolcrali” (Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna, 1834-35), così ricche di pietas nella dolente ma ferma meditazione sulla morte.

Il “ciclo di Aspasia” è la storia completa di un amore, dalla fase “positiva” (Il pensiero dominante, Consalvo, Amore e Morte) a quella “negativa” di rivelazione dell’inganno (A se stesso, Aspasia). È sorretto, per l’intera durata, dal binomio inscindibile di “ideologia e canto”, nel senso che alla rappresentazione della vicenda passionale si associa costantemente il ragionamento su di essa.

Il tramonto della luna celebra le esequie dell’”inganno idillico”: il paesaggio lunare viene ridescritto con le parole tenere di un tempo, ma solo come “quadro di paragone”, appunto per essere posto in simmetrico contrasto con la “vita mortal” che, a differenza delle “collinette e piagge”, una volta sopraggiunta la notte (la vecchiaia), non si colorerà “d’altra aurora”.

La chiusura del “libro” (escludendo Imitazione, Scherzo e i cinque Frammenti, che costituiscono una sorta di appendice) è invece affidata alla Ginestra, una poesia di ampia e potente orchestrazione, che non suona affatto “congedo”, al contrario riprende motivi antichi, ora rimeditati, con formulazioni e cadenze nuove, ideologiche e stilistiche. Domina il tema cosmico, il paesaggio desertico, vulcanico, con rovine, che spalanca un devastato spazio terrestre in opposizione al sovrastante spettacolo delle stelle che fiammeggiano “in un purissimo azzurro” riflettendosi nel mare. Viene inoltre ripresa la polemica contro il “secol superbo e sciocco” che crede nelle “magnifiche sorti e progressive”, ignorando la ferocia ineluttabile della natura distruttrice. Ma è una polemica che perde qualsiasi punta di animosa asprezza, perché il titanismo leopardiano si sposa ora interamente alla pietà, risolvendosi in un messaggio di fratellanza tra gli uomini, accomunati da un medesimo destino di infelicità.

 

 

Lucica Bianchi

FRANCESCO PETRARCA

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Foto: Francesco Petrarca, “Il Canzoniere”.

Pace non trovo et non ò da far guerra

et temo, et spero; et ardo et son un ghiaccio;

et volo sopra’l cielo, et giaccio in terra;

et nulla stringo, et tutto’l mondo abbraccio”

Francesco Petrarca, Il Canzoniere, sonetto CXXXIV

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Foto: Andrea del Castagno, Ritratto di Francesco Petrarca, 1449-1450 ca., affresco staccato e riportato su tela, 257×153, Galleria degli Uffizi, Firenze

Francesco Petrarca, scrittore italiano (Arezzo 20.7.1304 – Arquà, Padova 18.7.1374), figlio di ser Petraccolo (notaio come da tradizione di famiglia, guelfo di parte bianca, cacciato da Firenze nel 1302), trascorse la prima infanzia all’Incisa, presso Arezzo, dove nacque, trasferendosi quindi a Pisa, nel 1310, e poco dopo in Provenza, ad Avignone. Col fratello Gherardo iniziò i primi studi a Carpentras, dove si erano stabiliti con la madre; maestro fu un buon latinista, Convenevole da Prato. Passò in seguito all’Università di Montpellier, per gli studi di legge, poi, ancora col fratello, completò la sua formazione a Bologna, dove rimase tre anni e strinse amicizia con poeti come Cino da Pistoia e Giacomo Colonna. La morte del padre (1326) lo costrinse a rientrare in Provenza.

