GFB per RARE DISEASE DAY

PARTECIPA COL GFB DI TALAMONA AL RARE DISEASE DAY

GIORNATA MONDIALE DELLE MALATTIE RARE XV EDIZIONE 2022

Il 28 febbraio si celebra la Giornata Mondiale delle Malattie Rare. L’obiettivo di questo appuntamento è molto chiaro: aumentare la consapevolezza di tutti su questa importante priorità di sanità pubblica. Le malattie rare, ad oggi identificate sono più di settemila, mentre le persone affette da una malattia rara sono nel complesso oltre 300 milioni in tutto il mondo, circa 2 milioni solo nel nostro Paese, secondo la Rete Orphanet Italia.

Questa premessa porta con sé la responsabilità di confermare nel tempo e in un panorama internazionale un’aumentata consapevolezza che affonda le sue radici e si nutre di quella linfa preziosa che è l’operato instancabile delle Associazioni di pazienti e dei loro familiari. Sono alcune delle considerazioni da cui si è partiti per lanciare una serie di eventi collettivamente e attività di sensibilizzazione, che vede protagonisti circa 100 Paesi in tutto il mondo, Associazioni di pazienti, Istituzioni, gli operatori sanitari, i ricercatori, i caregiver.

Un’occasione preziosa, giunta alla XV edizione, che simbolicamente viene celebrata il 29 febbraio (il giorno più raro che capita ogni quattro anni) e quando manca, come quest’anno, il 28 è il giorno in cui si uniscono le forze per portare l’attenzione di tutti sui malati rari e per promuovere azioni concrete per migliorare la qualità di vita.

A Talamona, l’Associazione GFB Onlus (Gruppo Familiari Beta Sarcoglicanopatie) con la Presidente, Beatrice Vola, coordina una serie di azioni di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’argomento, oltre che fare da regia nell’organizzazione e diffusione di messaggi, testimonianze e gesti concreti, volti ad aumentare la consapevolezza e la cultura sulle malattie rare. Sul sito dell’Associazione http://www.gfbonlus.it è stato pubblicato l’invito ad aderire alla campagna di sensibilizzazione “Accendiamo le luci sulle malattie rare”, promossa da Uniamo Federazione Italiana Malattie Rare, coordinatore nazionale della Giornata. Un’azione semplice, ma significativa: quella di illuminare un monumento nella città, con i colori della Giornata (azzurro, rosa, viola, verde oppure di uno a scelta).

Ad oggi, hanno aderito alla manifestazione coordinata dall’Associazione GFB Onlus di Talamona una serie di Istituzioni ed Enti pubblici comunali, Aziende ed Enti privati: dalla Lombardia (Provincia di Sondrio – Fusine, Grosio, Piuro, Poggiridenti, Montagna in Valtellina e la Fondazione Culturale Montagna in Valtellina, Castione Andevenno, Talamona, Livigno, Colorina, Rogolo, Caiolo, Piateda, Tresivio, Torre di S. Maria, Valdisotto, Concessionaria “Motori Sondrio” con la sede di Sondrio, Consorzio di miglioramento Fondiario Pustaresc con il Ponte nel Cielo,. Altre adesioni arriveranno in questi giorni, di cui daremo notizia.

Dal Veneto hanno aderito alla manifestazione i Comuni di: Thiene, Breganze, Schio (Azienda Eco Spa), Zanè (Azienda Univer 200 srl). Dal Trentino Alto Adige i Comuni della Val di Fassa, Canazei, Soraga. Dalla Regione Lazio i Comuni di: Albano, Fiumicino, Marano Equo, Sacrofano, altri Comuni e municipalità.

Quest’anno GFB propone l’iniziativa rivolta alle scuole: “A Friendship story”. L’associazione vuole coinvolgere anche i più giovani per far conoscere le malattie rare e ha avuto una buona adesione da parte dell’IC “Giacomo Parravicini” di Campovico, IC “Giovanni Gavazzeni”di Talamona, altre scuole che porteranno all’interno della programmazione scolastica questo progetto.

Partners di GFB nella manifestazione Rare Disease Day: UIDLM Provincia di Sondrio, AIMEN 1 e 2 Sondrio.

La manifestazione si svolge con il Patrocinio del Centro Servizi Volontariato Monza Lecco Sondrio.

La Presidente GFB Onlus, Beatrice Vola:

Sono molti gli eventi che ogni anno vengono realizzati in tutta Italia. Quest’anno le misure imposte dall’emergenza sanitaria sconsigliano lo svolgersi degli eventi in presenza ma insieme potremo portare l’attenzione di tutti sulle malattie rare. Vi invitiamo a partecipare e diventare protagonista della campagna #UNIAMOleforze, seguendo il sito e le pagine social dell’Associazione. Inoltre, vi chiediamo di inviarci le foto con un monumento illuminato e di pubblicarle anche sui vostri profili e pagine social utilizzando gli hashtag della campagna #rarediseaseday e #UNIAMOleforze. Accendiamo tutti le luci sulle malattie rare, per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle problematiche sociali e cliniche di chi vive con una malattia rara”.

Sei un’associazione di malattia rara? Unisciti a noi, manda le tue fotografie coi monumenti illuminati, coinvolgi i membri della tua associazione. Per partecipare e per avere maggiori informazioni scrivete a segreteriagfb@gmail.com o chiamate il numero +39/3493374060

Ufficio stampa GFB ONLUS

Lucica Bianchi

Artec Event Manager

Tel 0342/671428 Cell 3316209207

Via Tartano 862/A Talamona, 23018 (SO)

artec.lucica@gmail.com

artec.lucica@pec.it

https://arteclucicabianchi.com/

Ulteriori informazioni

GFB ONLUS – un gruppo di famiglie, residenti in Italia e all’estero, con persone affette da beta-sarcoglicanopatia e altre distrofie dei cingoli, rare forme di distrofia muscolare. L’obiettivo dell’Associazione è quello di rispondere alla carenza di informazioni scientifiche nell’ambito della ricerca specifica per questa particolare e rara patologia. Inoltre, l’Associazione rappresenta le persone affette da Beta-sarcoglicanopatia nel dialogo con le Istituzioni, Enti di ricerca, altri Soggetti pubblici e privati impegnati nella ricerca sulla patologia.

UNIAMO- la Federazione delle Associazioni di Persone con Malattie Rare d’Italia. Con la missione di migliorare la qualità di vita delle persone affette e delle loro famiglie conduce attività di advocacy per la tutela e promozione dei diritti negli ambiti di ricerca, bioetica, politiche sanitarie e socio-assistenziali. Questa attività è svolta anche a livello europeo in qualità di Alleanza Nazionale di EURORDIS-Rare Disease Europe.

AMORE DIVINO E AMORE PROFANO NEL PURGATORIO DANTESCO

Loredana Fabbri

Agnolo Bronzino, Dante osserva il Purgatorio, 1532-1533. Olio su tela, 130×136 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi.

 <<Amor che ne la mente mi ragiona / cominciò elli

                                                                                         allor sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona>>.

                                                                                       (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, II, vv. 112-113)

                                                                                                               <<”Né creator né creatura mai”,                                               

                                                                                                                 cominciò el, “figliuol, fu sanza amore,

                                                                                                                    o naturale o d’animo; e tu ‘l sai”>>.

                                                                                       (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, XVII, vv. 91-93)

PREMESSA

Questo lavoro nasce in seguito ai miei due precedenti sulla “Divina Commedia”, in occasione del Settecentenario dalla morte di Dante Alighieri: “Diavoli e Demoni nell’Inferno dantesco” e “Politica e Filosofia nel Paradiso dantesco”. Ho pensato che il mio lavoro non fosse completo, perché mancante di un articolo relativo alla seconda Cantica, quindi ho cercato di scrivere un argomento sul Purgatorio e quale tematica se non l’Amore? Quell’amore che in tutta la “Commedia” ha un posto di primaria importanza, quell’amore che Dante ci propone in tutte le sue manifestazioni e che è stato il propulsore di tutte le sue opere ma soprattutto della sua “Commedia”, quell’amore poliedrico che ha condizionato tutta la vita del sommo Poeta.

Domenico di Michelino, Dante e la Divina Commedia, 1465. Tempera su tela (?), 232×290 cm, Firenze, Chiesa di Santa Maria del Fiore 

È l’amore che spinge Dante ad intraprendere il suo grandioso viaggio che dall’Inferno lo porterà alla visione di Dio in Paradiso. Tutta la “Divina Commedia” è permeata dall’amore, un amore che dal basso si eleva verso l’alto, che inizia dai sensi e arriva allo spirito, un amore multiforme: terreno e divino, ardente e domestico, tormentato e dolce, peccaminoso e virtuoso, patriottico e talvolta sciovinista.

È l’amore che induce Beatrice a chiedere a Virgilio di soccorrere e guidare Dante nel suo viaggio ultraterreno: il poeta latino rivela all’Alighieri che mentre si trovava nel Limbo, luogo a lui destinato dalla Giustizia divina, Beatrice, mossa da amorosa preoccupazione, lo prega di aiutarlo, poiché il destino e la salvezza del Maestro fiorentino sono stati voluti dalla Vergine Maria e da Santa Lucia, le quali l’avevano convinta a soccorrere Dante che tanto l’aveva amata e che per questo amore si era elevato dalla mediocrità morale ed artistica.1

A cavallo tra il XIII e il XIV secolo, nella lirica d’arte italiana, si sviluppa un nuovo movimento, il cui iniziatore è il bolognese Guido Guinizzelli, seguito da Cino da Pistoia e da un gruppo di poeti fiorentini: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, Gianni Alfani e Dante Alighieri, quest’ultimo chiama “Dolce Stil Novo”, questa innovativa “Scuola”, che, secondo il Sommo poeta, consiste nel fatto che essi seguono l’ispirazione d’Amore e ciò che “ditta dentro”, non intendendo sostenere che la loro poesia fosse più immediata e più spontanea sentimentalmente, ma allude alla capacità di penetrare più a fondo l’essenza dell’esperienza amorosa, sia da un punto di vista psicologico sia da quello intellettuale e di saperlo esprimere poeticamente.

Dante ci fa capire molto bene questo concetto nel canto XXIV del Purgatorio, durante il suo colloquio con il rimatore lucchese Bonaggiunta Orbicciani:2<<Ma dì s’i veggio qui colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / “Donne ch’avete intelletto d’amore” / E io a lui: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a que modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”. / “O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo / che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!>>. Bonaggiunta ha riconosciuto Dante e sa che rappresenta un nuovo modo di poetare e il riferimento alla canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore”, come ad un testo che consapevolmente inizia un modo di nuove rime, una nuova coscienza poetica e un nuovo stile. La canzone è la prima de “La Vita Nuova” (XIX capitolo), in cui il Poeta fiorentino, loda la donna che da oggetto di semplice desiderio si trasforma in un potente strumento d’amore e di perfezione: l’amore si può esprimere anche attraverso la lode, creando corrispondenza basata sul comune sentire tra il rimatore e la donna, la quale diventa capace di produrre un effetto sull’uomo amato, ma anche in tutti quelli che, dotati di gentilezza d’animo, riescono a cogliere il messaggio d’amore emanato dalla donna, messaggio che dalla dimensione contingente arriva a quella metafisica.

Con la sua risposta al poeta lucchese, Dante afferma sia l’importanza dell’ispirazione poetica connessa ad una concezione d’amore trascendente, sia la ricerca di una forma idonea a riprodurre l’ispirazione interiore. Dopo le parole di Dante, Bonaggiunta comprende chiaramente il carattere della nuova poetica, che gli si rivela come una verità religiosa: ora che si trova nel Purgatorio, libero da orgoglio e polemiche terrene e più degno a giudicare secondo il vero, si rende conto dell’importanza di quella poesia che celebra l’Amore inteso come rinnovamento interiore e fondamento di moralità, cogliendo l’ostacolo che ha impedito a lui e agli altri due rimatori (Jacopo da Lentini e Guittone d’Arezzo) di accedere alla poetica del “Dolce Stil Novo”.3

La poesia dello “Stil Novo” rispecchia la Firenze della seconda metà del XIII secolo, dove l’aristocrazia di sangue cede il passo a quella del denaro, una libera repubblica, in cui predomina l’elemento borghese, anche se teoricamente soggetta all’autorità imperiale (non presente per la grande vacanza dell’Impero). Questo genere poetico, di cui Dante si farà maestro, sull’esempio del Guinizzelli, rispecchia un ambiente dove ormai il mito del blasone è tramontato: il “cor gentil” dei rimatori non è tale per nobiltà di sangue, ma per virtù morali indipendenti dalla nascita, riprendendo i motivi della lirica “cortese”.

Il gruppo di poeti che aderisce al nuovo modo di fare poesia, accoglie il tema dell’esaltazione dell’amore come suprema forma di aristocrazia spirituale ed anche la rappresentazione della donna come figura angelica, ispiratrice di un amore che innanzitutto è elevazione morale è tipica degli ultimi provenzali. Si tratta di un gruppo di intellettuali che non coincide più con una corte, come la “Scuola siciliana”, ma vive nella realtà cittadina e fonda il sentimento della propria aristocrazia sulla cultura, che è conquista individuale. Gli stilnovisti vogliono descrivere l’origine e la natura dell’amore, <<cogliendole nel loro fondamentale aspetto psicologico, astraendo dalle manifestazioni contingenti. Gioia e tormento amoroso, contemplazione entusiastica della bellezza e passione conturbante sono ricondotti a quel complesso di rappresentazioni mentali che generano il sentimento. L’analisi coinvolge però tutta la vita della coscienza, perché allora la psicologia non era, come oggi, una scienza sperimentale, ma la dottrina filosofica dell’anima>>.4

Nei poeti stilnovisti si percepisce l’influenza del nuovo aristotelismo e delle correnti mistiche, convergenti nella filosofia di San Bonaventura, ossia della ricerca filosofica del tempo, in cui ha particolare importanza, ai fini dello stilnovismo, quella che fu detta “metafisica della luce”, secondo cui <<la luce è il principio dell’essere, della vita, lo splendore, in tutto il creato, della suprema mente creatrice, riflessa dalle Intelligenze angeliche motrici dei cieli e delle creature umane più elevate, che diventano un vivente incentivo a una partecipazione più piena dell’essere e alla verità>>.5

La bellezza femminile, che viene espressa con metafore di luce e di splendore, è la manifestazione della perfezione dell’essere cui aspira l’anima: la bellezza come rivelazione del bene, l’amore come esaltazione dell’intima nobiltà dello spirito, ma anche tensione spesso tormentosa; il linguaggio ricercato e “dolce”, adeguato ad esprimere la delicatezza dell’amore e le immateriali sottigliezze delle vicissitudini interiori, questo continuo richiamo all’interiorità appariva allora la forma poetica più elevata e destinata ad un pubblico eletto, infatti il “Dolce stil Novo” rimase, volutamente, un’esperienza aristocratica e selettiva nei confronti del pubblico.6

Così si esprime Aurelio Roncaglia: <<La stessa intensificazione dell’elemento visivo, luminoso, così caratteristica degli stilnovisti, con quelle loro donne che fanno “tremar di claritate l’aere”, nasce non da una casuale propensione della sensibilità, ma da presupposti concettuali, filosofici. Dietro le immagini luminose […] c’è l’estetica metafisica della luce, che si annette alla poesia della donna-angelo, così come s’era sposata nella speculazione filosofica al tema dionisiaco dell’illuminazione gerarchica delle intelligenze angeliche. Dio è luce, e quanto più si avvicinano a lui, tanto più le creature sono luminose, come dice San Bonaventura. Attraverso lo splendore della loro luce le creature superiori agiscono sulle inferiori. La contemplazione della luce divina è nelle intelligenze angeliche il principio motore dei cieli>>.7

Dante crede che la protezione della donna sia prodigiosa per l’uomo, infatti il suo viaggio ultramondano ha luogo perché tre “Donne Benedette”, come già accennato prima, l’aiutano quando il Poeta preso dalla paura vuole rinunciare a tale impresa ed incontra Virgilio che gli svela da chi è mandato per aiutarlo e guidarlo: la prima è la Madonna, che però non viene nominata dall’antico Poeta, come anche il nome di Cristo, poiché questi nomi sarebbero contaminati se pronunciati nel regno infernale, ossia del peccato, infatti il Maestro fiorentino usa la locuzione “Donna gentil”, che, essendosi impietosita di lui, lo affida a Santa Lucia, protettrice della vista e che, appunto, lo illuminerà; a sua volta Lucia farà intervenire Beatrice per convincere Virgilio di fare da guida a Dante: <<Il colloquio fra il poeta pagano relegato nel Limbo e la donna di virtù scesa dal cielo è da romanzo cavalleresco. Beatrice supplica con gli occhi lucenti di lacrime, di cui, ancorché santa, sa fare buon uso. Virgilio, ottimo cavaliere, promette di fare quello che lei vorrà>>.8 Ma, prima di arrivare in cima al Purgatorio, Dante incontrerà altre donne benedette, la prima sarà Matelda, poi nel corso della mistica processione incedono tre donne vestite di bianco, di rosso, di verde, seguite da altre quattro vestite di poropora, simboleggiante le virtù teologali e quelle cardinali, infine <<Beatrice in una corona di gentili donne, come a Firenze e nella Vita Nova. Canti, danze, lancio di fiori preparano il suo ingresso in un’atmosfera nunziale, che l’inno Veni sponsa de Libano musicalmente accompagna>>.9

Nel XVII canto del Purgatorio, Dante si fa spiegare da Virgilio l’ordinamento morale di questa seconda cantica, l’antico poeta comincia una lunga digressione sulla teoria dell’amore, causa di bene e di male: sta scendendo la sera e Dante si rende conto che non può più proseguire il cammino, perché sente che la forza nelle gambe sta diminuendo, Virgilio, approfittando della sosta, gli spiega quale peccato si espia in quel luogo e le regole che costituiscono l’ordinamento morale del Purgatorio, cominciando con una lunga digressione sulla teoria dell’amore, principio di ogni virtù e di ogni vizio. Se nel canto precedente (XVI) il tema centrale è quello della necessità e del valore della legge e dello Stato che deve esserne il portatore e il difensore; nel canto XVII troviamo la teoria dell’amore solennemente formulata da Virgilio, il quale dice che all’origine della vita c’è l’amore, Dio è amore ed ama tutte le cose.

Ci sono due tipi di amore, uno innato e uno volontario, elettivo, in cui intervengono ragione e volontà e Dante conosceva molto bene la dottrina aristotelica e tomistica riguardante tali distinzioni. L’amore naturale è quello che il Creatore ha infuso in ognuno di noi e tende al proprio fine, cioè amare Dio, questo amore non può mai errare perché parte della creazione.10

L’amore elettivo o volontario è stato dato a tutti coloro dotati di libero arbitrio (uomini e angeli), in quanto comporta una scelta dell’intelletto e una libera decisione della volontà, è l’amore che tende verso qualcosa, che ha la possibilità di scelta e di commettere il peccato quando si rivolge al male, ossia tende ai beni terreni con molta più cura di quanto dovrebbe o al sommo bene con minor cura del giusto. In altre parole: l’amore che è in ogni creatura si distingue in amore naturale e amore d’elezione, il primo è istintivo e non può sbagliare; il secondo invece, nel quale agiscono l’intelligenza e la volontà di colui che agisce, può errare in tre modi immorali, il primo è “per malo obietto”, ossia desidera il male del prossimo e di questo fanno parte la superbia, l’invidia e l’ira; il secondo “per poco di vigore”, consistente in scarso fervore, indolenza nell’amore del vero bene (Dio), l’accidia è il risultato di questo errore; il terzo “per troppo di vigore”, in quanto si tratta di un amore senza misura e ne fanno parte l’avarizia, la gola e la lussuria, che sarà punito negli ultimi tre gironi di questo regno, ma Virgilio lascia a Dante il compito di capirlo con le sue sole forze intellettuali, di come esso sia distinto in tre specie. 11

La prima forma dell’amore, cioè quella innata, non è oggetto della disquisizione del poeta latino, perché in quello la responsabilità è della natura e non dell’uomo, della natura che opera in conformità del volere e del disegno divino. L’amore dell’intelletto invece è consapevole, poiché è sostenuto dalla ragione e dal consenso del libero arbitrio: <<”Né creator né creatura mai”, / cominciò el, “figliuol, fu sanza amore, / o naturale o d’animo; e tu ‘l sai. / Lo naturale è sempre sanza errore, / ma l’altro puote errar per malo obietto / o per troppo o per poco di vigore. / Mentre ch’elli è nel primo ben diretto, / e ne’ secondi sé stesso misura, / esser non può cagion di mal diletto; / ma quando al mal si torce, o con più cura / o con men che non dee correr nel bene, / contra ‘l fattore adovra sua fattura. […] “L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona, / di sovr’a noi si piange per tre cerchi; / ma come tripartito si ragiona, / tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi”>>.12

La lunga spiegazione sull’origine e la natura di Amore continua anche nel canto successivo (XVIII) e sottolinea l’importanza che esso assume nella seconda cantica, Virgilio, esortato da Dante, chiarisce che l’animo umano, predisposto all’amore, si volge sempre verso qualsiasi oggetto piacevole: inizialmente le facoltà conoscitive captano l’immagine esterna della realtà, in seguito l’animo rielabora l’immagine e se ammirandola prova attrazione ha origine l’amore, che avvolge sempre più l’animo, che, soggiogato da Amore, è preso dal desiderio dell’oggetto amato e si protende verso esso fino a raggiungere la gioia dell’unione. Se la disposizione all’amore è buona, non sempre lo è l’oggetto dell’amore, ma l’uomo essendo dotato di ragione, che gli permette di distinguere il bene dal male, lo guida alla conquista delle virtù.

I filosofi riconobbero questa facoltà, quindi elaborarono e lasciarono in retaggio agli uomini una dottrina morale, e questa nobile virtù Beatrice la chiamerà libero arbitrio. <<Color che ragionado andaro al fondo, / s’accorser d’esta innata libertate; / però moralità lasciaro al mondo […] La nobile virtù Beatrice intende / per lo libero arbitrio, e però guarda / che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende>>.13 Beatrice vi accennerà, brevemente, come al dono più grande che Dio ha elargito agli angeli e agli uomini, nel V canto del Paradiso (vv. 19-24). Ma già nel XVI canto del Purgatorio, Dante si farà spiegare da Marco Lombardo, personaggio di cui mancano notizie precise, concetto di libero arbitrio, Marco parla con l’esperienza e la saggezza dell’uomo di corte, vissuto in tempi migliori; l’Alighieri affida a questo personaggio dignitoso e pensoso, virile e amaro, che commosso e nostalgico condanna il male presente, additandone le cause e ricordando l’età in cui i costumi erano improntati sul valore e la cortesia. In tutta la “Divina Commedia il tema del libero arbitrio, cioè della responsabilità e della libertà dell’agire umano, è ripetuto e ribadito con grande energia da Dante, il quale esalta gli uomini di forte volontà, disprezzando coloro che si rifugiano nell’inerzia comoda e vantaggiosa.

Per Dante, quindi, l’Amore è moto, è principio di vita, è forza fisica ed è energia spirituale, che investe tutto l’universo ed è anche l’origine di tutte le azioni divine e umane, cattive o buone e la disposizione morale del Purgatorio è regolata dal concetto di amore, fondamento di quel regno del perdono e della penitenza e fonte negli uomini di tutto il bene come di tutto il male, secondo la distinzione della filosofia scolastica.

Nella “Divina Commedia” la collocazione del Purgatorio è antitetica a quella dell’Inferno: l’Inferno è una cavità sotterranea mentre il Purgatorio è simile ad un’immensa montagna a forma di tronco di cono, nella cui sommità, pianeggiante, si trova il Paradiso terrestre, situata nell’emisfero opposto a quello di Gerusalemme, l’isola è circondata dall’Oceano, le cui acque coprono tutta la superficie dell’emisfero australe come vuole la dottrina antica. La spiaggia tra il mare e il monte non è molto vasta e i due poeti giungono in un punto dove attracca la navicella con le anime che devono espiare il loro peccato, provenienti dalla foce del Tevere, che simboleggia la salvezza, come l’Acheronte rappresenta la dannazione.14

Il cambiamento d’ambiente e d’atmosfera dall’Inferno al Purgatorio, serve a dare l’idea del mutato clima spirituale: alle tenebre del doloroso regno si contrappone la cristallina purezza di un’alba sul mare; al fetore dell’aria infernale la fragranza della salsedine e dell’erba bagnata dalla rugiada; alle grida e alle bestemmie dei dannati, il mormorio del mare e il fruscio del vento. I sentimenti dei purganti s’intonano al paesaggio e le memorie terrene hanno perduto la loro asprezza e il motivo più coerente è quello della solidarietà spirituale, che unisce le anime tra loro e con gli esseri amati rimasti sulla terra, questo grande movimento d’amore e solidarietà è il collegamento tra i morti e i vivi, ciò spiega le continue domande di suffragi e i messaggi per i vivi che Dante riceve dalle anime che incontra percorrendo il Purgatorio.15 <<E’ per essa che Forese Donati, morto da solo cinque anni all’epoca del viaggio dantesco, si trova già quasi a sommo del monte, vicino alla liberazione; le preghiere della buona moglie Nella, tanto trascurata in vita, l’hanno condotto fin là. Questo spiega anche le continue domande di suffragi e i messaggi per i vivi che Dante riceve: Manfredi vuol essere ricordato dalla sua bella figlia, Costanza; Nino Visconti si raccomanda alle preghiere di Giovanna, la sua piccola orfana; Adriano V spera nei suffragi di sua nipote Alagia. E’ questo uno dei motivi conduttori del Purgatorio, luogo d’espiazione, sì, ma anche e soprattutto d’emendazione. Le pene medesime consistono in una sofferenza anche grave ma sempre dolce perché ha nome speranza>>.16

Dante e Virgilio, reduci dall’Inferno, giungono nell’antipurgatorio, dove il Poeta fiorentino, coperto dalla caligine infernale, compie i riti di purificazione su invito di Catone, in uno scenario di un’alba radiosa che annuncia il regno della luce e del sole.

Intorno alla montagna del Purgatorio girano sette balze o cornici, in ciascuna di esse è punito uno dei peccati capitali e le anime dei purganti vi sosteranno per un tempo proporzionato alla gravità del peccato commesso, ma le anime che tardarono a pentirsi fino alla loro morte resteranno un periodo di tempo (per una specie di quarantena) presso la spiaggia, dove approdano i defunti trasportati sul vascello di un angelo nocchiero. In un luogo a parte, sono raggruppate le anime di coloro che furono scomunicati, morti penitenti ma in “contumacia di Santa Chiesa”, per questi la permanenza sarà ancora più lunga prima di poter accedere alla salita del monte e potrà essere abbreviato solo con le preghiere dei vivi: <<Vero è che quale in contumacia more / di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta, / star li convien da questa ripa in fore, / per ogni tempo ch’elli è stato, trenta, / in sua presunzion, se tal decreto / più corto per buon prieghi non diventa>>. 17

Terminato il percorso delle sette cornici, Dante è abbandonato da Virgilio, il quale non può procedere oltre, quindi viene accompagnato da Stazio,18che ha finito di scontare la sua pena e può salire al regno dei beati e nell’Eden incontra Beatrice e le confessa i suoi peccati. E’ il XXX canto ed è l’unica volta in tutta la “Commedia” in cui venga pronunciato il nome di Dante e a pronunciarlo sarà proprio Beatrice, la donna amata e cantata in giovinezza, che lo costringerà a pentirsi, con dolore e vergogna, della propria vita giovanile, del passato in cui “la diritta via era smarrita”, la donna attraverso la quale il protagonista del viaggio ultramondano ha acquisito piena consapevolezza di sé. <<Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada>>.19

Beatrice si trova sulla sponda opposta, rispetto a Dante, del fiume Leté, il fiume dell’oblio, che anche nell’Eneide marcava il confine tra la vita e la morte, ma a differenza dell’Acheronte, il fiume infernale, che dalla vita immetteva nella plaga dei morti, il Leté dalla morte, per metampsicosi, riportava alla vita: una metampsincosi di un uomo rigenerato, rinnovato, che perviene ad una nuova vita, quella dell’anima in Dio e la sua donna è ambasciatrice di questa “vita nuova”.20

<<Ed ecco Dante in uno dei momenti di maggior coinvolgimento emotivo del suo itinerario di redenzione. È l’incontro, con Beatrice nell’Eden (XXX Purg.). Una pioggia di bianchi gigli vela l’apparizione della donna, che d. aveva amato in gioventù ed era morta nel 1290. Quella che adesso ci appare è un’immagine trasfigurata in un complesso di simboli, ma d. sente la potenza dell’amore. La forza dell’antica fiamma, la stessa che sentiva in gioventù quando la dolcezza di lei, attraverso i suoi occhi, gli raggiungeva il cuore. Adesso l’arcana e misteriosa forza di quell’amore si fa sentire anche prima che Dante riesca a vederla. È una potenza, dunque, che non ha niente a che vedere con la realtà percettiva, e Dante sottolinea questo dato “senza che de li occhi aver più conoscenza” (v. 37), senza cioè percepire la sua immagine attraverso i sensi, sente la traccia, il segno dell’antico amore. L’episodio ha un’alta densità drammatica e sottopone il poeta a continui mutamenti di stati d’animo: si alternano il dolore per la perdita di Virgilio, che sparisce dopo aver accompagnato Dante attraverso l’Inferno e il Purgatorio, e l’intensa emozione per l’incontro con Beatrice , che lo guiderà in Paradiso alla contemplazione di Dio>>.21 Nell’Alighieri è rimasta profonda la traccia dell’amore giovanile e a quel ricordo è scosso da un tremore fanciullesco e da una sensazione di impotenza che ancora prova di fronte alla donna, quasi fosse una sensazione trascendentale: ciò che è impresso nella coscienza di Dante è l’impronta di Dio e Beatrice diventa, in tal modo, l’incarnazione della “verità rivelata”.22

Il XXX canto si può definire il luogo della riconciliazione, dell’incontro in cui il Poeta ritrova il suo Amore. Dante rivede Beatrice dopo tanto tempo e si volta verso Virgilio, che però non c’è più, dicendo che nemmeno una goccia di sangue gli è rimasto che non tremi, conosce i segni dell’antica fiamma: <<Men che dramma / di sangue m’è rimaso che non tremi: / conosco i segni de l’antica fiamma>>.23 Beatrice, simbolo della Teologia e della rivelazione cristiana, sarà la nuova guida di Dante, ma Beatrice fu ed è la donna amata, la donna cantata in gioventù nella “Vita Nova” e ritrovata negli anni della maturità nella “Commedia”, tra i due amanti non c’è un abbraccio, ma un solenne rimprovero da parte della donna, la quale esprime delle accuse ben precise, che lasciano sconvolto il Poeta, già addolorato dalla scomparsa di Virgilio, tuttavia il comportamento di Beatrice è dettato da un profondo amore, poiché non esiste amore più grande di quello che porta la persona amata alla conquista della totale felicità.

Prima dell’incontro con Beatrice, Dante assiste ad una processione allegorica, simboleggiante la storia della Chiesa,24 Successivamente Dante viene purificato da Matelda nelle acque dei fiumi Leté (della dimenticanza o oblio) ed Eunoé (memoria del bene compiuto), che lo rendono degno di seguire la sua donna nel regno dei beati.

Matelda è una creatura attraente e misteriosa che sembra fluttuare tra il sogno e la realtà, la sua apparizione in uno scenario melodico ed incantato ne esalta la bellezza, l’armonia della voce e la delicatezza dei movimenti, ma ecco che allora la donna assume la sua funzione, quella di guida, di colei che svela i misteri al Poeta: anello di congiunzione tra Virgilio (ragione umana) e Beatrice (verità rivelata), ma è anche la figura centrale del canto XXVIII, che unisce la prima parte più armoniosa con la seconda più tecnica. Matelda, ridente e amorosa, può simboleggiare la condizione di felicità dell’uomo preesistente al peccato originale, come quella della riconquistata felicità dopo il peccato originale attraverso il pentimento e la purificazione.25<<Poeticamente, è una ripresa del tema di Lia, nel canto precedente (vv. 94-108), con uno svolgimento più minuto, ma anche più adorno, con similitudini di una squisitezza da miniatura (vv. 52-54) e frequenti ricorsi mitologici e dotti (vv. 49-51, 64-66, 70-75); tutto animato e percorso ad ogni modo da un così fresco e irrompente moto di letizia, che quasi non s’avverte la presenza assidua e magari il soverchio dell’arte. Cresciuta sulla traccia di delicate immagini libresche (soprattutto ovidiane), ma rivissute nel clima fervido e raffinato di un sentimento stilnovistico, questa fantasia dantesca si è offerta a sua volta a guisa di stimolo e suggerimento a tutta una serie di variazioni letterarie…>>,26 che da Boccaccio vanno fino a Leopardi.

Il nome della “bella donna” verrà enunciato solo nel canto XXXIII, dando adito a varie supposizione da parte degli studiosi.27

Nell’Inferno i dannati sono puniti per i peccati commessi, mentre nel Purgatorio la punizione è per le inclinazioni peccaminose, ossia se un omicida muore senza essersi pentito è destinato all’Inferno nel cerchio dove è punito il peccato compiuto, ma se un omicida si pente, la sua destinazione sarà il Purgatorio tra gli avari, se questo vizio capitale è stato il movente del suo delitto. Nell’Inferno i dannati restano in eterno nel luogo assegnato, non provano pentimento del male commesso e rimpiangono la vita terrena, nel Purgatorio le anime salgono man mano verso l’alto per le varie cornici per arrivare al regno dei beati, odiano il peccato commesso e hanno pochi rimpianti per la vita terrena e sono tutti protesi verso quella beatitudine che li attende. Anche in questo regno vale la legge del contrappasso e nelle cornici sono presenti esempi del peccato punito e dell’opposta virtù premiata.28

Molti studiosi dell’Alighieri hanno sostenuto che una diversità di tono renda le tre cantiche stilisticamente diverse, ossia che lo stile del Poeta, dall’Inferno, al Purgatorio e al Paradiso sia via via più immateriale, ma, secondo Momigliano nel Paradiso troviamo spesso un fervore spirituale che ci riporta alla mente l’atteggiamento determinato di alcune figure, di diverse azioni e di vari scenari dell’Inferno, che rendono il protagonista Dante più simile al Dante protagonista dell’Inferno che al Dante protagonista del Purgatorio.29

Nell’Inferno il Poeta rappresenta l’elemento negativo, ossia il peccato, il male, che suscita repulsione, ma rappresenta anche il bene, il divino che Dante vede come aiuto, come conforto, come speranza per il suo viaggio verso la salvezza. Nel Paradiso, l’Alighieri rappresenta il divino, la perfezione dei beati, cioè l’elemento positivo che attrae l’anima cristiana e come necessario contrapposto il male che troviamo nelle moltissime invettive e polemiche di cui sono permeati i canti narrativi, biografici e dottrinali: <<In queste due cantiche cioè il contrasto è trasferito nella realtà, nelle cose, ed è dal poeta oggettivamente rappresentato. Nel Purgatorio invece esso è soprattutto interiorizzato, è trasportato all’interno della coscienza di Dante, e la poesia si fa più soggettiva>>.30

Per Dante l’evento più importante è quello di se stesso che, attraversando momenti contrastanti e drammatici, prende coscienza di sé e approda alla conclusione della sua ascesa spirituale: gli incontri con i vari personaggi diventano fasi progressive del suo processo di emancipazione e nel Purgatorio le presentazioni dei personaggi sono finalizzate alla sua purgazione più che a se stesse. Nell’Inferno, Dante è protagonista passivo e statico: parla e disputa con i dannati, ma in lui non avvengono mutazioni e quando esce da questo regno “a riveder le stelle” egli è quello che era prima, poiché nella prima cantica, come anche nel Paradiso l’anima ha concluso la sua storia ricevendo la soluzione finale di pena o di beatitudine, mentre nel Purgatorio le vicende dell’anima sono ben lontane dall’essere concluse, anche se la soluzione sarà la salita al Paradiso, i penitenti, quindi, procedono verso una compensazione tra peccato ed espiazione che non è ancora avvenuta, tendono verso quell’equilibrio che non si è ancora attuato. Il viaggio di Dante attraverso il Purgatorio si può invece definire un itinerario spirituale, interiore, fino alla completa purificazione nelle acque dei fiumi divini che lo rendono “puro e disposto a salire alle stelle”.31

Il Purgatorio è, per il Poeta, la montagna della felicità che l’uomo ha perduto a causa del suo peccato e dall’uomo riacquistata per il sacrificio di Cristo, è la via per risalire alla luce e al bene, ma la scalata ad essa non si fa con la superbia e la violenza ma con l’umiltà e la dolcezza.

Quando Dante e Virgilio arrivano sulla spiaggia dell’antipurgatorio, dopo l’incontro con Catone e i riti di purificazione, sono osservati da un gruppo di anime, appena scese dalla navicella guidata dall’angelo nocchiero, una di queste si fa avanti per abbracciare il Maestro fiorentino e il gesto è fatto con tanto amore che induce Dante a ricambiare, ma l’abbraccio ripetuto tre volte fallisce, perché le anime hanno un aspetto umano, ma sono inconsistenti e ad un nuovo tentativo una voce lo prega di desistere, proprio dalla voce il Poeta riconosce l’amico Casella e lo prega di fermarsi per un breve colloquio: <<Io vidi una di lor trarresi avante / per abbracciarmi, con sì grande affetto, / che mosse me a far lo somigliante. / Ohi ombre vane, fuor che nell’aspetto! / tre vole dietro a lei le mani avvinsi, / e tante mi tornai con esse al petto. […] Soavemente disse ch’io posasse; / allor conobbi chi era, e pregai / che, per parlarmi un poco s’arrestasse>>.32 Segue il breve dialogo affettuoso dei due amici e Dante gli dice che se la legge del Purgatorio non vieta il ricordo dell’”amoroso canto”, che era solito quietare ogni sua passione, di consolare con esso la sua anima affranta dal viaggio infernale. Casella comincia a cantare “Amor che ne la mente mi ragiona” con una dolcezza tale che tutte le altre anime e Virgilio ascoltano rapite, ma il rimprovero di Catone, che le incita ad affrettarsi verso la purificazione, interrompe l’incanto e tutti riprendono sollecitamente il loro dovere; tale rimprovero evidenzia che si tratta ancora di amore terreno, l’altra forma di amore, più alta, cui tendono le anime purganti, non consente soste.

Un episodio questo che ci mostra i temi delicati dell’amicizia, della confidenza affettuosa, amorosa, della dolcezza consolatrice della musica e della fiducia in Dio. Anche l’incontro di Dante con l’amico Nino Visconti è un incontro di un’amicizia molto affettuosa, ma che si svolge nel clima intimamente religioso del Purgatorio, dove i pensieri della purificazione e l’amore umano si manifestano in un’atmosfera distaccata, il sentimento che lega i due personaggi pervade la scena ma è contenuto e pacato. Siamo ancora nell’antipurgatorio, nel secondo balzo, dove si trovano le anime dei principi negligenti, che devono restare fuori del Purgatorio tanto tempo quanto vissero e ogni giorno sono sottoposti alla tentazione del serpente che striscia tra le erbe ed i fiori, simbolo del Demonio tentatore carico di apparenze piacevoli e di lusinghe per l’uomo sulla terra, ma, probabilmente, rievocazione delle tentazioni terrene che per le anime di questo luogo diventano mezzo di purificazione.

Nino Visconti,33 chiede a Dante di ricordarlo alla figlia Giovanna perché preghi per lui, dal momento che la moglie Beatrice d’Este non lo ama più,34 avendo abbandonato le bende vedovili e convolato a nuove nozze e, da questo esempio, continua Nino, si può facilmente dedurre quanto sia fragile l’amore in una donna se non è alimentato dalla vicinanza dell’amato: <<dì a Giovanna mia che per me chiami / là dove alli ‘nnocenti si risponde. / Non credo che la sua madre più m’ami/ poscia che trasmutò le bianche bende / le quai convie che, misera!, ancor brami. / Per lei assai di lieve si comprende / quanto in femmina foco d’amor dura, / se l’occhio o ‘l tatto spesso non s’accende>>.35

Nel canto XXIII, Dante descrive l’affettuoso e amorevole incontro con Forese Donati, il quale, diversamente da Nino Visconti, ricorda la moglie con amore, tenerezza e gratitudine e condanna l’impudicizia delle donne fiorentine. L’incontro avviene nella VI cornice del Purgatorio, dove si stanno purgando i golosi, che procedono in fretta, orribilmente magri per la fame e la sete provocate dal profumo degli alberi e dell’acqua. Il volto di Forese è irriconoscibile, infatti Dante lo riconosce dalla voce e si commuove fino alle lacrime nel vedere l’amico che aveva pianto alla sua morte così sfigurato; Forese, altrettanto commosso, spiega che i golosi si purificano soffrendo la fame e la sete, stimolate dalla fragranza che esce dagli alberi e dal getto dell’acqua che si sparge sulle fronde, dalle quali le anime sono attratte da questa sofferenza come Gesù fu condotto a morire sulla croce. Dante si meraviglia che l’amico, morto nemmeno da cinque anni, si trovi già in quel luogo e non nell’antipurgatorio, Forese risponde che lo hanno condotto nella zona in cui si trova le lacrime e le preghiere della moglie Nella, cara a Dio per le sue virtù morali: <<Ond’elli a me: “Sì tosto m’ha condotto / a ber lo dolce assenzo d’i martiri / la Nella Mia con suo piagner dirotto. / Con suoi prieghi devoti e con sospiri / tratto m’ha de la costa ove s’aspetta, / e liberato m’ha de li altri giri. / Tanto è a Dio più cara e più diletta / la vedovella mia, che molto amai, / quanto in bene operare è più soletta; / ché la Barbagia di Sardigna assai / ne le femmine sue è più pudica / che la Barbagia dov’io la lasciai>>.36

Forese Donati, detto “Malefami”, è il compagno di baldorie, del periodo della vita dissoluta di Dante e nonostante l’amicizia non si risparmiano certo le frecciate e le insinuazioni maligne, come possiamo vedere nella celeberrima “Tenzone” composta da tre sonetti dall’Alighieri e dalle rispettive risposte di Donati, dove i due poeti si scambiano insulti e ingiurie in tono comico conforme al genere mediolatino dell’”improperium”e della “tenso”. Non conosciamo la data di nascita di Forese Donati, il quale visse nella seconda metà del secolo XIII, morì a Firenze nel 1296 e venne sepolto nella chiesa di Santa Reparata, fu figlio di Simone, fratello di Corso, capo di parte Nera e di Piccarda, che l’Alighieri destinerà nel Paradiso (Paradiso, III), fu lontano parente di Gemma Donati, moglie di Dante. Appartenne, quindi, a una delle famiglie più importanti di Firenze, ma non sappiamo se ebbe cariche amministrative e politiche. Sconosciuta è anche la data del suo matrimonio con Nella, di cui niente sappiamo, però dovette anche lei appartenere a buona famiglia, perché Dante nel primo sonetto della Tenzone ci mostra la madre della ragazza pentita di averla data in moglie a Forese anziché ad un membro della notevole famiglia dei conti Guidi, di cui non avrebbe potuto farne parte una ragazza qualunque. La vita morale di Nella è un esempio di onestà e di pudicizia per tutte le donne fiorentine tanto sfacciate, corrotte e viziose, che andavano col petto scoperto ancor più delle donne della Barbagia, che era abitata da popolazioni semibarbare, che anche ai tempi di Dante conservavano usanze rozze e selvatiche: <<A fare di Firenze una nuova Barbagia, il nostro può essere stato indotto dall’idea di <<barbarie>>che il nome stesso di quel paese avocava alla sua mente; con sentimento non dissimile da quello per cui altrove rappresenta i fiorentini come un popolo che tiene <<ancor del monte e del macigno>> (Inf., XV, 61-63)>>.37

La moglie Nella, la quale piange e prega per la scomparsa del marito, è il ritratto ideale della sposa cristiana, raro esempio di virtù, purezza, e pietà in un mondo corrotto.

In tutta la Commedia, Dante manifesta un grande amore verso la sua patria e verso tutta l’Italia, anche se lo esprime, nella maggior parte dei casi, con parole dure, con terzine che esplodono di disappunto per il comportamento dei papi, degli imperatori e dei cittadini, con invettive iperboliche che rivelano tanta amarezza, ma anche tanto amore, soprattutto per “Fiorenza”, la sua patria, in cui non farà più ritorno.

I due poeti si trovano ancora nel II balzo dell’antipurgatorio (canto VI), dove si stanno purgando le anime di coloro i quali morirono di morte violenta e stanno camminando lentamente, cantando il “Miserere”, quando notano un’anima in disparte e con un atteggiamento superbo che guarda verso di loro, Virgilio si avvicina per chiederle quale sia il cammino più rapido, ma non risponde e chiede da dove essi vengano e quando inizia a pronunciare il nome della sua città natale, Mantova, l’ombra altera e solitaria balza in piedi e abbraccia Virgilio pronunciando parole di caldo affetto e quel gesto improvviso, di profondo significato simbolico, si condensa la drammaticità della situazione, preparando il lettore allo sfogo carico di deplorazioni, riflessioni, rimproveri, sarcasmi, ira, pietà per le misere sorti della patria a causa delle colpe e degli errori umani: <<Pur Virgilio si trasse a lei, pregando / che ne mostrasse la miglior salita; / e quella non rispuose al suo dimando, / ma di nostro paese e della vita / c’inchiese; e ‘l dolce duca incominciava / “Mantua…”, e l’ombra, tutta in sé romita, / surse ver lui del loco ove pria stava, / dicendo “O Mantovano, io son Sordello / della tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava>>.38

Le terzine che seguono sono tra le più famose di tutta la “Commedia”, quelle in cui Dante apostrofa l’Italia, che non è più signora dei popoli, ma schiava delle lotte e delle tirannie locali, Sordello, continua Dante, pur nella sua altezzosità, accoglie festosamente un suo concittadino, mentre in terra gli Italiani si straziano a vicenda, poiché a nulla valgono le leggi se manca chi le faccia rispettare. Il clero, invece di dare a Cesare quel che è di Cesare, ostacola l’autorità imperiale, usurpandone il potere; Dante invoca la punizione divina su Alberto d’Asburgo, che ha abbandonato l’Italia e non ascolta i lamenti della vedova Roma e si chiede se Dio abbia abbandonato l’Italia o stia preparando per essa un bene futuro? E con sarcasmo aggiunge che Firenze è beata poiché è piena di giustizia e di senno politico, ma la similitudine dell’inferma evidenzia i continui mutamenti dei cittadini fiorentini e insieme al dolore possiamo capire l’amore per questa città di Dante esule: accanto all’invettiva politica sentiamo tutto il compianto, il lamento e una forte nota elegiaca.39

Dante, Virgilio e Stazio arrivano alla VII cornice della montagna del Purgatorio, dove espiano le loro colpe i lussuriosi, i quali camminano tra le fiamme divisi in due schiere e si baciano fraternamente in silenzio, ricordano il peccato commesso piangendo e cantando un inno a Dio, poi manifestano il loro pentimento gridando esempi di lussuria punita. Tra i lussuriosi si trovano anche i sodomiti che non hanno più, come nell’Inferno, un girone particolare.

Il sole sta tramontando e le anime dei lussuriosi si accorgono che al passaggio di Dante l’ombra che proietta rende più acceso il colore della fiamma, una di queste attratta dal fenomeno si avvicina stupita al Maestro fiorentino e chiede come mai, ancora vivo, si trovi in quel luogo, ma, sul punto di rispondere, l’attenzione di Dante è catturata da un gruppo di purganti che avanza in direzione opposta a quella di coloro che si sono fermati e incontrandosi si baciano e proseguono il loro cammino, nell’atto di separarsi la nuova schiera grida: <<Sodoma e Gomorra>> e l’altra: <<Pasife entra nella vacca perché il toro soddisfi la sua lussuria>>. I primi sono i lussuriosi che peccarono contro natura e ora gridano i nomi delle due città bibliche distrutte dal fuoco per punire il peccato di sodomia praticato dai loro abitanti: <<Il signore disse: “siccome il grido che sale da Sodoma e Gomorra è grande e siccome il loro peccato è molto grave, io scenderò e vedrò se hanno veramente agito secondo il grido che è giunto fino a me […] Allora il Signore fece piovere dal cielo, su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco, da parte del Signore; egli distrusse quelle città, tutta la pianura, tutti gli abitanti delle città e quanto cresceva sul suolo>>.40

L’altra schiera sono i lussuriosi secondo natura, ossia gli eterosessuali che usarono il sesso al di fuori di ogni razionalità e misura, come Pasifae, personaggio della mitologia greca, figlia di Elio e della ninfa Perseide. Moglie di Minosse, re di Creta, da cui ebbe numerosi figli (tra i quali Androgeo, Fedro e Arianna) e, secondo il mito, Minosse ebbe in dono da Poseidone un bellissimo toro bianco perché venisse sacrificato in suo onore. Minosse non obbedì al dio, tenendo per sé quell’animale troppo bello e al suo posto ne sacrificò un altro, ma Poseidone, saputo della sostituzione, si vendicò inducendo Pasifae ad innamorarsi follemente del toro e questa passione la fece desiderare di congiungersi carnalmente con esso. Accecata da questo desiderio, Pasifae chiese aiuto a Dedalo, che si trovava a Creta per sfuggire ad una condanna per omicidio, egli costruì per la donna una vacca di legno cava, rivestita della pelle dell’esemplare di femmina più amata dal toro, dove poteva entrare per poter consumare un rapporto fisico: il toro, montando la finta vacca, fecondò Pasifae che diede alla luce il Minotauro.

La presenza di numerose anime di lussuriosi si trovano quindi anche in Purgatorio oltre che nell’Inferno, ma in quest’ultimo regno Dante distingue i lussuriosi dai sodomiti: i primi li troviamo nel II cerchio (canto V) e sono coloro che hanno cercato le soddisfazioni dei sensi contro tutte le regole e si sono lasciati prendere dalle passioni più smodate, tanto da sottomettere la ragione al piacere: <<Intesi ch’a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali, / che la ragion sottomettono al talento>>.41Essi si trovano in una landa priva di luce e sono colpiti da una bufera furiosa che li travolge trascinandoli per tutto il girone, che simboleggia la furia travolgente delle passioni non controllate dalla ragione (contrappasso).

Questo canto è forse uno dei più noti ed amati dai lettori di tutti i tempi, è il canto dove Dante parla d’amore e fa rivivere questo sentimento con la vicenda di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, gli sfortunati amanti di cui raccontano le cronache del XIII secolo. Tanto è stato scritto sulle terzine dei due amanti, ma l’interpretazione romantica di Francesco De Sanctis è molto intensa e vissuta, anche se i tempi sono cambiati, vale la pena di riportare alcuni brani: <<Ciò che importa è questo: che Francesca, come Dante l’ha concepita, è viva e vera assai più che non ce la possa dare la storia […] Francesca è donna e non altro che donna ed è una compiuta persona poetica, di una chiarezza omerica. […] I suoi lineamenti si trovano già in tutti i concetti della donna prevalenti nelle poesie di quel tempo: amore, gentilezza, purità, verecondia, leggiadrìa […] Francesca non è il divino, ma l’umano e il terrestre, essere fragile, appassionato, capace di colpa e colpevole, e perciò in tale situazione che tutte le sue facoltà sono messe in movimento, con profondi contrasti che generano irresistibili emozioni. E questo è la vita. Non ha Francesca alcuna qualità volgare o malvagia, come odio, o rancore, o dispetto, e neppure alcuna speciale qualità buona; sembra che nel suo animo non possa farsi adito altro sentimento che l’amore. “Amore, Amore, Amore!”. Qui è la sua felicità e qui è la sua miseria. Né ella se ne scusa , adducendo l’inganno in cui fu tratta o altre circostanze. La sua parola è di una semplicità formidabile. “Mi amò, ed io l’amai” ecco tutto. Nella sua mente ci sta che è impossibile che la cosa andasse altrimenti, e che l’amore è una forza a cui non si può resistere. […] Tale è Francesca: e chi è Paolo? Non l’uomo, il maschile che faccia antitesi e costituisca un dualismo: Francesca empie di sé tutta la scena. Paolo è l’espressione muta di Francesca… >>.42

Dante riesce a cogliere l’energia e il potenziale dell’amore, che può mutare l’uomo in un essere appagato e felice o distruggerlo totalmente; egli è affascinato dall’amore trasgressivo, ma sa riconoscerne i limiti etici: l’amore passionale dei lussuriosi è, per il Fiorentino, solamente un aspetto dell’Amore, il più istintivo, ma anche il più fragile, poiché non è sottoposto al controllo della ragione.

Sempre nello stesso canto, Virgilio indica a Dante le anime di coloro che furono protagonisti di grandi storie d’amore come Semiramide, Didone, Cleopatra,, Elena, Achille, Paride, Tristano, suscitando nell’Alighieri più pietà che paura: <<Poscia ch’io ebbi ‘l mio dottore udito / nomar le donne antiche e’ cavalieri, / pietà mi giunse, e fui quasi smarrito>>.43 Una pietà che nasce, probabilmente, dalla riflessione sulla drammatica conclusione che la passione irrazionale della lussuria ha guidato questi dannati.44

I sodomiti, nel regno infernale, li troviamo nel cerchio VII (canto XV), costretti a camminare senza sosta, mentre una pioggia di fuoco cade su di loro ininterrotta e inesorabile, dalla quale cercano invano di schermirsi con le mani. Tra questi dannati si trova Brunetto Latini,45 il quale poi, mentre l’incontro sta per terminare, sottolinea che tra i sodomiti ci sono molti letterati e ed ecclesiastici di grande fama: <<Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono; / de li altri fia laudabile tacerci, / ché ‘l tempo saria corto a tanto suono. / Insomma sappi che tutti fuor cherci / e litterati grandi e di gran fama, d’un peccato medesmo al mondo lerci>>.46 Tra questi si trovano Prisciano,47 Francesco d’Accursio,48 Andrea de’ Mozzi.49

L’episodio evidenzia un personaggio stimato ed onorato, Brunetto Latini, anche se l’appellativo di mondano (dissoluto) fa pensare immediatamente alla condanna dantesca per sodomia, che a quei tempi aveva una diversa accezione, ma dell’omosessualità di Brunetto Latini ne parla solo Dante nel XV canto dell’Inferno, perché non c’erano testimonianze che confermassero ciò, in quanto le numerose ricerche per trovare una testimonianza attendibile che potesse legittimare la condanna di Brunetto tra i sodomiti sono state senza risultato, per questo alcuni dantisti hanno “accettato” l’ipotesi di André Pézard, il quale sostiene che la sodomia del Latini non si deve intendere come peccato carnale, ma come peccato “letterario”, avendo Brunetto preferito nella sua opera il “Tresor”, dove peraltro condanna la sodomia, il volgare francese al volgare italiano.50 Pèzard sostiene anche che Brunetto, Prisciano, Francesco d’Accorso, Andrea de’ Mozzi non siano stati condannati dal Poeta come sodomiti, ma come bestemmiatori: il primo per aver scritto in lingua francese e non nella lingua materna la sua opera più famosa; il secondo per aver favorito l’eccellenza dei grammatici e retori greci sui latini, il terzo per aver messo sullo stesso piano la funzione del giudice e quella sacerdotale, il quarto per la corruzione della sua loquela dal pulpito. Tesi, questa, su cui i dantisti, anche francesi, hanno espresso molte riserve e perplessità di fondo.51In altre parole, secondo Pèzard si tratterebbe di una forma di “sodomia spirituale, culturale e linguistica” e la colpa di Brunetto consisterebbe nell’avere usato il francese anziché la lingua materna per scrivere le sue opere.

La formazione culturale di Dante avvenne nel secolo XIII, secolo che costituì un periodo di transizione nell’atteggiamento verso l’omosessualità: ciò che fino alla prima metà di questo secolo era stato un crimine condannato dalla religione, ma visto con una certa clemenza dalla morale quotidiana, assunse, con l’ascesa della borghesia, una progressiva complessità agli occhi dei laici, che reclamavano dal mondo ecclesiastico una rinnovata e maggiore disciplina morale, quindi la predicazione di un maggiore rigore morale, della povertà e della carità fu affidata ai nuovi Ordini dei Domenicani e dei Francescani e il cambiato atteggiamento nei confronti dell’omosessualità avvenne nella seconda metà del Duecento circa.52

La sodomia era piuttosto frequente a Firenze nel XIII secolo, soprattutto nelle classi sociali più erudite, infatti Dante cita gli ecclesiastici e i letterati, essa veniva praticata come contraccettivo naturale e come piacere fisico e tale pratica ebbe grande risonanza a livello europeo, tanto da indicare persone dedite a questa tendenza col termine di “Florenzen” e dai Francesi venne chiamata “Vizio fiorentino”; questo tipo di rapporto era anche frequente tra maestro e allievo: nelle botteghe degli artisti era normale per i giovani apprendisti essere sodomizzati dai loro maestri, principalmente per non incorrere, in caso di rifiuto, di essere cacciati, perdendo l’occasione di avere un futuro. Questo comportamento della società fiorentina era forse dovuto anche al ritorno della classicità greca, che, con la Signoria nel XV secolo di Lorenzo de’ Medici, tornerà con il suo splendore e con le sue “debolezze”. La sodomia, dunque, non era ritenuta un reato particolarmente grave e i Comuni italiani avevano cominciato ad approvare delle leggi che punivano con la morte tale infrazione, ma solo nei primi decenni del XIV secolo, quindi negli ultimi anni della vita del Poeta.53

E’ noto come uomini di chiesa condannassero il meretricio, ma era tollerato perché ritenuto deterrente e inevitabile contro la sfrenata lussuria e la sodomia: Sant’Agostino (354-430) paragonava le meretrici ad una cloaca, ripugnante ma necessaria, ritenendo la prostituzione una pratica inevitabile, tanto da costituire un antidoto contro la sodomia, fornendo una valvola di sfogo nell’ambito di una realtà sociale profondamente sessuofobica: << quod hoc facit feretri in mundo, quod sentina in mari, vel cloaca in palatio: “Tolle cloacam, et replebis foetore palatium”: et similiter de sentina: “Tolle meretrices de mundo, et replebis ipsum sodomia”, (la meretrice fa nel mondo ciò che la sentina fa del mare o la cloaca nell’edificio, e similmente ad una sentina “leva la sentina dal mondo e vedrai pullulare in esso la sodomia”)54Anche Tommaso d’Aquino (1225-1274), riprendendo da Agostino, scrive: <<La donna pubblica è nella società ciò che la cloaca è nel palazzo: togli la cloaca e l’intero palazzo ne sarà infettato>>.55

Perché Dante mette nell’Inferno tra i violenti contro natura Brunetto Latini, suo maestro e parla di lui come di un’immagine molto cara e paterna? E perché parlandogli tiene il capo chino in segno di grande riverenza? Non solo, ma il prestigio del Latini viene confermato anche dalla posizione centrale che occupa nella cantica, come nel Purgatorio tale posizione verrà occupata da Marco Lombardo e nel Paradiso da Cacciaguida, ossia da personaggi di grande importanza, che hanno indirizzando alcuni studiosi a delle supposizioni singolari come quello sostenute da Pèzard. Dante, infine, è proprio a questo personaggio che affida il compito di rivelare una profezia molto importante circa il proprio futuro: la gloria futura, se l’allievo avesse provato disprezzo per il suo maestro in quanto sodomita, probabilmente non gli avrebbe affidato una predizione così brillante: <<Ed elli a me: “Se tu segu tua stella, / non puoi fallire a glorioso porto, / se ben m’accorsi ne la vita bella; / e s’io non fossisì per tempo morto, / veggendo il cielo e te così benigno, / dato t’avrei all’opera conforto. /Ma quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno, / ti si farà, per tuo ben far, nimico; / ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi / si disconvien fruttare al dolce fico. / Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; / gent’è avara, invidiosa e superba: / dai lor costumi fa che tu ti forbi. / La tua fortuna tanto onor ti serba, / che l’una parte e l’altra avranno fame / di te; ma lungi fia dal becco l’erba>>.56

Tante sono state le supposizioni dei dantisti, ma nessuno è approdato ad una spiegazione, anzi ad una giustificazione del comportamento di Dante con il suo Maestro, dannato nell’Inferno per sodomia, mentre altre anime, ree dello stesso peccato, si trovano in Purgatorio, tra i tanti commenti molto interessante appare quello di Giuseppe Petronio: <<A molti critici è parso impossibile ammettere che Dante non solo abbia collocato nell’Inferno un uomo per il quale mostra rispetto ed affetto, ma lo abbia bollato di una colpa che a noi oggi pare particolarmente infamante […]C’è in questa posizione una incapacità sostanziale di guardare le cose dal punto di vista di Dante, con i suoi occhi di uomo del medioevo; ed ecco, allora, il solito ricorso al conflitto – tutto inventato dai critici – fra “struttura” e “poesia”, secondo il quale Dante condannerebbe per le leggi ferree impostegli dalla struttura teologale del poema, ma intanto, in quanto “poeta”, comprenderebbe e assolverebbe>>.57 Dante ammira, stima gli spiriti grandi, ma molti li situa nell’Inferno perché ciò suscita nel lettore la commozione e il terrore, che permette al poema di arrivare allo scopo morale prefissato: <<immaginare perciò un conflitto tra l’atteggiamento di Dante di fronte a quegli uomini e la loro condanna all’Inferno da parte dello stesso Dante, significa porsi fuori del mondo morale e culturale del poeta, il quale ragionava secondo una rigida logica di cattolico, convinto che i valori terreni, per alti che siano, non possono aiutare al momento del giudizio divino, e aspirava a farsi interprete lui di quel giudizio, senza trovare alcun contrasto fra l’ammirazione o l’affetto che egli poteva nutrire per un uomo, e il giudizio che ne doveva dare quando si fosse posto dal punto di vista di Dio e avesse giudicato non secondo gli affetti terreni ma secondo la legge. […] Brunetto assolve un duplice compito: da una parte è un monito probante – probante proprio per la sua grandezza e la sua fama – a distogliere dal peccato di sodomia, dall’altro è un mezzo per permettere a Dante di cominciare a sbozzare quel monumento a se stesso che egli si costruisce in tutta la Divina Commedia>>.58

Alcuni anni più tardi, il filologo e critico letterario D’Arco Silvio Avalle, in un suo libro dal titolo “Ai luoghi di delizia pieni, Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo”, edito a Napoli nel 1977, sostiene che la “prova” dell’omosessualità di Brunetto Latini va cercata nelle sue stesse opere, soprattutto nella canzone “S’eo son distretto jnamoratamente”, che il critico ha messo in connessione con la canzone “Amore, quando mi membra” di Bondie Dietaiuti, scrittore fiorentino facente parte della cerchia degli amici del Latini, di cui nulla sappiamo. Le due canzoni erano conosciute, ma sconosciuti erano i destinatari, Avalle ha individuato in queste composizioni i due poeti fiorentini, chiarendone anche l’interpretazione, ossia l’amore omosessuale tra Brunetto Latini e Bondie Dietaiuti, sostenendo che: <<La fonte del XV dell’Inferno è da questo momento alla portata di tutti: essa si trova nello scambio con Bondie, unico esempio del genere nella poesia del Duecento, monumento drammatico di una realtà mentale più forte di qualsiasi documento o testimonianza diretta>>.59 Evidenziando poi come <<La grande poesia di Dante si nutre pur sempre oltre che delle passioni più nobili, degli exempla ricavati non solo dal pettegolezzo quotidiano, ma anche dai fatti più clamorosi della cronaca nera>>.60

Il canto succesivo, il XVI, è ancora rivolto ai sodominti, tra i quali Dante incontra tre nobili fiorentini: Guido Guerra,61 Tegghiaio Aldobrandi,62 Jacopo Rusticucci,63 è proprio quest’ultimo che prende l’iniziativa di parlare con l’Alighieri, il quale udendo questi nomi si entusiasma e a stento si trattiene dall’abbracciarli, poi pieno di dolore per le loro pene, esprime grande ammirazione per quello che hanno realizzato a Firenze, patria comune: <<S’i’ fossi statodal foco coperto, / gittato mi sarei tra lor di sotto, / e credo che ‘l dottor l’avria sofferto; / ma perch’io mi sarei brusciato e cotto, / vinse paura la mia buona voglia / che di loro abbracciar mi facea ghiotto>>.64 L’onore e il rispetto che Dante prova per i tre illustri concittadini, rappresentanti di una generazione che aveva il culto della cortesia e del valore, contrasta con la compassione per la loro dolorosa pena eterna e l’abbraccio ideale fa capire chiaramente come il giudizio divino per la colpa di sodomia non corrisponda con quello umano del Poeta.

Nel Purgatorio, Dante non usa esplicitamente il termine “sodomita” ma il nome delle città di Sodoma e Gomorra per il vizio che le accumunava e di queste anime purganti fa breve menzione, mentre ai sodomiti dannati nell’Inferno dedica tutto il canto XV e i primi novanta versi del XVI, nominando singoli personaggi e dando luogo a due episodi rilevanti episodi della prima cantica.65

Nel settimo cerchio dell’Inferno, Dante condanna i violenti, dividendoli in tre gironi, perché la violenza si può rivolgere contro il prossimo (omicidi e predoni), contro se stessi (suicidi e scialacquatori), contro Dio (bestemmiatori), la natura (sodomiti) e l’arte (usurai). Il Nardi sostiene che secondo l’ordine naturale l’amore per il prossimo è meno intenso di quello verso noi stessi, mentre l’amore naturale per Dio è quello più forte , poiché se ogni essere ama per natura se stesso, a maggior ragione amerà quello da cui esso dipende e di cui non può fare a meno,66infatti i violenti contro la natura sono violenti contro Dio, in quanto la natura nasce da Dio, come anche l’arte, che procede dalla natura, quindi sempre da Dio: <<Puossi far forza ne la deïtade, / col cor negando e bestemmiando quella, / e spregiando natura e sua bontade; / e però lo minor giron suggella / del segno suo e Sodoma e Caorsa / e chi spregiando Dio col cor, favella>>.67

L’oltraggio dei sodomiti fu tale da infrangere le leggi naturali che regolano il rapporto sessuale, invece alle anime dei sodomiti del Purgatorio, Dante sembra attribuire loro una colpa non più grave dell’incontinenza, infatti non li distingue dai lussuriosi secondo natura, facendo una schiera ad essi contrapposta, che condivide la stessa pena del fuoco. Anche nell’Inferno il fuoco punisce i sodomiti, ma in modo diverso: <<Sovra tutto ‘l sabbion, d’un cader lento, / piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe sanza vento.>>,68come già detto più avanti, è evidente l’analogia con le due città punite da Dio, forse un’allusione al peccato dei sodomiti la possiamo riscontrare nel fatto innaturale che il fuoco, piova dall’alto verso il basso, mentre per sua natura esso tende verso l’alto.69

Nell’ultima cornice del Purgatorio, Dante e Virgilio incontrano i lussuriosi che espiano le loro colpe in attesa di salire in Paradiso, tra questi, come già detto, si trovano anche i sodomiti, di ciò il Poeta viene informato da un’anima appartenente alla prima schiera, i lussuriosi, che per spiegare che le anime appena arrivate e subito ripartite si stanno purgando del peccato di sodomia, usa una perifrasi, dicendo che tali anime offesero Dio col peccato per cui Cesare fu salutato, mentre celebrava il suo trionfo, col titolo di “regina”, alludendo alla sua intimità con Nicomede, re di Bitinia: <<La gente che non vien con noi, offese / di ciò per che giò Cesar, triunfando, / regina contra sé chiamar s’intese: / però si parton “Sodoma”gridando, / rimproverando a sé, com’hai udito, / ed aiutan l’arsura vergognando>>.70 A parlare dell’omosessualità di Cesare era stato Svetonio (“Vitae Caesarum XLIX”), ma soprattutto Uguccione da Pisa (“Magnae Derivationes”), il quale fu un’importante fonte di Dante.71 Se l’Alighieri scrive ciò che dicono i due scrittori sopraccitati, perché pone Cesare nel Limbo tra gli Spiriti Magni e non all’Inferno con Brunetto Latini? Dante ha una grandissima ammirazione per Cesare come ha una grande stima ed affetto per il suo maestro e, come sostiene Aldo Onorati: << Non gli interessa l’apparteneza dell’uomo, ma l’interno, il merito, la grandezza spirituale. Ma più di questo: Catone Uticense era pagana e per di più suicida, eppure è il gurdiano del più cristiano dei regni? Non ci sono spiegazioni sufficienti a questa trasgressione. Ce n’è solo una forse: l’Alighieri nutre riverenza per la grandezza d’animo e il valore degli uomini, anche se spesso è costretto a punirli secondo la visione canonica dell’escatologia>>.72

Dopo avere spiegato tutto questo a Dante, l’anima dice di essere Guido Guinizzelli e di appartenere alla schiera dei lussuriosi che peccarono senza freni con persone dell’altro sesso.73 Quando il Pellegrino apprende di trovarsi di fronte al padre del Dolce Stil Novo la commozione è tanta e vorrebbe abbracciarlo se il fuoco non glielo impedisse, ma Guido indica a Dante, con grande umiltà, un altro poeta, il provenzale Arnaut Daniel, la cui opera superò quella di tutti i poeti e rimatori del tempo: poi l’ombra di Guinizzelli scompare nel fuoco purificatore: <<”nostro peccato fu ermafrodito; / ma non servammo umana legge, / seguendo come bestie l’appetito,74 […] Farotti ben di me volere scemo: / son Guido Guinizzelli, e già mi purgo / per ben dolermi prima ch’a lo stremo” / Quali ne la tristizia di Licurgo / si fer due figli a riveder la madre, / tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo, / quand’io odo nomar sé stesso il padre / mio e de li altri miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre; / e sanza udire e dir pensoso andai / lunga fiata rimirando lui, / né, per lo foco, in là più m’appressai>>.75

Per Dante l’amore è il principio creatore e l’energia vitale di tutto l’universo e il senso della vita dell’uomo e il suo stesso destino dipendono dal suo modo di amare, questo è il filo conduttore di tutta la “Divina Commedia”. L’amore naturale è presente in ogni creatura, perché è per un atto d’amore che Dio ha creato ogni cosa, anche se assume forma diversa nei diversi gradi dell’essere, infatti Dante già nel “Convivio” scrive che gli elementi fondamentali, ossia la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco tendono verso la loro sede naturale, allo stesso modo le piante, i minerali e gli animali; anche l’uomo detiene tale forza, la quale è naturale ed innata, quindi senza errore, ma l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, ha la capacità di amare per scelta, quindi la libertà di decidere il proprio destino orientandosi verso il bene o verso il male, l’amore che se è ben guidato, tende esclusivamente al sommo bene che è Dio.76 Ma, spiega Virgilio, che non sempre è virtuosa l’attuazione dell’amore: <<Or ti puote apparer quant’è nascosa / la veritate alla gente ch’avvera / ciascun amore in sé laudabil cosa, / però che forse appar la sua matera / sempre esser buona; ma non ciascun segno / è buono, ancor che buona sia la cera>>.77

Secondo Dante cadevano in errore quei maestri che sostenevano la forza irreprimibile della passione d’amore, come ad esempio Andrea Castellano, che nel suo trattato “De amore”, composto negli ultimi anni del XII ei primi del XIII secolo, scriveva, all’inizio della sua opera, che: <<Amor et passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitationeformae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius ampex amoris praecepta compleri>>,78 il “De amore” divenne il punto di riferimento dell’amore cortese, condizionando la letteratura erotica del secolo XIII; il 7 marzo 1277, Étienne Tempier, Vescovo di Parigi, condannò pubblicamente l’opera di Andrea Castellano.79

Ancora più grave per Dante era il concetto che dell’amore aveva il suo più caro amico Guido Cavalcanti: amore come irrazionalità assoluta, come forza distruttrice che offusca la ragione, sottomettendola al desiderio e l’Alighieri lo dimostra con l’episodio di Paolo e Francesca, la quale, pur dannata alle pene infernali, continua ad aggrapparsi a quell’amore che ha condizionato la sua vita terrena e quella eterna.

Sarà Marco Lombardo, come già accennato, nel XVI canto del Purgatorio, che introdurrà l’idea del libero arbitrio, rispondendo alla domanda del Pellegrino sulla causa della corruzione del mondo e criticherà il concetto errato della predestinazione astrale. In tal modo Dante esprime il suo concetto cristiano dell’amore, fondato sul principio dell’anima, come realtà personale, libera da ogni forma di determinismo astrale e psicologico e padrona di sé.80

In Beatrice troviamo la forma più alta e nobile dell’amore, ossia l’amore nella sua profonda natura divina: la “caritas”, quindi per Dante l’amore discende da Dio e a Dio risale attraverso la donna amata. La scena dell’incontro con Beatrice sulla cima della montagna del Purgatorio, molto complessa e ricca di significati simbolici, <<assume dunque connotati ecclesiali e sacramentali, affinché la forza dell’amore personale sia definitivamente trasformata e connotata come caritas. Al rito partecipano l’intera Scrittura e l’acclesia>>.81

Nell’epistola a Cangrande della Scala, Dante spiega come l’amore santo o carità sia la suprema realtà che egli identifica col fuoco stesso dell’Empireo. Anche Guido Guinizzelli aveva scritto poesie in cui lodava la donna, ma si fermava a questa dimensione, senza trascendere, come invece ha fatto Dante, in una dimensione circolare, che ha il suo inizio e il suo fine in Dio e Beatrice rappresenta questa forma d’Amore, poiché è in lei che si palesa totalmente la carità creata.

1 Inferno, II, vv. 43-114.

2 Bonaggiunta Orbicciani degli Overardi di Lucca, morì poco dopo il 1296, figlio di Riccomo di Bonaggiunta Orbicciani degli Averardi, come da tradizione familiare fu come il padre giudice e notaio, fu anche rimatore seguace della Scuola siciliana e provenzaleggiante. Cfr. M. Marti, Enciclopedia Dantesca (1970).

3 Jacopo da Lentini, detto per antonomasia il Notaro, appartenne alla Scuola provenzaleggiante siciliana, fu contemporaneo e cortigiano di Federico II. Ritenuto il caposcuola di questa poetica, la sua fama fu grande.

Guittone d’Arezzo (1230?-1294) nacque a Santa Firmina, vicino ad Arezzo, da famiglia agiata, il padre, Viva di Michele svolgeva l’ufficio di camerlengo. E’ la figura più rappresentativa del momento di trapasso tra la poesia siciliana provenzaleggiante e lo “Stil Novo”, addirittura il caposcuola della generazione anteriore a Dante, ebbe molti seguaci ad Arezzo, Firenze, Pistoia, Lucca e in modo particolare a Pisa. Il suo stile fu oscuro e faticoso: non riuscì mai a liberarsi della maniera provenzale, su di lui pesa il giudizio di Dante, che lo ritiene troppo municipale, addirittura plebeo agli occhi del nuovo aristocratico rimatore: <<Così fer molti antichi di Guittone, / di grido in grido pur lui dando pregio>>, (Purgatorio, XXVI, vv. 124-126.) ossia: la smettano i seguaci dell’ignoranza ad esaltare Guittone e alcuni altri, che nella costr uzione dei vocaboli e dei costrutti non hanno mai cessato di usare modi plebei, ma il giudizio di Dante va inteso come quello di un poeta che era completamente assorbito nella volontà di fondare un nuovo stile. Cfr. L. Russo,Compendio storico delle letteratura italiana, Firenze 1962, p. 28.

4 M. Pazzaglia, Letteratura italiana. Testi e critica con lineamenti di storia letteraria, Milano 1985, vil. I, p. 160.

5 Ibid.

6 Ibid.

7 A. Roncaglia, Da ritorno e rettifiche sui fondamenti filosofici del dolce stil novo, in “Beiträge zur Romanischen Philologie, IV, Berlino 1965, pp. 115-122.

8M. L. Rizzatti, Dante, in “I Grandi di Tutti i Tempi”, vol. 3°, Verona 1965, p. 48.

9 Ibid.

10 Tale distinzione si trova anche in San Tommaso. Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologia, I, q.60, a. 1.

11 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di N. Sapegno, Firenze 1964, Vol. II, canto XVII, p. 194. I passi della seconda Cantica riportati nel testo sono ripresi da questa edizione della Divina Commedia.

12 Purgatorio, canto XVII, vv. 91-139.

13 Purgatorio, canto XVIII, vv. 67-75.

14 Cfr. G. Petrocchi, Il Purgatorio di Dante, Milano 1978, p. 64.

15Cfr. M. L. Rizzatti, Dante, in “I Grandi di Tutti i Tempi”, vol. 3°, Verona 1965, p. 46.

16 Ibid.

17 Ibid. ; Purgatorio, III, vv. 136-140.

18 Dante incontra Stazio nel XXI canto del Purgatorio, dove espiano le loro colpe gli avari e i prodighi, i quali giacciono bocconi con il volto rivolto verso la terra ed hanno le mani e i piedi legati, piangono gridando esempi del loro peccato e della virtù premiata, inoltre ripetono un versetto del Salmo 118. Publio Papinio Stazionacque a Napoli nel 45 e non a Tolosa come dice Dante erroneamente nel v. 89 “che, tolosano, a sé mi trasse Roma”: nel Medioevo fu confuso col retore Lucio Stazio Ursolo di Tolosa (retore della Gallia narbonese, vissuto all’età di Nerone), forse per questo Dante lo dice tolosano. Trascorse gran parte della sua vita a Roma, dove aveva libero accesso alla corte imperiale di Domiziano. Fu uno dei più illustri poeti della letteratura latina, il suo capolavoro fu la “Tebaide”, che dedicò a Domiziano; compose poi l’”Achilleide”, che restò incompiuto a causa della sua morte al II libro: queste opere erano molto diffuse nel Medioevo e, certamente, conosciute da Dante, mentre è improbabile che conoscesse la raccolta lirica intitolata le “Selve”, sconosciuta ai tempi dell’Alighieri, dove Stazio dice di essere nato a Napoli; morì nella stessa città nel 96 circa. Cfr. N. Sapegno, la Divina Commedia. Purgatorio… cit., p. 242 con relative note.

19 Purgatorio, XXX, vv. 55-56.

20 Cfr. P. Di Sacco-G. Cervi-F. Fioretti-M. Serio, Scritture. Letteratura italiana, Milano 1998,vol. I, p. 236.

21 P. Di Sacco-G. Cervi-F. Fioretti-M. Serio, Scritture. Letteratura italiana, Milano 1998,vol. I, p. 237.

22 Cfr. P. Di Sacco-G. Cervi-F. Fioretti-M. Serio, Scritture. Letteratura italiana, Milano 1998,vol. I, p. 236.

23 Purgatorio, XXX, vv. 46-48.

24Dante e Virgilio si trovano nel Paradiso terrestre, lungo le sponde del fiume Letè: è il canto XXIX e in quello precedente è apparsa improvvisamente la “bella donna”, ossia Matelda, che rappresenta la felicità perfetta anteriore al peccato originale e ancora raggiungibile per l’umanità che operi secondo le virtù morali e intellettuali. La donna invita Dante a Guardare la luce che lampeggia nella foresta e ad ascoltare la melodia che si diffonde nell’aria luminosa, il Poeta è rapito da tutto ciò e per evidenziare l’importanza e la complessità di quanto descriverà, rivolge un’invocazione alle Muse, particolarmente a Urania, Musa dell’astronomia, che dovranno assisterlo per mettere in versi cose difficili da pensare: l’invocazione alle muse ha il compito di preparare il lettore ad una rappresentazione particolarmente importante. Davanti agli occhi del Poeta sfilano sette candelabri ardenti che formano sette liste luminose di vari colori, lasciando una scia iridescente nell’aria, simboleggianti i doni dello Spirito Santo (sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio); seguono “ventiquattro seniori” vestiti di bianco e coronati di gigli, i quali rappresentano i libri del Vecchio Testamento, essi avanzano cantando lodi a Maria. Dopo di loro, Dante vede quattro animali coronati di fronde verdi e ciascuno munito di sei ali piene di occhi, simboleggianti i quattro Evangelisti, raffigurati secondo l’iconografia tradizionale (Matteo era un angelo, Marco un leone, Luca un bue, Giovanni un’aquila) e con particolari che rimandano alla visione di Ezechiele (Ezechiele, I, 4-14) e alla descrizione dell’Apocalisse (Apocalisse, IV, 6-8), le fronde verdi con cui sono decorati forse alludono alla speranza che è annunciata dai Vangeli; in mezzo ai quattro animali avanza il carro trionfale della Chiesa con due ruote, significanti, per la maggior parte degli studiosi, le due Leggi o i due Testamenti, per altri la vita attiva e la contemplativa, trainato da un grifone con la testa e le ali di aquila e il corpo di leone, che rappresenta Gesù nella sua natura divina (la parte dell’aquila che è d’oro) e umana (la parte del leone che è bianca e rossa). Presso la ruota destra del carro Dante vede tre donne danzanti, che raffigurano le virtù teologali: carità (rossa), speranza (verde), fede (bianca), il ritmo della loro danza è regolato dal canto della carità; mentre le donne danzanti vicino alla ruota sinistra, vestite di porpora, personificano le virtù cardinali (prudenza, fortezza, temperanza, giustizia), la loro danza è da quella di esse che ha tre occhi, ossia la prudenza, che ricorda il passato, conosce il presente e prevede il futuro. Il carro, al centro della processione poiché la fondazione della Chiesa distingue la storia dell’umanità, è seguito da altri personaggi simboleggianti le vicende successive alla venuta di Cristo e i libri del Nuovo Testamento: due vecchi vestiti con abiti diversi, uno in abiti da medico, rappresentante San Luca, autore degli “Atti degli Apostoli”, l’atro armato di spada è San Paolo, autore delle “Epistole paoline”e che diffuse con energia combattiva la parola di Cristo; dietro loro ci sono quattro vecchi uomini di aspetto umile, i quali raffigurano le “Epistole” di Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, seguiti da un vecchio solo che dorme nonostante la sua espressione sia acuta e penetrante: si tratta di San Giovanni, autore dell’”Apocalisse”, libro profetico che rivela il futuro. Gli ultimi sette personaggi sono vestiti di bianco come i primi ventiquattro, ma sono incoronati di rose rosse ed altri fiori dello stesso colore, tali fiori sono il simbolo della carità. Quando il carro arriva davanti al Poeta si ode il rombo di un tuono e tutta la processione si arresta; più brevemente la “mistica processione” rappresenta il costituirsi della Chiesa per mezzo dell’ispirazione divina e fondata sulle Sacre Scritture, il carro, simbolo della Chiesa, è trainato da Cristo, ai lati è accompagnato dalle virtù teologali e cardinali ed è scortato dai Vangeli, lo precede il Vecchio Testamento ed è seguito dal Nuovo Testamento, tutto ciò sotto la protezione dei doni dello Spirito Santo. Le notizie sono state ricavate da lezioni e appunti personali)

25Cfr. N. Sapegno, La Divina Commedia… cit., Purgatorio, XXVIII.

26 Ibid., p. 314-315, nota 40.

27“ Gli antichi eran tutti d’accordo nel riconoscervi la contessa Matilde di Canossa (1046-1115, grande sostenitrice della parte papale durante la lotta delle investiture. Senochè è sembrato strano che Dante ponesse nell’Eden, attribuendole così alto ufficio, una donna che in vita era stata così fieramente ostile all’Impero. Perciò altri nomi sono stati proposti, come quello della monaca tedesca Matilde di Hackeborn […]; e qualcuno ha pensato che si dovesse identificare con una delle donne della Vita Nova , ovvero che il nome foggiato su due radici greche si potesse spiegare “amore di sapienza”, o ancora che occorresse leggerlo anagrammaticamente ad letam (la donna che conduce Dante alla Beatrice, e via discorrendo. Che l’interpretazione degli antiche non sia senz’altro da scartare ha dimostrato il Nardi, osservando che al tempo dell’Alighieri ben poco si doveva sapere dell’attività politica di Matilde di Toscana […] alla donna Dante attribuisce un nome, per cui siamo indotti a pensare a una figura storica ; dall’altro le assegna un ufficio che si prolunga nel passato tanto lontano da escludere ogni possibile identificazione con un personaggio storico più o meno recente”. N. Sapegno, La Divina Commedia… cit., Purgatorio, XXXIII, p. 378, nota 119.

28 Cfr. E. Gioanola, letteratura italiana, Milano 1998, vol. I, pp. 244-245.

29 Cfr. A Momigliano nel commento alla Divina Commedia, Firenze 1947, vol. III, p. 125. Io l’ho preso da Porcelli p. 14.

30B. Porcelli, Studi sulla “Divina Commedia”, Bologna 1970, pp. 14-17.

31Cfr. B. Porcelli, Studi… cit., pp. 14-17.

32 Purgatorio, II, vv. 76-87. Di Casella nulla si conosce, dai versi di Dante si può dedurre che sia morto non molto tempo prima del 1300.

33 Ugolino o Nino Visconti, discendente da una nobile famiglia guelfa pisana, nacque a Pisa nel 1265 circa e in gioventù fu esule con tutta la parte guelfa, ritornò in patria solo nel 1276, dal padre Giovanni ereditò il giudicato di Gallura in Sardegna e nel 1285 tenne, insieme con il nonno, la signoria di Pisa, divenne podestà e capitano del popolo. Dopo il trionfo dell’Arcivescovo Ruggeri e dei Ghibellini, andò in esilio, dove si unì ai Guelfi fuoriusciti e divenne uno dei principali promotori della lega dei comuni guelfi contro Pisa e nel 1293 fu capitano generale della Taglia guelfa. Tra il 1288e il 1293 fu spesso a Firenze, dove, probabilmente, ebbe occasione di conoscere Dante. Morì in Sardegna nel 1296, non riconciliato con la sua città natale, volle che il suo cuore fosse portato nella chiesa dei frati Minori di San Francesco della guelfa Lucca, a testimonianza della sua tenace fedeltà alla sua parte politica. Cfr. N. Sapegno, La Divina Commedia… cit., Purgatorio, VIII, p. 86, nota 53. )

34 Beatrice d’Este, figlia di Obizzo II, era nata nel 1268 circa a Ferrara e quando rimase vedova di Nino Visconti si trasferì a Ferrara con la figlia; intorno al 1300 sposò Galeazzo, figlio di Matteo Visconti, signore di Milano, ma nel 1302 fu cacciato da questa città per il prevalere dei Torriani, quindi Beatrice seguì il nuovo marito nel suo esilio. Di nuovo vedova nel 1328, Beatrice ritornò a Milano quando il figlio Azzo riprese la Signoria. Beatrice morì nel 1334. Cfr. Ibid., p. 88, nota 73.

35 Purgatorio, canto VIII, vv. 71-78. Giovanna, unica figlia di Nino Visconti, nel 1300 aveva circa nove anni e alla morte del padre fu spogliata di tutti i suoi beni, seguì la madre Beatrice prima a Ferrara e poi a Milano, successivamente, ancora adolescente, andò sposa a Rizzo da Camino, di cui rimase vedova nel 1312, visse a Firenze nella miseria più squallida, tanto che il Comune le diede soccorso con una sovvenzione in memoria dei meriti del padre. Cfr. Ibid., p. 88, nota 71.

36Purgatorio, XXIII, vv. 85-96.

37N. Sapegno, La Divina Commedia… cit., p. 264, nota 94.

38Purgatorio, VI, vv. 67-75.

39Cfr. Purgatorio, VI, vv. 76-151.

40 Genesi, 18, 20-21 e 19, 24-25.

41 Inferno, V, vv. 37-39.

42F. De Sanctis, Saggi critici, Laterza, Bari 1960.

43 Inferno, V, vv. 70-72.

44 Semiramide fu famosa per la sua corruzione e dissoluzione, che la portò, secondo la leggenda, a volersi unire in matrimonio con il figlio, dal quale venne uccisa; Didone, che dopo la morte del marito, venedo meno al giuramento fatto, si innamorò di Enea; Cleopatra fu amante di Cesare e di Antonio e si suicidò dopo la sconfitta di quest’ultimo; Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, fu rapita da Paride, che con questo rapimento causò la guerra di Troia; Achille (non si capisce bene se Achille viene condannato per essersi innamorato di Deidamia o di Polisenna o della schiava Briseide); Paride (secondo vari studiosi non si tratta del personaggio dell’”Iliade”, ma del cavaliere dei romanzi medievali che si innamorò di Vienna, rimanendone vittima; Tristano, famoso cavaliere del ciclo di re Artù, il quale si innamorò di Isotta, moglie del re.

45Brunetto Latini nacque probabilmente a Firenze tra il 1220 e il 1230 da ser Bonaccorso Latini della Lastra “iudex et notarius”, appartenente ad una nobile famiglia toscana, avviato alla carriera notarile, nel 1254 ebbe la carica di scriba degli Anziani del Comune di Firenze. Fu attivo in politica militando nel partito Guelfo; nel 1260, stava tornando in Patria reduce da un’ambasceria presso Alfonso X, re di Castiglia, ebbe la notizia della vittoria dei Ghibellini nella battaglia di Montaperti, quindi Brunetto si trasferì in Francia, dove esrcitò la professione di notaio e compose la sua opera più famosa: il “Trésor”( vasta enciclopedia in lingua d’oil) la “Rettorica” e il “Tesoretto”. Tornò a Firenze nel 1266, dopo la battaglia di Benevento, quando i guelfi di Carlo d’Angiò sconfissero i ghibellini di Manfredi di Svevia. Nel 1273 dal Comune fiorentino ebbe il titolo di Segretario del Consiglio della Repubblica, cui seguirono molte funzioni politiche importanti, che lo resero stimato e onorato dai suoi cittadini; fu anche retore, poeta e filosofo. Nel 1280 ebbe grande peso nella riconciliazione temporanea tra Guelfi e Ghibellini e successivamente fu membro del Consiglio del Podestà con Guido Cavalcanti e Dino Compagni; presiedette il Consiglio dei Sindaci, dove firmò la costituzione di una lega con Genova e Lucca contro Pisa, la cui flotta era stata distrutta dai Genovesi nella battaglia della Meloria. Ebbe l’alta carica di Priore nel 1287, favorì la guerra contro Arezzo (1289), da cui Firenze uscì vittoriosa e alla battaglia di Campaldino presero parte anche Dante e Cecco Angiolieri. Brunetto morì nel 1294 e fu sepolto nella chiesa di Santa Maria Maggiore in Firenze. Si conoscono i nomi di quattro figli: Biancia, Perso, Bechus o Bonaccorso e Cresta. Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/brunetto-latini_Dizionario -Biografico)/

46Inferno, XV, vv. 103-108.

47 Prisciano, nato a Cesarea, fu un noto grammatico latino del VI secolo, il quale insegnò a Costantinopoli. Non esistono fonti testimonianti la sodomia di questo personaggio e tale colpa è ancora argomento di discussione: alcuni sostengono che Dante abbia appreso la notizia da una fonte medievale oggi sconosciuta; altri che il Poeta abbia confuso Prisciano con Priscilliano di Avila, ( secolo IV) vescovo ed eretico, accusato anche di sodomia. Cfr. G. Brugnoli, in https://www.treccani.itenciclopedia/prisciano_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

48 Francesco d’Accorso nacque a Bologna nel 1225, fu professore di diritto romano con grande successo e grazie alla sua fama tenne lezioni anche all’Università di Oxford, dove sembra però che svolgesse più dell’opera del docente, assistenza al re Edoardo I d’Inghilterra per la riorganizzazione dell’ordinamento giudiziario, per le ambascerie alla corte francese e presso il papa Niccolò III, percependo ricchissimi emolumenti ed una pensione annua. Nel 1282 tornò a Bologna, ma nel frattempo la sua famiglia era stata bandita dalla città per motivi politici, quindi Francesco, per riprendere ad esercitare la sua professione, fece atto di omaggio e sottomissione alla nuova fazione dei Geremei, Guelfa, e al papa Martino IV. Pienamente reintegrato nei suoi diritti, ebbe grandissima fama. Nel suo testamento dispose numerosi legati a favore di amici e parenti, di chiese, monasteri ed opere pie, a riparazione di ricchezze mal accumulate, poiché come il padre aveva praticato l’usura. Anche per questo personaggio, l’accusa di sodomia non trova riscontro in precise notizie biografiche. M Cfr. F. Cancelli, in https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-d-accorso_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

49 Andrea de’ Mozzi, discendente della ricchissima famiglia guelfa de’ Mozzi, compì i suoi studi giuridici a Bologna e fu a lungo in Inghilterra; fu Vescovo di Firenze dal 1287 fino all’anno 1295, quando venne poi trasferito a Vicenza da papa Bonifacio VIII con un breve di evidente carattere punitivo, a causa del malgoverno che Andrea esercitò e creò una serie di attriti e di contese anziché dare lustro alla città. Morì nel 1296, fu sepolto nella chiesa di San Gregorio eretta a spese della sua famiglia. Anche per questo personaggio, come già per Prisciano e Brunetto Latini, l’accusa di sodomia non è riscontrabile in nessuna fonte, forse Dante, a torto o a ragione, accolse le voci che probabilmente circolavano per Firenze Cfr. E. Chiarini, in https://www.it/enciclopedia/andrea-de-mozzi_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

50 Cfr. A. Pèzard, Dante sous la pluie de feu, Parigi 1950.

51 Cfr. N. Mineo, in https://www.treccani.it/enciclopedia/andre-pezard_(Enciclopedia-Dantesca)/

52 Le notizie sono ricavate da lezioni e appunti personali.

53 Le notizie sono ricavate da lezioni e appunti personali.

54 Agostino d’Ippona, De Ordine, II, cap. IV, 12.

55 Tommaso d’Aquino, De Regimine Principum, IV, 14.

56 Cfr. Inferno, XV, vv. 55-72. Brunetto dice a Dante che se quando era in vita non si è ingannato, raggiungerà la gloria e se fosse vissuto più a lungo lo avrebbe aiutato e incitato, ma gli ingrati Fiorentini, che ancora conservano la natura aspra e selvaggia delle loro origini fiesolane, gli si volgeranno contro a causa della sua rettitudine; essi sono avari, invidiosi e superbi, e raccomanda al suo allievo di starsene lontano da loro e dalla loro corruzione. La sorte che attende il Poeta, continua Brunetto, è così onorevole che sia i Bianchi che i Neri vorranno vendicarsi di lui, ma non riusciranno a saziare la loro brama.

57 G. Petronio, Il canto XV dell’Inferno, in Nuove Letture dantesche, Firenze 1966-1978, vol. II 1968, pp. 76-85.

58 Ibid.

59 D’A. S. Avalle, Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli 1977.

60 Ibid.

61 Guido Guerra, figlio del conte Marcovaldo e di Beatrice degli Alberti di Capraia, nacque nel 1220 circa

discendente della nobile casata dei conti Guidi di Casentino, nipote della virtuosa Gualdrata, moglie di Guido il vecchio, donna dell’alta borghesia fiorentina che fu capace di ridare vigore alla vecchia famiglia comitale . Nel 1245 fece parte della scorta che Innocenzo IV al Concilio di Lione. Fu capo militare e politico di parte Guelfa e si distinse nella battaglia di Benevento del 1266, rientrato a Firenze da trionfatore, gli venne affidato il capitanato della città: fu il primo caso di assegnazione di tale caricaad un cittadino non fiorentino morì 1272. Cfr. M. Marrocchi, in https://www.treccani.it/enciclopedia/guido-guerra-guidi_%28Dizionario-Biografico%29/

62 Tegghiaio Aldobrandi appartenne alla nobile e potente famiglia degli Adimari, fu cavaliere di parte Guelfa e fu capo militare: cercò di convincere i Fiorentini a non intraprendere la guerra contro Siena, conclusasi con la sconfitta dei Guelfi. Fin dal 1236 godette di autorità e prestigio, infatti gli fu affidata la custodia degli ostaggi di San Gimignano; nel 1256 fu Podestà di Arezzo. Morì prima del 1266. Cfr. G. Varanini, in https://www.treccani.it/enciclopedia/tegghiaio-aldobrandi_%28Enciclopedia-Dantesca%297

63 Jacopo Rusticucci nacque probabilmente a Firenze nel 1200 circa da una famiglia non conosciuta; ebbe stretti contatti con la famiglia degli Adimari; nel 1237 fu più volte testimone durante i consigli del Comune di San Gimignano, di cui era Podestà Gerardo di Aldobrando Adimari, fratello di Tegghiaio; fu attivo politicamente nel suddetto Comune. Nel 1254 fu nominato (insieme con Ugo degli Spini) ambasciatore del Comune di Firenze per concludere paci e alleanze, l’anno successivo ricoprì la carica di capitano del Popolo nel Comune di Arezzo. Era ancora in vita alla fine degli anni Sessanta, si ignora la data di morte. Le allusioni che Dante fa a proposito della moglie e delle sventure coniugali di Jacopo sembrano giustificare la scelta di Rusticucci per la pratica della sodomia, come conseguenza della ripugnanza suscitata dalla moglie, capace di indurre l’avversione nei confronti di tutto il genere femminile: “E io, che posto son con coloro in croce, / Iacopo Rusticucci fui, e certo / la fiera moglie più ch’altro mi nuoce”. Cfr. S. Diacciati, in https://www.treccani.it/enciclopedia/iacopo-rusticucci_%28Dizionario-Biografico%29/

64 Inferno, XVI, vv. 46-51.

65Cfr. G. Varanini, Sodomiti ,in https://www.treccani.it/enciclopedia/sodomiti_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

66Cfr. B. Nardi, Il Canto XI dell’Inferno, in “Lectura Dantis”, Roma 1951, p. 199.

67Inferno, XI, vv. 46-51. Sodoma e Gomorra , le due città incenerite da Dio perché gli abitanti erano dediti al peccato contro natura. Caorsa, attuale Cahors, città della Francia famosa durante il Medievo per i suoi mercanti che praticavano alti tassi di sconto e spesso anche l’usura.

68Inferno, XIV, vv. 28-30.

69Cfr. G. Varanini, Sodomia… cit.

70 Purgatorio, XXVI, vv. 76-81.

71 Cfr. N. Sapegno, La Divina Commedia. Purgatorio… cit., p. 295, nota 77.

72 www.anaso.it/2018/06/25/intervista-a-aldo-onorati-dante-egli-omosessuali-nella-commedia/

73 L’identificazione delle origini di Guido Guinizzelli fu molto dibattuta dagli studiosi, ma pare riconoscibile come Guido di Guinizzello di Magnano, famiglia appartenente alla piccola nobiltà bolognese. La sua nascita si può collocare nel 1240 circa e la sua morte nel 1276, ma poco si conosce della sua biografia, probabilmente fu un uomo di legge e giudice; sposò Beatrice, figlia di Gruamonte della Fratta, potente esponente dell’aristocrazia di Bologna; fu attivo alla vita politica per la parte Ghibellina dei Lambertazzi, avversaria dei Guelfi Geremai e quando quest’ultimi ebbero la meglio sui Lambertazzi, Guinizzelli venne condannato all’esilio, dove probabilmente morì. Anche per la sua produzione letteraria non si hanno notizie certe: oltre a due frammenti di canzoni, gli vengono attribuiti quindici sonetti e cinque canzoni. Inizialmente la sua produzione poetica risulta ancora legata a moduli siciliani e guittoniani, riconoscendo in Guittone d’Arezzo il suo maestro, successivamente Guinizzelli si indirizza verso uno stile “dolce”, anche se ricco di tensione intellettuale, che lo fa considerare l’iniziatore del “Dolce Stil Novo”, Dante lo considera suo Maestro e lo celebra come tale nel suddetto canto XXVI del Purgatorio. Nella canzone “Al cor gentil rempaira sempre amore”, che rappresenta il “manifesto” del nuovo stile, Guinizzelli descrive le linee essenziali di questa nuova poetica, esprimendo la più alta espressione dell’amore attraverso la lode della donna amata. Cfr. G. Inglese, in https://www.itenciclopedia/guido-guinizzelli_(Dizionario-Biografico)/

74 Purgatorio, XXVI, vv. 82-84.

75 Ibid., vv. 91-102.

76 Dante Alighieri, Convivio, III, 3 3.

77 Purgatorio, XVIII, vv. 34-39. “Ora puoi vedere chiaramente quanto si allontanino dalla verità coloro che asseriscono che ogni amore è pre sé cosa buona; costoro, gli epicurei, si basano forse sul fatto che la materia d’amore, e cioè la naturale disposizione ad amare, è sempre buona, in quanto non può tendere se non al bene (o a ciò che appare tale); ma l’amore in atto è buono o cattivo, secondo l’oggetto a cui si rivolge e il modo in cui si determina: quand’anche la cera sia buona, non sempre son talile imprente che essa riceve”. N. Sapegno, La Divina Commedia. Purgatorio… cit., p. 200, nota 34.

78 “L’amore è una passione innata che procede dalla visione e per eccessivo pensiero di persona dell’altro sesso, per cui si desidera soprattutto godere l’amplesso dell’altro e nell’amplesso realizzare completamente tutti i precetti d’amore”

79 Cfr. D. Pirovano, Dante e il vero Amore, in https://laprofonline.wordpress.com/letteratura-italiana/dante-alighieri-vita-e-opere/dante-e-il-vero-amore/

80 Ibid.

81 Ibid.

Diavoli e Demoni nell’Inferno dantesco

Loredana Fabbri

                                                          Il sentiero per il Paradiso inizia all’Inferno

                                                                                                             (Dante Alighieri)

<<Ed ecco verso noi venir per nave/un vecchio, bianco per antico pelo,/ gridando: “Guai a voi, anime prave!/Non isperate mai veder lo cielo:/ i’ vegno per menarvi a l’altra riva/ ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo./ E tu che se’ costì,anima viva,/ pàrtiti da cotesti che son morti”./Ma poi che vide ch’io non mi partiva,/disse:”Per altra via, per altri porti/ verrai a piaggia, non qui, per passare:/ più lieve legno convie che ti porti”./ E ‘l duca lui: “Caron, non ti crucciare:/vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare”./Quinci fuor chete le lanose gote/al nocchier della livida palude,/che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote./ Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,/cangiar colore e dibattero i denti,/ratto che ‘nteser le parole crude./Bestemmiavano Dio e lor parenti,/l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme/ di lor semenza e di lor nascimenti./Poi si ritrasser tutte quante insieme,/ forte piangendo , a la riva malvagia/ch’attende ciascun uom che Dio non teme./ Caron dimonio, con occhi di bragia/ loro accennando, tutte le raccoglie;/ batte col remo qualunque s’adagia>>.[1]

È con queste terzine che Dante ci presenta il primo demonio che incontriamo nel terzo canto dell’Inferno: il regno del peccato e delle passioni, dove i dannati mantengono il loro carattere che li contraddistinse nella vita terrena, come se fossero vincolati per sempre ai peccati e alle passioni che marchiarono di vergogna la loro vita, quasi innalzati ad accezione universale del male. L’Inferno è popolato da personaggi derivati dalla mitologia classica, dalla storia passata, recente e contemporanea al Poeta, dalla cronaca della vita quotidiana, descritti con versi di scultorea incisività, essi appartengono a tutte le classi sociali: laici ed ecclesiastici, mercanti, principi, imperatori, cardinali e papi.

Caronte o come scrive Dante Caron, secondo l’uso medievale di rendere tronchi i nomi non latini,[2] figlio di Erebo e di Notte, è il vecchio laido nocchiero che traghetta le anime dei morti dall’una all’altra sponda dell’Acheronte, dove avranno accesso al mondo dell’Oltretomba. E’ la prima figura della mitologia pagana che troviamo direttamente nella vicenda dell’opera, cui presto ne seguiranno molte altre, realizzando così il sincretismo culturale del Medioevo di cui Dante è interprete magistrale. Sconosciuto ad Omero e ad Esiodo,  Caronte è una figura comune dell’aldilà dei Greci, dei Romani, degli Etruschi, egli accoglie con parole crudeli le anime, i suoi occhi terribili sembrano sprigionare fiamme, raccoglie le anime nella nave e le colpisce col remo se si attardano. Questo Demonio deve la sua fama a Virgilio, che lo descrive nel libro VI dell’”Eneide”, durante la discesa agli Inferi di Enea, ma la narrazione è più descrittiva e pittorica, quella di Dante, sulla falsariga di ciò che scrive Virgilio, risulta più drammatica e più impressionante, accentuando i tratti demoniaci del traghettatore e facendone uno strumento della giustizia divina.

Dante, riprendendo dalla cultura del suo tempo, segue la teoria tolemaica del geocentrismo e immagina la terra, al centro dell’universo circondata da nove sfere celesti ruotanti di moto diversamente veloce attorno ad essa, sedi dei pianeti: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Saturno, più una per le Stelle fisse e un’altra costituita dal Primo immobile, che trasmette il moto a tutti i cieli sottostanti: è l’Empireo, sede immobile di Dio. La terra, inoltre, è suddivisa in due emisferi, ma solo quello a nord è abitato dall’uomo e limitato ad est dal Gange e ad ovest dalle Colonne d’Ercole, mentre quello australe è interamente ricoperto dalle acque. Questa fantastica cosmologia è derivata dal Poeta in parte dalla scienza e dall’iconografia pagana e cristiana, in parte inventata e rappresenta l’intento di strutturare in modo organico tutto l’aldilà, basandosi su principi più vicini alla razionalità. Questo complesso cosmologico risulta perfettamente combinato con il sistema etico, che stabilisce il luogo e la peculiarità delle pene o delle beatitudini. Al centro di questa macchina sta, immobile, la terra, sede dell’uomo, sulla quale, quindi, piovono dall’alto le influenze celesti, mentre dal basso, dall’interno della terra dove dimora, sale l’influsso di Satana.

La “Commedia” fa parte della vasta tradizione dei viaggi oltremondani, Dante, però, all’inizio del suo pellegrinaggio, nomina solo due personaggi che hanno compiuto il viaggio nell’aldilà prima di lui: Enea e San Paolo, pur conoscendo altri viaggi nell’oltretomba presenti sia nella letteratura antica e tardo antica sia in quella cristiana. Come guida per l’Inferno e il Purgatorio sceglie Virgilio, cantore delle gesta di Enea, il quale fu il capostipite della discendenza da cui avrà origine l’Impero universale.[3] Il poeta latino fu molto ammirato nel Medioevo, tanto da considerarlo un poeta mago-taumaturgo o un “cristiano”, che avrebbe profetizzato la nascita di Cristo, come vogliono varie leggende, ma è nota l’inclinazione del tempo a modificare la realtà storica: i personaggi dell’antichità classica sono frequentemente equiparati a quelli contemporanei, a causa dello scarso senso della cronologia, questo non è il caso del Virgilio dantesco, in cui non troviamo carattere arbitrario, ma una base preziosa e una sintesi emblematica di tutta la classicità sia per la formazione letteraria e culturale sia per gli insegnamenti morali: Virgilio è per Dante il massimo “auctor”, <<”O de li altri poeti onore e lume / vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume. / Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore; / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore.>>.[4] Da questi versi si può desumere quanto sia importante per il Poeta la letteratura antica, posta quasi allo stesso livello della Bibbia, infatti si rivolge alla sua guida e gli chiede se il suo valore è adeguato a compiere un tale viaggio, ossia dal mondo mortale a quello immortale, Enea era disceso agl’Inferi, in quanto investito di una missione divina: fondare Roma e l’Impero. Se Dio fu così benigno con lui, pensando alle straordinarie conseguenze che ne sarebbero derivate, non deve sembrare contro ragione, Enea fu scelto da Dio nell’Empireo come padre di Roma e del suo Impero, destinati come luogo santo dove risiede il successore di Pietro.

Poi anche San Paolo andò ancora vivo nell’aldilà per trarne sostegno a quella fede cristiana, fondamentale per la salvezza. L’Alighieri, continua dicendo a Virgilio che lui non è né Enea né San Paolo, quindi per quali meriti dovrebbe fare un tale viaggio, poiché lui stesso non si reputa degno di tutto ciò.[5] Dante è il protagonista del suo viaggio oltremondano, nei precedenti testi latini invece è sempre un eroe ad affrontare la catabasi, perché dai classici era considerata un’impresa fatale, ma quello del Poeta fiorentino non è un viaggio eroico, che vuole celebrare la gloria del protagonista, ma un pellegrinaggio necessario per la sua salvezza, che diverrà esempio per tutta l’umanità.

Dante immagina l’Inferno come un’immensa voragine sotterranea a forma di tronco di cono, con la parte terminale (base minore) prossima al centro della terra, mentre la parte più ampia (base del cono tronco) è situata sotto Gerusalemme ad una distanza non precisata. Le pareti della voragine sono incise orizzontalmente a corone circolari, che formano nove ripiani concentrici, che vanno via via restringendosi come le gradinate di un anfiteatro, le loro coste, franate a causa del terremoto che accompagnò la morte di Cristo, permettono la discesa dall’uno all’altro.

I dannati sono distribuiti dall’alto verso il basso secondo lo schema aristotelico dell’”Etica Nicomachea”, che distingue tra i peccati d’incontinenza, puniti nei gironi dal secondo al quinto (lussuria, gola, avarizia, e prodigalità, iracondia e accidia), perché meno gravi; e i peccati di malizia, più gravi perché commessi consapevolmente, sono puniti nella zona più profonda, oltre le mura della città di Dite. Nel sesto cerchio troviamo gli eretici e nel settimo i violenti, nell’ottavo i fraudolenti e nel nono i traditori. Per questa disposizione dei dannati, Dante segue, se pure con estrema libertà e straordinaria capacità di elaborazione, anche il “De officiis” di Cicerone e il pensiero teologico di San Tommaso.

Le pene sono stabilite dal Poeta secondo la tradizione giuridica medievale e conformi alla consuetudine del diritto del suo tempo, basato sulla legge del taglione, sulla legittimità della violenza e della vendetta. I peccati sono puniti con una pena, che, per attinenza o per antitesi, si ricollega alla colpa commessa: la legge del contrappasso.

Nell’Inferno Dante descrive e rappresenta il male, il peccato, ossia l’elemento negativo e il sentimento dell’anima cristiana non può essere che di repulsione; ma rappresenta anche il bene, il divino che fa percepire l’aiuto, il conforto, la speranza a colui che intraprende questo viaggio ultraterreno. Il Poeta fiorentino è protagonista nell’Inferno, poiché attraversa la voragine, parla e avversa i dannati, ma è un protagonista statico, rispetto all’azione generale della cantica, perché in lui non avvengono mutamenti: alla fine del baratro egli è quello che era prima. Il viaggio nell’Inferno è un’esperienza sempre invariata, mentre il viaggio attraverso il Purgatorio porta Dante alla completa purificazione nelle acque dei due fiumi divini.[6]

Nella Divina Commedia l’Inferno è caratterizzato dal dramma, consistente anche nei rischi  cui va incontro il Poeta, dall’interesse dei personaggi per le vicende terrene a cui sono ancora strettamente vincolati, dalla varietà ed originalità con cui essi sono delineati; succede poi un Purgatorio, dove questi interessi si affievoliscono o vengono meno; poi un Paradiso in cui predomina la contemplazione intellettuale e dove Dante cerca di far fronte alla freddezza artistica e di suscitare l’interesse dei lettori con alte discussioni filosofiche, ma piuttosto estranee agli affetti umani. Molto interessante è il giudizio espresso da Giacomo Leopardi sulla “Commedia”, scritto nello “Zibaldone”: <<…inseriva l’accenno al progressivo impoverimento umano e poetico della Commedia in una lunga considerazione sul cristianesimo “più atto ad atterrire che a consolare, o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza”; perché all’infelice che “si trova impediti quaggiù i suoi desideri, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l’adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna” parlano con evidenza non “la promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera”, che egli “non può comprendere, né immaginare, né pur concepire o congetturare, in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione…”, ma la minaccia e la natura dei castighi e mali di cui egli ha purtroppo esperienza. Così “Dante che riesce a spaventar dell’Inferno, non riesce, né anche poeticamente parlando, a invogliar punto del Paradiso”>>.[7]

La cultura di Dante è medievale e scolastica, il suo pensiero filosofico oscilla tra Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, il quale viene posto in Paradiso nel gruppo degli spiriti sapienti, nonostante la condanna ecclesiastica.[8] Il Poeta si forma sui testi e sulle dispute che prevalevano nelle “scholae”, ma non conosciamo quasi niente sul corso di studi di Dante e sui testi da lui letti: attraverso le sue opere, come il “De Vulgari eloquentia” o la “Vita Nova”vediamo nominati, oltre Virgilio, suo “maestro” e suo “autore”, tra i poeti classici Ovidio, Stazio e Lucano, compaiono anche i nomi di Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio, i quali erano già presenti e diffusi nelle “scholae”, ma in Dante ci fanno capire come egli si fosse impadronito della cultura classica, anticipando i tempi ed elaborandola personalmente, un esempio lo abbiamo nel Limbo, dove parla dei grandi spiriti dell’antichità e menziona Omero <<che sovra li altri com’aquila vola>>,[9] che Dante non conosceva direttamente e non godeva di alcuna autorevolezza nel mondo medievale. È impossibile citare gli autori e le fonti di cui Dante si avvale nella Commedia, solo dopo un’attenta lettura di tutta l’opera possiamo farci un’idea delle conoscenze enciclopediche del Poeta fiorentino: del mondo classico, di quello medievale, delle speculazioni dottrinarie, della cultura francese e provenzale in lingua d’oc e d’oil, della lirica trobadorica, dei Cicli bretone e carolingio e della poetica italiana dalla Scuola siciliana allo Stil Novo.

 Quando il comune di Milano era impegnato nella guerra vittoriosa contro il Barbarossa, Firenze non aveva ancora raggiunto una posizione rilevante nel quadro politico italiano, ma un secolo dopo, la città era diventata uno dei più importanti centri economici non solo dell’Italia, ma di tutta l’Europa, contraddistinto da un ragguardevole numero di imprese e da una potenza finanziaria elevata, tra i mercanti fiorentini il commercio dei panni-lana era quello più esercitato: la materia prima e il manufatto semilavorato veniva importato dalla Francia, dalla Fiandra e dall’Inghilterra, a Firenze veniva raffinato e poi riesportato nei mercati italiani ed orientali. Questi mercanti non operavano singolarmente, ma erano organizzati in compagnie e questo consentiva loro di esercitare una vasta varietà di affari e una grossa disposizione di capitali, che consentì lo sviluppo di un’attività bancaria con altissimi profitti, questa attività fu incrementata, nel 1252, con la coniazione del Fiorino d’oro, una moneta a 24 carati, che si affermò rapidamente per i pagamenti internazionali, consentendo ai mercanti-banchieri fiorentini un enorme volume d’affari in tutta Europa. Verso la metà del Duecento la borghesia fiorentina era organizzata in sette “Arti maggiori”, in cinque “Arti medie” e nove “Arti minori”, ai rappresentanti di queste associazioni era affidato il governo di Firenze, poiché erano capaci di far fronte alle consorterie dei nobili. Le nuove forze economiche della città assunsero, quindi, direttamente il controllo politico su di essa a partire dalla seconda metà del ‘200.[10]

Le lotte tra i ghibellini, sostenitori del partito imperiale, e i guelfi, sostenitori del papa conclusosi con la definitiva vittoria di questi ultimi dopo il 1266, non arrestarono la crescita del ruolo delle arti nell’organizzazione politica della città: le vicende delle lotte di fazione a Firenze ebbero più importanza nell’ambito di una storia regionale di quello relativo all’evoluzione sociale e politica della città, infatti il sopravvento dei ghibellini al tempo di Federico II, il risveglio guelfo dopo la morte dell’Imperatore, quando i ghibellini esiliati, comandati da Farinata degli Uberti, furono vittoriosi nella battaglia di Montaperti, la definitiva affermazione dei guelfi dopo la morte di Manfredi, furono tutti avvenimenti dai quali si andò sempre più accentuando l’affermazione delle arti come elementi di governo, al di là dell’alternanza dei partiti al potere. Nel 1282 si costituì il governo dei Priori delle Arti (prima in numero di tre e poi di sei) che sostituì quello dei magistrati precedenti, i sei priori, eletti dalle arti, rappresentavano i sei “sesti”, ossia le sei ripartizioni topografiche della città. Con gli “Ordinamenti di Giustizia”, voluti da Giano della Bella nel 1292 e approvati nel 1293 i magnati (i cavalieri) furono esclusi dalle cariche pubbliche. La vittoria del ceto dei grandi mercanti poteva così dirsi completata. In seguito questa legislazione venne moderata e fu concesso ai magnati di accedere alle cariche pubbliche purché si iscrivessero ad un’arte, questo fu il caso dell’Alighieri che si iscrisse all’arte dei medici e speziali, ovviamente si trattava di una iscrizione puramente formale, ma ciò significava che i membri delle famiglie magnatizie potevano governare solo a nome e nell’interesse delle arti. Quando la borghesia fiorentina non pensa a far la guerra, pensa a far denaro, perfino i palazzi dei ricchi sono costruiti con criteri molto funzionali: a pianterreno i magazzini per i commerci, in alto le torri e gli spalti per la difesa.[11]  

Nonostante i disaccordi, Firenze è una città prospera, dove il denaro scorre abbondantemente e dove gli abitanti cominciano a scoprire gli agi del vivere: le case degli abbienti sono ancora spoglie, ma si comincia a tappezzare le pareti e a dotare i letti di lussuosi copriletti; i pasti sono più elaborati ed abbondanti, con carne, vino, spezie, sempre presente è la selvaggina, essendo la caccia un’inclinazione tradizionale dei Toscani, anche se sulle tavole mancano posate e tovaglioli, ma frequente è la presenza di un buffone o di un novellatore, nelle occasioni solenni intervengono anche i suonatori di vari strumenti. Da tenere in considerazione che la musica fa parte delle Arti liberali del Trivio e del Quadrivio e le persone colte sono tenute a conoscere almeno gli elementi fondamentali.[12]

L’infanzia di Dante trascorse sicuramente in Firenze, ad eccezione di alcuni brevi periodi passati a Camerata e a San Miniato a Pagnolle, poderi di proprietà degli Alighieri insieme con due appezzamenti di terreni, che costituivano il patrimonio della famiglia. Furono anni travagliati dalle lotte politiche, dalla morte della madre Bella (Dante aveva circa dieci anni), di adattamento ad una nuova vita familiare dopo il secondo matrimonio del padre e degli affari sbagliati e non sempre legali del genitore, che sembra essere stato un uomo mediocre e su di lui ci furono “voci” sgradevoli, tra queste quella di essere accusato di usura, “voce” raccolta e sparsa da Forese Donati, che, se vero, non dovette dare molti frutti, perché alla sua morte, i figli si trovarono in condizioni finanziarie molto modeste. Della madre, Bella, il Poeta non ne parla, nonostante le donne dantesche rappresentino l’amore, come quello folle di Francesca da Rimini o quello deformato dall’odio di Sapìa da Siena, ma nessuna rappresenta l’amore materno.

La prima formazione culturale avvenne in una delle varie scuole private della città, probabilmente quella del “doctor puerorum” della scuola più vicina alla casa degli Alighieri, in San Martino, in seguito frequentò gli studi del Trivio e del Quadrivio, ultimo ordine di studi laici per una città come Firenze priva di Università. Dante impara anche a scrivere versi, arte sperimentata da tutti gli intellettuali di Firenze, come anche dal suo maestro più noto, Brunetto Latini, Notaio della Repubblica, oltre che politico, scrittore e poeta: fu quindi una delle figure più rappresentative nella Firenze del XIII secolo. Il fatto che Dante lo consideri suo maestro, forse non si riferisce ad un maestro di una scuola vera e propria frequentata da lui stesso, ma al fatto che Brunetto fu maestro di retorica, di morale, di politica per tutta la città fiorentina e l’Alighieri ammirò molto quest’uomo colto, esperto di “ars dictandi” e teorico della politica, ne divenne suo amico e apprese da lui l’amore per il sapere.

Nella seconda metà del Duecento, Firenze è una libera Repubblica, predominata dall’elemento borghese, teoricamente soggetta all’autorità imperiale, ma è il tempo della “grande vacanza” dell’Impero e l’aristocrazia di sangue ha ceduto il passo a quella del denaro: anche il modo di poetare, lo Stil Novo, che trova in Dante il più grande esponente, rappresenta un ambito dove il mito della nobiltà di nascita è decaduto, il “cor gentil”cantato dai poeti, sull’esempio di Guido Guinizzelli, non è per nobiltà di sangue, ma per valori morali indipendenti dalla nascita.[13]

Il famoso atto notarile del 9 febbraio 1277 ci informa delle trattative prematrimoniali, con le quali Gemma Donati, che all’epoca aveva circa dieci anni, veniva promessa a Dante dodicenne, e viene fissato l’ammontare della dote: duecento fiorini piccoli, non era una grande somma, ma le doti venivano calcolate in base al patrimonio del futuro sposo; inoltre Gemma apparteneva ad una delle famiglie più in vista di Firenze e allearsi con i Donati era socialmente prestigioso: tanta precocità rientrava nell’usanza dell’epoca che vedeva nei matrimoni un’alleanza fra gruppi familiari. Il matrimonio sarà celebrato più tardi, tra il 1283 e il 1285 circa.[14]

Secondo la “Vita Nova”, Dante incontra Beatrice all’età di nove anni e si rivedono nove anni dopo, se, come sembra accertato, Beatrice è la figlia di Folco Portinari, importante cittadino e fondatore dell’ospedale di Santa Maria Nuova, i due incontri sono probabilmente un’invenzione poetica dell’Alighieri, perché le loro abitazioni si trovavano molto vicine e per quanto fossero rigide le regole di vita di una ragazza del XIII secolo, non sarebbero mancate le occasioni per incontrarsi. Il Poeta non parla dell’aspetto fisico di Beatrice se non per dire nel Purgatorio che i suoi occhi sembrano degli smeraldi e nel Paradiso dice che la sua fronte è così bianca da distinguere appena una perla che vi ricadeva come era la moda del tempo, comunque un matrimonio tra i due era impensabile: Dante era promesso a Gemma Donati e Beatrice andò sposa a Simone de’ Bardi e morì a soli venticinque anni circa nel 1290.[15]

Della cerchia di amici stilnovisti di Dante facevano parte Lapo Gianni e Cino da Pistoia, ma i due amici più cari furono Forese Donati e Guido Cavalcanti: due personalità completamente diverse, il primo era la dissennatezza personificata, il secondo la saggezza, Forese, detto eloquentemente “Malefami”, è il compagno di baldorie, del periodo della vita dissoluta di Dante e nonostante l’amicizia non si risparmiano certo le frecciate e le insinuazioni maligne, ne è una prova la celeberrima “Tenzone” composta da tre sonetti dell’Alighieri e dalle rispettive risposte del Donati, in cui i due poeti si scambiano insulti e ingiurie in tono comico conforme al genere mediolatino dell’”improperium”e della “tenso”. Guido Cavalcanti, maggiore di Dante di dieci anni, aristocratico, altero, amante della solitudine e sprezzante dei piaceri volgari, lo rimprovera per il suo modo di vivere e lo allontana da una vita biasimevole.[16]

            Nel 1289, l’Alighieri partecipa alle battaglie di Campaldino contro i ghibellini d’Arezzo (giugno) e a Caprona, per la resa del castello occupato da milizie pisane (agosto), il suo impegno politico era stato fino ad allora insussistente, sia per i suoi impegni letterari sia perché non avrebbe potuto esercitarlo data l’esclusione della nobiltà, anche se piccola come quella degli Alighieri, dagli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, solo dopo i “Temperamenti” autorizzati nel 1295, che concessero alla nobiltà di poter partecipare alla vita politica, a condizione di far parte di una Corporazione o Arte, si aprì per Dante una nuova prospettiva di vita.

Dopo essersi iscritto, quello stesso anno, alla Corporazione dei Medici e degli Speziali, dal novembre all’aprile 1296 egli fa parte dei Trentasei del Capitano del Popolo; viene ascoltato dal Consiglio dei Savi per i suoi autorevoli consigli e nel mese di maggio fa parte del Consiglio dei Cento, dove prende subito posizione contro la politica filo-papale di Corso Donati, schierandosi con l’ala più democratica e filo-popolare dei consiglieri. Dante parteggia, anche se con una visione molto personale, per i Cerchi, avversando le mire espansionistiche di Bonifacio VIII sulla Toscana, la parte popolare prevale e i Cerchi estendono il loro potere, Corso Donati viene allontanato da Firenze, anche in seguito ad uno scandalo e il Papa è intento ad un grande evento religioso: il primo Giubileo, che si svolgerà da Natale del 1299 a tutto il 1300. Roma fu meta di numerosissimi pellegrini provenienti da tutte le parti d’Europa: la tradizione vuole che Dante sia stato tra questi, basandosi soprattutto sui ricordi che il poeta ha della Città eterna, specialmente della descrizione che egli fa dei pellegrini che attraversano il ponte di Castel Sant’Angelo in doppio senso di marcia,[17] sicuramente sappiamo che nei primi mesi del 1300, Dante si recò a San Gimignano su incarico del governo dei Bianchi, per convincere i membri di questo Comune a partecipare alla riunione generale dei Guelfi toscani, per organizzarsi contro la pressante politica di Bonifacio VIII e del suo solidale Corso Donati, politica che si aggravò con la nomina pontificia di Matteo d’Acquasparta a legato papale per la Toscana, la Romagna e altri luoghi d’Italia. Con l’arrivo a Firenze del Legato pontificio, la situazione per i Bianchi e particolarmente per i Cerchi divenne molto critica, furono rinnovate le cariche dei Priori e l’Alighieri venne nominato tra i sei Priori per il periodo 15 giugno – 15 agosto e da qui cominciarono i guai per il Poeta, come egli sostiene in un’epistola andata perduta: <<Tutti mali e l’inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio>>.[18] Proprio in quel periodo scoppiò un cruento scontro tra i Grandi e i popolani, era la sera del 23 giugno, vigilia di San Giovanni, i priori furono costretti a prendere una decisione drastica e mandare al confino i capi dei Neri e dei Bianchi.

Nel 1301, Dante ha ormai assunto una posizione irremovibile contro il Pontefice, capitanando l’ala estrema e antipapale dei Bianchi, che ormai non hanno speranze, dopo l’accordo di Bonifacio VIII con Carlo di Valois stipulato ad Anagni il 5 settembre, utilizzando per i propri fini la spedizione nel territorio italiano del Principe francese, consapevoli del pericolo, i governanti fiorentini inviano un’ambasceria al Papa, di cui farà parte anche l’Alighieri, che sarà trattenuto a Roma dallo stesso Bonifacio, mentre gli altri due ambasciatori tornano a Firenze.

Il primo novembre Carlo di Valois con le proprie milizie entra in Firenze e rientrano anche tutti i Neri e Corso Donati; il 7 ha luogo l’insediamento della nuova Signoria, tutta composta dai Neri e cominciano i processi contro i Bianchi. Dante non si trova più a Roma e non sappiamo se riesce a tornare nella sua città e poi fuggire, certamente non si trova a Firenze nel gennaio 1232, poiché il Podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio firma la prima sentenza di condanna contro il Poeta e altri Bianchi il 27 gennaio, con l’obbligo di presentarsi per rendere conto delle proprie azioni e pagare una sanzione, pena l’interdizione dalle cariche pubbliche e due anni di confino: nessuno si presentò e il 10 marzo il Podestà emise la condanna a morte per Dante ed altri quattordici Bianchi. Cominciano così i difficili e gravosi anni d’esilio per questo grande personaggio, che ripone tutte le sue speranze nell’Imperatore Arrigo VII, ma rimase deluso perché invece di muovere subito verso Firenze, come egli sperava, Arrigo VII prende la strada verso Roma.[19]

La vita di Dante è, dunque, quella di un intellettuale impegnato nella vita culturale, politica e sociale del suo tempo, favorito dal clima di libertà della civiltà comunale, che consentì agli intellettuali di sentirsi parte integrante della società e nel caso dell’Alighieri di concepire la cultura come uno strumento di battaglia per il rinnovamento e la difesa dei più alti ideali umani: egli vide il disgregarsi dei valori religiosi, morali e politici del Medioevo, in cui credeva fermamente e si sentì investito della missione di difenderli e restaurarli, richiamando ai loro doveri il Papa e l’Imperatore, rimproverando duramente Guelfi e Ghibellini, principi e prelati, biasimò la corruzione umana e auspicò la venuta del “Veltro”, ossia di un grande riformatore che avrebbe restaurato gli antichi valori perduti.

Nel 1310 la discesa dell’Imperatore Arrigo VII in Italia sembra, come già detto, una risposta alle speranze di Dante, ma la sua venuta si rivelò presto un fallimento e dopo avere cinto la corona ferrea a Milano, solo dopo diciotto mesi poté cingere la corona a Roma, ma nell’estate del 1313 si ammalò e morì improvvisamente, mettendo fine all’ultima speranza del Poeta.

Dopo questa breve e non esaustiva, ma necessaria panoramica su Dante e il suo tempo, riprendiamo il discorso relativo all’Inferno e ai demoni che il Poeta troverà durante il suo cammino a fianco della sua guida.

Molte divinità sotterranee della mitologia pagana antica compaiono nell’Inferno dantesco, trasformati in mostri o demoni per suscitare terrore, spavento. All’inizio del V canto troviamo Minosse, che nella mitologia classica era il re di Creta, famoso anche come legislatore: figlio di Giove e d’Europa, ebbe vari figli, tra i quali Androgeo, il quale fu ucciso dagli ateniesi invidiosi della sua bravura di ginnasta: ne scaturì una guerra vendicatrice. Minosse, nel rito propiziatorio, per ingraziarsi il favore divino, avrebbe dovuto sacrificare a Giove uno splendido toro che Nettuno aveva fatto uscire dal mare, ma lo cambiò con un altro meno bello, così l’ira di Giove si scagliò contro la moglie del re di Creta, Pasife, facendola innamorare del toro. Da tale orrenda unione nacque un mostro, il Minotauro. La guerra fu vittoriosa per Minosse e gli Ateniesi furono obbligati a inviare a Creta ogni anno sette giovanetti, come premio nell’anniversario dei giochi istituiti in memoria di Androgeo, quando poi il Minotauro venne rinchiuso nel labirinto costruito da Dedalo, i giovanetti venivano uccisi dal mostro, fino a quando Teseo, con l’aiuto di Arianna, liberò Atene da questo obbligo. Dante conosceva questo mito, per la narrazione della guerra contro Atene e i Megaresi nelle “Metamorfosi” di Ovidio e per la loro diffusione nella maggior parte dei poemi latini.[20]

Minosse fu famoso come legislatore e come giusto: sembra che per primo abbia introdotto le leggi a Creta; dai poeti antichi, compreso Virgilio, fu indicato come giudice dell’Ade con Eaco e Radamanto, tuttavia Dante lo tramuta da giudice dei morti a quello dei dannati, facendogli assumere tratti demoniaci non riscontrabili nella tradizione classica, pur restando strumento della superiore volontà divina, in quanto giudice infallibile e inflessibile. <<Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: / essamina le colpe ne l’intrata; / giudica e manda secondo ch’avvinghia. / Dico che quando l’anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa; / e quel conoscitor de le peccata / vede qual loco d’Inferno è da essa; / cignesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa.>>.[21]

Il Minosse della Divina Commedia ha le sembianze del grottesco, ma non del comico, specialmente per la lunga coda, peculiarità assente in Virgilio, con la quale si cinge il corpo tante volte corrispondenti al numero del cerchio dove il dannato deve essere situato, la natura demoniaca dell’antico re di Creta scaturisce anche dall’avvertimento minaccioso, sotto forma di giusto consiglio che rivolge a Dante, e che in realtà serve ad alimentare i dubbi che avevano turbato l’Alighieri e ad insinuargli dei sospetti verso Virgilio.[22]

Nel suo percorso ultraterreno, Dante usa espressioni molto affettuose verso Virgilio, gli studiosi si sono chiesti i motivi della scelta dell’antico poeta come guida: forse perché è stato il cantore dell’Impero? O perché tra gli scrittori antichi menzionati nel “De Vulgari Eloquentia” certamente Virgilio detiene il primo posto? In epoca medievale egli fu ritenuto non solo un grande conoscitore del regno dei morti, ma fu considerato, lui pagano, un attendibile profeta di Cristo. <<Del resto a chi consideri la questione da un angolo schiettamente umano, non può sfuggire quanto vi è di commovente in questo cercar rifugio nell’amicizia d’un poeta vissuto tredici secoli avanti, proprio quando l’amicizia dei coetanei – una corda così vibrante nell’anima dantesca – vien meno, vinta dalla morte o dalla lontananza. Quanto al valore allegorico di Virgilio, si è forse troppo ripetuto che rappresenta la Ragione umana. Forse hanno visto più giusto quanti ravvisano in Virgilio la rappresentazione della Poesia intesa come Arte in generale. […] Maggiore interesse suscita Virgilio come uomo. E’ senza dubbio uno dei personaggi della Commedia più ricchi di sfumature, di complessità, anche di mistero. Una grave malinconia l’accompagna ovunque; essa nasce dal sentirsi escluso dalla Grazia. Nel regno dei morti, siano essi i dannati o le anime penitenti che attendono la salvezza, Virgilio passa come un estraneo, uno di fuori, ben sapendo che al termine del cammino tornerà alla quiete opaca del Limbo. Di qui i suoi silenzi, i suoi profondi turbamenti, quel tanto d’inespressivo che l’avvolge, per servirci d’un termine moderno, quasi d’un alone d’incomunicabilità. Dante accanto al maestro è un estroverso: grida i suoi entusiasmi e le sue paure, dibatte i suoi dubbi, recrimina, protesta, si racconta. Ma Virgilio rimane chiuso in se stesso. Il suo segreto , simile alla veste bianca che gl’illustratori popolari gli dettero, l’avvolge come una nube>>.[23]

Nel sesto canto dell’Inferno, (terzo cerchio), oltre a farci conoscere la biasimevole situazione politica di Firenze, Dante ci presenta un altro demonio, Cerbero, guardiano di coloro che in vita peccarono d’ingordigia e ora sono condannati in eterno a stare sotto una pioggia scura e maleodorante, mista a grandine e neve. Anche Cerbero è un mostro mitologico a tre teste, figlio di Tifeo e di Echidna, collocato a guardia dell’Ade, già descritto da Virgilio e da Ovidio, ma dal primo con i tre colli avvolti da serpenti e dal secondo con la bava velenosa; Ercole riuscì a catturarlo e a trascinarlo fuori dall’Ade. In Dante lo vediamo custode di un solo cerchio dell’Inferno, quello dei golosi, con caratteristiche mostruose molto accentuate e in relazione col peccato della gola: ha gli occhi vermigli, simbolo dell’avidità, la barba unta e nera, il ventre largo per l’insaziabilità, le mani dotate di artigli per afferrare il cibo e tormentare i dannati graffiandoli, spellandoli e facendoli a pezzi; emette dei latrati come un cane rabbioso.

Anche per descrivere Flegiàs, il Poeta prende spunto dalla mitologia classica e ne fa un demonio infernale, che poco ha a che vedere con Caronte, perché non è chiara la funzione che ha:  quella di traghettatore della palude Stigia, in tal caso richiamerebbe il compito di Cerbero, o quella del custode degli iracondi e accidiosi, condannati nel quinto cerchio, o entrambe le mansioni? Se  fosse quest’ultimo caso, il compito sarebbe molto adeguato, visto che etimologicamente il suo nome si accosta al verbo greco “flégo” che significa incendio, e, quindi, chi meglio di lui, incendiario, potrebbe avere il compito di imbarcare le anime e introdurre a Dite, la città del fuoco.[24] Flegiàs non ha peculiari caratteristiche fisiche come i precedenti demoni, ma è il simbolo dell’ira. Già ricordato da Virgilio nell’”Eneide” (Eneide, VI, vv. 618-620) e da Stazio nella “Tebaide” (Tebaide, I, v. 713 e segg.), fa parte della mitologia greca, figlio di Marte e di Crise, fu re dei Lapiti, per vendicare la figlia Coronide, sedotta da Apollo, appiccò il fuoco al tempio del dio a Delfi e per questo motivo fu sprofondato nel Tartaro.

Quando Dante e Virgilio giungono sotto le mura infuocate di Dite, vengono sbarcati da Flegiàs davanti all’ingresso, dove subito si affolla una grande quantità di diavoli: <<Io vidi più di mille in su le porte/ da ciel piovuti, che stizzosamente/ dicean: “Chi è costui che sanza morte/ va per lo regno de la morta gente?”>>.[25] Virgilio è costretto a trattare con loro, che corrono a sbarrare le porte della città. Questi diavoli non sono i demoni mitologici “adattati” in ambito cristiano, ma sono diavoli veri, che in epoca medievale gli uomini erano soliti vedere scolpiti sui capitelli delle colonne dei templi o dipinti nelle chiese, che, con il loro aspetto inquietante, accrescevano la paura delle pene dell’aldilà. Sono diavoli determinati e molto arrabbiati per il privilegio di cui gode Dante: vivo tra i morti, questo loro atteggiamento getta nello sconforto il Poeta e Virgilio è costretto a venire diplomaticamente a trattative con loro.

Nonostante Dite sia la città del fuoco, non ci sono grandi fiammate, poiché il Maestro fiorentino riserva il fuoco per gli eretici, posti in arche infuocate; per i violenti contro Dio distribuiti nel sabbione arido, dove le fiamme piovono lente e continue; per i simoniaci, collocati a testa in giù dentro delle buche e con il fuoco sulle piante dei piedi; infine per i consiglieri fraudolenti, che sono prigionieri dentro lingue di fuoco: sono tutti peccatori contro lo Spirito, quindi la giusta pena è quella di essere eternamente tormentati dal fuoco, uno dei simboli dello Spirito.

Sull’ingresso del quarto cerchio (canto VII), dove sono puniti gli avari e i prodighi, i due poeti sono accolti con parole strane da Pluto, custode del cerchio: <<Papè Satàn, papè Satàn aleppe!>>: gli studiosi hanno dato a queste parole varie interpretazioni, ma quale sia quella giusta non lo sappiamo, sembra che non sia un vero discorso, ma uno sfogo oppure l’inizio di un discorso minaccioso volto ad incutere paura, che Virgilio non gli lascia continuare. L’identificazione di questo demonio è molto problematica, poiché potrebbe trattarsi di Pluto, antico dio greco delle ricchezze, figlio di Iasio e di Demetra, nato forse a Creta; oppure di Plutone, figlio di Saturno (Cronos), dio classico degli Inferi e sposo di Proserpina: la seconda ipotesi sembra essere quella più probabile, perché Plutone, detto anche Dite, era, nel Medioevo, spesso rappresentato come figura diabolica ed era accostato alle ricchezze che sono custodite sottoterra.

La descrizione di Pluto è piuttosto generica e frettoloso è l’incontro dei due poeti con questo demonio: Dante lascia intuire che si tratta di un enorme mostro, in cui vi è una terrificante unione di fattezze umane e di sembianze animalesche, con prevalenza di questo secondo elemento. Il Poeta attira l’attenzione del lettore sull’effettiva futilità del demone: il quale prima è rapidamente accennato nel suo aspetto spaventevole e poi è colto nella sua reale impotenza di fronte al volere divino e nel susseguente improvviso accasciarsi, privo di ogni forza <<Quali dal vento le gonfiate vele / caggiono avvolte, poi che l’aber fiacca, / tal cadde a terra la fiera crudele>>. [26]

Il termine “daimon”si trova nella letteratura greca sia come sostantivo sia come verbo, poi fu accostato a cose ritenute malvagie dal Cristianesimo, quando tale religione voleva guadagnare terreno nei confronti del Paganesimo, quindi trasformò varie creature e antiche divinità in entità maligne: per l’Occidente un “demone” divenne sinonimo di malvagio, collegato al Diavolo e tentatori dell’uomo. Le prime demonologie si trovano già nella cultura mesopotamica, in cui il confine tra dei e demoni era molto confuso; in quella ebraica, che si può considerare la più antica, la Torah tratta ampiamente dei demoni menzionandone due tipi: Se’irim e Shedim, il primo riferendosi ad una specie di satiro, il secondo indicando falsi idoli e dei. Il Talmud, oltre dare consigli su come difendersi dai demoni, ne descrive alcuni come Asmodeus e Igrat, rispettivamente re e regina dei demoni, Samael, serpente della Bibbia, Shibbeta e Keteb Meriri, di natura più folcloristica. Durante il Medioevo i vari movimenti Kabbalistici contribuirono agli studi sulla demonologia.

Nell’Antico Testamento, i demoni non sono citati frequentemente, mentre nel Nuovo Testamento troviamo un inizio di gerarchia tra i demoni, poiché si legge che Belzebù è descritto come il principe dei demoni; nei Vangeli di Marco e Matteo, Gesù caccia gli spiriti maligni dai corpi degli indemoniati, nell’Apocalisse vengono citati questi spiriti infernali.

Nel 1272, Tommaso d’Aquino scrive il suo “Trattato sul male”, in cui parla della natura seducente del Diavolo e persiste sul “crimine di eresia della stregoneria”, poiché al tempo tale crimine era visto come un patto con Satana stesso, quindi la demonologia si sviluppa con l’approvazione delle autorità della Chiesa, per comprendere meglio la natura del male.[27]

Nel pensiero teologico cristiano medievale, la demonologia detiene un posto basilare, il tentatore dell’umanità, il torturatore dei dannati nell’Inferno: il Diavolo, per la gente del tempo, fu una presenza reale, ossessiva, la sua opera pareva manifestarsi sia nelle epidemie sia nelle catastrofi naturali e nell’epilessia dell’”indemoniato”, distruggendo psicologicamente e fisicamente la maggior parte degli uomini, determinando un aspetto fondamentale della religiosità. La vivace immaginazione popolare ispirava e condizionava, le descrizioni letterarie, le figurazioni artistiche ed anche le sacre rappresentazioni: in tanti luoghi, dipinti, sculture ricordavano al cristiano i temi della dannazione con esseri spaventosi pronti a martoriare gli sventurati, e ovviamente incidevano molto i ricordi di specifiche opere d’arte, <<…come il Giudizio giottesco della Cappella degli Scrovegni a Padova, nonché certi elementi di derivazione fantastico-popolare, non avranno mancato di agire anche su Dante: nelle cui asserzioni però, occorre,compare sempre, quanto meno sotteso, un rapporto preciso e diretto con il pensiero teologico scolastico>>.[28]  

Alle origini della demonologia cristiana c’è la ribellione dell’angelo prediletto da Dio, Lucifero, narrata nell’Apocalisse (Apoc. 12, 7-13.) e ignoto nel Vecchio Testamento, egli volle essere uguale al Creatore, peccando di orgoglio e di superbia: <<E così fu certo che ‘l primo superbo, / che fu la somma d’ogni creatura, / per non aspettar lume, cadde acerbo; >>, ossia Lucifero, la più alta delle creature, cadde imperfetto perché non volle aspettare di ricevere la sua perfezione dalla grazia di Dio;[29] ancora: <<Principio del cader fu il maledetto / superbir di colui che tu vedesti / da tutti i pesi del mondo costretto.>> :[30] Beatrice spiega a Dante come gli angeli furono creati per un atto d’amore da parte di Dio e gli dice che la causa della caduta di Lucifero, che aveva visto al centro della terra e su cui gravita il peso di tutto l’universo, fu la superbia. Furono numerosi gli angeli, appartenenti ai nove  ordini angelici, che si schierarono dalla parte di Lucifero, ma come lui furono cacciati con violenza dall’Empireo da quelli che erano rimasti fedeli, guidati dall’arcangelo Michele, tale puntualizzazione corrisponde alla “communis opinio” dei teologi, ad eccezione di Alberto Magno, il quale sostiene che al momento della ribellione gli ordini angelici non erano ancora stati costituiti. Come anche veniva presupposto che creature così perfette erano cadute in tale grave peccato perché non avevano ancora la completa conoscenza di Dio.[31] Dio aveva creato solo angeli buoni, una parte di essi peccò fuori dell’intenzione divina, ma non fuori della sua prescienza; il pensiero teologico rifiutava l’asserzione, considerata eretica, che Dio avesse dato origine ad angeli già malvagi, e tutto ciò, Dante lo scrive nel “Convivio”: <<Lo sole tutte le cose col suo calore vivifica, e se alcuna [se] ne corrompe, non è della ‘ntenzione della cagione, ma è accidentale effetto: così Iddio tutte le cose vivifica in bontade, e se alcuna n’è rea, non è della divina intenzione, ma conviene quello per accidente essere [nel]lo processo dello inteso effetto. Che se Iddio fece li angeli buoni e li rei, non fece l’uno e l’altro per intenzione, ma solamente li buoni. Seguitò poi fuori d’intenzione la malizia de’ rei, ma non sì fuori d’intenzione, che Dio non sapesse dinanzi in sé predire la loro malizia; ma tanta fu l’affezione a producere la creatura spirituale, che la prescienza d’alquanti che a malo fine doveano venire non dovea né potea Iddio da quella produzione rimuovere>>.[32]

Una terza specie di angeli viene posta da Dante nel vestibolo dell’Inferno, insieme alle anime dei vili: <<Mischiate sono a quel cattivo coro / de li angeli che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. / Caccianli i ciel per non esser men belli, / né lo profondo inferno li riceve, / ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli >>.[33] Anche se nessun passo della Sacra Scrittura parla di questi angeli, non si tratta di un’invenzione dantesca, poiché qualche notizia di questa terza specie di angeli si può trovare nelle leggende medievali, e il Poeta, non solo accoglie questa tradizione, ma la adegua alla condizione morale delle anime poste in quel luogo, particolarmente alla condanna del papa Celestino V, “colui che fece per viltade il gran rifiuto”.[34]

La caduta dall’Empireo sulla terra degli angeli ribelli era una considerazione accettata comunemente e il grande Fiorentino fa dire a Virgilio che Lucifero cadde dalla parte dell’emisfero australe: <<Da questa parte cadde giù dal cielo; / e la terra, che pria di qua si sporse, / per paura di lui fé del mar velo, / e venne a l’emisperio nostro; e forse / per fuggir lui qui loco voto / quella ch’appar di qua, e su ricorse>>.[35]

La teologia cristiana vide nella ribellione di Lucifero i principi del Bene e del Male e i loro opposti, costruendo su di essa una vasta struttura demonologica, in cui vennero aggiunti e potenziati i riferimenti biblici. Negli angeli caduti, fautori del Male, nacque una grande invidia verso l’uomo, il cui destino era quello di sostituirli presso Dio nell’Empireo, divenendo in tal modo “nemici dell’umana generazione”, ma Dio, cui è sottoposta ogni potenza, anche quella diabolica, si giovò di loro per mettere alla prova l’uomo sottoposto alle tentazioni ed è proprio in questa ottica che la teologia cristiana interpreta la tentazione del serpente e la cacciata dal Paradiso Terrestre di Adamo (Genesi), poiché l’uomo, se lo vuole, è in grado di resistere alle tentazioni del Maligno. I Diavoli, anche se confinati nell’Inferno, hanno la facoltà di aggirarsi tra gli uomini dimorando temporaneamente nell’aria, nella zona sublunare, per indurli in tentazioni di ogni genere fine al giorno del Giudizio, possono anche arrecare epidemie, provocare tempeste ed entrare nei corpi umani, procurando gravi malattie che costituiscono le caratteristiche degli indemoniati, come le paralisi, l’epilessia, il mutismo etc, di cui parlano spesso i Vangeli.

Nella lotta tra il Bene e il Male l’azione dei Diavoli viene contrastata dagli Angeli e questo contrasto diviene violento quando si tratta di prendere possesso dell’anima del defunto: <<Francesco venne poi, com’io fu’ morto, / per me; ma un de’ neri cherubini / li disse: “Non portar: non mi far torto>>.[36]Anche nel secondo balzo dell’Antipurgatorio, Dante incontra Buonconte da Montefeltro, morto nella battaglia di Campaldino, egli riuscì a fuggire, dopo essere stato ferito, nel luogo dove il fiume Archiano confluisce con l’Arno. Pentitosi in fin di vita era sorta una contesa tra l’Angelo che aveva presa la sua anima e il Diavolo che si era vendicato facendo strazio del corpo, trascinato e disperso nelle acque in piena: <<Io dirò vero e tu ‘l ridi tra’ vivi: / l’angel di Dio mi prese , e quel d’inferno / gradava: “O tu del ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lacrimetta che ‘l mi toglie; / ma io farò dell’altro altro governo!”>>.[37] Di queste lotte tra angeli e diavoli sono molto ricche l’arte figurativa, la produzione letteraria e l’agiografica, mentre il Poeta si allontana completamente dalla tradizione scolastica nel canto XXXIII dell’Inferno: Dante e Virgilio si trovano nella zona della Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti, condannati a restare in eterno supini nel ghiaccio con le lacrime ghiacciate negli occhi, uno di loro, frate Alberigo, noto per aver fatto uccidere a tradimento dei parenti invitati a pranzo, chiede di liberarlo da quel ghiaccio che gli impedisce uno sfogo al dolore con il pianto, in cambio rivela la sua identità e quella di un traditore genovese, Branca Doria, inoltre spiega anche come i due, ancora vivi col loro corpo, governato in realtà da un Diavolo, siano già all’Inferno. Dante in segno di disprezzo si rifiuta di alleviargli la pena.[38] Quello che Dante scrive risulta difficile da accettare teologicamente, anche se con molta audacia riesce a costruire questi fantasiosi versi da un passo del Vangelo di Giovanni.[39]

Dante, dunque, non ebbe nessuna pietà verso frate Alberigo che si era macchiato di una colpa così infame, ma non sempre il Poeta si comporta così con i dannati: spesso, nel suo cammino per l’Inferno, Dante è fortemente turbato alla vista degli atroci tormenti cui sono sottoposti i dannati, è colpito da grande pietà quando  sente Virgilio <<Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito / nomar le donne antiche e i cavalieri, / pietà mi giunse e fui quasi smarrito.>>,[40] sviene dopo avere ascoltato la storia di Francesca e Paolo, ha le lacrime agli occhi per la pena inflitta a Ciacco ed in altre occasioni, ma quando si commuove per lo strazio degli indovini, Virgilio lo redarguisce con terrificanti parole: <<Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi / del duro scoglio, sì che la mia scorta / mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi? / Qui vive la pietà quando è ben morta: / chi è più scellerato che colui / che al giudicio divin passion porta?>>[41], non si può avere pietà per i malvagi, qui siamo in presenza di peccatori per malizia e frode, che vollero prevenire il giudizio divino, quindi l’uomo ragionevole non deve sentire nessuna pietà. Tuttavia lo stesso Virgilio “smorto” per la commozione della pietà, che a Dante sembrerà effetto della paura, pronuncia queste parole: <<ed elli a me:”L’angoscia de le genti / che son qua giù, nel viso mi dipigne / quella pietà che tu per tema senti.>>.[42]

Da notare che il rapporto di Dante, avvertito da Virglio di non nutrire per queste anime sentimenti di pietà, con i condannati delle Malebolgie, che rappresentano un’umanità veramente degradata, è assente di una compartecipazione affettiva, ma è in forma distaccata, allontanandoli da sé, non si tratta certamente del rapporto appassionato che aveva caratterizzato gli incontri con le anime dei personaggi dell’alto Inferno.

La teologia del sentimento, come venne chiamata da Arturo Graf, nella maggior parte dei casi coincideva con quella popolare e ammetteva che le pene infernali potessero essere in qualche modo attenuate ai dannati, ipotesi negata dalla teologia raziocinate, dottrinale, scolastica: San Tommaso sostiene che nell’Inferno non ci può essere attenuazione della pena, dello stesso parere è San Bonaventura, anzi, sostiene che le punizioni inflitte da Dio sono minori delle colpe loro. San Bernardo di Chiaravalle cerca di dimostrare che i beati provano piacere nel vedere i tormenti a cui sono sottoposti i peccatori; perché quelle pene non riguardano loro, perché se tutti i malvagi verranno condannati, non potranno più preoccuparsi degli inganni diabolici e umani; perché la loro gloria sarà accresciuta dalla contrapposizione; infine perché quello che piace a Dio deve piacere ai giusti, quindi una moderazione delle pene elargite ai dannati, diminuirebbe la beatitudine degli eletti.[43]

Dante segue principalmente la teologia di San Tommaso, quindi non si discosta nemmeno per ciò che riguarda le pene infernali, anche se, come abbiamo visto, spesso dimostra una profonda pietà e talvolta qualche contraddizione con se stesso: parlando del vento impetuoso che travolge i lussuriosi, la chiama <<La bufera infernal, che mai non resta, / mena li spirti con la sua rapina: / voltando e percotendo li molesta. […] nulla speranza li conforta mai, / non che di posa, ma di minor pena.>>,[44] più avanti, nelle terzine in cui parla con Francesca da Polenta, fa dire alla donna: <<Di quel che udire e che parlar vi piace, / noi udiremo e parleremo a vui, / mentre che ‘i vento, come fa, ci tace.>>.[45] Nel VI canto, il Poeta dice: <<Io sono al terzo cerchio, de la piova / eterna, maledetta, fredda e greve:>>,[46] che fa urlare i dannati come cani, ma <<de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo>>,[47]quindi sembrerebbe che i dannati riescano a trovare un sollievo, anche se piccolo, al loro tormento. Nello stesso modo trovano un poco di sollievo i dannati che si trovano nell’ottavo cerchio, sono i barattieri che scontano il loro peccato immersi nella pece bollente, ma <<Come i dalfini, quando fanno segno / a’ marinar con l’arco de la schiena / che s’argomentin di campar lor legno, / talor così ad alleggiar la pena / mostrav’alcun de’ peccatori il dosso, / e nascondea in men che non balena. >>.[48] Così Dante ammette che i dannati possano avere qualche sollievo dalla loro pena e quelli che hanno commesso colpe meno gravi di coloro che si trovano nei cerchi più profondi, chiedono al Poeta di “vendicare” la loro memoria quando egli tornerà nel mondo dei vivi; San Tommaso sostiene che l’amore dei parenti e degli amici non attenua i tormenti dei dannati, anzi li acuisce, poiché se ne sentono indegni. Di opinione diversa sembra essere Dante, e un esempio lo troviamo con Cavalcante Cavalcanti, che pur dannato ama molto il figlio e non gli può certamente nuocere l’essere amato da lui; anche Brunetto Latini pare molto contento dell’affetto che il suo allievo gli dimostra.

E’ probabile che Dante faccia una distinzione tra i diavoli custodi dei cerchi infernali e quelli presenti sulla terra, nel XXI canto dell’Inferno troviamo: <<Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche / a quella terra che n’è ben fornita:>>,[49] mentre il Poeta arriva con la sua guida sul ponte della quinta bolgia, dove sono puniti nella pece bollente i barattieri, compare improvvisamente un diavolo con in spalla un dannato tenuto per i piedi e giunto sul ponte lo scaraventa nella pece dicendo agli altri diavoli che si tratta di un barattiere di Lucca, città che ne è ben fornita. I barattieri sono sorvegliati dai Malebranche, il più folto gruppo di diavoli infernali, dai nomi fortemente espressivi, che fanno intuire il libero sfogo della fantasia dantesca: Malacoda, Calcabrina, Alichino, Barbariccia, Ciriatto, Cagnazzo, Graffiacane, Farfarello, Libicocco, Rubicante, Scarmiglione. Il loro aspetto è sempre adeguato all’iconografia tradizionale, essi sono armati di uncini che strappano ai dannati le carni; anche nella bolgia dei seduttori troviamo una schiera di diavoli, come quelli delle raffigurazioni popolari: questi diavoli sono neri, hanno le corna, Ciriatto è “sannuto”, Cagnazzo mostra un muso non un volto, e sono tutti provvisti di artigli; il diavolo che butta nella pece dei barattieri “uno degli anziani di Santa Zita” è dipinto come le opere artistiche del Medioevo ce lo mostrano: <<Ahi, quanto egli era nell’aspetto fiero! / E quanto mi parea nell’atto acerbo, / con l’ali aperte e sovra i piè leggero! / L’omero suo, ch’era aguto e superbo, / cercava un peccator con ambo l’anche, / e quei teneva de’ piè ghermito il nerbo>>.[50] Dante fa una straordinaria pittura di questo demonio, prima coglie il fiero aspetto generale, poi l’atteggiamento sinistro crudele e feroce, le ali aperte che accrescano la rapidità dei movimenti. Le spalle sporgenti e angolose per la magrezza, proprio come venivano raffigurati i diavoli nelle antiche pitture; e con gli artigli teneva il peccatore per il tendine dei piedi.

I diavoli che spaventano tanto il Poeta nella quinta bolgia del cerchio ottavo, sono orribili, ma hanno anche del comico: fanno gesti infantili, volgari: <<Per l’argine sinistro volta dienno; / ma prima avea ciascun la lingua stretta / coi denti verso lor duca per cenno: / ed elli avea del cul fatto trombetta>>.[51]  

Fondandosi su varie espressioni dei Vangeli, i teologi sostenevano che i diavoli fossero tra loro distinti gerarchicamente e tutto ciò è evidentemente sviluppato nella prima cantica della Commedia: vicino alla gerarchia “militare” delle folte schiere di diavoli, appare una gerarchia “feudale”, in cui Lucifero è “Lo ‘mperador del doloroso regno”;[52] Proserpina è “la regina dell’etterno pianto”.[53] La perdita della beatitudine celeste ha operato nei diavoli un grande cambiamento, conservando della loro prima natura solo la competenza della scienza naturale e acquisita e la conoscenza del futuro, anche se nell’Inferno di Dante i diavoli non predicono il futuro, solo Caronte fa intendere che il Poeta è destinato al Purgatorio, tuttavia non godono della vera sapienza, ma sono incessantemente padroneggiati dall’invidia e dall’ira, quindi possono volere solo il male.[54]

Fin dalle origini, la demonologia riconosce incarnazioni diaboliche in bestie feroci, nocive all’uomo e in quelle particolarmente ripugnanti, nella “Commedia” mosconi, vespe e vermi torturano gli ignavi del vestibolo infernale;[55] questi animali diabolici sono il frutto delle credenze nate nei riti magici e poi entrate a far parte della demonologia popolare, anche le tre fiere che Dante incontra nel primo canto hanno natura demoniaca <<Questi la caccerà ogni villa, /fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno, / là onde invidia prima dipartilla>>.[56]  In seguito, ai suddetti animali venne affiancato il drago, mostro orribile e fantasioso, che oltre ad essere efferato come le altre bestie, aveva forme terrificanti, e divenne il simbolo del male per antonomasia. Le cattedrali europee romaniche e gotiche, nel Medioevo, si adornarono di questi mostri, anche l’agiografia ebbe una vasta fioritura, l’esempio più noto è quello di San Giorgio: la lotta di eroi tra il Bene e il Male. Dal punto di vista teologico l’assioma è che le forze del bene sono bellissime e quelle del male orrende, la rappresentazione antropomorfica del bene è l’angelo pensato come esaltazione e idealizzazione della figura umana: giovane, con un corpo perfetto, bellissimo, con ali bianche, attorniato da una luce radiosa, mentre il diavolo, di colore nero, è dotato di ali di pipistrello e fisicamente è un ibrido deformato di umano e di bestiale: con corna, grugno, coda, zoccoli, etc.

Se la demonologia dantesca è derivata dalle idee della teologia del tempo, ad eccezione di vari concetti sviluppati da Dante in modo molto personale, indipendenti da quella tradizione sono invece i numerosi personaggi mitologici presenti nell’Inferno e trasformati in demoni, come Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegiàs, le Furie, Medusa, Proserpina, il Minotauro i Centauri, le Arpie, Gerione, Caco e i Giganti. <<La simbiosi di demonologia cristiana e mitologia pagana operata da Dante viene di consueto spiegata come frutto d’imitazione letteraria della poesia classica, e pertanto la contaminazione è ricondotta al cosidetto “pre-umanesimo” dantesco. E’ questa, evidentemente, la soluzione più semplice e la più rispondente alla cultura e alla sensibilità moderne, e perciò la più chiara e immediatamente accettabile per tutti>>.[57]

Forse questa non è la spiegazione giusta, ma solo semplicistica, precisa Giorgio Padoan, esperto dantista, addirittura la definisce inesatta e fuorviante dal reale pensiero di Dante: sembra poco probabile che un cristiano scrupoloso come lui e un attento scrittore scolastico, abbia mischiato la demonologia cristiana con invenzioni poetiche pagane per motivi letterari, oltretutto non dimentichiamo che la questione demologica era, per i tempi in cui visse il Poeta, considerevole e seria. Comunque sia insieme con Satana o Belzebub o Lucifero troviamo nel doloroso regno i demoni mitologici, che sono più numerosi di quelli biblici ed hanno cariche molto più importanti, infatti i demoni biblici (ad eccezione dei Centauri e delle Arpie, che sono ripresi dalla mitologia) sono incaricati delegati di tormentare varie classi di dannati, mentre Caronte traghetta le anime, Minosse ha l’importante compito di giudice, Cerbero è il guardiano del terzo cerchio e Plutone del quarto, etc. Dante fu più volte criticato per avere mischiato il mito pagano con la credenza cristiana, e considerare questo come un anticipo di certe tendenze e usanze dell’Umanesimo non è completamente sbagliato, poiché echi e riflessi dei miti pagani si trovano nelle descrizioni dell’Inferno cristiano fin dai primi secoli della Chiesa, la quale non negò l’esistenza degli dei pagani, ma si limitò a negare la divinità e li trasformò in demoni, divenendo ospiti dell’Inferno, sudditi e aiutanti di Satana. Dio, gli angeli e i demoni erano esistiti da sempre e da sempre avevano partecipato (preso parte) agli avvenimenti umani di tutti i popoli, ad eccezione degli Ebrei, i quali furono in grado di dare una spiegazione ai fatti miracolosi e soprannaturali. I Padri della Chiesa sostennero che i pagani, divinizzando anche uomini di particolare valore e che per volere celeste avevano compiuto opere straordinarie (per es. Ercole), ma accanto al Bene agiscono sempre anche le forze del Male, che si manifestarono ai pagani con personificazioni e interventi magici, ossia per suggestione diabolica, vennero adorati anche entità di natura demoniaca. Queste divinità pagane, frutto della fantasia, rispecchiavano una realtà interpretata erroneamente, allora si cercarono gli equivalenti nella Bibbia e dove non era possibile non mancò il lavoro di fantasia, ed è proprio in questa prospettiva che va analizzata e recepita la mitologia pagana nell’Inferno di Dante, il quale parte da una certezza: la discesa agli Inferi di Enea, descritta in seguito da Virgilio, poeta e storico dell’Impero. Secondo l’Alighieri, Enea arrivò fino alla soglia del Tartaro, ossia fino alle mura della città di Dite, e vide molti demoni, quindi anche Dante, che accoglie pienamente l’opera virgiliana, incontra demoni unicamente mitologici, poiché i diavoli della tradizione biblico-cristiana si trovano tutti dentro la città di Dite, dove Enea non era entrato.[58]

 <<Si capisce che una tale costruzione risultasse inaccettabile ai teologi, derivando da una lettura dell’Eneide al servizio di un’ardita prospettiva politico-religiosa (l’Impero romano voluto dalla Provvidenza, ecc.)che fu non ultimo motivo della condanna della Monarchia. Ben presto la cultura e la mentalità umanistiche lessero l’Eneide  con occhi ben altrimenti storicistici, vedendovi non un libro escatologico e storico, ma esclusivamente un’opera d’invenzione poetica; e allora questa parte della costruzione dantesca, specie per la parte ispirata alla mitologia pagana, non s’intese più il profondo impegno dottrinale e la serietà dell’impostazione. La nuova cultura suggerì una spiegazione umanistica, che indicava in quelle riprese l’imitazione del letterato e la fantasia del poeta; la quale interpretazione, tra l’altro, offriva il non piccolo vantaggio di annullare le pesanti riserve dei teologi; e s’impose con tutti i crismi dell’attendibilità, tant’è che vige ancor oggi>>.[59]

Dante è ancora sconvolto dalla paura per l’incontro con i diavoli sotto le mura della città di Dite, quando, giunto con la sua guida all’ingresso della città, giungono improvvisamente le pericolose Erinni, le Furie dai capelli di serpente e il corpo di donna, le quali gridano e si lacerano il petto, minacciando il Poeta di farlo pietrificare da Medusa. Le tre Furie sono Megera, Tesifone e Aletto, figlie d’Acheronte e della Notte, destinate al servizio di Proserpina, regina dell’Inferno, come seminatrici di discordia e tormentatrici dei dannati, esse appaiono in cima alla torre: Megera a sinistra, Tesifone in mazzo e Aletto a destra; Dante molto spaventato si stringe alla sua guida e alla minaccia delle tre Erinni, Virgilio dice gli dice di non voltarsi indietro e di chiudere gli occhi per non vedere il capo di Medusa, la quale, secondo la mitologia classica, fu una delle tre Gorgoni, figlie di Forco, dio marino, uccisa da Perseo che le mozzò la testa, che aveva la potenza di pietrificare chiunque la guardasse, aiutandosi con lo scudo come fosse uno specchio e dalla testa tagliata uscì il cavallo alato Pegaso; Medusa è collocata da Dante tra i demoni a guardia della città di Dite, non compare direttamente ma viene evocata dalle tre Furie per trasformare il Poeta in sasso e impedirgli il passaggio. Anche Proserpina (Persefone), personaggio della mitologia classica, divenne moglie di Plutone in seguito al suo rapimento e poi collegata al culto dell’Oltretomba come regina degli Inferi, viene citata indirettamente, dicendo che le Erinni sono le ancelle della “regina dell’etterno pianto”.[60]   

Dante e Virgilio stanno per scendere verso il primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro il prossimo (tiranni, omicidi, ladri), immersi nel Flegetonte, fiume di sangue bollente e colpiti dalle frecce dei Centauri, quando in cima ad uno scoscendimento vedono il Minotauro, il quale è posto da Dante a guardia di questo luogo. La leggenda di questo personaggio è tra le più conosciute della mitologia classica: nato dalla mostruosa unione di Pasife, moglie del re di Creta, con un  bellissimo toro bianco di cui si era innamorata ed aveva fatto costruire una finta vacca nella quale nascondersi per avere rapporti sessuali con il toro. Il mostro, relegato nel labirinto costruito da Dedalo, fu ucciso da Teseo aiutato da Arianna, sorella del Minotauro, mentre portava il tributo annuo di sette giovani e sette fanciulle. Il Minotauro, spesso accostato al peccato di lussuria a causa delle sue origini, fu per Dante simbolo di violenza per la sua doppia natura umana e bestiale. Alla vista dei due poeti, il mostro si infuria, ma viene placato da Virgilio, il quale gli dice che nessuno dei due è Teseo e che Dante non è istruito da Arianna sua sorella, ma sono per vedere le pene dei dannati, tali parole spingono al parossismo la furia bestiale del mostro, così accecato dal furore i poeti riescono a passare indisturbati. I Centauri, creature mitologiche, avevano sembianze umane fino alla cintola e il resto del corpo equino. Essi sono rappresentati sia come cacciatori armati di arco e frecce sia come esseri dell’Aldilà: Virgilio, nel Vi libro dell’”Eneide”, li colloca all’ingresso dell’Ade, il loro compito è quello di colpire con le frecce chiunque dei dannati tenti di uscire dal fiume. In particolare vengono nominati dal Poeta tre di loro: Chirone, che sembra essere il capo della schiera, figlio di Crono e Filira, nella tradizione classica è ricordato per la sua grande saggezza e come maestro di Achille; Nesso, che innamoratosi di Deianira tentò di rapirla, ma fu ucciso da Ercole e Folo, che alle nozze di Piritoo e Ippodamia, si ubriacò e tentò di rapire la sposa, scatenando la guerra con i Lapiti. In seguito alle parole che Virgilio scambia con Chirone, i due poeti saranno presi in groppa da Nesso per deporli sull’altra sponda del Flegetonte. Dante associa ai Centauri anche Caco e lo colloca nell’VIII cerchio della VII Bolgia, dove sono puniti i ladri, ma non specifica se sia un peccatore o un demonio col compito di tormentare i dannati: <<Lo mio maestro disse:”Questi è Caco, / che sotto il sasso di monte Aventino / di sangue fece spesse volte laco. / Non va co’ suoi fratei per un cammino, / per lo furto che frodo lente fece / del grande armento ch’elli ebbe a vicino; / onde cessar le sue opere bieche / sotto la mazza d’Ercule, che forse / li ne diè cento, e non sentì le diece”>>.[61] La figura di Caco fa parte della mitologia classica, figlio di Vulcano, fu descritto da vari poeti latini, tra cui Virgilio, che nell’Eneide (Aen., VIII, 184 e segg.) fa raccontare la sua storia da Evandro a Enea, lo descrive come un gigante che emette fiamme, come un ladro di bestiame e un assassino: Caco ruba i capi più belli della mandria di Ercole, il quale l’aveva sottratta al re di Spagna e si era fermato nell’Aventino, per far perdere le tracce che avrebbero rivelato il luogo dove le aveva nascosti, Caco trascina le bestie per la coda, ma dalla caverna, i capi rubati sentendo passare il resto della mandria cominciarono a muggire, rivelando il luogo dove erano nascosti; Caco cercò la fuga per sfuggire all’ira di Ercole, che lo raggiunse e lo uccise. Dante invece lo raffigura come un Centauro che porta sulla groppa numerose serpenti e un drago ad ali spiegate dietro la schiena umana, che vomita fiamme contro chiunque gli si presenti. Virgilio spiega che Caco non è insieme ai suoi fratelli a causa del furto fraudolento che commise. Nella scena dantesca i Centauri rappresentano la cieca cupidigia e l’ira folle, attraverso cui si manifesta la bestialità umana.

I due poeti si addentrano, nel canto XIII, in una strana selva, che si scoprirà essere la foresta dei suicidi, è abitata dalle Arpie, mostri mitologici col corpo di uccello e la testa di donna che emettono strani versi: <<Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, / che cacciar dalle Strofadi i troiani / con tristo annuncio di futuro danno. / Ali hanno late e colli e visi umani, / piè con artigli e pennuto il gran ventre; / fanno lamenti in su li alberi strani>>.[62] Esse sono custodi del secondo girone del  VII cerchio, nidificano tra gli alberi dove sono prigionieri le anime dei suicidi, si cibano delle loro foglie, causando grandi dolori ai dannati. Nella mitologia classica, le Arpie sono figlie di Taumante ed Elettra e simboleggiano la violenza e la furia delle bufere, sono menzionate in varie opere della letteratura greco-latina, ma Dante fa un riferimento esplicito alla fonte da lui utilizzata per la sua rappresentazione di questi mostri, nell’”eneide” (Aen., III, 225 e segg.) Virgilio sostiene che esse abitano le isole Strofadi da cui fecero fuggire i Troiani preannunciando loro una terribile quanto ingannevole carestia. Questo canto si apre con l’immagine di un bosco inaccessibile: nella tradizione fiabesca e letteraria il bosco è un luogo designato alle pratiche d’iniziazione e alle metamorfosi magiche. Questo bosco dantesco sembra riprendere questo tratto distintivo magico-iniziatica: il Poeta pellegrino effettuerà un’altra tappa del suo doloroso viaggio iniziatico ai misteri dell’Oltretomba, attraverso la conoscenza del peccato in tutte le sue perverse rivelazioni, incluso la raccapricciante trasformazione in alberi, cui sono condannati i suicidi, che per Dante sono colpevoli di un peccato mostruoso, poiché si sono privati del più grande dono divino: la vita, quindi anche il luogo della loro pena ci riporta continuamente all’idea di anormalità e disumanità proprie del loro peccato.

Dante e Virgilio, giunti alla cascata assordante del Flegetonte, vedono una mostruosa figura che sale dal burrone come se nuotasse nell’aria, si tratta di Gerione, mostro demoniaco assunto anche questo dalla mitologia classica, cui Dante e Virgilio devono affidarsi per superare il dislivello. <<La faccia sua era faccia d’uom giusto, / tanto benigna avea di fuor la pelle, / e d’un serpente tutto l’altro fusto; / due branche avea pilose in sin l’ascelle; / lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste / dipinti avea di nodi e di rotelle. / Con più color, sommesse e sopraposte / non fer mai drappi Tartari né Turchi, / ne fuor tai tele per Aragne imposte. / Come tal volta stanno a riva i burchi, / che parte sono in acqua e parte in terra, / e come là tra li Tedeschi lurchi / lo bìvero s’assetta a far sua guerra, / così la fiera pessima si stava / su l’orlo che, di pietra, il sabbion serra. / Nel vano tutta sua coda guizzava, / torcendo in sù la venenosa forca / ch’a guisa di scarpion la punta armava>>.[63]  Gerione, figlio di Crisaore e di Calliroe, viene descritto da Dante come un mostro con la faccia di uomo giusto, il busto di serpente, due zampe pelose fino alle ascelle e artigliate, il dorso e il petto dipinti con nodi e rotelle simili ai drappi persiani, una coda biforcuta con un pungiglione avvelenato come quello di uno scorpione. E’ l’immagine della frode, ossia la rappresentazione del peccato punito nell’VIII cerchio, di cui il mostro è custode. Nella mitologia classica, Gerione era il re di tre isole iberiche e fu ucciso da Ercole che gli sottrasse una mandria molto bella; Dante arricchisce questa figura con particolari fantastici, la coda biforcuta e velenosa sta a significare che chi imbroglia è sempre pronto a colpire le sue vittime, i nodi e le rotelle che il mostro ha sulla schiena e sul petto simboleggiano, probabilmente, gli intrecci e i maneggi dell’inganno.[64]

I due poeti stanno superando l’argine che li condurrà al IX cerchio, quando Dante crede di scorgere, nella luce del crepuscolo, una città circondata da alte torri, ma Virgilio gli dice che l’aria oscura dell’Inferno gli fa vedere le cose in modo errato: <<Poi caramente mi prese per mano, / e disse: “Pria che noi siam più avanti, / acciò che ‘l fatto men ti paia strano, / sappi che non son torri, ma giganti, / e son nel pozzo intorno da la ripa / da l’umbilicoin giuso tutti quanti>>.[65] I Giganti, nella mitologia classica, erano figli di Gea e Urano e spesso erano raffigurati anguipedi, essi si ribellarono a Giove, con un folle e presuntuoso tentativo di dare la scalata al cielo, ma furono tutti uccisi in Tessaglia nella battaglia di Flegra. Dante li colloca intorno al pozzo che separa l’VIII dal IX cerchio dell’Inferno, non come demoni, ma, essendosi ribellati a Dio, associati al peccato di tradimento.

Nella Bibbia vengono menzionati soprattutto due giganti, Golia, ucciso da David e Nembrod, capo dei discendenti di Cam e primo re di Babilonia, fu secondo la tradizione patristica il promotore della costruzione della torre di Babele, suscitando lo sdegno di Dio e la confusione delle lingue come conseguenza; così Nembrod, oltre la pena inflitta agli altri giganti, è condannato alla confusione mentale di non essere compreso e di non comprendere; mentre nella Genesi è ricordato solo come un grande cacciatore,[66] Dante lo descrive di dimensioni smisurate: <<La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di san Pietro a Roma>>,[67] facendo riferimento alla pigna bronzea, che un tempo aveva forse adornato il Mausoleo di Adriano, poi collocata davanti alla Basilica di San Pietro. Le parole che Nembrod rivolge ai due pellegrini sono incomprensibili e Virgilio lo esorta a sfogare la sua ira con il corno che porta al collo, poi invita Dante a non parlare inutilmente con lui, dal momento che il gigante non capisce nessun linguaggio e il suo è sconosciuto agli altri. A non molta distanza trovano un altro Gigante, si tratta di Efialte, figlio di Nettuno e di Ifimedìa, il quale, insieme col fratello Oto, fu tra i più audaci nella battaglia contro Giove ed entrambi furono uccisi da Apollo, proprio perché avevano osato sfidare gli Dei, cercando di raggiungere l’Olimpo sovrapponendo i due monti Ossa e Pelio. Egli è descritto da Dante ancora più feroce, più pericoloso e più grande del primo, ha le braccia strettamente legate alla schiena con una catena che si avvolge al collo, in modo da non potersi muovere, in quanto dotato di una forza sovrumana, Virgilio passandogli accanto dice che Briareo era un gigante più forte di lui, udendo queste parole Efialte si scuote provocando un fortissimo terremoto che terrorizza il Poeta toscano, che chiede alla sua guida di poter vedere Briareo, Virgilio gli dice che si trova più distante ed è legato come Efialte, ma ha il volto più feroce. I due pellegrini raggiungono, infine Anteo, figlio di Poseidone e della Madre Terra, viveva in una grotta presso Zama, dove costringeva gli stranieri a combattere con lui e poi li uccideva, conservando i crani delle sue vittime per fare il tetto del tempio di Poseidone. Non partecipò alla battaglia contro Giove, perché vissuto dopo gli altri Giganti; si nutriva di carne di leone e il contatto con la terra gli conservava e aumentava la sua forza colossale. Fu ucciso da Ercole, che, dopo una lunga lotta, riuscì a sollevarlo da terra, diminuendo la sua forza finché Anteo morì. Nell’Inferno dantesco questo Gigante non è incatenato, a differenza dei suoi simili, in quanto non prese parte alla suddetta battaglia e non fece atto di superbia. Virgilio prega il Gigante di deporre lui e il suo discepolo in fondo al pozzo nel lago ghiacciato di Cocito, e Dante tornando sulla terra gli darà fama nel mondo con i suoi versi, ma certamente non in modo lusinghiero, quindi il discorso elaborato di Virgilio è da intendersi come antifrastico e la “captatio benevolentiae” è in senso ironico per suscitare la vanità del Gigante, che, convinto, depone delicatamente i due poeti per poi sollevarsi di nuovo come l’albero di una nave. I due Giganti Tizio e Tifeo sono solo menzionati.[68]

Le figure dei Giganti, soli protagonisti di tutto il canto XXXI, anticipano e preparano il Poeta all’incontro con Lucifero: i Giganti sono conficcati nella roccia ai margini del pozzo, come il re dell’Inferno lo sarà nel centro di Cocito, i Giganti si erano ribellati agli dei con il presuntuoso tentativo di dare la scalata al cielo; analogamente l’angelo più bello e più benvoluto da Dio si era ribellato perché voleva essere uguale a Lui; i Giganti non sembrano dotati d’intelletto, ma sono descritti come esseri enormi privi di razionalità, come Lucifero verrà descritto con peculiarità bestiali e come un enorme mostro peloso che divora le anime di Giuda, Bruto e Cassio. Dante segue la tradizione dei Padri della Chiesa, i quali definivano i Giganti come esseri mostruosi, di dimensioni eccezionali e realmente esistiti, ma non demoniaci. 

 Nel XXXIV canto, i due poeti arrivano al cospetto de “Lo ‘imperador del doloroso regno” e celeberrima è la rappresentazione dantesca di Lucifero, al centro della terra, conficcato nel ghiaccio di Cocito, con tre facce mostruose di colore diverso, simbolo della trinità infernale, contrapposta alla Trinità divina che è amore, potenza e sapienza infiniti: la faccia anteriore è vermiglia, simbolo dell’ira, quella di destra è giallastra, simbolo dell’invidia, quella di sinistra è nera, simbolo dell’odio, secondo le credenze del tempo, i principali moventi che spingono al tradimento: in ciascuna delle quali egli maciulla un peccatore, ma quali peccatori: i traditori di Cristo e di Cesare! Giuda, il tesoriere degli Apostoli, non è chiaro per quale motivo abbia pattuito la cattura di Gesù e la sua consegna ai Romani, per la somma di trenta denari d’argento. Dante lo considera soprattutto simbolo dell’avarizia e del tradimento, è collocato nella zona più profonda dell’Inferno ed è il peccatore che viene punito con la pena più grande. Bruto e Cassio,[69] i quali furono considerati dai Romani fedeli alla tradizione repubblicana gli uccisori del tiranno, ma durante il Medioevo furono ritenuti traditori della maestà imperiale nella figura di Cesare, reputato l’effettivo instauratore dell’Impero. Il Poeta considera pienamente appropriata la loro condanna, poiché la colpa dei tre dannati è per lui e per l’uomo medievale considerata una delle più gravi, perché commessa ai danni delle due supreme potestà su cui poggia il fondamento di un’ordinata vita terrena e della beatitudine di quella celeste. La loro collocazione non può essere che nelle fauci del male, da dove cola una sanguinosa bava a completamento del nauseante spettacolo.

Sotto ciascuna faccia di Lucifero spuntano due ali enormi, non pennute come quelle degli angeli o degli uccelli più nobili, ma simili a quelle dei pipistrelli, ricoperte di ripugnante peluria, che, agitandole continuamente, provocano un vento talmente freddo che fa gelare tutto Cocito. La rappresentazione di Lucifero non poteva essere più terrificante e insieme grottesca. Le arti figurative rappresentarono spesso, anche prima del periodo di Dante, i diavoli con ali di pipistrello e gli angeli con le ali pennute, il Poeta seguì nella raffigurazione di Lucifero la tradizione artistica del suo tempo. La descrizione insiste sulle dimensioni smisurate, paragonando la figura di Lucifero ai Giganti incontrati poco prima dai due poeti, che sembravano dei lillipuziani al suo confronto, e sottolineando la sua mostruosità in antitesi con la bellezza sfolgorante che lo distingueva (caratterizzava) prima della ribellione.  

Molto interessante è questo commento su Satana del Petronio, che riportiamo integralmente: << Questi, già Lucifero, scacciato dai cieli per la sua superbia, è precipitato sulla terra, e, scavatasi una sorte di voragine, nata dal ritrarsi del suolo dinanzi a lui, è rimasto confitto al centro del globo, e quindi dell’universo, simbolo del male e antitesi di Dio, mentre la terra che lo aveva fuggito è emersa agli antipodi di Gerusalemme formando la montagna del Purgatorio. E’ facile notare la saldezza concettuale e fantastica di questa struttura, e la forte unità con la quale Dante seppe legare tutti gli elementi della concezione biblica della storia dell’uomo: Dio, sommo bene, e Satana, sommo male, sono contrapposti antiteticamente, anche dal punto di vista della loro collocazione nel mondo; la caduta di Lucifero – che avrebbe dato luogo a tutta la storia umana futura, con la seduzione di Eva, la colpa dell’uomo, il riscatto operato da Cristo – spalanca la voragine infernale in cui è punito chi non ha saputo respingere la seduzione del male, ma spinge verso il cielo quella montagna del Purgatorio che sarà strumento di purgazione e di redenzione. Così i regni dell’oltretomba, quali li aveva concepiti e immaginati il cristianesimo, vengono collegati strettamente alla storia dell’uomo e alla storia sovrumana della creazione e poi della ribellione degli angeli. Egualmente notevole è, in questa concezione, il reciso antropocentrismo, in armonia, anche qui, con la visione della vita propria del medioevo: l’uomo è al centro della creazione e della storia; Dio lo creato, destinandolo alla felicità eterna, nel momento stesso in cui creava il mondo; esule sulla terra per la caduta di Adamo, egli è la posta di un conflitto continuo tra male e bene; intorno a lui e alla terra che abita ruotano le sfere celesti; per lui Dio si è incarnato e ha sofferto la Passione.[70]

Nella Bibbia non sono presenti riferimenti diretti e dettagliati della figura di Lucifero, né della sua cacciata dal Paradiso.[71] Il Nuovo Testamento ha ereditato vari concetti di Diavolo: è un angelo caduto, è il capo dell’esercito demoniaco, è il principe del male, è il non-essere, la cui funzione è quella di nemico principale di Cristo. Restava però il problema della teodicea: il Signore buono crea un mondo buono, deteriorato dal Diavolo e dai demoni, che arrecano ogni sorta di mali, ma anche dal libero arbitrio dell’umanità, che rappresentata da Adamo ed Eva, sceglie di fare il male anziché il bene, di conseguenza tramite l’azione di Satana, supportato dai demoni e dagli esseri umani caduti nel peccato, il mondo si è trovato sotto la dominazione del Diavolo, quindi il male esistente nel mondo non è dovuto al Dio buono, ma alle suddette creature.[72]

La dottrina del peccato originale è sconosciuta nel Vecchio Testamento, rara nella letteratura rabbinica, troviamo degli accenni nella letteratura apocalittica ed anche nel Nuovo Testamento non viene sviluppata, ma i Vangeli menzionano il peccato originale e riferimenti indiretti si possono trovare nel “Corpus Paolino”,[73] mentre nella “Lettera ai Romani” si parla del peccato originale: Paolo spiega che attraverso il peccato di Adamo, il peccato e la morte sono entrati nel mondo,[74] non viene accennato al ruolo di Satana, anche se possiamo dedurre implicitamente che è stato lui che ha indotto Adamo al peccato e ciò implicherebbe che il peccato di Satana sarebbe precedente a quello di Adamo, mentre la prima tradizione cristiana sosteneva prima la caduta di Adamo e poi quella di Satana. Il Diavolo è il signore del mondo degli uomini, perché può tentare chiunque, in quanto signore dei peccatori, è il principe di una legione di angeli caduti e dei demoni, ma la differenza tra i due generi è molto vaga nel Nuovo Testamento, come lo era stata nel tardo giudaismo. Nell’uso neotestamentario, la distinzione tra il Diavolo e i demoni è chiara nei termini “diabolos” e “daimonion”, mentre nella successiva tradizione cristiana questi termini perdono la loro efficacia e i demoni sono esseri sotto il comando di Satana che lo aiutano a ostacolare il Regno di Dio, per mezzo della possessione; il Diavolo, nel Nuovo Testamento è un tentatore, un bugiardo, un assassino, è causa di morte, della stregoneria, e dell’idolatria, danneggia gli uomini e ostacola la predicazione del Regno di Dio istigandoli al peccato e possedendoli spiritualmente.