Il 1327 fu un anno importante, perché il 6 aprile, com’egli stesso riferisce, giorno di venerdì santo, incontrò per la prima volta, nella chiesa di S. Chiara in Avignone, la tanto celebrata Laura, amore di tutta la vita , simbolo nella sua poesia di purezza e virtù. Da Laura non ricevette grandi attenzioni, ma nella tradizione letteraria divenne fulcro d’ogni ispirazione, e dette l’estro per tutte quelle meditazioni e riflessioni sull’amore terreno e sull’amore divino, che, così profonde si trovano nell’opera poetica di Petrarca. Dal contrasto tra il divino e l’umano, tra le cose celeste e terrene nasce quel sentimento di tristezza che lo accompagna sempre, a volte manifestandosi in atteggiamenti meditativi, a volte in decisa ricerca della solitudine, lontano dalla vita animata e accattivante delle città. Così, Il Canzoniere riflette, più d’ogni altra opera, trent’anni di desideri, di speranze, di angosce, immutabili nel tempo ma connesse con il ricordo di quel primo e vano incontro con la sempre sognata Laura.

Ad Avignone ebbe vita culturale intensa, piena di rapporti e di contatti. Nei anni Trenta si concede lunghi viaggi, dettati da inquietudine e sete di conoscenze (per tutta la vita gli spostamenti e i viaggi saranno frequenti).

L’amore per Laura non escluse in Petrarca l’amore per la gloria, e a testimoniarlo sono i progetti per due opere di estremo impegno, L’Africa e il De viris illustribus, entrambe in latino, entrambe a lungo rimaneggiate e praticamente incompiute.

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Foto: Francesco Petrarca, Africa

Sull’Africa, scritta con l’intento di glorificare la Roma repubblicana (un concetto politico più tardi ribadito in varie forme), sarebbe ritornato in un altro ritiro campestre, Selvapiana (nella valle dell’Enza), dopo esser stato ricondotto a Roma da un solenne invito che si concluse con l’incoronazione poetica in Campidoglio (8 aprile 1341). Fu anche ospite a Parma, di Azzo da Correggio. Onori e gloria gli giungevano da ogni parte. Ma nel 1342 è ancora ad Avignone, dove Clemente VI succedeva a Benedetto XII. Nei pensieri politici di Petrarca c’è anche l’auspicio di un ritorno del papato a Roma, per riportare la città agli antichi splendori e alla naturale funzione di fulcro della cristianità.

Il 1343 segna una crisi spirituale: l’amatissimo fratello Gherardo entra in convento, a Francesco nasce una figlia (Francesca, che amorevolmente consolerà la sua vecchiaia), e dalla sua penna esce un dialogo latino tra San Francesco e Sant’ Agostino, il Secretum, un’opera portata a termine durante un soggiorno a Milano (tra 1353 e 1358). Tra un viaggio e l’altro, contrassegnati dalle solite crisi di malinconia, ebbe incarichi ufficiali, presso varie corti (Napoli, Parma ecc.), al servizio più o meno del papato avignonese. Sono di questi anni De otio religioso, De vita solitaria, Bucolicum carmen. In quest’ultima opera, un dialogo col fratello, riprende il tema del contrasto tra la vita pubblica e la quiete del chiostro. Un’opera in cui ribadisce i fondamenti del suo pensiero politico, ma si parla anche della morte di Laura, avvenuta, secondo quanto è detto, un 6 aprile, lo stesso giorno del loro primo incontro.

Gli anni seguenti lo vedono ancora vagare per varie corti, finché nel 1353 accetta l’invito dell’arcivescovo Giovanni Visconti e si stabilisce a Milano. Un soggiorno operosissimo, in cui mise ordine nelle lettere, dividendole in ventiquattro libri- De rebus familiaribus libri. Altre opere milanesi, l’Invenctiva contra medicum quendam  e De suis ipsius et multorum ignorantia  affrontano il contrasto tra la cultura scientifica di tipo aristotelico e la tradizione scolastica. Siamo in anni di crisi, in cui i valori medievali, soprattutto a livello filosofico, sembrano dissolversi di fronte a un sempre più presente platonismo; a Tommaso e al formalismo della Scolastica si contrappone Agostino e Cicerone; più che la natura, si tende a capire l’animo umano. L’Umanesimo è alle porte. In questo contesto culturale, filosofico, s’inseriscono tutte le future opere di Petrarca. Sono anni d’intenso lavoro, soprattutto di sistemazione di opere iniziate in precedenza, nonché di riordinazione del monumentale Canzoniere.

Ma la ricerca del luogo tranquillo, la ricerca di quella solitudine tanto aperta alla meditazione, lo condusse, dopo brevi soggiorni a Padova e Pavia, a ritirarsi sui colli Euganei, ad Arqua, ultima sua dimora. Lavorò ai Trionfi, un’opera in volgare, in cui elogia il trionfo dell’Amore, dell’Eternità, della Divinità, ma di cui non si conosce con esattezza una edizione definitiva né una precisa cronologia.

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Ma il grande lavoro di questi anni, praticamente tra il 1366 e il 1374 è quello compiuto sul Canzoniere, dove tutta la vicenda dell’amore per Laura, cristallizzata nella perfezione di una liricità assoluta, condizionerà per secoli la poesia italiana e universale. Una poesia, quella di Petrarca, senza luogo e senza tempo, che ritroviamo ampiamente ancora in pieno Ottocento.

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Bibliografia

U. Foscolo, Saggi sopra il Petrarca, 1821 (in ed. a cura di M. Fubini, Torino 1926)

F.de Sanctis, Saggio sul Petrarca, 1869 (in ed. a cura di E. Bonora, Bari 1954

F. Montanari, Studi sul Canzoniere del Petrarca, Roma 1958

A. Noferi, L’esperienza poetica di Petrarca, Firenze 1962

                                                                                Lucica Bianchi

I CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA-GIOVANNI BOCCACCIO

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“Umana cosa è l’avere compassione degli afflitti, e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere ed hannol trovato in alcuni; tra li quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono un di quegli.”
Giovanni Boccaccio- Decameron, incipit