Nella tradizione cristiana del tempo di Dante (e di Milton), il Diavolo è il re dell’Inferno dove punisce i peccatori e soffre egli stesso, ma nessuna di queste azioni vengono citate nel Nuovo Testamento, dove i riferimenti sono rari e poco chiari e l’Inferno viene indicato con i termini “Hades” e “Geenna”: il primo si trova sottoterra ed è il luogo dove dimorano le anime in attesa di ricongiungersi ai loro corpi con la Resurrezione; mentre il secondo è il sito del fuoco eterno, dove sono puniti i malvagi, ma non viene indicata la sua ubicazione, ma che cosa accadrà e quando sarà la fine del mondo? Il problema dell’Inferno è da inquadrare in quello più vasto dell’escatologia: la fine del mondo e la sconfitta di Satana sembrerebbero simultanee, ma il Nuovo Testamento parla in maniera oscura sia sui tempi sia sui modi.[75]

Numerose e varie interpretazioni sono state date alla caduta di Lucifero e degli angeli suoi seguaci, la cronologia; la natura della caduta; la geografia della caduta, e proprio l’incoerenza e l’ambiguità di questi racconti hanno consentito al pensiero cristiano di far nascere una vasta varietà di leggende circa la sconfitta del Diavolo, ognuna delle quali coerenti con l’insegnamento biblico da cui derivava. Altro tema escatologico è quello dell’Anticristo, a cui vengono associate le bestie e il drago ( Apocalisse, vv. 11-19), che si può identificare con il Diavolo e le bestie con i sui servi, mentre la bestia che viene dal mare simboleggia il potere di Roma. L’Anticristo e le due bestie sono aiutanti di Satana nella sua lotta contro Cristo alla fine del mondo, ossia l’antico eone, la forza del male che ostacola e impedisce il regno di Dio, che vengono gettati in uno stagno di fuoco e tormentati continuamente col Diavolo. ( Apocalisse vv. 19-20; 20,10) Nella tradizione iconografica il Diavolo è rappresentato con le corna, forse perché veniva associato con gli animali selvatici provvisti di corna, con Pan e i satiri, con la fertilità e la luna crescente, comunque sia queste immagini si associarono nel Cristianesimo primitivo e misero sulla testa del Diavolo le corna. Se i demoni del Nuovo Testamento si collegano con molti animali schifosi, Satana si connette al leone  e al serpente, anche se il primo non divenne importante per la tradizione iconografica, perché associato anche a Cristo e a Marco l’evangelista; il serpente, tentatore di Eva, sarebbe l’identificazione di Satana, anche se non è mai troppo evidenziata nel Nuovo Testamento, ma caldeggiata dalla tradizione cristiana posteriore, anche le ali, non menzionate nel Nuovo Testamento, ma spesso associate al Diavolo, che regna nell’aria, fanno parte della sua figura, sempre nella tradizione posteriore è rappresentato dai colori rosso e nero: solo nell’Apocalisse il rosso è considerato un colore negativo, è il colore del drago, della prostituta e della bestia che cavalca. (Ap. 12,3) Il nero deriva dal suo ruolo di signore delle tenebre e dalla sua associazione agli Inferi, dove si trova prigioniero dopo la caduta, tuttavia nel Nuovo Testamento Satana non viene mai rappresentato concretamente, perché esso è uno spirito, non un corpo, pur avendo la facoltà di cambiare aspetto per i suoi fini e trasformarsi anche in angelo di luce.[76]  

Dobbiamo considerare che il senso della paura fu già nell’uomo primitivo, che si trovò a combattere contro tanti pericoli e avversità naturali, ma l’uomo scoprì il valore del magico e del sacro, fondendoli spesso tra loro e arrivando così al culto di vari oggetti e di animali. D’altra parte l’uomo arcaico si era reso perfettamente conto della propria finitezza e la scoperta di questi due valori fu fondamentale per la propria vita, in quanto gli dette la possibilità di proiettarsi in ciò che l’uomo non avrebbe mai raggiunto materialmente: l’infinità. Aspirante alla salvezza si rivolse, quindi, per l’immediato presente alla magia e a quella per il futuro al sacro.[77]

Satana onnipresente come Dio: questa è la realtà essenziale che sta alla base dell’intera credenza. Un manicheismo semplicista, ma molto efficace fa della vita terrena una battaglia perpetua tra il Diavolo e le creature. Il Maligno e il suo esercito infernale possono fare il male entro limiti tracciati da Dio, ma si tratta di limiti estesi, perché approfittano delle debolezze degli uomini.[78]

Alcuni testi medioevale distinguono Satana da Lucifero, la tradizione afferma, invece, la loro unità, in quanto usa indistintamente i due termini per indicare un solo personaggio, il Diavolo, personificazione del male. Il nome di Lucifero nasce dall’associazione del principe di Isaia,[79] che precipita dal cielo a causa del suo orgoglio, con il cherubino di Ezechiele, la cui condotta era sempre stata perfetta fin dalla sua creazione, fino a quando in lui ci fu l’iniquità.[80] Queste due figure si uniscono in quella di Satana; quando avviene tale fusione non si sa, ma Origene, nel III secolo, usa questi nomi riferendoli allo stesso personaggio.[81]

            La credenza al bene e al male, questa dualità costituisce l’idea fondamentale delle religioni orientali ed è all’origine delle più antiche cerimonie rituali. Questa convinzione compare, all’inizio dell’era cristiana, nell’idea dualistica dei manichei, dando luogo ad una nuova concezione: quella del Diavolo, nemico di Dio e capace di dare ai suoi veneratori una forza in grado di sconvolgere l’armonia nell’opera divina, che originariamente comportava solo cose buone. L’esistenza del Diavolo fu proclamata negli atti del IV Concilio lateranense del 1215, diffondendo a poco a poco una forma crescente di paura per le terribili manifestazioni di un’entità così potente.[82]

Il viaggio oltremondano che Dante dice di avere realizzato nasce da un profondo bisogno di rigenerazione morale e spirituale, non solo a livello personale, ma per tutta l’umanità, travagliata da un clima storico-politico e religioso di crisi istituzionale: la decadenza dell’Impero, la supremazia del potere temporale del Papato su quello spirituale, con un’ulteriore mondanizzazione della Chiesa, la cui conseguenza era l’incremento della simonia, del nepotismo e della corruzione. La Firenze di Dante, con il suo sviluppo economico-commerciale, costituiva l’ambiente ideale di dissolutezza morale, che dilaga nella società del tempo e che vede l’abbandono dei vecchi valori cavallereschi per dare spazio alla bramosia di ricchezze e alle conseguenti aspre lotte interne della città, in cui il Poeta resterà coinvolto e che pagherà con l’esilio la falsa accusa di baratteria. Il messaggio profetico dell’Alighieri, nel suo capolavoro, annuncia la venuta di un Veltro,[83] ossia di un riformatore spirituale che avrebbe riportato i popoli sulla retta via, egli stesso si sente investito di una missione profetica e divina volta alla rigenerazione spirituale dell’umanità, che gli sarà confermata dall’avo Cacciaguida in Paradiso.[84]Dante non è più l’”exul immeritus”, come si firmava nella maggior parte delle sue lettere, ma un profeta latore di un messaggio universale, che, dopo Enea, propugnatore di Roma imperiale, e di San Paolo, risanatore della fede, si pone come riformatore politico e religioso.


[1] S. A. Barbi, Dante Alighieri, La Divina Commedia, Commento di Tommaso Casini, Firenze1959,Inferno, Canto III, vv. 82-111. I passi della prima Cantica riportati nel testo sono ripresi da questa edizione della Divina Commedia.

[2]Si tratta del fenomeno dell’ossitonizzazione, cioè rendere una parola ossitona facendo cadere l’accento tonico sulla sillaba finale.

[3] Cfr. Inf. II, vv. 10-33.

[4] Inf. I, vv. 82-87. Era tipico dello scrittore medievale affidarsi ad un’”auctoritas”, per dare validità a ciò che scriveva.

[5] Cfr. Inf. II, vv. 31-33.

[6] Cfr. B. Porcelli, Studi sulla “Divia Commedia”, Bologna 1970, pp. 3-5.

[7] Ibid.

[8] Cfr. Par. X, vv. 136-138. Sigieri di Brabante nasce nel 1240 circa e muore ad Orvieto nel 1282/3. Maestro a Parigi, fu considerato il più importante pensatore del pensiero averroistico del secolo XIII.   La prima condanna fu nel 1270, quando il Vescovo di Parigi condannò e vietò una serie di proposizioni filosofiche teologiche sostenute nei commenti e nelle lezioni dei maestri “averroisti”, che gli procurarono numerosi ed accaniti avversari. Quando la condanna fu rinnovata in modo più solenne e ampia nel 1277, Sigieri si recò a Roma per scolparsi, poi fu ad Orvieto, allora sede della curia papale, accettando la condanna e l’obbligo di restare internato presso la curia stessa, dove morene 1283 forse assassinato da un chierico, suo segretario. La presenza di Sigieri e l’elogio su di lui, che Dante mette in bocca a San Tommaso nel X canto del Paradiso, ha dato luogo a molte discussioni tra gli studiosi, infatti è noto che Tommaso avversò aspramente le dottrine averroistiche del Brabante (v. “De unitate intellectus”), il quale rispose alle critiche con il libro “De anima”, dove ribadiva la sua posizione razionalistica eterodossa e accettava solo in parte le accuse mossegli. E’ probabile che Dante lo abbia collocato tra gli spiriti sapienti per innalzare la memoria di un grande pensatore che l’invidia aveva cercato di sminuire. Cfr. N. Sapegno a cura di, La Divina Commedia, Paradiso, X, Bologna 1964, p. 136 in nota. I passi della terza Cantica riportati nel testo sono ripresi da questa edizione della Divina Commedia.

[9] Inf. IV, v. 96.

[10] Cfr. F. Gaeta-P. Villani, Corso di Storia, I, Milano 1979, pp. 234-235.

[11] Ibid.

[12] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante, in “I Grandi di Tutti i Tempi”, vol. 3°, Verona 1965, pp. 5-17.

[13] Cfr. Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17. 

[14] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17.

[15] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17.  

[16] Forese appartiene al ramo più importante della famiglia dei Donati, fratello di Corso e Sinibaldo, bramosi di potere, cugino di Dante per parte della moglie, egli, a differenza dei fratelli, si tiene lontano dalla politica. Dante rinfaccia all’amico la trascuratezza verso la moglie Nella e le voci che circolano sulla sua origine; Forese risponde ricordando la brutta fama di suo padre Alighiero e la sua posizione economica, che se non fosse per i suoi fratellastri si troverebbe all’ospizio dei poveri. Cfr M. L. Rizzatti, Dante… cit., p. 21. 

[17] Cfr. Inf. XVIII, 28-33.

[18] “ Popule mee, quid feci tibi?”. Conosciamo il contenuto di questa lettera perduta grazie a Leonardo Bruni, da lui vista probabilmente nell’archivio della Cancelleria fiorentina, il quale può avere aggiunto qualcosa di suo, ma si tratta di una testimonianza diretta molto importante. Questa epistola è menzionata anche da Giovanni Villani nella sua “Cronica”.  La frase biblica latina (Mich. 6, 3), è l’incipit di questa epistola, che secondo il Bruni, sarebbe stata scritta da Dante da Verona nei suoi primi anni d’esilio e diretta non solo “a’ particolari cittadini del reggimento”, ma a tutto il popolo di Firenze. Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/popule -mee-quid-feci-tibi_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[19] Cfr. G. Petrocchi, Il Purgatorio di Dante, Milano 1978, pp. 9-19.

[20] Ovidio, Met., VII 456-516; VIII 1-263; G. Padoan, Minosse, in “Enciclopedia Dantesca” http://www.treccani.it/enciclopedia/minosse_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[21] Inf., V, vv. 4-12.

[22]G. Padoan, Minosse, in “Enciclopedia Dantesca” http://www.treccani.it/enciclopedia/minosse_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[23] M. L. Rizzatti, Dante… cit., p. 21. 

[24] Nella mitologia classica Dite era il nome di Plutone e del regno dei morti, Dante lo attribuisce sia a Lucifero sia alla città dei morti.

[25] Inf. VIII, vv. 82-85.

[26] Inf., VII, vv. 13-15; Cfr G. Padoan, Pluto G. Padoan, Pluto, in Enciclopedia Dantesca (1970) http;//www.treccani.it/enciclopedia/pluto_%28Enciclopedia-Dantesca%29/ Un’altra masnada di diavoli appare a Dante nella bolgia dei seduttori “Di qua, di là, su per lo sasso tetro / vidi demon cornuti con gran ferze, / che li battìen crudelmente di retro”. Inf., XVIII, vv. 34-36.

[27] Cfr. S. Urso, La Demonologia, Parte I) https://archaeus.it/la-demonologia-parte-prima-origine-e-storia/

[28] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[29] Par. XIX, vv. 46-47.

[30] Par. XXIX, vv. 55-57.

[31] Cfr. G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[32] Dante Alighieri, Convivio, XII, 8-9.

[33] Inf. III, vv. 37-42.

[34] Cfr. Inf. III, vv. 37-41, 59-60; G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[35]Inf. XXXIV, vv. 121-126. Lucifero cadde giù dal cielo da questa parte, e la terra, che prima della sua caduta emergeva in questo emisfero australe, per paura si riparò con le acque del mare come se fossero un velo e si spostò nel nostro emisfero e la terra che appare di qua, per non avere contatto con lui, dette origine alla cavità detta “natural burella” e si spinse in alto dando origine alla montagna del Purgatorio.

[36] Inf. XXVII, vv. 112-114. Dante si trova nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, dove sono condannati i consiglieri fraudolenti. L’anima con cui sta parlando è quella di Guido da Montefeltro, che gli racconta la propria vita di capo militare e poi di frate francescano, in vita ebbe fama di giovarsi più dell’astuzia che della forza. Alla sua morte l’anima fu contesa a San Francesco, che voleva portarlo in Paradiso e dal Diavolo che dimostrò trattarsi di un peccatore a causa del consiglio fraudolento che dette a Bonifacio VIII, in guerra con i Colonna, si rivolse al Montefeltro per conquistare Palestrina assediata e vincere la guerra, promettendogli l’assoluzione in anticipo. Il consiglio fu di promettere molto e mantenere poco.

[37] Purg., V, vv. 103-108.

[38] <<Oh!, diss’io a lui, “or se’ tu ancor morto?”. / Ed elli a me: “Come ‘l mio corpo stea / nel mondo su, nulla scienza porto. / Cotal vantaggio ha questa Tolomea, / che spesse volte l’anima ci cade / innanzi ch’Atropòs mossa le dea. / E perché tu più volentier mi rade / le ‘nvetriate lagrime dal volto, / sappie che, tosto che l’anima trade / come fec’io, il corpo suo l’è tolto / da un demonio, che poscia il governa / mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto. / Ella riuna in sì fatta cisterna; / e forse pare ancoro lo corpo suso / de l’ombra che di qua dietro mi verna. / Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso: / elli è ser Branca Doria, e son più anni / poscia passati ch’el fu sì racchiuso”. / “Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni; / ché Branca Doria non morì unquanche, / e mangia e bee e dorme e veste panni”. / “Nel fosso su”, diss’el, “de’ Malebranche, / la dove bolle la tenace pece, / non era ancor giunto Michele Zanche, / che questi lasciò il diavolo in sua vece / nel corpo suo, ed un suo prossimano / che ‘l tradimento insieme con lui fece. / Ma distendi oggimai in qua la mano; / aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi; / e cortesia fu lui esser villano.>> Inf. XXXIII, 124-157.

[39] Ioann. 13, 27, “Et post buccellam introiti in eum Satanas” (E allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Per cui Gesù gli disse: Quel che fai, fallo presto.)

[40] Inf. ,V., vv. 70-72.

[41] Inf., XX, vv. 25-30.

[42] Inf., IV, vv. 19-21.

[43] Cfr., A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Torino 1892, V. I,p. 260 e segg. La Chiesa non si pronunciò su tale dubbio, ma nel non pregare per i dannati era implicita la negazione della mitigazione delle pene.

[44] Inf., IV, vv. 31-33; 44-45.

[45] Inf., IV, vv. 93-96.

[46] Inf., VI, vv. 7-8.

[47] Inf., VI, v. 15.

[48] Inf., XXII, vv. 19-24.

[49] Inf. XXI, vv. 39-40.

[50] Inf., XXI, vv. 31-36. Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/

[51] Inf., XXI, vv.136-139. Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/

[52] Inf. XXXIV, v. 28

[53] Inf. IX, 44. Proserpina figlia di Giove e di Cerere, moglie di Plutone e regina dell’Inferno.

[54] Cfr. G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[55] Inf. III, vv. 65-69. “Questi sciaurati, che mai non fur vivi, / erano ignudi e stimolati molto / da mosconi e da vespe ch’eran ivi. / Elle rigavan lor di sangue il volto, / che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi / da fastidiosi vermi era ricolto.”; cagne bramose sbranano i dilapidatori, Inf. XIII, vv. 124-129; XXI, vv. 44-45 e 67-69.) le mani dei ladri sono legate con delle serpi, Inf. XXIV, vv. 94-105.

[56] Inf. I, vv. 109-111. La lupa, simbolo della cupidigia, potrà essere definitivamente debellata solo da un misterioso “veltro” o cane da caccia, che dopo averla cacciata da ogni città e averla ricollocata all’Inferno, la farà morire con dolore.

[57] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[58] Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/ ; G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[59] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[60] Inf. IX, vv. 38-54. La figura di Proserpina compare tre volte nella Commedia, in quella citata nel testo, come regina dell’etterno pianto, nel cato X, v. 44 “la faccia della donna che qui regge”, identificandola con Ecate e la Luna, parole dette da Farinata degli Uberti; in Purg., XXVIII, vv. 49-51, in cui è paragonate a Matelda, la donna che accoglie Dante nel giardino dell’Eden. “Proserpina è dunque segnale del cammino progressivo dell’intellettuale dall’oscura selva del peccato alla luminosa selva del Paradiso terrestre, e della capacità di Dante di portare, insieme con Beatrice, a completa maturazione il processo di acquisizione di cultura e di fede iniziato con Virgilio…”R. Mercuri, Proserpina, http://www.treccani.it/enciclopedia/proserpina_(Enciclopedia-Dantesca)/

[61] Inf., XXV, vv. 25-33.

[62] Inf. XIII, vv. 10-15.

[63] Inf., XVII, vv. 10-27.

[64] Cfr. https.//www.treccani.it/enciclopedia/gerione-%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[65] Inf., XXXI, vv. 28-33.

[66] Genesi 10, 8; XI 1-9.

[67] Inf. XXXI, vv. 58-59.

[68] Ibid., v. 124.

[69] Mario Giunio Bruto, nonostante avesse ricevuto molti benefici da Cesare, fu dalla parte di Pompeo durante la guerra civile tra i due. Dopo la battaglia di Farsalo (48 a.C.) passò dalla parte di Cesare e l’anno successivo fu nominato Governatore della Gallia Cisalpina, nel 45, tornato a Roma fu il principale fautore, insieme a Cassio, della congiura in cui fu ucciso Cesare, successivamente fuggì in Oriente con Cassio, dove si scontrò con Ottaviano e Antonio a Filippi (42 a.C.), sconfitto si uccise. Anche Caio Cassio Longino seguì la stessa sorte, anche se, dopo la fuga, ottenne il comando delle province orientali, ma dopo il colpo di Stato di Ottaviano e Antonio fu ritenuto fuori legge e battuto a Filippi da Antonio si uccise.)

[70] G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palermo 1970, p. 106.

[71] Sulle origini di Lucifero Cfr, L. Fabbri, Il Diavolo e l’Acqua santa, in “Chi ha disprezzato il giorno delle piccole cose?, Aversa 2007, pp. 323-324.

[72] Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel mondo antico, Bergamo 1990, p. 143 e segg.

[73] Cfr. I Corinzi 15, 20-22 e 44-50; Galati 5, 4; Efesini 2, 3; II corinzi 11. 

[74] “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito […] Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. […]Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza  di uno solo tutti saranno costituiti giusti. La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore.>>  La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1974, pp. 2424-2426.

[75]Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel mondo antico, Bergamo 1990, p. 143-154.

[76] II Corinzi 11,14; Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo…, cit., pp.143-154

[77] Cfr, L. Fabbri, Il Diavolo e l’Acqua santa, in “Chi ha disprezzato il giorno delle piccole cose?, Aversa 2007, pp. 323-324.

[78] Ibid.

[79] “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora?Come mai sei stato steso a terra , signore dei popoli?” Isaia 14, 12.

[80] “Tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato, perché non si trovò in te la perversità. Per l’abbondanza del tuo commercio, tutto in te s’è riempito di violenza, e tu hai peccato; perciò io ti caccio come un profano dal monte di Dio, e ti farò sparire, o cherubino protettore, di mezzo alle pietre di fuoco. Il tuo cuore s’è fatto altero per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saviezza a motivo del tuo splendore…” Ezechiele, 28, 15-16.

[81] Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel Medioevo, Bari 1987, prefazione.

[82] Cfr. L. Fabbri, Il Diavolo… cit., p.

[83] Inf., I, vv. 100-102.

[84] Par. XVII, vv. 133-135.

ERETICI, STREGHE E SANTI NELLA VALLE MESOLCINA E DINTORNI

di Loredana Fabbri

“Se i sacerdoti saranno santi, similmente sarà santo il popolo”.

                                                                                    (San Carlo Borromeo)

Alla memoria del Professor Domenico Maselli

 

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La Valle Mesolcina dal Pizzo Uccello

PREMESSA

Il presente lavoro è un tentativo di ricostruzione della storia religiosa-politico-sociale dei territori sottoposti alla Visita Pastorale dell’Arcivescovo di Milano Carlo Borromeo nel 1583, una storia molto conosciuta, che ha riscosso tanti elogi ma anche tante aspre critiche per l’operato di colui che pochi anni dopo la sua morte divenne santo.

 

Immagine 22

Ritratto di san Carlo Borromeo
Giovanni Ambrogio Figino (1548-1608)

Pinacoteca Ambrosiana, Milano

 

L’articolo si basa su documenti per la maggior parte editi da Paolo d’Alessandri e Rinaldo Boldini, i quali hanno pubblicato nelle loro opere i testi di documenti reperiti presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano ed in altri Archivi, che sono stati preziosi ed indicativi per continuare la presente ricerca.

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Antonio Noto, Statuta et capitula vallis Mexolcinae, 1942

Spesso nel testo riportiamo interi passi di documenti, poiché i riassunti con un linguaggio attuale non renderebbero bene certe “sfumature” come il lessico del tempo.

Non tutti i documenti trascritti ed editi da Paolo d’Alessandri sono fedeli agli originali, anche se i concetti restano gli stessi, ci sono molte parole omesse o cambiate e spesso sono riportati solo dei brani, tralasciandone altri, per noi di una certa importanza, anche perché la finalità di questo lavoro, come già accennato, è molto diversa da quella che si erano proposti i due summenzionati studiosi.

Molto interessante, non solo per la situazione religiosa, ma anche per le notizie storiche, geografiche ed economiche, è l’”Instruttione generale del Stato de Grisoni (diviso in tre parti) pertenente ad alcune cose temporali per maggior cognizione dello stato spirituale”, documento reperito presso la Biblioteca Ambrosiana, dove non troviamo né data né firme, ma da cui possiamo evincere che tale documento fu scritto poco prima della Visita Apostolica, con lo scopo, come recita il titolo, di dare una visione unitaria della situazione presente nei territori delle Tre Leghe. Altre notizie molto importanti le possiamo dedurre da una più sintetica relazione sulla Visita di quella edita dai due studiosi D’Alessandri e Boldini, e da altri documenti non riportati nei loro lavori qui citati.

Nei secoli del basso Medioevo, l’attuale territorio svizzero apparteneva al Sacro Romano Impero, cui facevano riferimento le varie città e comunità di valle per espandere la sovranità degli individuali confini ed essere direttamente soggetti alla giurisdizione imperiale, lontana e spesso astratta, era un modo per sfuggire all’invadente autorità dei vescovi e dei signori feudali.

Dopo la metà del secolo XIII, la decadenza delle istituzioni imperiali, con la conseguente  precarietà e incertezza politica, indussero le città e le comunità rurali a stipulare intese difensive che furono anche l’occasione per affermare la propria indipendenza: nel 1291 l’unione dei cantoni montani di Unterwalden, Schwyz e Uri rappresentarono il nucleo della fondazione della Confederazione, anche se città come Zurigo, Berna e Lucerna continuarono ad avere un ruolo importante.[1]

Gli Asburgo, feudatari dell’Alta Valle del Reno, rappresentarono una grave minaccia per i Cantoni, specialmente quando nel 1273 ottennero la corona imperiale, ma agli inizi del secolo successivo, i Cantoni con un’abile mossa politica strinsero alleanza con Ludovico il Bavaro contro Federico d’Asburgo, infliggendo agli Asburgo una grave sconfitta nel 1315 e alla fine dello stesso secolo la Confederazione si attribuì un carattere più saldo e delineato con la Convenzione di Sempach del 1393, cui aderirono Zurigo, Zugo, Lucerna, Glarus e Berna.[2]

Nei primi anni del Quattrocento, la Confederazione, divenuta una potenza considerevole, cerca di estendere il proprio dominio al di là del passo del San Gottardo sui territori dell’attuale Canton Ticino, ma il tentativo rimane incompiuto a causa della vittoria dei Visconti ad Arbedo nel 1422.

A Vazerol nel 1471 venne sottoscritta la Repubblica delle Tre Leghe tra la Lega Caddea, la Lega Grigia e la Lega delle Dieci Giurisdizioni: si trattò di un accordo in cui le tre Leghe, pur restando indipendenti e separate, stipularono un patto per difendersi meglio dagli Asburgo, che continuavano ad asservire questi luoghi per ottenere il controllo sui passi esistenti nella regione. Dopo accordi con la Confederazione svizzera, prima nel 1497 poi l’anno successivo, lo Stato delle Tre Leghe fu considerato associato alla Confederazione elvetica, e dal 1512 anche la Valtellina con Bormio e Chiavenna fecero parte della Repubblica delle Tre Leghe, se pure con livelli diversi di sudditanza.

Continua, nel frattempo, il conflitto con gli Asburgo, ma una nuova minaccia per la Congregazione è costituita dall’espansione dello Stato borgognone, ma le sconfitte che i piccheri svizzeri inflissero ai cavalieri borgognoni nel 1476, diedero fama continentale alle truppe elvetiche che cominciarono ad essere richieste dalle potenze europee per il loro rivoluzionario modo di combattere, segnando il tramonto del cavaliere e della cavalleria medievale, e facendo dei piccheri svizzeri i mercenari più richiesti. Ad accrescere il peso internazionale della Confederazione, oltre le vittorie, ci furono anche le ammissioni a tale Confederazione di Basilea, Sciaffusa, Friburgo, Solothurn e Appenzell, ma le mire espansionistiche furono fermate dalla sconfitta subita a Marignano nel 1515 da parte di Francesco I, i Cantoni misero fine alle loro ambizioni sul Milanese, ma il Canton Ticino rimase sotto il potere della Confederazione svizzera.[3]

La diffusione del pensiero di Lutero inizialmente non causò una distinta contrapposizione nella vita della comunità cristiana, d’altra parte anche durante il Medioevo la disputa teologica e disciplinare era stata spesso irruente e frequente era stata la contestazione circa l’atteggiamento del clero compresa la più alta gerarchia ecclesiastica, ma tutto ciò non aveva causato divisioni insanabili, quindi il clima di rottura che si stava creando non fu percepito, per lungo tempo, in modo traumatico dalla gente comune. Anzi i ceti urbani più umili e la popolazione rurale provavano grandi speranze nei loro confronti proprio in un rinnovamento della Chiesa e della società. Anche la borghesia era favorevole alle novità che l’opera di Lutero avrebbe potuto portare sia dal punto di vista spirituale sia nella libertà da vincoli, soprattutto fiscali, nei confronti della Chiesa. I principi tedeschi intravidero nella contestazione teologica del teologo tedesco la possibilità di affermare la loro esigenza di autonomia politica da Roma e dall’Imperatore, inoltre coloro che aderirono alla Riforma incamerarono i beni ecclesiastici posti nei territori da loro governati, approfittando del disconoscimento delle autorità stabilite dalla Chiesa di Roma (episcopati e monasteri), trasformando in tal modo la disputa religiosa sollevata da Lutero in una rivoluzione politica ed economica, che sollevò una lunga polemica sull’obbedienza dei principi a Roma e all’Imperatore e sul legittimo possesso dei beni appartenenti alla Chiesa di cui si erano impadroniti.

Il movimento riformatore si estese anche fuori dai confini della Germania, per opera di altre personalità, le cui posizioni dottrinali non sempre coincidevano con quelle di Lutero: le idee riformistiche penetrarono nella Svizzera tedesca per mezzo di centinaia di opuscoli e di numerosi fautori ardenti e convinti che le diffusero ovunque, anche se l’impatto che ebbero sull’ambiente fu diverso a seconda che si trattasse di zone rurali o delle città.

A Zurigo il messaggio di Lutero venne recepito dallo svizzero Ulrich Zwingli (1484-1531), che dopo avere compiuto gli studi a Vienna e a Basilea, era stato ordinato sacerdote nel 1506, successivamente cappellano delle truppe svizzere che, vinta la battaglia di Melegnano, si impossessarono dei territori della Valtellina e del Canton Ticino ed imposero la Signoria di Massimiliano Sforza a Milano. Dopo l’esperienza militare Zwingli iniziò a Zurigo nel 1519 la sua attività di predicatore e di politico, dall’anno precedente era arciprete della Cattedrale di questa città e presa la guida della Chiesa la portò subito a posizioni riformate, allontanandosi dal Vescovado e collegandosi al Consiglio Comunale della città.  Inizialmente si schierò con Lutero nella critica alla Chiesa romana e alla pretesa di essere l’unica mediatrice della parola di Dio, ma presto il suo pensiero divenne più radicale rispetto a quello del riformatore di Eisleben, soprattutto sui sacramenti e sulla liturgia: considerò inaccettabile ogni dottrina che ritenesse possibile un cambiamento di sostanza, quindi negò il valore sacramentale dell’Eucarestia e di tutti i sacramenti, attribuendo loro un valore puramente simbolico. Ridusse la liturgia a una semplice lettura commentata della Bibbia e a una rievocazione dell’Ultima Cena di Cristo. Nel 1522 si dimise dal suo ruolo, restando a Zurigo come predicatore alle dipendenze del Consiglio cittadino, che, successivamente, adeguandosi alle idee zwingliane istituì una nuova riforma ecclesiastica radicale, in cui venne soppresso il Diritto canonico, furono requisiti i beni ecclesiastici a favore della pubblica beneficenza, nelle chiese vennero eliminate le immagini sacre e furono annullate le processioni e la musica sacra, fu imposto l’obbligo di partecipazione alla liturgia e il divieto di assistere a messe cattoliche. Questo modello si estese anche ad altre città come Basilea, Berna e Sciaffusa, invece in altri Cantoni ci fu una forte resistenza, che dette origine ad una serie di scontri armati, che sfociarono, più tardi, in una vera e propria guerra contro i Cantoni cattolici e Zwingli venne sconfitto e cadde nel 1531 nella battaglia di Kappel.[4]

La morte di Zwingli non arrestò lo sviluppo della Riforma, fuorusciti, predicatori itineranti e mercanti portavano di città in città le idee riformistiche basate su linee diverse da quelle di Lutero, soprattutto i <<…mercanti, che, recandosi in zone di fede luterana e soprattutto calvinista, vi trovavano delle idee rispondenti al loro mestiere e ai loro bisogni: infatti secondo Calvino ogni attività lavorativa è benedetta da Dio, la riuscita negli affari è una prova della salvezza, il denaro deve essere considerato un dono di Dio e messo a frutto non solo come aiuto ai poveri e alla Chiesa ma anche come investimento finanziario per servire la Comunità, e l’uomo d’affari deve essere prima di tutto un uomo di fede>>.[5] I protestanti rimasero liberi nei domini francesi, ma cominciarono le persecuzioni in altri territori, tra i perseguitati vi fu Agostino Mainardi (1482-1563), il quale si rifugiò nel territorio dei Grigioni nel 1539 e fu il primo predicatore della Comunità Evangelica di Chiavenna.[6]

Nel 1536 arrivò a Ginevra il francese Jean Cauvin (Noyon 1509.1564), nome italianizzato in Giovanni Calvino, dove svolse la funzione di predicatore e pastore. Dopo varie peregrinazioni, protetto da Renata di Navarra, moglie del duca d’Este, Calvino si rifugiò a Basilea, città molto tollerante, dove ebbe termine la prima stesura della sua opera più importante: la “Institutio Christianae Religionis (1536), in cui spiegava i concetti essenziali della dottrina cristiana e i punti principali della verità evangelica riscoperta da Lutero. D’accordo con il riformatore tedesco sugli elementi fondamentali della Riforma come la salvezza tramite la sola fede, totale debolezza della libertà umana, affermazione del sacerdozio universale, sul modello di Zwingli, diverge da Lutero su diversi punti fondamentali: sul tema della predestinazione, Lutero afferma che Dio, con sovrana libertà, sceglie, indipendentemente dai loro meriti, alcuni uomini per la salvezza; Calvino estremizza il pensiero luterano proponendo la “doppia predestinazione”, secondo cui Dio destina alcuni uomini alla salvezza e altri alla dannazione etrna. Per entrambi i riformatori i Sacramenti sono due: battesimo ed eucarestia, ma Calvino li considera semplici atti simbolici senza significato salvifico, negando la presenza di Cristo nell’eucarestia; per l’organizzazione interna della comunità cristiana, Calvino non si limita a negare il primato del clero sul laicato, ma propone una Chiesa in cui i laici abbiano assoluta prevalenza nel governo, egli non prevede una Chiesa nazionale, come Lutero, ma un’organizzazione della comunità locale, dove ogni centro ha la sua autonoma organizzazione vicina alle esigenze della borghesia cittadina.

Come già accennato, sempre nel 1536 Calvino si trasferì a Ginevra, dove proclamò il suo pensiero politico totalmente radicalmente opposto a quello di Zwingli, che affermava la netta prevalenza della gerarchia religiosa su quella politica e nel 1537 obbligò i cittadini di Ginevra a rispettare gli “Articoli sull’organizzazione della Chiesa”, con gravi sanzioni per gli inadempienti. Nel 1538 Calvino fu costretto a lasciare questa città a causa di un rovesciamento del governo cittadino, ma tre anni dopo fece ritorno a Ginevra, dove fece approvare le “Ordinanze ecclesiatiche “, in cui veniva stabilito la netta subordinazione dello Stato alla Chiesa e il potere deliberante (anche quello civile) venne affidato ad un Concistoro, organo di governo composto da sei pastori ecclesiatici e da dodici anziani eletti dai consigli municipali. In tal modo Ginevra fu trasformata in una vera teocrazia, una città santa, una nuova Roma, opposta alla Roma nepotista e immorale contro cui tutti si avventavano e le divergenze dottrinali stroncate duramente: un caso emblematico fu quello di Michele Serveto, medico spagnolo, fuggito dalla Spagna dove fu considerato eretico, arrivato a Ginevra per poter professare liberamente la propria fede, fu condannato e messo al rogo, incrinando così il mito di libertà proprio del mondo riformato, contrapposto alla tirannia di Roma, nonostante ciò il calvinismo consolidò le proprie posizioni e Ginevra divenne un luogo di perfezione, dove era stato realizzato un nuovo modello di umanità.[7]

Le speranze in una profonda riforma della Chiesa di Roma, che si erano diffuse fin dall’XI secolo, erano state deluse, ma il bisogno di un mutamento era profondamente sentito, poiché la mondanizzazione di essa si era estesa assai anche attraverso l’istituzione dei vescovi-principi e dei vescovi-conti, dotati di ampi poteri politici, oppure con le ricche prebende, che permettevano a cadetti di illustri famiglie, ma senza spirito ecclesiastico, di ritrovare il fasto e la ricchezza che non potevano più avere nella propria famiglia. La mondanizzazione dei papi rinascimentali da Sisto IV a Leone X avevano fatto scadere l’idea spirituale : troppa politica, troppo lusso, troppo fiscalismo minavano il prestigio della Chiesa. D’altra parte il nazionalismo sempre più ascendente, che trovava la sua ragione d’essere nello scadimento del feudalesimo e nella forte ascesa del commercio e del capitalismo, portava a frantumare l’unità dei cristiani.[8]

La Riforma protestante incalzò il pontefice Paolo III a convocare un concilio, richiesto da tempo nel mondo cristiano, ma già prima dell’inizio del Concilio di Trento (1545-1563) le speranze di rappacificamento erano perdute, poiché i protestanti decisero di non parteciparvi. Sul piano dottrinale il Concilio operò una netta chiusura nei confronti del Protestantesimo: la Chiesa di Roma si propose come unica interprete delle Sacre Scritture: fu affermato il principio della salvezza per mezzo non solo della fede ma anche delle opere, condannando la tesi luterana della “sola fide”, venne ribadito il libero arbitrio dell’uomo, fu stabilito il numero dei sacramenti (sette) e la loro efficacia non solo simbolica, venne decretato l’obbligo di residenza per i preti e i vescovi, affidando a quest’ultimi la totale responsabilità sulla propria diocesi, con l’obbligo di visitarla, venne riformata la predicazione, fu proibito il cumulo dei benefici, vennero creati i seminari per la formazione del clero: sull’esempio di grandi vescovi come Carlo Borromeo a Milano e Francesco di Sales a Ginevra, fu rinnovato l’impegno pastorale delle guide della Chiesa. Vennero anche prese delle misure contro il nepotismo, la simonia, il concubinaggio: complessivamente la Chiesa di Roma uscì rafforzata dal Concilio ed ebbe nel catechismo uno strumento molto importante per la diffusione dell’ortodossia tridentina.

A tutto questo si accompagnò un’azione repressiva, che trovò il suo principale strumento nel potenziamento dell’Inquisizione Romana o Congregazione del Sant’Uffizio, tra le vittime più celebri si ricordano: Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei. L’intento di riforma del Cattolicesimo si espresse anche attraverso i nuovi ordini religiosi e in questo la Chiesa ebbe come principale strumento la Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola, su una struttura rigorosamente gerarchica, su una rigida obbedienza e sulla notevole preparazione culturale dei suoi membri, i quali riservarono grande attenzione all’istruzione, di cui presto detennero il monopolio. La divisione in seno alle Chiese cattolica, luterana e calvinista fu profonda e tale da sentire la necessità di sottolineare i loro elementi distintivi, nacque così il “confessionalismo”, ossia quella tendenza a subordinare le scelte e le decisioni politiche, morali e civili ad una determinata confessione religiosa, che trovò la sua realizzazione nel disciplinamento sociale, cioè nel controllo delle Chiese su tutte le manifestazioni della vita di relazione, con lo scopo di uniformare i comportamenti e concepire nei singoli un atteggiamento di obbedienza. L’intolleranza divenne comune a tutte le Chiese non solo nei confronti delle altre confessioni, ma contro chiunque fosse considerato un “diverso”; dilagò così il fenomeno della caccia alle streghe: decine di migliaia di persone furono mandate a morte in tutta Europa, accusate di stregoneria, con confessioni ottenute sotto tortura, la psicosi della stregoneria si diffuse al punto che finì per coinvolgere molti “diversi”, emarginati dalla società che trovavano nella stregoneria un modo di evasione da quella società che li aveva respinti. Oggetto di crudeli persecuzioni furono anche gli Ebrei, i quali vennero confinati in ghetti nei quali erano costretti a risiedere e a portare un segno di riconoscimento; in Spagna, già nel secolo precedente, la riconquista cattolica e l’Inquisizione avevano imposto agli ebrei sefarditi conversioni forzate, dando luogo al fenomeno dei marrani, molti dei quali mantennero le loro tradizioni ancestrali, professandosi pubblicamente cattolici, ma restando fedeli all’ebraismo in privato.

Nel 1565, infine, venne stilata la confessione “Professio fidei tridentina”, in contrapposizione a quella luterana di Augusta. Controllo e repressione delle eresie e rinnovamento della vita ecclesiale furono, dunque, le linee guida della Chiesa Cattolica dopo il Concilio di Trento.[9] Concludiamo questa breve e incompleta panoramica del secolo XVI con le parole di Attilio Agnoletto: << Si può dire che quella che si ama definire la “Riforma cattolica” trovi il suo approdo nel Concilio di Trento, che forse è nella storia della Chiesa Cattolica il più importante tra quelli ecumenici sia per le definizioni dogmatiche sia per i decreti di riforma interna. Occorre infatti arrivare al 1869 perché la Chiesa riconvochi un altro concilio. E anche il Concilio Vaticano II, che si è svolto a circa quattro secoli di distanza, non ha certo intaccato la sostanza di decisioni che appaiono irreformabili […]. Se si vuole comprendere il cattolicesimo del mondo moderno bisogna risalire alle decisioni del Concilio Tridentino, che chiusero la porta alla Riforma protestante, ma realizzarono e diedero l’avvio a una riforma cattolica […]. Esaminando, alla luce attuale, gli effetti delle decisioni tridentine, si deve riconoscere che il Tridentino è la chiave di volta di tutto il cattolicesimo fino ai nostri giorni. La sua importanza non consiste solo nel ripudio dogmatico delle istanze della Riforma, ma anche nell’eliminazione di infiniti abusi e nella costituzione di ordinamenti tuttora vigenti. Si potrebbe dire che il Concilio di Trento ha ridato vigore al cattolicesimo, facendone una rinnovata confessione religiosa che si colloca accanto alle altre rampollate dalla Riforma. Ne è nata una Chiesa poderosa, giuridicamente strutturata, dogmaticamente fissata >>.[10]

L’ultima fase del Concilio di Trento ebbe luogo tra il 1560 e il 1563, da cui cominciò la Riforma cattolica, nello stesso tempo in Italia cominciò a diminuire il protestantesimo per subire un vero e proprio crollo nel 1568 ad eccezione della Valtellina dove le dottrine eretiche proliferavano. “Riforma cattolica” intesa come movimento di riforma interno alla Chiesa di Roma, e “Controriforma”, cioè una reazione alla Riforma protestante che utilizzò l’azione missionaria per riportare al Cattolicesimo le aree geografiche passate alle nuove confessioni religiose e che fecero uso anche di strumenti repressivi come il Tribunale dell’Inquisizione.

Nello Stato di Milano la Chiesa cattolica stava attraversando un periodo di profonda crisi, a causa anche della mancanza di residenza dei Vescovi da oltre un secolo: in passato la città di Milano aveva avuto una lunga tradizione di eminenti prelati e profondo era stato il rapporto tra Chiesa e popolo, ma in questo periodo i rappresentanti dei Vescovi si limitavano a riscuotere i tributi, l’Ordine degli Umiliati era in piena decadenza[11] mentre lo Stato era sempre più forte, i Vescovi e gli alti dignitari ecclesiastici vivevano a Roma, lasciando la Chiesa milanese nelle mani di preti ignoranti che “cianciugliavano”la Messa in un latino stentato o sconosciuto, in città si diffondevano sempre di più i libri di Lutero portati anche dai mercanti: Milano era prossima alla Valtellina e a Ginevra e i collegamenti erano facilitati da questa vicinanza.[12]

Subito dopo la conclusione del Concilio di Trento, Carlo Borromeo (1538-1584) abbandonò la Curia romana e il potente ruolo di Cardinal Nepote di Pio IV per andare a svolgere le funzioni di Vescovo nell’Arcidiocesi di Milano.

Personaggio scomodo e molto discusso, Carlo fu uomo del suo tempo con le sue convinzioni e superstizioni, ricordato sia per la sua attività d’inquisitore sia per quella proficua in Milano, secondo per fama solo a Sant’Ambrogio, il futuro grande Vescovo di Milano era nato il 2 ottobre 1538 nel castello di Arona sul lago Maggiore, terzogenito del conte Gilberto e di Margherita de’Medici, sorella del Marchese di Marignano, Gian Giacomo de’ Medici e del Cardinale Giovan Angelo de’ Medici, la nobiltà e l’antichità della famiglia furono sempre care a Borromeo. La successione del padre, morto prematuramente lasciando i figli in difficili condizioni familiari, nella carica comitale spettava al fratello Federico, Carlo invece scelse la carriera ecclesiastica in quanto cadetto e la fulminante carriera e le dignità ecclesiastiche, dopo gli studi giuridici compiuti a Pavia, le dovette alla famiglia e soprattutto allo zio materno Giovan Angelo che fu eletto papa il 25 dicembre 1559 col nome di Pio IV, solo un mese dopo il Pontefice elevò al titolo cardinalizio il nipote ventiduenne, affidandogli la Segreteria di Stato, l’amministrazione perpetua dell’Arcidiocesi di Milano, la legazione di Bologna, l’Abbazia di Nonantola e la responsabilità degli affari pontifici con il titolo di Cardinal Nepote, ed altre altissime cariche con prebende numerose e ricchissime. A Fedrico assegnò il comando dell’esercito pontificio e poi il principato di Oria. [13] Già il 17 gennaio 1560, infatti, Monsignor Giulio Grandi, ambasciatore della Casa d’Este, così scrive in un suo carteggio: <<Si dice che nel concistoro di venerdì prossimo Sua Santità promuoverà al cardinalato l’abate Borromeo suo nipote, donandogli il suo cappello. Questo giovane è molto amato dal papa e veramente dimostra nelle sue azioni di essere assai meritevole>>.[14]

A Roma Carlo ed il fratello furono coinvolti nella sfarzosa e mondana vita della città,  pur segnalandosi, il primo, per la sua riservatezza e la perseveranza con cui svolgeva i suoi compiti, fondò un’Accademia, che prese il nome di “Notti Vaticane”, inizialmente a carattere umanistico e che divenne poi un luogo di vivaci dibattiti teologici, che servì molto a Carlo per esercitarsi contro la balbuzie e la timidezza che gli impedivano di diventare un ottimo oratore. Sempre a Roma, il Cardinal Nepote ebbe modo di sperimentare le sue spiccate doti diplomatiche, evitando una dannosa interruzione dei lavori durante l’ultima fase del Concilio di Trento, grazie al suo delicato lavoro di rendere agevoli e prudenti i rapporti tra il papa ed i legati, con lettere, istruzioni, ordinanze, redatte dal suo segretario personale Tolomeo Gallio, futuro cardinale di Como, nonostante prevalessero i consigli del Cardinale Hosius e soprattutto del Cardinale Morone, il quale svolse la parte decisiva nella conclusione del Concilio (1562-1565), dopo la morte dei Cardinali Gonzaga e Seripando.[15]

Unito ad un profondo senso del dovere c’era per il Cardinale una grande fedeltà verso i vincoli familiari, nel 1558, alla morte del padre, iniziò ad interessarsi agli affari familiari, che fino all’elezione di Pio IV non erano floridi, impiegando molte energie per sposare le tre sorelle a dei principi, per dotare la nipote e per dare una sistemazione al cugino Federico, rimasto orfano del padre a soli tre anni e futuro Arcivescovo di Milano:[16] la rete delle alleanze familiari costituiva un’unità di potere, una sorta di milizia continuamente mobilitata e l’ascesa della famiglia Borromeo coincise con le numerose cariche e i beni che si accumulavano e la sua fortuna divenne considerevole, le cui rendite erano soprattutto di origine fondiaria, Carlo era un grande proprietario, molto abile nella distribuzione di terre a ottimi fittavoli, a visitarle, controllarle e ad affidarle ad economi scrupolosi. Questa gestione dei beni fondiari restò il modello dell’amministrazione ecclesiastica. [17]

La morte improvvisa del fratello maggiore Federico, il 25 novembre 1562, sconvolse il Cardinale, che dopo poco subì anche la perdita del suo amico Giovanni de’ Medici:  <<La tradizione avrebbe voluto che in assenza di un altro esponente maschile della famiglia, Carlo rinunciasse alla porpora cardinalizia per subentrare al fratello nei suoi titoli nobiliari e forse anche per sposarne la giovanissima vedova. L’avere già pronunciato i voti, in qualità di suddiacono non era un ostacolo insormontabile, perché bastava una dispensa papale che Carlo avrebbe potuto ricevere con grande facilità. Sappiamo invece che l’impressione avuta da queste due sconvolgenti morti, lo indussero a legarsi di più alla scelta religiosa, fino a pensare ad un rutiro in un ordine monastico, da cui forse lo distolse il primate di Portogallo De Martyribus arcivescovo di Braga>>.[18]

Carlo aveva una concezione molto rigorosa della vita cristiana e dopo questi eventi tragici si parla di “conversione”, che lo indusse a farsi ordinare sacerdote il 17 luglio 1563 e vescovo il 7 dicembre dello stesso anno, cioè il giorno di Sant’Ambrogio, come scrisse a Corona, la sorella suora, e le parole di Domenico Maselli sono molto significative per capire lo spirito del Cardinale: <<Credo però che il termine conversione sia qui ben adoperato. Si passa infatti da una religiosità formale, personalizzata, ma concepita come uno tra i doveri della vita, ad una contemplazione di Cristo sofferente, che, impostasi ai suoi occhi mediante l’atroce sofferenza della morte del fratello, diventa l’elemento centrale della sua esistenza. La centralità della passione di Cristo è da questo momento una costante della spiritualità del Borromeo e costituisce, a mio parere, un elemento distintivo della Riforma Cattolica>>.[19] Possiamo comprendere anche alcune caratteristiche del Cardinale: nella vita ascetica e nelle privazioni verso se stesso, nella riduzione drastica del personale di servizio, nell’ordinazione a sacerdote e nella consacrazione episcopale possiamo vedere la trasformazione da Amministratore della Diocesi di Milano in Arcivescovo di questa città. Dopo la morte del fratello, Carlo cambiò atteggiamento e in una lettera del 30 aprile 1564 si dice che il Papa fosse molto contrariato dal nuovo tenore di vita severo, intrasigente di Borromeo, dando alcuni segni di disprezzo del mondo: <<…dicevasi trattare di teatine rie ed eccessi melanconici e fece comunicare ai gisuiti ed altri religiosi che li avrebbe puniti se mettessero più piede nelle case del Cardinale>>.[20]

Per tutta la vita del futuro Santo i “Canones reformationis generalis” di Trento ebbero la virtù di una rivelazione determinante, cioè quella del Vescovo-eroe della riforma tanto attesa dalla cristianità. Carlo si identificò con questa immagine e la rese effettuale ed è con questo spirito che cominciò il ventennio del suo governo episcopale a Milano, destinato a concludersi con la sua prematura morte nel 1584, in una lettera al Cardinale di Como del 4 dicembre 1563, ossia tre giorni prima della sua consacrazione, scrisse: <<…è tanto il desiderio mio che hormai s’attenda ad exequir poi che sarà confirmato questo santo concilio conforme al bisogno che ne ha la cristianità tutta e non più disputare…>>.[21]

Il 12 maggio 1564 Borromeo fu nominato Arcivescovo di Milano, ma inizialmente l’episcopato fu svolto per interposta persona, poiché gli impegni come Segretario di Stato del Papa non gli permisero di lasciare la città eterna, quindi nominò come suo vicario Niccolò Ormaneto,[22]Fu una scelta molto felice: egli provvide immediatamente a convocare un Sinodo Diocesano, milleduecento preti erano presenti il 29 agosto 1564, giorno dell’apertura, pronti ad ascoltare il programma che Carlo aveva mandato da Roma, in cui veniva enunciata l’applicazione dei decreti tridentini e una lunga serie di misure disciplinari come l’obbligo di residenza, la moralità, la riduzione del numero dei benefici, ottenendo, poco dopo, dal papa un breve che autorizzava il Cardinale ad ingiungere tasseai titolari dei benefici, iniziando anche una campagna per convincere coloro che detenevano più benefici ad accontentarsi solo di uno; gli studi ecclesiastici, di cui Carlo aveva già cominciato la creazione di un seminario, presso Porta Orientale,inaugurato il 10 dicembre 1564 per la formazione del clero diocesano, dove i seminaristi avrebbero frequentato i primi tre anni uguali per tutti, in cui prevalevano gli studi umanistici, dopo, i più validi avrebbero approfondito i loro studi presso il Collegio dei Gesuiti di Brera, gli altri avrebbero continuato la formazione in seminario;[23] le pratiche pastorali etc., le proteste dei partecipanti furono vane, insomma questo primo periodo di governo fu caratterizzato dall’esecuzione di tutto il programma tridentino, egregiamente condotto da Ormaneto, coadiuvato da monsignor Goldwell, fu proclamato anche un Concilio Provinciale tenutosi poi nel 1565. Sia il Sinodo Diocesano sia il Concilio Provinciale saranno i primi rispettivamente degli undici e sei convocati nei venti anni di governo della diocesi milanese.[24]

Dopo avere distribuito una parte dei suoi beni e ridotto il suo tenore di vita, Borromeo arrivò a Milano nel mese di settembre 1565, poco prima di essere privato della collaborazione di Ormaneto, il quale, l’anno successivo, fu nominato Vescovo di Padova e poi Nunzio in Spagna. Connesse a tali attività riformatrici furono le visite sistematiche della Diocesi, compiute dai suoi collaboratori ed è da notare che molte opere come la ristrutturazione delle carceri vescovili, l’assistenza alle prostitute pentite erano economicamente a carico di Borromeo, contraddicendo la fama di avaro che gli avevano imputato in quella Roma scandalizzata dalla vita senza sfarzi che conduceva. <<…si deve a lui il ridimensionamento della Corte papale, la diminuzione del lusso cardinalizio, in una parola la fine della fase mecenati zia della Corte pontificia. La condanna dei Carafa da parte di Pio IV con la fine dell’uso di concedere ai nipoti di papi principati su cui esercitare la propria signoria aveva iniziato la trasformazione; l’attività riformatrice e soprattutto l’esempio del cardinale nepote Carlo Borromeo, contribuirono a cambiare la società romana del periodo ed a porre le basi per la riforma che sarà operata sotto Pio V>>.[25]

Il 9 dicembre 1565 muore Pio IV, lo zio papa e con il nome di Pio V gli succede il Domenicano Michele Ghisleri, il quale non era stato certo amico del suo predecessore, ma molto grato a Carlo per l’azione svolta in suo favore durante il Conclave. Borromeo tornerà a Roma solo in rare occasioni: per i conclavi, per l’Anno Santo del 1575, per il conflitto con il Governatore di Milano (1579-82), per le visite pastorali, per i pellegrinaggi a Loreto e alla Sacra Sindone, che fu trasportata da Chambery a Torino nel 1578, il Presule si recò in questa città lo stesso anno ed altre tre volte nel 1581, nel 1582 e nel 1584 poco prima della sua morte.

Borromeo, nel discorso introduttivo pronunciato al primo Concilio Provinciale, delineò chiaramente il suo programma pastorale, vertente principalmente su cinque direzioni: riformare il clero secolare e regolare; creare i seminari per la formazione dei sacerdoti; restaurare la liturgia ambrosiana; coinvolgere il laicato nella vita della chiesa per mezzo di predicazioni e attività educative rituali, al fine di una riforma morale e sociale; la lotta contro le eresie.[26]

Il futuro Santo trovò l’ostilità del Senato alla pubblicazione in Milano della Bolla “In Coena Domini”,[27] emanata da Pio V sulla lotta alle eresie e contro i bestemmiatori, ostilità che venne ribadita in occasione della nuova bolla sull’inquisizione dalle autorità civili, contrarie alla messa in atto senza la loro autorizzazione. Il 20 novembre 1566 il Cardinale fece richiesta per avere degli “sbirri”autonomamente da quelli dei magistrati per eseguire esecuzioni contro il clero disubbidiente ed altri casi a lui spettanti, e, senza attendere la risposta del Senato, fece arrestare da un bargello il Prevosto di Sant’Ambrogio. Immediata la reazione del Senato, che ordinò ai bargelli e ai “birri”, pena la forca, di non attendere agli ordini dell’Arcivescovo senza espressa licenza del Capitano di giustizia, il Papa stesso intervenne in tale disputa asserendo di non essere d’accordo che il Borromeo avesse quanto richiesto, nonostante ciò il Senato deliberò delle misure particolari nel caso in cui il Vicario del Cardinale fosse andato alla processione del “Corpus Domini” con il drappello armato.[28]

Le emanazioni del prelato risultarono però inconciliabili con la legislazione laica. Le disposizioni dell’Arcivescovo, infatti furono giudicate un pericoloso attacco al primato del Re di Spagna, il quale considerava intoccabili i propri privilegi in ambito religioso, giuridico e beneficiario. Nel 1525 con il trattato di Madrid, il Ducato di Milano fu ceduto dalla Francia a Carlo V e dall’anno successivo dipese da Filippo II di Spagna, il quale designava il governatore dello Stato, tra le numerose questioni sorte tra l’Arcivescovo e il potere temporale ci fu anche quella dell’introduzione, nel 1563, dell’Inquisizione spagnola a Milano: da circa trent’anni si stavano infiltrando nella città tendenze luterane, calviniste, zwingliane etc., nel 1547 le autorità milanesi avevano bandito dalla città un cospicuo numero di ecclesiastici, che si erano rifugiati in Svizzera. Filippo II iniziò le trattative con il Papa per mettere in opera l’Inquisizione nella capitale lombarda, ma il Pontefice fece opposizione non tanto all’istituzione, ma alle sue procedure e all’invasione del potere civile in ambito religioso, questa era anche l’opinione di Borromeo, il quale come giurista ricusò i modi inquisitoriali spagnoli che accettavano accuse anonime e come uomo di Chiesa non accettò l’ingerenza dello Stato e condusse la caccia agli eretici avvalendosi di un piccolo corpo di polizia ecclesiastica o “Famiglia Armata”per eseguire le decisioni del Tribunale vescovile ed anche di un’associazione di circa quaranta nobili milanesi detti “crocesegnati”, nata per eliminare l’eresia. Così scriveva a Nicolò Ormaneto a Roma: <<Questi Signori Senatori, oltre li altri contrasti che ci fanno et disturbi che si sforzano di dare in molte maniere, cercano ancho di spogliarmi delli ministri più intimi, cio è delli Vicarij con varij officij sotto mano, et molestie dispiacendo a loro a punto il dissegno ch’io ho di tener in questo Tribunale persone che non sieno di questo Stato, perché non m’habbiano poi ad abbandonare per rispetto temporale, quando vengono così fatte turbolentie di queste contestationi coi Magistrati secolari come hanno fatto questi altri ministri inferiori>>.[29]

Contro le sette, i ribelli, i carnevali, le concussioni, Carlo preferiva la severità della predicazione o della legge ecclesiastica, era sua convinzione nella funzione pastorale del Vescovo fosse implicita anche la piena giurisdizione sul gregge, ma questa invasione in ambito giuridico sembrò pregiudicare i diritti del Senato, che ritenne inaccettabile affidare i colpevoli alla polizia dell’Arcivescovo anziché al braccio secolare, specialmente in questioni di dubbia competenza ecclesiastica. Borromeo colpì con la scomunica il Governatore dello Stato Requesens, il quale fece le sue proteste al Papa che lo sollevò privatamente dalla scomunica, il suo successore, il marchese di Ayamonte, a causa di divergenze nate dalle feste di Quaresima chiese al Papa l’allontanamento dallo Stato del Cardinale, ma Filippo II temeva per la sua immagine di difensore della Chiesa e Pio V aveva bisogno dell’aiuto della Spagna contro i Turchi, quindi si cercò da entrambe le parti di evitare lo scontro frontale che sembrava inevitabile.

Nel 1566 Niccolò Ormaneto fu chiamato a Roma dal Papa, nonostante la lontananza rimase costantemente in contatto epistolare con l’Arcivescovo milanese, tenendolo informato anche sui minimi particolari di ciò che avveniva nella Curia romana e riferendo, nelle sue lettere pressoché giornaliere, le intenzioni del Papa circa i problemi relativi ai rapporti del Borromeo con il Re, il Senato e il Governatore di Milano. Riportiamo due esempi che ci fanno capire il rapporto tra Carlo e Ormaneto e la difficile situazione creatasi tra il Prelato e il Governo spagnolo a Milano.

Carlo a Ormaneto, da Milano 23 luglio 1567: <<Qui alligata sarà copia d’una lettera scrittami dal Re credenziale nel Signor Governatore, il quale m’ha poi mandata la medesima lettera di Sua Maestà, nella quale mostra d’havere havuto informatione da Fiscali et dal Presidente ch’io m’usurpi della giurisdittione sua, onde mi esshorta a cessare da questo almeno fintanto che si veda l’appuntamento preso da Nostro Signore dopo havere udito quel tanto che si è mandato a dire dal Senator Chiesa. Da che si comprende che Sua Maestà sia per stare alla dichiarazione di Sua Beatitudine, la quale però è bene sollecitare che venga quanto prima>>.[30]

Ormaneto a Carlo, da Roma 16 agosto 1567: <<Non ho mancato di far quell’officio che la mi commette con Nostro Signore per la persona del Signor Governatore, qual ha scritto a Nostro Signore due lettere in risposta del breve et della lettera che Sua Santità scrisse a lui, stando pur su questo che Vostra Signoria Illustrissima è quella che innova tutta via cose nove contro la giuridittion Regia, facendo instantia che Sua Beatitudine le scriva che cessi da queste innovazioni dimandando l’assolutione per gli già scomunicati, cosa che Sua Santità non intende di far…>>.[31]

Nuovo motivo di crisi fu il Capitolo di Santa Maria della Scala, ente ecclesiastico di patronato regio, quindi esente dalla visita del Vescovo, che Carlo voleva riformare, e nonostante varie opposizioni, elesse dispoticamente il superiore, controllò le finanze, visitò le case e il 9 agosto 1569 si presentò alla porta della Chiesa e malgrado la presenza di armati da entrambe le parti, scomunicò tutto il Capitolo. Da una copia della lettera scritta il 29 agosto 1569 dal Cardinale al Papa, veniamo a conoscenza del fatto con le sue stesse parole: <<Il bando fatto dal Signor Governatore et Senato pertinente alla Giurisdittione Regia, se bene in apparenza ha il pretesto di detta Giurisdittione,  si vede però per le cause pregnanti che contiene il scoppo suo principale essere di spogliar questo Tribunale ecclesiastico et anche quello di N. S. in queste parti delli ministri suoi et dell’essecutione della sua giurisdittione, come già se n’è visto seguir l’effetto, che tutti li miei Notari civili et criminali, avvocati et servitori publici et ogn’altra persona impaurita da questo bando non ardisce di far rogiti, né pur anche scritture, né portar commandamenti, citationi, né altra cosa, ove si tratti in qual si voglia modo di laici, ancorché per delegatione Apostolica, come ne vedrete qualche cosa per l’informationi che si mandano […] Et nel medesimo tempo è venuto il Vicepresidente a spiegarmi in nome del Duca et del Senato con belle parole a soprasedere anchora due o tre mesi, perché se allora poi non mi mostreranno il consenso, mi lascieranno visitare et mi daranno il braccio, ma ben si può vedere che questa dilatione non è ricercata a buon fine, con tutto questo gli ho risposto che ben sanno essi in iure, che io non devo essere impedito da visitare come ordinario, finché attualmente esshibiscano il consenso espresso, il qual però son certo che non vi è, havendo io tanti atti anche vicini al tempo che fu concesso il privileggio, che arguiscono il contrario et quando l’esshibissero poi in quel caso si trattarebbe della facultà che ho per il concilio di Trento et che gli atti et termini insolenti et indegni usati di quei canonici non meritano dilationi, né ch’io sopporti più oltre l’inhobedientia et temerità loro, havendola per troppo sopportata con  molta indignità del grado, et luoco ch’io tengo. […] questa mattina è venuto da me uno de’ Fiscali regij a dimandare quattro mesi di termine […] Onde io gli ho dato risposta, che poiché non facevano altra risoluzione io havrei continuata la mia possessione facendo la visita, et così mi son risoluto di non lasciar passar hoggi a farla, et essendovi andato questa mattina, oltre l’insolentia et inettione violenta di mano fatta prima al Moneta Sacerdote, ch’io poco prima mandai a notificarli la visita, con dirli molte parole ingiuriose, quali vedere(te) per la sua relatione et testimonij, al mio arrivo anchora vedendo io che li miei, che entravano per la porta del Cimiterio erano da varie persone et con le mani, et con altri modi ributtati, mi risolsi di smontare sulla strada, et presa la Croce in mano entrai un poco dentro dalla detta porta, ancorché con gran difficoltà per le dette persone, et entrato che fui mi furono sfondrate addosso di molte spade, nel mezzo delle quali era l’Economo, et tutti insieme mi vennero incontro con armi et con gride et altri tumulti scandalosi gridando Spagna Spagna, onde mi spinsero fuori di detta porta del Cimiterio, urtandomi con una delle ante di essa porta, dove feci poi la publicatione dell’interditto et scomunica ridetta, come vedrete per la copia autentica che si manda, et Monsignor Castello che restò dentro doppo me attaccò anche la cedula alla porta, se bene fu subito stracciata. Rinovai poi subito l’atto della scommunica in Duomo più esplicitamente leggendo de verbo ad verbum la scrittura che non havevo potuto leggere là per il tumulto>>.[32]

Il 26 ottobre dello stesso anno, Gerolamo Donato, detto il Farina, frate dell’Ordine degli Umiliati, riuscì ad introdursi armato nella cappella dove il Prelato stava pregando e a sparare la celeberrima archibugiata contro il futuro santo, il quale uscì illeso dall’attentato. L’episodio è molto conosciuto: la notizia di tale fatto fece enorme scalpore, sia per la gravità del gesto sia perché lo scampato pericolo fu creduto un vero miracolo, che insieme all’imperturbabilità di Carlo, il quale ordinò di proseguire la celebrazione della liturgia senza interruzioni, incrementò la sua fama di santità e permise al Farina di fuggire. Pio V, Filippo II e il Governatore di Milano pretesero che si facesse luce sull’attentato: il papa dette disposizioni perché l’Ordine fosse abolito e tutti i beni appartenenti agli Umiliati fossero confiscati e utilizzati a favore della Diocesi di Milano, il Re di Spagna costrinse il Capitolo di Santa Maria alla Scala a sottomettersi pubblicamente all’Arcivescovo e convinse il Governatore ad esprimere al presule la loro stima e devozione. Il Farina e i due Prevosti complici, Girolamo di Cristoforo e Lorenzo da Caravaggio, rei confessi sotto tortura, furono condannati a morte.[33]

Passato lo scompiglio suscitato dall’attentato, le controversie tra il Cardinale e il Senato continuarono in modo grave, come le definì Tommaso Zerbinati, Ambasciatore della Casa estense: <<…specialmente a causa della molta autorità che l’arcivescovo si prende sui laici>>, infatti nel 1571, lo stesso Zerbinati in una sua relazione comunica che: <<Un bargello del cardinale abbattè la porta di un gentiluomo de’ Crivelli ritenuto concubinario, il quale difendendosi cadde ucciso>>, l’immediata reazione del Podestà fu quella di procedere contro le guardie del Borromeo.[34]

Ad accrescere la popolarità e la fama di santità contribuì molto anche la carità e la dedizione straordinaria che Carlo dimostrò verso il suo popolo durante la peste del 1576, così lo descrive Giovanni Pietro Giussani riferendosi a tale periodo: <<Ritiratosi poi in se stesso, e considerando come questo era un flagello mandato da Dio per castigo de’ peccatori, pensò saviamente, che il rimedio principale fosse di placare l’ira divina; per il cui fine si diede, con maggior frequenza del solito, alla santa Orazione, pregando in stantemente Sua D. M. che si degnasse aver misericordia del suo popolo, e donasse a lui, & a gli altri, lume di conoscere la sua santissima volontà, e quanto far dovevano in aiuto della povera, & afflitta Cittàe, e grazia afficace per essequirlo; accompagnando le sue orazioni col digiuno cotidiano […] Ordinò di poi tre processioni generali di tutto il Clero, e Popolo, le quali furono celebrate con gran concorso di tutti gli ordini; e nelle Chiese, dove si andava con la processione, egli predicava al Popolo, esortando tutti alla penitenza>>.[35] Borromeo diventa una figura leggendaria, gigantesca, che non viene colto dall’archibugiata del Farina, non viene contagiato dalla peste, nonostante l’assistenza ai malati, che dorme e mangia appena, che attraversa luoghi inaccessibili in ogni stagione per visitare le parrocchie della sua Diocesi. Per il Cardinale di Santa Prassede il Vescovo era il massimo responsabile della condotta morale del popolo, che voleva conformare a criteri molto rigidi, conducendo anche un’impavida guerra contro il teatro e gli spettacoli che considerava abitudini pagane, soppresse balli e superstizioni, sostituendoli con azioni: in pubblico professò la sua devozione verso i santi, egli stesso guidò le processioni delle reliquie, si recò più volte come pellegrino a Torino per visitare la S. Sindone ed in molti santuari intitolati alla Vergine, dando esempio di una religione non astratta e spoglia.

Carlo fu inflessibile anche contro l’eresia e ogni forma di superstizione, mandando al rogo numerosi eretici e presunte streghe. <<Le pestifere eresie come loglio e zizzania hanno occupato i campi della Religione Cristiana, e quasi soffocano il frumento. Non s’adora più Dio, anzi con mille obbrobj è bestemmiato ogni giorno: i Luterani, i Calvini e mille altri simili mostri orribili, sono l’Idoli delle misere genti. E che luogo può aver la speranza se non si crede il Paradiso, e se si nega la providenza di Dio? Dove è la carità, dove l’amore e ‘l timor santo? Non s’osservano più i Comandamenti di Dio, non si crede ch’egli abbia a giudicare i vivi e i morti; son reputate favole le pene dell’Inferno. O secolo miserabile! E’ perduta ogni giustizia verso Dio, né si osserva più verso il prossimo>>.[36] Dalle parole, riprese da un discorso dell’Arcivescovo, possiamo capire chiaramente un’accusa di quasi ateismo e di sconvolgimento totale dei fondamenti della religione cristiana nei confronti dei riformatori definiti “mostri orribili”.

La posizione geografica del Ducato di Milano, che si estendeva dai passi alpini fino alla costa ligure, lo rendeva pericolosamente esposto al diffondersi del Protestantesimo, specialmente quei territori transalpini che si inoltravano nei luoghi dove la riforma dominava, inoltre era basilare (indispensabile) per il progetto di restaurazione cattolica in Europa di Filippo II, dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559), che sancì l’uscita della Francia dalla scena politica italiana a favore della Spagna, il cui potere regnava incontrastato.

Durante le cosiddette guerre di predominio, lo Stato di Milano aveva perso la valli del Ticino e la Valtellina, a favore rispettivamente dei Bernesi e dei Grigioni, queste perdite mettevano a repentaglio il territorio milanese a possibili aggressioni dal Nord. Ad Est il Ducato confinava con la Repubblica di Venezia, che aveva una certa fama di tolleranza religiosa e politicamente in opposizione alla supremazia spagnola in Italia. Vari furono i focolai riformistici che si diffusero in Lombardia già dal tempo di Carlo V, il più cospicuo dei quali fu quello della “Ecclesia Cremonensis”, da dove tanti fuggiaschi raggiunsero la città di Ginevra.[37]

La Visita Apostolica che Carlo Borromeo effettuò nella Valle Mesolcina tra il 9 e il 29 novembre 1583 fu l’inizio di un grande progetto per il recupero dei Grigioni e di altre terre svizzere conquistate dalle dottrine della Riforma protestante.

Un documento reperito presso la Biblioteca Ambrosiana ci informa ampiamente sulla situazione temporale e spirituale della Valle Mesolcina prima della Visita Apostolica effettuata dal Cardinale Borromeo, si tratta di una: <<Instruttione generale del Stato de Grisoni >>.[38] La prima parte comprende <<alcune cose temporali per maggior cognizione dello stato spirituale>>. All’inizio del documento troviamo una descrizione della divisione politica del Dominio dei Grisoni, diviso in tre parti chiamate Leghe, la Lega “Grisa”, quella chiamata ”Cadede” e quella detta delle “Dritture”, ma tutte insieme sono denominate “Grisoni”, dal nome della prima Lega, che accettò, nonostante fosse libera, come federate le altre due, che, a differenza della prima non godevano della libertà, <<…perché la Cadede fu già per la maggior parte Iurisditione anco temporale del Vescovato di Coira Citta e capo di detta Lega, la qual ha continuato sempre a giurare la fedeltà a tutti li Vescovi e ricever da essi come Prencipi d’Imperio, la facoltà d’essercitar la giurisdittione da che forse questa lega ha preso il nome di Cadede, come casa e dominio di Dio, sendo sottoposta nell’una e l’altra giurisdittione alla Chiesa>>.[39] La Lega Caddea venne costituita il 29 gennaio 1367 e comprendeva Coira, la regione di Domigliasca, Obervaz, Bergun, la Valle delle Sursette, l’Alta Engadina, Val Brgaglia, Val Monastero e la giurisdizione di Sottoclava in Val Venosta. Poschiavo, sottoposto a Milano, entrò a far parte della Lega nel 1408. Il sigillo era uno stambecco, il quale originariamente era lo stemma vescovile, che compare nella Cattedrale di Coira fin dal 1252, ma viene ripreso dalla Lega Caddea alla sua fondazione.[40]

La Lega delle “Dritture” (Lega delle Dieci Giurisdizioni), fondata l’8 giugno 1436 a Davos,  fu prima sotto la giurisdizione dei baroni di “Vazz”, poi dei conti di “Tocamburg” (von Toggenburg), <<…indi dei Conti d’Amasia, quali finalmente la cambiorno con gli Arciduchi d’Austria, per alcune terre del Dominio loro nella Val di Venusta…>>,[41]la quale famiglia non viene menzionata nella storia della Lega delle Dieci Giurisdizioni, anzi la Lega si forma dopo la morte dell’ultimo conte di Toggemburg avvenuta il 30 aprile 1436.

La più importante delle Leghe è quella Grisa, oltre ad avere dato il nome a tutte tre le Leghe, ha tenuto sempre il ruolo principale nelle “Sessioni” e nei “Consegli” generali, chiamati Diete. Ha come insegna una croce metà bianca e metà grigia. Per importanza la seconda è quella di “Cadede”, infatti alle Diete siede dopo quella Grisa; quella <<…delle Dritture tiene l’ultimo luogo, come quella che ha più picciola giurisdizione e de luoghi alpestri e selvatichi, dove dicono vivere huomini che non hanno mai usato pane per cibo loro, vivendo solamente de frutti della terra et latte, e perciò questa lega porta per insegna un huomo selvatico>>.[42] Le Tre Leghe, continua il documento, hanno le proprie giurisdizioni: la Lega Grisa ne ha tredici, la Caddea undici, quella delle Dieci Giurisdizioni sette, quindi le trentuno giurisdizioni, in circostanze particolari, sarebbero in grado di dare venticinquemila uomini dai diciotto ai sessant’anni validi per fare la guerra, oltre agli ottomila uomini della Valtellina e Val Chiavenna, loro sudditi.

Segue una descrizione geografica del territorio: tutto il “dominio” è di circa centocinquanta miglia italiane, confinanti ad Est con il <<…paese dell’Arciduca d’Austria et il Bergamasco della Signoria di Venetia…>>,[43] a Sud con <<…il Comasco del Stato di Milano e parte de Signori Svizzeri, per le terre ch’hora tengono, ch’erano prima de Duchi di Milano…>>,[44] ad Ovest e a Nord con la Svizzera e parte della Svevia sottoposta all’Arciduca d’Austria, <<…la maggior parte è di la da monti, perche di qua in Italia vi restano solamente la Val Mesolcina e di S. Giacomo della Lega Grisa, Poschiavo in bregaglia della lega di Cadede et le Valli suddite di Chiavenna e Tellina. Sono tre passi ordinarij d’andare oltre i monti nel sudetto dominio de Grisoni, l’uno a Poaschiavo che passa i monti dell’Agnedina della lega di Cadede, l’altro della Val di S. Giacomo, per splucha della lega Grisa, qualè ordinario e frequentato, il 3° di Misocho della Val Mesolcina che passa la montagna di S.to Bernardino e questi ultimi fanno ambidue capo a Splucha di dove seguitando il Rheno sino a Coira si passa per valli e rupi tanto precipitose, che diece homini soli difenderebbero il passo, in maniera che non basterebbe a forza humana di transitare contra la voglia loro >>.[45] Questi territori, per la maggior parte montuosi, sono principalmente pascoli o coltivati a fieno, che viene prodotto in grande quantità, permettendo lo sviluppo dell’allevamento soprattutto bovino, viene descritta mediocre la produzione del grano, a causa del terreno e delle temperature, molto limitati i terreni coltivati a viti, ma il vino viene importato dalla Valtellina ed è di buona qualità.

Gli uomini, continua la descrizione, sono robusti e atti ai lavori faticosi, sono premurosi tra loro ed anche con i forestieri, ma molto sospettosi. Pochi sono i discendenti di nobili famiglie e quei pochi non hanno molta autorità, <<…perché sendo il governo de Grisoni popolare, bisogna che tengano conto d’ogn’uno et per esser quei che sono eletti dal popolo al governo, per la maggior parte poveri e bisognosi fanno le deliberazioni loro con molta passione per l’interesse ch’ogn’uno ne pretende per una via o per l’altra, si che col denaro par che s’ottenerebbero tutte le cose per difficili et importanti che fussero>>.[46]

Le Tre Leghe hanno come entrate economiche i proventi criminali della Valtellina e Chiavenna e quelle del dazio che si riscuote in questi luoghi, però sono obbligati a pagare al Vescovo di Coira mille lire l’anno, come stabilito da una convenzione: sembra che queste Valli con Poschiavo furono donate, nell’anno 1404, da Modestino, figlio di Barnaba Visconte di Milano al Vescovado di Coira, ma nel 1514 furono occupate dai Francesi e le Tre Leghe con il Vescovo pro tempore le recuperarono a spese comuni, <<…si che convennero che le leghe n’havessero le due parti delle tre e l’altra il Vescovo, però al tempo del Vescovo Ziglero, quando cominci orno a germogliare l’heresie in detti paesi, le leghe si usurporno tutto il Dominio di dette Valli. Si che il Vescovo fù forzato contentarsi del sudetto reddito di lire mille l’anno solamente>>.[47] Le Tre Leghe, inoltre, ricevevano ogni anno dall’Arciduca Ferdinado d’Austria seicento fiorini d’oro, in seguito ad un accordo con l’Arciduca Massimiliano per la “guerra” tra loro a causa della giurisdizione della Lega delle Dieci Giurisdizioni. Da oltre settanta anni, altri quindicimila scudi li ricevevano dal Re di Francia per distribuirli a persone che avevano incarichi di governo, quindi alcuni ricevevano di più, altri di meno secondo l’importanza dell’ufficio che svolgevano e questo era causa di malcontento, tanto che era necessaria la presenza di un ambasciatore francese, il quale cercava di accontentare tutti affinché nessuno si lasciasse corrompere da offerte di denaro superiori a quelle percepite. Sono popolazioni molto povere poiché non vi sono commerci e “mercimonij”.

Il documento ci informa che il paese non ha fortezze, né guardie e soldati in nessun luogo, perché protetti dalle Confederazioni svizzere confinanti e dalla difficoltà dei passi montani, dalla parte dell’Italia, che rendono sicuri questi territori come se fossero delle fortezze.

Le Tre Leghe non battono moneta, questa facoltà è data solo al Vescovo di Coira, il quale, dal 1160 circa, si fregia anche del titolo di Principe dell’Impero, conferito da Federico Barbarossa,  nel 1366 Carlo IV concede al Vescovo di batter moneta, facoltà poco sfruttata a causa della povertà sia del Vescovado sia della popolazione: <<…da molti anni in qua da che cominciorno l’heresie…>>.[48]

Il manoscritto prosegue dando un’ampia spiegazione del governo dei Grigioni e del suo funzionamento: essendo un governo popolare, tutti gli abitanti, compiuti i sedici anni, partecipano ed eleggono i loro giudici sia per cause civili sia per quelle penali, i quali stanno in carica per due anni, eleggono anche le sessantatrè persone, che li rappresenteranno alle tre Diete annuali, che si tengono <<…nella festa della conversione di San Paolo, et all’hora s’attende principalmente all’elettione de gli offici alide luoghi et paesi sudditi s tutte tre le leghe, l’altra alla festa del S.mo Corpo di N.ro Sig.re e la 3° a S. Martino>>.[49] Nelle Diete vengono trattati problemi governativi ed altri concernenti i servizi delle Tre Leghe, ma quando occorrono decisioni circa le leggi, nuovi ordini e confederazioni con governanti, allora viene tutto rimesso alle deliberazioni popolari.

Per il governo della Valtellina e la Val Chiavenna, suddite di tutte tre le Leghe, viene eletto un governatore generale che si occupa della sicurezza pubblica di quei luoghi, con la facoltà di conoscere tutte le cause civili e penali<<… che occorrono in Sondria, terra principale di Valtellina, dove detto Governatore fa resistenza>>.[50] Il governatore, inoltre, conosce altre cause di altri luoghi, unitamente ai cinque Pretori, chiamati Podestà. Viene altresì eletto un Vicario generale, con residenza a Sondrio, con il compito di dare consiglio ai Pretori nei procedimenti penali, i quali avevano facoltà di diminuire o condonare la pena indicata, anche per quanto riguarda la pena capitale, eccetto i procedimenti ad istanza della parte offesa. In tali casi i Pretori non possono diminuire la pena né discostarsi dalla forma del consiglio, hanno, inoltre, il potere di vendere o donare i beni dei condannati, con cospicui ricavi. Viene eletto anche un Commissario di Chiavenna con pari autorità dei Pretori, oltre alla facoltà di procedere nelle cause penali senza il consiglio del Vicario.

Le cause civili e penali si definiscono senza bisogno di lunghi processi, in conformità degli ordini e statuti particolari di ciascuna giurisdizione e generali delle Tre Leghe e in conformità <<…ad alcuni loro riti, et usanze, quali osservano inviolabilmente, ne si tiene conto delle leggi Imperiali; per ciò non vi è in tutto il paese Giure Consulto alcuno che faccia l’officio di Giudice o Avocato, eccetto in Valtellina, dove se ne trovano pure alcuni che essercitano l’officio dell’Avocato e Procuratore>>.[51]

Le sentenze rese nei procedimenti penali non venivano appellate, ma subito eseguite, in caso di reati gravi erano definite col voto e il parere, per alzata di mano, di tutto il popolo di ciascuna particolare Giurisdizione, ma se il valore della causa civile superava una certa somma era ammesso l’appello nella Dieta susseguente, in cui si eleggevano giudici particolari per la trattazione dei procedimenti d’appello.

Quando sorgono liti tra due Giurisdizioni particolari della stessa Lega, i messi inviati alla Dieta, eslusi quelli delle Giurisdizioni interessate, eleggono dei Giudici per definire la causa e nel caso di contenzioso tra due Leghe, la terza assume il ruolo di Giudice. Se un soggetto non sottoposto alla loro Giurisdizione avanzasse pretese contro le Tre Leghe vengono eletti Arbitri da entrambe le parti, <<…da quali nel luogo de Valstat Iurisditione de Svizzeri insieme con alcuni deputati da essi Svizzeri si conosce e determina la causa, però nelle differenze tra l’Arciduchi d’Austria et esse tre leghe soleva per il passato esser Giudice il Vescovo di Costanza, all’hora città libera, ma hora che è sottoposta ad essi Arciduchi li Grisoni lo recusano>>.[52] Ciò che è stato detto nel manoscritto, sullo stato temporale, governo e dominio territoriale del paese dei Grigioni, è stato scritto per rendere meglio l’idea dello stato spirituale, che sarà l’argomento della seconda parte.

Tutto il territorio dei Grisoni, continua il documento, si trova sotto la Diocesi di Coira, ad eccezione della Valtellina e della Val Chiavenna, appartenenti alla Diocesi di Como, il Vescovo di Coira è anche il capo, come detto prima, della Lega Caddea, e risiede in un Vescovado molto antico, infatti il primo Vescovo Asimo o Asinio, viene menzionato nel Concilio di Calcedonia, convocato dall’Imperatore Marciano nel 451d’accordo con Papa Leone I, per dirimere la questione monofisita, <<…se ben circa 300 anni prima si trova ch’el paese ricevette la legge di Christo quale gli fu predicata da S.to Lucio martorizzati ivi con S.ta Emerita sua sorella, i corpi de quali sono anco sino al dì d’hoggi conservati nella Cathedrale di Coira>>.[53] La tradizione, infatti, attribuisce la cristianizzazione e la fondazione della Diocesi a San Lucio, patrono della Chiesa curiense, sotto la quale si trovano, al tempo in cui viene scritto il documento, 123 pievi. Una lunga descrizione di ogni pieve e di tutte le istituzioni ecclesiastiche ci informa anche della presenza più o meno numerosa degli eretici che vi si trovavano, sostenendo che in ogni pieve è presente almeno un predicatore, se non due mandati, per la maggior parte, da Zurigo e tutti seguaci di Zwingli, i quali si servono delle Chiese solamente per diffondere la loro dottrina. Non officiano il rito funebre, ma seppelliscono i defunti solo con due o tre suoni di campana, fanno suonare l’Ave Maria, ma non la recitano e in alcune pievi, dove è maggiore la presenza di eretici, la fanno suonare di sera.[54]

La terza parte del manoscritto è <<…pertenente alle cause della ruina spirituale di questi paesi>>.[55]

Nei luoghi dei Grisoni, l’eresia penetrò nel 1525 circa, ad opera di Zwingli e dei suoi proseliti, i quali <<…sparsero ivi questo veleno in persona. Non hebbero questi molta difficoltà a sedurre buona parte del paese in poco tempo, perché il popolo tutto, et massime i capi, all’horaerano mal sodisfatti di Paolo Ziglero, Vescovoo di Coira, quale presero in sospetto, che come familiare e dipendente dall’Arciduca Massimiliano d’Austria, che all’hora guerreggiava con essi Grisoni, per la Giurisdittione delle Dritture, non tenesse la parte dell’Arciduca contro di loro. Sì che fu accettata facilmente la predicata libertà licentiosa, e sottratt.e dall’obedienza di Santa Chiesa, per la quale niuno vi era che facesse, o che ne prendesse la protettione. Non il Vescovo per che dubitando di qualche particolare affronto si ritirò a stare nel Castello di Crostemborgo, sotto il dominio supremo dell’Arciduca sudetto, dove stette continuamente fino alla morte, lasciando le sue pecorelle in preda a lupi: non i Rettori delle Chiese particolari, per che vedendo fuggir il capo, ciascun attese a salvar se medesimo, et alcuno anco d’essi per haver libertà di carne si fece heretico: non i superiori temporali, per che essendo il governo in mano del popolo imprudente e desideroso di libertà, s’appigliò facilmente alla heresia, la quale fu prima introdotta nella Città di Coira, poi s’è andata allargando per tutto il paese, non solo di là, ma anco di qua da Monti, anco nelli sudditi come di sopra s’è discorso>>.[56]

Al Vescovo Paul Ziegler von Ziegelberg successe Licius Iter, con l’approvazione del popolo, che proprio in quei tempi aveva cominciato ad ingerirsi nell’elezione dei Vescovi: Iter non si preoccupò della situazione che si stava determinando, <<…dissimulò di veder le ingiurie e torti che tuttavia da laici si facevano a Santa Chiesa, con l’appropriarsi i beni ecclesiastici, cacciare claustrali et usurpare la giurisdittione del foro ecclestiastico>>.[57] Il successore, secondo il documento, fu Beatus di Porta, ma nella cronotassi dei vescovi di Coira risulta che dopo Iter fu eletto vescovo Thomas Planta (19 marzo 1550-4 maggio 1565), il quale prese parte al Concilio di Trento negli anni 1551-1552, fu un abile amministratore, ma si rifiutò di introdurre riforme ecclesiastiche; fu nel 1565 che venne eletto Beatus di Porta, nato in Tirolo presso Merano, il quale trasferì la sede dell’Episcopato a Castel del Principe e non volle far ritorno a Coira, nel 1580 si dimise e tornò nella parrocchia che gli era stata affidata nel 1576. Il 6 novembre 1581 fu eletto Vescovo Peter von Rascher <<…huomo d’anni 35, il quale prima era alla cura d’una Chiesa parrocchiale di quel paese, poi essendo Canonico della Cathedrale di Coira, fu fatto Vescovo, come quello che di due o tre ne’ quali il popolo consentiva, fu giudicato il più tollerabile all’hora>>.[58] Von Rascher, originario di Zuoz, “Terra eretica”, appartenente alla Lega Caddea, che in passato era suddita dei Vescovi di Coira, mentre attualmente, continua il documento, vuole essere superiore al Vescovato e non tollera che venga eletta una persona che non approva, anzi al Vescovo pro tempore hanno fatto promettere alcune cose considerate contrarie e dannose alla dignità, alla libertà e all’autorità ecclesiastica: non deve rinunziare alla sua carica senza il consenso della Lega; non deve esaminare, indagare su questioni pertinenti alla religione, ma lasciare che ognuno <<viva a suo modo, conforme a gli ordini del paese>>;[59] che non si intrometta nel recupero dei beni ecclesiastici in mano ai laici; obbligo di rendere conto, se richiesto, alla Lega Caddea delle entrate dell’Vescovado. <<Questo ha ben fatto residenza in Coira, cioè nel Vescovato, ma non si può negare che fin qui ha poco atteso a visitar la sua diocesi et fare altri offitij pastorali con le sue anime>>.[60]  Di tutto ciò era già stato informato il Pontefice.

Vengono elencate quattro cause principali come responsabili delle eresie dilagate in questi territori, la prima è che molti dei Signori Grisoni sono corrotti e contrari alla religione cattolica, per cui anche i loro sudditi sono molto esposti <<ad ogni pericolo d’infettione>>, soprattutto in quei luoghi in cui hanno trovato rifugio gli eretici fuggiti dall’Italia, <<…li quali sono molto più arrabbiati contra la fede catolica, e per altro più atti istromenti del Demonio a corrompere gli altri, che non sono i naturali Grisoni et paesani pur corrotti. Onde è quasi meraviglia che queste Valli non sieno molto più corrotte di quello che sono poi che non arriva il numero de gli Eretici in esse, alla decima parte de catolici, o, in circa, con tutto che vi s’aggiunge anco l’abbandono, per dir così, del suo Vescovo, il quale vedendosi maltrattato da Signori Grisoni con l’usurpatione d’alcune raggioni temporali del Vescovato, et anco impedita molta parte dell’auttorità e giurisdittione ecclesiastica…>>.[61] Nel corso di tanti anni queste popolazioni sono state abbandonate dai loro Vescovi, i quali non si sono mai occupati delle loro anime, nonostante che in passato, cioè prima della Riforma, non avessero mai incontrato impedimenti, quindi la causa principale del dilagare delle eresie è l’incuria dei Vescovi verso i loro fedeli.

La seconda motivazione consiste nella mancanza di sacerdoti: le chiese sono vacanti, ma il popolo ha bisogno dei ministri spirituali e tale situazione ha fatto sì che siano stati accettati <<…ciascuno che loro si presenti in habito da prete ancorch’egli non habbia dimissionaria né facultà alcuna dal suo ordinario, anzi ancorch’egli sia sospeso et privato da esso ordinario di poter celebrareo amministrare sacramenti, pur l’accettano eziandio senza consenso ne auttorità dell’Ordinario di essi popoli e paesi Grisoni, overo suoi suditi, si come anco tolerano, et danno ricapito ad apostati, sfratati et fuggitivi, et a sacerdoti che continevano in publico concubinato con donne e figlioli in casa, celebrando cotidianamente, e talvolta hanno anco accettato puri laici, li quali essercitavano tutti gli officij sacerdotali in apparenza…>>.[62] Prima di stare senza ministri spirituali accettano anche gli eretici, questo avviene anche tra i riformati, infatti quando non hanno ministri, accettano anche quelli cattolici, come avviene in Mesocco, i cui abitanti sono per la maggior parte eretici, ma hanno accolto un predicatore Gesuita e sono molto numerosi coloro che vanno ad ascoltarlo, <<…tanto che bisogna che predicando egli dentro la Chiesa, presso la porta, il popolo l’ascolti di fuori per che non cape in Chiesa, et uno di questi giorni vi stavano con patienza, anco mentre nevicava loro addosso. Però essi eretici sono diligentissimi in mandar predicanti in tutti i luoghi, dove n’è bisogno et il Cantone di Zurich in particolare manda in abbondanza predicanti a tutto questo paese de Grisoni, dove si parla tedesco, et per questa via entrano ne luoghi cattolici, come s’è detto e di già hanno guadagnato da cinque o sei anni in qua molte pievi della lega di Cadede>>.[63]

La terza causa consiste nel comportamento deplorevole dei sacerdoti, che con la loro vita dissoluta danno il cattivo esempio al popolo, il quale non rispetta più l’autorità ed ha perso la deferenza dovuta verso il clero, anzi, contagiati da questi modelli <<…hanno abbandonato la vera religione per poter più liberamente caminar per la larga strada>>.[64]

La quarta causa viene definita la più importante di tutte le altre, poiché nonostante che la legge e l’accordo tra le Tre Leghe permetta al popolo di scegliere tra la religione cattolica e quella riformata, nessuno deve permettersi di denigrare le rispettive fedi, specialmente durante le prediche. Un decreto risalente al 1581 esclude tutti i preti e i frati forestieri indistintamente, ad eccezione di quelli di nazionalità svizzera e di coloro che essendo stranieri, fanno giuramento di fedeltà e di residenza ai loro Signori. Non meno grave il fatto che gli eretici parlino dai pulpiti male della Chiesa cattolica e del clero <<…et fanno molte altre insolenze et irrisioni contra la religione catolica senza alcuna punitione>>.[65]  Molto grave ed incisivo è anche dare asilo a tutti i fuggiaschi ed apostati italiani e di altre nazioni, anche perché nella maggior parte dei casi sono sostenuti a spese delle Chiese locali, nonostante la popolazione sia cattolica. Quando un prete cattolico, prosegue il manoscritto, predicando al popolo, sottolinea argomenti pertinenti alla religione, ma che possono evidenziare gli errori delle eresie, viene <<…accusato e punito dai giudici secolari con ogni pretesto, et per questa vi hanno messo tanto timore et rispetti humani nel Vescovo et Canonici della Cathedrale di Coira, che se bene vi si celebra la messa non ardiscono però di predicarvi>>.[66]

La quarta parte del documento contiene i rimedi ad una situazione tanto grave, poiché l’enorme dilagare dell’eresia in questi paesi è un grande pericolo anche per l’Italia <<di qua da monti>> e soprattutto per la vicina città di Milano, dove gli eretici possono trovare rifugio, quindi urge trovare delle soluzioni per evitare un’ulteriore espansione delle eresie: la perdita di migliaia di anime di quei Paesi suscita compassione e afflizione, che deve spronare la carità del Pontefice ad aiutarli come essi desiderano e chiedono. Durante le Diete, i Cattolici si sono lamentati dei torti e delle violenze fatte loro e soprattutto di non poter vivere cattolicamente, ma anche nell’ultima Dieta, tenutasi a Tavau o Tavate, non hanno ottenuto nulla, anzi le ragioni esposte hanno dato luogo ad un tumulto che per poco non sono dovuti ricorrere alle armi, tutto ciò è dovuto al fatto che i Cattolici sono inferiori per numero e per voti, conseguentemente non hanno il coraggio di <<…mostrarsi liberamente quando bisognava per timor di non esser esclusi da gli offitij publici, alli quali, prevalendo sempre di voto gli heretici, non sono facilmente ammessi quelli che si scoprono esser assai Zelanti della Religione cattolica…>>.[67]

Sostanzialmente i rimedi consistono nel cacciare, da tutti quei paesi, gli apostati e i sacerdoti indegni, sostituendo questi ultimi con altri che svolgano i loro compiti conformi alla religione cattolica e parlanti la lingua tedesca, nei luoghi “al di là dei monti”, anche se ciò è ritenuto quasi impossibile, creare nuove scuole e Seminari, che saranno certamente frequentati dai figli dei Signori di quelle terre, come già accade a Milano e a Mesocco, molto importante sarebbe poter fondare un Collegio a Coira, senza il contributo del Vescovo di questa città, in quanto molto gravato dai debiti <<…ma converrà che si faccia sotto nome del Vescovo et la sostentazione che se li darà da Nostro Signore sia secretissima>>.[68] <<La somma dunque di tutti i remedij si riduce a perseverar anco con la visita personale incominciata, in risvegliare, consolare, allettare, animare, et confirmare opportunatamente quei popoli con varij offitij paterni verso di essi…>>.[69]  Maggior numero di sacerdoti italiani invece occorrerebbe nei paesi sudditi ai Grigioni, ossia in Valtellina e Val Chiavenna, ma non sono certamente posti ambiti a causa dei bassissimi redditi dei benefici, che dovrebbero essere integrati con provvisioni annue. <<Et per animar i sacerdoti a questa impresa, come Nostro Signore già nel tempo della peste corporale di Milano diede al Signor Cardinale di Santa Prassede piena facoltà di porsi valere, etiandio doppo la peste estinta dell’opera de sacerdoti regolari d’ogni ordine et anco secolari d’altre diocesi, anco senza consenso ne licenza die superiori, molto più si potrebbe spedire un Breve di simil facoltà amplissima per aiuto di quelli paesi nella peste spirituale dell’anime…>>.[70] I consigli continuano dicendo che sarebbe opportuno concedere indulgenze e grazie spirituali per spronare i sacerdoti ad accettare il governo di queste parrocchie; inoltre, lasciare ai loro posti gli apostati e i fuggitivi italiani meritevoli e che da molti anni hanno cura di quelle anime, anche se illegalmente, poiché conoscono bene la lingua e le usanze di quei popoli e potrebbero fare del bene in futuro se fossero sciolti dalle censure.

Il terzo punto, considerato il più difficile, poiché si tratta di introdursi in questi paesi e, con determinazione, mettere fine ad una situazione non più sostenibile dai Cattolici: emblematiche sono le situazioni in cui si trovano la Val Chiavenna e la Valtellina, dove i Cattolici sono pronti a tutto pur di essere liberi nella loro professione di fede, certamente la visita del Cardinale Borromeo sarebbe un grande incoraggiamento e sia i sudditi che i Signori sono disponibili ad aiutare con ogni mezzo la venuta del Prelato, che anche in questi luoghi avrebbe lo stesso successo avuto in Mesolcina. <<Potrebbesi aiutare anco di fuori quest’offitio con lettere di tutti i Prencipi maggiori del Christianesimo procurate dalli Nuntij di Nostro Signore come dall’Imperatore, Re di Francia, Re Cattolico, et forse Venetiani, ma senza manco delli Svizzari Catt.ci alli quali già ha mandato il Sig.r Card.le e in occasione simile, cioè per le cose di Valle Mesolcina, che quanto a Venetiani non si spera molto in questa materia, per i rispetti di Stato considerabili in loro: ma potrebbe N .S. tentar ogni via […] scrivendo anco per ciò Brevi oportuni, et commettendogli di non dar tutte provisioni che levassero, in mano del medemo Sig.r Card.le per valersene oportunatamente […] non sarebbe di poco aiuto anco l’andata del med.o Sig.r Card.le in così fatta occasione a trattarne ex professo etiam co ‘l nome di N. S. con le tre leghe, et con le comunanze de popoli de Signori. Con la qual occasione d’haver a trattar con loro passarebbe per quelle due Valli de sudditi dando quel calore che bisognasse a catt.ci almeno privatamente, quando gli trovasse impedimento da SS.ri di far offitij spirituali co’ popoliin publico, di che non possiamo ancora accertarci>>.[71] A questi rimedi, continua il documento, si possono aggiungere alcuni aiuti: i sacerdoti dovrebbero avere ampia autorità di assolvere dai casi riservati, specie quelli riguardanti l’usurpazione dei beni ecclesiastici e i contratti usurari, per riavvicinare i responsabili alla Chiesa. Colmare il bisogno di libri spirituali e per il catechismo da distribuire al popolo perché leggendoli si renderebbero conto dei propri errori; il Pontefice dovrebbe dare aiuti economici per ristrutturare le chiese fatiscenti. Di grande utilità sarebbe affiancare al Vescovo di Coira, poco pratico di governo, un Vicario esperto, in tal modo il Prelato avrebbe più tempo per fare visite pastorali ogni anno e assistere ai Capitoli.

Pur essendo evidenziate le cause della rovina spirituale e i mezzi per cercare di rimediare, ma con gli ultimi avvenimenti <<…si è venuto in cognizione, che non è espediente trattar con detti Grisoni per termini amorevoli, et civili, ma che più conviene trattar con maniera grave et risentita valendosi de mezzi che fossino timore o forza di farli condiscendere al giusto conveniente et honesto in favore de Catolici, per che i capi ch’hanno in mano e con i quali bisogna trattare, essendo per la maggior parte eretici, hanno per scopo l’allargar la setta et falsa religione loro, et estinguere et annichilare la religione catolica […] Gli altri poi che non sono al governo, oltre che non s’ha occasione ne commodità di trattar con loro, non hanno communemente tanta capacità di ragione et restano impressi dalli capi del governo e da predicanti… >>.[72] Anche i ministri francesi non hanno il coraggio d’intervenire efficacemente, nonostante i loro rapporti con i Grisoni, per cui non sono di nessun aiuto, quindi restano solo due modi: il primo è quello di trattare con loro con molta autorità, <<…tale ch’habbino occasione di temere che nel paese fra di loro o con Svizzeri confederati nasca discordia e disparere, sapendo essi che tutta la grandezza e potenza loro consiste nella unione e colliganza…>>.[73] Questo modo potrà giovare sia ai cattolici sia ai riformati. <<L’altro mezzo da usare con i Grigioni è la forza, poiché sono coscienti di andare contro le loro leggi e di negare richieste ragionevoli perché hanno perversa e corrotta volontà e, volontariamente, non concederanno mai cose per la conservazione del cattolicesimo…>>.[74]

In una lunga lettera non datata, ma certamente scritta nel 1584, poiché si parla della visita nella Valle Mesolcina effettuata “l’anno passato”, del Borromeo al duca di Terranova, Governatore di Milano,[75] troviamo corrispondenza con quanto descritto nella “Instruttione “ suddetta, nel documento sono ripetute le gravi condizioni in cui versano i Cattolici, in particolar modo quelli della Valtellina e della Valchiavenna, poiché la Visita Apostolica in Mesolcina è già avvenuta e, come scrive il Prelato, con grande successo: in soli quindici giorni <<…essa Valle, con molta facilità, e suavità, si è riformata tutta, e rinovata spiritualmente…>>,[76] gli apostati restituiti alla loro religione, i sacerdoti scandalosi cacciati e sostituiti con altri ligi al loro dovere e stato ecclesiastico, istituite scuole pubbliche cattoliche e una Casa per i Gesuiti, convertiti moltissimi eretici, tra i quali persone importanti e autorevoli, <<…et nell’occasione di disturbi ricevuti per conto della conversione, et del progresso loro spirituale hanno mostrati segni grandi di voler piu tosto perder la vita, che partirsi dalla obbedienza di Santa Chiesa catolica, protestando cio pubblicamente nelle chiese, et nelle piazze sia le donne et i fanciulli piccioli>>.[77] Nessun accenno ai roghi delle donne accusate di stregoneria.

Il Cardinale auspica, poi, che la Santa Sede attui tutti i mezzi possibili per quei popoli, affinché possano fare tutte quelle cose che permettono loro di vivere cattolicamente <<…et pur da poi che l’eresia cominciò a entrare in questi paesi, vi e legge et ordine universale di tutte tre Leghe, che ciascuno possa vivere liberamente nella religione catolica, o nella falsa setta dell’eresia>>.

Tornado all’antefatto della visita, già l’anno precedente, Carlo si era fatto nominare dal successore di Pio V, Gregorio XIII, Visitatore Apostolico di tutte le diocesi svizzere:.[78] Il documento è datato 27 novembre 1582.

Con una lettera del 19 giugno 1583 il Cardinale informa Monsignor Speciano[79] della visita che farà in alcuni luoghi della Svizzera, avendone facoltà per breve del Pontefice, ma gli chiede di poter avere l’autorità pro tempore di dare l’indulgenza plenaria nelle località che saranno oggetto di tale visita.[80] Da buon diplomatico annuncia la Visita Apostolica all’Imperatore, al Re di Francia e a Filippo II, affinché i loro ambasciatori persuadessero i Grigioni a non impedire la visita o a dare fastidio, molto chiara ed esplicita è la richiesta che Borromeo fa al Nunzio di Francia in una sua lettera del 21 luglio 1583: <<Sopra poi quello che le ha scritto il Cardinale di Como della visita mia in paese di Grisoni, nel primo luogo veniva uno officio di procurare da Sua Maestà per efficaci lettere ordine al suo Ambasciatore che tiene presso quei Signori Grisoni, che facci ogni opera con loro et ai signori medesimi lettere conformi perché in quei loro paesi et di loro sudditi, dove mi occorrerà di andare o passare e specialmente nella Valtellina, o in altre valli et parti massimamente di qua dei Monti non mi si impedisca ch’io possa liberamente esercitare tutti quegli officii spirituali et pastorali, che io voglio fare in queste parti et altri luoghi dove vado per ajuto et consolazione delle anime dei fedeli et honor di Dio>>.[81] Chiede la stessa libertà e sicurezza per i suoi collaboratori. <<Di questi officii parlo in questo modo, perché dire a loro che il Papa mi manda là con autorità sua a visitarli, troverebbe incontro più duro ed inespugnabile…>>.[82] Prosegue dicendo che è aspettato con ansia dai cattolici di quei luoghi, i quali hanno fatto supplica ai loro Signori affinché l’Arcivescovo non sia impedito nei suoi offici, ma il dubbio più grave <<…è in quei fuggitivi d’Italia, che fanno là ricorso, et vi hanno ogni lor rifugio, ché sono la fece del mondo, et per la maggior parte non solo heretici, ma apostati, et altrimenti anco criminosi et facinorosi huomini, et disperati, i quali, come si parla di cosa, che tocchi ad aiutare i catolici di quei paesi, et massime come vedessero per qualche principio di buono indirizzo, o riscaldamento spirituale, al che ne va in conseguenza che fra poco tempo essi ne siano affatto scacciati, perché quei paesi sudditi di qua da’ Monti sono delli dieci i nove catolici, arrabbieranno et tumultueranno tanto, et tanto cattivi officii faranno presso quei Signori Grigioni, che gl’indurranno facilmente ad impedire a me il progresso in queste opere, ed ai catolici di là il corso di quel bene che fosse cominciato, et ogni altra occasione di poter essere aiutati spiritualmente>>.[83] Carlo continua la sua lunga lettera dicendo al Nunzio di fare quanto prima ciò che gli ha chiesto per il bene di tutti, <<…ma avverta che sarà più profittevole e fruttuoso, se Sua Maestà lo farà come da sé, senza mostrare che sia stato procurato a Sua Santità, et molto meno da me, oltra che anche non gioverebbe a questo mio governo spirituale di Milano, che si sapesse di questi ministri Regii, che io abbia procurato questo aiuto a quei paesi per questa mia (sic) via forastiera>>.[84] Continua spiegando il fine della Visita Apostolica consistente in due punti principali: lasciare libertà di religione e di culto ai cattolici e non tollerare che gli esuli dall’Italia, soprattutto gli ecclesiastici eretici e condannati, trovino rifugio presso i Grigioni, un esempio di questo lo troviamo in una lettera delle autorità della Mesolcina diretta al Prelato del 17 dicembre 1582, in cui si parla di un certo Fra Benedetto, il quale dopo avere abbandonato il suo Ordine senza licenza dei superiori e si era rifugiato a Soazza, dove aveva continuato a prendersi cura delle anime positivamente. Il Consiglio Generale chiede al Borromeo una dispensa per regolarizzare la posizione del frate e lasciarlo come curato del luogo, come se fosse un prete secolare; ma in una lettera del 9 dicembre 1583, ossia dopo che Carlo ha effettuato la Visita e si è reso conto della situazione, rispondendo che terrà tra i suoi raccomandati anche Fra Benedetto, ma al momento è meglio che esso torni nel suo convento per <<…rimettere quello che ha perso di fuori…>>, perché per aiutare il prossimo è necessario che prima aiuti se stesso.[85]

Galles de Mont, Landrichter, ossia capo della Lega Grigia, scrive al Cardinale una lettera datata 28 agosto 1583, in cui dice che avendo partecipato al “bitag” dello scorso mese tenutosi a Coira, alcuni “predicanti” presenti avevano palesato il dubbio che con l’imminente venuta di Borromeo in quelle Valli temevano dei danni verso la loro religione, quindi pregarono i “Signori” di impedirgli tale passaggio. Galles de Mont, continua dicendo che perorà caldamente la Visita Apostolica, che <<…non solamente gli cattolici, ma ancora gli adversarij non solo s’accontentorno del passaggio ma eziandio ordinarno che gli Sig.ri Ufficiali della Valle gli facessero le debite accoglienze, et cortesie>>.[86] Il mittente continua sostenendo che, avendo parlato con Monsignor Stupano, ha appreso che a quella riunione dovevano essere mandate alcune lettere del Cardinale ai “Signori” presenti e a lui per ottenere il permesso scritto per la suddetta Visita, ma <<Ne essendone presentate alcune ne a detti signori, ne a me, acciò non potessimo provedere, come haveressimo provisto di meglio, et havendo visto l’instigatione delli predicanti, ho pensato, et tengo per securo, che le lettere sue non habbino hauto fedel recapito, ma siano venute alle mani d’essi adversari predicanti, o d’altri loro seguaci>>. Galles de Mont termina dicendo che non avendo ricevuto nessuna lettera non era stato possibile fare alcuna approvazione scritta, ma che sicuramente sarebbe accolto con tutti gli onori, però se l’Arcivescovo volesse la “licenza” scritta, l’avrebbe potuta ottenere nel prossimo “bitag” di San Martino prossimo <<…et con poca spesa si farà con bona espedittione>>.[87]

Nel mese di agosto 1583 giunse a Milano una delegazione svizzera con a capo il Ministeriale della Bassa Mesolcina Giovanni Battista Sacco e il collega Giovanni aMarca, Ministeriale di Mesocco con lo scopo di invitare personalmente l’Arcivesco a compiere la Visita Apostolica, ottenere l’invio di un inquisitore e accordarsi sulla venuta dell’Arcivescovo.[88] Da persona prudente, Carlo inviò prima Francesco Borsatto,[89] Gesuita e avvocato con il compito di preparare quei popoli alla Visita e per informarsi della legislazione della Valle, non volendo operare fuori della legge.[90]Borsatto partì e il giovedì 6 ottobre arrivò nella Valle Mesolcina, dove venne ricevuto dal Ministeriale Sacco, <<…avendo ordinato benissimo le cose del governo della chiesa sua, sotto la cura di Monsignor Audoano Lodovico Inglese suo Vicario Generale, che fù poi Vescovo di Cassano, in modo che non potevano patire detrimento notabile per l’assenza sua, determinò di dar principio alla detta visita, circa il fine di quest’anno 1583>>.[91]

La Valle Mesolcina, italofana, abitata fin dall’età neolitica, deriva il toponimo dal fiume Moesa che la percorre, fa parte del Cantone dei Grigioni (Svizzera), a Nord confina con la valle del Reno, a Est con l’Italia a Ovest con la Riviera e la Val Calanca, a Sud con il Canton Ticino, con cui comunica per mezzo del Passo di San Bernardino; due alte catene montuose ostruiscono la Valle, limitata ad ovest dalla Valle Calanca e ad est dalla Valle del Lirio. La catena montuosa orientale segna il confine tra la Svizzera e l’Italia e si prolunga fino a formare i monti nel luganese, prendendo il nome do Catena Mesolcina. Alle popolazioni originarie si sovrappose la dominazione barbarica e il passo del San Bernardino (Mons Avium) divenne una delle principali vie di comunicazione tra la Pianura Padana e l’altopiano retico.[92]

La Mesolcina fu una delle prime Valli che aderì al Cristianesimo, anche se non siamo a conoscenza dell’evangelizzazione, che senza dubbio proveniva dall’Italia del Nord, prima con l’evangelizzazione romana fino al secolo V, poi con quella merovingia-carolingia, secondo il Vieli ciò fa supporre che il Cristianesimo sia stato accolto privatamente, più tardi professato pubblicamente senza persecuzioni e martiri.[93]

Da tempo remoto la Valle dipese, forse anche politicamente, dal Vescovo di Coira e che da questo viscontato sia derivata la signoria dei Sax (Sacco), proprietari fondiari nella Resia san gallese, durante il secolo IX, divenuti poi visconti in Mesolcina, ma nel XII secolo non compaiono i Sacco della linea primogenita, ma quelli del ramo dei Sax, il cui capostipite fu Alberto deTurre de Sacco, fedele al Barbarossa e fratello di Rainero, Vescovo di Coira. Il figlio di Alberto, Enrico fu l’iniziatore della potenza della casata, quando sotto Fedrico II gli viene confermato il possesso della Mesolcina, della Valle superiore del Reno, quella di Blenio e anche l’avogadria del monastero di Disentis con l’Ursera, affermando in tal modo sotto il diretto controllo imperiale i valichi di San Bernardino, Lucomagno e Gottardo. Tutto ciò indusse i Sacco a mire più vaste: Bellinzona e lo sbocco nella pianura, mettendo però i Signori della Mesolcina in contrasto con il partito guelfo: Enrico di Sacco lascia l’Imperatore e, nel 1242, occupa Bellinzona, che nel 1249 tornerà alle dipendenze di Como, come capo dei guelfi, insieme con Enrico d’Orello di Locarno. Dopo la morte di Enrico, abbiamo il declino della famiglia, a causa della divisione in vari rami.

Nel 1480 Giovanni Pietro de Sacco, oppresso dai debiti e detestato dal suo popolo, vendette la Signoria con tutti i suoi possessi e diritti al conte Gian Giacomo Trivulzio per la somma di sedicimila fiorini, il nobile milanese divenne il nuovo Signore della Mesolcina  e nel 1496 strinse un’alleanza con le Tre Leghe, sancendo in tal modo l’appartenenza della Mesolcina ai Grigioni. Tre anni più tardi Trivulzio soccorse i Grigioni minacciati dall’esercito imperiale di Massimiliano d’Austria, contribuendo alla vittoria della Lega. Gian Giacomo morì nel 1518 e a lui successe il nipote Gian Francesco, giovanissimo e debole di carattere, che col tempo fu privato dell’autorità e nel 1256 le Tre Leghe fecero demolire il castello di Mesocco, obbligando il giovane a ritirare le sue milizie, la Signoria dei Trivulzio finì nel 1549 quando Gian Francesco firmò un trattato con i rappresentanti della Mesolcina e della Calanca, per il quale rinunciava a tutti i suoi diritti feudali in cambio di ventiquattromilacinquecento scudi d’oro, che dopo una prima somma, il resto venne pagato a rate da tutti i comuni del Moesano: fu la fine del regime feudale e l’inizio di una libertà ottenuta senza violenze: il governo fu assunto dalle autorità locali e il potere legislativo esercitato dalla Centena,[94] quello esecutivo dal Consiglio generale di valle e quello giudiziario dal Tribunale dei Trenta Uomini che si radunavano a Roveredo o a Mesocco.[95]

Soazza e Mesocco con “motu proprio” entrarono a far parte della Lega Grigia nel 1480, successivamente (1496) anche il resto della Mesolcina con la Val Calanca si unirono alla suddetta Lega. Già dalla Signoria dei de Sacco la Valle era divisa in due Vicariti quello di Mesocco e quello di Roveredo, mentre amministrativamente era formata da tre squadre o circoli: quella di Mesocco, la squadra di Mezzo, che comprendeva Soazza, Lostallo, Cama, Verdabbio e Leggia e la squadra di Rovereto con Grono, Roveredo e San Vittore. La Valle Mesolcina non aveva il vincolo di sudditanza politica, in quanto Comungrande, ossia una comunità delle valli, entrate a far parte come componente paritario nella Federazione delle Leghe, quindi libera nelle proprie decisioni, come la Valle di Poschiavo, che al tempo faceva parte della Diocesi di Como e quella di Bregaglia che insieme alla Mesolcina appartenevano a quella di Coira, ma,  diversamente dalle altre, la Mesolcina era ed è anche oggi quasi totalmente cattolica.[96]

Nel 1555 veniva stipulata la Pace di Augusta tra cattolici e protestanti, in cui fu sanzionato il principio del “cuius regio eius religio”, riconoscendo in tal modo la libertà religiosa solo al principe, non al popolo. Se la maggior parte della Diocesi milanese era sottoposta a Filippo II, il cattolicissimo Re di Spagna, molte pievi delle valli svizzere erano terre di confine e quando oltre il San Bernardino scoppiò la Riforma queste vennero a contatto con i protestanti delle varie dottrine, che si diffusero rapidamente. Le autorità dei Cantoni protestanti e di quelli cattolici erano fermamente decisi a mantenere la loro tradizione di autonomia stabilita nelle Diete di Ilanz del 1524 e del 1526, dove era stata proclamata la libertà di culto nella Repubblica delle Tre Leghe. Anche la Mesolcina risentì delle condizioni civili, religiose e morali di questo periodo storico: <<…i delitti di sangue e i reati contro il buoin costume erano diventati tanto frequenti e tanto gravi che durante la dominazione dei Trivulzio il principe e la centena s’illusero di mettervi argine, emanado spesso capitoli criminali minaccianti pene severissime contro chi portava armi, cercava liti, assaliva e feriva il prossimo o dava scandalo fornicando persino – ciò che era più ripugnante – “in gradi bus prohibitis cum parenti bus”…>>.[97]

Il clero era ignorante, molti preti sapevano a stento leggere e scrivere, gli aspiranti al sacerdozio, rari, tutti appartenenti a famiglie facoltose, avevano una formazione molto superficiale, anche per la mancanza di seminari, la disciplina e la moralità lasciavano a desiderare e troppo scarsi erano i contatti col Vescovo diocesano di Coira, il quale non aveva l’obbligo delle Visite pastorali. Viste le condizioni generali di vita, la Riforma fu vista come un rinnovamento sociale, un’illusione in un futuro migliore e forse per questi motivi fu abbracciata da molti abitanti della Valle.[98]  Vieli sostiene che nonostante tutto in Mesolcina non ci furono né polemiche né esiti pubblici sulle nuove dottrine, nessun ecclesistico si proclamò palesemente favorevole alla Riforma, ad eccezione del comune di Mesocco, più esposto geograficamente alle infiltrazioni provenienti dalla Valle del Reno, dove fu creata una comunità evangelica.[99]

Nel 1549 arrivò a Mesocco il locarnese Giovanni Beccaria, cacciato dalla sua città per apostasia, nato nel 1510 circa, dopo gli studi di teologia, aveva aderito alla fede riformata, istituì una scuola dove insegnava ai figli delle famiglie riformate, più tardi il Sinodo retico lo accettò tra i propri ministri e fu nominato parroco riformato di Mesocco.[100] Questo fu solo un episodio, ovviamente dopo Giovanni Beccaria arrivarono in questi territori altri protestanti e non mancarono i neofiti tra le famiglie del posto. Nel 1556 una numerosa comunità riformata di Locarno avrebbe voluto stabilirsi in Mesolcina, ma i cinque Cantoni cattolici d’accordo con la Lega Grigia vietarono il loro stanziamento, la comunità si diresse a Zurigo, facendo tappa a Roveredo a causa dei rigori invernali.[101]

A causa delle pressioni che la Lega dei Grigioni aveva esercitato contro i riformati in Mesolcina ci furono grandi attriti con i protestanti della Valle del Reno e poco mancò che ne scaturisse una vera lotta armata: era il 1560. Con la Dieta di Coira venne stabilito che la Lega Grigia tollerasse la Riforma nella Valle e furono assegnate due chiese di Mesocco ai riformati perché potessero celebrare il loro culto.[102]

<<Sebbene la Mesolcina non avesse abbracciata la riforma, come si ha veduto nel Capitolo precedente, i suoi parti tanti non mancavano però di mantenere con segretezza negli animi quello spirito d’innovazione, che dai pergami veniva con artificio inculcata anche da quei pochi preti vallerani, i quali bramavano di vicere nella licenza. In simili disordino di religione, la popolazione era divenuta per lo più superstiziosa e di corrotti costumi, per cui necessitò più volte che la Regenza di Valle si riunisse espressamente per cercar di provvedere a tali inconvenienti; ma tutte le misure che si adottavano, riuscivano sempre infruttuose, anzi la demoralizzazione di più in più andava crescendo.

La fama di S, Carlo Borromeo allora Arcivescovo di Milano eccitò il Consiglio di Valle a spedir a quel Cardinale una deputazione per consultarlo e supplicarlo del suo aiuto sullo stato deplorabile in cui si trovava la Mesolcina.

Nel 1583 in agosto fu tenuto un apposito consiglio che nominò alcuni principali del paese per far l’ambasciata, i quali arrivati in Milano, furono dal venerabile Prelato accolti colla massima amorevolezza, e promise loro con benignità che entro quell’istess’anno si sarebbe portato in persona nella Mesolcina per ajutarli e provvedere a quanto desideravano; tanto più ch’egli era benissimo informato della demoralizzazione e del desiderio di riforma religiosa che esisteva nella Mesolcina come in tutte le vallate contigue alla sua Diocesi, per cui impiegava l’instancabile suo zelo per impedire l’avanzamento degli scismi ed eresie nel suo dominio spirituale, col portarsi in persona ove il bisogno l’esigeva…>>[103]

Da una lettera di Giovan Battista Sacco al Cardinale, datata 29 luglio 1583, veniamo a conoscenza che il Ministrale chiede che sia inviato anche un inquisitore per procedere contro i sospettati di stregoneria: <<…fargli memoria a proteggere d’un Inquisitore di queste malefice, quale esperto et idoneo, accioche quando s’appresenterà l’occasione, sappiamo dove raccorsi à torlo…>>,[104] ossia dove rivolgersi per averlo in caso di bisogno. In una lettera del 4 ottobre 1583 che Carlo scrive a Roma al Cardinale Savelli,[105] in cui dice che manderà Francesco Borsatto a Rogoredo: <<Quanto alle cose di Rogoredo, et parte contorno hora si comincerà darle qualche buon principio, havendo io fatta risolutione di mandare là di presenteil Dottore Borsato, che già alcuni dì sono si trovava qui meco: la quale andata è stat da me incaminata in occasione della istanza fattami novamente a nome di quelle Communità da uno Ambasciatore et altri principali, tutti catolici, et di auttorità di quei paesi, che si ritrovano qui a Milano, perché io le dessi uno Inquisitore a processare molte persone per conto di streghe.La quale andata è stata risolta da me in occasione della instanza fattami nuovamente a nome di quella comunità da uno ambasciatore et altri principali tutti catholici et di autorità di quei paesi, che si ritrovano qui a Milano perché colà dessi uno inquisitore a processare per conto di Streghe. L’ho dunque deputato con soddelegatione ampla delle altre mie facoltà in quei paesi, et sono partiti insieme questa mattina. Essi mostrano buona volontà, et desiderio dell’aiuto di quelle parti, et di dare ogni possibile favore, et calore per promovere le fatiche, et diligenze, che piglierà il detto Monsignor Borsato per il servizio, et bene spirituale del publico>>.[106] Francesco Borsato fu giudicato, dal Borromeo, l’uomo giusto per svolgere l’attività d’inquisitore, poiché occorreva, come riferisce in una lettera sempre al Savelli del 18 agosto dello stesso anno, una persona prudente e moderata, perché la giustizia secolare era molto più spietata di quella ecclesiastica,specialmente in casi di “stregherie”, Borsatto era considerato dal Borromeo anche come “precursore” della sua visita nella Valle Mesolcina, ma appena libero da un impegno molto importante,[107] lo avrebbe raggiunto con un predicatore e altre persone, <<Si manda là con pretesto dell’officio della Santa Inquisizione contra quelle streghe et nel medesimo tempo comincerà a poco a poco fare qualche officij spirituali>>,[108] da quanto scrive, le sue intenzioni non sembrano quelle di sterminare le streghe e gli eretici, ma piuttosto riportare queste persone sulla giusta via con esercizi spirituali. Il Cardinale viene assicurato dagli ambasciatori che non avrà nessun impedimento nell’attuare tutto ciò che si è prefissato, anzi propongono e fanno <<…instanza, che si eriga là un Collegio, o Seminario, assignandovi N. S.re reddito sufficiente, et per questo afferiscono essi di dare una buona casa, commoda, et conveniente, io che vedo quanto fondamento, et commodità spirituale ne risultaria universalmente; mi sono grandemente consolato di questa prattica, massime che mi dano speranza, che anco dà Padri heretici di tutte le Leghe si mandaranno molti figlioli allenarsi in quel Collegio […] In tutto il paese di Grisoni, parlo di SS.ri, come questo, non de’ sudditi, come Chiavenna e Valtellina, non vi è si può dire Maestro di Lettere>>.[109]

Da questi e da altri documenti studiati, sembrerebbe non chiara la distinzione tra eresia e stregoneria, in quanto i due termini vengono usati per indicare sia gli eretici che le streghe,sembra che i confini tra magia e stregoneria non siano molto delineati, come ad esempio nel seguente passo che troviamo nell’opera del Possevino, in cui dice che Carlo <<…scoprì quasi tutto quel paese infettato di streghe e stregoni, e ne ridusse a penitenza più di cento, ma da dieci, o in circa donne, vecchie per lo più le quali havevano commessi homicidije notabilmente danneggiato il paese, et erano quelle che seco conducevano le pute quasi fanciulle, cō terrore delle altre, al braccio secolare>>.[110] Mentre in passo successivo troviamo che il Cardinale: <<…non si sdegnava di mettere molte hore in ragionare alle volte con semplicissime, mà ostinatissime, et ignorantissime donnicciole heretiche, ricevendo anco alle volte da esse risposte assai indegne…>>.[111] Ancora nella relazione, relativa al 16 novembre 1583, del Gesuita Achille Gagliardi, al seguito del Borromeo durante la Visita: <<Questa misera Provincia tutta ora in mano di Apostati sfratati che servivano da Pastori, et seminavano alcuni mala dotrina, altri col male esempio di vita, et con la larghezza della continenza sua, e con gli altri fabbricavano la perdizione loro et di tutto il paese, nel quale (ben occultamente) già cominciava a entrare in molti la heresia. Il Proposito capo della Chiesa ora capo delle Streghe che vi son qui molte et in più luoghi ogni settimana con gran gente havevano, con quelle solite abominazioni del loro ballo, comercio col diavolo con uccisioni d’animali, d’huomini, et massime fanciulli per mezzo di certa polve fatta di rospi, et ossa di morti et altri orrendi peccati>>.[112] Questa relazione che sembra riprendere molto dalle antiche pratiche contadine, ci rende l’idea della fervorosa fantasia del Gagliardi, ma anche di una mentalità che non era diffusa solo nel popolo, nelle persone semplici ma anche in persone di cultura e di ceti sociali più elevati.

L’Autorità romana fin dal secolo XII cercò di travisare la natura essenzialmente benefico, positivo della “Società di Diana”, <<…infatti la credenza nelle streghe malefiche, operatrici di atti criminali che danneggiavano uomini, animali e beni materiali, si sovrappone a quella delle seguaci di Diana, dea appunto dei parti e della fertilità. Successivamente i demonologi del XV secolo si adoperarono a dimostrare la reale presenza diabolica nell’antico rito “e la consapevole complicità delle donne che vi partecipavano, conferendo a tali credenze quell’unità e quell’organicità che avevano perduto nel corso del tempo” (M. R. Lazzati)>>.[113]

Nel 1326 circa, Giovanni XXII emanò la bolla “Super illius specula” ponendo le basi per la relazione strega uguale eretica, che si allontanava sempre di più dal “Canon Episcopi” del secolo IX, in cui la vera superstizione consisteva nella credenza del volo notturno. Con la bolla di Innocenzo VIII “Summis desiderantes affectibus” del 1484 avviene la fusione della stregoneria con la “pravitas haeretica”, dando il via alla caccia alle streghe, che per quasi tre secoli fu associata alla storia occidentale.[114] <<Forse la stregoneria serviva bene a dare un volto locale alla paventata intrusione forestiera degli eretici, la cui estensione era bruciante. Comunque il principio era codificato. In questo contesto va esaminato il Borromeo […] Non è possibile un’analisi della posizione dell’Arcivescovo Carlo riguardo alle manifestazioni di religiosità popolare o alle abusive espressioni magico.religiose senza tener conto del Decretum tridentino De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum, et de sacris imaginibus. E’ indiscussa la fedeltà di Carlo Borromeo alle disposizioni tridentine; del resto ciò rientrava nella struttura mentale essenzialmente giuridica del Borromeo: senza la quale non ne comprenderemmo la personalità>>.[115] Da un attento esame degli editti, delle Visite pastorali, dell’epistolario e degli “Acta Ecclesiae Mediolanensis” riusciamo ad “entrare” un poco nella mentalità del Presule, ma che si tratti di culto o di magia e di abusi, va considerato che chi studia oggi il periodo in cui opera Carlo possiede un’ottica completamente diversa da quel tempo, <<…attenta non solo  ai dati storico-religiosi, ma anche a quelli folkloristici, antropologici, etnologici>>.[116] Ma forse la vera eresia non comincia dove c’è superstizione?

Borromeo, comunque, fu molto rigoroso verso gli abusi di devozione popolare e in una lettera inviata all’Arciprete di Monza del 22 aprile 1567 troviamo un esempio di tale rigore: sembra che molta gente accorresse in un luogo tra Milano e Monza perché alcuni sostenevano di avere visto la Madonna apparsa sopra gli alberi del posto, quindi il Prelato incarica l’Arciprete di fare un sopralluogo e con “diligenza” far tagliare quegli alberi e demolire eventuali costruzioni fabbricate per questa circostanza, perché non voleva che il popolo fosse ingannato con simili illusioni.[117] Durante la peste del 1576, detta peste di San Carlo, l’Arcivescovo da una parte proibisce varie cose per evitare il contagio, vieta di toccare le reliquie, esorta cautela verso le immagini e le donazioni, ma poi tollera le immagini sacre, anzi esorta che tali immagini, nel caso in cui venissero rimosse, dovrebbero essere sepolte sotto i pavimenti delle chiese o nei cimiteri: ciò fa pensare che esse abbiano acquistato un carattere sacro da ostacolarne la distruzione.[118] In conclusione si può dire che le frontiere tra la pietà popolare, la superstizione e la magia siano spesso molto precarie.

Munito di una subdelega, Borsatto partì quella stessa mattina e il 6 ottobre arrivò in Mesolcina, ricevuto dal Ministrale Sacco, l’inquisitore Gesuita fece convocare la Centena per il giorno 9 a Lostallo, per dare pubblicamente l’autorizzazione ai suoi procedimenti giudiziari, alla venuta del Cardinale ed agli eventuali provvedimenti che sarebbero stati presi. Questo fa capire quanto il Borromeo si muovesse con i “piedi di piombo” e nella più stretta legalità. Il 10 ottobre l’inquisitore spedisce una relazione al Presule, in cui lo mette al corrente delle decisioni prese dalla Centena e gli illustra la situazione religiosa della Mesolcina: <<Cominciarò hora ad attender à questi processi che riescono cumolo grande di persone et cause>>,[119] certamente i processi si riferiscono alle persone accusate di stregoneria; poi dice che la prossima domenica avrebbe cominciato a comunicare il popolo e dopo pranzo avrebbe cominciato <<…a introdurre la Dottrina cristiana, havendone in estremo tutti bisogno, non sapendo per la maggior parte quasi forse il segno della santissima Croce>>.[120] I messali erano vecchi e gli arredi sacri erano tanto sporchi da non potersi vedere, per cui dispose che fosse provveduto subito a tutto ciò che era necessario per l’altare e per officiare <<…poi che nella visita non si avrà da far riforma, ma crederò una forma nuova, tanto ogni cosa si trova in malo stato, et senza preti et chi le pasca, che poi sarà cura di V. S. Ill.ma, be si dirò che in questa valle non vi sono molti heretici scoperti, ma si ben disordine, et diffetti assai importanti, per quel ch’io scopro>>.[121]

In un documento scritto di pugno da Francesco Borsatto, troviamo una specie di promemoria comprensivo di dodici punti, sulle facoltà del Crdinale da chiedere al Pontefice ed all’Inquisizione a Roma in vista della visita nella Valle Mesolcina, tale documento non è datato e vi sono presenti alcune cancellature che noi riportiamo, ciò farebbe supporre che si tratti della la minuta della lettera che poi verrà spedita alla Santa Sede.

Le facoltà che Carlo vuole ottenere dal Papa servono per metterle in atto durante la Visita in Mesolcina: andando a visitare questi luoghi dei Grigioni può trovare eretici che negano la Trinità, la verginità di Maria, la morte per la Redenzione, i quali non potranno essere ammessi all’abiura, ma condannati alla pena di cui alla Costituzione Apostolica di Paolo IV dell’anno 1555.[122] Il Borsatto, quindi, chiede ampie facoltà per il Cardinale e per altri da lui designati e le specifica, come detto, in dodici punti: <<Andando l’Ill.mo et R.mo S.r Car.le S.ta Prassede ne paesi de svizzeri et Grigioni, tra quali vi possono esser heretici, che negano la Santiss.ma Trinità, divinità di Christo, la conceptione de Spirito Santo, e la morte per la redenzione, over la virginità di Maria, quali per Constitutione Apostolica di Paolo IIII sotto l’anno 1555 non potranno esser admessi all’abiura la prima volta, ma condannati nella pena di detta Constitutione. Et per il più se vi ricorrana sacramentarij, et oriondi d’Italia, et anco de forastieri, et che vi stanno, et che vi vanno alle volte, et forsi che hanno una et più volte abiurato, et quasi potriano venir al premio della Chiesa, essendo semplicemente admessi senza abiura publica, o privata formale, et quali ancor per il più sono quelli che sollevanoi terrieri per poter vivere. Si mette in consideratione a Nostro Signore che quei S. Ill.mi del supremo tribunal della S.ma Inquisitione in Roma, che non saria farsi male a dar per breve particolar facoltà a detto Ill.mo S. Cardinale S.ta Prassede, che potesse per se o altri da lui elletti, in….endo alle altre facoltà, et oltre quelle, per le cose infrascritte.

Prima potesse admetter a suo arbitrio al premio di S.ta Chiesa ogni heretico anco sacramentale et de sudetti di qual si voglia sorte benche meritasse la pena dell’ultimo supplicio la prima volta, et li oriondi d’Italia et apostati si de religiosi, come pretti, et secolari,

Secondo potesse admetterli, et reconciliarli alla S.ta Chiesa Romana benche havessero una et più volte abiurato, et fosse stato longissimo tempo in heresia.

Terzo se ben fossero stati predicatori, et instruttori d’altri, stampatori, et authori o compositori d’heresie, o libri heretici.

Quarto potesse reconciliarli o con abiuratione publica, o privata, et anco parendoli spediente senza abiuratione formale, mentre però si facesse rogito per il notaro della reconciliatione, absolutione, abiuratione, d’ogni heresia ch’havesse tenuto, et penitenza salutare in presenza de due testimonij, col descriver però il nome, cognome, patria, stato, et qualità dell’heretico penitente, acciò per ciascuna non s’havesse a far longo processo, scritture et abiuratione formale, che fossi in questo modo molti potriano ritornar, et dimandar misericordia et aiuto.

Quinto facoltà d’assolver liberamente in foro fori da ogni irregularità et combatta per qual si voglia causa et heresia come di S˜. senza sospenderli o tenerli sospesi a tempo ad arbitrio  di S.S. Ill.me secondo li parerà spediente, o almeno authorità di assolver quei ch’hora vivono cattolicamente, mentre però tra tempo da esser limitato da S.S.Ill.me vengino all’obedienza de suoi superiori, et che ha tanto possino celebrar, et trattar i suoi negotij per ritornar in Italia et paesi catolici.

Sesto che le gratie concesse da N. S. con lettere delli Ill.mi S.ri Cardinali Savello, Maffeo et Como, fossero tutte distese nell’istesso breve prevalessene bisognando, et mostrar a quelle genti cosa ordinaria et autentica secondo il popolo ricerca: primo di poter sudelegar ad ogni persona perita sacerdote et ecclesiastica le medeme facoltà o tutte o perte secondo le parerà conveniente. Secondo che si possa trattar per S.S.Ill.ma et altri da lei haver a esser nominati, o che la compa gnargno (non capibile) liberamente ogni cosa publicamente et  privatamente con ogni heretico et persona di quei paesi senza incorso di pena alcuna, cercando però di scansar più che si potrà la loro conversatione.

Settimo che ritrovandosi qualche religioso apostata, pentito de suoi errori, et ritornato con sincerità di cuore, potesse assolversi in foro fori, et foro poli, et per l’irregularità et heresie, con restituirgli anco alla religion sua et suoi monasteri, non ostando qual si voglia cosa in contrario con quel modo però penitenze o pene tempo et conditioni, che giudicarà bene S.S.Ill.mo considerata ogni circostanza et qualità del penitente.

Ottavo trovandosi alcuna persona che volesse solamente in foro poli confessare i suoi errori et heresie, possa assolversi et admettersi massime s’allegharà causa o timor del confessare le heresie et errori in foro fori, dovendo star et habitar in quei paesi, et purche sia oriundo di quelle terre. (a sinistra a piè di pagina, ossia c. 257r., : “Questa facoltà mi par che sia già concessa per Breve apportato con l’alterationi? In foro fori per giuramento)

Nono auttorità d’assolver ogni officiale S.r o Magistrato di quei paesi ch’havesse tolto o usurpato beni, denari, o frutti, o mobili della Chiesa, ovvero ingeritosi in cause ecclesiastice, et di quelle cavatene pene et utilità, rimettendo a S.S. Ill.ma il far restituire il mal tolto, o commutarlo o dargli altra pena o penitenza considerato il stato et conditione di quel tale.

Decimo possi terminar ogni sorte di lite di qual si voglia cosa o persona di Chiesa o mossa o da moversi a qual giudice ecclesiastico possa appartenere anchor che prendesse lite nanti tribunali ordinarij o altri giudici, et senza il consenso di qual si voglia persona.

Undecimo non saria male che S.S. Ill.ma havesse facoltà a consolatione delli Catho.ci che vi si trovano nelle Città, Castella e luochi principali, di conceder in qualche Chiesa, a qualche altare Indulgentia plenaria ogn’anno in un certo giorno, a quelle persone d’ogni sesso che contrite e confesse comunicassero et pregassero per l’unione de principi, essaltationi di S.ta Chiesa et estirpatione d’heresie.

Duodecimo facoltà di ordinare estra tempora et diebus continuus etiam non festivis in quelle terre però, et di quei preti che S.S. Ill.ma giudicarà ispediente convertirsi per il bisogno delle Chiese et contento delli catolici che vi sono con auttorità di dispensare super statem  (a sinistra in basso: “Questo poco sarà bisogno, ma non può nocere>>.[123]

Carlo Borromeo partì per la Mesolcina il 9 novembre 1583, del suo seguito facevano parte anche il Gesuita Achille Gagliardi,[124] il Francescano Francesco Panigarola,[125] entrambi molto validi nella predicazione: Panigarola particolarmente esperto anche nella confutazione delle tesi di Calvino, il Canonico Arciprete Ottavio Albiati (Ottavio Abbiate Forerio) e il suo Segretario Bernardino Morra.[126] La visita non si presentava come un’impresa facile a causa di problemi religiosi e politici, da non sottovalutare poi il periodo invernale molto rigido, che, in quei paesi, rendeva gli spostamenti difficili ed anche pericolosi, in una lettera da Roma, del 5 novembre, del Cardinale Speciano a Carlo si legge: <<Questa sarà in risposta della lettera di Vostra Signoria delli 28 del passato, et credo che la ritroverà occupata assai nelle faccende de Grigioni, nelle quali qui si ha grande opinione che Vostra Signoria Illustrissima sia per fare, con l’aiuto del Signore, del frutto assai; sebbene alcuni di questi Illustrissimi dubitavano che non sia sicuro il fidarsi intieramente di andar così alla libera in quei paesi, et al pur Cardinali che vi sono stati hanno paura grande ch’ella non patisca notabilmente per la neve et freddi, nelli quali molti ogni anno pericolano. Ma io spero ch’Iddio benedetto le assisterà in ogni cosa, et a questo fino qui se ne faranno orationi da persone di molto spirito>>.[127]

Da una dettagliata relazione di Gagliardi del 16 novembre 1583, veniamo a conoscenza che durante la Visita a Tessarete, lui stesso resta stupito dall’affluenza del popolo accorso per le confessioni, le comunioni e per la Cresima, ma soprattutto per come le persone erano bene istruite nella dottrina e per la loro onestà di vita. Il Prelato, la sera dell’undici novembre, fu ospitato nella casa di Bernardino Ruscone <<…alle Taverne, ove oprò un miracolo…>>[128] : chiese al padrone di casa di conoscere i suoi sette figli, ma al cospetto dell’Arcivescovo ne vennero solo sei, mancava la figlia maggiore di circa tredici anni, la quale era andata a cercare un vestito adeguato per comparire davanti a un personaggio così importante, ma nel momento in cui fece l’atto di prendere il vestito da una grossa cassa, il coperchio <<…fatto d’un assone grandissimo di noce con cornice ferrea all’intorno qual era sufficiente per il sol peso spezzare una pietra, e colse sotto tutt’e due le braccia e tramortì. La servente che era andata a chiamarla corse al padrone scapigliata piangendo che la figlia era morta>>.[129] Il padre accorse nel luogo dell’incidente, prese la figlia in braccio e questa aprì gli occhi e sorridente disse: <<Pà, non mi sono fatta nessun male, quel gentiluomo vestito di rosso qual è in stufa mi ha tenuta lui et mi ha salvata>>.[130]

Borromeo proseguì la sua visita facendo tappa nel monastero degli Zoccolanti a Bellinzona, per proseguire poi nella Valle Mesolcina, fu a Rogoredo il 12 novembre, dove rimase fino al 17, ispezionando anche i luoghi circonvicini. Dalla relazione di Padre Gagliardi veniamo a conoscenza della povertà di questi luoghi soggetti ad apostati che fungevano da Pastori, predicando dottrine eretiche e dando cattivi esempi di vita, trascinando gli abitanti di Rogoredo e dintorni: <<Il Proposito capo della Chiesa ora capo delle streghe che vi sono qui molte et in più luoghi ogni settimana con gran gente havevano, con quelle solite abominazioni del loro ballo, comercio col diavolo con uccisione d’animali, d’huomini, et massime fanciulli per mezzo di certa polve fatta di rospi, et ossa di morti et altri orrendi peccati. Tutto il paese era pieno d’usure, vi sono moltissimi matrimonij illeciti per essere in gradi prohibiti, vi sono nemicitie tra principali, per le quali ne sono seguiti grandi homicidij, vi è estrema ignoranza, per non essere chi insegni né costumi, Né dottrina Christiana, né pure un poco di grammatica, si atende à crapula et buon tempo. In questo stato habbiamo ritrovato questo paese, al quale è piaciuto a Dio dare la gratia di questa visita con molta benedizione>>.[131] Il quadro dipinto dal Gagliardi non era certamente roseo, quindi per rimediare a tante miserie, Carlo iniziò a digiunare e a mangiare solo pane ed acqua e impose al suo seguito di nutrirsi solo con pesce; le giornate erano molto laboriose e poco il tempo per riposare: la mattina presto, prima il Panigarola poi anche il Cardinale cominciavano a predicare, e dopo la Messa c’erano le confessioni fino alle diciannove, dopo la cena <<…s’attende a negotij per due hore […] Alle 22 hore di casa il Sig.or Cardinale va in Chiesa et si cantano le litanie et si fa la dottrina cristiana, insegnando, et domandando ai fanciulli il Sig.or Cardinale stesso, il Panigarola, et io le cose necessarie alla salute…>>,[132] senza, tuttavia, fare riferimento alle eresie, perché era stato ritenuto opportuno agire in tal modo per ristabilire il popolo nella fede, infatti Gagliardi dice nella relazione che la Chiesa era sempre piena di persone attentissime. <<La sera sino a 3 hore e più di notte il Sig. Cardinale ci tiene in consulta, ne si può cenare d’ordinario per l’altre occupazioni sino alle 5 hore di notte>>.[133]

Il primo giorno vennero comunicate 500 persone, il secondo 500 su una popolazione di poco più di 1500 anime. Una parte degli usurai fecero promessa di restituzione, l’altra parte si impegnò di seguire gli ordini del Prelato: <<…per ricevere, et usare nell’avvenire contratto lecito de censi, o simili. Dei censi ne resterà forma autentica per uso di tutto il paese […] Quanto all’heresia si sono riconciliati non pochi alla S.ta Chiesa, tra quali i principali di tutta la Valle che molt’anni erano stati in errore sedotti in Germania l’uno dal Vergeri, l’altro da Pietro Martini. […] Quanto alle streghe il prevosto con 15 o 16 di queste male donne sono state poste in prigione et sene farà una severa giustitia di fuoco, et tutte l’altre che segretamente erano macchiate di questo vitio, senza enorme successo criminale, ch’erano molte si sono ridotte a penitenza, con segno di quella>>.[134] Nella sua relazione, Gagliardi non parla molto delle “streghe” si limita a quanto riportato. Ma in una lettera dell’8 dicembre al Cardinale, Padre Carlo, gesuita al seguito di Carlo Borromeo durante la visita in Mesolcina, dopo avere espresso il successo della visita, così scrive: <<Lunedì passato, come quella haverà inteso, furono condotte alla morte quattro di quelle donne incarcerate. La qual fu di questa maniera. Fu fatta una grande catasta di legne, fascine et paglia; et havendo il carnefice strettamente legata ciascuna di loro sopra una tavola da per sé con fune, la buttò sopra della catasta con la bocca in giù, et subito si diede il fuoco intorno intorno, onde si vidde una fiamma horribile, che tutte le loro ossa et membra ridusse in cenere.Prima io riconcilia ciascuna stando già sopra le tavole distese, et ligate, et Monsignor Stoppano et altri due Reverendi insieme le aiutammo nel Signore con li debiti conforti. Né potrei abbastanza esplicarle con quanta contrizione, et prontezza han preso questo supplicio, rassegnate in Dio con profondo riconoscimento, et pentimento dei lor peccati, essendosi confessate et comunicate con gran devotione, facendo intiera oblatione delle anime, et della vita loro al Creatore Dio. Era quella campagna piena di gran popolo, et tutti con altissima voce gradavano Gesù, et si sentivano ancor esse gridare, et invocare quel santissimo nome in mezzo delle ardenti fiamme, tenendo ciascuna al collo le lor corone con l’ave Maria benedetta. Io ho gran speranza della salute di tutte per li chiari segni, che si son visti in loro, di buona contrizione>>.[135] Il Cardinale risponde da Bellinzona, esprimendo la sua consolazione per la conversione in extremis delle condannate, vedendo nel loro comportamento una speranza per la loro salvezza eterna. Nella lettera datata 18 dicembre dello stesso anno, il Gesuita annuncia al Prelato che sono state giustiziate altre tre donne <<…nomate Caterine delle altre incarcerate, che restavano come all’altre passate […] Le abiurate non son mai comparse et io non ho potuto far quella diligenza che tuttavia desidero…>>[136]

Un processo per stregoneria poteva essere indetto solo se almeno tre persone avevano denunciato l’uomo o la donna indiziati o accusati da altra persona stimata strega o stregone, quindi venivano incarcerati e successivamente portati davanti all’Inquisitore per essere interrogati la prima volta liberamente, poi sotto tortura. Il processo, che poteva dilungarsi anche per molti giorni, veniva definito con la sentenza emanata dal braccio secolare, composto da trenta uomini del Tribunale di Valle. Il verdetto veniva letto in pubblico, senza, tuttavia, rendere noti i nomi delle altre persone implicate. La pena poteva spaziare dal bando dalla Valle al supplizio del fuoco, in alcuni casi erano considerati la grazia e il perdono, a patto che i condannati abiurassero.[137] “Ecclesia non novit sanguinem”, quindi l’esecuzione della condanna non competeva alla Chiesa, ma al braccio secolare: lo Stato riconosceva ed eseguiva le sentenze dei tribunali ecclesiastici. Quando gli accusati venivano portati davanti all’Inquisitore, non ammettevano la loro colpa, anzi la facevano ricadere su altre persone, dando luogo ad una serie di nomi, dettati anche dalla vendetta personale, allora si doveva ricorrere alla tortura per estorcere la confessione, che, al tempo, diventava strumento fondamentale perché le prove non erano sufficienti se non c’era la confessione dell’imputato. Il giudice era obbligato ad applicare la tortura per constatare se anche subendo atroci sofferenze l’accusato insisteva nel proclamare la sua innocenza; la tortura, nella Valle, consisteva nel legare la persona per le braccia o per la vita, appendere dei pesi ai piedi e tirarla in alto con una ruota. Chi non confessava veniva torturato più volte, tanto da preferire la condanna a morte alla tortura.

La superstizione e la stregoneria era talmente radicata in questi luoghi, come del resto in tutta l’Europa, che molti indiziati erano convinti di essere streghe e stregoni, per altri era un vanto ed un modo per essere al centro dell’attenzione pubblica. Molto diffusa era la propensionea riunirsi in congreghe e in ogni villaggio vi erano dei punti in cui di notte si riunivano i seguaci di queste combrincole e, credendosi realmente in rapporti con Satana, commettevano atti gravemente offensivi alla religione e offesa, violazione ai suoi simboli, oltre che a balli e atti osceni e peccaminosi.[138]

Il Prevosto citato era Domenico Quattrino, il quale fu denunciato e subito destituito, al suo posto fu designato Pietro Stoppani, Oblato milanese, il quale ebbe l’incarico di curato di Roveredo e di Santa Maria in Calanca.[139] Consegnato al Braccio secolare, sotto tortura confessò molti dei delitti commessi, tanto che correva voce della sua condanna a morte, condanna che non ebbe mai luogo: <<In ciò furono tratti in inganno parecchi autori, dagli accenni delle relazione, ove è detto che il Quattrino fu condannato, senza avvertire che questa parola significa sentenziato e giudicato reo del delitto. Ma non si parla mai della pena>>,[140] che, secondo il D’Alessandri consistette nella perdita della cura e ridotto allo stato secolare, inoltre lo studioso riporta alcune frasi di due documenti in cui compare Domenico Quattrino, relativi al 1587, cioè quattro anni dopo la visita di Borromeo.[141]

Mentre la visita in Mesolcina procedeva tra roghi e pentimenti, tra grandi accoglienze e non pochi timori, il Ministrale Giovanni aMarca, uno dei più accaniti sostenitore della necessità di tale visita, si trovava a Milano in missione diplomatica presso i delegati del Re di Spagna, nello stesso tempo un’altra delegazione delle Tre Leghe si trovava nella stessa città, di cui faceva parte anche Pietro Mazzio di Roveredo, il quale fu denunciato come eretico da un cerusico di Milano. Ludovico Audoano, Vicario Generale di Carlo, avvisò subito il Prelato di questo grave inconveniente con una sua lettera del 21 novembre 1583: <<Questi giorni passati mi fu fatta notificazione contro un messer Pietro Masso Grisione del loco di Roveredo, qual si trovava qui, che fosse heretico marcio, contro il quale, si per le capitolazioni, si anche per haverne fatta parola con quelli de’ la Congregazione del s……. di casa, mi risolsi di non far altro tanto più che essendo da poi statto da me l’Ambasciatore dei Sig.ri Grisoni, mi disse che V. S. Ill.ma era alogiata in casa di esso m.e Pietro. Il notificante vedendo che cossì presto comme forse haveria voluto, non si essequì, fece l’istessa notificazione al Padre Inquisitore, il quale relassò la cattura contra di d,o dinunciato, essendo poi statto detto Ambasciatore dal d.o Imp.re gli scoperse ch’il dinonciante se ben non heretico, fosse un gran furbo e nemicissimo del d.o m.r Pietro, per causa de homicidij erano seguiti tra tra di loro et che d,o denunciato anche andava a messa a Coira>>,[142] quindi manda al Borromeo la copia della notifica e gli chiede di informarsi, se lo ritiene opportuno, su questo fatto, in quanto a lui è venuto il sospetto che il querelante non abbia agito <<…con mala intentionedi offendere con uno stesso colpo il dinonciato, e causare con quella gente qualche disgusto…>>.[143] Cominciò la caccia al presunto eretico da parte dell’Inquisizione, tutto ciò creò una grande preoccupazione in Giovanni aMarca, la cui missione probabilmente mirava ad ottenere appoggi e vantaggi al Borromeo per la sua visita, ma questo fatto rappresentava un grande affronto verso Mazzio, la cui reazione poteva essere quella di istigare disagi al Cardinale,[144] visto le sue importanti relazioni politiche che intratteneva e forse i timori di aMarca non erano infondati perché in una lettera del 26 novembre 1583, Bernardino Morra, scrive che, in un primo tempo, a Coira, per quello che era stato fatto a Milano ad uno di loro, si pensava addirittura di arrestare il Borromeo, poi le acque si calmarono dopo che Morra presentò le scuse a Mazzio, il quale restò soddisfatto.[145]Dalla lettera successiva, del 19 novembre, che Giovanni aMarca scrive a Carlo, dopo le giustificazioni per il suo dilungarsi a Milano a causa dei suddetti motivi, apprendiamo che in sua assenza il Cardinale può valersi di suo fratello Nicolao per la riunione “Beitag” che si terrà a Coira, durante la quale il Prelato avrebbe dovuto ottenere un invito o almeno un permesso ufficiale per una sua visita a Coira e per un’azione più vasta in Valtellina.[146]

Il 22 novembre Borromeo si trovava a Mesocco e sperava di poter varcare il passo del San Bernardino, per continuare la visita nel restante Grigione cattolico e in Valtellina, quando fu comunicato il divieto della Dieta adunata a Coira, con grande soddisfazione del Vescovo della città, Peter de Raschèr, il quale non vedeva di buon occhio la visita.[147] Il Cardinale mandò subito dal Vescovo di Coira il suo segretario Bernardino Morra per rendersi conto di quale fosse stata realmente la situazione. Morra ragguaglia il Prelato sul difficoltoso viaggio attraverso la montagna coperta di neve e nella tormenta: <<…giunsi qui a Sancto Bernardino a mezza montagna con salute, però a notte perché trovai la strada piena di neve che non si poteva cavalcare in ogni luogo, ne prima d’hieri l’haverei potuta fare perché la strada era stoppa affatto nel basso, dove li venti delli giorni passati hanno condutta la neve molto alta>>.[148]  Questo nella lettera del 20 di novembre, in quella relativa al 21 le condizioni atmosferiche sono ulteriormente peggiorate: <<Hieri subito che giunsemo in cima alla montagna nel calare le notti un vento che ci sono li vestiggi della stradda ci riempì in modo le basse, che dopo haver cavato i cavalli in tre o quattro luoghi con grandissima difficoltà dalla neve nella quale erano quasi sepolti, fossemo forzati lasciarli dietro con le robbe…>>;[149]  il vento era fortissimo e la neve ghiacciata sugli occhi, impediva loro la vista, quindi Bernardino Morra procedeva dietro al Todeschino, ossia Ambrogio Fornerio, servitore di Borromeo andando alla cieca, poiché la neve aveva coperto ogni traccia di sentieri; ma scrive anche della generosa ospitalità ed aiuto che riceveva da popolazioni che, ormai, professavano altra fede, addirittura descrive l’interesse che in alcuni luoghi mostrano per la venuta di Carlo Borromeo: <<…dove trovassimo tanta amorevolezza con prontezza in aiutarci massime per recuperare i cavalli, che non si potrebbe dir maggiore. Così andarono quattro o sei huomini (i) qualli a notte gli condussero con grandi difficoltà, sì che Mons.r Ill.mo mio riconosco l’aiuta da singolare gratia n’ha voluto far Iddio, che invero non potrei esprimere i pericoli grandi che habbiam passati, tanto che mi par un sogno […]L’exhibitor del presente è fratello del S.r Ministralle de questi paesi de Valle di Rheno et bene principale in questa terra, qual ci ha alloggiato con tanta amorevolezza ch’io sono restato confuso, e’ m’ha detto (che) anche loro fecero consiglio sopra la venuta di V. S. Ill.ma quale aspetano con grande desiderio con bona volontà di riceverlo et alloggiarlo, et che farano accomodare la stradda della montagna sì che potrà passare facilmente…>>.[150] Il fratello del Ministrale, ossia la persona che ha dato aiuto, affiderà al Borromeo un suo figlio quindicenne per farlo studiare nel Collegio di Roveredo.[151]

Da Coira, dove era arrivato il 22 novembre, Morra scriveva che il Vescovo <<spiritualia negligit, temporalia dilapidat>>, cioè si occupava molto di più delle cose temporali che non di quelle spirituali, facendo una vita lussuosa e dissoluta,[152] ma il compito di Morra era quello di verificare gli ordinamenti del Vescovo nei confronti del Cardinale, il quale stava agendo in luoghi a lui sottoposti, inoltre doveva appurare se fosse stata gradita una sua sosta a Coira, poiché sarebbe passato da quei luoghi per andare al Castello di Hohenems ospite di suo cognato Annibale Altemps, marito sella sorellastra Ortensia. In realtà a Borromeo non interessava tanto di poter predicare nella Cattedrale di Coira, cosa che gli sarà sconsigliata dal Vescovo, ma di persuadere lo stesso Vescovo a revocare il divieto della sua visita in Valtellina: <<Hieri matina giunsi qua in Coira a bonhora, fui raccolto da Monsignor Reverendissimo lietamente, mostrò gran sodisfatione e contento dell’officio che feci seco insieme di Vostra Signoria Illustrissima in darli conto della causa della venuta sua costì, e delle cose ivi seguite. Non haveva inteso prima dell’arrivo di Vostra Signoria Illustrissima costì, perché suo fratello il Conte non è sin’hora ritornato da Milano, ma ben haveva havuto aviso che la voleva venirci per passar poi in Altemps. […] et mi disse che se havesse saputo dell’arrivo suo nella valle Mesolcina sarebbe lui venutoo almen mandato personea basciar le mani aVostra Signoria Illustrissima et invitarla a venir sin qui, come mostra haverne desiderio grande, per farle vedere le miserie di questa sua Chiesa rispetto al governo et ererethij spirituali…>>.[153] Nonostante la diplomazia che Morra usa nella sua lettera, ci sembra poco probabile che il Vescovo di Coira non fosse al corrente che Borromeo si trovava in Mesolcina già da dodici giorni circa e che lo venisse a sapere proprio dal Segretario del Cardinale, anche se in un’altra lettera di Morra al Cardinale datata 26 novembre troviamo: <<Questa mattina solamente Monsignor Vescovo ha ricevuto la lettera del Ministrale de Roveredo con la quale gli dava aviso dell’arrivo di Vostra Signoria Illustrissima in cotesta Valle, così che non era meraviglia se non mandava persona o lettere per compimento et debito suo>>.[154] Il compito del Segretario di Borromeo non si presentava certamente facile: avrebbe dovuto affrontare l’aperta avversione di molti e, soprattutto, le incognite delle soluzioni dell’imminente Dieta: <<…et in conclusione il parere commune sì di Monsignor Reverendissimo, come d’un suo fratello ch’è qua, d’un suo Castellano, del Proposito, et anco del Signor ladrito Galles,[155] col quale ho ragionato questa sera ch’è giunto qua di Borgogna, è che Vostra Signoria Illustrissima sia per ottenere poco o forse niente col passaggio suo di qui, et che più tosto fosse per aportar qualche sospetto nell’animo de popolari che si ritroverano qua alla Dieta, quelli non sono soliti regersi nelle deliberationi con la ragione, ma più tosto con passione et affetto troppo grandi che hanno all’augumento della religione nova, della quale sono le doi parti delle voci>>.[156] Si deduce che, in definitiva, la presenza del futuro Santo avrebbe sortito più guai che vantaggi, anche per quanto riguarda il proseguo della vista in Valtellina, non vi sono speranze di avere il permesso: <<…si crede che gl’officiali di collà non permetteranno che Vostra Signoria Illustrissima faccia atione alcuna spirituale…>>.[157] Nel frattempo, Bernardino Morra cerca parlare a lungo con l’Ambasciatore di Francia, il quale è arrivato da pochi giorni con molto denaro, destinato, probabilmente, a pensioni e spese militari, ma anche molto vantaggioso nell’influenzare le disposizioni.[158] Durante la sua permanenza in Coira, Morra capisce chiaramente che la minoranza cattolica è paralizzata dalla paura, quindi, secondo le decisioni che saranno prese dalla Dieta, il Segretario non sa se è opportuno continuare ad insistere sulle proposte o abbandonarle se non dovessero dare risultati positivi, tutto ciò si può fare, continua Morra, senza mettere a repentaglio la posizione del Borromeo se è lontano, mentre se si trovasse a Coira sarebbe una sconfitta clamorosa. Tra le righe possiamo capire che, diplomaticamente, il Segretario consiglia al Cardinale di abbandonare l’idea del viaggio oltre San Bernardino, come poi avvenne,[159] portando anche l’esempio del Vescovo di Como, il quale: <<…à procurato d’otenere da questi Signoridi poter andare a visitare Valtellina come sua diocesi, et intendo che ha usato diversi mezi anco di quelli che piaciono et trastullano qua, però che mai ha potuto otener cosa alcuna […] l’istesso Ambasciatore di Francia va molto ritenuto et con segretezza nel trattare cose pertinenti la nostra Religione per non dare sospetto a questi popoli quali maggiormente non s’appagano di ragioni, et fra le altre cose mi disse hieri che tre ò quattro giorni passati nel elettione del borgomastro giurarono tutti questi cittadini di non venire alla chiesa per sentir messa, d’indi nasce che sono puniti poi quei che vi vengono >>.[160] Queste due lettere di Morra sono datate 23 e 24 novembre, ma al 23 dello stesso mese risale anche la lettera latina di Pietro Rascher,  Vescovo di Coira, il quale dopo avere parlato con il Segretario del Cardinale scrive chiaramente che una venuta del Borromeo in questa città dovrebbe necessariamente limitarsi ad una mera visita privata: se il Cardinale vuole passare per Coira per recarsi dal cognato, i cittadini lo accoglieranno con i più alti onori e non impediranno una visita alla Cattedrale, ma non vorranno che tenga un discorso al popolo e anche se lo volessero, verrebbe dissuaso dallo stesso Vescovo, perché, in momenti così delicati, sarebbe fuori luogo e sedizioso.[161] La lettera è datata agli idi di novembre che cadevano il 13 del mese del vecchio calendario, quindi rapportata al computo del nuovo calendario risulta scritta il 24 di novembre.[162]

In un’altra lettera del 2 dicembre, Pietro Rascher insiste sulla difficoltà suscitate da parte dei riformati sopra un’eventuale intromissione del Borromeo negli affari della Diocesi: al “bitag” delle Leghe, i Cattolici ribadivano che il Cardinale doveva essere ricevuto senza riserve, la parte opposta si opponeva con forza e il Vescovo venne a trovarsi tra l’incudine e il martello, ovviamente ebbero la meglio gli scismatici molto più numerosi degli altri: <<E contra novum Scisma Sectantes in nos fulgurabant. Sic inter malle(u)m et incudem constitutus, tandem maior pars in deliberando meliorem vincit>>.[163]

Viene decretata la concessione del libero passaggio, attraverso quei luoghi, al Borromeo e al suo seguito, con ordine di accoglierlo con il degno omaggio. Questa lettera deve essere stata scritta dal Vescovo prima di ricevere quella che il Cardinale gli scrive il 28 novembre, dove gli comunica la sua rinuncia al proseguimento del viaggio, essendosi prolungati più del previsto i tempi della visita in Mesolcina, e a Milano lo aspettano i suoi doveri di Arcivescovo, essendo vicino il Natale, oltre ad altri improrogabili impegni: il consiglio di Bernardino Morra è stato ascoltato e la dignità del futuro Santo è salva.[164]

La Valtellina e la Valchiavenna furono sempre ecclesiasticamente dipendenti dai vescovi di Como, civilmente appartenevano al Ducato di Milano dal 1335, ma quando i Francesi, nel 1499, occuparono il detto Ducato, invasero anche queste Valli, usando soprusi ed esigendo tasse non sempre legali fino al 1512, quando i Francesi furono costretti ad abbandonare Milano, sconfitti dalla Lega Santa, che improvvisamente si era alleata con Venezia, con i Savoia e la Svizzera per frenare l’esagerato potere della Francia. Come da accordi con gli alleati, i Grigioni entrarono nelle Valli il 27 giugno 1512 e con il giuramento di Teglio vennero annesse alle Tre Leghe, il cui dominio durò fino al 1797. L’importanza della Valtellina come crocrocevia europeo e la proclamazione della libertà di culto favorirono l’immigrazione di riformati italiani. La situazione non era molto diversa da quella della Mesolcina: gli stessi problemi religiosi e morali dividevano i Cattolici dai Riformati e i primi, visto l’esito positivo della visita in Mesolcina, aspettavano la venuta del Borromeo nelle loro Valli, tutto questo lo possiamo apprendere da una lunga lettera che il Prelato scrive senza specificare il destinatario, ma all’inizio troviamo “Per Franza”: <<Dall’essempio del bene seguito nella Valle Mesolcina, il S. Cardinale prese ferma speranza di far gran frutto nella Valtellina, et così determinò d’andarvi come havea anco designato prima…>>,[165] ma tutto ciò fu impedito durante la Dieta di Coira, come già detto, <<…et perché non haveano ragione alcuna , si valsero dell’occasione di certa voce quale allora si era cominciata a spargere, che si trattasse nuova lega fra i Grisoni et il Re di Spagna, con dire che il S. Cardinale non voleva andare in quei paesi loro per fine spirituale, ma per detta nuova lega et negotij di stato…>>. L’Ambasciatore di Francia, col quale Bernardino Morra trattò particolarmente l’argomento della visita in Valtellina, si mostrò favorevole all’inizio, <<…ma poi entrato anco esso in sospetto, et gelosia del sudetto trattato di nuova lega, si raffredò, et forse fece qualchi ufficij contrarij…>>. Successivamente i Grigioni mandarono in Valtellina e Valchiavenna quindici commissari <<…la maggior parte heretici dove hanno tormentato aspramente l’Arciprete di Sondrio, quale si trovava già detenuto sotto pretesto c’havesse tenuto mano a certi rumori, et risse che poco avanti occorsero in Sondrio fra catolici, et heretici..>>, nonostante sia poi stato dichiarato innocente fu condannato a pagare più di 200 scudi per delle inesistenti spese, peggio ancora fu costretto a promettere, sotto giuramento, diverse cose non specificate.[166] Furono incaricati trenta uomini della Valtellina e dei luoghi vicini per andare a Coira a recriminare per i tanti soprusi patiti dagli abitanti cattolici, ma da un documento senza data e senza destinatario troviamo: <<Quelli c’havranno la cura del maneggio della negotatione della Lega co’l Re Catolico, si risolsero ultimamente d’andarsene a Coira, con disegno di trattar la apertamente, con una buona somma di danaro, et vi andarono, ma il Capo della Lega delle Dritture, non vi comparve, et eglino quando hebbero aspettato sette giorni, forse parendogli troppa indignitàdel loro Re si risolsero di partire senza parlare di questo negotio, et così è restato estinto affatto per adesso>>. [167] Bernardino Morra, in una lettera del 10 agosto 1584 riferirà al Cardinale di avere appreso dal Todeschini, che a sua volta aveva avuto la notizia da persona sicura, che i Gigioni vivevano nella paura di perdere la Valtellina e i loro commerci con Milano, tanto che hanno avuto un incontro segreto con i Cantoni “eretici” e sembra che “habbin fatto lega particolare”, ma alla Dieta che si terrà a Bada il 26 dello stesso mese parteciperanno sia i Cantoni cattolici sia quelli riformati, per cui, suggerisce il Segretario, è necessario mandare uomini bene informati sulla situazione per dimostrare le ragioni dei Cantoni cattolici. Da notare la capillarità della rete di informazioni che il Borromeo aveva costituita non solo nei luoghi sottoposti alla sua giurisdizione, ma in tutta l’Italia.[168]

L’Arciprete di Sondrio, Giovanni Giacomo Pusterla scrive alcune lettere al Cardinale durante la sua detenzione, da cui apprendiamo che il 19 aprile1584 si trovava in prigione per le accuse suddette, in realtà perché si oppose all’istituzione di un collegio, ufficialmente pluriconfessionale, ma chiaramente di ispirazione riformata. I cattolici si ribellarono a tale iniziativa, per timore che la scuola avrebbe favorito la religione riformata ed avrebbe portato dei gravi frutti morali, presto scoppiò un tumulto che si trasformò in un caso politico quando le Tre Leghe inviarono dei commissari per fare indagini sulla sommossa, furono arrestati alcuni uomini per sospetto di avere fomentato tale sommossa, tra questi vi era l’Arciprete di Sondrio e dalla prigionia scrive al Borromeo: <<Hoggi è il quinto giorno, ch’io con mio fratello, et doi altri buoni catholici ci troviamo prigioni del S.r Gov.ori nostro per difensione di S.ta chiesa, per la quale si sollevò tutto il nostro popolo contra heretici, come credo ceh V.S. Ill.ma haverá inteso da diversi predicatori di questa Valle […] Ha puochi giorni, ch’io ricevei altre sue mandatemi da Mons.r R.mo nostro di Como, alle quali non so che altro respondere per non esser presso di me. Uscito che sarò di prigione, attendero ad esequir fedelmente quanto ella me haverà commesso, come anche farò circa le Commissioni matrimoniali mandatemi, et ogni cosa, ch’ella si degnerà di commandarmi.Di Sondrio il 19 di Aprile 1584. Devotissomo Servitore. L’Arciprete di Sondrio carcerato per S.ta fede>>.[169] Un’altra lettera, del 28 maggio dello stesso anno, ci informa che <<Qui in prigione, dove io sono ancora per la gratia di Dio, ho ricevuta la consolatoria lettera di Vostra signoria Illustrissima la quale m’ha portato abundante spirito per tollerare le gran persequtioni, che habbiamo da nemici di Santa Chiesa […]La nostra detentione si va allongando, et dubbito che la causa si porti nel prossimo Pithac del Corpus Domini, nel qual haveremo maggior contrasto che non habbiamo qui, perche allora li Predicanti Luterani si ritrovano tutti in Coyra al loro Synodo che fanno…>>.[170]

In una lettera, dell’11giugno, scritta dal nipote dell’Arciprete di Sondrio, Nicolò Pusterla al Cardinale, possiamo capire che la situazione era molto grave: <<Come servo obedientissimo di Vostra Signoria Illustrissima l’aviso di tutto quel che qui è bisogno per il servitio di Dio. Ho trovato nella mia aggionta, mio zio l’Arciprete di Sondrio anco priggione, et la cosa assai piu pericolosa di quel che io credevo havendo egli oltre la priggionia datta securtà di domila scudi per esser stato accusato di rebelle et di seduttore. Et in vero, come ho inteso qua, l’anticolleggio si sarebbe piantato, se l’armi non fossero state interposte, et ancora che dal esser state pigliate l’arme nati questi puochi travagli pur molti beni ne sono nati…>>,[171]ossia i Riformati si sono ritirati e la sommossa ha accentuato il fervore dei Cattolici. Nicolò continua dicendo che lo zio non è in grado di pagare una tale somma, quindi supplica il Borromeo d’intercedere presso la Santa Sede, affinché arrivi da Roma qualche aiuto economico. Nicolò Pusterla era Canonico di Coira e dall’inizio della lettera possiamo notare che faceva parte degli “informatori” che l’Arcivescovo aveva ovunque. Nel 1590 fu nominato dal popolo Arciprete di Sondrio, essendo lo zio stato costretto a fuggire a Roma, ma anche lui fu vittima dei Protestanti e sembra sia morto in prigione, avvelenato dal Governatore della Valle.[172]

Il 13 di giugno, Giovanni Giacomo Pusterla scrive a Carlo che finalmente lui e gli altri carcerati sono stati tutti rilasciati, ma egli ha dovuto pagare duemila scudi, gli altri mille a testa, con l’obbligo di essere a disposizione del Governatore e di non lasciare la città di Sondrio, ma i Giudici tardano a spedire la causa, forse, suppone il mittente, per poterla presentare al prossimo <<…Pithac per darci forse o maggior travaglio, o qualche castigo a lor modo tanta e’ la persequtione che habbiamo da questi indemoniati heretici>>.[173] Il Pusterla, comunque, non demorde, infatti così scrive il 22 giugno: <<Dapoi ch’io son uscito di prigione con segurtà però di representarmi, non ho mancato di far tutti quei offici gagliardi, che mi siano stati possibili, per unire questi popoli, accio facessero li suoi messi speciali per la causa di religione da mandarsi al prossimo Pithac, con persuaderli che il Signore con suoi potenti instromenti è per aiutarci adesso, quando da se stessi non si manchino. Tuttavia io veggo che questa Valle, contra ogni mia dissuasione fattagli, vuole preferire la causa de’ Signori Commissarij, che s’habbino da levare, alla causa spirituale della religione, cosa che è contra il vero ordine, et che poi secondo l’occasione che ne haveranno, attenderanno ancora alla causa spirituale secondariamente. […] Credevo, et desideravo andar io stesso al prossimo Pithac, ma per la segurtà data, non posso partirmi di Sondrio>>.[174] In un documento senza data e senza firma troviamo i <<Rapporti di alcuni particolari in materia della fede agitatai nella presente Dieta de Sig.ri Grisoni fatta in Coyra>>, dal quale apprendiamo, dal primo punto, che i Signori dei cinque Cantoni svizzeri hanno riferito, durante la Dieta, di avere ricevuto delle lettere dal Pontefice, dal Re e dai Signori veneziani, in cui affermano di avere sentito dire che i Grisoni non lasciano libertà di culto ai loro sudditi cattolici e di voler istituire un Collegio luterano in Valtellina, che, per essere ai confini degli stati dei suddetti mittenti, <<…porta pericolo certo alle anime de loro popoli…>>, quindi è desiderio che l’Istituto non venga eretto, <<accio si possa continovar nella passata buona vicinanza, che altrimenti per essere inovatione contra le conventioniloro, se sarebbono tenuti per conservazione de loro stati farli altra provvigione…>>, pertanto, considerando gli inconvenienti che potrebbero verificarsi, esortano  a non  <<aggravar gli loro sudditi nelle cose della fede>>.[175] Il Cardinale Savelli viene informato dell’istituzione del collegio dal Borromeo, in una sua lettera del 18 agosto 1583, quindi quasi un anno prima dei suddetti fatti: <<Ho havuto la certezza della fondazione do quel Colleggio d’heretici in Sondrio, al quale quei Signori Grigioni haveano applicata l’entrata della prevostura di Tir (Tirano) ma i Cattolici si sono in modo adroprati, che hanno attenuta la metà di quell’entrata, per poter, ancor essi, fondar una scuola Cattolica. Il che è di men male, in cosa pessima com’è quella…>>.[176]

Il secondo punto tratta dei predicanti eretici …<<che ressidono in quello paese che si trovano in Coijra al n° de 65 inc.a in al sinodo che facevano, hanno decretato che nelli loro paesi de sudditi non sia accettato ne admesso alcun prete ne frate forastiero, et di più che tutti quelli che ci soni siano espulsi…>>.[177]

Dal terzo punto veniamo a conoscenza che sono stati incaricati quindici “Sindicatori”con ampia autorità, per inquisire e processare nel territorio della Valtellina e Valchiavenna e punire tutti quelli che hanno <<…parlato contra gli hereticio fatto qualche movimento de Zelanti et buoni cat.ci nella osservazione della quadragesima et feste secondo il calindario novo, et de altre cose al tempo che furono scacciati gli R.di Padri Predicatori da Chiavenna a da Valtellina, et in altri tempi, de quali persone ne hanno in nota in quantità, et detti sindicatori hanno autorità di piantar sudetto collegio et di lasciar, ma si dubita per instigatione de predicanti et altri maligni spiriti havrà pur troppo effetto, massime per esserne tra detti 15 solo 3 inc.a de catolici. Hanno ancora autorità di reformar et aggravar il processo del R.do Arciprete di Sondrio non contentandosi del formato perché gli parerà leggiero da non poter satiar lìingorda voglia dell’avaritia>>.[178]

Il 27 giugno 1584 “Li Amb.ri della generale libera Lega Grisa, di presente in Coijra congregati”in una lettera dichiarano la loro non contrarietà all’erezione di un Istituto, anzi esprimono la loro ammirazione per questo cristiano proposito.[179]

Molto interessante è la lettera che Scipione Calandrini,[180] noto eretico lucchese trasferitosi in questi luoghi, scrive, a sua discolpa, al Governatore e al suo Vicario, circa una presunta disputa che il Borromeo avrebbe fatto in Chiavenna per far capire le differenze tra la religione cattolica e quella protestante, ma soprattutto per mettere in evidenza gli errori di quest’ultima, ma, secondo alcune persone, tra questi fra Francesco da Balerna predicatore francescano, che i riformati avrebbero impedito tale discussione. Data l’importanza del documento, riportiamo il testo integralmente: <<Ill. Signore Governatore e voi Mag. co S.r Vic. Ro Essendomi statto detto da piú persone degne di fede che Fra Francesco da Balerna franciscano al presente predicatore in S. Gervasio habbia detto et affirmato ch ‘l Cardinal Borromeo habbia voluto piantar una disputa in Chiavenna sopra le differenze della Religione per far conoscere i nostri errori, e che noi non l’habbiamo voluto consentire, e che se li nostri Illustrissimi Signori permettessero che egli venisse in Valtellina con li suoi Theologi che disputariano con noi e ci convincariano, ma che noi l’impediamo. E di più essendo certificato ch’egli va tentando hor questo hor quello de li nostri, e che non havendo dal principio ricusato di confrontarsi con meco sopra gli articoli discrepanti tra noi, anzi essendosi offerto di mettere ancora le cose in scritto, poi quando si è voluto venire all’effetto, dandogli solamente tre conclusioni, non ne ha voluto far nulla, dicendo essergli prohibito da gli suoi superiori di disputar con noi e che io doverei andare a Como o a Milano, dove sarei convinto, e che si constituerà qui prigione se medesimo, facendo ancora venire tre o quattro gentil huomini Principali di Como che staranno qui per hostaggi fino che io con quelli fussero meco ritornassimo a casa, e simili altre cose. Per tanto havendo fatto consideratione sopra le dette cose mosso dal debito dell’officio mio e della mia vocatione che è di difender la verità con ogni debito modo, e resistere alle oppugnationi di essa, e stabilire gli infermi contra le tentationi che sono lor fatte e dare occasione agli alieni di aprire gli occhi alla verità, e accostarsi alla dottrina sincera, ma non ho voluto ne potuto mancar di presentarmi dinanzi alle SS. VV. con supplicarle di far domandare il detto frate Francesco, e fargli intendere la mia risposta, e la mia protesta quale io faccio alle proposte sue, la qual risposta e protesta è la seguente. Prima che non si troverà mai esser vero, che il Cardinale Borromeo habbia procurato che si facesse una disputa in Chiavenna sopra le differentie della Religione, molto meno è vero, che da noi tal disputa sia stata impedita.

Di più che non si trovava mai esser vero, che da noi sia statto impedito, che il medesimo non si facesse in Valtellina, quando il Cardinal Borromeo havesse ricercato tal cosa da nostri Ill.mi S.ri cioè che fusse ordinata da loro Ill.me Sig.re ma publica con li suoi debiti ordini e regali, quali si usano nelle dispute publiche, nella quale si confrontassero i Theologi dell’una e dell’altra parte, per discutere con argomenti e ragioni vere e farne le differentie della Religione, come è statto fatto più volte in Germania, in Inghilterra, in Francia, e nella helvetia.

Di più che basta l’animo di fare che il detto Cardinale ricerchi tal cosa da nostri Ill.mi S.ri si come ho detto, io prometto fare ogni opera possibile con li miei compagni, e Hon.di fratelli Ministri della parola di Dio appresse de nostri Ill.mi S.ri che gli sia concessa la sua domanda, protestando dinanzi a Dio e a tutto il mondo che noi non ci ritireremo mai indietro da simile confronto, anzi che lo desideriamo sommamente si per sapere che è desiderato da molti dell’una e dell’altra Religione, come ancora per essere questa una delle vie principali da far venire molti in cognitione della verità.

Quanto poi al mio particolare ch’egli dice, ch’io vada a Como, o a Milano, per disputar là essendo prohibito a lui di disputare qui. Rispondo. Prima che questa sua fuga, perché si sto arrivando da ogni uno con quanta pena sia prohibito a qualunque persona si sia in Como, Milano, e in qualunque altro luogo la Chiesa Romana ha imperio assoluto di disputare delle cose della Religione, non meno di quello sia prohibito alli suoi seguaci di disputarne altrove.

Di poi la vocation mia e di miei compagni non è d’andar quà o là senza legittima vocatione  a predicare o disputare, ma solamente dove siamo chiamati con li modi prescritti dalla parola di Dio. Ma esso e li suoi simili andando qua e là, e potendo venire a disputare con noi in questi paesi liberi senza alcuno periculo, dove sono tutte  due le Religioni, e dove si dee cercar di disinganare quelli ch’essi affermano esser in errore, doveriano venire quà a simili confronti con noi, e non invitare noi là dove non habbiamo ne possiamo andare senza esser notati di poco prudenti.

Ma perché dice di dare sofficiente sicurta e 5 ostaggi per me e per quei compagni che fussero meco, per mostrargli quanto io mi confidi, non nella sofficientia mia, ma nella buona conscientia e nella buona causa nostra, se egli operera che in Como o in Milano si faccia una disputa che sia publica, e che io con due compagni siamo domandati alli nostri Ill.mi S.ri dando il salvo condotto come va dato, con le sicurta e hostaggi ch’egli dice: io prometto fin hora dinanzi a Dio e a tutto il mondo di andare, e disputare con ogni sincerita secondo la gratia, che Iddio mi dara: Con questo pero che tutti li atti e gli argomenti con le risposte loro siano messi in scritto, accioche possiamo render conto a li nostri Ill.mi S.ri e alle nostre Chiese di tutto quello sara seguito, e acciché ogni persona pia et d’intelletto possa vedere chi habbia torto o ragione.