Nato nel 1313 a Certaldo in Toscana, dall’amore illegittimo di un mercante fiorentino per una nobildonna, Giovanni Boccaccio vive a Firenze, finché nel 1325 il padre decide di inviarlo a Napoli a far pratica di mercatura presso il Banco de’ Bardi. Nella splendida città angioina egli dà cattiva prova delle sue attitudini per il commercio e per lo studio del diritto.
Tuttavia ha la fortuna di essere introdotto nella nobile e sfarzosa corte del Re Roberto. Questo soggiorno napoletano stampa nella sua anima le impressioni più vive e durature. Giovanni si avvia con passione alle prime esperienze letterarie, viene a contatto con la grande cultura della città, una città ricca di elementi della letteratura italo-francese e di quella arabo-bizantina, e infine conosce anche l’amore appassionato per Maria D’Aquino, figlia naturale del Re Roberto e sposa di un nobile di corte. E’ un amore profondo ma infelice, che resterà sempre la nota dolente della sua vita.
Maria non divenne un simbolo, ma ispira comunque tutte le opere di Boccaccio: quelle composte nel periodo napoletano(1336-1340) come il romanzo “Filocolo” e i due poemi “Filostrato” e “Teseida”, ma anche gli altri scritti dopo il ritorno a Firenze: “Il Ninfale d’Ameto”, “l’Amorosa visione”, “l’Elegia di Madonna Fiammetta”, “ Ninfale Fiesolano”.
Il desiderio d’amore esulta anche da ogni pagina del “Decameron” e infine si esaspera in invettiva contro le donne nel romanzo satirico “Il Corbaccio”.
Ritornato a Firenze nel 1340, a causa del disastro finanziario del padre, Giovanni affronta un duro periodo di sofferenze e privazioni, e si rifugia nel conforto della letteratura. Quando nel 1348 si abbate sulla città il flagello della peste, il suo occhio spazia ormai su un’umanità più vasta e la sua ispirazione scaturisce spontanea dalla vita. Fra il 1348 e il 1353 nasce il “Decameron”.
Le cariche diplomatiche che i concittadini gli affidano, le amicizie della corte reale di Napoli, a Boccaccio non bastano per migliorare le sue condizioni misere. Ritiratosi nella casa paterna di Certaldo, approfondisce nella solitudine, verso una fede profonda, dedicandosi agli studi. Conforto di questi anni è la familiarità con gli uomini dotti del periodo preumanistico e l’amicizia con il Petrarca, un rapporto che si trasforma in un dialogo spirituale. Il Boccaccio scopre nuovi codici di autori classici, introduce nel patrimonio culturale europeo la lingua greca, scrive opere dotte in lingua latina: biografie, trattati di mitologia.
Del rinnovato culto di Dante è frutto la prima biografia dantesca “Trattatello in laude di Dante”, e il commento pubblico dei canti dell’Inferno, da lui tenuto nella chiesa di Santo Stefano di Badia(1373-1374). Nella luce di una fede sincera e pacata, che compone in serena armonia le turbinose esperienze della giovinezza, si avvia verso la morte(1375), che viene a consacrarlo fra i grandi poeti del Trecento.
Come ha potuto il Boccaccio far confluire nel “Decameron” le sue esperienze migliori, per creare un mondo vivo e di perenne allegria? Egli ha ereditato dai mercanti quel raro istinto di saper vedere con occhio preciso ogni cosa, che analizza, ridimensiona e ricompone poi in cosa nuova. Da qui nasce il sorriso come evasione al tormento e mezzo più comune di sopravvivenza, un sorriso non amaro, bensì caldo e soddisfatto di chi, in fin dei conti, sa sempre cavarsela dai guai. Di conseguenza, il “Decameron” raccoglie elementi contrastanti: erudizione e slancio creativo, sacro e profano, ingenuità e astuzia, novità e tradizione, perfezione morale e perversità, simbolo e realtà, beffa e amore sincero.
Nel “Decameron” un’allegra brigata di giovani narra cento novelle, nel giro di dieci giornate. Sono sette fanciulle e tre giovani uomini, che hanno deciso di lasciare Firenze per sfuggire al contagio della peste e rifugiarsi in campagna, dove si dedicheranno agli svaghi e alla narrazione. Ogni giorno eleggono la regina o il re cui spetta di dettare il tema delle novelle che ciascuno dei dieci narrerà. Ma questa cornice è puramente fittizia e le figure dei narratori svaniscono come simboli. Anche la descrizione iniziale della peste è dimenticata per fare posto alla materia vasta e risonante di voci di vita vissuta. Tipi umani autentici, pescati dal popolo minuto, dalla nobiltà o dalla borghesia, provenienti da ogni parte del mondo. L’Oriente s’incontra con l’Occidente, la terra con il cielo. Tutta l’umanità viene a popolare la letteratura, parlando il linguaggio abituale: il
volgare. Dietro questi personaggi si nasconde il sorriso compiaciuto di Boccaccio, che di ciascuno ammira le virtù e compatisce i vizi. E se Maria d’Aquino si cristallizza nella figura sofisticata di Fiammetta, il soffio dell’amore aleggia dovunque. E’ un amore che assume mille aspetti diversi. Tutti gli eccessi si ricompongono nell’incanto dell’arte, diventando mosaico di colori, di suoni, di movimenti.
Capolavoro di varia umanità, il “Decameron” e perennemente vivo e attuale, perché non rispecchia soltanto un particolare momento storico, ma affonda le sue radici nell’eterna vicenda dell’uomo: la vita, il sorriso, le lotte, gli amori, le beffe. E proprio un figlio di mercanti come il Boccaccio, carico di esperienze reali di vita, viene a scoprire questo mondo profano del tardo Medioevo. Con lui la letteratura entra nella vita e la vita stessa nella letteratura. L’anima di tutto questo non è più una dottrina o un simbolo, ma l’uomo autentico, cosi com’è, come vive, come parla e come ama.

Lucica Bianchi

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