E quando tal cosa non posso ottenere dalli suoi superiori da basso e che si contentino che senza fare altre andate ne di noi in là ne di essi in qua ( per mostrare che siamo pronti di venire in tutti modi a ogni legittimo confronto) si contentino dico che si disputi per via di scritture, le quali senza pericolo alcuno e senza spesa si possono andare inanzi e in dietro, io offerisco loro ancora questo mezzo. E così si potra cominciare dalle tre conclusioni presentate al detto frate Francesco, che trattano della autorita, sofficentia, e sola Regola della Santa Scrittura in tutte le cose appartenenti alla fede, alla vita, e al governo della Chiesa Christiana e vera Catholica e Apostolica.

Questa è la risposta e la protesta mia, la quale fo a voce dinanzi alle S.re V.te e la do in scritto, sotto scritta di mia propria mano, accioche la facciano intendere al detto frate Francesco e ne ricerchino la risposta. Di che ne supplico le SS. VV. Con ogni desiderio maggiore che per me farsi possa, pregando la Divina Maesta per ogni loro perpetua felicita.

In Sondrio alli X di marzo 1584

Scipione Calandrius Ministro della parola di Dio, in Sondrio, manu propria>>.[181]

Il Cardinale aveva capito che la situazione presente in Valtellina era legata più ad interessi temporali ed economici che non a quelli religiosi e si era reso conto che non poteva avere successo la sua visita se non fosse appoggiata dall’azione politica. Il suo desiderio non era quello che le due Valli fossero tolte ai Grigioni per darle alla Spagna, voleva che le condizioni dei Cattolici fossero meno dure. In una sua lettera il Cardinale Speciano non nasconde a Carlo che a Roma c’era preoccupazione per le conseguenze che si sarebbero riscontrate se la Spagna avesse conquistato la Valtellina; l’Arcivescovo rispondeva che non credeva che la Spagna mirasse a quella conquista, ma se mai accadesse egli sarebbe riuscito a convincere il Re ad un compromesso pacifico con i Grigioni, limitando l’azione solo a fini religiosi. Questo fa capire la consapevolezza del Borromeo di padroneggiare la situazione politica dello Stato di Milano e di poter rivolgere la politica monarchica spagnola ai fini dei suoi disegni di restaurazione spirituale e religiosa.[182]

L’Arcivescovo non perde tempo a far valere la propria autorità e in una lunga lettera al Governatore di Milano, Duca di Terranova, descrive la situazione di queste due Valli e quello che urge fare, data l’importanza del documento riteniamo opportuno trascrivere i passi più significativi: dopo avere con precedenti missive informato il Governatore della Visita in Mesolcina e spiegato i gravi disagi cui sono sottoposti i cattolici della Valtellina e Valchiavenna, tanto da chiedere aiuti, sarebbe una buona occasione fare di tutto sollevare questi popoli da tante oppressioni, con grande vantaggio della religione Cattolica.  <<Hora perché dalla lettera che mi ha scritto S. M.tà per questa causa, vedo quanto essa desidera ch’io continui gli officij che incominciai l’anno passato in beneficio spirituale di quei paesi, e promette d’aiutare e favorire dal suo canto in tutto quello che si conoscerà esser spediente, et a questo effetto mi dice S. M.tà ch’io posso andar comunicando con V. Ecc.za quello che occorre, in ch e lei possa aiutar questo servitio del Sig.re tanto importante>>. Continua parlando delle cause che hanno portato alla situazione attuale e che non si discostano molto da quelle della Mesolcina; i rimedi consistono nel visitare quei popoli, provvederli di validi religiosi, esortarli con ogni mezzo per farli tornare nel culto di Dio, impedire agli eretici <<…finché non si ha braccio ne forza di levar la libertà loro diabolica, di vivere nell’eresie, almeno procurando di andar disingannando molti sedutti, istruendo gli ignoranti, come sono per lo più quelle genti  […] Il che tutto si è veduto con effetto manifestamente nella Valle Mesolcina deve la visita solamente di quindici giorni, e sue conseguenze, essa Valle, con molta facilità, e suavità, si è riformata tutta, e rinovata spiritualmente>>. I provvedimenti che il Borromeo vorrebbe prendere sono gli stessi attuati in Mesolcina, <<Ne basterebbe l’impedir l’erettione di quella scuola eretica, che disegnano i Grigioni di piantare in Sondrio terra principale della Valtellina, perché sebbene questa e cosa d’imporetanza, per il danno che risulterebbe da essa scuola alla religione cat.ca in quei paesi, et altrove massimamente a questo Stato di Milano, per la vicinità sua, e Commercio, nondimeno restando tuttavia privi li cat.ci delli aiuti spirituali […] Vi sarebbe un’ altro capo da dimandarsi, cioe che nelle terre del sud.to paese loro non fossero più accettati e tollerati e fuggitivi d’Italia, S. M.tà può pretendere questo, anco per ragione di Stato, et di buona vicinanza…>>, infatti i Grigioni sostengono, continua il documento, di voler essere in buoni rapporti con il Re di Spagna, soprattutto per il commercio con l’Italia e lo Stato di Milano, ma è proprio con questi contatti che le eresie si propagano anche per mezzo di libri proibiti, quindi il Prelato suggerisce al Governatore un certo comportamento: <<Quanto al modo co’l qual s’ha procedere, per ottener da Grigioni, che diano alli catolici del paese loro queste ragionevoli sodisfationi V. Ecc.za vede che non è spediente trattar con loro, per i termini amorevoli, e civili, perché essendo eretica la maggior parte de capi, li quali hanno il governo in mano, conosciamo, ch’ogni libertà, che si dia a Cat.ci e contraria allo scopo e fine loro, che e d’allargar l’eresia et annichilar la relig.ne cat.ca. […] E’ necessario dunque trattar con loro risentitamente, dimandando che devano lasciar i paesi, e popoli loro e dei suoi sudditi, mass.e di Valtellina, e Valle di Chiavenna e contorni di qua da monti nella libertà di vicere cattolicamente, nel modo, che si e esplicato di sopra, con protestargli che altrimente S. M.tà non potrà di meno, che non porga ogni aiuto e soccorso a catt.ci, acciò possino havere la sudetta intera libertà>>. Certamente, prosegue il Cardinale, la richiesta del Re deve essere molto risoluta per ottenere lo scopo, un altro mezzo che può essere molto convincente <<…è la proibizione totale del commercio de popoli di quel paese, con questo stato di Milano, perché V. Ecc.za ha a sapere, ch’l governo loro è in mano d’alcuni capi li quali per esser la maggior parte eretici […] Et perché intendo che V. Ecc.za da pochi giorni in qua ha serrata la tratta de’ grani di questo Stato, crederei fosse espediente tenerla serrata particolarmente per essi Grigioni, et ch’ella, presentandosi occasione, si lasciasse intendere, che non la vuole concedere, per gli aggravij, et oppressioni fatte a cattolici del paese loro, mass.e della Valtellina e contorni, che sono di qua da Monti, affinche questo penetrasse alle orecchie de popoli di la da monti, li quali forse potrebbero far motivi tali, contra i sud.ti capi eretici del governo>>. Quasi alla fine della lettera, il futuro Santo mette da parte la diplomazia ed esplicitamente scrive che se il Re non dà rapidamente il suo aiuto, i Grigioni potrebbero allearsi con gli Svizzeri cattolici, alleanza che sarà discussa nella prossima Dieta, e allora tutti gli aiuti saranno vani, in quanto le loro forze saranno maggiori. Il Governatore, quindi, cominci subito con la proibizione della tratta dei grani e pubblichi la causa di tale divieto, ottenga quanto prima il permesso del Re per chiedere ai Grigioni di ristabilire la libertà per i cattolici, facendo leva sulla giustificazione di aiutare i cattolici,   avvertendoli di impedire il loro commercio e di prendere sotto la sua protezione gli stessi cattolici. <<…tenendo per fermo che in occasione di tanta importanza, quanto e l’aiuto di tante anime, l’aprir la porta di far progresso fin oltre di la dà monti, alla conversione di quei popoli; et la sicurezza di questo suo Stati di Milano non mancherà di dar subito a V. Ecc.za quelli ordini e risoluzioni, che sono necessarie, et che convengono alla pietà, e zelo Christiano, col quale S. M.tà ha sempre havuta particolar protettione dalla religione catolica>>.[183]  

In un documento, relativo al primo dicembre 1583, giorno della Dieta, Bernardino Morra così scrive: <<1583 il dì primo Decembre o sia pitacho de Signori Grigioni, Io Bernardino Morra comparvi doppo haver presentata la lettera (spazio vuoto) dissi alli Signori ivi congregati che potevano essere circa 70, che haveva havuto commissione da Monsignor Cardinale Santa Prassede mio padrone di venir qua a Coyra a dar conto a Monsignor Reverendissimo delle cose occorse e successe nella valle Mesolcina pertinenti al spiritual, come a pastore t ordinario, accioche potesse dare quelli ordini et far quelle provvigioni che fossero necessarie per aiuto dell’anime di quella Valle, et di qui ringratiar le signorie loro dell’amorevol offerta che haveano fatto a Sua Signoria Illustrissima di raccoglierlo et honorarlo volendo venir a transitar per il loro paese e dominio…>>,[184] quindi il Segretario dice di trovarsi li per salutare e ringraziare tutti a nome dell’Arcivescovo, il quale essendo indisposto non avrebbe potuto passare per quei luoghi e per questo porgeva le sue scuse. Fu detto al Morra di ritirarsi che subito gli avrebbero dato la risposta, poco dopo fu chiamato da Galles de Mont, Landrichter della Lega Grigia, che a nome di tutti disse che erano sempre stati favorevoli al Borromeo nel servirlo ed onerarlo quando a lui sembrerà opportuno “transitar” per il loro paesi non mancheranno di mostrare questa loro buona volontà. Morra risponde che al momento non ha disposizioni per programmare tale visita,  <<…ma ben credeva che Monsignor Illustrissimo non hebbe ne pensiero di transitar per quei paesi per far visita formale ne cercar giurisdittione, ma solo per far li suoi cercoli spirituali nelli luoghi cattolici per giovar a prossimi come ogn’anno è obligato di far e così mi partei con intentione che mi dessero risposta in scritto>>.[185] Il documento riporta la firma di due testimoni. La risposta la conosciamo.

In una lettera del 3 dicembre, scritta da Roma e indirizzata a Carlo Borromeo, il Cardinale Speciano si congratula per l’esito positivo della visita in Mesolcina, ma non riesce a credere come possa fare visite formali, non perché non le debba essere permesso, ma essendo il paese tanto povero e “malavezzo”, come fanno ad eseguire poi quello che viene ordinato, specialmente se ciò comporta delle spese, come è solito avvenire in queste visite formali della Chiesa. <<Et quanto alla correttione di costumi, spero che ella sarà obedita, massime se lo si lasciarà intendere di voler tornare , o mandar Monsignor Borsato, di cui non voglio lasciar di dar conto a Nostro Signore et della sodisfattione che egli da in queste visite, et poiché Vostra Signoria Illustrissima ha paura che il Vescovo di Coira dia più fastidio che aiuto, s’ella vorrà si farà officio qui che gli sia scritto caldamente in questa materia, perché è troppo gran Travaglio et insoportabile l’haver paura che il Vescovo a cui per officio proprio tocca d’aiutare, di sfavorisca simil impresa>>.[186]  Altre lettere del Cardinale Speciano ci informano di come il Papa e la Corte pontificia si rallegrino e preghino per l’esito della visita, che non deve essere abbandonata visto i frutti dati, le lettere sono datate 10, 17, 24, 31 dicembre 1583:[187] questo ci fa capire che Carlo ha tutto l’appoggio della Santa Sede e la rinuncia nel proseguire la visita non sembra essere bene accolta dal Cardinale Savello: <<Ho dato al Signor Cardinale Savello la scrittura de’ Grigioni, la quale ha letto non già con la solita consolazione, et veggo quanto saria stata più espediente se si fosse andato a dar il primo assalto al luogo più principale per ogni cosa potrò resultare a maggior servitio et honor di Dio, ma bisogna, credo io, risolversi d’andar una volta a Coira all’improviso, acciò si levi la commodità et tempo alli predicanti d’opporsi, così come hanno fatto questa volta che sono stati creduti perché quei populi simplici non sapevano il procedere di lei…>>.[188]

Carlo Borromeo tornò a Milano gli ultimi giorni di novembre, numerose furono le disposizioni ordinate per tutti gli affari ecclesiastici, che dovevano garantire i frutti della visita, che il futuro Santo scrive in una lettera inviata all’amico Cardinale Gabriele Paleotti, quando ancora si trovava a Bellinzona il 9 dicembre, in cui dice di avere trovato <<…le cose del culto divino sordide et inculte et come deserte trovato affatto: colpa et negligenza dei sacerdoti vecchi…>>,[189] i quali una parte erano di quei luoghi e non seguivano nessuna riforma, erano senza disciplina e conducevano una vita dissoluta; l’altra parte erano forestieri, vagabondi, fuggitivi ed apostati. Si può immaginare quanto gli abitanti di questi paesi siano bisognosi di aiuto spirituale visto gli esempi che hanno avuto da coloro che dovevano guidarli al bene. Il Cardinale, continua dicendo che ha lasciato nelle parrocchie solo quei sacerdoti che gli sembravano “tollerabili”, gli altri sono stati rimandati ai loro ordini religiosi oppure rimossi dalle loro cariche, assicurandosi che tutti siano aiutati, ad eccezione di <<…uno più importante et principale dei contorni sono stato sforzato dare in potere de braccio secolare, convenendo così per la gravezza et enormità de’ suoi delitti et per leggi de’ sacri canoni…>>.[190] Si tratta di Domenico Quattrino, Prevosto di San Vittore, di cui abbiamo parlato prima. Per quanto riguarda il popolo, l’Arcivescovo ha visto grande attitudine e desiderio di essere aiutato, quindi non sono mancate le pratiche religiose, seguite da gran numero di persone e con molta devozione, che hanno riportato molti alla religione cattolica in tutti i luoghi visitati, anche se qualcuno è rimasto “ostinato”. La lettera si conclude con un riferimento alle presunte streghe: <<Si è atteso anco a purgare la Valle dalle streghe la quale era quasi tutta infettata di questa peste con perditione di molte anime, tra le quali molte si sono ricevute misericordiosamentea penitenza colla abiurazione, alcuni dati alla corte secolare come impenitenti, con publica exetutione della Justitia>>.[191]

Borromeo prese anche provvedimenti per i matrimoni, poiché molte erano le unioni illegali, per l’esecuzione dei testamenti e contro l’usura. Data la situazione generale, anche l’istruzione pubblica si trovava in uno stato deplorevole, tanto che Carlo provvide immediatamente a far mandare due maestri da Milano a Roveredo; decretò la fondazione di un collegio in cui avrebbero insegnato quattro Padri Gesuiti, fu subito allestita la prima sede provvisoria in casa del Ministrale Giovan Battista Sacco, ossia Palazzo Mazzio, poi quella definitiva a Palazzo Trivulzio, che nel 1549 era stato riscattato dalla Valle che ne divenne proprietaria, nel 1552 fu venduto dalla Valle, per la somma di 1700 scudi d’oro, al Capitano Marchino aMarca, ma riscattato di nuovo dalla Valle in occasione dell’istituzione del collegio. Gli ultimi giorni di dicembre erano già arrivati due maestri Gesuiti e tutto era stato disposto per accogliere 10 o 12 alunni, infatti in una lettera datata 8 gennaio 1584 di Padre Carlo a Borromeo troviamo: <<…sappia, che già facciamo la schuola nella stanze del Palazzo, ove andremo ad abitare la settimana che verra, havendo fatto acconciare tre buone stanze, et la cucina; et mi risolvo di fare anco accomodare due altre camere, et una stanza da basso molto capace et apropriata per le scole, però che queste non sono bastevole per si copiosa moltitudine, che concorre; perciò sarà ben sollecitare la provvisione assegnata da Nostro Signore>>.[192]  Il 23 gennaio Padre Carlo suggerisce, in una sua lettera, al Cardinale di sollecitare il Pontefice per l’acquisto del palazzo prima che qualcuno metta i bastoni tra le ruote, evidentemente aveva reso adatte altre stanze perché gli alunni erano più di cento.[193]

Per l’apertura dell’Istituto occorreva il permesso delle Tre Leghe, ma i Protestanti, che erano in maggioranza, scatenarono la loro offensiva a causa della presenza dei Gesuiti, che si rifugiarono nella prima sede e il Collegio dovette essere chiuso nel 1585.[194]

Nicola aMarca, fratello del Ministrale Giovanni, va a Coira il 10 gennaio 1584 e trova grandi tumulti nella città a causa della visita de Cardinale nella Valle Mesolcina, dell’istituzione del Collegio di Gesuiti e soprattutto contro il Ministrale, considerato fautore della visita, motivo di tante conversioni: <<Et questo tumulto veneva dal Imbasciatore di Francia, che si dubitava che li nostri populi volessino fare lega con il Re Catholico di Spagna, et co’ il Duca (di Savoia) per respetto di Geneva, come si dubitava>>.[195]

Le ragioni del divieto posto a Borromeo dalla Dieta e di tutti gli altri disordini, non sono solo di origine religiosa ma anche politico. Non meno preoccupante è il tenore della lettera che Galles de Mont scrive all’Arcivescovo il 13 gennaio, dove dice che non ha potuto rispondere subito ad una sua lettera per la grande confusione creata dai ministri Luterani sempre per le stesse cause, e lui è accusato di avere sostenuto la venuta del Cardinale in Mesolcina, di essere cattolico e in buoni rapporti con Borromeo. Parla brevemente delle vessazioni che i Luterani fanno ai Cattolici, ma anche se dovesse costargli la vita rimarrà sempre Cattolico, conclude dicendo che vorrebbe scrivergli più spesso, ma <<…non havendo messi fiddati non ho sapetto che fare per li grandi rumori et tumulti che erano nelle bande nostre. […] Post Scriptum la Liga nostra Grisa è in grande confussione co’ le altre du Lighe et una parte della Liga nostra quali sono Luterani aiutano favorire le altre due Lighe per questa causa>>.[196]  Un’altra testimonianza della prepotenza degli scismatici e delle insurrezioni le troviamo in due lettere di Giovan Battista Sacco al Cardinale datate 9 e 21 gennaio 1584, in cui dice di essere stato detenuto per nove giorni in prigione ad Ilanz ed essere stato liberato dopo avere pagato mille Ducati di cauzione, che spera poter recuperare, tutto ciò ad opera de Protestanti e dell’Ambasciatore di Francia.[197] Tutto ciò è ribadito anche in un’altra lettera di Giovanni Marca del 30 gennaio.[198]

Tutto ciò si può riscontrare in un documento non datato, in cui viene fatta una breve relazione della Visita: il Cardinale era desiderato ed aspettato anche dagli eretici di là dei Monti, ma da Coira, dove egli sperava di poter fare opere più grandi di quelle fatte nella Valle Mesolcina, arrivò il divieto di effettuare una visita formale: <<Ma il Demonio commosse i predicanti heretici di tutto il paese alla religione catolica, et così convennero a Coira nel medesimo tempo della Dieta in gran numero facendo consiglio et prattiche non solo per impedir l’ondata del Signor Cardinale nelle sudette valli, ma per sovertir le cose fatte nella valle mesolcina con dir ch’era contra le legi, et confederationi delle tre Leghe l’haver chiamato un inquisitor d’heresie, et l’haver accettato il Signor Cardinale, et gl’aiuti suoi, e principalmente insistevano sopra l’essibitione ch’el popolo fece al Signor Cardinale d’una casa loro per habitat ione de Secolari figlioli suoi, et de’ Maestri ch’havevano da insegnar a essi figliuoli, con dir ch’era un castello, et fortezza, in modo che se bene in generale gli fosse buona disposizione et inclinazione a ricever per bene l’ondata del S. Car.le ne paesi loro nondimeno sedutti dalli predicanti cominciorno i Signori a mostrar mala sodisfattione delle opere del S.r Car.le nella valle Mesolcina, et quantoche l’Auditore mostrasse ad alcuni di loro come l’inquisitore non era stato mandato per causa d’heresie formali, ma solo per stregarie, com’era in effetto, et che la venuta, et ricevimento del Sig.r Car.le et le attioni sue non erano contra, anzi conformi alla lege loro, quali concedono ch’ogn’uno possa viver cattolicamente o nella setta Zuingliana o heretica come a ciscuno pare…>>.[199]

Il documento prosegue dicendo che la casa offerta per abitazione per i maestri dei figli non era né un castello né una fortezza, ma solo una casa che sarebbe servita a beneficio pubblico, tuttavia prevalse l’autorità dei “predicanti”, tanto più che l’Ambasciatore di Francia, il quale, in un primo tempo, si era mostrato favorevole verso il Cattolicesimo e con Bernardino Morra, fece poi marcia indietro ritirandosi da quei compiti che si era offerto di fare, anzi si schierò dalla parte dei “predicanti”, avvalorando le loro ragioni. Durante la Dieta furono eletti dei giudici particolari appartenenti a tutte tre le Leghe, <<ma in maggioranza heretici, quali havessero da ricognoscer le cose seguite per opera del S.r Car.le nella valle Mesolcina>>.[200]

Alla fine di novembre, come sappiamo, Borromeo tornò a Milano e alcuni “de’ principali” di questi luoghi furono citati a comparire davanti ai suddetti giudici delle Tre Leghe, vennero incarcerati con vari pretesti, ma furono poi rilasciati e prima di Natale rimandati alle loro case, uno di loro, “Hieronimo Borgo” di Bellinzona, fu condannato alla pena capitale per avere detto “alcune cose”, ma poi graziato, è probabile che Gerolamo Borgo,[201] sotto tortura, abbia rivelato i tentativi per procurarsi l’aiuto del Re di Spagna e del Ducato di Savoia a favore dei Cattolici: <<…forse perché dicesse ciò che s’à inteso haver deposto ch’el Padre Achille Gagliardo giesuita, qual era col S.r Car.le nella valle Mesolcina una volta ragunaste seco del trattato della nova lega con Savoia, il che afferma esso Padre non esser vero, onde si crede che gli heretici, quali hanno più in odio la congregatione d’essi Padri Giesuiti che tutte l’altre de religiosi, et claustrali habbino fatto gratia al sudetto borgo acciò dicesse questa bugia, della quale dissegnano valersene per far che tutto il paese universalmente abborrisca detta cong.ne, et a ciocché, sì come non permessero che continuasse il collegio d’essi Padri, che si cominciò nella terra de ponti della val Tellina, così non sia permesso quello che de’ medesimi Padri ha pensato il S.r Car.le di piantar nella val mesolcina si per insegnar a figlioli, come per gl’altri essercitij spirituali al qual già s’è dato principio con gran contento, et sodisfattione del popolo d’essa valle>>.[202]

L’Ambasciatore di Francia, il quale aveva cambiato opinione, come già detto, stette dalla parte degli scismatici durante il processo e rifiutò di dare al popolo e ad altri i soliti “stipendi” che era solito dare ogni anno, in tal modo si era reso odioso non solo agli uomini della Valle, ma anche ai capi della Lega Grigia, composta nella maggior parte da cattolici.[203]

Il documento prosegue spiegando le grandi vessazioni che subiscono i cattolici nei paesi dei Grigioni, soprattutto nella Valchiavenna e in Valtellina, in quanto suddite delle Tre Leghe, nonostante che per legge ognuno possa seguire la religione che vuole. (V. documento)

Da una lettera firmata Giovanni Battista Franciosi, Cancelliere di Locarno, del 12 febbraio, spedita da Varese, veniamo a conoscenza che: <<L’Ambasciator di Francia, havendo visto suscitar qualche rumori contra lui, non solo ha haiuto in Bada, ma etiandio ha richiesto alle tre Leghe littere di ben servito, dando motto di fare partenza, però le lettere gli sono state negate, anzi d’alchuni particulari è stata assalita la Casa con animo di trattarlo male, ma esso non ardì dargli orecchia ne risposta, anzi si serrò in casa. La Lega Grisa deve havere intimato guerra all’altre due leghe, non volendo cessare de suoi humori et capritij di volersi impedire di castigare li suoi per errori puossino haver fatto>>.[204] La missiva continua dicendo che stanno facendo una Dieta a Coira, dove sono aspettati i Messi del Cardinale, che tratteranno “i fatti” con molta diplomazia. Sempre dallo stesso mittente, ma in data 5 marzo 1584 e spedita da Mesocco, si può apprendere che alcuni “Jusdicenti”della Valle che avevano partecipato alla Dieta, indetta per la Lega Grigia, in Jant avevano sporto due querele verso i “Regenti” della Valle: la prima per avere accettato Borromeo in questi luoghi e <<…et seco haver fatto lega, et capitolatione segreta, seconda di haver accetatto et seguito la nuova riforma dil Calendario, con grave lamenta che ciò fuossi da essi fatto in pregiuditio della Lega lor et senza farne saputa…>>.[205]  Franciosi prosegue con una lista di sanzioni date: ai “Regenti” di Rogoredo novanta scudi, come a quelli di Mesocco, a quelli di Calanca venticinque, e a tutta la Valle centoventi scudi. Hanno poi condannato a pagare venticinque scudi il Ministrale Battista Sacco e altra spesa non ancora specificata nel momento in cui è stata scritta la lettera, al medico di Soazza, Giovanni Pietro Antognini fu comminata la sanzione di venti scudi e altra somma non ancora specificata. Ancora da definire restava la causa del Podestà di Mesocco. Venne anche stabilito per tutti i religiosi abitanti nella Valle l’obbligo di presentarsi al Vescovo di Coira, senza la cui licenza non avrebbero potuto officiare, tale ordine lascia stupito il suddetto clero, che, come scrive il mittente, spera che il Borromeo scriva al Vescovo di Coira per provvedere <<destramente a questo fatto>>. Tutto questo è stato riferito dal Ministrale Giovanni Carletto di Calanca. Non manca una lettera del Dottor Antognini, il quale oltre ribadire gli stessi fatti, aggiunge che a lui <<…hanno ordinato che dobbiamo vivere all’anno vecchio fino a tanto che le lighe non accettarano il nuovo anno […] hanno poi fatto instanza assai in voler sapere si havevamo fatto qualche Capitoli (alleanze)>>.[206] Tutto ciò è confermato anche da Giovanni Battista Sacco in una sua missiva del 12 marzo 1584, da dove apprendiamo anche che <<…la scolla de nostri padri Jesuitti sia suspesa sina atanto che ditti padri se presentino da Mons.r. nostro di Cuojra hovero se meglio piacerà a sua Ill.ma Sig.ria di scrivere a nostro Mons.r Episcopo voglia venir luij in persona a vesetar la diocesi sua per debito et confirmare questi nostri padri per non  descomodar quelli signori>>.[207] Seguono alcune lettere datate marzo 1584, in cui si parla delle attività pastorali e delle richieste di nuovi preti per le varie chiese della Valle.[208]

La partenza dei Gesuiti per Coira, per l’approvazione vescovile secondo le decisioni della Dieta, è del 2 aprile, padre Costanzo e padre Giovanni Battista si mettono in cammino con un cavallo avuto in prestito da padre Gentile Besozzo, mittente della lettera al Cardinale.[209] Arrivati in città <<Con più meraviglia in Coira ci guardavano et molti putti insieme cominciarono a fare romore con cridare il che mi causò un poco di paura pur mi raccomandavo al Sig.re, et sia qui eterno. Si conosse che sopra la porta della citta erano pitture de santi ma sono levate, resta solo da una banda parte della santa Judit con il capo d’Holoferne piaccia al Sig.re che per mezzo della beatissima Vergine si trochi il capo al Heresia, poi che al vedere quella citta è causa di piangere>>.[210] Svolte le loro incombenze, dubitando che la loro presenza in città fosse gradita, si rimisero subito sulla via di ritorno e durante una sosta in un’osteria videro un quadro raffigurante i Santi Pietro e Paolo, gli uomini presenti chiesero chi fossero i due alla guida, la quale disse che erano due gentiluomini milanesi, dando adito di pensare che si trovassero in questi luoghi per “il negozio di Spagna”, ma chiarita la loro identità, approfittarono dell’occasione del dipinto per parlare ai presenti <<…delli grandi travagli che hebbero li Apostoli per matenere la loro fedde massime di quello che a s. Paulo fu detto in Roma dalli Judei: De secta hac notum est nobis quia ubique et contradicitur et a questo proposito dissi loro quatro parole che vedevo le gustavano, mi pregorno stassi con loro quella sera mi scusai non potere ma quando ritornasse per quelle bande lo faria…>>.[211] Questo fatto fu di grande consolazione per i due Gesuiti, perché constatarono il bisogno di molte persone di parlare di fatti religiosi. La lettera fu spedita da Roveredo da padre Costanzo Gamma a Borromeo, il 14 aprile 1584, quindi al ritorno del viaggio a Coira.

Padre Carlo ragguaglia l’Arcivescovo con una sua lettera del 15 aprile 1584, in cui dice che dopo la visita la situazione è molto migliorata nei paesi della Bassa Mesolcina, dove gli abitanti <<…cominciano a detestare le usure, et altri peccati […] Io non potrei dire quanto tutti ci amano, et riveriscono… >>.[212] Non può dire le stesse cose Ambrogio Moresio, parroco di Mesocco, che nello stesso giorno scrive al Borromeo un resoconto sulle condizioni degli abitanti di Mesocco: i Luterani vanno ad ascoltare le prediche, ma <<…non vogliono accettar se non quel che lor quadra come fanno heretici>>, continuando con i loro riti e condannando i modi di amministrare i sacramenti della Chiesa cattolica. Nonostante ciò alcuni di loro hanno consegnato i libri luterani scritti in lingua tedesca. I Cattolici, per la maggior parte, si sono confessati e comunicati, ma sono ancora molti quelli che non hanno aderito a questi sacramenti, perché hanno promesso alla Lega di continuare a seguire il vecchio calendario che non coincide con la Pasqua di quello gregoriano,[213] ma, dice il mittente che sono tanto rozzi ed ignoranti che bisogna prenderli come sono. Ci sono ancora degli usurai pubblici molto ostinati. Sono state eliminate alcuni eccessi, come quello di suonare le campane per tutta la durata della Messa e le donne non piangono più in chiesa durante la celebrazione dell’ufficio per i defunti, tali lamentazioni impedivano di ascoltare le funzioni. Moresio continua dicendo che non viene più importunato come prima per seppellire i morti subito dopo il decesso. Sono stati celebrati alcuni matrimoni secondo la forma del Concilio tridentino. Sono stati fatti solo piccoli progressi, infatti il parroco inizia la sua lettera con queste parole:<<Di quel poco frutto che Nostro Signore si è degnato di operar in questa piccola vigna di Mesocco dopo la partita di V. S. Ill.ma…>>.[214] Il 23 maggio, padre Carlo, in una sua lettera al Cardinale, conferma le numerose difficoltà incontrate a Mesocco: <<Ma se Musoch si espugnerà con la divina et infallibil verità, gran vittoria si acquisterà; in quei giorni in cui sono stato, ho conosciuto che l’inimico lì tiene il suo castello, et si bene vi sono alcune anime timorate, nondimeno i contrapesi sono molto potenti>>.[215]

Nonostante la ferrea volontà del Borromeo di rigenerare completamente e secondo i decreti del Concilio di Trento l’istituzione della cura pastorale di questi luoghi della Valle Mesolcina, furono rieletti i sacerdoti che erano stati sospesi con il pretesto che erano originari della Valle, anche se al loro posto il Cardinale aveva mandato altri religiosi. Molte furono le dispute per l’accettazione del nuovo calendario e numerosi i documenti in cui se ne parla, il Prelato invia lettere a Galles de Mont, al Preposito di Coira, al Ministrale di Roveredo, alla Lega Grigia, ai Ministrali e al Consiglio della Valle Mesolcina, in cui dice che non si può tornare a quello vecchio, perché incorrerebbero nelle censure di cui nella Bolla pontificia, inoltre la non osservanza creerebbe grossi disguidi.[216] Alla fine ci fu un compromesso: sarebbe stato osservato il nuovo calendario solo per le feste liturgiche, ma, rispetto al resto del Cantone verrebbe seguito quello vecchio: <<Circha al calendario siamo stati travagliati pur troppo. Et fra noij dilla valle era gran confusione, hora Iddio laudatto habbiamo riduto e fatto a bono fine, che che nel scriver litere holtra li Monti scriver alla vechia, nel resto si sottoponiamo in tutto alla obedientia de nostri sacerdotti et fare le feste quando da lor ne sara comandatti>>.[217] Ma da una lettera del 25 agosto veniamo a conoscenza che il parroco di Santa Maria di Calanca ha celebrato la festa dell’Assunzione e tutte quelle precedeti secondo il vecchio calendario, andando conttro gli ordini ricevuti e suscitando “grande mormorazione” in tutta la Valle.[218]

I problemi da risolvere e le difficoltà erano ancora moltissime ed a tutto questo si aggiungeva la mancanza di possibilità economiche delle parrocchie, i morti seppellita dai civili per la scarsità del clero, specialmente quello “habile”, la confusione negli officianti e nel popolo causata dal contrastato passaggio al nuovo calendario, che essendo decretato dal Papa veniva rifiutato dai riformati e da alcuni preti cattolici per timore dei Signori delle Leghe, infine in molti luoghi della Valle stavano progredendo i casi di peste. Numerose sono le lettere del Cardinale in risposta a tante richieste e lamentele, il quale era, come sempre, molto informato dai suoi “uomini”, soprattutto da Sacco e da Giovanni Pietro Stoppani, nominato Vicario della Valle Mesolcina dal futuro Santo, di tutto ciò che accadeva in quei luoghi e dintorni.

Tra la miriade dei documenti esistenti riguardanti la Visita Apostolica del 1583, certamente il più importante è costituito dalla relazione inviata dal Cardinale Borromeo a Roma al Cardinale Paleotti, essa è divisa in tre parti: la prima è spedita da Roveredo il 15 di novembre; la seconda è la “Relatione sumaria del successo della visita della valle Mesolcina doppo l’altra relatione, del 29 novembre; la terza si tratta di un’aggiunta spedita successivamente da Bellinzona il 9 dicembre . Le tre relazioni sono state pubblicate frammentariamente da Paolo d’Alessandri nel 1909 e integralmente da Rinaldo Boldini nel 1962. Noi riporteremo i passi più significativi, rimandando per una lettura completa alle opere dei suddetti autori.

La prima relazione si apre con una spiegazione della Lega Grigia, che è divisa in otto parti, quattro delle quali cattoliche e quattro “eretiche”, la Visita Apostolica viene effettuata in una delle otto parti, divisa in due “governi principali”, Roveredo e Mesocco, i cui abitanti sono circa undicimila: <<…’l popolo minuto è comunemente catholico assai semplice, et atto alla obbedienza se non che corre senza ritegno alcuno à mangiar cibi prohibiti in ogni giorno, quando si trova in paesi eretici, ma alcuni massime de principali sono heretici ne è meraviglia, sì per il continuo commercio et collegatione c’hanno con gli altri Grigioni convicini eretici, come anco perché sono qui vissuti molti anni quei due famosi eretici il Trontano, et il Canessa, et vi morì anco gli anni passati quel Lodovico Besozzo… […] Hora essendosi fatti varij officij privati non si è trovata alcuna dispositione ad abiuratione nel foro esteriore ancorchè secreta, né pur via da far processi in questo genere fuori della cosa delle strghe sì perche queste genti sono assai sospettose di natura, et inimici ad ogni cosa che paia à loro di legame come per la convetione che hanno insieme le tre leghe, che ciascuno possa viver a suo modo, ne si incolpi alcuno per questo conto>>.[219] In questa prima relazione, quindi, Borromeo dà una valutazione abbastanza positiva della popolazione, che è ancora osservante e rispettoso, ma molto ignorante e confuso dal pessimo esempio del clero eretico e corrotto e da quello delle persone autorevoli.

Molto comuni e profondamente radicate erano le superstizioni e la credenza ai malefici, tanto che eresia e perversità sono accomunate, non dimentichiamo che Borromeo durante il suo primo Concilio Provinciale ordinava che maghi, malefici, incantatori e chiunque avesse fatto patto col Diavolo venisse severamente punito ed escluso dalla congregazione dei fedeli;[220] il Borsatto, che, come scrive il Possevino, aveva <<…prattica grandissima di queste materie di heretici e di streghe…>>,[221] accostando i termini “stregheria-eresia”, doveva essere veramente molto pratico della materia, poiché in poco tempo <<…ne sono in processo circa 40 e processate più di 100…>>,[222] un numero molto elevato se pensiamo che la popolazione globale di tutta la Valle Mesolcina ammontava a undicimila anime, addirittura come possiamo apprendere anche da una testimonianza di Monsignor Ottaviano Forerio, Arciprete di Milano, <<Il Si.r Cardinale fece abiurare in una sala circa 150 (involti in stregamenti)>>.[223]

Le streghe erano “governate” da apostati, fuggitivi, scomunicati e irregolari. In questo primo ragguaglio si parla anche della creazione di un collegio di padri Gesuiti a Roveredo, degli usurai e dei matrimoni irregolari, cioè con parentela proibita o per divorzio.

“La Relatione sumaria del successo…”, ossia la seconda, inizia parlando dell’altra parte della Mesolcina, il cui centro è Mesocco. Questa parte <<…si è trovata nelle cose della fede molto più infetta che l’altra>>, perché adiacente alla Valle del Reno, quindi più soggetta all’eresia calvinista, dilagata maggiormente nell’alta Valle confinante col nord: <<…è per la maggior parte heretica; è vero che pochi huomini sono a casa stando fuori per mercantia, le cui donne pure sono heretiche, et i figliuoli allevati nella medesima perditione>>. L’Arcivescovo parla dell’abbandono in cui versano le chiese, del culto che non viene officiato, a causa della condotta e del concubinato dei preti; della pratica dell’usura, ancora dei matrimoni irregolari e dei libri eretici da eliminare. Una causa molto importante per la diffusione delle eresie, continua il Borromeo, <<…è l’habitatione qui che n’hanno havuto quei tre nomati nell’altra relatione, cioè il Canossa, Trontano, et poi il Besozzo, et prima di loro tutti, un frate Aurelio Apostata dell’ordine franciscano Zocolante, che fù primo seminatore di questa Zizania, oltre che ve ne habitano adesso ancora alcuni arrabbiati, et ostinati grandemente nell’heresie, et spetialmente un Franceso Socino da trent’anni in qua, et doi, o tre altri del paese qua, tra i quali è il figlio del Trontano con le famiglie loro, et alcun’altre donne diaboliche à fatto, ma sopra tutti quel Socino è il sostegno qui di questa peste…>>.[224] Anche in questa relazione troviamo, come nella prima, la stessa forma degli esrcizi spirituali proposti alla popolazione che, anche in questi luoghi, ha partecipato numerosa e con grande interesse.

Il futuro Santo torna a Roveredo, dove si occupa della spedizione delle cause delle streghe, le cui sentenze sono state emesse parte il 28 e parte il 29 novembre <<…con le abiurationi di quelle, che si ricevono à penitenza, intorno alle quali abiurationi non s’è anchora fatta intiera risolutione del luogho, et modo più o meno publico, per la varietà de li humori, et fattioni, che sono ne gli huomini di questa valle […]di non condannare mai a morte alcuno se non confessa formalmente il delitto, quantunque fusse convitto per mille testimonij…>>.

La terza relazione comprende tutti i nomi e i cognomi delle presunte streghe e degli eretici: quattro (4) streghe impenitenti, condannate per la loro confessione e consegnate al braccio secolare; altre sei (6) sempre impenitenti e “convinte” seguirono la sorte delle prime quattro. Le presunte streghe bruciate vive furono, dunque, dieci e non undici o dodici come riportano vari articoli.  Il Prevosto Domenico Quattrino, di cui abbiamo parlato prima, fu condannato, oltre che per avere confessato di essere uno stregone e capo delle streghe, anche per altri delitti, quindi fu degradato dal Borromeo e dato al braccio secolare. [225]

Sedici (16) furono le persone, imputate e sospettate di “stregharie”, sottoposte a tortura furono assolte dopo l’abiura e le penitenze: <<…et alcune per altre ragioni hanno purgato gli indicij, sì che tutti questi sono stati assoluti>>.[226]

La lista dei sospettati, non sottoposti a tortura, ma dopo aver <<…fatta purgazione canonica sono stati assoluti, e liberati con penitenze salutari>> è composta da cinquantasei persone tra uomini e donne e, dai loro cognomi, sembrerebbero coinvolte intere famiglie.[227]

Quattordici (14) sono le presunte streghe confesse, ma penitenti, che hanno abiurato privatamente, ma alla presenza di molti testimoni, dopodiché sono state liberate con “penitenze salutari”, quindi non sottoposte a giudizio formale.[228]

Cinque donne e due uomini confessarono di essere streghe e stregoni, ma a causa dell’età ( non sappiamo se troppo giovani o troppo vecchie) furono liberate senza l’abiurazione, facendo solamente la penitenza.[229]

In contumacia, con il termine di sei mesi a comparire per essere ascoltati, in quanto sospettati, furono condannate cinque persone.[230]

Nel Ms. F 166 inf., a c. 524v. e 532v. troviamo un indice di eretici di vari luoghi della Valle Mesolcina e di coloro che si sono convertiti, tra questi figura anche Samuele Viscardi, detto Trontano, figlio dell’eretico Giovanni Antonio.[231] I convertiti sono diciotto più un certo Todesco che ha promesso di convertirsi; viene poi precisato che non sono descritti minuziosamente gli eretici di Mesocco, confinanti con la Valle del Reno, perché troppo numerosi, mentre la lista con i nomi delle streghe, <<…che sono venute à penitenza sono al numero de 22 in circa, ma si manderà col primo ordinario>>. Da evidenziare che molti degli eretici descritti appartengono a ceti elevati: <<gente di molto seguito, et auttorità per podestarile et officij di governo essercitati>>. Troviamo ministrali, podestà, cancellieri, notai con le loro mogli e figli.[232]

La terza relazione continua dicendo che sono cominciati i lavori per il Collegio, e prima di Natale potranno abitarci i padri Gesuiti per poi cominciare le lezioni agli allievi che sono già un centinaio circa. Per ciò che riguarda le streghe: <<Hanno a Roveredo fatto abbruggia vive le quattro streghe condennate per la confessione, l’altre che furono condennate come convinte, le hano fatto confessar tutte ecctt’una, sì che fra pocchi dì potrebero forse anco far la medesima essecutione contra esse, se bene alcuni dicano che una o doi otteranno gratia della vita dal popolo>>. Il Prevosto Quattrino ha confessato, sotto tortura, i suoi “enormi delitti”, <<…sì che dicevano di volerlo far morir anch’esso, vero è che sin’hora non hanno fatto essecutione alcuna>>. Esecuzione che, come abbiamo già detto, non fu mai fatta.

Il rapporto termina dicendo che alcuni sacerdoti e frati dal comportamento indegno e corrotto sono stati sollevati dal loro incarico e cacciati da questi luoghi.

Questa Visita Pastorale così travagliata ebbe anche grandi successi, poiché, essendo compito generale del Borromeo di ristabilire le condizioni religiose, morali e di purificare la Valle dalle streghe, in molti luoghi raggiunse i suoi scopi, ma certamente non ritenne completata la sua opera, non potendo proseguire la visita in Valtellina e Valchiavenna, dove il bisogno di risanare le condizioni religiose sarebbe stato altrettanto necessario.

Carlo Borromeo, personaggio scomodo, pieno di contraddizioni e tanto discusso, ma nonostante la sua presunta misoginia, aiutò moltissime ragazze povere, si prese cura sempre delle sorelle e combinò loro matrimoni con i partiti appartenenti alle famiglie più importanti d’Italia: i Colonna di Roma, i Medici di Firenze, i Della Rovere di Urbino, i Gonzaga di Mantova, dal folto epistolario trattenuto con esse si può capire l’attaccamento che avevano con il fratello, anche se Carlo preferiva il rapporto epistolare a quello personale. Molti lo hanno criticato per il suo modo di vivere, per quanto molto ricco improntò la sua vita all’insegna dell’estrema sobrietà: pane e acqua, vesti logore dall’usura; poche ore di sonno in un letto di tavole. Effettuava le Visite pastorali nella sua diocesi senza preoccuparsi della stagione, quando altri Vescovi aspettavano la stagione mite per non soffrire il caldo e il freddo.

Quando arrivò come Arcivescovo a Milano, in quella città retta dal Re di Spagna tramite Governatori assistiti dal Senato, che vivevano nel lusso sfrenato in palazzi fastosi, con numerosa servitù, ma dietro la pomposità delle feste, balli e spettacoli c’era l’inizio della decadenza di Milano e della Lombardia, depredate continuamente dal fisco spagnolo e la mentalità di questo Governo arretrato, rimasto agli ideali cavallereschi medievali, sfrontato, che spadroneggiava in casa d’altri, come ben ce lo descrive Manzoni all’inizio del suo romanzo “I Promessi Sposi”, dando un’idea molto chiara della Lombardia e di Milano sotto l’egemonia ispanica, gravemente decaduta sia nella sfera morale che religiosa: da più di un secolo i suoi predecessori non risiedevano nella città, questa è la Milano che trovò Borromeo, la cui severità di vita non poteva andare bene a molti abituati a tali costumi, per questo ci furono scontri tra il Prelato e il Governo, che certamente gli resero la vita tormentata e burrascosa sia dal punto di vista ecclesiastico sia da quello civile. Malgrado le controversie giurisdizionali, molte riforme caroline furono attuate, trasformando profondamente la struttura della sua Diocesi, che risultò infine composta da 6 regioni e 65 pievi, in cui vi erano 2220 chiese secolari, 46 collegiate, 753 parrocchiali, 783 benefici semplici, 631 oratori, 7 collegi per chierici, 136 conventi di vari ordini religiosi, 740 scuole di dottrina cristiana, 886 confraternite, 24 congregazioni e 40 istituti di assistenza.[233]

Tra tanti casi di esecuzioni di streghe, quello della Mesolcina è molto e bene documentato: bisogna ricordare che sia la letteratura sia la scienza guiridica del secolo XVI presentava la stregoneria come una realtà. Le leggi della maggior parte dei Paesi europei, il codice criminale “Nemesis carolina”, emanato da Carlo V nel 1532, gli statuti civili della Mesolcina stabilivano il rogo per i condannati per stregoneria e tra i centocinquanta circa accusati di tale reato solo dieci furono le persone condannate, infatti il Borromeo in una lettera al Vescovo di Bergamo, in cui parla dei successi avuti durante la visita in Mesolcina, così si esprime: <<Si è anco atteso a purgare con essatta diligenza il piu che si è potuto la Valle dalle peste delle strghe, che possedeva tante anime di quel paese>>.[234]  In tale contesto storico, Carlo Borromeo, come Arcivescovo della Diocesi più importante del mondo cristiano e Delegato pontificio, soprattutto indefesso paladino della Chiesa di Roma e tenace fautore della Controriforma, doveva rispondere alle attese della società civile, che pretendeva una condotta perentoria per coloro che diramavano le eresie, le superstizioni e la stregoneria, ma tutto questo non significa che fosse un uomo senza difetti.

Non possiamo certo non considerare che Carlo era anche un uomo del suo tempo, e ricoprendo una carica così alta non possiamo biasimarlo se il suo sogno era quello di riportare la Chiesa ai valori e alla moralità primitiva, attuando i decreti emanati durante il Concilio di Trento, avviando un grande lavoro di riforma della sua Diocesi, contro l’abusivismo, la corruzione e l’arbitrio di coloro che occupavano alte cariche, non sempre ci riuscì, ma conseguì molte “vittorie” e creò numerose e valide istituzioni in gran parte con spese personali.

Durante la peste del 1576, vista come un castigo divino necessario per liberare Milano dal peccato, si prodigò sfidando il contagio e aiutando la popolazione; cercò di arginare l’espansione della Riforma con sistemi di sorveglianza sui forestieri provenienti dal Nord, sempre a tale scopo esercitò un forte controllo sulla stampa, scomunicò uomini importanti e come tutti i grandi uomini fu molto amato e molto odiato.

La sua credenza nella stregoneria è veramente sconcertante e condivisa da molti uomini anche di elevata cultura e altolocati del suo tempo, ma bisogna anche considerare che, all’epoca, non erano ben chiari i limiti tra magia ed eresia, anche se questo non scusa la morte sul rogo di varie persone, le cui condanne, tuttavia, secondo le approfondite ricerche fatte da Rinaldo Boldini risulta che in nessun resoconto delle visite pastorali effettuate dal Borromeo, al di fuori della Mesolcina, vengano indicati processi di stregoneria istruiti dal Cardinale: <<Si fa colpa da taluno al Borromeo di aver crudelmente fatto colpire gente incolpata di stregoneria, e di aver perseguitato sotto il pretesto di stregoneria e fatto mandar al rogo gente colpevole solo di persistere nel protestantesimo. Nessuno ne ha però finora addotto la prova. Io ho consultato un abbondante materiale, letti parecchi dei processi di stregoneria svoltisi a quell’epoca a Roveredo, ho fatto con viva curiosità scientifica le maggiori possibili ricerche ma non ho trovato neppure indizi sicuri  carico di lui per una persecuzione religiosa di questo genere>>.[235] L’inquisitore Borsatto, che, come detto, fu in Mesolcina circa un mese prima del Prelato, processò oltre cento persone sospette di stregoneria, tra queste anche il Prevosto Domenico Quattrino, di cui quaranta furono riconosciute colpevoli di questo reato, ma molte di loro si pentirono pubblicamente e quindi furono graziate. Nel 1909, Paolo d’Alessandri scrive che tali condanne si ridussero a circa una dozzina di persone. In ogni caso, nel diritto del Grigione, spettava al braccio secolare, costituito da giudici laici vallerani, il diritto di emettere una sentenza di morte, di eseguirla oppure di graziare il condannato e tale diritto non ammetteva la condanna a morte se non c’era anche il riconoscimento del reato, senza pentimento, dell’imputato. Come nel resto dell’Europa, anche in Svizzera i processi per stregoneria aumentarono intensamente sia nei Cantoni riformati sia in quelli cattolici dopo la metà del XVI secolo per diminuire solo verso la metà del secolo successivo, anche se nei Grigioni moltissimi processi documentati risalgono alla seconda metà del secolo XVII, (dal 1580 al 1655 si contano almeno 1000 processi), l’elevato numero fu probabilmente causato anche ad una forte frammentazione dell’amministrazione dell’alta giustizia.

Tipico dei processi per stregoneria in questi luoghi fu il poco rispetto per le norme dell’ordinamento del Tribunale Criminale Imperiale, emanato da Carlo V durante la Dieta di Augusta del 1530 e entrato in vigore nel 1532: la “Constitutio criminalis Carolina” aveva la funzione di unificare il diritto nell’Impero e impedire l’arbitrio in abito di giustizia penale; infatti, da molto tempo, era sufficiente una sola testimonianza attendibile per la condanna per malificio: in Svizzera, prima di procedere alla tortura non veniva rispettata la prassi di inviare il fascicolo ad un’autorità preposta, come disposto nella “Constitutio criminalis Carolina”, secondo cui solo il maleficio era condannabile. Molti processi per stregoneria erano originati da conflitti tra vicini e parenti, i capri espiatori erano spesso persone con difetti fisici, donne vedove e sole o che si comportavano in modo non conforme, i periodi di carestie vedevano un aumento di queste accuse e questo spiega, anche se in parte, perché questi processi abbero il loro culmine negli anni che vanno tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, periodo noto per gravi problemi di ordine sociale, economico, politico e religioso.

Lo stretto legame tra eresia e stregoneria fu anche il retaggio di un’ortodossia confessionale, che spesso cercava delle certezze nella demonizzazione di credenze non autorizzate. La diminuzione e poi la cessazione di questi processi alla fine del secolo XVII, sembra sia stata determinata anche dalla stabilizzazione delle Chiese confessionali, che rafforzarono la loro presenza tramite la disciplina ecclesiastica, il catechismo e le visite, molto importante fu il potere della filosofia razionalista sulla dogmatica del diritto, particolarmente sulla produzione delle prove giudiziarie.[236]

Alla fine del secolo XVI, la morte di dieci donne presunte streghe non fece grande scalpore presso l’opinione pubblica, anche perché non erano state uccise, ma purificate.

Questa non fu l’unica Visita pastorale che il Prelato fece in questi luoghi, poiché durante il suo episcopato andò personalmente per ben cinque volte nelle Tre Valli svizzere, raggiungendo a dorso di mulo o a piedi le zone di alta montagna e le parrocchie più isolate.

L’attività pastorale era ritenuta dall’Arcivescovo fondamentale per capire le necessità dei fedeli e i mezzi con cui attuare i suoi disegni di restaurazione religiosa, egli percepiva come un suo profondo dovere di ecclesiastico portare uno stimolo vitale nella logora impostazione della Chiesa di Roma con i decreti del Concilio di Trento, e, allo stesso tempo, attuare una barriera efficace al dilagare delle dottrine riformate, che dal nord si diffondevano nella sua Diocesi e in tutta l’Italia.

Ma non può non essere ricordato come il motivo fondamentale dell’abbandono della fede cattolica venga, dal Borromeo, fatto ricadere sui sacerdoti, sulla loro negligenza della predicazione evangelica, sulla loro vita peccaminosa e l’apostasia come conseguenza estrema del non bene operare. Per L’Arcivesco Borromeo: <<Se i sacerdoti saranno santi, similmente sarà santo il popolo>>.

Nella relazione finale della causa di canonizzazione di Carlo Borromeo, un intero capitolo viene dedicato all’impegno che il futuro santo ha impiegato nella difesa della fede e nella lotta contro le eresie: la Congregazione Romana dei Riti doveva dimostrare che il Cardinale aveva ottemperato in modo esemplare a  quello che il Concilio tridentino indicava come primo dovere del vescovo, ossia la difesa della fede.

L’azione dell’Arcivescovo di Milano nella repressione dell’eresia nella sua Diocesi e dintorni aveva assunto notevole importanza, tanto che in un’ode del 1610, scritta da Agrippa d’Aubigné, calvinista francese, troviamo scritto in modo molto sarcastico: <<S’il falloit par la perfidie/ Faire la guerre à l’hérésie/ Dispenser d’un serment formé/ Et faire tomber dans un piège/ Ceux qui n’adoroient pas le Sainct-Siège/ On employait Sainct Boromé.[237] (Se occorreva, con la perfidia/ Fare la guerra all’eresia/ Dispensare da un giuramento pronunciato/ E fare cadere nella trappola/ Coloro che non adoravano la Santa Sede/ Si faceva ricorso a San Borromeo). Questi versi sferzanti, ma molto emblematici, ci fanno capire la centralità della lotta contro l’eresia nel programma di Carlo dal 1566, anno del suo trasferimento definitivo a Milano, fino alla sua morte, d’altra parte fin dagli inizi del suo episcopato aveva chiaramente palesato di fare dei decreti del Concilio di Trento la base tenace( coerente perseverante pertinace) della sua azione pastorale e se la difesa della fede rappresentava per lui il primo dovere di un vescovo, certamente si rese conto dei pericoli ai quali era esposta la Diocesi di Milano, geograficamente inserita in una regione a stretto contatto con i territori protestanti e che ne aveva subito presto le conseguenze, tanto che già nel 1563 Filippo II aveva chiesto al Pontefice (Poi IV) di introdurre l’Inquisizione spagnola nello Stato di Milano. Progetto fallito prima di entrare in vigore a causa del malcontento del Collegio cardinalizio e, soprattutto, delle proteste dei cittadini milanesi, intimoriti che fosse reso operante un tribunale con procedure molto più severe di quelle vigenti, comunque quando nel 1566 circolava la voce che il Re di Spagna tentasse di nuovo di far introdurre la suddetta Inquisizione, Borromeo espresse la sua decisa opposizione.

Prima di stabilirsi definitivamente a Milano, il Cardinale, nel settembre 1565, presiedette il primo Concilio provinciale, facendo pronunciare a tutti i presenti la professione di fede tridentina, ossia quella norma che Pio IV aveva resa obbligatoria già nel 1564, per tutti coloro che erano investiti di benefici ecclesiastici, consistente in una solenne dichiarazione di adesione alle fondamentali verità della fede cattolica, all’accettazione dei provvedimenti tridentini e delle condanne contro le eresie in essi enunciate, tutto ciò fu ribadito nel III Concilio provinciale del 1573 e in quello del 1579 (V Concilio), in cui Borromeo stabilì che la professione di fede fosse obbligatoria per il clero secolare e regolare, i cui appartenenti avevano licenza di confessare o predicare, ma anche ai laici che, per la loro professione, avessero ascendenza particolare su altri, quindi l’obbligo, che già valeva per i docenti, fu diffuso anche per i medici e nel 1582, durante il VI Concilio provinciale tale obbligo fu esteso anche ai librai e agli stampatori.

Teoricamente l’obbligo della professione di fede rappresentava una garanzia all’ortodossia, con la conseguenza di una serie di rigorosi controlli, di un sistema di sorveglianza e di una rete di informazioni molto stretto, che sconvolse coloro che erano vissuti nell’incuria e nella negligenza dei decenni precedenti. Non bastava esercitare una stretta sorveglianza sulla popolazione milanese e in quella delle diocesi vicine per prevenire l’eresia, ma occorrevano anche misure di controllo sugli stranieri provenienti dai paesi protestanti, data l’intensità dei traffici commerciali con la Svizzera, i Grigioni  e la Germania. Nel 1573, durante il III Concilio provinciale, Borromeo aveva emanato disposizioni per cui chi doveva andare in paesi protestanti, doveva chiedere prima una permesso al parroco o al delegato diocesano se si fosse trattenuto per piú di un anno, gli interessati dovevano essere muniti di un attestato, firmato dal proprio vescovo o da chi ne faceva le veci, in cui era dichiarato che l’intestatario era e viveva da buon cattolico e fin dalla partenza veniva strettamente sorvegliato, in tal modo il Borromeo aveva precorso le norme emanate poi nel 1580 da Gregorio XIII. Tutte queste misure cautelative erano però insufficienti, in quanto non potevano controllare coloro che arrivavano a Milano provenienti da paesi che avevano aderito alle nuove dottrine, poichè i trattati commerciali conclusi tra lo Stato di Milano, la Svizzera e le Leghe Grigie permettevano anche ai mercanti non cattolici di praticare i loro scambi nel Ducato milanese e il fatto che tali accordi fossero garantiti da istituzioni laiche, limitavano il potere ecclesiastico, che non poteva impedire ai mercanti di passare al di qua delle Alpi. La sorveglianza dei forestieri era quindi demandata ai parroci, i quali imponevano ai cattolici il divieto di ogni rapporto con tali persone. Le pressioni del Cardinale sulle autorità laiche per ridurre la circolazione degli eretici, non sempre veniva accolta, anche perché i vari governatori, oltre non avere sempre buoni rapporti con il Borromeo, erano combattuti tra la politica controriformistica di Filippo II e la tutela degli interessi commerciali e dei rapporti di vicinato con la Svizzera ed i Grigioni. Carlo, con l’aiuto della Santa Sede, riuscì ad ottenere che tutti quelli che a causa di una condanna per eresia erano fuggiti dallo Stato, fossero impediti (interdetti) della libertà di commercio.

La frequenza degli interventi legislativi evidenziano la priorità che il Cardinale assegnava alla lotta contro l’eresia nel suo programma episcopale: l’azione preventiva doveva essere finalizzata ad una azione repressiva che si sarebbe concretizzata in un’eventuale condanna di coloro che fossero risultati rei dell’accusa di eresia, quindi l’attività dei vescovi non poteva limitarsi all’emanazione di norme preventive contro l’infiltrazione e diffusione dell’eresia. Nella Diocesi di Milano, come anche in altre diocesi italiane, i tribunali competenti per i reati in materia di fede erano il Tribunale vescovile e quello dell’inquisitore, i cui rapporti erano regolati da una Costituzione papale emanata nel 1317 ed ancora in vigore ai tempi del Borromeo, la quale stabiliva che sia il vescovo che l’inquisitore potevano istruire le cause indipendentemente l’uno dall’altro, mentre non potevano procedere nelle fasi principali del processo separatamente, soprattutto nel momento della sentenza, che doveva essere pronunciata da ognuno dei due giudici obbligatoriamente presenti e con il voto favorevole di ambo le parti.

Dopo la prima istituzione della Congregazione dell’Inquisizione del 1542, il papato aveva iniziato ad esercitare un’azione sempre più capillare e con ampie facoltà sull’attività svolta dal Santo Uffizio e dai tribunali episcopali, segnando in tal modo l’inizio di un processo di accentramento dei poteri nella lotta contro l’eresia.

Borromeo tiene una stretta corrispondenza con il Cardinale Scipione Rebiba[238] prima e con il Cardinale Giacomo Savelli,[239] dopo la morte del primo, entrambi Grandi Inquisitori della Congregazione della Romana e Universale inquisizione, e, da questo scambio epistolare possiamo evincere che la lotta contro l’eresia si svolgesse ormai sotto l’attenta vigilanza di Roma, infatti la Congregazione non si limitava a spedire a Carlo istruzioni e direttive per i processi, ma ne verificava anche l’esito facendosi mandare le copie delle sentenze e spesso anche l’intero fascicolo processuale. Nonostante ciò il Cardinale di Milano, nel 1582, quando fu nominato Visitatore Apostolico in Svizzera e nei Grigioni, ottenne facoltà amplissime, come assolvere e riconciliare eretici, avvalersi della collaborazione di religiosi senza chiedere permessi ai loro superiori e poter subdelegare tali facoltà. Tutto questo era dovuto all’alta considerazione che la Santa Sede aveva nei confronti di Carlo Borromeo sia sotto il pontificato di Pio V che sotto quello di Gregorio XIII, affidandogli incarichi e missioni molto importanti anche fuori dello Stato di Milano, tutto questo non implicava un’esautorazione del Tribunale dell’Inquisizione milanese, anzi, sembra, dalla scarsissima documentazione rimasta, che i due tribunali operassero osservando le proprie regolamentazioni, anche se l’Arcivescovo aveva un certo controllo sulle attività del Santo Uffizio in materia di repressione anticlericale, e, spesso ci fu reciproca collaborazione ad eccezione di alcuni occasionali conflitti.

Il Borromeo conosceva la situazione della Valle Mesolcina ed era cosciente che la lotta contro l’eresia che si era propagata in quei luoghi non poteva essere combattuta come chiara (autentica)repressione, quindi cercò di darle un’impronta missionaria che sfociò in un numero considerevole di conversioni, di cui, oltre al fervore del Cardinale e dei suoi collaboratori, non fu estranea l’attività dei predicatori Francesco Panigarola e Achille Gagliardi, riuscendo a mantenere nella maggior parte del popolo della Valle la fede cattolica. Il futuro Santo si preoccupò molto anche per ottenere il supporto economico dalla Santa Sede per il mantenimento del Collegio fondato a Roveredo, e, dopo il divieto di recarsi in Valtellina, si avvalse anche delle autorità civili milanesi per ottenere una più ampia libertà di culto per i cattolici della Valtellina e Valchiavenna.

Abbiamo visto che la richiesta di procedere contro le streghe e stregoni della Valle era stata fatta dalle autorità civili della Mesolcina, richiesta che il Cardinale accolse mandando l’inquisitore Borsatto a Roveredo prima ancora della propria partenza verso questi luoghi e in una lettera, già menzionata, al Cardinale Savello del 18 agosto 1583 troviamo: <<Intanto mando a V. S. Ill.ma la copia d’una lettera scrittami dal Ministrale di Roveredo, principal persona della Lega Grigia, dove ella vedrà la richiesta che quelle genti mi fanno d’un inquisitore. La persona che si dimande, è necessario che sia molto circospetta e moderata, perché quelle genti procedono terribilmente alla cieca contro ogni persona, di cui sospettino un poco, in questo particolare, per l’estremo odio ch’eglino hanno alle stregherie>>.[240] Sembra, quindi, che il Borromeo abbia agito di conseguenza, convinto che la giustizia ecclesiastica sarebbe stata più moderata di quella secolare.

La prevenzione e la repressione delle eresie rapprentarono per Borromeo un obiettivo molto importante nella sua attività episcopale, e, se, in molti casi, riuscì nel suo intento di difensore della fede cattolica, fu dovuto anche ad una più approfondita preparazione e responsabilizzazione del clero, attraverso varie iniziative mirate a favorire la rinascita della vita religiosa.[241]

 

 

 

 

 

 

 

[1] Cfr. A. Prosperi-P.Viola, Corso di Storia.  Dal secolo XIV al secolo XVII, Einaudi Scuola, Milano 2004, p. 266 e segg.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Cfr. D. Maselli, Alla ricerca delle radici della Riforma Protestante e della Riforma Cattolica, Firenze 1994, p. 18 e segg.

[5] D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit., p. 22.

[6] Ibid.

[7] Cfr. A. Agnoletto, Storia del Cristianesimo, Milano 1978, pp. 257-259; Si veda anche A. Prosperi,I tribunali della Coscienza: inquisitori, confessori, missionari, Einaudi 1996)

 

[8] Cfr. L. Fabbri, La Visita Apostolica di Monsignor Giovan Battista Castelli nella Diocesi di Volterra nel 1576, in “Tra Riforma e Controriforma. Note biografiche e Storiche a cura di D. Maselli, Firenze 1996, p. 143 e segg.

 

[9] In questo brevissimo e non esaustivo escursus della storia del secolo XVI, abbiamo evidenziato solo i fatti più rilevanti e finalizzati al presente articolo

[10]A. Agnoletto, Storia del Cristianesiomo cit…, pp. 269-272.

[11] L’Ordine degli Umiliati nacque nel XII secolo come aggregazione di laici desiderosi di vivere in comunità simile a quella apostolica e seguendo in modo rigoroso i dettami del Vangelo, in contrasto con i costumi rilassati e con la ricchezza ostentata del clero, nel 1201 furono riconosciuti ufficialmente da papa Innocenzo II i tre ordini composti da religiosi appartenenti all’”Ordo canonicus”, da laici che vivevano in comunità con “formula et regula vitae” e da laici che avevano scelto la vita coniugale. La loro diffusione in Lombardia fu capillare anche grazie alle autorità ecclesiastiche milanesi che ebbero un atteggiamento favorevole nei loro confronti e già nel 1216 erano circa 150 le comunità regolari e considerevole il numero dei laici rimasti con le proprie famiglie impegnati in attività commerciali ed artigianali, occupandosi principalmente della lavorazione della lana e creando fiorenti manifatture tessili, che permettevano ingenti disponibilità economiche che davano adito ad attività di prestito o di assistenza economica esercitata anche dalla casa di Brera, la più importante di Milano. La crisi, iniziata già alla fine del XIII secolo a causa dell’influenza politica del governo signorile prima e di quello ducale dopo, ma anche ai forti contrasti nati in seno dell’Ordine, toccò il culmine dopo il Concilio tridentino, e quando Carlo Borromeo, nominato protettore dell’Ordine nel 1560 da Pio IV, cercò con polso di riportare gli Umiliati all’osservanza delle norme tridentine, sospettati di posizioni eretiche, soprattutto di calvinismo, nacque una grande opposizione all’interno dello stesso Ordine, che portò al celeberrimo attentato alla vita di Borromeo da parte di Gerolamo Donato detto il Farina. Gli Umiliati vennero soppressi nel 1571 con una bolla di Pio V, il Farina e i due Prevosti complici Girolamo di Cristoforo e Lorenzo da Caravaggio, rei confessi sotto tortura, condannati a morte.. Cfr. M.P.Alberzoni, Gli Umiliati e San Bernardo, in “Storia Illustrata di Milano”, a cura di F. Della Peruta, vol. II, Milano 1992, p521 e segg.; M. Lunari, Appunti per una storiografia sugli Umiliati tra Quattro e Cinquecento, in “Sulle tracce degli Umiliati in Lombardia”, a cura di M.P. Alberoni, A. Lucioni, Milano 1997, p. 45 e segg.

[12] Cfr. D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit., p. 26 e segg.

[13] Le notizie, non certamente esaustive, sulla vita di San Carlo Borromeo, sono state tratte da: C. Bescapè, De vita et rebus gestis Caroli S. Rom. Ecclesiae Cardinalis tit. S. Praxsedis et archiepiscopi Mediolani, Ingolstadt 1592, ed. italiana con testo latino a fronte, a cura di Angelo Majo, traduzione di Giuseppe Fassi, note di Enrico Cattaneo, Nuove Edizioni Duomo, Veneranda Fabbrica del Duomo, Milano 1983; G. P. Giussani, Vita di san Carlo Borromeo, Roma 1610, ristampa Firenze 1858; G. B. Possevino, Discorsi della vita et attioni di Carlo Borromeo, Roma MDLXXXXI; C. Orsenigo, Vita di san Carlo Borromeo, vol. I e II, Milano 1929. Si veda anche D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit.

[14] E. Rotelli, La figura e l’opera di S. Carlo Borromeo nel carteggio degli ambasciatori estensi, in “Studia Borromaica, n. 4, Accademia San Carlo, Milano 1990, pp. 133-145.

[15] D. Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., pp. 30-32.

[16] Carlo organizzò I matrimoni delle sue sorelle: Camilla con Cesare Gonzaga, Geronima con Fabrizio Gesualdo principe di Venosa, Anna con Fabrizio Colonna, la sorellastra Ortensia con Annibale Von Hohenems. La sorella Isabella divenne suora con il nome di Corona.

[17]Cfr. Ibid.; Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., p. 30-31; http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-carlo-borromeo_%28Dizionario-Biografico%29/

[18] Ibid.

[19] Ibid., p. 32.

[20] L. Pastor, Storia dei Papi della fine del Medio Evo, Roma 1950, Vol. VII, pp.91-92. Nel 1524 il Cardinale Gian Pietro Carafa, Vescovo di Chieti, creò, con Gaetano da Thiene, una comunità religiosa di chierici regolari chiamati teatini dal nome latino di Chieti: Theate; si trattava di preti che vivevano in comunità e in povertà, preparandosi rigorosamente alla cura delle anime, essi volevano essere d’esempio al clero ignorante e detentore di benefici ecclesiastici che non dimoravano nelle proprie sedi. Cfr. A. Prosperi-P.Viola, Corso di Storia.  Dal secolo XIV al secolo XVII, Einaudi Scuola, Milano 2004, p. 291. L’Ordine religioso dei Teatini era noto anche per le sue tendenze religiose e mistiche.

[21] H. Jedin, Carlo Borromeo, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1971, p. 14. Jedin vede il Borromeo come il modello del Vescovo post-tridentino, altri studiosi come l’incarnazione dello “Stimulus pastorum” ed in tal modo assunto come modello di vita pastorale.

[22] Niccolò Ormaneto nacque a Verona nel 1515, fin da giovanissimo frequentò il circolo del Vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, nel 1538 si addottorò in “utroque iure” presso lo Studio di Padova. Il Vescovo Giberti lo mandò a Roma nel 1541 per presentare al papa Paolo III le “Costitutiones” della diocesi e nella città eterna fece parte del circolo del cardinale Reginald Pole, nello stesso anno fu nominato dal Giberti Arciprete di Bovolone. Nel 1549 partecipò al conclave del Cardinale Ercole Gonzaga e nel 1553 fu tra gli assistenti del Cardinale Pole e designato legato in Inghilterra da Giulio III, dove svolse importanti missioni. Dopo la morte del Cardinale Pole tornò nella sua parrocchia di Bovolone, ma nel 1563 fu assistente del Cardinale Bernardo Navagero al Concilio di Trento, l’anno successivo Borromeo lo nominò suo vicario nell’Arcivescovado di Milano. Nel 1566 papa Pio V lo chiamò a Roma e nel 1570 lo nominò Vescovo di Padova. Dal 1572 al 1577 fu Nunzio in Spagna, morì a Madrid (1577). Cfr. C. Marcora, Niccolò Ormaneto, vicario di San Carlo (giugno 1564-1566), in “Memorie storiche della diocesi di Milano, VIII (1961), pp. 209-590.

[23] Cfr. F. Buzzi, Religione, cultura e scienza a Milano. Secoli XVI-XVIII, Milano 2016, 317 e segg.

[24]Oltre alle biografie precedentemente citate Cfr. D. Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., p. 34.; http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-carlo-borromeo%28Dizionario-Biografico%29/

 

[25] D. Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., pp.34-35.

[26]“San Carlo nel primo suo concilio provinciale ordinava che maghi, malefici, incantatori, e chiunque fa patto tacito o espresso col diavolo sia punito severamente dal vescovo, ed escluso dalla congregazione dei fedeli. Nel suo rituale stabilisce le penitenze che devono applicarsi a maghi, per 5 anni, a chi getta tempeste, anni 7 in pane e acqua, a chi canta fascinazioni, tre quaresime; a chi fa le legature e malie, due anni. Egli aveva vietato che nessuno in predica dicesse il giorno della fine del mondo” C. Cantù, Gli eretici d’Italia. Discorsi storici di Cesare Cantù, Torino 1866, vol. III, p. 387.

[27] Con la pubblicazione della bolla “In Coena Domini” del 1568 i rapporti tra gli Stati italiani ed europei ed il Papato divennero molto tesi: in essa si vietava ai principi di accogliere persone di religione non cattolica nei loro Stati e di avere con esse rapporti e corrispondenze. I sovrani non potevano imporre gabelle, pedaggi, prestiti, decime sui beni dei chierici senza l’autorizzazione della Curia romana; si vietava di punire per colpe civili i cardinali, i prelati e i giudici ecclesiastici, i loro agenti, procuratori e congiunti; si vietava, inoltre, di ricorrere al Concilio ecumenico contro le sentenze papali ritenute ingiuste. Le rendite delle chiese, monasteri e i benefici ecclesiastici non potevano essere confiscati dalle autorità laiche; tutte le cause concernenti questioni del genere dovevano essere di competenza del foro ecclesiastico e non di quello temporale. Viene proibito al principe l’esercizio dell’”exequatur” sulle concessioni e i decreti pontifici. Il principe che occupasse le terre di proprietà della Chiesa o le muovesse guerra era scomunicato. La reazione degli Stati europei e di quelli italiani fu, naturalmente, molto vivace di fronte a questa forma di teocrazia di carattere medievale.

[28] Cfr. E. Rotelli, La figura e l’opera… cit., p. 135.

[29] Biblioteca  Ambrosiana, Ms. F 42 inf., c. 392r. D’ora in poi B. A.

[30] B.A. F 39 inf., c. 42.

[31] B.A., F. 39 inf., cc. 101-102.

 

[32] B.A., F 42 inf., cc. 226-234.

[33] Cfr. Ibid., pp.38-39. Tra le tele dipinte da Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, presenti nel Duomo di Milano, ce n’è una rappresentante la scena dell’attentato a Carlo Borromeo, dove si può vedere il Farina in piedi con in testa un cappello ornato da una grande piuma, che imbraccia l’archibugio, da cui esce un lampo vermiglio diretto verso la schiena dell’Arcivescovo raffigurato inginocchiato in preghiera.

[34] Cfr. E. Rotelli, La figura e l’opera… cit., p. 137.

[35] G. P. Giussani, Vita di San Carlo Borromeo Prete Cardinale del titolo di Santa Prassede, Arcivescovo di Milano, Brescia MDCXIII, Libro IV, p. 185.

[36] B. Ulianich, Carlo Borromeo e i Protestanti, in “San Carlo e il suo tempo”, Atti del Convegno Internazionale…..Milano 1984, vol I, p. 137.

[37] Cfr. D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit., p. 39 e segg.

[38] B. A., Ms. F 166 inf., cc. 496r-508v. Nel descrivere il documento riportiamo le informazioni nella stessa successione in cui sono esposte, e spesso trascrivendo le stesse parole, poiché cambiandole in termini attuali non avrebbero una resa linguistica come le originali.

[39] Ibid., c. 496r. La Repubblica delle Tre Leghe venne siglata, come già detto, nel 1471 a Vazerol tra le tre Leghe Grigioni: Lega Caddea, Lega Grigia e Lega delle Dieci Giurisdizioni. La Lega Caddea o Lega della Ca’ di Dio, deriva io suo nome, come ci spiega il documento, dalla sua sottomissione alla totale giurisdizione della Chiesa, in tedesco Gotteshausbund, in romacio Lia da la Chadé; il Cantone dei Grigioni, il cui capoluogo è Coira, è l’unico in cui le lingue ufficiali sono tre: italiano, romancio e tedesco.

[40] Cfr. Dizionario storico della Svizzera (DSS), Locarno 2002. Nel documento troviamo: “porta per insegna un Camorso forse per che  sotto la sua giurisd.ne sono monti altissimi dell’Engadina superiore et inferiore”. B. A., Ms. F 166 inf., c. 496v.

[41] Antica famiglia originaria di Valvenosta nel Trentino, di cui un discendente fu Vescovo di Coira nel 1213, ma dal Dizionario  (DSS) risulta che dal 1209 al 1221 fu Vescovo Arnold von Mätsch.

[42] B. A., Ms. F 166 inf., c. 496v.

[43] Ibid.

[44] Ibid.

[45] Ibid., 496v e497r.

[46] Ibid., c. 497r.

[47] Ibid. Forse si tratta di Paul Ziegler von Ziegelberg, il quale fu Vescovo di Coira nella prima metà del Cinquecento.

[48] Ibid., c. 498r.

[49] Ibid.

[50] Ibid., 498v.

[51] Ibid.

[52] Ibid., 499r.

[53] Ibid.

[54] Ibid., cc. 499r-500r.

[55] Ibid., c. 500v.

[56] Ibid., c. 5001r.

[57] Ibid.

[58] Ibid.

[59] Ibid., c. 501v.

[60] Ibid.

[61] Ibid.

[62] Ibid., c. 502r.

[63] Ibid., cc. 502r-502v.

[64] Ibid., c. 502v.

[65] Ibid.

[66] Ibid., c. 503r.

[67] Ibid., c. 503v.

[68] Ibid., c. 504v.

[69] Ibid., c. 504r.

[70] Ibid., c. 504v.

[71] Ibid., c. 505v.

[72] Ibid., c. 507r. E’ probabile che questo documento sia stato scritto dopo I divieti posti dalla Dieta di Coira al Cardinale di proseguire nella sua visita in Valtellina e Chiavenna , come era di suo proposito.

[73] Ibid.

[74] Ibid., c. 507v.

[75] Carlo d’Aragona Tagliavia, principe di Castelvetrano nacque a Palermo il 25 dicembre 1521, primogenito di Giovanni, marchese di Terranova e Antonia Concessa d’Aragona Alliata dei baroni di Avola, da cui ereditò le baronie di Avola e Terranova, elevate poi a marchesati nel 1543; dal padre ricevette il possesso del Marchesato di Terranova, della Contea di Castelvetrano e delle Baronie di Pietra Belice e Burgio Milluso. Fin da bambino seguì il padre al servizio dell’esercito imperiale spagnolo, nel 1539 e nel 1543 fu Governatore della Compagnia della carità di Palermo, dove, nel 1545 circa, iniziò la sua carriera politica come Capitano di giustizia, designato “Magnus Siculus” fu per 40 giorni reggente del trono di Spagna in attesa della maggiore età di Filippo, dopo il 1557, anno dell’abdicazione di Carlo V. Tra i numerosi titoli poteva fregiarsi anche di quello di Capitano generale e Presidente del Regno di Sicilia, Filippo II lo investì dei titoli di Duca di Terranova e di Principe di Castelvetrano. Ammiraglio e gra Conestabile del Regno, nel 1571 prese parte alla battaglia di Lepanto, in seguito ricoprì nuovamente l’incarico di Presidente del Regno di Sicilia dal 1571 al 1577, dove fu molto coscienzioso nel governare i suoi feudi, in particolare quello di Castelvetrano, dove fondò un convento, istituì un Monte di Pietà e la Compagnia dei Bianchei dediti alla cura dei malati e all’assistenza dei condannati a morte, ingrandì e fece decorare la chiesa di San Domenico, costruita dai suoi avi e avviò la riqualificazione urbanistica di Palermo. Dalla monarchia spagnola ebbe importanti incarichi anche fuori dalla Sicilia e il 18 ottobre 1582 fu nominato Governatore di Milano e come tale fu inviato, nel 1588, per stipulare la pace con i Cantoni svizzeri, ricoprì il governatorato fino al 1592, dopo la morte di Filippo II, il suo successore, Filippo III, lo nominò Presedente del Supremo Consiglio d’Italia. Morì a Madrid il 23 settembre 1599 e fu seppellito nella chiesa di San Domenico di Castelvetrano come da sua disposizione testamentaria. Fu citato dal Manzoni nel suo romanzo “I Promessi Sposi” come autore di due gride che riguardavano i bravi: “ Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per spegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità. Fin dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustruissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitano Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro essi”. A. Manzoni, I promessi Sposi, Cap. I. Stabilì che i governatori venissero appellati col titolo di Magnifici o Spectabiles, e il Senato Potentissime rex, a quest’ultimo tolse il potere di avocare a sé le cause di spettanza dei giudici inferiori. Per una più ampia e dettagliata storia di questo personaggio si vedano le due opere di R. Canosa, Storia di Milano nell’età di Filippo II, Roma 1996; La vita quotidiana a Milano in età spagnola, Milano 1996.

[76] B. A., Ms. F 166 inf., c. 536r.-540v.

[77] Ibid.

[78] P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo riguardanti la Svizzera e i suoi territori, Tipografia Artistica, Locarno 1909, p.321. Riportiamo parte del documento: “Cupentes pro nostro pastorali officio ut Helvetiorum et Rethorum popolorumque eis subiectorum provinciae, quae superioribus saeculis sincerae fidei christianaeque religionis culto eminere solebant nunc vero aliqua in parte, istigante humani generis hoste, deformatae existunt, quas paterna et singulari quadam protectione prosequimur, Visitationum apostolica rum remedio, adjuvante Domino, restituantur, atque divino culti et animarum saluti quantum cun Deo possumus consolamus, circumspectionem tuam quam alias de eximia integritate, prudentia ac religionis catholicae zelo plurimum in Domino confissi nostrum et apostolicae Sedis generalem et specialem Visitatorem, Reformatorem et Delegatum in Cremonensi, Bergomensi ac Brixiensi et aliis tunc espressi civitatibus et diocesibus “Motu-proprio” deputavimus, facultatesquae ad id opportunas etiam quasqumque ecclesia set sacristias quarumcumque persona rum regularium tam vivo rum, quam mulierum quorum vis ordinum et Congregationum, visitandi et reformandi tibi tribuimus prout in nostris diversis litteris tibi directis plenius continetur: in Costantiensi, Lausanensi, Sedunensi, Curiensi, Basiliensi, Consensi aliiaque Helvetiorum et Rethorum praedicatorum dominio quomodocumque subjectis Civitatibus, diaecesibus et locis universis Visitatorem Reformatorem ac nostrum et apostolicae sedis generalem et specialem Delegatum in omnibus et singulis authoritatibus et facultatibus in predictis literis espressi, aucthoritate apostolica tenore praesentium “Motu-simili”ad nostrum et Sedis Apostolicae beneplacitum constituimus et constitutionibus…”

[79] Cesare Speciano nacque a Cremona nel 1539 da Giovanni Battista, capitano di giustizia, consigliere e senatore nella Milano di Francesco II Sforza. Fu ordinato presbitero per l’Arcidiocesi di Milano nel 1567 e come appartenente ad una nobile famiglia ebbe una rendita fissa con l’Abbazia commendataria di San Pietro all’Olmo, Borromeo lo nominò Canonico ordinario del Duomo di Milano e Prefetto della Casa vescovile. Fu a Roma come Referendario e Segretario della Congregazione dei Vescovi e Regolari nel 1577 e nel 1584 fu nominato Vescovo di Novara. Fu Nunzio apostolico alla corte di Filippo II in Spagna dal 1586 al 1588. Impegnato nella promozione delle riforme del Concilio tridentino, cercò di attuarle anche nella sua diocesi, interessandosi principalmente della disciplina, della moralità e dell’istruzione del clero affinché fosse meglio preparato nella cura delle anime; lottò per sradicarle superstizioni e nel 1590 emanò l’editto “De superstitionis evitandis”, in cui descrisse molte credenze e miti diffusi a quel tempo. Nel 1590 tenne un Sinodo per rafforzare la riforma nel clero e l’anno successivo fece ampliare il palazzo vescovile e il coro della cattedrale di Novara. Dal 1591 fu Vescovo di Cremona e dal 1592 al 1598 fu Nunzio apostolico a Praga alla corte di Rodolfo II. Nel 1600 fondò a Cremona il Collegio dei Gesuiti a cui lasciò in eredità tutti i suoi beni. Nel 1602 fu impegnato in un difficile caso diplomatico di mediazione per conto dell’Imperatore Rodolfo II. Morì a Cremona nel 1607. Cfr. http:77it.cathopedia.org/wiki/Cesare_Speciano

[80] Cfr. B.A., F 69 inf., c. 176r.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 324.

[81] B.A., F 69 inf., c. 219r.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 325-327.

[82] Ibid.

[83] Ibid.

[84] Ibid.

[85] Cfr. B. A., F. 69 inf., c. 346r.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 359; R. Boldini, Documenti intorno alla visita di San Carlo Borromeo in Mesolcina, Poschiavo 1962, p. 5.

[86] B. A., Ms. 164, c. 441r.

[87] Ibid

[88] Cfr. G. A. aMarca, Compendio storico della Valle Mesolcina, Lugano 1838, p.131 e segg.

[89] Monsignor Francesco Borsatto, mantovano, Protonotaro Apostolico,”Dottore nell’una e l’altra legge degno di essere annoverato trà più famosi che da molti centinara d’anni infin’ora siano stati […] havevaquesto Prelato in particolare prattica grandissima di queste materie di heretici e di streghe per haverci posto studio grande, et essere stato molti anni Advocato della Santa Inquisizione in Mantova>>. Cfr. G. B. Possevino, Discorsi…cit., p. 177; A. Agnoletto, Religione popolare, Folklore e magia nei documenti borromaici, in “San Carlo e il suo tempo”, Atti del Convegno Internazionale nel IV centenario della morte, (Milano, 21-26 maggio 1984), Roma 1986, p. 885.

[90] Cfr. F. D. Vieli, Storia della Mesolcina scritta sulla scorta dei documenti, Ed. Grassi & Co., Bellinzona 1930, p. 150.

[91] Cfr. G. P. Giussano, Vita di San Carlo… cit., p. 382.

[92] Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/valle-mesolcina_%28Enciclopedia-Italiana%29/; Molte notizie che seguono sono state riprese anche da G. A. aMarca, Compendio Storico della Valle Mesolcina, Lugano 1838, pp.131-132.

[93] Cfr.F.D. Vieli, Storia… cit., pp. 22-26.

[94]La Centena è una divisione amministrativa usata storicamente nei paesi nordici e germanici per dividere una regione più grande in unità geografiche più piccole. Il nome è derivato dal numero cento. Era un sistema usato tradizionalmente dai popoli germanici, descritto fin dal 98 da Tacito

[95] Cfr. F. D. Vieli, Storia… cit, p. 105 e segg.

[96] Cfr. C. Donati a cura di, Alle frontiere della Lombardia: politica, Guerra e religione nell’età moderna, Milano 2006, p. 44 e segg.; http://mobile.hls-dhs-dss.ch/m.php?article=18033.php

[97] F. D. Vieli, Storia… cit, pp. 135-137.

[98] Ibid.

[99] Ibid., p. 140.

[100] Giovanni Beccaria, nato a Locarno nel 1510 circa, dopo gli studi di teologia abbracciò la fede riformata ed esercitò con successo l’insegnamento. Cacciato dalla sua città, si rifugiò a Mesocco, dove aprì una scuola frequentata dai figli delle famiglie riformate di Locarno. In seguito venne nominato parroco riformato di Mesocco. Nelle sue lettere a Heinrich Bullinger, teologo, riformatore e Antistes (Vescovo) della Chiesa riformata di Zurigo, Beccaria scriveva che a Mesocco nessuno andava più alla messa , che molti erano pronti ad abbandonare la religione cattolica per essere liberi da vincoli finanziari ecclesiastici e da doveri spirituali, ma rifiutavano di provvedere al mantenimento della nuova chiesa, non erano interessati alle funzioni religiose ed erano immorali. Nel 1556 Beccaria partì al seguito di una comunità protestante per Zurigo, nel 1559 riprese il suo posto di parroco riformato a Mesocco, ma non essendo tollerato dai Cantoni cattolici, il comune della città lo allontanò ed egli si rifugiò a Chiavenna, per fare tornare l’anno successivo a Mesocco, dopo il ricorso fatto dai riformati grigioni contro l’espulsione del Beccaria, in quanto non colpevole di delitti comuni, ma la situazione era cambiata e molte persone autorevoli avevano voltato le spalle alla Riforma: osteggiato, deluso e stanco Beccaria si riparò a Bondo, dove morì nel 1580. Cfr. F. D. Vieli, Storia… cit, p.140 e segg.

 

[101] Ibid. p. 144.

[102] Ibid.

[103] G. A. aMarca, Compendio Storico… cit., pp.131-132.

[104] B. A., Ms. P 23 inf., c. 228r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 7-8.

[105] Giacomo Savelli, discendente dall’antica e nobile famiglia romana che contava tra i suoi discendenti tre papi e alcuni cardinali, nacque a Roma il 28 ottobre 1523, da Giambattista e Costanza Bentivoglio, la nonna paterna, Camilla Farnese, era cugina di Paolo III, il quale lo inviò a Padova, dove si laureò in “utroque iure”, intraprese la carriera ecclesiastica quando aveva solo sedici anni e l’anno successivo fu creato cardinale diacono. Ebbe numerosi e importanti incarichi e fu molto legato alla Marca, dove dal 1551 al 1555 si adoperò per difendere le coste dai Turchi. Nel 1557 fu chiamato da Paolo IV a far parte della Congregazione dell’Inquisizione e nel 1560 fu nominato Vicario di Roma sempre dallo stesso papa, il quale aveva stabilito, nella riforma dei tribunali romani, che la carica fosse affidata ad un cardinale. Savelli prese, fin dall’inizio, una serie di provvedimenti conformi ai principi del Concilio di Trento per moralizzare il clero, disciplinare il culto delle reliquie e soprattutto per ciò che concerneva le funzioni pastorali dei parroci, si adoperò per il controllo e il governo dell’ordine e della morale nella città di Roma. Nel 1560 gli fu assegnata la Diocesi di Benevento, che visitò solo nel 1567 a causa dei numerosi impegni con il Pontefice. Nel 1562 Pio V lo chiamò di nuovo a far parte della Congregazione dell’Inquisizione, dove si occupò principalmente di tenere la corrispondenza con i vicari e inquisitori: un esempio sono le numerosissime missive tra il Savelli e Carlo Borromeo. Dal 1577 al 1583 fu creato Cardinale Vescovo di Sabina, di Tuscolo e di Porto. Alla morte di Scipione Rebiba, nel 1577, divenne Inquisitore Maggiore, occupandosi attivamente nel controllo e repressione delle eresie, superstizioni e stregoneria. Durante il conclave del 1585 fu proposto tra i papabili, ma su di lui gravava una fama negativa diffusa dai suoi opoositori che gli attribuivano diversi figli naturali, in realtà incise la sua politica a favore di Alessandro Farnese e della Spagna, che condizionò negativamente, in seguito, l’atteggiamento di Sisto V nei suoi confronti. Savelli morì a Roma il 5 dicembre 1587 e il Papa, non dimenticando il suo rancore, non tenne conto del suo testamento.

Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/giacomo-savelli_(Dizionario-Biografico)/

 

[106] B. A., F 69 inf., c. 256 r. e v.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo…cit., p. 328.

[107] Per la lettera al Savelli Cfr. B. A., Ms. P 23 inf., c. 228r.; A. Borromeo, L’opposizione all’eresia. Apostolo e “genio” pratico della riforma, in “Il grande Borromeo tra storia e fede”, Milano 1984, pp. 223-255. Il “negotio” che il Borromeo stava terminando riguardava il matrimonio della principessa Margherita Farnese, proposto dal Cardinale Alessandro Farnese per un’alleanza antifiorentina dei Farnese con i Gonzaga, la cui rivalità risaliva ai tempi di papa Paolo III (Farnese). Margherita, figlia del principe Alessandro Farnese e Vincenzo Gonzaga, unico figlio di Guglielmo duca di Mantova e futuro duca di Mantova, si erano uniti in matrimonio con una solenne cerimonia officiata nella Cattedrale di Piacenza il 2 marzo 1581, ma dopo poco tempo la principessa, che portava una dote di trecentomila scudi, si rivelò inabile al matrimonio a causa di un impedimento congenito di Margherita, che avrebbe potuto risolvere con un delicato intervento chirurgico, caldamente sconsigliato dalla nonna, Margherita d’Austria, e anche dallo stesso Borromeo. La causa fu demandata da Gregorio XIII al Borromeo, come Delegato Pontificio, il quale, accertata dai medici l’inabilità fisica della donna, dichiarò nulla la loro unione e autorizzò il duca Vincenzo a poter contrarre nuove nozze. La principessa Margherita, il primo ottobre dello stesso anno, entrò nel monastero di San Paolo di Parma, dove fece professione religiosa, prendendo il nome di Maura Lucenia. Cfr. C, Poggiali, Memorie storiche della città di Piacenza. Compilate dal Proposto Cristoforo Poggiali Bibliotecario di S.A.R., Tomo X, Piacenza MDCCLVI, pp. 194-197; E. Costa, Spigolature storiche e letterarie, Parma 1887, p.17 e segg.; http://www.it/enciclopedia/margherita-farnese_(Dizionario-Biografico/)

[108] B. A., F 166 inf. cc. 254r.- 259r-260r.

[109] Ibid.

[110] G. B. Possevino, Discorsi… cit., pp. 177-178.

[111] Ibid. p. 180.

[112] B. A., F 166 inf. C. 492r. e segg.; P. D’Alessandri, Atti di S.Carlo…, cit., p. 335-336.

[113] A. Agnoletto, Religione popolare, Folklore e Magia nei documenti borromaici, in “San Carlo e il suo tempo”, Roma 1986, p. 870 e segg.

[114] Cfr. A. Agnoletto, Religione popolare… cit., p. 871.

[115] Ibid.

[116] Ibid.

[117] Cfr. F. Molinari, San Carlo Borromeo tra mito e storia, in “Quaderni camuni”, 8, 1979, p. 336.

[118] Cfr, A. Agnoletto, Religione popolare… cit., p. 876.

[119] R. Boldini, Documenti… cit., pp. 9-10.

[120] Ibid.

[121] Ibid.

[122] Il 23 maggio 1555, all’età di settantanove anni, il Cardinale Pietro Carafa fu eletto Papa con il nome di Paolo IV, nei suoi quattro anni di pontificato, egli ebbe come obiettivo principale la lotta alle eresie e una seria riforma della Chiesa e tra le molteplici occupazioni sia di carattere spirituale che politico, quella cui si dedicò maggiormente fu il Sant’Uffizio, attuando cambiamenti e, spesso, prendendo personalmente le decisioni più importanti; ampliò le facoltà d’intervento dell’Inquisizione assegnandogli la competenza sulla bestemmia e sulla simonia, intensificò le pene e comminò la pena capitale nel corso del primo processo per chi confutasse la Trinità, la divinità di Cristo e la verginità della Madonna, più tardi anche per chi celebrasse messa, ascoltasse confessioni, approfittasse dell’eucaristia senza avere ricevuto l’ordine sacro. Nel complesso, durante il papato di Paolo IV il Santo Uffizio ampliò notevolmente la sua sfera d’azione e le sue competenze a reati come la bestemmia, l’omosessualità e la simonia, quest’ultima era uno dei cardini su cui si basava la sua lotta per la riforma della Chiesa. Cfr. A. Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Mondadori 2006, p. 398; L. Fabbri, Per fede e per dignità: il caso di Abramo e Agnoluccio ebrei, in “I Tesori alla Fine dell’arcobaleno”, https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2017/07/05/per-fede-e-per-dignita-il-caso-di-abramo-e-agnoluccio-ebrei/?

[123] B. A., Ms. F 69 inf. cc. 256r.-257v.

[124] Achille Gagliardi nacque a Padova nel 1537circa da Girolama Campolongo e da Ludovico, alla prematura scomparsa del padre  fu affidato insieme con i fratelli ad un precettore e dopo la morte della madre si trasferì a Roma per entrare nella Compagnia di Gesù. Nel 1562 ebbe l’incarico di insegnare nel Collegio Romano prima etica, poi logica, fisica e metafisica, nel 1568 fu nominato rettore del Collegio di Torino. Svolgendo nel contempo molte altre attività, che suscitarono gelosie nelle autorità religiose torinesi che lo accusarono di troppa ambizione e inefficienza nella direzione del Collegio, ma egli riuscì ad ottenere di nuovo la fiducia. Nel 1572 ebbe la cattedra di teologia scolastica nel Collegio di Brera  a Milano, ma non assunse tale incarico a causa dell’insistenza del Duca di Savoia, presso il quale ebbe attività diplomatiche e di mediatore con la Santa Sede, tali stretti rapporti finirono quando Gagliardi fu chiamato a Roma, nel 1575, per occupare la cattedra di teologia scolastica, dove trovò un clima molto burrascoso con polemiche dottrinarie ed altre riguardanti la Compagnia di Gesù; le sue prese di posizione furono la causa per cui dovette lasciare Roma nel 1579. Il Borromeo, il quale lo stimava molto, lo chiamò a Milano in occasione della sua visita in Mesolcina, che lo impegnò molto anche come predicatore. Tornato a Milano divenne direttore spirituale di Isabella Cristina Berinzaga, la cui assidua frequenza con la “mistica” destò molte perplessità, inoltre nella sua opera “Breve compendio di perfezione cristiana”, vennero riscontrati gravi errori dottrinari, fu fatta esaminare a Roma e anche i teologi Gesuiti si pronunciarono contro la sua divulgazione. Non era di questa opinione il futuro Santo, il quale manda una copia al Cardinal Savello per avere la licenza di stamparla e scrive queste parole: “…ha composto un catechismo volgare che è come una instruttione piena, breve et chiara della fede per uso et servizio principalmente dei paesi dei Grisoni […]  il qual libro mi è piaciuto grandemente et sarebbe utile in ogni luogo…”  P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 328.  Tornato a Milano nel 1593, fu riconfermato Preposito di San Fedele, ma le riprese frequentazioni con la Berinzaga, che considerava direttamente ispirata dalla parola divina, lo spinsero a rimettere l’incarico. Dopo molte vicissitudini e una vita piuttosto movimentata  (che non spiegheremo in questa sede), fu nominato rettore del Collegio di Bologna nel 1604, in condizioni di salute pessime, morì a Modena il 6 luglio 1607. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/achille-gagliardi_%28Dizionario-Biografico%29/

[125]Girolamo (Francesco) Panigarola nacque a Milano nel 1548 da nobile famiglia, studiò a Pavia, a Bologna e a Pisa, nel 1567 entrò nei frati Minori Conventuali,prendendo il nome di Francesco nel 1571 Pio V lo mandò a Parigi per frequentare le lezioni di teologia della Sorbona. Insegnò a Bologna, Firenze e a Roma, non trascurando il suo compito di predicatore e come tale, tra il 1574 e il 1587 fu in numerose città italiane: tale fu la fama come predicatore, che divenne un punto di riferimento per la predicazione del suo tempo: principi, ecclesiastici e nobili fecero a gara per ottenere la sua presenza, il Borromeo lo volle spesso come predicatore ufficiale nel Duomo di Milano, anche il Papa assisteva alle sue prediche. A Torino tenne le sue conferenze contro Calvino, confutando le tesi contenute nell’”Institutio religionis Christianae”: <<…contro i libertini e gli ateisi trattò di affermare da parte di tutti i credenti, che esiste un solo Dio; contro ebrei e musulmani, si trattò di sostenere, da parte di tutti i cristiani, che Cristo è Dio, ovvero che la rivelazione cristiana è vera; infine, contro i protestanti, si trattò di dimostrare che la vera Chiesa è quella cattolica, in quanto corrispondente alla volontà di Cristo. Rifiutando la definizione che Calvino fornisce di Chiesa, basata sulla predestinazione degli eletti, come pure quella degli anabattisti che fanno coincidere la Chiesa con la comunità dei giusti, Panigarola mette in campo la distinzione intercorrente tra “chiesa militante” e “chiesa trionfante”, distinguendo due modi diversi di essere uniti a Cristo nell’unica Chiesa>>. F. Buzzi, Religione, cultura e scienza a Milano. Secoli XVI-XVIII, Milano 2016, p. 185 e segg. Dal 1582 al 1584, salvo alcune eccezioni, fu a Milano per servire l’Arcivescovo e alla morte di Carlo Borromeo fu incaricato di fare l’aorazione funebre. Nel 1586 fu suffraganeo del Vescovo di Ferrara e nel 1587 fu eletto Vescovo di Asti e nella stessa città morì il 31 maggio 1594.

[126] Bernardino Morra nacque a Casale Monferrato nel 1549 da una famiglia patrizia di Chv asso, dopo gli studi giuridici entrò al servizio dei Gonzaga, che lasciò per seguire la carriera ecclesiastica. Nel 1575 si trovava già presso il Borromeo, il quale l’anno seguente lo nominò Auditore generale della Diocesi di Milano, con funzioni parificate a quelle di vicario. Nello stesso tempo in cui Carlo si trovava in Mesolcina, Morra andò a Coira come suo inviato per svolgere un’importante missione diplomatica con i Grigioni; alla morte del Prelato, Morra continuò a seguirne le orme e nel 1586 fu nominato Vicario generale della Diocesi di Milano, in seguito fu Protonotaro apostolico. Nel 1595 ebbe la nomina di Segretario della Congregazione dei Vescovi e poi, chiamato da Clemente VIII, che lo volle come coadiutore nella riforma disciplinare della Chiesa, Prefetto del Palazzo apostolico. Nel 1598 ottenne la nomina di Vescovo di Aversa, svolgendo il suo governo vescovile sul modello borromaico.Morì ad Aversa il 17 marzo 1605. Cfr. http://WWW.treccani.it/enciclopedia/bernardino-morra_(Dizionario-Biografico)/

[127] B. A., Ms. F 166 inf., c. 11r.

[128] P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo…, cit., pp. 333-334.

[129] Ibid.

[130] Ibid.

[131] Ibid., pp. 335-336.

[132] Ibid.. p.336.

[133] Ibid.

[134] Ibid., pp. 336-337. Pietro Paolo Vergerio nacque a Capodistria nel 1498. Giurista, professore universitario e riformatore religioso, dopo la morte prematura della moglie Diana Contarini, si mise al servizio della Chiesa: fu Nunzio in Germania nel 1533 presso la corte di Ferdinando d’Asburgo, esperienza che lo rese grande conoscitore del mondo tedesco e protestante, tre anni dopo fu consacrato prete e vescovo da Papa Paolo III che gli assegnò prima la diocesi di Modrus in Croazia poi quella di Capodistria. Nel 1540 fu rappresentante ufficiale di Francesco I re di Francia alla dieta di Worms, dove, su ordini della Curia pontificia, si oppose ai propositi conciliativi di Carlo V. Riprese i contatti con i principali riformatori tedeschi e si allontanò dall’ortodossia cattolica tanto da essere denunciato come luterano nel 1544, l’anno successivo fu processato e assolto a Venezia. Nel 1549 fu esule in Svizzera, dopo avere rifiutato l’opportunità di discolparsi presso la Curia romana, dopo un lungo giro di divulgazione del luteranesimo in questa nazione, svolseun’intensa attività propagandistica politico-religiosa in Germania, nei Grigioni e in Valtellina, mostrandosi accanito avversario del papato. Dal 1561 al 1562 fu molte volte nella città di Coira, dove fece propaganda anticonciliare e divulgò numerosi libretti d’ispirazione luterana. La sua copiosa produzione letteraria fu essenzialmente propagandistica. Morì a Tubinga il 4 ottobre 1565. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/vergerio-pietro-paolo-il-giovane_%28Enciclopedia&#8230;

[135] B. A., F 69, c. 349 r.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 358; F. D. Vieli, Storia… cit., pp. 153-154.

[136] B. A., f 166, c. 343 r.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 359; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 28-29.

[137] Cfr. http:// blogs.dotnethell.it/silvanopollena//Il-cardinale-Borromeo-e-le-streghe-della-Mesolcina-e-Calanca_7331.aspx

[138] Cfr. F. D. Vieli, Storia cit…, pp. 162-164.

[139] Ibid., p. 151.

[140] P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 354.

[141] Ibid., in nota.

[142] B. A., Ms. F 166, c. 164r. Ludovico Audoeno (Lewis Owen) nacque in un piccolo villaggio del Galles nel 1532, Studiò prima nel collegio di Wincester e dal 1554 ad Oxoford, che lasciò nel 1561 per proseguire gli studi  di dottorato in diritto e teologia. Fu canonico della Cattedrale di Camrai e arcidiacono a Hainault, successivamente andò a Roma, dove sotto il pontificato di Sisto V e di Gregorio XIII ricoprì le cariche di Referendario di segnatura e Segretario della Congregazione per i Vescovi e i Regolari. Fu uno dei promotori della fondazione dei Collegi inglesi di Douai e Roma e nel 1578 fu nominato Rettore del Morys Clynnong di Roma, ma aspre rivalità tra studenti gallesi e inglesi indussero questi ultimi a chiedere un rettorato guidato dai Gesuiti, poiché sostenevano che i Gallesi erano favoriti rispetto agli Inglesi. Il Papa, forse per allontanarlo da Roma, mandò Ludovico Audoeno a Milano presso il Cardinale Borromeo, dove ricoprì la carica di Vicario dal 1580 al 1584, anno della morte del Borromeo, ma due mesi dopo era di nuovo presso la Corte pontificia e nel 1588 Sisto V lo nominò Vescovo della diocesi di Cassano all’Ionio e nel 1591 fu nominato Nunzio apostolico a Lucerna per la Svizzera, pur continuando a risiedere a Roma, dove morì il 14 ottobre 1591 e fu sepolto nella cappella del Collegio inglese. Cfr. https://it.cathopedia.org/wiki/Lewis-Owen

[143] Ibid.

[144] Cfr. B.A., f 166 inf., c. 107 r. e v.; R. Boldini, Storia… cit., p. 11.

[145] “… ho procurato di parlare col Ministrale Maggio al quale ho dato convenio di sodisfattione, sì che da lui non reusciva alcun male effetto, del successo a Milano, ma già che ne aveva raguardo con alcuni di questa città sì che gli animi erano alterati molto grandemente, in tanto che poco prima che fossero gionte le lettere di V. S. Ill.ma uno ragionando col Todeschino disse che per ricompensa di quel che s’era voluto fare a Milano a uno di loro, bisognava che hora retenesser V. S. Ill.ma veramente che magnifica occasione del negotio che si tratta…”. B. A., F 166 inf., c. 197 r.; R. Boldini, Storia… cit., p. 19.

[146] Cfr. B.A., F 166 inf., c. 107 r. e 122 r.; R. Boldini, Documenti…cit., pp. 11-12.

[147] Peter de Raschèr nacque a Zouz nel 1549, fu educato nella certosa di Buxheim in Svevia e compì gli studi a Ingolstadt. Dopo essere stato eletto Canonico del Capitolo della cattedrale di Coira, fu parroco di Bergün e cantore del Capitolo cattedrale nel 1578, fu eletto Vescovo di Coira nel 1581. Di indole remissiva, delegò ai suoi vicari  i primi tentativi di riforma; dopo la visita di Borromeo in Mesolcina, dette disposizioni al clero sull’amministrazione dei sacramenti e la condotta dei religiosi, fece pubblicare nuove copie del messale e del breviario, nel 1598 promulgò nuovi statuti per il Capitolo cattedrale. Morì a Coira nel 1601.Cfr. http://mobile.hls-dhs-dss.ch/m.php?lg=126318php

[148] B. A., F 166 inf., c. 134 r; R. Boldini, Documenti… cit., p. 13.

[149] Ibid., c. 149 r.; p. 14.

[150] Ibid.

[151] Ibid.

[152] Cfr. F. D. Vieli, Storia… cit., p. 154.

[153] B. A., Ms. F 166 inf. c. 179 r.e v.

[154] B. A., Ms. F 166 inf., c. 197 r.

[155]  Si tratta di Galles de Mont, capo della Lega Grigia.

[156] B. A., Ms. F 166 inf. c. 179r.

[157] Ibid.

[158] Cfr. B. A., Ms. F 166 inf. c. 197 r.

[159] Cfr. R. Boldini, Documenti… cit., pp. 15-16.

[160] B. A., Ms. F 166 inf., c. 184r.; R. Boldini, Documenti…cit., pp. 18-19.

[161] “Cives nostri Curienses omnes C. V. Ill.mam maximo honore excipient accedentem, et non minori prosequentur discendentem, visitationes etiam Ecclesiae meae minime impedient, sermone vero ad populum nullum fieri volent, et si vellent, certe ipse qui statum patriae mentesque nostratum, utcumque iam perspectas habeo, dissuaderem; rem namque hanc, plerique rusticorum in hac  praesertim temporum pernicie, novamet seditioni proximam (licet immerito) suspicarentur tamen, sed de hac re alias”. R. Boldini, Documenti… cit., p. 21.

[162] Papa Gregorio XIII emana il nuovo calendario il 24 febbraio 1582: quello vecchio, che era stato emanato da Giulio Cesare, aveva i giorni di circa undici minuti più lunghi del giorno astronomico, quindi nel secolo XVI risultava che l’anno civile aveva accumulto dieci giorni di ritardo rispetto a quello astronomico. Questa riforma del calendario ebbe luogo proprio nel culmine delle lotte religiose e i Protestanti non vollero riconoscerlo, in quanto promulgato dal Papa. In Svizzera, i Cantoni cattolici decisero di adottare il nuovo calendario dal 10 novembre 1583 mentre quelli Riformati lo adottarono solo dal 1701; nelle terre dei Grigioni il calendario gregoriano non fu accolto in una precisa data, ma fu applicato nel secolo seguente e divenne normativa comune solo nel 1811, a causa delle violente lotte religiose, Cfr. R. Boldini, Documenti… cit.,  p. 22.

[163] B. A., Ms. F 175 inf. c. 166 r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 24-25.

[164] Ibid., c. 156r.

[165] B. A., Ms. 166 inf. c. 555r.-558v. “Per Franza”.

[166] Cfr. Ibid., c. 557v. Gli abitanti delle due Valli erano circa centomila, dei quali “due o tremila” eretici, il documento continua dicendo le vessazioni che vengono fatte ai Cattolici, i quali sostengono di non poter più sopportare una simile situazione. Per la storia della Valtellina e Valchiavenna si veda: G. Romegialli, Storia della Valtellina e delle già Contee di Bormio e Chiavenna, Vol. II, Sondrio 1834.

[167] B. A., Ms. P 24 inf., cc. 592v.-594v.; e c. 666r.

[168] Cfr. B. A., Ms. F 170 inf., c. 342r.

[169] B. A., Ms. F 168 inf., cc. 411r e v.

[170] B. A., Ms. F 169 inf.cc. 217 r. e v.

[171] Ibid., c. 281r.

[172] Cfr. A. Lanfranchi a cura di, Il Libro delle memorie del Canonico Fanti di Sondalo, Parte III, in “Bollettino Storico Alta Valtellina, n. 15, Anno 2012, p. 35.

[173] B. A., Ms. F 169 inf., c. 297r.

[174] Ibid., cc. 365r e v.

[175] B. A., F 166 inf., c. 112r. “…di che si promettevano grata risposta et che altrimenti facendo de non voler consentir a questi loro amichevoli avisi et essortationi et nunc gli protestavanode non darci alcuno aiuto occorrendo gli intervenga qualche fortuna, et che vogliono essere escusati d’haver fatto il debito loro, sopra quale esposizione detti SS.ri Grisoni non gli hanno dato alcuna grata ne buona risposta, ma sono restati sdegnati della protesta fatta da detti SS.ri Amb.ri Svizzeri quali si partirono malissimo sodisfati”.

[176] B. A., Ms. P 23 inf. (II), c. 228r.

[177] B. A., Ms. F 166 inf., c. 112r.

[178] Ibid., c. 512v.

[179] B. A., Mss.P 24 inf., c. 513 e 524, le minute sono datate “fine di luglio 1584” per lo Speciano e 2 agosto dello stesso anno per il Cardinale Savello; F. 166 inf., c. 511r. : “Così poiche per molti degni rispetti questa loro richiesta ci pare molto strana; et particolarmente che altre nostre vicine nationi, non comportarebbano che noi erigessimo uno Seminario o Collegio Evangelico nelli nostri paesi sudetti; pone per cio noi non havemo mai detto contra a quelli, che errette scole di Giesuiti, et altri conventi ne manco ci è mai venuto in pensiere di cercar di volerle obiurare. La onde si persuadiamo totalmente che nessuno ne habbia a contradire ne di volerlo levere con minacie queste ne altre honorate inovationi. Ma particolarmente restiamo sumamente admirativi, et ci pesa, che detti SS.ri Amb.ri in nome de loro SS.ri et supp.ri nella conclusione della loro instruttione per desviarne con minacie, di uno tanto Christiano proposito, ci hanno fatto intendere, che in caso dela loro richiesta, et essortatione, non potesse haver loco presso di noi, che si protestano, occorendo caso che percio ne resultasse qualche fastidij contrarietà, et inquieti, che essi non ci vorranno dar agiuto ne assistenza…”

[180] Scipione Calandrini, figlio illegittimo di Giuliano di Filippo, nacque probabilmente a Lucca nel 1540 circa. Fu affidato alle cure di un precettore, il quale fu poi arrestato a Lucca nel 1556, trasferito a Roma e condannato al rogo, fu spiccato un mandato di cattura anche per Scipione, che, avvertito, riuscì a fuggire, rifugiandosi nei Grigioni e poi a Ginevra, dove ottenne la cittadinanza nel 1559 e prestava servizio come ministro della Chiesa italiana. Fu uno dei primi lucchesi a convertirsi alle dottrine riformistiche, indipendentemente dai contatti con i riformati d’oltrape. Poche le notizie negli anni tra il 1562 e il 1572, nel 1566 si trovava di Nuovo a Ginevra, dove insegnava gratuitamente dialettica e retorica al “Collège”, ma due anni dopo, non avendo ottenuto la cattedra di filosofia, andò ad Heidelberg, dove oltre che studente, fu insegnante di filisofia, teologia e lettere. Fu in Valtellina nel 1570 circa, come pastore di Morbegno e nel 1575 partecipò alla Dieta di Coira, nel 1577 fu a Sondrio, dove continuò la sua attività pastorale, ma anche una massiccia opera di propaganda ed educazione: organizzò un ginnasio, in cui aveva grandissima parte l’educazione umanistica, suscitando la reazione dei cattolici.Scrisse molte opere, di notevole rilievo è il metodo di dibattito da lui proposto, ossia di interventi alternati e non disturbati da interruzioni. Fu al centro, insieme con Nicolò Rusca, delle drammatiche vicende che sfociarono nel tristemente famoso “Sacro Macello della Valtellina” del 1620. Nel 1594 riuscì a sfuggire ad un agguato il cui mandante fu Michele Chiappino, che venne poi arrestato e durante l’interrogatorio confessò di avere agito, a sua volta, per conto del Rusca, che si difese strenuamente dicendo aanche di essere stato in buoni rapporti con Scipione: entrambi furono giustiziati. Calandrini morì, probabilmente, verso gli inizi del XVII secolo. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/scipione-calandrini_(Dizionario-Biografico)/

 

[181] B. A., Ms. F 168 inf. cc. 93 r.-94v.

[182] Cfr. L. Prosdocimi, Riforma borromaica e conservatorismo politico. Dalle controversie di giurisdizione alla convergenza, in “San Carlo e il suo tempo, Atti del Convegno Internazionale nel IV centenario della morte (Milano, 21-26 maggio 1984), Roma 1986, p. 705.

 

[183] B. A., Ms. F 166 inf. cc. 536r-540v.

[184] B. A., Ms. F 166 inf., c. 541r.

[185] Ibid.

[186] Ibid., c. 164r.

[187] Cfr. B. A., Ms. F 166 inf., cc. 324r., 325r., 392r., 467r.

[188] Una lettera è scritta dal Cardinale Savello, il quale comunica a Borromeo di avere data al Pontefice la relazione da lui scritta e il decreto emesso dai rappresentanti delle Leghe durante Dieta, la data risale al 10 dicembre 1583. Cfr. B. A., Ms. F 166 inf., c. 292r.

[189] Cfr. R. Boldini, Documenti… cit., p. 27; B. A., Ms. F 69 inf., c. 331r.

[190] Ibid.

[191] Ibid.

[192] R. Boldini, Documenti… cit., p. 32; B. A., Ms. F. 167 inf. ,c. 58r.

[193] B. A., Ms. F 167 inf., c. 126r. La lettera continua con le spiegazioni delle sue occupazioni giornaliere.

[194] Cfr. Vieli, Storia… cit.,  p. 152; R. Boldini, Documenti… cit., p. 28.

[195] B. A., Ms. F 167 inf., c. 72r; R. Boldini, Documenti… cit., p.35.

[196] B. A., Ms. F 167 inf., c. 85r; R. Boldini, Documenti… cit., p. 35.

[197] Cfr. B. A., Ms. F 167 inf. c. 65r. e 122r., R.Boldini, Documenti… cit., pp. 36-37.

[198] Cfr. B. A., Ms. F 167 inf., c. 182 r.; R. Boldini, Documenti… cit., p. 39.

[199] B. A., Ms. F 166 inf., c. 560r.

[200] Ibid., c. 560v.

[201] La condanna di Gerolamo Borgo viene riportata nella lettera del 30 gennaio 1584, edita da Boldini e in un’altra lettera del 12 febbraio dello stesso anno scritta da Battista Borgo, nipote di Gerolamo, il quale scrive che lo zio è stato accusato di avere avvertito il Cardinale che <<…non li dovesse alhora andare atento che gli erano grandissimi romorri nelle lige, ma che lasase prima fare li pagamenti di Franza;li quali si facevano alhora, sopra la quale querella fu datto al detto mes. Jeronimo mio cio (zio) acrissimi tormenti, atalle cheli fu bisogno confessare il tutto>>. B. A., Ms. 167 inf. c. 270r.; R. Boldini, Documenti…cit., pp.41-42.

[202] B. A., Ms. F 167 inf., c.561r. Pubblicata una parte da P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit.,  pp. 362-363.

[203] B. A., Ms. F 167 inf., cc. 561r e 561v.

[204] Ibid., ms. 167, c. 261r.

[205] B. A., Ms. F 168 inf., c. 37r.

[206] B. A. Ms. F. 168 inf., c. 105r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 43-44.

[207] B. A., Ms. F 168 inf. c. 126r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 44-45.

[208] Cfr. R. Boldini, Documenti… cit., pp. 45-46. In una delle lettere si apprende che Giovan Battista Sacco è stato riconfermato Ministrale.

[209] Ibid. , p. 46.

[210] B. A., Ms. F 168 inf., c. 374r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 47-48.

[211] Ibid.

[212] B. A., Ms. F 168 inf., c. 380r. e v.; R. Boldini, Documenti intorno… cit., p. 49.

[213] Numerose sono le lettere che parlano dell’applicazione del nuovo calendario, che, come già detto, nel Cantone dei Grigioni non fu adottato unanimamente, infatti Nicolò Venusto, Prevosto di Coira, in una lettera a Pietro Righini, parroco di San Domenico di Calanca scrive che “Essendo informato dal Sig,r Ministrale di Calanca che parte servano il calendario Nuovo, et altri il vecchio, et da questa osservazione ne vengano dispareri grandi […] per tanto essendo noi tutti informati quale sia la mente delli s.ri delle tre lighe di sopra di questo et a parte confermata dalla liga Grisa, per oviare a dissordini che potriano cascare, per la presente vi facciamo intendere che voi serviate detto calendario vecchio, come noi, et questo per modo di provisione, sin’a nuovo ordine di Monsig.r R.mo nostro vescovo di Coira, il medemo farete intender alli altri et di questa risolutione se ne informerà se sara bisogno Mons.r Ill.ma cardinal Borromeo”. In un’altra lettera del29 giugno, Giovan Battista Sacco, Ministrale di Roveredo, scrive al Borromeo che “La Valle Calanca và ostinata sola nell’osservatione di detto Calendario, per timore di detta Ligha nostra…” B. A., Ms. F 169 inf. cc. 220, 221, 279, 382; R. Boldini, Documenti intorno… cit., pp. 55-57.

[214] B. A., Ms. F. 168 inf., c. 385 r. e segg.; R. Boldini, Documenti intorno… cit, pp. 50-52.

[215] B. A., Ms. F. 169, c, 159r.; R. Boldini, Documenti intorno… cit., p. 53.

[216] Cfr. B. A., Ms. P 24 inf. (II), cc. 405r., 406r. e v., 407 r.e v., 409 r. e v.

[217] La lettera è scritta da Giovanni Battista Sacco, il 29 luglio 1584. R. Boldini, Documenti intorno… cit., pp. 57-58.

[218] Cfr. Ibid., pp. 62-63.

[219] B. A. , Ms. F 166 inf., cc. 517 . Un’altra copia la possiamo trovare nel Ms. D 216 inf., c. 70 r e segg., che non si discosta dalla prima se non in qualche termine che non cambia il contenuto;  R. Boldini, Documenti… cit., pp. 65-75. Giovanni Antonio Viscardi, detto Trontano dal luogo d’origine in Val Vigezzo, fu predicatore delle nuove dottrine a Mesocco nel 1554 circa, quando raggiunse il Beccaria (Canessa), il quale si trovava a predicare nello stesso luogo fin dal 1549, quest’ultimo parì da Mesocco nel 1560, il Trontano rimase ancora per dieci anni, lasciando,alla sua partenza, un figlio che figurerà tra gli eretici poi convertiti. Cfr. R. Boldini, Documenti intorno… cit., p. 74 in nota. Lodovico Besozzo, fu discepolo del Trontano, ma all’epoca della Visita era già morto. I tre erano molto noti come eretici.

Fra i rifugiati in Svizzera c’era il prete Giovanni Beccaria, nobile milanese, il quale possedeva dei beni a Locarno, dove aveva la cittadinanza. A Roma aveva frequentato Occhino, Carnesecchi, Vermigli e tornato a Locarno vi diffuse i loro insegnamenti “…sotto il manto di una scuola di letteratura, anzi l’arciprete che nol sospettava l’invitò a fare alcuni sermoni, che piacquero assai”. Il 19 agosto 1549, dopo una lunghissima disputa circa il testo evangelico Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam, sulla confessione auricolare, sul merito delle opere buone, il commissario che presiedeva l’evento fu talmente esasperato dalle risposte equivoche del Beccaria che dette ordine di metterlo in carcere, ma trenta giovani suoi seguaci riuscirono a liberarlo ed egli si rifugiò nella Mesolcina, dove si sposò e fece l’educatore dei figli degli italiani aderenti alla Riforma. “I Zuricani permisero erigesser una chiesa italiana nel tempio di San Pietro, con proprio pastore, che fu Giovanni Beccaria, il quale si conformasse ai riti e ai dogmi del Cantone, giurasse obbedienza al magistrato e al sinodo: provedendolo di cinquanta zecchini, centoquindici brente di vino, diciotto moggia di grano e due di avena”. Ebbe contatti con Heinrich Bullinger, famoso teologo e riformatore svizzero, ma presto i rapporti divennero burrascosi e il Beccaria fu rimosso dall’incarico e sostituito dal senese Ochino, che poco dopo fu anche lui cacciato, Beccaria tornò a Mesocco, dove gli fu permesso di restare e di istruire i giovani, cambiò il suo nome e si fece chiamare Kanesgen. In seguito fu di nuovo cacciato e trovò rifugio in Chiavenna, così scriveva ad un amico:”Dopo una lunga e grave disputa con questi nemici di Cristo, vinse la parte di mandarmi via, a patto però che i fratelli possano avere un altro predicante”. Spesso Beccaria o Kanesgen tornava a Mesocco, fiché fu cacciato con forza in seguito ad un’istanza di Borromeo nel 1571. Poche le notizie su Lodovico Besozzo e Giovanni Antonio Viscardi, detto Trontano. Cfr. C. Cantù, Gli eretici d’Italia… cit., Vol. III, pp. 85-90.

[220] Cfr. la nota n. 26 del presente lavoro.

[221] Ibid.

[222] Ibid.

[223] P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 361.

[224] Per alcune notizie su questi personaggi si rimanda alla nota n. 219 del presente lavoro.

[225]B. A. Ms. F 166 inf. c. 520 e segg.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p.354 e segg.; R. Boldini, Documenti… cit., p. 72 e segg. Riportiamo i nomi come sono scritti  nel Ms. : le prime quattro sono “Madallena Lorenzona, Madallena Bollasia, Gioanina Garoppa, Caterina de Pravo”. Seguono le altre sei i cui nomi sono: “Caterina Biasela, Domenica Bollasca, Caterina Nasona, Caterina Mascietta, Nisola Pedrazza, Caterina Bolla”. Per il Prevosto Quattrino si veda a p. 22-23 del presente lavoro.

 

[226] I loro nomi: “Antonia Morella, Madallena Belotta, Domenica Pedranda, Caterina et Ursina de Bassoti, Gioanina Nicola, Dominica Tognetta, Madallena Bocheta, Caterina Garleta, Agata Maceta, Nisola Malagigi, Margarita Melita, Ursina et Henrico Pravi, Maffia Gera, Dominica Gasoppa”.

[227] I 56 sospettati erano i seguenti: “Maffia et Nicola de Rivio, Caterina et Gioanina de Tognallo, Caterina de Togni, Gioanina Tina, Ursina Danza, Caterina Tiocha, Hinina et Antonia de Pravo, Pietro et Gioanni de Togni, Gioanni Comascio, Beltramo Travia, Tomaso Pizzona, Domenica Julina, Ursina et Gioani del Truso, Ursina Mascieta, Margarita Simoneta, Giovanni Cabiollo, Gioanina de Togni, Maddalena de Tinti, Ursina et Margarita de Togneti, Pietro et Dominica et Maffia de Togneti, Domenica Tadea, Giulio Buslono, Maffia Stefanona, Maffia Righeta, Ursina Garleta, Petroluno de Beffeno, Domenico Trusso, Gioanina Bassolla, Gioanina Masceta, Simoni de Simoneti, Dominica Margotia, Maffiera de Megno, Caterina di Gianino, Maffia Buscona, Dominia Morellina, Madallena Toppa, Caterina Nottona, Meneghina de Tartaini, Vanina de Pravo, Madallena Barbera, Dominica et Dominico Moreli, Giacomo Trusso, Georgio Trusso, Gioanni Gero, Himina et Agostino de Simoneti, Dominica stolta”.

[228] Riportiamo i loro nomi: “Dominica Guglielmazza, Margarita Villana, Caterina de Scerro, Margarita de Gianello, Stefana Bollasca, Antonio de Pravo, Gioanina Callasia, Margarita Masceta, Gioanina et Ursina de Andrioli, Gioanina et Antonio de Pravo, Maria de Tinti, Caterina Trussa”.

[229] I liberati per l’età erano: “Angela Morina, Caterina Labertalla, Caterina Berlenga, Giacomo Giappino, Domenico Friollo, Madalena et Gioanona de Albertalli”.

[230] “Domenico Pravo, Tadeo et Dominica de Rorré (di Roveredo), Tullio Togneta, Margarita Rigazza”.

[231] In una minuta di lettera del Borromeo datata 4 luglio 1584 e diretta allo Speciano troviamo che: “…mi viene scritto ultimamente dalla Valle Mesolcina che in Musocho…” tra i comvertiti si trova Samuele eretico e figlio del Trontano. B. A., Ms. P 24 inf. (II), c. 449r.

[232] Cfr. B. A., Ms. F 166, c. 524v. e 532v. R. Boldini, Documenti intorno… cit., pp. 73-75.

[233] Cfr. http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/storia/?unita =03.05)>

[234] B. A., Ms. F 69 inf., c. 329r.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo…cit., p. 357.

[235] F. D. Vieli, Storia… cit., p. 153.

[236] Cfr. http://mobile.hls-dhs-dss.ch/m.php?article=l11450.php ; si veda anche F. D. Vieli, Storia… cit., p. 162.

[237] A. Borromeo, L’opposizione all’eresia… cit., (Sur l’apothéose du cardinal Boromé in A. D’Aubigné, Oeuvres a cura di H. Weber, Paris 1970, ( Collection la Pléiade), p. 343) << Se occorreva, con la perfidia/ Fare la guerra all’eresia/ Dispensare da un giuramento pronunciato/ E fare cadere nella trappola/ Coloro che non adoravano la Santa Sede/ Si faceva ricorso a San Borromeo>>.

 

[238] Scipione Rebiba nacque a San Marco d’Alunzio (Messina) nel 1504, da Francesco e dalla nobildonna Antonia Filingeri dei conti di San Marco. A Palermo compì studi giuridici e si laureò in “utroque iure”; tra il 1536 e il 1537 si recò a Roma, dopo avere preso gli ordini maggiori; la sua carriera ecclesiastica si svolse sotto la protezione di Gian Pietro Carafa, fondatore dei teatini e Cardinale dal 1536. Dopo essere nominato vescovo in più sedi, Rebiba fece ritorno alla Curia, dove fu creato Protonotario apostolico, ad altre prestigiose nomine si affiancò anche quella di Ministro delegato del Santo Uffizio romano a Napoli. In questi anni il Cardinale Carafa era diventato molto potente come cardinale della Congregazione dell’Inquisizione, fondata nel 1542 e nelle sue mani il Santo Uffizio divenne uno straordinario strumento per la repressione dell’eresia e delle posizioni di dissenso interne alla Chiesa. A Napoli Rebiba fece una spietata campagna antiereticale contro i seguaci di Juan de Valdés, che, dopo la sua morte, ci fu una vasta diffusione delle dottrine valdesiane, già condannate dal Santo Uffizio, tra personaggi dell’aristocrazia e dell’alto clero. Nel 1555 il Cardinale Carafa fu eletto papa con il nome di Paolo IV, facendo della politica dell’Inquisizione quella del papato, Rebiba fu subito chiamato a Roma, dove, nello stesso anno, fu nominato Governatore della città; qualche anno prima era stato definito da un agente di Ferrante Gonzaga una “persona temerarie senza alcun rispetto”, che “procede inconsideratamente contra ognuno”. Rebiba diresse il processo contro Giovanfrancesco Lottini, segretario del Cardinale Guido Ascanio Sforza, con lo scopo di dimostrare l’esistenza di una congiura contro il Pontefice, ordita da cardinali, aristocratici italiani, agenti asburgici agevolati da Carlo V e dal figlio Filippo. Sempre nello stesso anno Rebiba fi creato Cardinale e gli fu concesso di abitare nel palazzo apostolico; con la sua formazione giuridica fu collaboratore prezioso nella complessa politica condotta dal Carafa, coinvolgendolo nella politica antiasburgica del Pontefice. Oltre che nella sfera politico-diplomatica, Rebiba ebbe incarichi molto importanti anche dal punto di vista ecclesiastico. Il 13 aprile 1556 fu nominato Arcivescovo di Pisa, anche se Cosimo de’ Medici aspirava a tale carica per il figlio Giovanni, ad eccezione di un breve periodo di residenza il nuovo Arcivescovo governò la Chiesa pisana per mezzo di vicari, lasciò tale governo nel 1560. Nel 1556 ebbe la nomina a Cardinale del Santo Uffizio rafforzando il suo impegno nella lotta contro le eresie, Paolo IV morì nel 1559, suo successore fu Pio IV . Rebiba fu accusato di coinvolgimento nell’assassionio della moglie di Giovanni Carafa, di avere contraffatto dei brevi concernenti l’Arcivescovato di Pisa e di altri crimini che portarono, la notte del 7 febbraio 1561 al suo arresto e al carcere in Castel Sant’Angelo per quasi un anno: di fronte al Tribunale ebbe un contegno reticente e sprezzante senza mai tradire i Carafa, il 31 gennaio 1562 fu scarcerato per non luogo a procedere. Fu reintegrato ed ebbe varie cariche. Con l’elezione a papa dell’inquisitore Ghisleri nel 1566, il quale prese il nome di Poi V, fu ripresa la politica del predecessore e Rebiba tornò ad abitare nel palazzo apostolico e fu riammesso nel Santo Uffizio, dove diresse importanti processi, in cui la repressione anticlericale era accompagnata da torture, roghi e abiure. Anche con il successore di Pio V, Gregorio XIII, Rebiba godette di ampie facoltà nell’ambito del Santo Uffizio e il suo contributo lo possiamo cogliere nelle lettere con le quali guidò l’azione repressiva dei vescovi e dei nunzi. Scipione Rebiba morì a Roma il 23 luglio soffocato da un boccone di cibo durante il pasto, fu sepolto nella chiesa teatina di San Silvestro al Quirinale. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/scipione-rebiba_%28Dizionario-Biografico%29

[239] Per Giacomo Savelli si rimanda alla nota n. 104 del presente lavoro.

[240] B. A., Ms. 23 inf., c. 228r.; A. Borromeo, L’opposizione all’eresia. Apostolo e “genio” pratico della riforma, in “Il grande Borromeo tra storia e fede”, Milano 1984, pp. 223-255.

[241] Cfr. A. Borromeo, L’opposizione all’eresia. Apostolo e “genio” pratico della riforma, in “Il grande Borromeo tra storia e fede”, Milano 1984, pp. 223-255.

 

 

 

 

 

 

RAFFAELLO: INTERPRETE DEL CONNUBIO TRA IL BELLO DI NATURA E IL BELLO ARTISTICO

di Loredana Fabbri

 “Il pittore ha l’obbligo di fare le cose non come le fa la natura, ma come ella le dovrebbe fare”

                                                                                                                              (Raffaello Sanzio)

 

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                                                                                                       “Raffaello è sempre riuscito a fare quello

                                                                                                              che gli altri vagheggiavano di fare”

                                                                                                                                 (W. Goethe)

Cosimo de’ Medici governa Firenze per trent’anni, fino alla sua morte avvenuta nel 1464. La forma di governo è la repubblica ed egli non assume titoli particolari, ostenta una vita da privato cittadino, ma si comporta chiaramente da “signore”, amministrando il potere coadiuvato da uomini a lui fedeli, trattando da pari a pari con principi italiani e stranieri, facendosi protettore delle lettere e delle arti e nel 1439 il suo prestigio è accresciuto da un eclatante successo diplomatico: lo spostamento da Ferrara a Firenze del Concilio che doveva sancire la riunificazione delle Chiese d’Occidente e d’Oriente. Cosimo è molto abile, sa agire con razionalità, saggezza e moderazione, ma il suo modo di vivere non è più quello di un mercante: riceve ed è ricevuto da principi e imperatori, organizza giochi e tornei in cui la nuova aristocrazia si mette in mostra, anche gli eventi familiari diventano occasione per fare sfoggio di grandi sfarzi.

Già nella prima metà del XV secolo, Firenze è una città ricca e politicamente potente ed è in questo clima che la cultura assume un importante ruolo politico e ideologico: Coluccio Salutati e Leonardo Bruni ricoprono per decenni la carica di cancellieri del Comune di Firenze e a loro è affidata la divulgazione del prestigio di questa città ad un pubblico colto, ma l’arte, come forma di comunicazione sociale, aveva la possibilità di raggiungere un pubblico più vasto, motivando la ripresa di investimenti pubblici nell’ambito artistico, che nella città medicea risultano moltiplicati già alla fine del Trecento, fornendo, in molti casi, l’opportunità per il manifestarsi di quella grande rivoluzione artistica che fu il Rinascimento.

Nei trattati sulla pittura, l’architettura e la scultura, Leon Battista Alberti sostiene che l’artista medievale era responsabile solo dell’esecuzione dell’opera, poiché i contenuti gli erano imposti; ora, invece, deve trovarli e definirli, in quanto è proprio l’artista che determina autonomamente l’orientamento ideologico e culturale del proprio lavoro: l’arte non è più un’attività manuale (mechanica), ma intellettuale (liberalis); la forma non è più semplicemente un’esposizione o trasposizione in figura, ma possiede un suo intrinseco contenuto e questo contenuto che si manifesta e si realizza nella forma che cosa è se non la realtà? L’arte, quindi, diventa un processo di conoscenza finalizzato non tanto alla conoscenza della cosa quanto alla conoscenza dell’intelletto umano, alla facoltà di conoscere.[1]

Complessivamente il Quattrocento è, per l’Italia, un periodo di pace: non si verificano invadenze straniere, ingerenze politiche di potenze europee, ma alla fine di questo secolo, nel 1494, dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, il re di Francia Carlo VIII scende in Italia con il suo esercito per conquistare il Regno di Napoli. Piero de’ Medici, figlio e successore di Lorenzo, si sottomette al re francese e gli cede Pisa, ma la reazione popolare determina la fine del regime mediceo: Piero viene cacciato da Firenze, dove si instaura un nuovo governo, rappresentativo di tutti i ceti sociali, di cui il massimo organo legislativo è il Gran Consiglio, che si riunisce in una sala del Palazzo della Signoria e comprende tremila membri, ossia un quinto della popolazione maschile adulta della città. A dominare i primi anni della nuova Repubblica fiorentina è un frate, priore del convento di San Marco: Girolamo Savonarola, il quale sa suscitare grandi entusiasmi, ma anche incertezze e crisi nelle folle. Il suo progetto è quello di fare di Firenze la nuova Gerusalemme, in contrapposizione alla ricca e corrotta Roma dei papi, egli condanna il lusso, il decadimento dei costumi, la corruzione nella cultura e nell’arte, che hanno traviato gli uomini dall’autentico Cristianesimo. Savonarola finisce sul rogo nel 1498 e con lui si chiude la stagione culturale ed artistica dell’Umanesimo, spalancando la porta alla nuova cultura del tormentato Rinascimento cinquecentesco.

I primi decenni del Cinquecento vedono un’Italia che è ancora uno dei paesi più fiorenti e ricchi d’Europa, con città e corti che sono centri di cultura, dove la vita artistica e il sapere sono all’avanguardia, ma l’effettiva debolezza politica e militare degli stati regionali la rendono facile ed ambita preda delle nuove potenze nazionali e di quella imperiale, la penisola resterà sostanzialmente esclusa dalle grandi novità del secolo: la Riforma protestante, l’espansione dei commerci atlantici, le conquiste extracontinentali, tutto ciò determinerà una marginalità sia rispetto ai centri politici decisionali sia ai mutamenti sociali e culturali europei.

Il Cinquecento è un secolo drammatico e pieno di contrasti, in cui si assiste alla mutazione dei valori religiosi, politici, filosofici, scientifici e artistici, dai quali scaturiranno le idee su cui si fonderà la struttura culturale dell’Europa moderna. L’arte non è più osservazione e riproduzione dell’ordine del creato, ma ansiosa ricerca della propria natura, della ragion d’essere e dei propri fini: non ha più senso rappresentare nell’arte la forma dell’universo se questa è sconosciuta ed oggetto d’indagine, come non ha senso contemplare l’armonia del creato se Dio non si trova là, ma nell’interiorità dell’anima che combatte per la propria salvezza.[2]

Nell’arte, durante il XVI secolo, assistiamo da un lato all’esaltazione della grandezza e della dignità umana, ma in senso aristocratico, dall’altro al superamento delle rigide regole dell’arte quattrocentesca, attraverso nuovi ideali di nobiltà e di grazia, dando vita all’ultima fase di un percorso di ripensamento iniziato nel secolo precedente, consistente nel superamento della prospettiva prettamente geometrico-matematica, nella conquista di esatte conoscenze anatomiche, in una resa più naturalistica ed espressiva delle figure e in un rapporto più intimo e profondo con la cultura classica: l’Umanesimo comprende, dunque, il Rinascimento. Durante il Cinquecento non viene recuperata la mentalità greca, ma viene riscoperta, dando una rinnovata energia alla speculazione umana, iniziata grazie anche allo sviluppo dei mercati, all’invenzione della stampa, che agevola gli studi: l’uomo vuole conoscere sempre di più. Rinascimento, dunque, non è la rinascita contro l’inciviltà, non è la cultura contro le barbarie, il sapere contro l’ignoranza, ma nascita di un’altra civiltà, di un’altra cultura, di un altro sapere. [3]

Anche in campo artistico il legame con l’antichità fu basilare: attraverso il linguaggio dell’arte antica, gli artisti prendevano polemicamente le distanze dal mondo medievale e riproponevano la dignità dell’uomo e la sua centralità nel creato e nella storia, coniugando, come sosteneva Machiavelli, “una continua lezione delle cose antique” con “una lunga esperienza delle moderne”. Si cominciava, comunque, ad avere un nuovo rapporto con la natura, un modo nuovo di guardare, rappresentare e interpretare la realtà: gli artisti del Rinascimento furono grandi cultori dell’antichità, ma furono anche acuti indagatori della natura, scienziati, matematici e tecnici. Questo rinnovamento esistenziale viene individuato nel “ritorno al principio”, concetto prettamente religioso: il principio è Dio e il ritorno a Dio è il compimento del destino umano, che consiste nel ripercorrere inversamente il processo emanativo, per il quale gli uomini si sono allontanati da Dio e nel ritornare a Lui, ma nel Rinascimento il ritorno al principio assume un significato storico e umano, secondo il quale il principio cui si deve ritornare consiste in una specifica situazione del passato della civiltà e la grandiosa arte di questo periodo, ha come emblema questo ritorno alla natura, che intende rappresentare ed esprimere nella sua forma più autentica, al di là delle immagini astratte e convenzionali dell’arte medievale, quindi il riconoscimento di Dio non esclude tuttavia lo spirito prevalentemente antropocentrico, che si differenzia da quello sostanzialmente teocentrico del Medioevo.[4]

In campo artistico il Rinascimento è legato soprattutto alle maestose figure di Bramante, Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Donato Bramante fu più fedele all’esperienza reale della visione e meno persuaso della necessità di un modo matematico di concepire la prospettiva. Leonardo, allievo del Verrocchio, sviluppò un concetto dell’arte come forma di conoscenza fondata su basi scientifiche, sostituendo l’idea filosofica che l’artista dovesse imitare la natura con quella dell’indagine scientifica delle leggi di natura, indispensabili per comprenderla e ricrearla nell’opera d’arte; entrambi dettero vita ad un’arte di impronta classica che influenzò a fondo il contesto artistico lombardo, ancora molto legato alla tradizione gotica. Michelangelo Buonarroti ebbe il merito di superare l’orientamento tradizionale nei confronti dell’arte antica, cercando di riflettere consapevolmente sui modelli classici deducendo dal loro studio la premessa necessaria a quella rinascita degli ideali del mondo antico che l’Umanesimo si proponeva. Il quarto grande protagonista del Rinascimento fu Raffaello Sanzio, il quale, molto giovane, si trasferì a Firenze per studiare l’arte toscana, prima di andare a Roma; fu molto influenzato da Leonardo e da Michelangelo, specialmente nella composizione piramidale dei dipinti leonardeschi e nell’arte del ritratto, in cui Raffaello primeggiò, avvolgendo il soggetto nel paesaggio circostante.

La vita dell’Urbinate è molto conosciuta, ma alcuni fatti, anche se noti, vale la pena ricordali: come morì Raffaello? Cosa sappiamo di vero sulla sua sepoltura nel Pantheon?

Secondo le innumerevoli biografie egli si era ammalato circa quindici giorni prima della morte, con febbri molto alte, quindi gli vennero praticati dei salassi, come era usanza dei tempi per ogni tipo di patologia, queste febbri, secondo alcuni, erano causate da esagerati sforzi amorosi, forse un modo di dire diplomatico per menzionare una malattia venerea, vista la sua nomea di libertino; altri invece sostenevano che fosse affetto dalla malaria, o da un colpo di freddo, o ancora dal troppo lavoro, fu ipotizzato anche l’avvelenamento, la peste  e l’utilizzo di pigmenti tossici. Fu anche detto che il medico di Leone X andò dal malato solo in punto di morte, cosa poco probabile vista l’amicizia, almeno apparente, che c’era tra l’artista e il Papa, il quale sembra che sia stato a trovarlo circa sei volte durante i quindici giorni di malattia. Ma la vera causa della morte di Raffaello rimane sconosciuta e sembra incredibile che un uomo così amato e stimato da tutti non sia stato sottoposto ad accurate visite mediche e siano stati sottovalutati i sintomi che manifestava, anche se non è conosciuto il suo stato di salute prima della morte.

Una cosa molto strana, per il suo tempo, fu che non gli venne fatta nessuna maschera funeraria e ancora più strano il fatto che non esista nessun oggetto personale, nemmeno la sua corrispondenza, ad eccezione di qualche dubbia lettera, come vedremo più avanti. Sembra che un certo notaio Apocelli, forse Johannes Jacobus Apocellus, operante a Roma dal 1518, abbia raccolto le sue volontà, che videro quasi unico erede Giulio Romano, suo migliore allievo, ad eccezione di alcuni lasciti ad altre persone e, del suo patrimonio, ammontante a sedicimila ducati, destinò mille scudi per la manutenzione del Pantheon, dove desiderava essere sepolto, così sostiene il Vasari, ma di questo testamento non si conserva traccia.[5]

Raffaello muore a Roma il Venerdì Santo 6 aprile 1520, a soli trentasette anni, era nato ad Urbino il 6 aprile del 1483, giorno del Venerdì Santo, alle tre di notte iniziava la sua breve vicenda terrena, così intensa e eccezionale da essere considerata leggenda, coincidenze che troviamo negli scritti del Vasari, il quale farà coincidere perfino l’ora dei due avvenimenti, le tre di notte; da queste date discordano la maggior parte degli studiosi. Il Sanzio  viene sepolto nel Pantheon, dove troviamo l’epitaffio scritto da Pietro Bembo: “Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori” (Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’esser vinta, ora che egli è morto, teme di morire), secondo alcuni studiosi, in quel periodo il Bembo non si trovava a Roma, quindi è poco probabile che lo abbia composto questo scrittore. L’epitaffio originale fu tolto nel 1820 e distrutto due anni dopo per ordine del Papa: Perché? Anche su questa iscrizione spira aria di mistero?

Nel 1833, il Professor Giuseppe Del Chiappa[6] scrive una lunga lettera a Defendente Sacchi[7]  “Sullo scoprimento delle ceneri di Raffaello Sanzio”, il quale si trovava a Roma proprio in quei giorni, infatti egli racconta che dopo poco il suo arrivo nella Città eterna, si sparse la voce che fossero stati ritrovati i resti del grande artista e lui poté assistere a questo avvenimento e descriverlo nei suoi particolari.

I motivi che indussero a cercare le spoglie di Raffaello furono sostanzialmente di natura economica: sia da parte del Vaticano sia da parte dei collezionisti che volevano potenziare il valore e commercializzare le opere dell’artista.

Il 9 settembre la Congregazione <<detta de’ virtuosi del Panteon sotto l’invocazione di San Giuseppe di Terra santa, la quale è composta di soli artisti, inviata dal suo degno reggente il cav. Fabris in cospirazione del capitolo de’ canonici dello stesso, cioè di S. M. della Rotonda, e coll’assenzo del Governo>>[8] iniziava le indagini per il ritrovamento dei resti di Raffaello per collocarli in luogo degno dell’artista. Dai documenti, continua la relazione, era noto che il corpo era stato tumulato sotto l’altare della Madonna del Sasso nel Panteon (chiesa di Santa Maria della Rotonda), per suo volere come da testamento. Appena iniziati gli scavi furono trovate delle ossa non appartenenti a Raffaello, ma a vari santi e martiri, quindi lo scavo continuò <<…e dentro un arco chiuso a sassi legati a cala, e posto in fondo all’altare istesso e immediatamente sotto il ceppo della statua della Madonna, ne si parve finalmente il deposito dell’Urbinate. E questo memorabile scoprimento avvenne il dì 14 del corrente al mezzodì in punto, e due ore dipoi ne apparve lo scheletro col suo teschio…>>. Smentendo in tal modo la credenza, durata moltissimi anni, che il teschio conservato all’Accademia di San Luca fosse quello di Raffaello. Del Chiappa continua dicendo che tale equivoco nacque perché il noto pittore Carlo Maratta, 153 anni dopo la morte dell’urbinate, gli eresse un busto e, cominciò a circolare la voce che egli avesse anche dissotterrata la testa, che fu tenuta come una preziosa reliquia, <<Né importa che io qui ti discorra del lucro che se ne ritrasse, mentre tutti volevano di quel teschio un gesso, e ne andarono infiniti per l’Europa […] E i giovani artisti ponevano le matite e i pennellini su quel teschio ond’ispirarsi, e levarsi al bello ideale, al bello pittorico raffaellesco>>.[9] In realtà la testa apparteneva, come sostiene Del Chiappa, a un uomo degnissimo, ma era ben altro che il grande artista. I resti di Raffaello, ridotti a mero scheletro, erano chiusi in un una cassa di abete, che sia per l’umidità sia per 313 anni che si trovava in quel luogo, era quasi del tutto distrutta. Lo scheletro giaceva con le mani giunte ed incrociate sul petto, la testa era un poco rialzata, le mascelle avevano ancora con tutti i denti. I resti vennero puliti dalla patina che li ricopriva e dall’argilla depositata dalle inondazioni del Tevere, penetrate dentro alla tomba. <<Né qui mi piace di lamentare e quasi riprendere la trascuranza o poca sollecitudine o provvidenza di quei che ne tumularono le ossa, vale a dire del non aver collocato il suo corpo in un’urna marmorea onde fosse al coperto dalle ingiurie del luogo e degli anni>>,[10] il narratore esprime con queste ed altre parole lo sdegno per una sepoltura non degna del personaggio: dentro la cassa non fu messo nessun indizio (pergamena, medaglia etc.) che indicasse l’identità del defunto, la quale, dopo accurati esami, non fu messa in dubbio: <<Egli è di certezza morale che sia desso, perocché tutte cospirano le circostanze del luogo e della figura dello scheletro e dell’età di esso, e le iscrizioni che sono fuori, e quella di Maria Bibbiena già stata sposa a Raffaello; colla quale però egli non giacque pur mai mentre visse, e che essa pur volle essere posta appresso lui morta, dappoiché non le fu dato di starvi viva…>>.[11] Maria Antonietta Bibbiena, nipote del Cardinale di Bibbiena, Camerlengo di Leone X dei Medici, promessa sposa di Raffaello, non fu mai sua sposa e il suo desiderio di essere sepolta accanto a lui appare piuttosto strano, perché la donna morì vari anni prima dell’urbinate

Intorno allo scheletro furono trovati dei tubetti di ottone cilindrici, che furono individuati come rinforzi per stringhe che servivano per allacciare gli abiti, sotto ai resti fu trovata una “stelletta” d’acciaio, che, da alcuni, fu creduta un oggetto facente parte del distintivo dei cubiculari, camerieri segreti del Papa e Raffaello fu cubiculare di Leone X; altri invece lo definirono un pezzo del fermaglio con cui il pittore teneva la tunica che indossava.[12] Tutto questo avvenne con la massima cautela: tutte le porte chiuse ad eccezione di quella laterale e segreta del tempio, vigilata giorno e notte dalle guardie svizzere, i rogiti fatti da pubblico notaio, le varie tappe del ritrovamento immortalate dai disegni di Vincenzo  Camuccini.[13]

Del Chiappa continua dicendo che il luogo verrà inizialmente protetto con una sbarra per tenere a distanza la folla che vorrà visitare e rendere omaggio a una simile personalità, in seguito, le ossa verranno poste in un’urna di marmo e lasciate nello stesso luogo, che era quello desiderato dallo stesso Raffaello.

Questa non fu l’unica relazione, ma molte altre cronache attestarono l’esumazione del 1833, ognuna con particolari discordanti dalle altre, che dettero e danno tutt’oggi adito a molti misteri sia sulla morte sia sui resti di Raffaello.

Molto interessante per conoscere alcuni aspetti della già celeberrima vita dell’Urbinate sono le famose sette lettere e i sei sonetti che restano degli scritti attribuiti a Raffaello, anche se alcuni di questi testi sono considerati estranei alla sua produzione letteraria, mentre altri contengono solamente i concetti, in quanto la forma è stata attribuita a scrittori come il Castiglione o il Bembo, suoi amici nel periodo che l’artista visse a Roma, il paragone con quelle scritte dal Sanzio non lascia dubbi, anche se si può notare un continuo miglioramento culturale rispetto ai suoi primo scritti. Nonostante privi d’interesse letterario, questi scritti hanno un notevole valore documentario, specialmente la lettera a Leone X, nella quale troviamo << talune idee che dovettero esser correnti in un periodo densissimo di fatti capitali per l’arte>>, gli altri riportano notizie sulle opere compiute o in programma dello stesso Raffaello, su avvenimenti o persone, che li rendono interessanti e preziose non solo per le notizie, ma soprattutto per la personalità dell’autore.[14]

Le composizioni poetiche non meritano certamente gli elogi della sua arte pittorica, ma valgono la pena di essere maggiormente conosciute.

Nella prima lettera, un promemoria per “Meneco”, ossia Domenico Alfani, pittore e amico di Raffaello, si può notare, nonostante le varie correzioni, specialmente le erronee unioni di più parole, la modesta preparazione letteraria del giovane artista.[15]

Importante per le notizie circa la vita e l’attività dell’artista è la prima lettera allo zio “Simone de Batista di Ciarla da Urbino, “Carissimo quanto patre”, fratello di Magia, madre dell’artista, scritta da Firenze il 21 aprile 1508, anche questa lettera dimostra la mediocre preparazione letteraria del Sanzio, ma è importante per le varie notizie intorno alla vita e all’attività dell’artista: <<Averia caro se fosse possibile d’avere una letera di recomandazione al gonfalonero di Fiorenza dal signor prefetto […] me faria grande utilo per l’interesse de una certa stanza da lavorare, la quale toca a Sua Signoria de alocare…>>.[16] Si tratta del Confaloniere Pier Soderini, al quale Raffaello era già stato raccomandato nel 1504 al suo arrivo a Firenze, il lavoro da assegnare era forse la Sala del Consiglio in Palazzo Vecchio, di cui una parte doveva essere affrescata da Leonardo, che però vi aveva rinunciato e lasciato la città; la data della lettera dimostra che il 21 aprile 1508 Raffaello si trovava ancora a Firenze. Mentre nella lettera successiva, indirizzata al “Francia”, Francesco Raibolini, pittore bolognese e datata 5 settembre dello stesso anno, l’artista si trovava a Roma. L’autenticità della missiva è sempre stata messa in dubbio: sembra poco probabile che a distanza di poco più di quattro mesi, che la separano dalla precedente, l’artista fosse sovraccarico di lavori in Roma da dover ricorrere ai collaboratori per eseguire il ritratto commissionato dal destinatario, il quale aveva mandato a Raffaello un suo autoritratto come modello, di cui si parla nella lettera: << …pregovi a compatirmi, e perdonarmi la dilazione e longhezza del mio che, per le gravi e incessanti occupazioni, non ho potuto sin ora fare di mia mano, ché ve l’avrei mandato fatto da qualche mio giovine, e da me ritocco, che non si conviene…>>.[17]

La lettera a Baldassarre Castiglione, senza firma e senza data, è probabilmente una copia, l’originale andò perduto, riferibile al 1514 circa, lo stile, molto più elevato delle altre, ha fatto supporre agli studiosi che Raffaello l’abbia dettata a Pietro Aretino, che però è incerta la sua presenza in quel periodo a Roma, o a Pietro Bembo, molto amico dell’artista. Nella lettera troviamo una possibile allusione alla Stanza Vaticana dell’”Incendio del Borgo”, affrescata dal 1514 al 1517 e alla nomina di Architetto di San Pietro del 1° aprile 1514: <<Nostro Signore con l’onorarmi m’ha messo un gran peso sopra le spalle. Questo è la cura della fabrica di San Pietro. Spero bene di non cadervici sotto…>>.[18]

Molte le notizie che possiamo trovare nella seconda lettera allo zio, “carissimo in locho de patre”, scritta il 1° di luglio 1514, in cui lo informa sui nuovi e redditizi incarichi affidatigli da Leone X: <<…ché fin in questo dì mi trovo avere roba in Roma per tre mila ducati d’oro, e d’entrata cinquanta scudi d’oro, perché la Santità di nostro signore mi ha dato perché io attenda alla fabbrica di San Petro trecento scudi d’oro di provisione, li quali non mi sono mai per mancare sinché vivo, e son certo averne degl’altri, e poi sono pagato di quello [che] io lavoro quanto mi pare a me, e ho un’altra stanza per Sua Santità a dipingere, che montarà mille duecento ducati d’oro…>>.[19] La Stanza che il Papa gli ha dato l’incarico di affrescare è sicuramente identificabile con quella dell’”Incendio del Borgo”, perché la precedente, quella di Eliodoro era già ultimata, anche se da poco tempo e il 1° agosto 1514 l’artista riceveva il saldo dei pagamenti. Raffaello comunica allo zio, tra le altre cose, che Bernardo Dovizi Bibbiena, Cardinale di Santa Maria in Portico gli aveva offerto in sposa la propria nipote Maria Bibbiena, la quale sarebbe morta prima dell’Urbinate: <<Sono uscito da proposito della moglie; ma, per ritornare, vi rispondo che voi sapete che Santa Maria in Portico me vòl dare una sua parente, e con licenza del zio prete e vostra li promesi di fare quanto Sua reverendissima Signoria voleva; non posso mancar di fede: simo più che mai alle strette, e presto vi avviserò del tutto; abiate pazienza che questa cosa si risolva così bona, e poi farò – non si facendo questa – quello [che]voi vorite; e sapia che se Francesco Buffa ha delli partiti, che ancor io ne ho, ch’io trovo una mamola bella, secondo [che] ho inteso, di bonissima fama lei e li loro, che mi vòl dare tre mila scudi d’oro in docta, e sono in casa in Roma, che vale più cento ducati qui, che duecento là: siatene certo>>.[20] E’ da notare lo spirito pratico di Raffaello, completamente privo di ogni forma di romanticismo sia per quanto riguarda il matrimonio con Maria Bibbiena sia per quello proposto dallo zio, ed è probabilmente questo senso pratico che gli permette di gestire proficuamente le sue botteghe e un gran numero di allievi, di cui parleremo più avanti.[21] Secondo Vasari l’artista avrebbe indugiato ad accettare un matrimonio così prestigioso perché Leone X gli avrebbe prospettato la possibilità di una nomina cardinalizia.[22] La lettera continua dicendo che egli deve stare a Roma per attendere alla Fabbrica di San Pietro <<…ché sono in loco di Bramante, ma qual loco è più degno al mondo di Roma? Qual impresa è più degna di San Petro, ch’è il primo tempio del mondo? E che questa è la più gran fabrica che si sia mai vista, che monterà più d’un milione d’oro; e sappiate che ‘l papa ha deputato di spendere sessantamila ducati l’anno per questa fabrica, e non pensa mai altro>>.[23] Giulio II affianca Raffaello, per questo lavoro, ad un personaggio notissimo, ma molto anziano: Giovanni Giocondo da Verona, il quale possedeva una cultura enciclopedica: latinista, grecista, botanico, architetto, epigrafista,  il 1° novembre 1513 fu nominato architetto di San Pietro e nel giugno dell’anno successivo, quando arrivò a Roma, Leone X gli assegnò la posizione principale nella Fabbrica di San Pietro, come successore del defunto Bramante, probabilmente per la sua notorietà come grande ingegnere, infatti ogni giorno il Papa si riuniva con entrambi gli artisti per discutere sulla nuova costruzione e sempre prevalsero le scelte di fra Giocondo. Durante l’anno passato insieme, Raffaello cercò di apprendere i segreti dell’architettura dell’anziano frate e di fare tesoro delle sue esperienze; fra Giocondo morì il 1° luglio 1515.[24] Questa lettera testimonia, oltre a notizie importanti anche alcuni progressi nella scrittura compiuti dall’artista durante il suo soggiorno a Roma, nonostante il persistere di forme dialettali, errori grammaticali e di sintassi.

La sesta lettera è indirizzata a Fabio Calvo,[25] umanista e amico di Raffaello, in cui l’artista lo ringrazia per avergli inviato la traduzione in italiano del “De Architectura” di Vitruvio e promette di preparare le illustrazioni, ciò significa che da agosto 1514 egli è interessato al trattato di Vitruvio e non conoscendo il latino si avvale di questa versione. Migliorata la grammatica e la sintassi, ma non da tutti gli studiosi questa lettera fu ritenuta autentica.

Il 1° agosto 1514 venne ufficializzata la nomina fatta da Leone X a Raffaello come architetto della Fabbrica di S. Pietro, carica già ottenuta “de facto” a partire dal 1° aprile a seguito della presentazione di un proprio modello per la nuova basilica. Pochi giorni dopo, il 27 agosto, il Pontefice nominò Raffaello, tramite un breve redatto da Pietro Bembo, “Praefectus marmorum et lapidum omnium”, non solo di tutti i marmi e le lapidi scavati a Roma, ma anche entro un raggio di dodici miglia dalla città, per rifornire di materiali la Fabbrica di S. Pietro, richiedendo che ogni antica iscrizione venisse sottoposta all’Urbinate prima dell’eventuale riutilizzo, con lo scopo di rivalutarne l’importanza per lo studio della letteratura e della lingua latina.

Nell’autunno del 1519, l’Urbinate inviò la famosissima lettera a Leone X, aiutato nella stesura da Baldassarre Castiglione: incaricato dal destinatario di studiare il territorio di Roma in relazione alle sue rovine per eseguire la pianta dell’antica Roma imperiale, la missiva è un allegato alla raccolta di disegni, in cui l’artista, anche se nella retorica intonazione del dettato, deplora le preoccupanti condizioni delle strutture esposte a secoli di incuria e alla razzia dei materiali, di cui si era fatto riuso durante il Medioevo. Raffaello espone, non senza sfoggio di erudizione,[26]il metodo adottato per distinguere le strutture del periodo imperiale da quelle posteriori e i principi e le idee che hanno portato a tale opera; descrive poi le modalità tecniche usate in questo importante lavoro di ricognizione.

Dal punto di vista del contenuto si possono distinguere tre parti: la prima, introduttiva, è inerente alle “reliquie” di Roma e all’opportunità di salvaguardarle, quindi viene enunciato lo scopo culturale del lavoro; la seconda parte costituisce un’ecfrasi storico-architettonica, dall’epoca romana ai tempi in cui vive l’artista: molto importante è il passo dove viene spiegata la scomparsa dell’arte classica, non solo causata dai fatti storici, come le invasioni barbariche, ma soprattutto dall’incuria e dall’ottusità degli uomini ed anche dai precedenti pontefici, che hanno utilizzato i monumenti antichi come giacimenti di materiale e le statue di marmo come calcina.[27]

Quando nel 1515 Raffaello viene nominato Prefetto alle antichità di Roma, da papa Leone X, non esisteva il concetto di conservazione e tutela dei monumenti antichi, ma con il suddetto incarico, l’Urbinate si trova nella necessità di codificare un enorme patrimonio disperso per vari motivi, come possiamo capire da quello che scrive, e non certamente classificato, quindi egli gode anche fama di grande studioso di architettura e di conservatore dei beni architettonici del suo tempo.

Tra la perfezione dell’epoca classica e quella dei “barbari”, l’età moderna, legata allo studio e all’imitazione di quel mondo perduto, si poteva considerare in una posizione intermedia, mostrando come Raffaello aveva chiaro il concetto di “Rinascita”, basata sull’assimilazione dell’arte antica come archetipo prezioso.

La terza parte della lettera si riferisce ai lavori pratici di rilievo grafico-strutturale degli edifici antichi, quindi ha un tenore prevalentemente tecnico. Il disegno di tutti gli edifici, diviso in tre parti: la pianta, l’esterno, l’interno con le loro decorazioni, deve seguire regole ben precise, fino a parlare di teoria di architettura generale.

L’importanza della lettera è sottolineata anche da Baldassarre Castiglione nell’epigramma composto in occasione della morte del Divino pittore: <<Mentre tu con mirabile ingegno ricomponevi Roma tutta dilaniata e restituivi a vita e all’antico decoro il cadavere dell’Urbe lacero per ferro, per fuoco e per il tempo, destasti l’invidia degli Dei; e la morte si sdegnò che tu sapessi rendere l’anima agli estinti, e che tu rinnovassi, spezzando le leggi del destino, quando era stato a poco a poco distrutto>>. Essa è importante anche perché rappresenta una delle ultime testimonianze dell’artista, che, purtroppo, morì dopo pochi mesi, anche se la possibilità che Raffaello fosse l’ispiratore di questa lettera fu messa molte volte in dubbio dagli studiosi, comunque sia, riflette la mentalità della società romana al tempo di Leone X e vi si può cogliere sia l’accenno a quella che sarà poi la politica della tutela e l’affermazione che l’arte antica deve essere uno stimolo per i moderni per “uguagliarla et superarla”.

Raffaello, come già detto, si dilettò anche nella poesia, se pure le composizioni poetiche non occuparono certamente un posto centrale nella sua carriera artistica, ma ci mostrano come lo zoppicante illetterato del 1508, a distanza di poco tempo, abbia fatto dei passi da gigante anche nella fluttuante lingua rinascimentale ed esprimono la mentalità eclettica dell’artista.

Dei sei sonetti conosciuti (il sesto è notoriamente apocrifo), i primi cinque sono annotazioni a margine dei disegni preparatori della “Disputa del Sacramento”, affresco eseguito nel 1509 e quindi ritenuti autentici.

Il loro tema è l’amore, la passione che arde e tormenta: nel primo Raffaello si rivolge ad Amore, che lo ha “invischiato” attraverso gli occhi, il volto e la bella voce di una donna; afferma di ardere d’amore al punto che <<…né mar né fiumi spegnar potrian quel foco…>>,[28] ma ciò non gli spiace, perché ardendo si consumerà e non si sentirà più avvampare dalle fiamme; rivolgendosi poi alla donna, le ricorda quanto sia doloroso staccarsi dalle braccia candide allacciate al suo collo, quindi non aggiunge altro temendo che sul suo amore cali la morte. Nel secondo, dopo aver appurato l’incapacità di esprimere i propri sentimenti, paragonandosi a San Paolo, il quale dopo essere sceso dal cielo ed avere avuto esperienza dei misteri divini, non disse a nessuno ciò che aveva visto, si rivolge alla donna di cui è innamorato invocando il suo aiuto: << Ma pensa ch’el mio spirto a poco a poco/ el corpo lasarà, se tua mercede / socorso non li dia a tempo e loco>>.[29] Nel terzo sonetto l’artista si lamenta del distacco nell’”ora sesta”, ossia all’alba, dalla sua amata, ricordando dolcemente l’ “asalto” amoroso avvenuto tra i due amanti poco prima e il pensiero di lasciare la sua donna lo fa sentire come coloro che hanno perso la propria stella nel mare. Nel quarto l’Urbinate dichiara la sua intenzione di tenere segreto il suo amore e di non far trapelare con nessuno il suo sentimento e nel quinto, probabilmente la passione amorosa si era affievolita, perché dichiara di volersi dedicare completamente alla sua arte. Ma se leggiamo i sonetti nella seguente sequenza, possiamo seguire la nascita e la fine di un grande amore, un amore non solo “cortese”, ma anche molto carnale: il sonetto “un pensier dolce”(sonetto III) fu forse scritto dopo il primo convegno; Raffaello rievoca l’”asalto”e la separazione, il “patir”. Dice di essere stato sciocco e: <<mai mi ero ingannato a tal punto; eppure, le son grato d’avermi resistito. Era notte: tutto potevo osare, ma ansia e trepidazione mi tolsero ogni ardire>>. Il monologo prosegue in “S’a te servir”(sonetto IV): <<Se ti è parso, o dio dell’Amore, che io sdegnassi di servirti, per il modo da me tenuto in quell’occasione, tu ben ne conosci la causa pur senza che la scriva. Ero sopraffatto da te, e contro di te non esiste valido riparo>>.

La situazione appare cambiata in “Amor, tu m’envesscasti” (sonetto I). L’innamorato è ora sicuro di sé e disposto conoscere tutti i pregi della propria donna: gli occhi luminosi, il roseo volto, il “bel parlar” e il tratto delicatamente femminile. A poco a poco s’infiamma, arde, è felice, vorrebbe avvampare di nuovo: troppo soffrì a sciogliersi dalle braccia di lei e altro che tace.

Pare che la dama tema per il proprio buon nome esaudendo troppo di frequente alle richieste dell’amante e questi in “Como non podde”(sonetto II), le giura silenzio sul loro segreto. Non riferirà ciò che vide né ciò che fece, mai verrà meno al dovere della riservatezza. Certamente ella si denigra amandolo; ma egli morirà se non riceve aiuto da lei, sia pure con prudenza.

La relazione amorosa sembra non avere avuto vita lunga, un altro amore legava l’artista: quello dell’arte, alla quale egli si propone, nel V sonetto, di dedicarsi completamente, sciogliendosi dal legame che gli carpisce gli anni migliori.

Raffaello elogia l’esempio dei grandi che si affaticano a raggiungere la gloria e supplica da esso lo stimolo per risvegliare il proprio pensiero ozioso (che viene meno ai propri doveri, mancando a impegni presi) e conquistare una fama maggiore.[30]

Ma chi fu l’ispiratrice dei sonetti, ammesso che ne esistesse una? Da quasi tutti gli studiosi fu proposta la Fornarina, dopo infinite divergenze sull’identità di questa donna, la cui immagine compare nella celeberrima opera della Galleria Borghese e nella “Velata” della Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, oltre che in alcune composizioni sacre. Sembra però strano che la senese Margherita di Francesco Luti, fornaio nella contrada romana di Santa Dorotea, alias Fornarina, che nel 1517 acconsentì a posare seminuda nel ritratto e che veniva richiesta come modella anche da altri pittori, verso il 1509 pretendesse tanta riservatezza; inoltre è poco verosimile che una medesima donna mantenesse impegnato a lungo Raffaello, dal Vasari e dai contemporanei  presentato come protagonista di molteplici imprese amorose, che davano luogo a numerosi pettegolezzi, si può ipotizzare che la donna dei sonetti sia stata qualche dama appartenente ad una famiglia importante, della quale si ignora il nome; la stessa, forse, alla quale si riferisce il Vasari, ricordando come, nei primi tempi del soggiorno romano, il pittore <<…in luogo importante andava di nascosto ai suoi amori>>;[31] certamente si può escludere che la donna misteriosa sia stata Maria Bibbiena, sua promessa sposa, verso la quale l’artista forse non ebbe, come abbiamo potuto anche evincere dalla seconda lettera allo zio, pensieri così ardenti e appassionati.

Nessuno ha la certezza che Raffaello si sia rivolto ad una donna o i sonetti non siano altro che un esercizio per misurarsi con la letteratura e stare con la “moda” del tempo di scrivere componimenti di imitazione petrarchesca e infarciti con le teorie neoplatoniche di Marsilio Ficino, il quale, oltre ad avere frequenti contatti con la corte di Urbino, era il fulcro della corte Medicea. Attraverso i sonetti, l’Urbinate racconta una storia d’amore, che raggiunge il grado superiore dell’estasi passando anche dall’esperienza carnale, egli aspirava al terzo stadio dell’amore platonico, dove avviene la fusione degli spiriti, i quali hanno l’opportunità di innalzarsi fino al mondo delle idee, in tal modo la ricerca dell’amore tendeva a uno stato di grazia, in grado di trasportare l’anima ad una spiritualità più alta, consentendo il passaggio ad un mondo superiore (come a Dante e a Petrarca), da cui si poteva osservare la realtà nei suoi tratti essenziali e nei suoi valori fondamentali. In Raffaello questo rapimento amoroso è il punto di partenza per raggiungere la fusione dello spirito, non escludendo l’implicazione sensuale e carnale, seguendo un culto neoplatonico che troviamo nella filosofia di Marsilio Ficino, di cui l’artista conosceva certamente il pensiero. Ficino aveva distinto quattro stadi, in cui l’anima percorreva una discesa, allontanandosi dalla verità di Dio, con la conseguente perdita di una visione illuminata e illuminante della realtà (prigionia dell’anima). La salvezza avviene attraverso il “furore divino”, ossia il percorso inverso al primo, dove il primo gradino è formato dal furore poetico, sotto l’egida delle Muse, che risveglia l’anima e ne elimina i disturbi; il secondo è quello misterico, salvaguardato da Bacco e reso sostanziale dall’orfismo, dove avvengono sacrifici e purificazioni, atti ad eliminare il caos che ha disorientato l’uomo dall’ascesi spirituale e dalla conseguente conoscenza; il terzo è il furore della divinazione privilegiato da Apollo, esso consente all’anima di accedere sopra della sfera della razionalità, arrivando a possibilità di divinazione e chiaroveggenza; il quarto è l’affetto d’amore, ossia il più nobile e potente, di cui tutti gli altri gradi hanno necessariamente bisogno. Raffaello cerca di percorrere la risalita attraverso il rapimento amoroso, non separato dall’amore carnale, per arrivare alla verità rivelata.[32]Così scriveva l’artista: <<La Bellezza è la linfa che ha reso viva la mia arte, ma si è rivelata anche la mia unica e grande debolezza. La natura mi ha voluto sensibile alle virtù femminili, non ho saputo resistere ai diletti carnali, mi sono fatto incantare da molte donne; non di meno, conosco l’Amore vero…>>.

<<Nacque adunque Raffaello in Urbino, città notissima in Italia, l’anno MCCCCLXXXIII, in Venerdì Santo, a ore tre di notte, da un tale Giovanni de’ Santi, pittore non meno eccellente, ma sì ben uomo di buono ingegno, e atto a indirizzare i figli per quella buona via, che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua bellissima gioventù>>.[33] Con queste parole Giorgio Vasari ci annuncia la nascita di Raffaello: nell’anno 1483 la Pasqua cadeva il giorno 30 marzo, ma se veramente era nato il Venerdì Santo doveva essere il 26 o il 28 secondo che il computo venga fatto basandosi sulle tavole astronomiche dell’anno 1483 o su quelle del Calendario Giuliano. Lo scrittore fece anche coincidere l’ora della morte con quella della nascita: le tre di notte del 6 aprile 1520. Raffaello lavorava alla “Trasfigurazione” quando si ammalò, e la tavola incompiuta fu posta a capo del letto funebre, <<la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore>>.[34] Ma quanto è attendibile la biografia del Vasari? Al tempo non si usava annotare la data e l’ora della nascita, mentre la data della morte era, nella maggior parte dei casi, registrata.

La biografia dell’Urbinate è descritta da molti studiosi del passato e moderni, ma quella del Vasari è la più famosa, non sempre aderente alla realtà, per creare un’immagine mitica di Raffaello, ma è un valido documento per mostrare la fama dell’artista nel suo tempo.

Giovanni de Santo, il padre, pittore in rapporto con la corte dei Montefeltro, dovette offrire al figlio un determinante stimolo culturale, nonostante la prematura morte nel 1494, la madre era morta nel 1491. In un documento del 10 dicembre 1500, Raffaello, non ancora diciottenne, viene già definito “magister” e anche se la sua formazione nella bottega del Perugino non risulta documentata, egli fu certamente in rapporto con Bernardino Pinturicchio, con il quale collaborò alla progettazione degli affreschi per la Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena nel 1502, l’anno successivo fu a Perugia: è di questo periodo il tempio dello “Sposalizio della Vergine”, che colloca l’artista al vertice della ricerca pittorica a proposito della pianta centrale, tema analizzato da artisti come il Perugino e Luca Signorelli. Nell’opera di Raffaello si nota non solo il distacco dal maestro, ma soprattutto il superamento dello stesso: nell’Urbinate il tempio è il cardine di tutta la composizione, che infonde armonia e mette in evidenza i personaggi, anche grazie all’ampliarsi, come un ventaglio, della pavimentazione lastricata della piazza; la collocazione raffaellesca è invertita: a sinistra del sacerdote la Vergine con le sue compagne, a destra San Giuseppe con i corteggiatori amareggiati. Raffaello muove i personaggi e le cose, rendendo il tutto sublime senza pesantezze, l’opera è un insieme di simboli in perfetta armonia tra loro. Nel dipinto del Perugino il tempio appare sullo sfondo e le figure in primo piano, “tagliando”in due parti l’opera, che non riesce a comunicare il clima di pace, la rappresentazione di un luogo paradisiaco. Quest’opera segna il momento in cui Raffaello si distacca da ogni soggezione ai modi del Perugino, collegandosi alle più avanzate ricerche architettoniche condotte da Bramante e Leonardo, segnando la fine della fase giovanile e l’inizio del periodo artisticamente maturo.[35]

Nel 1504, in autunno, Raffaello si trasferisce a Firenze con la famosa lettera di presentazione scritta dalla duchessa Giovanna Feltria Della Rovere al Gonfaloniere Pier Soderini, ritenuta, da alcuni studiosi un falso settecentesco. Il Soderini non poté dare al giovane pittore nessuna commissione, perché aveva di recente acquistato il “David” di Michelangelo e stava progettando le grandiose opere della Sala del Gran Consiglio, quindi si trovava in ristrettezze economiche. Ma dopo poco tempo l’artista ebbe commissioni da facoltosi cittadini per i quali dipinse opere famose come la “Madonna del Cardellino”, strinse amicizia con molti artisti e intellettuali del tempo, protagonisti del pensiero neoplatonico e il soggiorno fiorentino fu fondamentale nella sua formazione, che gli permise di approfondire lo studio dei modelli quattrocenteschi e soprattutto le innovazioni di Leonardo e Michelangelo: <<Studiò Rafaello in Fiorenzale cose vecchie di Masaccio, e vide ne i lavori di Lionardo e di Michele Agnolo cose tali, che gli furono cagione di augumentare lo studio in maniera per la veduta di tali opere, che gran miglioramento e grazia accrebbe in tale arte>>.[36] In poco tempo divenne il più stimato ritrattista del periodo: i due ritratti di “Agnolo Doni” e “Maddalena Strozzi” sono un esempio di come i due grandi del Rinascimento abbiano indotto Raffaello a seguire le nuove espressioni che rivolgono attenzione particolare ai sentimenti umani, al paesaggio e al dinamismo. Nel secondo ritratto la donna assume una posizione che rimanda inevitabilmente a quella della “Gioconda”, ma a differenza di Monna Lisa, nel ritratto raffaelliano è evidente la ricerca dell’armonia nel viso e nel paesaggio e i dettagli accurati degli abiti e dei gioielli mostrano quella matrice fiamminga che troveremo sempre nello stile di Raffaello, anche nel primo ritratto possiamo notare la morbidezza degli abiti dell’uomo in contrapposizione della durezza del suo sguardo, mostrando ancora una volta il suo studio sulla resa materica dei tessuti, che nonostante l’espressività dei volti li rendono molto distanti dalla penetrazione psicologica di Leonardo. L’influenza di Michelangelo appare evidente nell’opera “Il trasporto di Cristo al Sepolcro”, realizzata per una famiglia di Perugia, in cui la figura di Cristo ricorda nella posizione del corpo e nel braccio abbandonato la “Pietà”, anche la figura dell’ancella accovacciata a destra è un richiamo michelangiolesco. Nel cosiddetto periodo fiorentino (1504-1508 circa) la cultura del giovane Urbinate, a contatto con la tradizione toscana del Quattrocento (Masaccio, Donatello, Luca della Robbia) e con le grandi novità della “maniera moderna” di Fra Bartolomeo, Leonardo da Vinci e Michelangelo, subisce un’importante crescita.[37]

Come nel 1504 l’artista si era trasferito a Firenze per il bisogno di un nuovo e più idoneo campo dove esprimersi, circa quattro anni dopo, probabilmente sentendo di avere messo a frutto ciò che poteva offrirgli l’ambiente fiorentino, abbandonando improvvisamente vari e importanti lavori, come la tavola commissionata dalla famiglia Dèi, per la loro cappella in Santo Spirito, si trasferì a Roma: il Vasari fa risalire la causa di questo spostamento a papa Giulio II, desideroso di servirsi di Raffaello in Vaticano, dietro suggerimento di Bramante, che sarebbe stato unito al giovane concittadino  da “un poco di parentela”, tuttavia non documentata.[38]

Giulio II, grandissimo mecenate e desideroso di lasciare una traccia indelebile nella storia, il quale ha convocato una serie di artisti per far decorare i suoi appartamenti: si tratta di quattro stanze che dovranno servire a scopo di rappresentanza e propaganda e devono affermare il potere del Papato e il prestigio personale di Giulio II. Raffaello viene messo alla prova con una parete su cui dovrà esprimere il concetto di teologia e la struttura gerarchica della Chiesa, l’artista dipinge “La disputa del Sacramento” che soddisfa talmente tanto il Pontefice che gli affida l’intera decorazione delle stanze, allontanando tutti gli altri artisti che erano già all’opera.

Ogni stanza ha un tema portante ed ogni parete rappresenta un aspetto specifico di quel tema: la prima è la “Stanza della Segnatura” (1508-1511), così detta per avere ospitato, dal 1541, il Tribunale ecclesiastico della “Signatura gratiae”. Nel 1507 papa Giulio II lasciò l’appartamento abitato dal suo predecessore Alessandro VI Borgia, affrescato dal Pinturicchio con temi mitologici, ermetici e astrologici, e si trasferì al piano superiore dei Palazzi Apostolici, questa Stanza fu voluta nella sua forma artistica dal Papa stesso perché doveva essere la sede del suo studio e della sua biblioteca personale, la cui tematica generale è il Sapere.[39] La Stanza, parte integrante del nuovo appartamento voluto dal Papa, fa parte delle quattro affrescate da Raffaello: quella di Eliodoro, 1511-1514), con la tematica dell’affermazione del Potere spirituale e temporale del Papa;[40] dell’Incendio del Borgo e di Costantino.

La seconda stanza è quella di Eliodoro (1511-1514), con la tematica dell’affermazione del Potere spirituale e temporale del Papa.[41]

La terza stanza è chiamata la “Stanza dell’incendio del Borgo” (1514-1517) e la tematica è la celebrazione del papa Leone X mediante episodi miracolosi, riguardanti altri papi di nome Leone[42]

La quarta stanza è la cosiddetta la “Stanza di Costantino” (1517-1524), ha come tematica “Il Trionfo del Cristianesimo sul Paganesimo”,[43] questa stanza fu eseguita interamente dagli allievi di Raffaello su cartoni del Maestro. La decorazione delle Stanze è, insieme alle Logge Vaticane, la più grande impresa pittorica di Raffaello, che lo impegna fino al 1520, anno della sua morte: l’ultima Stanza verrà completata dal suo collaboratore più talentuoso: Giulio Romano.

Nelle Stanze Vaticane troviamo l’unione di due menti somme: Giulio II e Raffaello, il primo ha lasciato molti dubbi dal punto di vista religioso, ma è stato il più grande mecenate tra tutti i pontefici, è il papa della nuova Basilica di San Pietro di Bramante, della Cappella Sistina e di Michelangelo, delle indulgenze che portarono, in seguito, alla scissione tra Cattolici e Protestanti. Uomo molto ambizioso che si serviva della cultura anche per la sua imperitura memoria, grande umanista che riuscì a fare di Roma il centro supremo del Rinascimento. Il secondo, un genio che ha saputo rappresentare con la sua arte l’equilibrio tra il Vero e il mondo della realtà. Gli affreschi realizzati dall’Urbinate nella Stanza della Segnatura esprimono l’apice del primo classicismo cinquecentesco e, per secoli, sono stati un modello di euritmica unione tra la lingua figurativa moderna e quella ammirevole degli antichi, nonché armoniosa coesione tra le varie maniere italiane.

Raffaello fu anche un grande imprenditore, specialmente negli ultimi anni della sua carriera, il ricorso a un vasto numero di collaboratori nacque soprattutto dai numerosissimi impegni affidatigli da Leone X e dalle committenze private: l’artista non aveva il tempo materiale per fronteggiare personalmente tali incombenze, quindi la necessità di affidarsi alla bottega e ai suoi assistenti si fece sempre più impellente.[44]

Sia le Botteghe più importanti, come quelle del Verrocchio e del Ghirlandaio, sia gli artisti più famosi si avvalevano ripetutamente dei loro modelli tramandati da cartoni e disegni, che erano tenuti gelosamente conservati. Con Raffaello abbiamo un cambiamento: il disegno non era più ritenuto un semplice mezzo di lavoro ereditato, ma rappresentava il momento in cui l’artista concepisce la creazione artistica originale, in tal modo l’opera d’arte è, per l’Urbinate, un’intuizione che si attua nel disegno, che diventa, in tal modo, <<la diretta trasposizione visibile del pensiero dell’autore. La realizzazione viene dopo, e può essere demandata ad altri, poiché l’essenza vera dell’arte sta nell’ideazione e non più nell’esecuzione >>.[45] Anche Leonardo e Michelangelo consideravano <<l’atto creativo come unica base dell’attività dell’artista, Raffaello ne dette una lettura tutta personale, attuata in un inedito modello di lavoro collettivo>>,[46] progettando e portando a compimento interi cantieri concepiti come opere d’arte, dove erano impiegati una pluralità di diverse competenze e dove egli stesso non aveva un ruolo personale.

Arrivato a Roma, l’artista cominciò ad avvalersi della collaborazione di famosi artisti nelle diverse attività: orafi, incisori, ebanisti, carpentieri, i quali contribuirono a diffondere la sua fama in tutta l’Europa e ad assicurargli ingenti guadagni. <<E sempre tenne infiniti in opera, aiutandoli et insegnandoli con quello amore che non ad artifici, ma a figliuoli proprii si conveniva. Per la qual cagione si vedeva che non andava mai a corte che partendo di casa non avesse seco cinquanta pittori tutti valenti e buoni che gli facevano compagnia per onorarlo. Egli insomma non visse da pittore, ma da principe>>.[47] La possibilità di dirigere interi cantieri l’ebbe nel 1512, quando iniziò la costruzione (ex novo) della cappella sepolcrale in Santa Maria del Popolo, commissionatagli da Agostino Chigi, di cui Raffaello si occupò del progetto architettonico e di ogni aspetto delle decorazioni, ispirandosi all’antichità classica, ma anche al periodo paleocristiano: la cupola, il tamburo e i pennacchi dovevano essere ricoperti con l’antichissima tecnica del mosaico, ma sia per il tamburo sia per i pennacchi il lavoro non fu completato e, in seguito, dopo la morte dell’artista, vennero affrescati. Agostino Chigi, illustre banchiere senese e grande amico di Raffaello, era già riuscito a distogliere l’artista dai suoi impegni in Vaticano, affidandogli le decorazioni della Villa Farnesina, il cui progetto era stato affidato a Baldassarre Peruzzi, concittadino del Chigi. [48] L’amicizia che legava Raffaello ad Agostino Chigi fu, a dir poco, singolare: quando la focosa passione per la Fornarina distrasse l’Urbinate dal suo lavoro commissionato da Leone X, questi si rivolse al Chigi perché lo incentivasse (motivasse) a terminare le Logge superiori in Vaticano, sapendo che il banchiere aveva un certo carisma sull’artista. Agostino accettò di fare da intermediario, ma pensò soprattutto ai lavori che l’amico doveva finire per la sua villa, fece rapire la ragazza e disse al pittore che lo avrebbe aiutato a ritrovarla se egli avesse lavorato con più alacrità, ma Raffaello, vedendo che la sua amata non tornava, cadde di nuovo in uno stato di apatia, che gli impediva di lavorare, così il Chigi mise fine a questo finto rapimento e ospitò i due amanti nella sua villa.[49]

Nello stesso tempo in cui Raffaello stava affrescando la terza Stanza (Incendio del Borgo), il Papa lo incaricò di approntare i cartoni per gli arazzi destinati alla Cappella Sistina, per fare fronte a tutti questi impegni fu necessario affidare la realizzazione completa dei lavori a tutti i suoi allievi, non sempre con ottimi risultati, tanto che nell’enorme cantiere delle Logge Vaticane, sempre su commissione di Leone X, il suo coordinamento fu più meticoloso.[50]  Questo, purtroppo, fu l’ultimo grande cantiere dell’artista, poiché dell’ambiziosa opera del Pontefice, di costruire una superba villa suburbana, in un terreno sulle pendici di Monte Mario, per riecheggiare il fasto delle ville dell’antica Roma, Raffaello riuscì a vedere solo l’inizio.[51]

Con la morte di Raffaello ebbe fine tale modello di lavoro, che solo il Maestro, con il suo carattere disponibile e il suo carisma, era riuscito a tenere insieme senza conflitti e gelosie: <<lavorando ne l’opere in compagnia di Raffaello stavano uniti e di concordia tale che tutti i mali umori nel veder lui si amorzavano, et ogni vile e basso pensiero cadeva loro di mente: la quale unione mai non fu più in altro tempo che nel suo>>, queste parole del Vasari concludono la biografia sull’artista.[52]

Quando Raffaello si ammalò stava lavorando alla tavola della “Trasfigurazione”, che rimase incompiuta e <<Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ogni uno che quivi guardava>>, così scrive il Vasari. Il quadro era stato commissionato all’artista nel 1517 da Giulio de’ Medici (futuro papa con il nome di Clemente VII), e destinato alla cattedrale di Narbona, ma per la stessa cattedrale, il Cardinale aveva incaricato anche Sebastiano del Piombo, che faceva parte del gruppo di Michelangelo, di realizzare un quadro sulla Resurrezione di Lazzaro, quindi per l’Urbinate significava affrontare un confronto con il Maestro fiorentino e dimostrare che non era inferiore. Raffaello, per dare maggiore ricchezza alla sua opera, aggiunse all’episodio della Resurrezione quello della guarigione dell’indemoniato, ma i due episodi restano visibilmente separati, quasi fossero due dipinti posti uno su l’altro.

Raffaello è consapevole della sua eccezionale bravura e la usa come mezzo di razionalizzazione dello spirito, concepito dal neoplatonismo: a differenza di Leonardo, il quale colloca la scena nell’ambito di una logica di cui vuole dominare il sistema, Raffaello la pone in uno scenario idealistico tenuto insieme dalla forma, che si prende carico di un compito esplicativo ed espressivo di una teoria che la destrezza tecnica riesce a motivare. Egli è stato l’interprete di una bellezza classica, canonica, tale che nelle sue opere non si distingue più tra il bello di natura e quello artistico, perché egli è riuscito ad eliminarne la barriera: egli è andato oltre al concetto dell’arte come imitazione della natura, la sua non è stata solo capacità di imitare l’apparenza delle cose, ma di comprendere anche l’equilibrio, l’armonia, la grandiosità calma e serena. Ma cos’è la bellezza?

Anton Raphael Mangs (1728-1779),[53]pittore, storico e critico d’arte, artista considerato come uno dei maggiori esponenti del Neoclassicismo e grande ammiratore di Raffaello, nel suo trattato “Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei”, pubblicato a Zurigo nel 1762 (Edito anche in Italia nel 1780 con il titolo “Opere di Antonio Raffaello Mengs primo pittore della Maestà di Carlo III”), teorizza l’imitazione dei grandi maestri come unico strumento in grado di pervenire alla bellezza ideale, quella che non esiste in natura, ma che è il frutto di una scelta di ciò che in natura è eccellente, sostiene il concetto del bello ideale che perfeziona la natura trascendendola, collocando gli ideali della cultura neoclassica in tre punti basilari: la superiorità dell’antico e la sua imitazione non servile; la scelta e il concetto della bellezza ideale; la supremazia dell’intellettualismo del disegno contro il sensualismo del colorito, (ossia il disegno greco, le espressioni di Raffaello, i chiaroscuro del Correggio e il colore di Tiziano). Mengs sostiene che la perfezione appartiene solo a Dio, non all’uomo, il quale è capace di comprendere solamente ciò che cade sotto i sensi, quindi il Signore gli ha voluto improntare un’idea visibile della perfezione, questa è ciò che si chiama “bellezza” e si trova in tutte le cose create, ogni volta l’idea che abbiamo di una cosa e il nostro senso intellettuale non possono andare, nell’immaginazione, oltre ciò che vediamo nella materia creata. <<Platone chiama i movimenti che la bellezza produce nell’anima, una ricordanza della suprema perfezione; e crede esser questo il motivo della sua forza incantatrice>>,[54]ossia l’anima è commossa dalla bellezza perché è dall’anima stessa che deriva trasportata da un’effimera beatitudine, <<che ella spera ed aspetta presso Iddio per tutta l’eternità, ma che si perde subito in tutte le materie>>. La bellezza è, quindi, in tutte le cose, perché la natura non fece niente che fosse inutile, la bellezza rapisce ed incanta, trasporta i sensi dell’uomo fuori dall’umano, attrae tutti, perché è la luce di tutte le materie e la similitudine della divinità stessa. <<L’arte della pittura vien detta una imitazione della natura: laonde sembra che nella perfezione debba ella esserle inferiore; ma ciò non sussiste se condizionatamente. Vi son delle cose della natura, che l’arte non può affatto imitare, ed ove questa comparisce assai fiacca, e debole in confronto di quella, come, per esempio, nella luce e nell’oscurità. Al contrario ha l’arte una cosa molto importante, in cui supera di gran lunga la natura, e questa è la bellezza. La natura nelle sue produzioni è soggetta ad una quantità di accidenti: l’arte però opera liberamente, poiché si serve di materie del tutto flessibili, e che niente resistono. L’arte pittorica può scegliere da tutto lo spettacolo della natura il più bello, raccogliendo e mettendo insieme le materie di diversi luoghi, e la bellezza di più persone: all’incontro la natura è costretta a prendere, verbigrazia, per l’uomo la materia soltanto alla madre, ed a contentarsi di tutti gli accidenti; onde è facile che gli uomini dipinti possono essere più belli di quello che sieno i veri>>.[55] L’arte può superare la natura e “l’avveduto” pittore può scegliere le cose più belle che vi sono <<e produrre con questo artifizio la più grande espressione e dolcezza>>.[56] Mengs sostiene che Raffaello è: << il primo tra’ Pittori più grandi, non per essere egli stato più ricco degli altri in possedere maggior quantità di parti perfette della sua Professione, ma per averne posseduta la qualità più importante; poiché componendosi la Pittura di Disegno, di Chiaroscuro, di Colorito, d’Imitazione, di Composizione, e d’Ideale, è certo che Raffaello possedé il Disegno, e la Composizione in alto grado, e l’ideale sufficientemente; mentre Correggio si rese eccellente soltanto nel Chiaroscuro; e Tiziano riuscì egregio solo nel Colorito, e nella Imitazione della Natura. Onde Raffaello si può dire il più stimabile, perché possedé le parti più necessarie, e più nobili dell’Arte: Correggio le più amene, e più incantatrici: Tiziano si contentò della pura necessità, che è la semplice imitazione della Natura>>.[57]

Più avanti, nel suo trattato, Mengs parla molto del grande Urbinate: <<Egli non usò l’ideale nella Pittura più oltre del naturale; ma n’ebbe molto nell’esecuzione de’ caratteri, che voleva rappresentare. Non si oppose a ciò la Bellezza, con cui fece le teste delle Madonne, perché questo proviene dalla bellezza dell’Espressione. Raffaello faceva visibili la modestia, la nobiltà, la pudicizia, e l’amore verso il suo divin Figliuolo; e perciò c’incanta. Ma chi ha la finezza di gusto converrà meco, che se la figlia di Niobe fosse in un’espressione consimile, supererebbe di molto le Vergini di Raffaello, e sembrerebbe, che questi avesse dipinta una Regina con tutta la grazia, e nobiltà; e l’Artista antico una Divinità, e la Madre degli Dei>>. Raffaello, continua Mengs, modificò e migliorò la Natura per quello che riguarda l’Espressione, ma per ciò che concerne la Bellezza la lasciò come l’aveva trovata: di solito egli dava alle figure che dipingeva un’aria molto gradevole, ma erano sempre persone umane, infatti il suo Cristo, paragonato a Giove o ad Apollo, non è che un uomo e i suoi Padri Eterni in Natura si possono trovare anche più belli, ma affinché queste figure sembrassero divine, egli avrebbe dovuto dare loro un’aria più maestosa e nascosto quelle parti che rivelano la mortalità, come la pelle rugosa, gli sguardi torbidi, indizi che mostrano la debolezza della Natura ed è veramente inopportuno rappresentare il Creatore sottoposto alle miserie umane.[58] <<Giacchè è prevalso l’uso di rappresentarlo sotto la figura d’un attempato, convien farlo in modo, che comparisca venerabile d’età, ma senza le sue imperfezioni, e che ci riempia l’immaginazione della grande idea, che dobbiamo avere dell’Onnipotente; ma per fare ciò non è necessario attenersi tanto alla verità, come ha fatto Raffaello, che lo ha effigiato con le miserie della vecchiaja>>.[59] I Greci, prosegue Mengs, che furono mirabili nella parte dell’Ideale, non rappresentarono le figure degli Dei mostrando le vene, i tendini, ossia non mettendo in evidenza quei tratti come negli umani. Gli “Antichi” furono superiori a Raffaello anche nell’Armonia: <<Egli conobbe come dovea far la fronte, per esempio, serena, o torbida, pensierosa, o allegra, ec., ma non avvertì qual naso, e quali guance andassero bene a quella fronte. Quando gli Antichi facevano una fronte piana, e serena, facevano anche il naso quadrato, e le guance della stessa forma, e carattere. Finalmente il particolare degli Antichi è, che per una parte del viso si può conoscere il carattere di tutto il restante. Raffaello non ha questo vantaggio, potendosi togliere il naso d’uno de’ suoi visi, e sostituirvene un altro senza far dissonanza. Le sue Vergini hanno tutte una fronte serena, credendo così di manifestare la nobiltà, e il pudore: lo stesso è nelle teste delle figlie di Niobe. Raffaello faceva questo per motivo d’Espressione, e non di Bellezza; perché se avesse conosciuto il bello ideale avrebbe unito a quella fronte un naso di contorno moderato, e non così caricato come l’ha fatto. Faceva rotondette le guance delle predette immagini, per dare alle sue Vergini l’aria di gioventù; ma ciò non concorda con la verità, perché una persona, che abbia le guance carnose, ha sempre la fronte divisa in varie parti pel volume de’ muscoli. L’Antico non è così: tutte le parti si concordano con loro. Le bocche delle Vergini di Raffaello hanno tutte un piccolo movimento di riso, per denotare l’amore, e l’innocenza della gioventù; ma questo non si accorda con la vera bellezza. Lo stesso potrebbesi dire dell’Espressione di modestia, che metteva negli occhi. Da ciò io inferisco, che Raffaello non era ideale nella Bellezza, ma solamente nell’esecuzione dell’Espressione. Chi è poco soddisfatto delle mie ragioni mi dica, perché Raffaello non fece Angeli sì belli, come dovevano essere? Poiché figure puramente ideali ha campo l’immaginazione del Pittore di spaziarsi nella Bellezza quanto vuole. Mi dica ancora, perché non dipinse Venere, e le Grazie nel gusto degli Antichi, o in un altro, che almeno gli si avvicinasse? Quando egli non avea alcuna Espressione forte da dipingere era un puro imitatore della Natura, né sapeva, che cosa fosse Bellezza ideale. Quindi io per poter conchiudere, che Raffaello aveva gusto squisito, e poco ideale nel disegno; nel Colorito meno; e nel Chiaroscuro niente. Che nel generale della Composizione avea molto ideale, e nell’Espressione anche molto, e molta Bellezza. Da ciò si deduce quanto egli debba essere lodato nella Composizione, nell’Espressione, e nella simmetria de’ corpi di certi generi di figure; e si deduce altresì, che il suo gusto del Disegno era eccellente; e che egli ha aperto il cammino de’ belli panneggiamenti, benché pochissimo variati>>.[60]Mengs sostiene la teoria del bello ideale, cioè di una bellezza formata dalla scelta opportuna di varie parti perfette, dando a Raffaello il primato per il disegno e l’espressione, al Correggio per la grazia e il chiaroscuro, a Tiziano per il colore.

Durante la sua breve vita, Raffaello ebbe tutto quello che un artista può desiderare, non fece parte certamente di quegli artisti il cui riconoscimento avvenne molto tempo dopo la scomparsa, come, ad esempio, Caravaggio. Gentile e disponibile con tutti, quasi presago di un destino che presto avrebbe visto la sua dipartita, lavorò sempre alacremente e non perse l’occasione di trasmettere le sue conoscenze ai suoi collaboratori: <<Dicesi che ogni pittore che l’avesse conosciuto, se lo avessi richiesto di qualche disegno che gli bisognasse, egli lasciava l’opera sua per sovvenirle>>.[61]

Come si può vedere sia nelle madonne del periodo fiorentino, sia nelle opere di quello romano, il sentimento della natura è, in Raffaello, una costante molto importante della sua pittura.

Raffaello pone al centro delle sue opere l’ideale di bellezza, di equilibrio compositivo e di perfezione formale, la sua arte segna il trionfo dell’armonia tra l’uomo, la natura e la storia, in sintonia con la mentalità raffinata, aristocratica e colta del suo tempo, che fanno di lui il pittore più completo ed amato del Rinascimento. Seppe fondere la più alta tradizione quattrocentesca con gli apporti più innovativi del Cinquecento in una visione completa, personale e unitaria, con una grande padronanza dei mezzi espressivi e un “linguaggio” chiaro e preciso, che resero il suo stile inconfondibile.

 

NOTE

[1] Cfr. G. C. Argan, Storia dell’Arte italiana, Milano 1981, pp. 75-76.

2 Cfr. L. Fabbri, L’Universo in una stanza: Manfredo Settala e l’Ambrosiana, in “https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2018/04/17/luniverso-in-una-stanza-manfredo-settala-e-lambrosiana/

3Il preconcetto dell’età romantica di una frattura tra Medioevo e Rinascimento è stato avversato dal tedesco Konrad Burdach, che ha mostrato come il Rinascimento abbia avuto le sue radici nell’idea di rinascita politica e religiosa dello Stato romano, l “humanitas” del Quattrocento si concretizzò dunque in questa prospettiva di riconciliazione tra fede e spirito nazionale, concetto avvalorato anche dallo studioso italiano Eugenio Garin.

4Il ritorno alla natura assume un significato centrale anche nei filosofi naturalisti del XVI secolo (Telesio, Bruno, Campanella). Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1986, vol. II, pp. 15 e segg.

5Cfr. M. E. Graziani, Il mistero della tomba di Raffaello e altre storie. http//:la-morte-di-raffaello-da-urbino.blogspot.com/2016/

6Giuseppe Antonio Del Chiappa visse tra 1781 e il 1866, fu docente di Clinica Medica e Terapia Speciale per chirurghi dal 1819 al 1854, quasi inesistenti le notizie sulla sua vita, numerosissimi e reperibili i suoi scritti. Una lapide, in calcare nero di Saltrio, voluta dal figlio Ludovico, un anno dopo la morte del padre (1867) si trova presso l’Università degli Studi di Pavia, la cui scritta non aggiunge niente a quanto sopra.  http://pellegrinidelsapere.unipv.eu/scheda-nomi.php?ID=61

7Defendente Sacchi nacque a Casa Matta di Siziano nel 1796, fu giornalista, filosofo e scrittore, si occupò di storia, letteratura, storia e critica dell’arte, romanzi e novelle, oltre agli innumerevoli articoli nelle più importanti riviste culturali dell’epoca, fu direttore del “Cosmorama Pittorico”, rivista illustrata fondata a Milano, di cui Carlo Cattaneo fu assiduo collaboratore. Fu corrispondente di Fauriel e di Melchiorre Gioia. Per la sua attività editoriale ebbe numerosi riconoscimentie venne ammesso come socio nella “Reale Accademia delle Scienze di Torino”; nel 1840 creò una Civica Scuola di Pittura a Pavia, lo stesso anno morì a Milano e la sua prematura scomparsa fu attribuita ad un fisico debole, malato e provato da dolori, i suoi beni furono impiegati per l’apertura della suddetta Scuola. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/defendente-sacchi_%28Dizionario-Biografico%29/. Per la biografia di questo personaggio si veda anche: Autobiografia di Defendente Sacchi (prefazione e commento di Maria Fanny Sacchi), Pavia 1899.

8D. Sacchi, Le Belle Arti a Milano nell’anno 1833. Relazione di Defendente Sacchi, Si aggiunge una lettera sullo scoprimento delle ceneri di Raffaello Sanzio scritta da Roma il 17 settembre 1833 dal Prof. Giuseppe Del Chiappa, Milano 1833, pp. 37-43.

9Ibid., p. 39.

10Ibid., p. 40.

11Ibid., pp. 40-41. Maria Antonietta Bibbiena, nipote di Bernardo Dovizi da Bibbiena, nominato cardinale da Leone X per ricompensarlo del sostegno che il Bibbiena aveva dato durante il conclave del 1513. Il Cardinale la promise in sposa a Raffaello, ma il pittore non si unì mai in matrimonio con Maria, la quale morì diversi anni prima dell’artista, quindi pare poco probabile che i resti siano proprio quelli della nipote del Cardinale. Cfr. M. E. Graziani, Il mistero della tomba di Raffaello…, cit.

12“La stelletta o sperone non aveva nulla a fare con l’abbigliamento dei cubiculari, né poteva essere una fibbia per fermare la tunica, che non era certo un indumento usato all’epoca. Tuttalpiù poteva essere il simbolo dell’Ordine dello Sperone di origine Templare i cui appartenenti venivano sepolti con i loro speroni. Anche i puntalini della veste non figuravano né nell’abbigliamento dei cubiculari, né potevano appartenere ai borzacchini, perché è impensabile che Raffaello fosse stato sepolto con degli stivali ma senza alcun abito, i cui resti si sarebbero dovuti in parte reperire. E’ più probabile che tali oggetti fossero stati messi li di proposito assieme alle spoglie”. M. E. Graziani, Il mistero della tomba di Raffaello…, cit.

13Vincenzo Camuccini nacque a Roma nel 1771 da modesta famiglia, rimase orfano molto giovane e fu indirizzato alla pittura dal fratello maggiore Pietro, che lo aiutò anche economicamente. Fu uno dei più importanti pittori del Neoclassicismo italiano e il suo stile si accostava molto a quello di Raffaello. Frequentò gli ambienti ospedalieri di Roma per i suoi studi sui cadaveri con lo scopo di capire il funzionamento dell’anatomia umana. Durante il corso degli anni la sua fama crebbe molto, tanto che Pio VII lo nominò Direttore generale della Fabbrica di San Pietro ed ebbe l’incarico di Sovrintendente ai Musei Vaticani, incarico che in passato era stato di Michelangelo, Bernini etc. Sempre nella Città Eterna aprì un importante laboratorio frequentato da molti artisti italiani e stranieri. Fu anche restauratore: numerosi gli interventi di restauri nelle chiese romane da lui compiuti; nel 1806 fu eletto Principe dell’accademia di San Luca, quattro anni dopo gli successe Antonio Canova, Camuccini ricoprì di nuovo la carica nel 1826. Morì a Roma nel 1844. Cfr. E. Gombrich, Dizionario della pittura e dei pittori, Einaudi Editore, 1997.

14“Le sette missive e i sei sonetti qui riuniti sono ciò che rimane dell’opera letteraria di Raffaello. Sebbene il Vasari alluda, peraltro assai confusamente, a ulteriori prose del Sanzio, è da credere che la sua attività in tal senso si estendesse non molto oltre i saggi superstiti. Per di più taluni dei testi pubblicati son da ritenersi estranei all’urbinate, mentre altri conservano di lui soltanto il concetto, essendone la forma riferibile a scrittori ben più versati. Baldassar Castiglione fu sicuramente uno di coloro che prestarono la propria penna al pittore; cui pertanto, sarebbe vano attribuire la sonora rotondità di stile e la vivezza delle immagini improntanti la lettera a Leone X; così come al Bembo o a qualcun altro dei numerosi umanisti che in Roma si legarono a Raffaello, va attribuita l’abile, “cortigiana” scorrevolezza dell’epistola al Castiglione medesimo. Il paragone con le lettere vergate dal Sanzio non lascia adito a dubbi, quantunque l’artista palesi un continuo accrescimento culturale rispetto alla forma tanto stentata dei suoi scritti più antichi. Nondimeno l’importanza di queste poche pagine ben meritava la presente raccolta. Il carattere stesso dei testi riuniti, così autonomi l’uno rispetto all’altro, si oppone a una definizione complessiva della loro validità: il volerla tentare equivarrebbe affrontare l’esame che, per comodità del lettore, si è creduto meglio premettere a ogni singolo scritto. Comunque, specie la lettera a Leone X riveste un valore documentario assai notevole, conservandoci talune idee che dovettero esser correnti in un periodo densissimo di fatti capitali per l’arte. Nelle altre, notizie su opere raffaellesche compiute o in programma, su avvenimenti o persone, costituiscono pure un elemento di elevato interesse, e talora la portata ne è insostituibile. Ma, quand’anche fosse da scorgervi non più d’un mero contributo, magari marginale, alla conoscenza di chi compose o ispirò queste lettere, la personalità dell’autore è tale per cui sarebbero ugualmente preziosissime”. Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti, a cura di Ettore Camesasca, Milano 1956, pp. 9-10.

15Cfr. Ibid., p. 13.

16Ibid., pp. 17-18.

17Ibid., p. 23.

18Ibid., p. 29.

19Ibid., pp. 33-34.

20Ibid.

21Raffaello si riferisce a Don Bartolomeo Santi, zio paterno e suo tutore. Non sono state reperite notizie su Francesco Buffa, mediatore di matrimoni, come appare dalla lettera.

22Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/ 

23E. Camesasca a cura di, Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti… cit.,  pp. 33-34.

24Ibid., p. 34. “ [il  papa]Mi ha dato un compagno, frate doctissimo e vecchio de più d’octant’anni; el papa vede che ‘l puol vivere poco: ha risoluto la Sua Santità darmelo per compagno, ch’è uomo di gran riputazione sapientissimo, acciò ch’io possa imparare, se ha alcun bello secreto in architectura, acciò io diventa perfettissimo in quest’arte; ha nome fra’ Giocondo e ogni dì il papa ce manda a chiamare, e ragiona un pezzo con noi di questa fabrica”. Giovanni Giocondo nacque a Verona o nei dintorni della città nel 1434 circa, visto che Raffaello, nel 1514, gli attribuisce più di ottanta anni, anche se negli otto anni precedenti aveva navigato fino al Peloponneso per controllare le fortificazioni veneziane, percorreva in barca e a cavallo lunghe distanze, saliva su torri e campanili per ispezionare dall’alto terreni e progettare sistemazioni idrauliche. Non si hanno notizie sulla sua famiglia e nei primi cinquant’anni della sua vita, le prime informazioni sono del 1489, quando era già famoso per la sua cultura che abbracciava molteplici campi. A partire dagli ultimi anni del Quattrocento è documentata anche la sua posizione religiosa: nei vari documenti egli è sempre chiamato frate e sembra essere appartenuto all’Ordine Francescano, anche se Vasari ed altri studiosi lo dicono appartenente all’Ordine Domenicano. E’ probabile che fino all’età di trentacinque anni Fra Giocondo sia rimasto in Veneto e che la sua formazione culturale sia avvenuta in quest’ambito, ricco di studi filologici e antiquari, frequentò Pietro Bembo, Luca Pacioli, Aldo Manuzio e altri; fu grande studioso di Vitruvio, di cui pubblicò a Venezia nel 1511 il “De architectura”, l’importanza di questa edizione, oltre alla precisione filologica, letteraria e tecnica, era dovuta all’apparato iconografico, basilare per la chiave di lettura dell’opera vitruviana. Nel 1489 si trovava a Roma, dove fu consulente per il progetto del palazzo del Cardinale Riario e dove svolgeva la sua attività di epigrafista; sempre lo stesso anno sembra sia stato a Napoli presso Alfonso II, e, l’anno successivo, abbia seguito Carlo VIII in Francia, dove collaborò alla ricostruzione del ponte di Notre-Dame, quello precedente, in legno, fu distrutto il 25 novembre 1499. Fu molto ricercato per creare e ammodernare fortificazioni, data la sua esperienza anche in questo campo dell’architettura. Intensa fu la sua attività di ricerca di codici antichi, tra i tanti, il ritrovamento più importante fu il manoscritto di Plinio il Giovane, nei pressi di Parigi. Innumerevoli furono i suoi lavori e le collaborazioni per la costruzione di importanti edifici, fino a quando nel giugno 1514 arrivò a Roma e Leone X gli assegnò la posizione principale nella Fabbrica di San Pietro, per la sua fama di grande ingegnere. Numerosissimi i suoi scritti.  Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-giocondo-da-verona_(Dizionario-Biografico)/

25Marco Fabio Calvo nacque a Ravenna nel 1440 circa, coltivò interessi archeologici, antiquari e medici, tradusse dal greco il “Corpus Hippocraticum”, collaborò con Raffaello al grandioso progetto di ricostruzione della topografia di Roma antica, di cui parleremo nella lettera a papa Leone X, probabilmente per la sua fama di esperto di antiquaria. Per Raffaello, che non conosceva il latino, tradusse in volgare il “De Architectura” di Vitruvio, di essa restano due redazioni manoscritte conservate alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, in una delle quali possiamo leggere questa postilla: “…tradocto di latino in lingua e sermone proprio e volgare da Messere Fabio Calvo ravennate, in Roma in casa di Raphaello di Giovan de Sa(n)cte da Urbino e a sua instantia…”, infatti, sappiamo che fu ospitato e trattato con particolare considerazione e cura dall’artista. Morì a Roma durante il sacco del 1527. Cfr.http://www.treccani.it/enciclopedia/marco-fabio-calvo_(Dizionario-Biografico)/  

26“Onde essendo io stato assai studioso di queste tali antiquitati, e avendo posto non piccola cura in cercarle minutamente e in misurarle con diligenza, e leggendo di continuo li buoni auctori e conferendo l’opere con le loro scripture, penso aver conseguito qualche notizia di quell’antiqua architectura”. E. Camesasca a cura di, Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti… cit.,  p. 51.

27E’ noto che la calcina si può ricavare anche dal marmo.

28E. Camesasca a cura di, Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti… cit.,  p. 79.

29Ibid., p. 80.

30Cfr. Ibid., pp. 79-88.

31G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e archi tettori, Vita di Raffaello da Urbino, Firenze 1568.

32Cfr. M. Bernardelli Curuz, Raffaello: le sue poesie d’amore in originale e nella versione dell’italiano di oggi. Qui – Stile Arte https:

33G. Vasari, Le vite… cit.

34Ibid.

35Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/ “Lo Sposalizio della Vergine” è datato 1504, sulla facciata del grande edificio troviamo la firma di Raffaello, l’opera è conservata presso la Pinacoteca di Brera di Milano.

36G. Vasari, Le vite… cit.

37Per un’ampia biografia su Raffaello si vedano oltre a quella del Vasari: E. Müntz, Raphael. Sa vie, son oevre et son temps, Paris 1886; P. De Vecchi, Raffaello, Milano 1975; B. Santi, Raffaello, in “I protagonisti dell’Arte italiana”, Firenze 2001.

38“E questo avvenne perché Bramante da Urbino, essendo a’ servigi di Giulio IIper un poco di parentela che avevano insieme e per essere di un paese medesimo, gli scrisse che aveva operato col papa che, volendo far certe stanze, egli potrebbe in quelle mostrare il valor suo” . Giorgio Vasari, Le Vite… cit.“ La data del trasferimento di Raffaello da Firenze a Roma non è conosciuta, ma il primo pagamento ricevuto per i lavori nei palazzi vaticani risale al 13 gennaio 1509, per decorazioni ed affresco realizzate nella Stanza della Segnatura “ad bonum comptum picture camere de medio eiusdem Sanctitatis testudinate”  Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/

39Sulle pareti troviamo: La disputa del Sacramento (Teologia); La Scuola di Atene (Filosofia); Allegoria della Giustizia e San Romualdo consegna a Gregorio IX le Decretali (Diritto); Il monte Parnaso con Apollo e le Muse (Poesia).

40Alle pareti: La cacciata di Eliodoro dal Tempio (Punizione per chi tenta di sottrarre beni materiali ai sacerdoti); La liberazione di San Pietro dal Carcere (Dio soccorre il suo rappresentante in terra); La Messa di Bolsena (Celebrazione del Corpus Domini); L’incontro di San Leone Magno con Attila (La Chiesa sottomette gli eserciti nemici).

41Gli affreschi eseguiti nella Stanza di Eliodoro sono una sfida assunta da Raffaello con i linguaggi figurativi del suo tempo: egli vuole dimostrare di saper padroneggiare sia l’eroismo anatomico di Michelangelo, sia l’appassionato cromatismo dei Veneti, come la scioltezza narrativa e compositiva dei rilievi antichi e gli effetti luministici della pittura nordica. 

42Alle pareti: Leone III incorona Carlo Magno (il potere temporale dei Re viene concesso dal Papa); Il giuramento di Leone III (Il Papa è responsabile delle sue azioni solo di fronte a Dio); L’incendio di Borgo (Leone IV invoca e ottiene l’aiuto divino); La battaglia di Ostia (Leone IV affronta in battaglia i saraceni).

43Sulle pareti: La visione di Costantino a Ponte Milvio; La battaglia di Costantino; Il Battesimo di Costantino; La donazione di Roma.

44S. Pasti, Raffaello e l’invenzione di una magnifica utopia, ovvero l’opera d’arte come progetto globale, https://www.aboutartonline.com/raffaello-elopera-darte-come-progetto-globale-linvenzione-di-una-magnifica-utopia/

45Ibid.

46Ibid.

47G. Vasari, Le vite… cit.

48Cfr. Ibid. La parte scultorea della Cappella fu affidata ad uno degli allievi preferiti da Raffaello: Lorenzetto, a cui, negli ultimi giorni di vita, dette l’incarico di innalzare sulla sua tomba, nel Pantheon, una scultura della Madonna con Bambino (Madonna del Sasso). Agostino Chigi nacque a Siena nel 1465 circa da una famiglia di ricchi mercanti e presso il padre Mariano fece il suo apprendistato. Nel 1487 si trasferì a Roma, dove cominciò la sua ascesa, che lo vide banchiere, imprenditore e armatore più ricco d’Europa: prestò denaro alle più grandi famiglie italiane ed europee, finanziò imprese belliche, organizzò feste sontuose per i papi, ebbe importanti rapporti d’affari con Alessandro VI, Giulio II e Leone X, fu un grande mecenate. Dopo la morte della prima moglie, Margherita Saracini, dalla quale non aveva avuto figli, sposò, dopo vari anni di convivenza, la bellissima cortigiana conosciuta a Venezia Francesca Ordeaschi, da cui ebbe cinque figli, l’ultimo dei quali nato dopo la sua morte; il matrimonio fu celebrato il 28 agosto 1519 da papa Leone X, matrimonio che fece molto scalpore: una donna dal passato molto criticabile e amante del Chigi quando era ancora viva la moglie, che riuscì a conquistare e sposare uno degli uomini più potente del tempo. In tal modo la bella Francesca entrò (già prima del matrimonio) nella meravigliosa Villa Farnesina (Villa Chigi: Farnesina, perché acquistata dai Fanese nel 1580), progettata da Baldassarre Peruzzi, nello stile del Rinascimento toscano (tra il 1508 e il 1511) e affrescata da Raffaello con la favola di Amore e Psiche (tratta dalle Metamorfosi di Apuleio) per celebrare l’amore di Agostino e Francesca. La morte colse Agostino Chigi pochi giorni dopo quella di Raffaello: il10 aprile 1520 e la giovane moglie gli sopravvisse solo sette mesi. I funerali del banchiere furono celebrati a Santa Maria del Popolo alla presenza di più di cinquemila persone e furono degni di un sovrano con otto ordini di frati, 36 vescovi, un grande numero di preti secolari e cardinali, 86 carrozze con la famiglia del Papa, il feretro era circondato da 250 torce, quando i cardinali ne avevano diritto a 100.  Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-chigi_%28Dizionario-Biografico%29/  

49Cfr. . http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-chigi_%28Dizionario-Biografico%29/    

50Ibid. Nel 1515 venne ultimata la costruzione delle Logge, iniziate da Bramante, di cui Raffaello aveva preso le redini come architetto e nel 1519 furono conclusi anche i decori del piano centrale, per la pavimentazione fu chiamato da Firenze Luca della Robbia il Giovane, figlio di Andrea e nipote del più celebre Luca.

51Il Vasari descrive come un posto di rigogliosa bellezza naturale il terreno che Leone X aveva comprato sulle pendici di Monte Mario nel 1515, lo scopo di quest’acquisto era quello di costruire una maestosa villa suburbana con boschi, giardini, specchi d’acqua, zone invernali ed estive disposte secondo i venti, impianti termali, , saloni, logge, un teatro e tante opere d’arte , per far rivivere l’opulenza delle ville suburbane di Roma antica. Raffaello è l’architetto di questo ambizioso progetto, coadiuvato da Antonio da Sangallo il Giovane, purtroppo la morte coglie l’artista quando i lavori non sono ancora arrivati a metà; anche Leone X muore il 1° dicembre 1521 e il tutto viene ereditato da Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII, cugino di Leone X, ma anche lui muore nel 1534 lasciando questo grandioso progetto di Raffaello solo un sogno. Cfr. S. Pasti, Raffaello e l’invenzione di una magnifica utopia, ovvero l’opera d’arte come progetto globale, https://www.aboutartonline.com/raffaello-elopera-darte-come-progetto-globale-linvenzione-di-una-magnifica-utopia/

52Non erano ancora passati due mesi dalla morte di Raffaello, che cominciarono i primi contrasti per la divisione e la preminenza nei lavori di restauro di Villa Madama, iniziati nel 1518 su progetto dell’artista. A testimonianza di ciò sono due lettere datate 4 e 17 giugno 1520, scritte da Giulio de’ Medici al Cardinale Mario Maffei, il quale controllava i lavori, dove lo prega di ristabilire la pace e l’armonia tra Giulio Romano e Giovanni da Udine, che sotto la guida di Raffaello avevano lavorato per anni in accordo. Cfr. Ibid.  

53Anton Raphael Mengs nacque ad Aussig (Repubblica Ceca) nel 1728, compì i suoi studi a Desdra e nel 1741 andò a Roma, dove studiò la pittura classicista del XVII secolo, le statue antiche del Belvedere e le Stanze di Raffaello. Nel 1744 fu di nuovo a Desdra, dove venne nominato pittore di corte; due anni dopo tornò a Roma: si convertì al Cattolicesimo e sposò Margarita Quazzi, popolana romana. Alcuni anni dopo entrò a far parte dell’Accademia di San Luca e nel 1771 ebbe la carica di Principe della stessa Accademia. Nel 1755 termina la copia dell’affresco “Scuola d’Atene” di Raffaello, su commissione del duca di Northumberland e sempre nello stesso anno conosce e stringe amicizia con Johann Joachim Winckelmann, accomunati dall’interesse per le antichità romane, il quale definisce Mengs come il maggiore artista del suo tempo e anche di quelli a venire. Questo fu un periodo molto proficuo per l’artista e tra le numerose opere, nel 1761, ultimò quella che lo rese molto famoso: l’affresco del “Parnaso” per il salone della villa del Cardinale Alessandro Albani, dove si riscontrano numerosi riferimenti col “Parnaso” affrescato nella Stanza della Segnatura da Raffaello. L’anno successivo viene pubblicato il suo trattato “Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei”, dove teorizza il suo concetto di bellezza ideale e confuta la pittura dei secoli XVII e XVIII, criticando, della prima, l’uso del chiaroscuro, il sentimentalismo angoscioso e devoto; della seconda le tematiche vuote di scopi morali e formativi. Mengs soggiornò alcuni anni in Spagna presso la corte di Carlo III, tornò a Roma nel 1777, dove morì due anni dopo. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/anton-raphael-mengs/

54A. R. Mengs, Opere di Antonio Raffaello Mengs. Primo pittore della Maestà del Re cattolico Carlo III, Pubblicate dal Cav. D. Giuseppe Niccola D’Azzara, Bassano MDCCLXXXIII, p. 7 e segg.

55Ibid., p. 18.

56Ibid.

57Ibid., p. 131.

58 Cfr., Ibid., pp. 171-172. Come si può vedere sia nelle madonne del periodo fiorentino, sia nelle opere di quello romano, il sentimento della natura è, in Raffaello, una costante molto importante della sua pittura.

59Ibid.

60Ibid., pp.172-174.

61G. Vasari, Le vite… cit.

 

 

 

 

 

 

 

NELL’OTTICA DELL’ ”HOMO SANZA LETTERE”

di Loredana Fabbri

  “L’occhio dal quale la bellezza dell’universo è specchiata dai contemplanti,

                                                                           è di tanta eccellenza, che chi consente alla sua perdita

                                                                        si priva della rappresentazione di tutte le opere della natura,

                                                       per la veduta delle quali l’anima sta contenta nelle umane carceri, mediante gli occhi,

                                                                        per i quali essa anima si rappresenta tutte le varie cose di natura.

                                                      Ma chi li perde lascia essa anima in una oscura prigione, dove si perde ogni speranza

                                                                                          di vedere il sole, luce di tutto il  mondo”

                                                                                      (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, XIX, 1550)

 

Al Professor Aldo Caporossi con infinita riconoscenza

 

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<<In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. […] Dio disse: “Ci siano le luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra”. E così avvenne: Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare il giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre>>. (Genesi, 1, 18) La luce è una creazione di Dio, le tenebre sono la negazione. In tutte le culture la luce è contrapposta alle tenebre: si comprende la luce per ché vi sono le tenebre, la luce indica la vita, le tenebre la morte. La Bibbia è permeata dal simbolo della luce dalla prima all’ultima pagina. Agostino paragona la luce alla grazia divina, sostenendo che l’uomo non essendo e non possedendo per sé la verità, la riceve da Dio, il quale simile a una luce vivida illumina la nostra mente permettendole di apprendere.

Molto frequenti sono i riferimenti a problemi di ottica e di teoria della visione nei manoscritti leonardeschi, questo grande interesse di Leonardo per l’anatomia e la fisiologia dell’occhio, scaturisce soprattutto dalle sue ricerche sulla prospettiva e la pittura. Ma quale idea egli aveva sulla natura della luce? Se per luce vogliamo intendere ciò che gli scienziati del suo tempo chiamavano “lumen”, Leonardo non menziona mai la natura corpuscolare del “lumen”, ma i suoi studi riflettono il caos che regna nella teoria del suo tempo, parla di “razzi”rettilinei, ma il concetto delle “spezie”è indubbiamente quello da lui seguito. Questa teoria sosteneva che chi guardava in uno specchio piano, recepiva negli occhi le specie che sono rimbalzate sulla superficie dello specchio e che si contraevano lungo una piramide che aveva il vertice nell’occhio. Teoria presto abbandonata.

In passato solo con Avicenna e Averroé si ebbe la distinzione tra “lux” e “lumen”, legate a differenti interpretazioni del concetto di luce. Avicenna distingue la “lux”come qualità luminosa degli oggetti che rende possibile, tramite un mezzo interposto, il vederli, mentre il “lumen”sarebbe l’effetto della luce sul mezzo e sui corpi circostanti.

Averroé distingue tra esistenza spirituale ed esistenza corporea della luce e dei colori, sostenendo che nell’anima avrebbero un’esistenza spirituale mentre nei corpi trasparenti un’esistenza interposta tra quella spirituale e la corporea. In tal modo il concetto di luce comincia ad indicare particolarità formali dei corpi, che sono espresse a chi osserva per mezzo dei “simulacri”, “species”, che possono essere materiali o immateriali. La “lux”, quindi, diviene visibile per mezzo del “lumen”, che in tal modo acquisisce il significato di specie della “lux”.

Fino al XII secolo, però, la teoria prevalente sulla luce fu quella del neoplatonismo, mediato dalla tradizione cristiana di Sant’Agostino, per cui il mondo della verità eterna si può raggiungere solo se l’anima è illuminata da Dio, dando luogo ad un processo per cui l’anima vede le verità eterne e per mezzo di queste è in grado di giudicare ogni altra cosa.[1]

Altri procedimenti vennero teorizzati col passare del tempo, creando quel guazzabuglio di idee in atto al tempo di Leonardo, il quale parla di spezie, di simulacri, di similitudini e sporadicamente di razzi, nel “Codice Atlantico (fol. 256r.) troviamo: <<Siccome la pietra gittata nell’acqua si fa cientro e causa di vari circuli, el sono fa nell’aria […]circularmente spargie la sua voce. Ogni corpo posto infra l’aria luminosa circularmente enpie le infinite parti d’essa aria della sua similitudine ed è tutto e ttutto in nella parte>>.

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Leonardo era un uomo di grandissimo ingegno, un acuto osservatore e bramoso di conoscere le cause dei fenomeni, e, come pittore, cercò di spiegare l’effetto strano che si ottiene in un dipinto, ossia si riesce a far vedere quello che si vedrebbe guardando un panorama in un determinato istante. Tutto ciò non solo per curiosità di sapere e di capire, ma soprattutto per perfezionare la tecnica della pittura, non dimentichiamo che fu proprio Leonardo a introdurre “lo sfumato”, e nel “Trattato della Pittura” (§77) scrisse: <<Dell’errore di quelli che usano la pratica senza la scienza. Quelli che s’innamorano della pratica senza la scienza, sono come i nocchieri che entrano in naviglio senza timone o bussola, che mai hanno certezza dove si vadano. Sempre la pratica deve essere edificata sopra la buona teorica, della quale la prospettiva è guida e porta, e senza questa nulla si fa bene>>. Egli vuole rendersi conto del perché con uno strato di impasti più chiari e più scuri sopra una tavola, una tela o un muro si inganni chi guarda, perché questi vede uomini, montagne e alberi in rilievo con le loro forme e i loro colori, certamente Leonardo si sarà chiesto che cosa vuol dire “vedere” ed ha cercato la risposta nei testi che erano più seguiti a quel tempo, ma questi trattati lo devono avere molto deluso, infatti nei suoi appunti troviamo molteplici riferimenti a questi suoi studi, in cui è palese la sua insoddisfazione sia per i concetti contraddittori sia per il contrasto delle sue idee con quelle della scienza, dovuti anche alla difficoltà dell’argomento.[2]

Ai tempi del maestro toscano, l’ottica era ancora un intrico subdolo di enigmi, i cui tentativi di chiarimenti davano luogo a teorie improbabili e contraddittorie, del tutto insoddisfacenti, Leonardo, infatti, dopo avere consultato i testi sull’ottica di cui poteva disporre, deve essere rimasto inappagato dalle varie teorie della visione in essi proposte e scrive : <<L’occhio del quale l’esperienza ci mostra così chiaramente l’uffizio, è stato definito insino al mio tempo da un numero infinito di autori di un dato modo, ed io trovo che esso è completamente diverso>>.[3] Queste parole si trovano nel celeberrimo “Codice Atlantico”, ossia la più vasta raccolta di disegni e scritti autografi di Leonardo: composto da 1119 fogli, in cui sono inclusi disegni, progetti, annotazioni e ricerche di matematica, geometria, astronomia e ottica, oltre ai vari studi dai temi più disparati, che egli inizia nel 1478, quando da giovane era da poco arrivato a Firenze, e prosegue fino al 1519, anno in cui morì ad Amboise.

Questa grande opera si conserva presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano e la sua avventurosa storia è veramente affascinante: nel suo testamento, Leonardo lasciò tutti i suoi manoscritti a Francesco Melzi,[4] suo allievo e discendente di una nobile famiglia lombarda, che seguì il maestro anche in Francia, il quale, dopo il 1519, riportò i manoscritti in Italia, e, come scrive il Vasari li conservò “come reliquie”. Gli eredi di Melzi non fecero altrettanto e dopo la morte di Francesco, furono relegati nel sottotetto della villa di famiglia in forma di fogli sciolti e non rilegati. Ritrovati più tardi, iniziarono un complicato percorso, passando di acquirente in acquirente,[5] fino a quando, alla fine del Cinquecento, arrivarono allo scultore e medaglista Pompeo Leoni,[6] il quale con grandi difficoltà era riuscito a recuperare dagli eredi di Melzi una parte dei manoscritti. I fogli autografi di Leonardo, di diverse dimensioni, vennero incollati da Leoni su fogli più grandi, normalmente usati per realizzare atlanti geografici: da qui il nome che sembra indicare contenuti esoterici, ma che in realtà non si riferisce al contenuto ma alle dimensioni dei fogli di supporto, che vennero ritagliati quando i disegni erano fronte-retro, in modo da poter vedere entrambe le facciate.

Questo lavoro fu estremamente importante, perché rese uniforme una raccolta molto vasta e disomogenea, che contribuì a far arrivare il “Codice Atlantico” fino ai giorni nostri senza dispersione.

Nel 1622 circa il “Codice” fu acquistato dagli eredi di Leone dal nobile mecenate milanese Galeazzo Arconati, il quale lo donò alla Biblioteca Ambrosiana nel 1637, ma con la conquista di Milano da parte di Napoleone, la raccolta venne requisita e trasferita al Louvre nel 1796, dove rimase per diciassette anni, fino a quando, nel 1815, il Congresso di Vienna sancì la restituzione ai legittimi Paesi dei beni artistici trafugati da Napoleone. Si narra che l’incaricato dalla Casa d’Austria alla restituzione delle opere d’arte in Lombardia non riuscendo a leggere la grafia di Leonardo, che scriveva solitamente da destra a sinistra, abbia scambiato il “Codice” per un manoscritto cinese, quindi non di sua competenza, ma lo scultore Antonio Canova, allora Emissario del Pontefice, si rese conto dell’errore e grazie a lui il “Codice Atlantico” fu incluso nell’elenco di opere da restituire alla Biblioteca Ambrosiana.[7]

L’opinione che Leonardo si è fatto del meccanismo della visione e in cui respinge la teoria dei “raggi visuali”, seguita ai suoi tempi, la troviamo nel primo foglio del “Codice Ashburnham 2038”: <<Impossibile è che l’occhio mandi fori di se, per li razzi visuali, la virtù visiva, perché, nello suo aprire, quella prima parte che desse principio all’uscita e avessi andare all’obbietto, non lo potrebbe fare senza tempo. Essendo così, non potrebbe caminare in un mese all’altezza del sole quando l’occhio lo volessi vedere. E s’ella vi agiugnessi, sarebbe neciesario che la fussi continuata per tuta la via ch’è dall’aocchio al sole, e ch’ela sempre alargassi i’ modo che tra ‘l sole e ll’occhio conponessino la basa e lla punta d’una piramide. Essendo questo, non basterebbe se l’occhio fussi per uno milione di mondi e che ttutto non si consumassi in detta virtù. E se pure questa virtù avessi a caminare infra l’aria, come fa l’odore, i venti ne la torcierebbono e porterebono in altro loco. E noi vediamo con quela medesima presteza il corpo del sole, che noi vederemo una distantia d’uno braccio: e non si muta per soffiare di venti, né per alcun altro acidente>>.[8]

Alla fine del XV secolo Leonardo affermava che la finestra dell’anima non era il volto, bensì l’occhio, ma cosa intendeva dicendo “finestra dell’anima”? Sicuramente qualcosa che fa da passaggio e da spazio per l’immagine riflessa sia esterna (mondo) che interna (anima), uno specchio che metta a contatto tra loro il visibile con l’invisibile tramite la pittura. Filosofi ed artisti cominciano ad interessarsi alla teoria dei colori, cercando di porre i rapporti fra i colori semplici e quelli composti.

Secondo la concezione antica l’occhio non era un organo predisposto a sopportare i raggi luminosi, ma era l’origine di un insieme di raggi, chiamati “raggi visuali”, che arrivavano all’oggetto, fu Archita di Taranto che formulò la teoria per la quale l’occhio emana un fluido, una sorta di fuoco invisibile, che andava agli oggetti, li colpiva e tornava indietro, ciò significava che la nostra anima, passando attraverso gli occhi, andava a toccare gli oggetti. L’ottica classica, da Democrito a Tolomeo, accetta la teoria emissionistica dell’occhio.[9] Leonardo scrive nel “Trattato della Pittura: <<L’occhio, che si dice finestra dell’anima, è la principale via donde il comune senso può più copiosamente e magnificamente considerare le infinite opere di natura e l’orecchio è il secondo, il quale si fa nobile per le cose racconte, le quali ha veduto l’occhio. Se voi istoriografi, o poeti, o altri matematici, non aveste con l’occhio visto le cose, male le potreste voi riferire per le scritture. E se tu, poeta, figurerai una istoria con la pittura della penna, il pittore col pennello la farà di più facile satisfazione, e meno tediosa ad esser compresa…>>.[10] E ancora: <<La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede. Adunque queste due poesie, o vuoi dire due pitture, hanno scambiato i sensi, per i quali esse dovrebbero penetrare all’intelletto. Perché se l’una e l’altra è pittura, devono passare al senso comune per il senso più nobile, cioè l’occhio; e se l’una e l’altra è poesia, esse hanno a passare per il senso meno nobile, cioè l’udito…>>.[11] Per il maestro toscano, tali teorie classiche sono chiaramente e scientificamente sorpassate, ma ancora vitali dal punto di vista estetico-poetico, infatti, da ciò che scrive, ci fa capire che è come se i raggi si specchiassero nell’occhio e i moti dell’anima si riflettessero nei corpi.

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Leonardo era a conoscenza delle fonti antiche, medievali e arabe sull’ottica, ma la sua tendenza non è molto chiara, poiché è incerto se credere che vi siano “razzi” che escono dagli occhi, o anche che siano gli oggetti a diffondere delle immagini come loro analogia che raggiungono l’occhio, egli s’impegna con se stesso di revisionare la teoria indagando l’anatomia dell’occhio per conoscere le componenti, ma sembra che questa verifica anatomica e fisiologica non sia mai stata effettuata: nei suoi disegni e soprattutto nelle sezioni dell’occhio si notano dei corpi sferici concentrici non corrispondenti alla realtà, perché nella pupilla, che è lenticolare, non esistono tutte quelle sfere, desunte, indubbiamente, da errate concezioni medievali.[12]

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Vasco Ronchi cosí si esprime a proposito degli studi sull’ottica effettuati da Leonardo:<< Quello che Leonardo ha scritto, a qualche ammiratore incondizionato è apparso come ricco d’interesse. Dobbiamo dire subito che l’ ottica non è il campo in cui Leonardo ha raccolto i frutti migliori, perché molto di ciò che ci ha lasciato a questo proposito perde quasi tutta la importanza attribuitagli, quando lo si inquadri nel complesso delle conoscenze ottiche del suo tempo>>.[13] Occuparsi di ottica ai tempi di Leonardo era un’impresa assai ardua, in quanto non si trattava di studiare o applicare varie leggi matematiche, geometriche o tecniche, ma colui che lo faceva doveva avere la stoffa del filosofo, il quale ha il coraggio di addentrarsi nello studio di problemi intricati e misteriosi come, appunto, era l’ottica dei secoli XV e XVI, le cui “conoscenze” erano limitate a teorie strane e contraddittorie.

Già dal IV secolo a. C. l’uomo viene studiato attentamente nelle sue funzioni naturali, ma soprattutto si cerca di capire il problema della conoscenza, cioè in che modo l’ “io” conoscesse il mondo esterno, arrivando a capire che l’ io o anima o psiche comunica con l’ esterno tramite i sensi. Si cercò di comprendere il meccanismo con cui agivano i sensi e i meccanismi furono accettabili per quanto riguardavano l’udito, il tatto, l’olfatto e il gusto, ma per la vista fu molto più difficile: che la funzione del vedere, del distinguere il colore fosse una realizzazione della psiche, che raffigurava gli elementi che le arrivavano per mezzo dei nervi ottici fu abbastanza semplice, ma quando si pose il problema di come poteva l’ occhio conoscere tali caratteristiche per trasmetterle al cervello, sorsero tante questioni che furono chiarite solo molti secoli più tardi.

Il periodo rinascimentale eredita, dall’antichità e dal Medioevo, una vasta tradizione di studi sull’ottica soprattutto di natura filosofica e matematica, conquistando nel campo dell’ottica geometrica risultati importanti sia nella scienza greca con Euclide e Tolomeo, che in quella araba con Alhazen, in Europa con lo slesiano Witelo (di entrambi gli studiosi parleremo più avanti), e con il tedesco domenicano Teodoro di Freiberg.[14]

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Nel XVI secolo la propagazione della luce viene ancora spiegata sulla base della teoria delle “specie”, ossia la luce scaturita da un corpo luminoso è detta “specie” e si moltiplica tramite il mezzo, muovendosi in linea retta, teoria sostenuta da Roberto Grossatesta, per cui i mutamenti dell’universo materiale sono attribuiti all’attività della luce: tale teoria esercitò una forte influenza sui filosofi del XIV secolo.[15] Prima ancora, nella filosofia medievale, Agostino, come già detto, sosteneva che la luce fosse similare alla grazia divina e alla folgorazione che lo spirito umano riceve dalla verità divina.

Il matematico siciliano Francesco Maurolico, nel Cinquecento, espone una teoria diversa, secondo cui da ogni punto del corpo luminoso e di quello illuminato hanno origine infiniti raggi rettilinei, capaci di illuminare, riflettersi e rifrangersi, trattati non conosciuti da Leonardo, in quanto scritti e pubblicati dopo la sua morte[16]

Leonardo sostiene che la propagazione della luce avviene in modo simile alla formazione delle onde create da una pietra gettata in uno stagno: la sua intensità è proporzionale alla forza della percussione e inversamente proporzionale alla distanza della fonte.

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L’ anatomia dell’ occhio rivelò che la sua costituzione era formata da un globo cavo, pieno di sostanze trasparenti e quasi completamente chiuso, ad eccezione di un piccolo foro, generalmente di due millimetri, la pupilla, quindi ciò che conduceva all’occhio le forme, i colori, la posizione di corpi esterni vicini e lontani, doveva necessariamente entrare nel piccolo pertugio della pupilla, ma arrivare a capire tutto questo non era certamente un problema semplice, da qui le varie teorie. Una di queste ipotizzò che da tutti i corpi <<…partissero in ogni momento come delle “scorze” sottilissime, impalpabili, identiche per forma e per colori al corpo emittente. La propagazione doveva avvenir e in tutte le direzioni, a velocità grandissima, per alcuni addirittura infinita. Queste “scorze”, dette anche “èidola” , non dovevano disturbarsi assolutamente intersecandosi durante il loro percorso, quelle di un corpo con quelle di un altro; e inoltre dovevano possedere la proprietà di contrarsi continuamente per via, fino a diventare così piccole da potersi introdurre nella pupilla di un occhio, ovunque lo incontrassero>>.[17] Tale teoria, decisamente molto azzardata, trovò pochi seguaci, soprattutto tra i matematici, che avevano dato un forte impulso agli studi della prospettiva fin dall’epoca greco-romana, anche se significava rinunziare al principio per cui vi doveva essere un’esalazione dei corpi verso l’occhio, infatti questi studiosi elaborarono una teoria della visione, che rappresentò quella ufficiale per almeno quindici secoli, nonostante non fosse meno strana della precedente: << Costoro, rilevando che il cieco, pur senza toccare direttamente con le mani gli oggetti circostanti, riesce a rendersi conto della loro forma e della loro posizione (non però del colore) se li esplora con un bastone, giunsero alla concezione dei “raggi visuali”, ossia dei bastoni infinitamente sottili, rettilinei, emessi dagli occhi e capaci di esplorare il mondo antistante all’ osservatore, in modo da portare agli occhi gli elementi necessari perchè la psiche potesse rappresentarsene la forma, la posizione e il coloro>>.[18]

Tra i fisici, seguaci della prima teoria e i matematici ci furono vivaci discussioni e vicendevoli domande a cui non venivano date risposte, poiché era facile abbattere, ma più difficile edificare. Da queste due teorie estreme ne nacquero molte altre, che cercarono di riprendere il meglio dell’una e dell’altra, ma nessuna ebbe carattere di validità.

Aristotele contestò sia la teoria delle “èidola” sia quella dei “raggi visuali” e sostenne ricorre al mezzo interposto tra occhio e oggetto e che la visione avviene per mezzo di una specie di pressione, che sotto l’ azione del soggetto si trasmette nel mezzo fino all’occhio, enunciazione enigmatica e troppo generalizzata. Aristotele, demolendo la teoria dei “raggi visuali” propone quella del mezzo interposto tra l’occhio e l’oggetto e cerca di spiegare il fenomeno della visione come una specie di pressione che dall’ oggetto si trasmette nell’ aria fino all’ occhio: questa teoria non ebbe fortuna.[19]

La maggior parte degli studiosi seguiva la teoria dei “raggi visuali”, teoria esposta in due opere di Euclide: l’“Ottica” e la “Catottrica”, risalenti al IV secolo a. C., ma fu nel secolo XI dell’era volgare che questa teoria venne velocemente demolita dagli scienziati e filosofi arabi e soprattutto con il contributo fondamentale dello scienziato Ibn-Al-Haitham, meglio conosciuto come Alhazen.[20]

Alhazen osserva che se guardiamo il sole o oggetti molto luminosi, quando chiudiamo gli occhi continuiamo a vederli per diverso tempo, lo studioso arriva alla conclusione che la visione del sole non avviene per qualcosa che esce dagli occhi, altrimenti dovrebbe cessare immediatamente con la chiusura delle palpebre o con altro oggetto ostacolante, allora la visione, sostiene Alhazen, avviene per opera di un agente esterno emesso dai corpi luminosi e idoneo ad imprimere un’ impronta più o meno duratura in quella parte dell’occhio detta “sensorio”: l’indagine del fenomeno della “persistenza delle immagini retinee” fu di grandissimo valore, perché indirizzò gli studi dell’ottica in quella via che avrebbe portato, anche se cinque secoli più tardi, alla soluzione del problema. Alhazen considerò l’oggetto, di qualsiasi dimensione, come un insieme di parti piccolissime, puntiformi. <<Considerato a sè, ogni elemento emette le sue “scorzettine” che si propagano in linea retta in tutte le direzioni, conservando la similitudine con l’elemento che le aveva emess. Una qualunque di queste “èidola”, se incontra una pupilla, vi entra senza difficoltà, essendo assai più piccola della pupilla stessa, e vi entra a qualunque distanza dallo oggetto avvenga l’incontro>>.[21]  In tal modo cadeva la difficoltà più evidente della teoria delle “èidola”, consistente proprio in quella loro strana contrazione per via.

L’occhio, secondo Alhazen, era composto da tanti strati sferici concentrici e questa convinzione lo porta all’idea di un meccanismo ottico molto ingegnoso: se un elemento puntiforme di un oggetto manda le sue “èidola” in tutte le direzioni, ciò significa che in uno stesso occhio ne arrivano più di una, cioè tutte quelle che colpiscono la superficie della pupilla, ma solo una arriva secondo la perpendicolare e si introduce attraversando tutte le “tuniche” oculari concentriche senza esser deviata; << …mentre le altre “èidola” simili, emesse dalla stessa sorgente in direzione così prossime a quella precedente da giungere ancora sull’ area della pupilla, vi giungono però con un angolo d’ incidenza diverso da zero, e quindi vengono rifratte, cioè la loro traiettoria viene come spezzata. Orbene Alhazen pensa che soltanto la “scorzettina”che non viene rifratta conservi la sua capacità stimolante, e che le altre vadano perdute>>.[22] In altre parole, un oggetto esteso davanti ad un occhio viene diviso in numerose unità di dimensioni ridottissime, ciascuna capace ad inviare le sue “èidola” in tutte le direzioni, ma all’occhio interessano solo quelle che gli arrivano perpendicolari alle sue “tuniche” e tra queste ce n’è sola una per ogni punto dell’oggetto, che penetrano nell’occhio, nel centro del bulbo si incrociano e proseguono ricostruendo punto per punto una figura simile all’oggetto nella retina. Ma la figura ricostruita sulla retina appariva rovesciata rispetto all’oggetto, quindi Alhazen pensò che il “sensorio” non fosse la retina, ma la superficie anteriore del cristallino; nonostante la conclusione inaccettabile il contributo dello scienziato arabo fu determinante, ma a causa della lingua tali studi si conobbero in Occidente solo nel XIII secolo, quando il polacco Vitellione[23] tradusse dall’arabo gli scritti di Alhazen. L’argomento dominante dell’ottica antica e medievale fu, dunque, il meccanismo della visione e fino a quando non si sarebbe risolto questo problema, non si poteva andare avanti, perché sconosciuta la natura dell’agente capace di stimolare l’occhio.[24]

La teoria dei “raggi visuali”, che colpivano le particelle degli oggetti e poi le portavano all’occhio, era supportata da Euclide, da Bacone e da Witelo, quindi da “auctores” antichi e medievali, fu confutata, come già detto, dallo scienziato arabo Alhazen, il quale osservò anche il fenomeno della “persistenza delle immagini retinee”, osservando che se qualcuno guarda il sole o un’ altra fonte molto luminosa, quando chiude gli occhi continua a trattenere l’immagine per molto tempo, desumendo che la visione non avviene per qualcosa che esce dagli occhi, perché non appena chiuse le palpebre essa si interromperebbe, ma avviene a causa di un agente esterno diffuso dai corpi luminosi o dagli oggetti ritenuti come l’ insieme di elementi puntiformi.[25]

Queste teorie non furono subite accolte negli ambienti accademici, dove, nei secoli XIV e XV, si seguivano molto i testi della filosofia greco-romana, ma si cercò di accordare la classicità con la novità, con il risultato di un lungo periodo in cui nacquero le teorie più sconcertanti: questa era la situazione caotica delle teorie della visione al tempo di Leonardo, da cui egli, come altri artisti del Rinascimento, quali Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti, ne era molto attratto e non solo cercarono di svilupparne i contenuti, ma la utilizzarono in funzione delle rappresentazioni dello spazio nell’arte: le leggi matematiche alla base della visione diventano leggi della rappresentazione dello spazio in pittura, o prospettiva.[26]

La posizione di Leonardo nei confronti dell’ottica e dei problemi relativi alla visione oscilla, dunque, continuamente tra l’accettazione delle teorie accreditate presso gli studiosi dell’ antichità e del Medioevo e tra teorie alternative e contrastanti.

Queste teorie erano conosciute da Leonardo, grazie alle traduzioni in latino e in volgare di tali opere ma ancora di più grazie alla tradizione orale e ai frequenti dibattiti nei circoli artisti e scientifici che egli frequentava, ma sarebbe compito assai arduo individuare le fonti cui si ispira per i suoi studi di ottica, indubbiamente era a conoscenza di quelle opere di cui abbiamo accennato prima, anche se amava definirsi “Homo sanza lettere”, che non era un’ostentazione di umiltà, ma una proclamazione di fede nelle scienze: considerava, infatti, la logica e la filosofia “bugiarde scienze mentali”, disapprovando tutto ciò che era basato sull’autorità degli scritti classici e che mancava del supporto dell’esperienza. La Firenze in cui si formò, quella della seconda metà del Quattrocento, era una città molto vivace, in cui fervevano l’arte e gli studi e lui ebbe la fortuna di vivere questa grande avventura creativa.

Certamente il maestro toscano conobbe l’ opera di John Pecham “Della Prospectiva communis”, la prima edizione italiana fu pubblicata nel 1482 da Fazio Cardano, professore a Pavia, frequentato da Leonardo, il quale scrive: << intra li studi delle naturali considerazioni la luce diletta più i contemplanti; intra le cose grandi delle matematiche la certezza della dimostrazione innalza più preclaramente l’ingegni delli investiganti. La prospettiva dunque è da esser preposta a tutte le traduzioni (per traduzioni Leonardo intendeva le tradizioni) e discipline umane, nel campo della quale la linia radiosa complicata dà e modi delle dimostrazioni, in nella quale si truova la groria non tanto della matematica quanto della fisica, ornata co’ fiori dell’una e dell’altra, le sentenzie della quale, distese con gran circuizioni, io le ristringerò in conclusiva brevità intessendo, secondo il modo de la materia, naturale e matematiche dimostrazioni, alcuna volta conchiudendo gli effetti, aggiungendo ancora nelle mie conclusioni alcuna che non sono in quelle, non di meno di quelle si traggono, come si degnerà il Signore, luce d’ ogni cosa, illustrare me trottatore della luce, el quale partirò la presente opera in 3 parti.

La luce, operando nelle cose chiare e splendide contra sé converse, alquanto teme in sé riserba alquanto le spezie di quelle.

La luce, operando nel vedere le cose contra sé converse, alquanto le spezie di quelle ritiene. Questa conclusion si pruova per li effetti.

Perché la vista, in vedere la luce, alquanto teme. Ancora dopo lo sguardo rimangano ne l’occhio similitudine della cosa intensa, e fanno parere tenebroso il logo di minor luce, per insino che dall’occhio sia spartito il vestigio de la impression de la maggior luce>>.

Queste parole che Leonardo scrive nel Codice Atlantico (f. 543 r.), databili verso il 1489- 1490, e che sembrano introdurci nei suoi studi sull’ottica come se fossero un proemio, sono tratte dalla ” Perspectiva communis” di Pecham testimoniando così la conoscenza di  Leonardo dell’autore e dell’opera, anche in un altro passo del Codice Atlantico (f.729 v.) il maestro toscano, confutando la tesi “estromissiva”, cita quasi alla lettera il suddetto autore.

Alcuni disegni di Leonardo sull’incidenza e sulla riflessione dei raggi sembrano rivelare la conoscenza dei modelli di Witelo, come pure il frequente riferimento al cosidetto ” Problema di Alhazen” attesta la conoscenza delle opere di Alhazen, forse già dagli anni della sua formazione fiorentina. Il modello dell’occhio, che Leonardo disegna numerose volte, si basa sulla raffigurazione delle parti dell’ occhio che troviamo negli studi di Alhazen, il quale sosteneva che tutte le componenti interne di questo organo fossero sferiche.[27]

L’ ottica è in rapporto molto stretto con la pittura e gli studi del genio toscano sembrano nascere dalla volontà di teorizzare i fenomeni luministici, o concernenti il chiaroscuro, il rapporto tra luce e rilievo, ma soprattutto riportano al “primato”della pittura e in particolare al celebre passo in cui l’ artista dice: <<Il pittore è padrone di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’ uomo, percioché s’egli ha desiderio di vedere bellezze che lo innamorino, egli è signore di generarle, e se vuol vedere cose mostruose che spaventino, o che sieno buffonesche e risibili, o veramente compassionevoli, ei n’è signore e creatore. E se vuol generare siti deserti, luoghi ombrosi o freschi ne’ tempi caldi, esso li figura, e cosí luoghi caldi ne’ tempi freddi. Se vuol valli, il simile; se vuole delle alte cime di monti scoprire gran campagna, e se vuole dopo quelle vedere l’ orizzonte del mare, egli n’è signore; e cosí pure se dalle basse valli vuol vedere gli alti monti, o dagli alti monti le basse valli e spiagge. Ed in effetto ciò che è nell’universo per essenzia, presenzia o immaginazione, esso lo ha prima nella mente, e poi nelle mani, e quelle son di tanta eccellenza, che in pari tempo, generano una proporzionata armonia in un solo sguardo qual fanno le cose>>. ( Trattato della Pittura, Parte prima, § 9) Negli ultimi dieci anni del Quattrocento, Leonardo approfondisce i suoi studi sull’ ottica per dare una base scientifica alla pittura e un chiaro esempio lo possiamo vedere nel ” Cenacolo”: i riflessi  colorati sui piatti di peltro e il riflesso della luce all’ interno, le trasparenze dei vetri e dell’acqua, le ombre primarie e secondarie, l’ uso del chiaroscuro.

I temi ottici furono affrontati da Leonardo durante tutta la sua carriera artistica, anche se non sempre in modo chiaro e incoerente, accavallandoli con gli altri innumerevoli studi, usando i mezzi di cui disponeva: innanzitutto la geometria euclidea, che gli permetteva di accostarsi alle leggi di propagazione dei raggi visivi e al loro comportamento, e, in secondo luogo, la sua prodigiosa facoltà di analizzare i fenomeni naturali artificiali, che poi trasponeva nei suoi disegni.[28]

Sempre nel Codice Atlantico troviamo che: <<L’ occhio, del quale l’esperienza ci mostra così chiaramente l’uffizio, è stato definito insino al mio tempo da un numero infinito di autori di un dato modo, ed io trovo che esso è completamente diverso>>. ( Cod. Atl., fol. 35 verso- b), quindi da queste parole possiamo dedurre che Leonardo intende dare un grande e ambizioso contributo all’ottica; ancora: <<Scrivi nella notomia  che proportione ànno infra loro li diametri di tutte le spere dell’occhio, e che distanzia à da loro la spera cristallina>> ( Cod. Atl., f. 345 v. b), ma bisogna tenere presente quali erano i mezzi di misura e d’indagine per i suoi studi e soprattutto calcolare che nel progettare lo schema del suo occhio, aveva davanti tre ostacoli sostanziali: la mancanza di strumenti di misura per piccole lunghezze; l’ inattuabilità di studiare l’occhio dal vivo, restringendo le sue ricerche solo al campo anatomico; l’assenza di una legge valida della rifrazione della luce. Ma non erano certo le difficoltà a spaventare Leonardo, infatti così scrive: <<Nella natomia dell’occhio, per ben vederlo dentro senza versare il suo umore, si debbe mettere l’occhio intero in chiaro d’ovo e far bollire, e soda ch’ell’è, tagliare l’ovo e l’occhio a traverso acciocché la mezza parte di sotto non versi nulla>>. (Codice K, f. 39). In tal modo si spiega come mai in tutti i suoi disegni schematici dell’occhio, Leonardo rappresenta il cristallino con una forma quasi sferoidale, ossia quella forma che assume quando è staccato dall’occhio, mentre nell’occhio vivente ha forma di una lente biconvessa, come l’iride è appoggiato al cristallino, invece nell’occhio morto iride e cristallino sono quasi sempre staccati.

Nel Codice Atlantico (fol. 337 r.-a) troviamo una figura in cui il cristallino è rappresentato a forma di palla e allontanato dall’iride, con queste due peculiarità, Leonardo costruisce un modello di occhio in vetro e metallo, da lui descritto minuziosamente: <<Sarà fatta una palla di vetro di cinque ottavi di braccio per diamitro. Di poi ne sia tagliato tanto da una parte che vi si possa mettere il viso insino alli orecchi. E poi sia stabilito dentro al fondo un fondo di scatola d’un terzo di braccio che nel mezzo un foro che sia quattro tanti più che la popilla dell’occhio (o circa, chè non fa caso). Oltre a di questo, sia stabilita una palla di vetro sottile di grandezza d’un sesto di braccio per diamitro. E fatto questo, empi ogni cosa d’acqua tiepida e chiara. E metti il viso in essa acqua, e guarda nella palla, e nota, e vedrai: tale strumento manderà le spezie del s t all’occhio come l’occhio le manda alla virtù visiva>>. Ma l’imperfezione più evidente di questo modello consiste nella piccola palla interna di sottile vetro, che comporta che sia vuota internamente e che lo sia anche quando tutto viene riempito d’acqua, rendendo il modello leonardesco dell’occhio incompatibile con l’ottica odierna, nonostante egli sapesse che il cristallino è più denso di tutti gli altri mezzi rifrangenti dell’occhio, quindi se avesse fatta la palla tutta di vetro e non vuota, il suo modello sarebbe risultato coincidente con il sistema ottico: gli errori di Leonardo derivano da quello fondamentale che l’immagine sulla retina dovesse necessariamente essere diritta.

Molto importante, sempre nel XVI secolo, è la teoria dei colori, che diviene oggetto di indagine di filosofi e di artisti, i quali tentano di stabilire i rapporti quantitativi tra i colori semplici e quelli composti: Leonardo, nel “Codex Urbinas”,[29] identifica sei colori semplici e definisce una relazione tra colori ed elementi: il bianco è determinato dalla luce, il giallo dalla terra, il verde dall’acqua, il blu dall’aria, il rosso dal fuoco, il nero dalle tenebre che sono collocate sopra l’elemento del fuoco.[30]

codice-urbinate-Leonardo-da-Vinci-Trattato-di-Pittura-219v-Codice-Vaticano-Urbinate-Lat.-1270-Biblioteca-Apostolica-Vaticana.

Al maestro toscano si devono anche contributi sulla prospettiva lineare e su quella area, il quale, per la prima, esamina i cambiamenti che si hanno quando mutano le posizioni del piano pittorico, dell’oggetto e dell’osservatore; per la seconda determina le variazioni di intensità luminosa e le gradazioni dei toni in raffronto alle distanze e alla posizione della fonte luminosa. La prospettiva, durante il Medioevo era la scienza che studiava la percezione visiva e le sue tecniche, basate principalmente sulla geometria di Euclide; dal XV secolo in poi con la “perspectiva naturalis” s’intende l’ottica, mentre con la “perspectiva artificialis”viene indicata la tecnica di simulazione dello spazio tridimensionale su un piano bidimensionale, per mezzo di regole per la riproduzione dell’effetto della visione diretta. Filippo Brunelleschi e Masaccio sono i primi a far conoscere la prospettiva, che verrà poi teorizzata da Leon Battista Alberti con la sua opera “De pictura”, ma il trattato che inciderà sugli sviluppi della prospettiva sarà quello di Piero della Francesca: il “De prospectiva pingendi” del 1474 circa, concepito come un manuale ad uso dei pittori.[31]

Leonardo da Vinci si occupa anche della camera oscura, le cui origini risalgono all’antichità, la usa per le ricerche di ottica e per la teoria della visione. Egli paragona la pupilla ad una camera oscura, supponendo che questa invertirà le immagini; nello stesso tempo ritiene che le lenti cristalline dell’occhio, equivalenti ad una palla d’acqua, che invertono anche esse le immagini,  rifiutando la possibilità che l’immagine si inverta una sola volta, com’è la vera spiegazione, quindi sono proprio gli esperimenti che lo portano fuori strada, non le teorizzazioni.[32]  Tuttavia egli non arrivò fino in fondo, l’assimilazione dell’occhio alla camera oscura era sostanzialmente giusta, tralasciò il capovolgimento delle immagini sulla superficie della retina; Leonardo non ebbe il minimo sospetto del fenomeno dell’accomodamento, compito principale del cristallino, poiché ammise che il cristallino aveva il compito di raddrizzare le immagini capovolte dal sistema cornea-pupilla: <<La spera vitrea è messa nel mezzo dell’occhio per dirizare le spezie che si intersegano dentro lo spiracolo della popilla, acciò che la destra ritorni destra e la sinistra ritorni sinistra, nella intersegazione seconda, che si fa nel centro d’essa spera vitrea>>. (Codice D, fol. 3 v.) E ancora: <<La popilla dell’occhio, che per minimo spiraculo rotondo riceve le spezie de’ corpi posto dopo esso spiraculo, sempre le riceve sottosopra, e sempre la virtù visiva le vede diritte, come sono>>. <<E questo nascie che le dette spezie si dirizan secondo l’obietto donde son causate, e di lì son prese dalla imprensiva e mandate al senso comune, dove son giodicate>>. (Codice D, fol. 2v.) Da ciò si capisce che per Leonardo c’era un primo incrocio nel centro della pupilla ed è giusto, ma c’era anche un secondo incrocio nel centro del cristallino che è completamente falso. Circa cento anni dopo (1604) Keplero postulò questo capovolgimento, confermato da altri studiosi di anatomia.[33]

Il maestro toscano studiò e osservò a lungo il fenomeno della dilatazione e del restringimento della pupilla: <<La popilla dell’occhio si muta in tante varie grandezze quante sono le varietà delle chiarezze e oscurità delli obbietti che dinanti se li rappresentano. In questo caso la natura à riparato alla virtù visiva, quando ella è offesa dalla superchia luce di restringere la popilla dell’occhio, e, quando è offesa dalle diverse oscurità d’allargare essa luce a similitudine della bocca della borsa. […] Vedrai la sperienza nelli animali notturni, come gatte, gufi, allocchi e simili, li quali di mezzogiorno ànno la popilla piccola, e di notte è grandissima. […] E se lo voi sperimentare nell’omo, guardali fiso la popilla dell’occhio, tenendo una candela accesa alquanto discosto, e falli guardare esso lume, il quale li accosterai a poco a poco, e vedrai essa popilla che quando più tal lume se le avvicina tanto più si restringe>>. (Codice D, fol. 5v.) Leonardo, nel suo sconfinato e portentoso spirito d’osservazione, studiando questo fenomeno, deduce erroneamente che più l’occhio ha la pupilla grande più vede grandi le immagini: <<Tutte le cose vedute paranno maggiori di mezzanotte che di mezzodì e maggiori di mattina che di mezzodì. Questo accade perché la popilla dell’occhio è minore assai di mezzodì che di nessun altro tempo>>. (Codice H, fol. 86r.)

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A Leonardo va il merito di aver riconosciuto che l’organo specifico della sensazione luminosa è la retina, formata dal tessuto delle numerose ramificazioni del nervo ottico: <<E’ necessario che la imprensiva sia nell’occhio. El nervo che si parte dall’occhio e va al celebro è simile alle corde perforate che con infiniti rami tessano la pelle de’ corpi e per lor vacui si porta al senso comune>>. (Codice Arundel fol. 172r.)

Spesso Leonardo parla della presbiopia, attribuendo, giustamente, la causa ad una carenza di elasticità causata dal passare degli anni, che riducono la flessibilità e rendono deboli i muscoli, ma sbaglia quando attribuisce tutto ciò ai nervi e ai muscoli che presiedono e disciplinano la convergenza binoculare anziché quelli che comprimono il cristallino. Parla anche degli occhiali per corregerla, che ai suoi tempi sembra siano graduati secondo l’età della persona che doveva usarli, infatti menziona occhiali da cinquant’anni e occhiale da sessant’anni, ma, per quanto riguarda le ametropie dell’occhio, non accenna mai alla miopia.[34]

Molto interessante è la spiegazione che Leonardo ci dà del perché le lenti convergenti correggono la presbiopia: <<Pruova come gli occhiali aiutan la vista. Siano li occhiali a b e li occhiali c d, quali, per essere invecchiati, bisogna che l’obbietto, che soleano vedere in e con grande facilità e forte piegare il loro assis della rettitudine de’ nerbi ottici, la qual cosa, per causa della vecchiezza, viene tal potenzia di piegare a essere indebolita, onde non si può torcere senza gran doglia d’essi occhi, sì che per necessità son costretti a fare più remoto l’obbietto, cioè da e a f, e li poi lo vede meglio, ma non alla minuta. Ora, interponendo l’occhiale, l’obbietto è ben conosciuto nella distanza della gioventù, cioè in e, la qual cosa accade perché l’obbietto e passa all’occhio per vario mezzo, cioè raro e denso; raro per l’aria che è tra l’occhiale e l’obbietto, e denso si è per la grossezza del vetro delli occhiali, onde la rettitudine piega nella grossezza del vetro e torce la linia a d in modo, che vedendo la cosa in e, esso la vede come in i f, per comodità di non piegare l’assis dell’occhio da’ sua nervi ottici, e per vicinità la vede e conosce meglio in e che in f e massime le cose minute>>. Leonardo, dunque, pensa che la presbiopia sia un indebolimento della capacità di convergenza e non di accomodazione, d’altra parte avendo una concezione singolare della funzione del cristallino non poteva intraprendere la via giusta.[35]

È noto che Leonardo spesso si definì “homo sanza lettere”, ma non dimentichiamo che anche Cicerone, molti secoli prima, descriveva se stesso in termini simili: “homo sine ingeniis, sine litteris”. Anche se ciò fosse stato, egli fu capace però di capire le buone lettere e di deridere quelle dei “trombetti”, come li chiamava lui, un artista in grado di rappresentare i miracoli della natura, uno scienziato in grado di spaziare in molti campi.

Quando a diciassette anni circa, Leonardo andò a Firenze nella bottega del Verrocchio fece tesoro di questo periodo fecondo della seconda metà del Quattrocento, che gli permise di superare la visione medievale e di dedicarsi a un genere di ricerca sperimentale senza confini di tempo e di materia, in cui l’uomo nella natura è il suo ambito scientifico. Il disegno è, per il genio toscano, analisi e studio del fenomeno e dei suoi effetti, non tanto per rappresentare il mondo conosciuto, ma per prospettare e incentivare a una proiezione più lontana della conoscenza.

Per Leonardo lo studio dell’ottica fu fondamentale per capire il procedimento in base al quale si crea l’immagine, perché gli era indispensabile per la rappresentazione prospettica e per la pittura, infatti tutti gli studi che egli fece in questo campo servirono per rappresentare una realtà pittorica più conforme ai fenomeni naturali.

Vogliamo concludere con le parole che Vasco Ronchi scrive undici anni dopo il suo giudizio negativo sugli studi di ottica del maestro toscano: <<Leonardo non era un accademico, ma non era un artigiano, tanto meno un artigiano occhialaio. Era un uomo di grande ingegno, di acuto spirito di osservazione, e di buon senso. Egli ha studiato i testi dei maestri classici e li ha ammirati, vi ha imparato molte cose; ma poi, ha guardato coi propri occhi e ha avuto fiducia in ciò che vedeva, anche se aveva imparato che la vista inganna, e ha concluso che la vista inganna meno degli altri sensi; e avendo avuto fra mano delle lenti, non ha esitato a guardavi attraverso, ha tentato di misurare quante volte facevano vedere ingrandito, e ha tentato di spiegare perché correggevano la presbiopia. Se poi in questi suoi tentativi non è giunto a risultati di rilievo e definitivi, non deve diminuire il valore del fatto che vi si è dedicato. Non si può non riconoscere che il compito era sovrumano per un uomo del tardo medio evo; i suoi sforzi erano prematuri e i problemi da lui affrontati potevano essere risolti soltanto con lo sforzo combinato di diecine e diecine di ricercatori in tutti i settori della scienza>>.[36] Con queste parole Vasco Ronchi modifica un poco il giudizio e la valutazione di Leonardo nell’ambito dell’ottica, soprattutto per ciò che riguarda le lenti, che aveva espresso tredici anni prima: <<Tutto sommato, però, non si può dire che l’ottica sia il campo in cui Leonardo ha raccolto i frutti migliori>>.

NOTE

[1] Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica, in “Leonardo Saggi e ricerche”, a cura del Comitato nazionale per le onoranze a Leonardo nel Quinto centenario della nascita, Poligrafico dello Stato, Roma 1954, pp. 179-180; web.tiscali.it/corpo visione/02_scienze/03_luce/03.html

2 Ibid., p. 173.

3 Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, fol. 361v.

4 Francesco Melzi, di nobile famiglia lombarda, nacque a Milano tra il 1491 e il 1493, sia la data sia il luogo di nascita sono incerte. Il padre Gerolamo fu capitano della milizia milanese sotto Luigi XII re di Francia, ingegnere militare sotto Massimiliano Sforza e probabilmente fu lui a far entrare il figlio nella bottega di Leonardo e avendo avuto un’educazione umanistica fu probabilmente impiegato dal maestro in lavori di cancelleria. La sua calligrafia compare frequentemente nelle carte leonardesche e già dai primi anni prese parte al progetto di raccogliere e ordinare gli appunti vinciani per una versione pubblicabile. Le opere originali del Melzi, sparse in molti musei europei, sono caratterizzate da uno stile e da una cultura figurativa decisamente leonardeschi. Il 24 settembre 1513 l’allievo seguì il maestro a Roma e nel 1517 lo seguì anche nel trasferimento in Francia. Il 24 aprile 1519, Leonardo, nel proprio testamento, lo nominò esecutore testamentario, lasciando a lui i materiali grafici e i manoscritti. Al suo ritorno in Italia, in data non precisabile, il Melzi sposò Angela dei conti Landriani, dalla quale ebbe otto figli; successivamente iniziò  il riordino sistematico dei manoscritti, organizzando le annotazioni sulla pittura in modo e in previsione di un’edizione a stampa: da questo lavoro derivò il codice della Biblioteca Apostolica Vaticana, intitolato “Libro di pittura”. Melzi morì probabilmente a Vaprio d’Adda, dove la famiglia possedeva una villa, nel 1570 circa. Cfr. http://treccani.it/enciclopedia/francesco-melzi_(Dizionario–Biografico)/

5 Tra gli acquirenti ci fu anche lo stampatore veneziano Aldo Manuzio.

6 Pompeo Leoni nacque nel 1530 circa da Leone, scultore aretino e da Diamante Martini, nel 1542 raggiunse il padre a Milano, che lo formò come scultore e nel 1549 lo condusse con sé a Bruxelles come aiutante, dal 1557 divenne scultore reale alla corte di Valladolid, poi alla corte di Maria d’Asburgo, regina d’Ungheria, infine a Madrid presso Filippo II. Nel 1557 l’Inquisizione spagnola lo condannò ad un anno di confino correttivo presso un monastero ignoto, a causa dei suoi contatti con aree di fede protestante, avuti durante i suoi frequenti viaggi. Nel 1569 sposò Estefania Pérez de Mora, dalla quale ebbe quattro figli ed altri tre naturali: uno da Mariana de Sotomayor nel 1582, legittimato dieci anni dopo; due dalla milanese Ginevra Villa. Fu incisore dei coni della Zecca di Milano, pur continuando a vivere prevalentemete a Madrid. Molto numerose le sue opere sia in Spagna che in Italia e alla sua morte avvenuta a Madrid nel 1608, lasciò incompiuti vari lavori commissionati molti anni prima dal Capitolo della Cattedrale di Toledo. I figli alienarono prima la collezione madrilena, che fu acquistata da lord Thomas H. Arundel, poi quella milanese, in cui oltre a numerosi oggetti d’arte risultano inventariati, nel 1609, quadri di Tiziano, Tintoretto, Parmigianino, copie da Raffaello, opere attribuite a Giorgione e disegni di Leonardo, tra cui il Codice Atlantico. (Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/pompeo-leoni_ (Dizionario-Biografico)/

7 Nel 1968 il “Codice” subì una radicale restaurazione presso il monastero di Grottaferrata (Lazio), in cui fu rilegato in 12 grossi volumi, ma nel corso degli anni questa scelta risultò inadatta ai fini conservativi e di studio, inoltre limitava le possibilità di esposizione nelle mostre. Per questi motivi, nel 2008, il Collegio dei Dottori dell’Ambrosiana fece operare una sfascicolatura dei volumi, che facilitasse l’esposizione e il prestito, facendolo conoscere al pubblico italiano e straniero. Cfr. M. Navoni – A. Rocca, La Pinacoteca Ambrosiana, Novara 2015, pp. 338-339.

8 Il “Codice Ashburnham è conservato presso l’Istituto di Francia ed è composto dall’ex Codice B, ora identificato con il numero 2037 e dall’ex Codice A, oggi con il numero 2038. Durante il Seicento furono donati alla Biblioteca Ambrosiana tredici codici di Leonardo: il primo nel 1603 da Giovanni Ambrogio Mazenta; undici da Galeazzo Arconati nel 1634; il tredicesimo da Orazio Archinto nel 1674. Napoleone Bonaparte, nel 1796, ordinò la requisizione di tutti gli oggetti artistici per arricchire i musei e le biblioteche di Parigi. Le casse con gli oggetti d’arte sottratti a Milano arrivarono nella capitale francese il 25 novembre e quella contenente il “Codice Atlantico” fu portata alla Biblithèque Nationale de France, un’altra cassa, contenente altri dodici manoscritti fu destinata all’Institut de France. Nel 1815, con l’occupazione di Parigi delle potenze alleate, vari manoscritti non furono restituiti alla Biblioteca Ambrosiana. Verso la metà dell’Ottocento il matematico e bibliofilo Guglielmo Libri sottrasse vari manoscritti da biblioteche di Firenze e di Parigi, dall’Institut de France rubò vari fogli che raccolse in due volumi e li vendette poi all’inglese Lord Bertrand Ashburnham. Accusato di furto di numerosi manoscritti, il Libri fu condannato a dieci anni di carcere in Francia, che non furono mai scontati, perché egli si rifugiò in Inghilterra, dove, appunto, vendette le preziose carte. In seguito, alcuni manoscritti furono recuperati dall’Institut de France, con alcune parti mancanti e, tra questi, il “Manoscritto A” e il “Manoscritto B”, catalogati come “Ashburnham 2037 e 2038”, il contenuto del 2038, datato 1490-1492, tratta principalmente di pittura, ma anche di fisica. Una curiosità: nei fogli 114 r. e v. si possono vedere studi di decorazioni che, secondo alcuni studiosi, si potrebbero riferire al castello di Vigevano. Mentre nel 2037 troviamo i disegni della strada coperta, proposta come sistema difensivo e chiamata da Leonardo “Nobile corridore”, che a Vigevano unisce il castello alla Rocca Vecchia. Cfr. L. Beltrami, La Biblioteca Ambrosiana. Cenni storici e descrittivi, Milano 1895; https://www.beic.it/it/content/i-codici-di-leonardo

9 Cfr. R. Calanca, L’astronomia e l’ottica di Leonardo da Vinci, www.coelum.com/articoli/l’astronomia-e-l’ottica-di.leonardo-da-vinci/7

10 Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, § 15.

11 Ibid., § 16.

12 Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit.,. 173.

13 V. Ronchi, Leonardo e l’ ottica… cit.,  pp. 159-185.

14 Teodoro di Freiberg o di Vriberg nacque in Sassonia nel 1250 circa, fu Domenicano e Provinciale dell’ordine in Germania, maestro di teologia a Parigi, scrisse numerosi trattati filosofici e scientifici. Di notevole importanza per la scienza furono le sue opere “De colori bus; De iride et de radiali bus impressioni bus”, in cui riuscì a spiegare che l’arcobaleno è la conseguenza della rifrazione della luce nel suo spettro di colori. La sua morte avvenne nel 1310 circa.

15 Roberto Grossatesta nacque a Suffolk nel 1175, fu teologo, scienziato e statista. Fondamentali nei suoi studi furono il suo interesse per i fenomeni naturali, la matematica e l’ottica: nella sua fisica e metafisica risulta centrale la dottrina della luce e il concetto di illuminazione da essa derivato. Fu fautore di un ritorno al platonismo agostiniano, fu Cancelliere dell’università di Oxford, maestro di teologia e Vescovo di Lincoln. Tradusse dal greco in latino molte opere e numerose sono quelle scritte da lui. Morì a Lincoln nel 1253. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/roberto-grossatesta/

16 Francesco Maurolico nacque a Messina nel 1494, da una famiglia di origine greca. Fu matematico, astronomo, architetto, storico e scienziato; nel 1521 venne ordinato sacerdote. Si dedicò anche a studi di ottica e su questi studi scrisse i “Photismi de lumine et umbra”, in cui rivisitò le teorie di propagazione e riflessione della luce, mentre nei “Diaphana”studiò il fenomeno della rifrazione, le due opere risalgono rispettivamente al 1521 e 1523, quindi non furono conosciute da Leonardo, morto nel 1519. Numerose le sue opere concernenti le varie discipline, tra le quali anche testi devozionali. Maurolico morì a Messina nel 1575. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-maurolico_(Dizionario-Biografico)/

17 Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit., p. 163.

18 Ibid.

19 Ibid., p.164.

20 Cfr. Ibid., p. 164. Alhazen, figlio di un dignitario, nacque a Bassora, nella regione Mesopotamica, attuale Iraq, nel 965 circa. Dalla sua autobiografia del 1027, veniamo a conoscenza che inizialmente venne indirizzato verso gli studi religiosi e di pubblica amministrazione, fu nominato Visir per la provincia della sua città natale, ma essendo convinto che le diverse religioni potessero trasmettere la verità, si dedicò completamente allo studio delle scienze, seguendo soprattutto il modello di Aristotele: fu medico, filosofo, matematico, fisico ed astronomo. Si trasferì in Egitto dietro invito del Califfo al-Hākim, il quale era venuto a conoscenza di un suo progetto per la regolazione delle acque del Nilo, ma arrivato ad Aswān, ebbe delle difficoltà, non sappiamo se di natura tecniche o finanziarie, e dovette rinunciare al suo progetto. Il Califfo lo accusò di essere incapace e gli assegnò un posto da semplice impiegato, si narra che Alhazen reagì fingendosi pazzo e confinandosi in casa fino alla morte del Califfo. Sembra che al Cairo abitasse vicino alla moschea di Azhar, che già fungeva da università, dove insegnò e tradusse in arabo testi di antichi come gli “Elementi” di Euclide e l’”Amagesto” di Tolomeo, introducendo importanti speculazioni personali, approfondimenti e riformulazioni. Si dice che abbia scritto più di duecento opere, quasi tutte perdute, di matematica, astronomia, filosofia, ottica etica, musica, teologia e poesia: importantissimo il suo contributo all’ottica, con la sua opera Kitāb al-Manāzir (Libro dell’Ottica), trattato in sette libri, tradotto in latino nel 1270 circa, col titolo di “De aspectibus” e pubblicato a Basilea nel 1572, contenente anche la “Perspectiva” di Witelo, suo traduttore dall’arabo. Nel primo libro Alhazen prende in considerazioni le proprietà generali legate alla visione, nel secondo studia la percezione visiva, nel terzo la fallibilità della percezione delle immagini, il quarto, quinto e sesto libro sono dedicati alla riflessione, nel quinto troviamo la formulazione e la soluzione del famoso “Problema di Alhazen”così riformulato da Huygens: <<dato uno specchio sferico, convesso o concavo, e una sorgente luminosa puntiforme, trovare il punto dello specchio in cui si riflette il raggio che perviene all’occhio di un osservatore>>, la cui soluzione geometrica è incomprensibile. L’ultimo libro si occupa della refrazione. Oltre a questo trattato, scrisse numerose altre opere sull’ottica, in cui si occupa della luce della Luna, della sua dimensione apparente, dell’arcobaleno, delle eclissi, dell’ombra etc. La sua “Ottica”influenzò moltissimo gli studiosi fino al XVII secolo, fu citata frequentemente da Ruggero Bacone, da Witelo, conosciuta da Keplero e Cartesio, fu usata anche da Lorenzo Ghiberti, influenzando molto, secondo il parere di vari studiosi, lo studio della prospettiva dei pittori rinascimentali. Alhazen morì al Cairo nel 1040 circa; al suo nome è dedicato il Cratere Alhazen sulla Luna e l’asteroide 59239 Alhazen. Importanti anche le sue opere di astronomia: “M(aqāla) f(ī) Hy’at al-ālam‘” fu tradotta in spagnolo per Alfonso X di Castiglia e poi in latino “Liber de mundo et coelo”, contribuì alla popolarità dell’astronomia tolemaica. Cfr. https://www.aif.it/fisico/biografia-alhazen )

21 V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit., p. 165.

22 Ibid., pp. 165-166.

23 Witelo (latino Vitellio e italiano Vitellione) era nato in Slesia tra il 1220 e il 1230, studiò arti a Parigi e diritto Canonico a Padova, si trovava a Viterbo nel 1271. Vari sono i suoi scritti tra i quali quelli sull’ottica, utilizzando come fonti l’”Ottica” di Alhazen e gli “Elementi” di Euclide. Nella fisica fece importanti studi sulle dottrine della luce e della visione che espose nella sua opera “Perspectiva”, in cui utilizzò schemi presi dalla propagazione della luce secondo raggi diretti, riflessi e rifratti, dando una spiegazione matematico-sperimentale dei fenomeni ottici, con particolare attenzione alla tecnica di costruzione ed utilizzazione degli strumenti ottici, di cui fece importanti esperienze pertinenti alla costruzione di specchi, lenti e allo spettro dei colori. Morì dopo il 1277. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/witelo/

24 Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit., p. 167.

25 Cfr. Pietro Cesare Marani, l’occhio di Leonardo. Studi di ottica e di prospettiva. Disegni di Leonardo dal Codice Atlantico, Novara 2014, pp. 9-15.

26 Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit., p. 167 e segg.

27 Cfr. P.C.Marani, L’occhio di… cit., pp. 9-15.

28 Ibid., p. 15.

29 Il “Codex Urbinas” non è altro che una versione del “Trattato della Pittura”, così chiamato perché nel 1626 il volume faceva parte della biblioteca di Francesco Maria II della Rovere, ultimo duca di Urbino, successivamente venne ereditato dal Papato e nel 1631 fu trasferito ad Urbino e infine alla Biblioteca vaticana. Nonostante esistano varie versioni manoscritte del “Trattato della Pittura”, il “Codex Urbinas” è il solo completo, le altre sono mutile di alcune parti, ed è dal XIX secolo che possiamo leggere il trattato integralmente grazie alla pubblicazione basata su questo manoscritto.

30 Cfr. library.weschool.com/lezione/ottica-prospettiva-teoria-della-visione-20631.html; http

31 Ibid.

32 Cfr. K. H. Veltman, Gli studi di Leonardo da Vinci sull’ottica, in “L’Amanacco Italiano, Florence, Vol. LXXX, (1980), pp. 134-144.

33 Cfr. D. Argentieri, L’ottica di Leonardo, in “Leonardo e la Tecnica”, Istituto Geografico de Agostini, Novara 1978, pp. 64-74.

34 Ibid.

35 Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit., p. 184.

36 V. Ronchi, Un aspetto poco conosciuto dell’atti

vità di Leonardo da Vinci nel campo dell’ottica, in “Luci e Immagini”, Firenze, serie II, n. 1137, 1965, pp. 133-140.

 

 

 

L’UOMO SENZA LETTERE

Autore: Lucica Bianchi

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“Acquista cosa nella tua gioventù, che ristori danno alla tua vecchiezza. E se tu intendi la vecchiezza aver per suo cibo la sapienza, adoperati in tal modo in gioventù che a tal vecchiezza non manchi il nutrimento”

Leonardo da Vinci, 1452-1519

Certe qualità eccezionali di cui danno prova esseri umani sono spesso doni piovuti loro dal cielo, ma ciò è naturale. Soprannaturale è invece che bellezza, virtù e talento possano confluire profusamente in un unico individuo rendendolo superiore a tutti gli altri uomini qualunque cosa egli faccia. Ogni sua azione sarà infatti così miracolosa da rivelarsi per quel che è: un fenomeno di origine divina, non il semplice risultato dell’ingegno umano. Leonardo da Vinci fu uno di questi fenomeni. C’erano in lui, oltre a una bellezza fisica mai sottolineata abbastanza, una facilità e una felicità d’azione sconfinate. Aveva cosi tante qualità che ovunque volgesse la sua attenzione riusciva a trasformare un problema insolubile in una cosa facile a farsi, e fatta alla perfezione. Alla sua forza fisica, possente, si associava abilità, ardimento e una nobiltà d’animo regale e prodiga di sé.

La fama di Leonardo fu illimitata: valicò i confini dell’epoca e raggiunse i posteri.

Non fosse stato tanto versatile e irrequieto, Leonardo sarebbe diventato un raffinato uomo di lettere e un erudito. Intraprese studi di ogni tipo, ma dopo un po’ si sentiva sazio e piantava tutto. E’ vero che iniziò molte opere d’arte senza mai finirle, ma era perché la sapeva troppo lunga in materia. Considerava la perfezione artistica che aveva in mente irraggiungibile sul piano pratico. Nemmeno con le sue stesse mani poteva venire a capo delle imprese grandiose e difficili che era solito immaginare.

Il suo maestro fu Andrea del Verrocchio, che all’epoca stava lavorando a una tavola raffigurante un San Giovanni in atto di battezzare Cristo. Leonardo ebbe il compito di dipingere nella tavola un angelo con in mano delle vesti. Allora era giovanissimo, ma lo disegnò cosi bene che l’angelo fece fare brutta figura alle figure dipinte da Andrea. Pare che Andrea, indispettito che un ragazzino ne sapesse più di lui, non volle più saperne di prendere in mano i pennelli.

E allora: è possibile, oggi, conoscere e “vedere” Leonardo da Vinci? Ovvero apprezzarlo nella sua opera e nel contesto delle vicende dell’arte, come si può fare per moltissimi altri artisti? Domanda apparentemente paradossale e incongrua, visto che su di lui è stata pubblicata una biblioteca di migliaia di tomi che si accresce di altre migliaia di contributi ogni anno, mentre istituzioni importanti sono solamente dedite alla conservazione e allo studio dei suoi “Codici”, e la “Gioconda” è notoriamente il quadro più conosciuto al mondo, oggetto di devoti pellegrinaggi anche da parte di genti che nulla conoscono della pittura occidentale. Ogni giorno escono libretti divulgativi in cui Leonardo è indicato come “il più”: “il più” grande genio della storia dell’umanità, “il più” grande scienziato, “il più” profetico nunzio dell’età delle macchine, e cosi via all’infinito, elencandone le benemerenze in campi dello scibile che invece datano da pochi secoli, e che Leonardo neppure conosceva. Domanda però giustificata dall’evidente frattura fra la documentazione archivistica nota e l’immagine dell’artista presso i contemporanei, fra la costruzione del mito dopo la sua morte, e le fasi successive, passate attraverso scoperte, infinite discussioni attributive, tentativi disperati per fermare in qualche modo il degrado progressivo e rapidissimo dell’unica sua opera pittorica del tutto certa: il “Cenacolo” di Milano.

 Giungere dunque a lui, attraverso simili intrichi, ricollocarlo in qualche modo nel suo tempo, appare impresa quasi disperata. E’ possibile evitare di considerarlo “l’uomo più ostinatamente curioso della storia” secondo la definizione di Sir Kenneth Clark, o l’espressione del “genio umano e universale” di Goethe? Comunque, Leonardo era già considerato la sintesi dell’età del Rinascimento nell’apologia costruita da Giorgio Vasari, che anche in questo caso, si dimostra un grande romanziere. A fine Ottocento Edmondo Solmi aveva intuito ed esposto: “Noi dobbiamo capovolgere questo giudizio dei contemporanei. Essi misurano l’intero Leonardo nelle sue manifestazioni pratiche, e lo definirono vario, instabile, mutabile; noi, contemplando la sua vasta teoria, alla quale dedicò le forze di tutta la vita, dobbiamo definirlo intento ad un solo proposito e fermo di fronte ad ogni contrasto. Dagli anni primi della giovinezza fino alla morte egli infatti drizzò le sue forze ad un unico intento: la conoscenza delle leggi dei fenomeni, la descrizione delle forme naturali.” Ma Leonardo in realtà, non fu assolutamente capace di costruire una teoria, almeno nelle accezioni scientifiche e filosofiche, e ideologiche, che noi diamo al termine. Non fu né sistematico né sperimentale, ma portò l’arte dell’osservazione, sostenuto dal meraviglioso ed eccezionale talento di disegnatore, ai vertici possibili nel suo tempo. E tale osservazione trasferì in quella pittura che così diventa un’ arte di sottile invenzione, la quale con delicata a attenta speculazione considera tutte le qualità delle forme. Questa tensione fra l’osservazione e le qualità formali costituì un assillante rovello, determinante per l’insoddisfazione nei confronti dell’opera limitata e incompiuta. Ed è proprio questa tensione fra Arte e Natura, Pittura e Osservazione, portata ad un estremo limite di perfezione e gentilezza a costituire il motivo primo del fascino di Leonardo da Vinci. Questa inesausta ricerca era certamente rara, ma del tutto coerente con il suo tempo, negli anni in cui gli artisti cominciano a emanciparsi dalla condizione artigianale, aspirando essi stessi a quell’ideale di “Uomo Universale”.

Chiunque volesse vedere fino a che punto l’arte è in grado di imitare la natura, basta guardare Leonardo da Vinci.

Leonardo da Vinci rappresenta il culmine della tradizione ingegneristica italiana quattrocentesca: egli più di ogni altro artista-ingegnere precedente e contemporaneo riesce a staccarsi dalla dimensione artigianale per assumere quella del dotto tecnologo.

Il percorso di riqualificazione culturale e professionale degli ingegneri quattrocenteschi è espresso in maniera esemplare dalla biografia di Leonardo da Vinci. Leonardo comincia la sua carriera a Firenze come apprendista presso la bottega di Andrea del Verrocchio e la conclude come ingegnere e pittore al servizio del re di Francia Francesco I. La sua maturazione intellettuale sul piano scientifico si completa con il tentativo, poi fallito, di elaborare una nuova meccanica a partire da un’integrazione tra i teoremi dei filosofi e le esigenze costruttive degli artigiani.

L’eccezionalità dell’ascesa sociale e culturale di Leonardo è suggellata dalle parole di Benvenuto Cellini il quale, quando narra il momento della sua morte, lo descrive con l’appellativo di “grandissimo filosafo”. Sarebbe tuttavia un errore considerare Leonardo come la massima espressione del genio rinascimentale staccandolo dal contesto culturale degli altri artisti-ingegneri quattrocenteschi a contatto con i quali si è formato e con i quali ha condiviso gli sforzi per l’affermazione del sapere tecnico e per il riconoscimento della dimensione intellettuale degli “omini senza lettere”. I legami con la tradizione sono fin troppo evidenti, tuttavia è opportuno riconoscere a Leonardo il merito di essere stato l’ingegnere che più di ogni altro ha saputo dar voce e visibilità grafica ai “sogni tecnologici” condivisi dalla maggioranza degli artisti-ingegneri del Quattrocento.

Dopo l’infanzia trascorsa a Vinci, Leonardo si trasferisce a Firenze col padre, Piero, e nel 1469 entra nella bottega di Andrea del Verrocchio, nella quale si afferma come pittore e apprende tutti i segreti che costituiscono il bagaglio tecnico di un abile artigiano. Il primo riferimento di un interesse di carattere tecnico da parte di Leonardo si ha in occasione della realizzazione e messa in opera, da parte del Verrocchio, dell’enorme sfera di rame che sovrasta la cupola di Santa Maria del Fiore nel 1472. Da un riferimento più tardo alla tecnica utilizzata per la saldatura delle enormi lastre di rame che costituiscono la sfera, attraverso specchi ustori, veniamo a conoscenza della presenza nel cantiere dell’Opera del duomo del giovane Leonardo, il quale in quest’occasione ha modo di visionare le macchine progettate da Filippo Brunelleschi. È infatti significativo notare come nei suoi primi progetti di macchine l’elemento più ricorrente sia la vite, ampiamente usata da Brunelleschi.

Gli anni milanesi

Nel 1482 Leonardo lascia Firenze per trasferirsi a Milano al servizio di Ludovico il Moro, dove rimane per quasi 20 anni. Sul piano artistico questo periodo è caratterizzato, oltre che dall’attività pittorica (Cenacolo, Vergine delle rocce, Dama con l’ermellino), anche dai preparativi per la fusione del monumento equestre a Francesco Sforza che però, a causa dell’invasione francese di Milano, non viene portato a termine.

Durante gli anni milanesi Leonardo si impegna anche in studi di natura tecnologica e architettonica. Intorno al 1487 sembrano risalire i suoi disegni relativi alla città ideale a due livelli, così concepita per far fronte ai problemi di sovraffollamento urbano. Le città devono essere progettate secondo un’organizzazione razionale degli spazi, separando le aree destinate all’attività produttiva e commerciale dagli spazi destinati alla vita sociale. Durante questo periodo formula anche il progetto di un trattato sull’acqua, che per Leonardo costituisce una premessa necessaria per la risoluzione di problemi di carattere idraulico, come la costruzione e la manutenzione dei canali.

Con l’invasione francese del 1499 Leonardo abbandona Milano insieme all’amico e maestro Luca Pacioli, che lo aveva introdotto allo studio della matematica e della geometria. Dopo aver soggiornato a Venezia e a Firenze, nel 1502 entra al servizio di Cesare Borgia come ingegnere militare. Per lui esegue rilievi topografici e piante di città e regioni dell’Italia centrale, come lo splendido disegno della pianta di Imola. Nel 1503 è nuovamente a Firenze, dove offre prestazioni di consulenza e assume incarichi ingegneristici nella guerra contro la città di Pisa, proponendo alla magistratura fiorentina uno studio per la deviazione del corso dell’Arno così da tagliare fuori dal corso del fiume la città nemica, progetto che poi risulterà inattuabile.

Nel 1508 torna nuovamente a Milano, per entrare al servizio, con la qualifica di “peintre et ingénieur ordinaire”, del governatore francese Carlo d’Amboise, per il quale studierà il sistema idrico lombardo. Dal 1513 al 1516 è a Roma, dove alterna gli studi di anatomia a progetti di carattere idraulico per la bonifica dell’Agro Pontino e per il porto di Civitavecchia.

Nel 1516 si trasferisce in Francia, alla corte di Francesco I, al servizio del quale resterà fino alla morte.

 

LEONARDO E L’IDEA DI UNA NUOVA UNITA’ DELLA NATURA CON L’ARTE E LA SCIENZA

Nota Redazione: S’informano i gentili lettori della rivista “I Tesori alla fine dell’arcobaleno” che a causa di un errore tecnico riscontrato nelle note biografiche della prima stesura dell’articolo, “Leonardo e l’idea di una nuova unità della natura con l’Arte e la Scienza” viene pubblicato di nuovo nella forma corretta. Ci scusiamo per il disagio.

LOREDANA FABBRI

“ Nessun effetto è in natura sanza ragione, intendi la ragione e non ti bisogna sperienza”

Leonardo da Vinci 

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Il dipinto “Battesimo di Cristo” è un’opera del Verrocchio, ma Leonardo vi disegna l’angelo che regge la tunica in basso a sinistra, compiendo così il suo primo lavoro, dove è già evidente lo stile che caratterizzerà tutte le sue opere: l’angelo è visto di tre quarti di spalle e presenta una spiccata dinamicità  in contrasto con l’impianto quattrocentesco del dipinto, particolarmente con la staticità dell’angelo accanto, disegnato dal Verrocchio, della cui bottega Leonardo fece parte dal 1469 circa, anno del suo trasferimento a Firenze con il padre, e dove crebbe artisticamente concependo la figura umana, scolpita o dipinta, non immobile, ma inserita nello spazio.[1]

Nel decennio che va dal 1460 al 1470, la bottega del Verrocchio fu la più fiorente e importante di Firenze e costituì il fulcro del rinnovamento artistico di questa città, dove Leonardo imparò le tecniche di tutte le arti. Molti artisti del Rinascimento italiano studiarono pittura, scultura e fecero pratica nella sua bottega, oltre Leonardo, anche il Perugino, poi maestro di Raffaello, si formò artisticamente in questa bottega. Dopo la morte di Donatello (1455), Andrea del Verrocchio divenne lo scultore preferito della famiglia de’ Medici, fino a quando l’artista si trasferì a Venezia per la realizzazione della statua equestre del condottiero Bartolomeo Colleoni e proprio mentre stava lavorando a questa statua, il 25 giugno 1488, nominò, nel suo testamento, come prosecutore della sua opera, che tranne le rifiniture era quasi terminata, Lorenzo di Credi.  Andrea del Verrocchio morì a Venezia il 7 ottobre dello stesso anno. [2]

Il giovane Leonardo vive nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, che sarà anche il suo primo protettore e colui che lo raccomanderà a Ludovico Sforza, detto il Moro. Lorenzo de Medici è un politico abilissimo, che sa risolvere le situazioni più difficili, ma è consapevole anche di non poter invertire gli eventi storici, la sua diplomazia è perfetta come la sua poesia, la sua politica è permeata dal pensiero che “del doman non v’è certezza”. Gli ambienti culturali sono saturi del Neoplatonismo fiorentino, “filosofia della crisi”, crisi dei grandi valori affermati dall’Umanesimo all’inizio del Quattrocento, ma anche delle grandi aspirazioni politiche e culturali di Firenze.

L’Italia dell’epoca di Leonardo, ossia quella tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, è caratterizzata da un profondo cambiamento causato dalla modifica degli equilibri internazionali ed interni, quando Lorenzo il Magnifico muore (1492) si instaura a Firenze un breve e debole periodo repubblicano. All’inizio del secolo successivo, gli Stati Regionali italiani perdono la propria autonomia per i disegni espansionistici della Francia e della Spagna, le quali si contenderanno il territorio italiano, che dopo la morte di Lorenzo è visto come oggetto di spartizione tra le due monarchie, che, dopo varie lotte, con il trattato di Noyon del 1516, viene confermato alla Francia il Ducato di Milano e alla Spagna quello del Regno di Napoli, anche se non bastò a far cessare le rivalità tra le due monarchie.

La progressiva potenza degli Asburgo portò papa Clemente VII de’ Medici a costituire un’alleanza con la Francia, la Repubblica di Venezia e Firenze con Lega di Cognac, ma non fu in grado di evitare il sacco di Roma nel 1527, che suscitò orrore in tutto il mondo cattolico: i Lanzichenecchi, per la maggior parte tedeschi e luterani, misero la città sotto assedio e saccheggiata per giorni. Il Papa, barricato in Castel Sant’Angelo, fu costretto alla pace con l’Imperatore, ottenendo la restaurazione della propria famiglia a Firenze. Con la pace di Cambrai del 1529, la Francia rinunciava alle mire sull’Italia e alla Spagna veniva riconosciuto il possesso di Napoli e di Milano. Ma i conflitti franco-spagnoli continuarono fino alla pace di Cateau-Cambrésis, che mise fine allo scontro tra le due monarchie per l’egemonia europea: la Spagna consolidò il proprio dominio in Italia, che durò fino al 1714.

A Firenze, Leonardo trascorre dodici anni di metodica formazione e intensa sperimentazione. I suoi studi affrontano ogni campo dello scibile: dalla scienza alla pittura, dall’urbanistica, all’ingegneria; profondamente affascinato dal volo, una “leggenda” narra che osservasse per lunghe ore il volo degli uccelli dalla cima del Masso della Gonfolina, uno sperone di roccia nei pressi di Lastra a Signa, per poi ricavarne materiale per i suoi saggi.

Gli studi di botanica, anatomia, in particolare l’ottica, in cui l’occhio è considerato il tramite tra l’immagine e l’anima, sono derivati dal rapporto esistente tra scienza ed arte. Leonardo, partendo da una concezione quattrocentesca, concepisce la produzione artistica come lo specchio della natura, che deve essere indagata e studiata profondamente per essere degnamente rappresentata. Egli sostituì l’idea filosofica che l’artista dovesse imitare la natura con la convinzione che suo compito fosse invece l’indagine scientifica delle leggi della natura, della quale era indispensabile comprendere il funzionamento in modo da ricrearla poi nell’opera d’arte.

Di Leonardo scrittore abbiamo una curiosa testimonianza nelle “Favole”, una raccolta di componimenti brevi, che nascondono seri ammonimenti in un miscuglio di dottrina ed arguzia: il termine “favola” deriva dal latino “fabula” che significa parlare e il fine di questo antichissimo genere letterario era quello di trasmettere, in forma orale, la tradizione, i principi, i valori della società, quindi destinata a dare un significato e ad offrire risposte agli eventi della vita quotidiana, storie semplici e immediate con fine moralistico, perché non è importante la storia, ma l’insegnamento che il lettore ne deve ricavare. La Natura è il personaggio onnipresente nelle favole del genio toscano, nei suoi elementi: l’acqua, l’aria, il fuoco, la pietra, le piante e gli animali; l’uomo invece è un estraneo guastatore di ogni cosa, come lo definisce Leonardo nelle sue profezie. Oltre che interrogare la natura con il suo spirito indagatore, ne rimane affascinato, anche se possiamo cogliere un certo pessimismo sul comportamento dell’uomo e sulle manifestazioni della natura. Spesso troviamo che il predatore viene predato, il raggiratore viene raggirato e molte volte è la forza cieca della natura a vincere su tutto. Tra i soggetti, le piante sono quelli preferiti, e ad ognuna viene attribuito un carattere umano: al giglio e al cedro la superbia, al fico l’esuberanza, anche gli animali e gli oggetti hanno attributi umani: il granchio diventa simbolo dell’ingenuità, l’aquila della goffaggine, la talpa della bugia, la lepre della viltà,  lo specchio della vanità, il rasoio dell’indolenza etc.

Le favole furono composte tra il 1490 e il 1493 circa, quando Leonardo si trovava presso la corte sforzesca, dove la tradizione favolistica era molto diffusa e probabilmente furono scritte per animare e divertire le feste di Ludovico il Moro e dei suoi ospiti. Esse sono scritte sul modello di Esopo e di Fedro, anche se Leonardo mantiene una sua chiara identità, e mettono costantemente in guardia dai pericoli dell’ignoranza e della presunzione, poiché per Leonardo <<La vera saggezza nasce dalla conoscenza della Natura e da una vita armoniosa con essa>>, evidenziando soprattutto l’importanza di non superare i limiti della natura, argomento attualissimo. In esse, come anche nelle facezie e nei proverbi, emerge tutta l’eredità di quel mondo popolare toscano, che fu determinante nella prima formazione di Leonardo.

I suoi scritti non derivano da un’attività separata da quella artistica, poiché arte e scienza, secondo Leonardo, hanno in comune lo scopo della conoscenza della natura; la pittura, massima tra tutte le arti, è la stessa scienza, perché <<si estende nelle superficie, colori e figure di qualunque cosa creata dalla natura>>; ciò che la distingue dalla scienza è che quest’ultima <<penetra dentro i medesimi corpi>>. Per il maestro toscano la natura, è scritta in caratteri geometrici; l’arte ne coglie l’aspetto qualitativo, cioè quella proporzione esistente nei corpi che ne costituiscono appunto la bellezza, invece la scienza esprime gli stessi rapporti in termini di leggi matematiche, rifacendosi in tal modo alla tradizione platonica.

Scrivere sulla vita di Leonardo è come aggiungere una goccia nel più grande degli oceani, ma un breve sguardo sui dati biografici ci informano su avvenimenti molto importanti che mettono in luce la complementarietà di arte e scienza nella formazione e nelle attività del grande maestro, ad esempio in età adolescenziale, aveva circa diciassette anni quando cominciò a frequentare la bottega del Verrocchio, ricevendo una formazione sia artistica che artigianale, dove non veniva insegnato solo il disegno e la pittura, ma anche le “Artes mechanicae”, che davano la possibilità agli allievi di divenire ingegneri, ricercatori e sperimentatori.[3]

Tali riferimenti biografici consentono di evidenziare le principali caratteristiche del pensiero vinciano: questa preparazione veniva diramata empiricamente e tale formazione differenziava questi “tecnico-artisti” dai letterati e dai filosofi con una preparazione culturale molto diversa, che li faceva sentire inferiori, ma questo è anche il periodo in cui a Firenze l’empirismo si coniugava con la scienza, ne sono un chiaro esempio il Brunelleschi e il Ghiberti, il primo applica la matematica all’ottica, ricavando le leggi della prospettiva, il secondo, nei suoi “Commentari” consigliava, anzi raccomandava ai pittori di approfondire le loro conoscenze nella grammatica, filosofia, geometria, astrologia, prospettiva, medicina, anatomia, disegno, avvicinando le arti meccaniche a quelle liberali, “obbligando” questi artisti ad intraprendere studi umanistici, soprattutto un’adeguata conoscenza letteraria e della lingua latina, che continuava ad essere la lingua ufficiale della scienza.[4]

Perché Leonardo non pubblicò mai le sue esperienze, le meditazioni e le invenzioni, a cosa era dovuto questo isolamento scientifico? Sembra impossibile e non accettabile che la causa sia stata una sorta di complesso d’inferiorità, che come autodidatta e inesperto della lingua latina e dell’ignoranza del greco, che invece erano fondamentali per gli umanisti, lo abbia portato a tale isolamento, il suo temperamento, che spaziava da un grande calore intellettuale ad un impressionante gelo sentimentale, poteva affascinare, ma non spiegare il problema della sua mancanza di comunicazione scientifica. A chi lo accusa di essere un “omo sanza lettere”, egli ribatte con orgoglio di derivare la propria scienza direttamente dalla natura: <<So bene che, per non essere io litterato, che alcuno presuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere>>.[5]

Occorre tenere presente che in Italia, intorno al Cinquecento, l’artista, l’ingegnere, il matematico ha bisogno del favore di principi, re e papi, sia per vivere sia per studiare e nelle lettere che Leonardo invia presso vari potenti per offrire loro i suoi servigi ricorre spesso la conferma che lui è in grado di attuare ritrovati che nessun altro conosce e nelle stesse lettere elencava le proprie molteplici capacità di ingegnere civile e militare, architetto, scultore  e pittore. D’altra parte tutta l’epoca in cui egli visse, fu caratterizzata da un relativo isolamento nel campo della ricerca, l’indagine sperimentale era vista dalla Chiesa con sospetto e tutti i risultati non conformi alle dottrine teologiche erano condannati.

Quando Leonardo da Firenze si trasferì a Milano, la sua attività si basò soprattutto sull’architettura e l’ingegneria militare, poiché erano questi i compiti assegnati da Ludovico il Moro al maestro, anche se si applicò alla scultura e alla pittura e proprio in questo periodo milanese crebbe il suo interesse per i problemi scientifici, in seguito si dedicò anche alle fortificazioni e all’idraulica, senza trascurare la pittura, certamente alla corte sforzesca trovò l’ambiente favorevole allo sviluppo dei suoi interessi scientifici sia in ambito della fisica che in quello delle scienze naturali; qui conobbe il frate francescano Luca Pacioli, matematico e filosofo, e per la sua opera più importante, “De Divina Proportione”, sarà proprio Leonardo a realizzare ben cinquantanove disegni geometrici inseriti nell’opera dell’amico matematico. Il trattato è fondamentale per capire l’arte e la cultura dell’Umanesimo prospettico e riassuntivo di tutto il pensiero di Pacioli. Non è strano che Leonardo fosse attratto dai calcoli dell’amico, perché lui stesso, nel 1490 circa, disegnò la celeberrima rappresentazione delle proporzioni ideali del corpo umano inscritto in un quadrato e in un cerchio, ossia il cosiddetto uomo vitruviano, intuizione che ebbe seguendo l’opera di Marco Vitruvio Pollione (attivo nella seconda metà del I secolo a. C.) tradotta da Francesco di Giorgio Martini, che fu quella di trasferire in un’immagine la logica architettonica, combinata con il calcolo algebrico e con la geometria lo studio delle proporzioni del corpo umano: l’uomo è scientificamente proporzionato, facendo in tal modo del disegno un’arte scientifica, che può vedere quello che la natura compie.[6]

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Il tema del rapporto intercorrente tra la scienza e l’arte in Leonardo è un tema cui si sono dedicati molti studiosi e le valutazioni e le considerazioni che essi esprimono, testimoniano grandi disparità,  il filosofo Ernst Cassirer (1874-1945) così scrive: <<Dalla fusione delle due facoltà fondame tali che caratterizzano Leonardo, cioè dalla libertà e dalla vivacità della fantasia estetica e dalla purezza e dalla profondità della speculazione matematica, si origina il nuovo concetto di esperienza>>.[7] Già Gerolamo Cardano e Giorgio Vasari ebbero delle incomprensioni verso la sintesi di Leonardo tra arte e scienza, in particolar modo Vasari, il quale ravvisa nel superamento della regola matematica e sull’asserzione della “licenza” l’attuabilità dell’ideale specifico di tutte le arti.

Per altri Leonardo rappresenta il vertice di un grandioso disegno atto a realizzare una sintesi tra arte e scienza, ossia a dare basi scientifiche alla pittura, che vide partecipi gli artisti rinascimentali: <<Quelli che s’innamorano della pratica senza la scienza, sono come i nocchieri che entrano in naviglio senza timone o bussola, che mai hanno la certezza dove si vadano. Sempre la pratica deve essere edificata sopra la buona teorica, della quale la prospettiva è guida e porta , e senza questa nulla si fa bene>>.[8]

Il passaggio dall’empirica medievale (scienza della visione, ottica) alla scienza della rappresentazione pittorica (perspectiva artificialis o pingendi) ebbe inizio con Filippo Brunelleschi (1377-1446), successivamente con Leon Battista Alberti (1404-1472) e Piero della Francesca (1416-1492), fino a Leonardo (1452-1519), il quale quando superò l’idea di utilizzare solamente la matematica, idea molto riduttiva, come tramite per dare rigore formale all’idea di bellezza, per arrivare al concetto che forma geometrica, luce, ombre e colori erano in grado di dare ad un’opera artistica efficacia fisica e soffio poetico, così scrive nel “Trattato della pittura”: <<D’un medesimo colore posto in varie distanze ed eguali altezze, tale sarà la proporzione del suo rischiaramento quale sarà quella delle distanze che ciascuno di essi colori ha dall’occhi che li vede>>.[9]

Per il maestro toscano, la pittura è la “sola imitatrice di tutte le opere evidenti in natura”. E questa identità tra arte e scienza, come Leonardo dice nel Trattato della pittura, altro non è che un aspetto dell’unitarietà del mondo, governato dalle medesime leggi, sia che si tratti della fisica che della medicina, dell’architettura, dell’idraulica. Convinzione “illuministica”, nel senso che Leonardo crede di poter dominare il sapere, proprio perché riconducibile ad un unicum. <<Se tu spezzerai la pittura, la quale è solo imitatrice de tutte l’opere evidenti de natura, per certo tu spezzerai una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme: aire, siti, piante, animali, erbe, fiori, le quali sono cinte d’ombra e lume. E veramente questa è scienzia e legittima figliola di natura; ma per dir più corretto, diremo nipota de natura perché tutte le cose evidenti sono state partorite dalla natura. Adonque rettamente la chiamaremo nipota d’essa natura e parente d’Iddio>>.[10]

Leonardo da Vinci Tutt'Art@ + (3)

Negli anni fiorentini, per Leonardo, prospettiva e disegno si configurano come scienza. Più tardi i disegni nei quali si esercita a sezionare il corpo umano oppure un’architettura o il progetto di una macchina per volare sono la dimostrazione del medesimo approccio. Nel Codice Atlantico parlerà di “medico architetto” oppure di “cupola del Cranio”, sovrapponendo due ambiti. Paragonerà i fiumi alle vene. Penserà che lo sfregamento degli organi vitali possa tradursi, nel disegno, in passaggio del tratteggio per linee parallele a quello curvilineo.

Si è parlato di Leonardo come neoplatonico, umanista, antiplatonico e antiumanista, artista, scienziato, metafisico, empirista, rendendo il Da Vinci un soggetto passivo e avvolto in un alone di mistero, tutte queste antitetiche interpretazioni hanno cercato un minimo comune denominatore nella filosofia, che unificasse il suo poliedrico sapere: nel XIX secolo, quando si affermò il Positivismo come movimento filosofico e culturale, che ricusando le astrattezze della metafisica, si limitava ad organizzare i dati delle scienze sperimentali, Leonardo venne osannato come il precursore di tutte le scienze moderne, in seguito, agli inizi del XX secolo, l’originalità del suo pensiero fu molto ridimensionato.

Gli studiosi sono concordi nell’affermare che sia nell’arte sia nella tecnica Leonardo è stato grandioso e riconoscono l’altissimo valore delle sue opere, ma per ciò che riguarda la produzione scientifica e filosofica l’opinione diventa molto difficoltosa, così si esprime Paolo Rossi, pur riconoscendo vari intuizioni importanti, che, tuttavia, restano isolate nell’ambito delle sue opere : <<…la ricerca di Leonardo, che è straordinariamente ricca di balenanti intuizioni e di geniali vedute, non oltrepassa mai il piano degli esperimenti curiosi per giungere a quella sistematicità che è una delle caratteristiche fondamentali della scienza e della tecnica moderne. […] Leonardo non ha alcun interesse a lavorare a un corpus sistematico di conoscenze e non ha la preoccupazione (che è anch’essa una dimensione fondamenta ledi ciò che chiamiamo tecnica e scienza) di trasmettere, spiegare e provare agli altri le proprie scoperte>>.[11] Ancora più complicato è stabilire quale sia il ruolo  del genio toscano nella storia della filosofia, argomento che ha suscitato numerosi dibattiti tra studiosi e che nei primi anni del secolo XX vede impegnati in tale discussione, anche se in modo diverso, i due maggiori rappresentanti della filosofia italiana: Benedetto Croce e Giovanni Gentile.[12]

In un saggio del 1906, dedicato a Leonardo filosofo, Benedetto Croce sostiene che l’artista toscano non fu filosofo, o per lo meno lo fu in modo indiretto, per metonimia, infatti <<verso l’osservazione e il calcolo effonde ogni suo entusiasmo>> bramando al <<possesso del modo esterno>> ma i filosofi veri <<celebrano la potenza dello spirito […] non quella dei cinque sensi>>,[13] secondo Croce la filosofia non può essere interpretazione della natura, né l’arte può porre le basi partendo dall’operatività del soggetto, quindi Leonardo non può essere filosofo in quanto naturalista, conseguentemente non era possibile per lui impostare una teoria dell’arte e un’estetica, perché Croce sostiene che: <<l’estetica è disciplina speculativa, e presuppone e compie insieme il sistema, una disciplina in cui vi è necessità di trascendere il fenomeno […] Leonardo non riesce a distinguere due cose affatto diverse: l’impronta dell’anima del creatore nell’opera d’arte (che è poi la sostanza stessa dell’opera d’arte) e l’invasione illegittima dell’arbitrario individuale: lo stile e la maniera>>.[14] Croce sostiene anche che Leonardo non solo non riesce a percepire la “liricità” della realizzazione artistica, ma suppone di “tecnicizzare” questo processo, uscendo in tal modo dall’ambito dello spirito, ma essendo fuori dallo spirito non può essere filosofia. Nel “Trattato della pittura” di Leonardo, secondo Croce, possiamo trovare solo <<un gran libro di tecnica>>, non certamente la filosofia dell’arte.[15] A Leonardo, per il filosofo abruzzese, mancava proprio quella coscienza dell’interiorità che si realizza nell’opera d’arte, la fantasia creatrice, la natura lirica e passionale propria della creazione artistica

Nei primi anni del Novecento, Leonardo fu oggetto di un rinnovato interesse da parte degli studiosi, che con la sistemazione delle sue opere, lo celebrarono come genio universale e simbolo dello scientismo, che attribuiva alle scienze fisiche e sperimentali e ai loro metodi, la capacità di soddisfare tutti i problemi e i bisogni dell’uomo, scientismo proprio del Positivismo, ma lo stesso Croce, nella premessa del saggio, per chiarire i dubbi sulla natura provocatoria di ciò che sarà il suo discorso scrive: <<Perché quelle conferenze erano, nel loro complesso, manifestazione dell’odierna moda del culto leonardesco, io volli reagire nel trattare il tema a me assegnato e fare alquanto l’avvocato  del diavolo. Dico ciò, perché s’intenda l’intonazione del mio discorso>>.[16] Secondo Croce la filosofia deve essere intesa come un cammino che inizia col pensiero ellenico, e tramite il Neoplatonismo, il Cristianesimo e la Scolastica, si lega a Cusano, a Bruno, a Cartesio, a Spinoza, per arrivare a Kant e all’Idealismo del XIX secolo: questo è il percorso del pensiero filosofico e la sua peculiarità è quella di una costante riflessione critica sul contenuto delle altre scienze, allora, come sostiene Croce, Leonardo non appartiene a quella sfera del pensiero, ma volto a celebrare la potenza della matematica, ritenendola il punto di partenza indiscutibile di ogni conoscenza certa, negando il valore della verità alle scienze speculative, in cui non c’è certezza in quanto non si avvalgono dell’esperienza.[17]

Il filosofo abruzzese critica anche l’attributo di “uomo universale” dato al maestro toscano, sostenendo che la fama di apolitico di cui si fregiava Leonardo, distaccato completamente dagli affari pubblici, non si combina con l’immagine di uomo universale e la poliedricità attribuitagli si deve intendere come <<bilateralità di attitudini, attitudine di pittore e attitudine di scienziato naturalista; e l’aggettivo universale esprime enfaticamente e iperbolicamente la meraviglia destata da quella duplice attitudine, degna certamente di meraviglia>>.[18] Il giudizio del Croce è negativo anche per ciò che riguarda l’arte <<Se ciò che sono venuto finora esponendo è esatto, si comprende come a Leonardo, afilosofo in quanto naturalista, e antifilosofo in quanto agnostico, dovesse riescire impossibile pensare una teoria dell’arte e un’estetica. Perché l’estetica è disciplina speculativa, e presuppone e compie insieme il sistema; e di tutte le manifestazioni dell’attività umana l’arte è forse quella, la quale, più generalmente e immediatamente, fa sentire il bisogno di una considerazione, che trascenda il fenomeno>>.[19]

Alla totale estraneità di Leonardo di fronte alla filosofia di Croce, fa riscontro l’opinione di Giovanni Gentile, il quale inizialmente non considera Leonardo filosofo, ma poi elogerà la profonda spiritualità di artista e di scienziato. Gentile si chiede: <<Chi non conosce le benemerenze di Leonardo nell’esaltazione dell’esperienza, come strumento di certezza e di verità della cognizione, and’egli, senza dubbio, precorre a Galileo e Bacone?>>.[20]

All’inizio del suo saggio Gentile scrive. <<Se per filosofo s’intende chi abbia scritto dei libri per dare una soluzione almeno di qualcuno dei problemi filosofici, o una trattazione sistematica d’una dottrina appartenente al sistema della filosofia, Leonardo non fu un filosofo. Nei suoi manoscritti non si troverebbero insieme due pagine di argomento filosofico. Se per filosofo s’intende chi, come Socrate, sdegnando quei discorsi muti e quasi morti che sono consegnati alle carte e vi restano fissi, incapaci di rispondere alle inattese difficoltà e alle sempre nuove domande del lettore, non abbia mai scritto di filosofia, ma abbia tuttavia suscitato con l’insegnamento vivo una scuola, che ha perpetuato e fecondato il pensiero, promovendo così un moto spirituale, che da lui ripeta la sua prima origine, Leonardo non fu un filosofo. I suoi scolari ammirarono in lui l’artista, il sommo artista; il movimento filosofico del Cinquecento non solo non fa capo a Leonardo, ma ne ignora il nome. […]Il suo spirito è dominato da molti interessi teoretici e speculativi, anzi si può dire attratto da tutti i problemi della scienza, ma è retto nel profondo dall’istintiva vocazione dell’artista, da desiderio sempre inesausto della visione pittorica, dei colori e delle linee, dalle quali traluce l’anima umana. […]Leonardo artista e scienziato (naturalista e matematico), è filosofo dentro alla sua arte e alla sua scienza: voglio dire che si comporta da artista e da scienziato di fronte al contenuto filosofico del proprio pensiero, che non svolge perciò in adeguata e congrua forma filosofica, ma intuisce con la genialità dell’artista e afferma con la dommaticità dello scienziato. La sua filosofia, in questo senso, non è un sistema, ma l’atteggiamento del suo spirito, ossia le idee, in cui si adagiò quel suo spirito possente, creatore d’un mondo di immagini, umane o naturali, ma tutte egualmente espressive di una ricca, commossa vita spirituale: è la cornice del quadro in cui egli vide spiegare quella infinita natura che era esposta al suo avido occhio di indagatore>>.[21]

L’esperienza leonardesca è per Gentile libera da ogni pregiudizio, in quanto uno strumento di verità, una fonte primaria del sapere, che gli derivava anche dall’ambiente culturale stimolante della Firenze del suo tempo, che con il Neoplatonismo vengono rimesse in gioco molte problematiche accantonate precedentemente. In un passo del “Codice Atlantico Leonardo scrive: <<Nessuno effetto è in natura sanza ragione. Intendi la ragione, e non ti bisogna esperienza>>, Gentile accosterà queste parole a quelle con cui Schelling <<formulò il concetto di una scienza a priori: la ragione di cui parla Leonardo, è a priori per l’appunto come l’idea schellinghiana>>.[22] In tal modo il filosofo esalta il genio di Leonardo celebrandone la potenza artistica e la natura di ricercatore, riconoscendogli un’appartenenza a quella linea di pensiero che dal Neoplatonismo arriva fino all’Idealismo.

Completamente opposti gli atteggiamenti dei due filosofi: Croce cerca di abbattere il mito di precursore del moderno scientismo nel genio toscano, opponendosi al pensiero del Positivismo; Gentile cerca di trovare in Leonardo quei principi che saranno fondamentali nella storia della filosofia successiva.[23]

Oggi si tende a vedere in Leonardo una delle più alte espressioni della cultura umanistico-rinascimentale: il passaggio al pensiero moderno realizzato, prodotto fuori dalla tradizione erudita nel vincolo di conoscenza e di dominio tecnico della natura. Il suo concetto di sapere scientifico, del metodo seguito, l’importanza attribuita sia all’esperienza che alla matematica, lo posiziona come anticipatore di Galilei: alla cultura scolastica contrappose l’osservazione diretta della natura, che si esprime anche nella sua opera artistica.

Secondo alcuni studiosi, pur riscontrando negli scritti di Leonardo influssi del pensiero di Guglielmo d’Occam e dei filosofi naturalisti del XV secolo italiano, egli subì particolarmente l’influenza di Nicola Cusano: la natura come un unico organismo vivente, un macrocosmo che si individualizza nel microcosmo umano, il fenomeno delle maree, gli eventi vulcanici testimoniano il vibrare della vita della natura, il tendere degli elementi al Tutto, i loro continui mutamenti trovano corrispondenza nel maestro toscano nel microcosmo dell’organismo vivente.

Altri storici, evidenziano il carattere meccanicistico e antianimistico della sua concezione della natura, il suo modo di concepire la matematica sembra asserire un atteggiamento concreto di fronte alla stessa natura, poiché tale scienza si contraddistingue come disciplina indiscussa e rigorosa, viene accolta come regola imprescindibile del mutare della natura, che appare come un intreccio caotico di forze ed effetti, di cui solo la matematica può comprendere l’ordine di questo apparente caos.

Leonardo scrive a questo proposito:<<chi biasima la somma certezza della matematica, si pasce di confusione e mai porrà silentio alle contraditioni delle soffistiche scientie con le quali si impara un etterno gridore>>.[24] In tal modo la matematica diventa strumento basilare della conoscenza della natura, accanto all’esperienza, che costituisce l’altro cardine del metodo scientifico del maestro toscano. Egli, infatti, polemizza contro le scienze <<che principiano e finiscono nella mente>>, ed elogia l’importanza dell’esperienza, poiché, per Leonardo, è all’origine di tutte le nostre conoscenze. La natura è retta da <<ragioni>>, cioè da leggi: <<nessun effetto è in natura sanza ragione>>. Una volta che l’esperienza ci mette in contatto diretto con la natura, per mezzo della matematica possiamo scoprire e formulare leggi e una volta conosciuta la legge, da questa possiamo dedurre gli effetti, anche senza ricorrere di nuovo all’esperienza. Questo è il senso della celeberrima asserzione <<intendi la ragione e non ti bisogna esperienza>>.

L’unione di arte, scienza e tecnica rappresenta l’aspetto più importante dell’opera del maestro toscano, che rispecchia il distacco dell’uomo rinascimentale dall’unità teologica del sapere medievale e dall’autorità della Bibbia, facendo emergere quel rapporto diretto dell’uomo con la natura che è condizione essenziale per il sorgere della scienza moderna.[25]

In tal modo si può considerare Leonardo come uno degli artefici di quella “rivoluzione copernicana” che segna l’inizio della ricerca scientifica moderna, attuata dal naturalismo rinascimentale, che ribalterà il rapporto ragione-natura, analogamente a quella di Copernico sul rapporto Terra-Sole, compiuta nella seconda metà del Cinquecento.[26] Senza nulla togliere al pensiero Scolastico medievale, anzi ammirandone la capacità dei dotti di questo periodo di dedurre le leggi naturali da una semplice analisi mentale, che, tuttavia, nega il carattere di scienza a tutto quello che non sia pura speculazione e le “arti meccaniche” sono considerate, con un certo disprezzo, inferiori.[27]

Leonardo rappresenta chiaramente questo mutamento radicale: scompare il filosofo che pretende di indagare l’universo con gli schemi mentali da lui elaborati, per far posto allo scienziato, che esplora la natura con la ricerca e la sperimentazione e agli occhi del maestro toscano si presenta un mondo intero da scoprire e il suo fine è quello di conoscere e comprendere la natura nella sua infinita complessità e varietà, non chiarire i fenomeni ancora incomprensibili, tenendo presente che all’epoca di Leonardo, come dirà poi Engels, la ricerca scientifica “doveva lottare per conquistare lo stesso diritto all’esperienza”.[28]

Attualmente, alcune asserzioni di Leonardo possono sembrare semplici o ovvie, ma all’epoca esprimevano un vero e proprio rovesciamento del sapere dei vari rami della cultura: per gli studiosi umanisti contemporanei del tempo ha carattere scientifico solo quella cognizione <<che nasce e finisce nella mente>>, ossia quella conoscenza partorita dall’esperienza è da considerarsi come meccanica, quindi da collocarsi ad un livello più basso e non da considerare vera scienza. Diversamente per Leonardo <<le scienze che principiano e finiscono nella mente>> sono prive del carattere di verità, non sono scienze vere, infatti egli le definisce <<le bugiarde scienze mentali>>, poiché <<in tali discorsi mentali non accade esperienza, senza la quale nulla si dà certezza>>.

Leonardo è mordace e pungente contro gli pseudo scienziati metafisici e così si esprime nei suoi scritti: <<Se bene, come loro, non sapessi allegare gli altori, molto maggiore e più degna cosa a leggere è allegando la sperienza, maestra ai loro maestri. Costoro vanno gonfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro, ma delle altrui fatiche, e le mie a me medesimo non concedono; ma trombetti e recitatori delle altrui opere potranno essere biasimati>>. <<Ma a me pare che quelle scienze sieno vane e piene di errori, le quali non  sono nate dall’esperienza, madre di ogni certezza, o che non terminano in nota esperienza, cioè che la loro origine e mezzo e fine non passa per nessuno dei cinque sensi>>.[29]

Tutto ciò non significa che la posizione di Leonardo porti ad un empirismo acritico o ad un culto positivistico del dato sensibile, semmai può implicare un certo materialismo scientifico piuttosto rigoroso, che implica la netta separazione tra scienza e teologia, vanificando la magia medievale, le forme estreme di credulità, che speravano di poter dominare la natura, proprio perché la scienza medievale non aveva carattere sperimentale e operativo. In un’epoca in cui il filosofo naturale è costretto a far conoscere il suo pensiero in una forma che non contrasti direttamente con le dottrine della Chiesa. Così scrive Leonardo: <<O mirabile e stupenda necessità, tu costringi con la tua legge tutti li effetti, per brevissima via, a partecipare delle lor cause. Questi son li miracoli>>, è forse esaltazione della conoscenza e non del mistero o affermazione delle leggi necessarie della natura e non poesia dell’inconoscibile?[30]

Riportiamo anche l’opinione di Eugenio Garin su Leonardo con le sue stesse parole: <<In verità Leonardo da Vinci, vissuto in uno degli ambienti più colti e completi d’Europa, iniziatosi all’indagine più sviluppata e aggiornata del tempo, trovò poi, nei circoli pavesi, milanesi, veneti e settentrionali in genere, una più forte accentuazione di quelle discussioni logiche e fisiche che già dal Trecento andavano consumando un’indagine antica del mondo. Artista mirabile e scrittore originalissimo, non fu certo lui a creare il metodo sperimentale, o la sintesi fra matematica ed esperienza, o la fisica nuova, ma può bene assurgere a simbolo del trapasso da una profonda elaborazione critica, di cui talora egli compendia i resultati, alla formulazione di concezioni rinnovate. Prese contatto con i processi metodici e con le teorie meccaniche che avevano ormai oltrepassato il vecchio aristotelismo e recò, qui come altrove,  contributi larghissimi di limpide osservazioni. Tuttavia mentre sul terreno filosofico non raggiunse una visione nuova del reale ma si limitò a ripetere con finezza variazioni di temi diffusi, sul terreno scientifico, se non elaborò teorie d’insieme originali, in più d’un caso approfondì tesi feconde che trovava già formulate. Osservatore instancabile fissò con meravigliosa eloquenza le sue esperienze, ma non sempre oltrepassò l’andamento degli esperimenti “magici”; sentì con geniale intuizione il grande valore della tecnica, e fu certo uno straordinario “ingegnere”, ma in più di un caso inseguì visioni fantastiche senza mettersi per le umili vie dei processi necessari alle realizzazioni concrete; ed anche in questo fu a volte più simile a un Ruggero Bacone che non a un Galilei. Fu, soprattutto, esponente caratteristico di un’epoca e di una città d’eccezione, dell’inquietudine di un mondo che mutava. Ma, in questo, non fu più eccezionale di molti altri dell’età sua aperti a ogni interesse, consapevoli della centralità dell’uomo che con le proprie mani costruisce il proprio mondo>>.[31]

Paisagem_do_Arno_-_Leonardo_da_Vinci

Il famoso “Paesaggio” datato 5 agosto 1473, di cui attualmente gli studiosi sono divisi per quanto riguarda il luogo, è un disegno di Leonardo conservato presso la Galleria degli Uffizi (Gabinetto dei Disegni e delle Stampe) a Firenze, in cui possiamo vedere la personalissima scrittura leonardesca riporta: “Dì de Sta Maria della Neve/Adì 5 daghosto 1473”, la veduta di un fiume, con alberi, cespugli e campi coltivati, si apre tra due promontori scoscesi. Il disegno, probabilmente tratto dal vero, mostra spunti reali familiari all’artista per la sua infanzia trascorsa in campagna.

A deluge

Un altro celeberrimo disegno, conservato a Windsor, risalente al 1517-1518, facente parte della serie dei “Diluvi”, rappresenta una collina rocciosa sotto un diluvio, che piega gli alberi trascinati giù per la collina, la pioggia si convoglia in una cascata e il primo piano risulta pieno di acqua gorgogliante e vorticosa.

Questi due disegni: uno realizzato a diciassette anni circa, l’altro negli ultimi anni della sua vita, ci fanno capire il radicale cambiamento avvenuto nella rappresentazione della natura: Leonardo parte da un concetto benigno verso la natura, per arrivare, dopo molti anni, ad una percezione distruttiva e negativa, in cui l’essere umano è costretto a soccombere, non avendone il controllo. Quest’assillo per la distruzione può essere visto come l’espressione profondamente personale di un uomo che si approssimava alla fine, un artista che aveva visto alcune delle sue più grandi creazioni incompiute o distrutte, che aveva un profondo senso della trasformazione di tutte le cose, che temeva il caos nell’intelletto, nella natura, nella politica e che soprattutto riconosceva l’impossibilità dell’unità del sapere.

Leonardo da Vinci è stato, dagli studiosi di tutte le epoche a lui posteriori, osannato e demolito, lodato e criticato, ma ancora oggi, a distanza di cinque secoli dalla sua morte, è forse l’unica persona cui diamo l’aggettivo di “genio universale”, perché questo personaggio straordinario non fu un genio, ma il genio e vogliamo terminare con queste sue parole: <<So bene che, per non essere io litterato, che alcuno presuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere. Gente stolta! Non sanno questi tali ch’io potrei, sì come Mario rispose contro a’ patrizi romani, io sì rispondere, dicendo: “Quelli che d’altrui fatiche se medesimi fanno ornati, le mie a me medesimo non vogliano concedere”. Diranno che, per non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare. Or non sanno questi che le mie cose son più da esser trattate dalla sperienza, che d’altrui parola; la quale fu maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio e quella in tutti i casi allegherò>>.[32]

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NOTE

1 Il Battesimo di Cristo è un’opera a olio e tempera su tavola di Andrea del Verrocchio, databile tra il 1475 e il 1478, conservata presso la Galleria degli Uffizi a Firenze. Andrea di Michele, detto il Verrocchio nacque a Firenze nel 1436 circa da Michele di Francesco di Cioni e da Gemma sua prima moglie, dal suo primo maestro, l’orafo Giuliano del Verrocchio prese il nome con cui è più conosciuto. Fu scultore, orafo e pittore, guidò un’importantissima bottega d’arte a Firenze, in cui, oltre a dipingere e a scolpire, venivano realizzate armi ed armature pregevoli ed oggetti che per la loro creazione richiedevano un’alta preparazione artistica ed un considerevole impegno tecnico. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/andrea-di-michele-detto-il-verrocchio_(Dizionario-Biografico)/

2 Ibid.

3 Cfr. A. Marinoni a cura di, Arte e scienza in Leonardo da Vinci, in “Leonardo da Vinci”, Tutti gli scritti. Scritti letterari, Milano 1952, pp. 7-27.

4 Ibid.

5 Codice Atlantico, f. 327v. e Treccani. Comunque tra le migliaia di fogli dei manoscritti non mancano scritti che possono essere considerati letterari, in quanto connessi a generi della letteratura contemporanea, principalmente popolare e orale come le favole, i motti, le facezie, i proverbi, gli indovinelli, le profezie, il bestiario (Codice H).

6 Luca Pacioli nacque nel 1445 circa a Borgo San Sepolcro, vicino ad Arezzo, da Bartolomeo, allevatore di bestiame, e Maddalena Nuti, non ancora ventenne si trasferì a Venezia, dove frequentò le lezioni di Domenico Bragadin, pubblico lettore di matematiche della Repubblica nella Scuola di Rialto, il quale lo istruì nell’aritmetica e nell’algebra. Ebbe la carica di precettore presso Antonio Rompiasi, mercante che abitava nel quartiere della Giudecca, che il Pacioli seguì in molti dei suoi viaggi, arricchendo in tal modo le sue conoscenze ragionieristiche e le competenze nel campo della mercatura. Nel 1468 ottenne la carica di pubblico lettore di matematica e di Canonico in San Marco, due anni dopo scrisse il suo primo libro di matematica, dedicato ai tre figli di Rompiasi. Agli inizi del 1470 si trasferì a Roma, ospite di Leon Battista Alberti, entrando in contatto con personaggi famosi, successivamente aderì alla regola dei francescani Minori, con il nome di fra Luca di Borgo. Si dedicò allo studio e all’insegnamento della matematica in varie città, nel 1494 tornò a Venezia dove pubblicò presso la tipografia di Paganino de’ Paganini l’opera “Summa de aritmetica, geometria, proporzioni et proporzionalità”, dedicato a Guidobaldo da Montefeltro, che fu il primo libro stampato di aritmetica e algebra, che  ebbe grande diffusione e dette grande fama al Pacioli. Dal 1496 al 1499 fu a Milano al servizio di Ludovico Sforza e fu in questo periodo che conobbe ed ebbe inizio l’amicizia e la collaborazione scientifica con Leonardo da Vinci. Nel 1499, quando Ludovico il Moro dovette fuggire da Milano invasa dal re di Francia Luigi XII, Pacioli e Leonardo si rifugiarono a Mantova sotto la protezione di Isabella d’Este. Pacioli continuò a spostarsi di città in città, ebbe alti incarichi e a Bologna fu nominato membro del gruppo dei lettori del prestigioso Studio bolognese, in seguito insegnò oltre che a Bologna, a Pisa, Firenze e Perugia, fino a quando fu chiamato da Leone X all’Archiginnasio presso la corte pontificia, dove incontrò di nuovo Leonardo. La “Summa…”, divisa in “Tractati”, non è considerata un’opera originale: riprende elementi già noti nel passato, ma resta il primo trattato generale di aritmetica e algebra, l’autore vi inserì anche capitoli che no riguardavano direttamente l’aritmetica e la geometria, ma che si addentravano nel campo dell’economia, pur non essendo un economista, preparò introdusse un materiale e si servì di un linguaggio tecnico che successivamente sarebbero entrati a far parte della scienza economica. Pacioli, da esperto nella computistica, insegnò come fosse possibile risolvere con l’algebra problemi di ordine economico, guadagnandosi in tal modo la paternità delle regole per la tenuta dei libri a partita doppia, chiaramente esposte nel “Tractatus undecimus (De computi set scripturis)” della “Summa…”, la celeberrima opera (incunabolo) che lo ha reso immortale. In quanto alla paternità della partita doppia non tutti gli studiosi sono concordi, ma anche se Pacioli non ne fu l’inventore, fu certamente il primo divulgatore attraverso l’uso della stampa, la cui diffusione fu anche dovuta alla lingua volgare (misto di toscano e veneziano) usata dall’autore e, quindi, resa fruibile ad un numero maggiore di lettori non necessariamente letterati. Luca Pacioli morì tra aprile e ottobre 1517, non certo il luogo: Borgo Sansepolcro o Roma? Per i rapporti tra Leonardo e Luca Pacioli si veda A. Marinoni, Leonardo, Luca Pacioli e il “De ludo geometrico”, in “Atti e memorie dell’Accademia Petrarcadi lettere, arti e scienze di Arezzo”, nuova serie, XL, (1970-1972). Pp. 3-28; Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/luca-pacioli_%28II-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Economia%29/

7 E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza, Torino 1978, vol. I, tomo 2, p. 368.

8 Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, n. 77.

9 Ibid., N. 195.

10 Trattato della Pittura, § 12.

11 P. Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 43.

12 Cfr. G. Giandoriggio, Leonardo filosofo di Croce e di Gentile, in “Il Pensiero Italiano”, Rivista di Studi Filosofici, Vol 1 (2017), n. 1.

13 B. Croce, Leonardo filosofo (1906), in “B.Croce, Saggio sullo Hegel, Bari 1948, (IV ed.), p. 212.

14 Ibid., p. 224. Il corsivo è nostro.

15 Ibid.,p.229; E. Franzini,Il mito di Leonardo. Sulla fenomenologia della creazione artistica, in “Spazio filosofico”, Milano1987, p.23.

16 B. Croce, Saggio sullo Hegel…, cit., p. 213.

17 Ibid., p. 218.

18 Ibid. p. 224.

19 Ibid., p. 226.

20 G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze 1955, p. 199.

21 Ibid.

22 Ibid., Schelling definisce la sua filosofia della natura “fisica speculativa a priori”, ossia intesa come un tentativo di organizzare in maniera sistematica il materiale offerto dall’esperienza e dalla scienza.

23 Cfr. G. Giandoriggio, Leonardo filosofo di Croce e di Gentile, pp. 1-15.

24 Cfr http://www.sapere.it/enciclopedia/Leonardo+da+Vinci.html#id_Odc56ca6-aaeb-34be9883 Leonardo da Vinci, Fogli di Windsor, Royal Library, ff. 1908- 19118.

25 Ibid.

26 Cfr. L. L. Radice, La filosofia della natura e la scienza nel pensiero di Leonardo da Vinci, in “L’uomo del rinascimento”, Roma 1958, pp. 17-44.

27 Ibid.

28 Ibid.

29 Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, f. 117, r.b, in “Scritti letterari”, a cura di A. Marinoni, Milano 1974, p. 147.

30 Ibid.

31 E. Garin, La cultura fiorentina nell’età di Leonardo, in “Scienza e vita nel Rinascimento Italiano, Bari, 1965, pp. 57-85.

32Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, f. 119, v. a, pp. 148-149.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I MAGNIFICI “MINORI” DELLA PINACOTECA AMBROSIANA

LOREDANA FABBRI

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                                                                                          “[D]alla gioventù in poi, nel corso di tanti anni,

                                                                                            mi sembra di aver saputo che avrei condotto due esistenze…

                                                                                            Una lungo la via della contemplazione, rivolta allo studio,

                                                                                            l’altra rivolta all’azione e alle opere esteriori,

                                                                                            legata alla mia posizione e funzione [pubblica]…

                                                                                                     Ho sempre cercato di mantenere l’equilibrio fra queste due esistenze,

                                                                                            in modo che nessuna delle due sopraffacesse l’altra o la soffocasse”.

                                                                                                                                  Federico Borromeo,

                                                                                              (Pro suis studiis, Ms. Ambr. G 310 inf.,                                                                                                                       n. 8, 1628, foll. 243v-244r.)

PREMESSA

Questo lavoro, che riprende il modello del mio precedente intitolato “ La figura della Madonna nella collezione di Federico Borromeo”, anche se non ha la pretesa di essere esaustivo sia sotto il profilo artistico sia sotto quello storico-biografico, né è vincolato da obiettivi eccessivamente tecnici ed accademici, vuole aiutare il visitatore a compiere una visita più completa e dettagliata della  Pinacoteca Ambrosiana, poiché spesso accade che lo spettatore, attratto dai capolavori dei grandi artisti come Leonardo, Raffaello, Tiziano, Caravaggio, Brueghel, Luini ed altri, “trascuri” di soffermarsi con attenzione su altre opere di pittori meno conosciuti o perlomeno che non hanno avuto la grande fama di altri, ma che sono molto interessanti sia per le loro opere e sia per il periodo in cui sono stati attivi. Cominciando dalla prima Sala cercheremo di descrivere alcuni dipinti e, quando possibile, una breve biografia dei relativi autori: alcuni di essi sono molto conosciuti dagli addetti ai lavori, ma non sempre lo sono per coloro esperti in altri campi del sapere, quindi lo scopo di questo lavoro vorrebbe essere quello di far soffermare il visitatore anche davanti a queste opere, che, oltre al loro significato, racchiudono arte e fascino.

Anche questa “guida”, come già la precedente, ha la peculiarità di non essere corredata dalle foto delle opere descritte, perché concepita come una “visita guidata” e, nonostante la struttura, non è e non vuole essere un catalogo, ma vuole, come già detto “accompagnare” il pubblico in uno specifico percorso all’interno di quello molto più ampio che il visitatore può effettuare nella Pinacoteca Ambrosiana. Il percorso da noi seguito è quello che realmente possiamo percorrere e che è descritto in “ M. Navoni-A. Rocca, La Pinacoteca Ambrosiana. Prefazione di Franco Buzzi, De Agostini, Novara 2015.

L’epoca dei due Borromeo fu una delle più importanti e significativa della storia non solo di Milano, ma della Lombardia e della cristianità: Carlo (2 ottobre 1538/3 novembre 1584) fu l’artefice della terza e ultima fase del Concilio di Trento e della Riforma e Controriforma cattolica, Federico (18 agosto 1564/21 settembre 1631), pur cercando di imitare il modello del grande cugino nel governo della Chiesa, si dedicò molto anche all’arte e alla cultura in generale,[1] divenendo un considerevole collezionista e un magnifico mecenate.

Federico Borromeo nacque a Milano nel 1564 da Giulio Cesare Borromeo e Margherita Trivulzio appartenenti a famiglie tra le più antiche della nobiltà milanese, dopo la morte del padre nel 1572, il cugino Carlo divenne suo tutore e cominciò a predisporre la carriera ecclesiastica del suo protetto, la sua educazione fu da aristocratico e umanista e grande fu l’influenza che ebbe su Federico, di cui diventò un modello, principio costante di stimoli e ispirazioni.

Dopo la morte del cugino, Federico, sotto la guida e i consigli del Vescovo di Vercelli, si trasferì a Roma nell’autunno del 1586, dove alloggiò nel palazzo del Cardinale Marco Sittico Altemps e fu subito nominato da papa Sisto V Cameriere segreto, per elevarlo poi al cardinalato l’anno successivo. Borromeo ebbe singolare rinomanza come membro della Congregazione dei Riti, suddivisa in quindici congregazioni, che avevano la competenza di assistere il Papa nel governo della Chiesa e nell’amministrazione dei domini temporali a lui soggetti, fissava le norme di tutti i rituali e le cerimonie del cattolicesimo ed era considerata una delle cariche più prestigiose.[2]

Di carattere timido ed introverso, tendeva a passare molto tempo in solitudine immerso nella preghiera e negli studi, durante questo periodo romano arrivò a padroneggiare la lingua greca, la caldaica e la siriaca, cercò di evitare gli intrighi e le manovre politiche di corte, preferendo dedicarsi a problemi di natura religiosa e spirituale: frequentò famosi studiosi come Giovanni Botero, Fulvio Orsini, Cesare Baronio, Ulisse Aldrovandi, ma soprattutto subì profondamente l’influsso di Filippo Neri, il quale divenne non solo il suo confessore ma anche suo maestro spirituale e quando Borromeo fu eletto cardinale, nel 1587, continuò la sua vita di studi e di preghiera sotto la direzione di Filippo Neri, il quale fu anche guida nella sua attività e nelle sue decisioni.[3] Federico continuò ad ispirarsi al modello del cugino soprattutto per problemi politici e di amministrazione ecclesiastica, ma a livello personale e spirituale, pare abbia trovato più consono il temperamento mite e comprensivo di Filippo Neri di quello più rigido del cugino.[4] Da una frase di un’opera di Federico, ormai anziano, possiamo capire la conflittualità che le due personalità, Carlo Borromeo e Filippo Neri, crearono nell’interiorità di Federico per il quale rappresentarono i due cardini fondamenti su cui basare le sue scelte di uomo e di ecclesiastico: <<[D]alla gioventù in poi, nel corso di tanti anni, mi sembra di avere saputo che avrei condotto due esistenze… Una lungo la via della contemplazione, rivolta allo studio, l’altra rivolta all’azione e alle opere esteriori, legata alla mia posizione e funzione [pubblica]… Ho sempre cercato di mantenere l’equilibrio fra queste due esistenze, in modo che nessuna delle due sopraffacesse l’altra o la soffocasse>>.[5]

Durante il soggiorno romano nacque nel Borromeo un grande interesse per l’archeologia cristiana, interesse coltivato già da Carlo soprattutto per il culto delle reliquie e per le pratiche religiose dei primi cristiani, anche Filippo Neri si interessò di studi paleocristiani e per ripristinare quella fede, quell’amore e quella semplicità propri dei primi cristiani, il futuro santo fondò la Congregazione dell’Oratorio (1575), caldeggiando la pubblicazione di studi eruditi sulle origini della Chiesa.[6] <<La necessità di convincere gli eretici – inizialmente i centuriatori di Magdeburgo – della purezza e autorevolezza della posizione della Chiesa di Roma aveva favorito la nascita di un nuovo metodo di indagine storica. Al tempo di Federico, i riformatori esploravano catacombe paleocristiane ed esaminavano basiliche, opere d’arte e documenti scritti con crescente sistematicità, considerando manufatti, immagini e testi alla stregua di indizi che, confermandosi a vicenda, davano solidità alle fondamenta del cattolicesimo. Ben conoscendo l’interesse di Carlo per l’archeologia cristiana, Federico naturalmente non trascurò di farsi guidare dal Neri e dal Baronio alla scoperta di catacombe e antiche basiliche. In breve tempo il giovane cardinale cominciò a curiosare per proprio conto, trasformandosi in un prete archeologo in piena confidenza coi nuovi metodi di ricerca>>.[7] Anche Alfonso Chacón gli fece da guida e maestro,[8] infatti fu del Domenicano l’idea di riprodurre le pitture paleocristiane in disegni che Federico fece poi copiare e che ancora oggi si conservano all’Ambrosiana.[9]

Grazie alla sua amicizia con il Cardinale Francesco Maria del Monte e soprattutto con il marchese Vincenzo Giustiniani, uno dei più grandi collezionisti romani, Federico fu introdotto nell’ambiente molto ristretto dei più esperti collezionisti ed amatori d’arte non solo del mondo romano ma italiano ed europeo, venendo a contatto diretto con vari artisti tra i quali Caravaggio e Giovan Battista Crespi. La nomina, nel 1593, di Cardinale protettore dell’Accademia di San Luca, appena fondata da Federico Zuccari,[10] segnò il suo ingresso ufficiale nel mondo artistico della Roma dei tempi ed anche i suoi rapporti con molti pittori facenti parte dell’ambiente e l’idea dell’Ambrosiana nacque proprio a Roma, dove Federico ebbe modo di stare a contatto con uomini di grande cultura (Baronio, Orsini, Maffei, Strozzi, Marco Welser e Giusto Lipsio furono suoi amici) e capire quanto essa incidesse nella civiltà cristiana per la difesa dell’ortodossia cattolica, infatti ebbe molti incarichi consoni alla sua vocazione di erudito più che impegni di politica ecclesiastica.[11] A Roma, quindi, nonostante lo scrupolo con cui svolgeva le questioni della Curia, riuscì a prendere parte al mondo artistico della città con una concreta conoscenza della pittura e della scultura, in particolare di quella dell’antichità classica e del Rinascimento, oltre che all’iconografia paleocristiana e la dimostrazione l’abbiamo nei suoi scritti, in particolare il “De Pictura sacra” e il “Msaeum”.[12]

Nell’aprile del 1597, Borromeo, dopo nove anni che si trovava a Roma, venne eletto Arcivescovo di Milano da Sisto V, carica a cui si oppose con una certa resistenza sia per le difficoltà obiettive che sapeva di trovare a Milano, sia per il “rilassamento” del clero dopo la morte di Carlo e durante l’episcopato del successore Gaspare Visconti, a tutto questo si univa il ricordo del modello di santità e lo zelo pastorale del cugino che avevano lasciato un’impronta difficilmente ripetibile; solo l’insistenza di Filippo Neri riuscì a persuaderlo ad accettare tale incarico che ricoprì per trentasei anni, ispirandosi, sin dall’inizio, al  modello di governo di Carlo.[13] Ma dopo soli venti mesi di episcopato, si assentò di nuovo da Milano a causa di controversie giurisdizionali con il Governo spagnolo: Federico volle recarsi a Roma per seguire personalmente la sua causa, dove rimase per altri quattro anni. Tornò definitivamente a Milano nel 1601.[14]

Federico Borromeo aveva trentasette anni e le maggiori aspirazioni dell’età giovanile potevano considerarsi realizzate: il desiderio di una vita ritirata e meditativa, il grande amore per l’arte, l’interesse per le scienze umane e naturali, usate anche come mezzi per la difesa dell’ortodossia cattolica, l’orientamento nei problemi politici ed amministrativi basato sul modello del cugino Carlo, di cui voleva esserne continuatore.

Fin dall’inizio del suo arcivescovato si impegnò ad applicare concretamente le disposizioni emanate dal Concilio di Trento: incaricò i vescovi della promozione e supervisione delle attività riformatrice delle proprie diocesi, applicazione dei decreti sulla condotta del clero, già emanati da Carlo, dispose il controllo dei modelli educativi nei seminari istituiti dal cugino, ordinò che le confraternite laiche si attenessero agli insegnamenti del catechismo stabiliti da Carlo, fondò istituzioni educative varie, finanziò il Collegio Elvetico di Milano, fondato per formare sacerdoti incaricati di combattere l’eresia nei Cantoni svizzeri. Sempre seguendo l’esempio del cugino, rimise in vigore le visite pastorali, con lo scopo di valutare la veridicità delle riforme diocesane predisposte da Carlo, ma usando metodi meno rigidi e mostrandosi più indulgente e tollerante di quest’ultimo. L’atteggiamento accomodante di Federico mostra ciò che il Cardinale si era proposto: fare dell’arte un mezzo di riforma, dando un tocco personale al suo episcopato.[15] In Federico la cosiddetta Controriforma è profondamente diversa che in Carlo, non soltanto per la differenza cronologica, ma dobbiamo considerare soprattutto che Carlo è un giurista e come tale è tutto proteso verso il riformismo e il contro riformismo cattolico; Federico non ha fatto studi giuridici, ma teologici, è incline alla solitudine, all’arte, alla poesia, alla contemplazione, senza tuttavia tralasciare quell’attivismo che la sua coscienza e il suo ruolo gli imponevano.

Il rapporto di Federico con Giovan Battista Crespi, detto il Cerano (1573-1632), conosciuto durante il soggiorno romano, continuò anche quando, nel 1601, entrambi tornarono a Milano e l’artista fu chiamato per l’esecuzione di alcune pitture nel palazzo milanese di Renato Borromeo, fratello del Cardinale e nel 1608 l’Arcivescovo commissionò al Cerano il disegno per la statua di San Carlo in Arona, l’artista, insieme con Morazzone e Giulio Cesare Procaccini furono le personalità emergenti dell’ambiente artistico milanese, che, dopo il grande successo di pittori come Ambrogio Figino, Giuseppe Meda, Antonio e Vincenzo Campi, caratterizzarono il ritorno a Milano di Borromeo. La formazione artistica del Cerano era avvenuta in un clima di accesa e drammatica religiosità originata dal primo Borromeo, e Federico, memore del santo cugino, non poteva non dare credibilità ad artisti in grado, come i suddetti tre maestri, detti anche “federiciani” non solo per la cronologia, di formulare la nuova iconografia carliana, i quali proponevano, anche se in modo personale, una visione piuttosto esacerbata di motivi tardo manieristici, attenuata da elementi di verità quotidiana, inseriti in un gioco di tenebre-luce, impregnato di simboli: risposta caratteristica della pittura milanese al recupero delle immagini sacre proposto dal Concilio di Trento.[16] A Milano il Cardinale poté avvalersi di due valenti collaboratori esperti d’arte per la formazione della sua raccolta: Girolamo Borsieri e Alessandro Mazenta, i quali, oltre a procurare a Federico dipinti, in qualità di esperti, fornirono anche utili consigli in materia di quadri e disegni, certamente non furono i soli informatori e consulenti  del Borromeo, che disponeva di agenti in varie città.

I gravi contrasti religiosi, scaturiti dalla Riforma di Lutero nel 1517 e che avevano spezzato l’Europa a metà: la parte settentrionale protestante, quella meridionale cattolica, costrinsero la Chiesa di Roma a rivedere le proprie strutture e la propria condotta, convocando, nel 1545, il Concilio di Trento anche per cercare di ricostruire un’intesa tra cattolici e protestanti, ma la situazione si aggravò ulteriormente alla fine del Concilio (1563), che, però divenne il centro della nuova ideologia della Chiesa di Roma, la quale dava una risposta alla Riforma protestante.[17]

Il Cinquecento fu, dunque, un secolo drammatico, in cui si assistette alla mutazione dei valori religiosi, politici, filosofici, scientifici e artistici, dai quali scaturiranno le idee su cui si fonderà la struttura culturale dell’Europa moderna. L’arte non è più osservazione e riproduzione dell’ordine del creato, ma ansiosa ricerca della propria natura, della ragion d’essere e dei propri fini: non ha più senso rappresentare nell’arte la forma dell’universo se questa è sconosciuta ed oggetto d’indagine, come non ha senso contemplare l’armonia del creato se Dio non si trova là, ma nell’interiorità dell’anima che combatte per la propria salvezza.[18]

Il Seicento, di conseguenza, è il secolo delle crisi e delle contraddizioni, l’uomo, dopo i profondi rivolgimenti del Cinquecento, non presenta un’unità spirituale, politica, religiosa e sociale, ma è tormentato da molteplici e incongruenti richieste, da passioni e stimoli che ne frantumano la vita nei più opposti atteggiamenti, ciò nonostante l’essere umano cerca un ordine, un’unità ed un equilibrio, quando non ci riesce cede alla sensazione, all’istinto. Nell’ambito filosofico si dibatte tra empirismo e razionalismo, tra meccanicismo e finalismo; in quello scientifico tra Tolomeo e Copernico, tra Aristotele e Galilei, tra il principio di autorità e lo sperimentalismo. In campo artistico prevale il Barocco, emblema della crisi di sensibilità e trionfo dell’irrazionale, una rivoluzione culturale in nome dell’ideologia cattolica.[19] L’Italia divenne un luogo sempre meno adatto all’esercizio di un’attività del pensiero, un esempio di ciò è la letteratura, che, data la stretta sorveglianza della Chiesa di Roma, preferì evitare contenuti molto impegnativi, filosofici e religiosi, rivolgendo la propria attenzione su oggetti concreti, quotidiani anche se insignificanti, l’importante era che lo scrittore offrisse un’immagine che destasse meraviglia.

Nell’ultima fase del Concilio tridentino viene affrontato il problema della rappresentazione pittorica della divinità e si studiano i canoni secondo i quali avrebbe dovuto essere affrontata e valutata. Nella XXV e ultima sessione del Concilio vengono redatti i nuovi canoni concernenti la pittura sacra, a cui la Chiesa vuole dedicare una cura particolare per farne uno strumento di propaganda delle dottrine controriformiste. La Chiesa di Roma contrappose la teatralità e il fasto della liturgia post-tridentina al raccoglimento austero della religiosità protestante: gli edifici di culto, le celebrazioni di messe solenni, le processioni erano strumenti di sicuro effetto propagandistico. Le arti figurative divennero un mezzo per diffondere tra il popolo i contenuti dell’ortodossia cattolica. Le scene iconografiche di pittori e scultori cominciarono a passare al setaccio dei teologi: la rappresentazione di scene bibliche o di vite di santi doveva seguire fedelmente le Sacre Scritture, e, allo stesso tempo, apparire efficace e comprensibile a tutti. Particolarmente indicate a questo scopo furono le raffigurazioni del martirio dei santi, spesso rese con toni patetici. I colori divennero più scuri, l’atmosfera tetra e buia, squarciata da lame di luce.

Il 3 dicembre 1563, nella sessione XXV del Concilio di Trento, fu promulgato il decreto:  “Della Invocazione, della Venerazione e delle Reliquie dei Santi e delle sacri Immagini”, con il quale la Chiesa romana onorava l’uso delle immagini sacre, la cui legittimità era stata fortemente criticata dalla Riforma protestante. Rifacendosi alla tradizione, il decreto esaltava la funzione didattica delle immagini e stabiliva dei principi generali riguardanti le caratteristiche delle rappresentazioni da situare negli edifici di culto. Venne istituito un organo di controllo per le opere di destinazione pubblica e saranno i Vescovi a giudicarne l’idoneità, in casi dubbi si ricorrerà al giudizio del Santo Uffizio, i prelati sentendosi investiti da una grande responsabilità, reagiranno con comportamenti che oscilleranno da una forte rigidità ad aperture critiche ed intelligenti.[20]

La Controriforma stabilì una radicale svolta, che riuscì ad influenzare l’arte oltre le indicazioni precettistiche stabilite dal Concilio. I riformati accusavano la Chiesa di Roma di avere smarrito il senso di umiltà e povertà della Chiesa delle origini, per il potere, la ricchezza e i piaceri terreni e tutto ciò era innegabile, ma il risultato dei provvedimenti presi dalla Curia romana fu quello di instaurare un’atmosfera di grande severità soprattutto applicata verso gli altri, infatti la risposta della Controriforma fu l’intolleranza, la paura: non era raro poter essere imprigionati, torturati e condannati a morte solo per reati d’opinione, bastava avere idee diverse da quelle ritenute ortodosse per incorrere in simili pene, emblema di tutto questo sono Giordano Bruno e Galileo Galilei.[21]

La Chiesa romana, cui si deve sempre un rapporto fruttuoso con l’arte, aveva il monopolio sulla produzione artistica ed era stata sempre tollerante verso la creatività degli artisti, anche durante l’Umanesimo, quando con il ritorno al mondo classico l’arte trascese l’ortodossia religiosa. L’improvviso atteggiamento intollerante assunto dalla Chiesa influenzò l’arte in modo profondo, ciò si ebbe anche perché gli artisti di quell’epoca erano ancora al servizio delle classi dominanti, cioè della Chiesa e delle famiglie aristocratiche, quindi si dovettero adeguare rapidamente ai nuovi decreti. Il nudo, soprattutto femminile, e i soggetti mitologici non scomparvero, ma si cercò di fare del primo raffigurazioni castigate e meno dissolute, dei secondi opere laiche per la committenza privata.[22]

Lo spirito del Rinascimento si è esaurito dopo il Concilio di Trento, ma nelle pittura permane il manierismo, che verrà superato solo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento con le opere di Annibale Caracci, Caravaggio e Pieter Paul Rubens, che cercano di coniugare la grande pittura del Cinquecento con l’armonia e la proporzione dell’idealismo e lo studio della realtà del realismo. Con il XVII secolo si aprì dunque un periodo d’intensa sperimentazione, che confluì nell’elaborazione del nuovo linguaggio barocco.[23]

La nuova poetica barocca abbandonò l’idea dell’arte come imitazione della natura, mirando all’illusione, la finzione, l’artificio, facendo dell’arte una seconda realtà, esaltando i valori emotivi e psicologici dell’opera d’arte. Questa scelta formale si adattava perfettamente alle nuove funzioni sociali dell’arte e particolarmente alle esigenze della Chiesa post-tridentina, che, con un linguaggio coinvolgente e illusionistico, riusciva a raggiungere un vastissimo pubblico, stimolandolo esortandolo ad una devota e ossequiosa partecipazione.

Nel giugno 1601, Federico torna stabilmente a Milano e nello stesso anno inizia a inviare persone di sua fiducia in vari luoghi, per cercare ed acquistare codici e libri: nel 1603 comincia la costruzione dell’edificio per la Biblioteca. Il Cardinale aveva acquistato tre piccole case appartenenti agli Oblati di San Sepolcro, che poi fece abbattere per ottenere lo spazio destinato al nuovo edificio, affidandone il progetto a Francesco Richino e a Lelio Buzzi. Non trascurando le responsabilità pastorali e di governo che pongono il nuovo Prelato di fronte a problemi concreti, come la necessità di contenere la pressione della Riforma protestante e il dilagare dei suoi culti, la minaccia dei Turchi per l’Europa cattolica, ma anche i rapporti problematici di Federico con le autorità civili spagnole. Tutto questo contribuisce a convincere il Borromeo del bisogno di un profondo rinnovamento, che dia al Cattolicesimo la possibilità di dialogo agli uomini ed essere punto di riferimento per la società, in quanto fondato su una Verità che vincola al bene: la Biblioteca Ambrosiana non dovrà rappresentare solo un luogo di custodia di libri, ma un centro, aperto a tutti, un luogo di studi e un laboratorio di ricerca.[24] E’ con questo spirito federiciano che nasce la Biblioteca Ambrosiana, aperta al pubblico il 7 dicembre 1609, festa di Sant’Ambrogio, con una cerimonia solenne, dotata di libri a stampa e manoscritti acquistati con le proprie rendite e le proprie energie, poiché il Cardinale ne fece uno degli impegni fondamentali della sua attività di uomo e di ecclesiastico.[25] E’ noto che queste raccolte continuarono ad ampliarsi anche dopo la sua morte e che anche attualmente fanno della Biblioteca Ambrosiana, uno dei più importanti centri mondiali della cultura umanistica.

Secondo la “Costitutiones Collegii ac Bibliothecae Ambrosianae” questa istituzione doveva essere uno strumento per risollevare la cultura, dopo la decadenza delle Università e delle Accademie di tipo tradizionale, ma anche e soprattutto una cultura alla portata di tutti e per tutti. Federico creò anche un Collegio trilingue per diffondere tra i giovani la conoscenza delle lingue antiche ed anche della lingua italiana.[26]

Alcuni anni più tardi, il 28 aprile 1618, alla Biblioteca Federico affiancò la Pinacoteca, donando ad essa la sua “quadreria” e la sua vasta raccolta d’arte figurativa, che andarono a costituire il nucleo più significativo della Pinacoteca: i dipinti e i disegni prediletti di Federico erano quelli attribuiti ai maestri del Cinquecento, ai leonardeschi lombardi e ai contemporanei italiani e fiamminghi. Il Cardinale completava in tal modo il grandioso progetto iniziato nel 1607 con la creazione della Biblioteca Ambrosiana, ovviamente in conformità del Concilio tridentino e con le nuove esigenze dell’arte sacra. Il Guenzati, biografo di Federico Borromeo, ci informa ampiamente e dettagliatamente, anche se in modo piuttosto enfatico, su tutto questo: <<Non s’appagò l’animo grande del Cardinale Federigo d’aver rimesse col Collegio Ambrosiano le lettere più fiorite e d’aver aperta nella Libraria una pubblica scuola di tutte le scienze al mondo, anzi che l’amore della pubblica felicità e della gloria della patria architettò nella di lui vastissima mente nuovi disegni a far rifiorire nella Lombardia tutte le arti liberali per eguagliare anche in questo la città di Milano all’antica Atene e a Roma moderna. […] Propose dunque di dar lustro ai tempij con darlo pria a queste arti nobilissime (Pittura, ed Scultura ed Architettura) e con aprir loro il vero campo acciocché al riflesso di perfettissimi originali riacquistassero l’offuscato splendore, e aguzzatisi li pennelli e scarpelli, ravvivassero su le tele, ne’ marmi e su le carte lo spirito del gran maestro Leonardo da Vinci. […] Che però nell’anno 1622 congregati nel Palazzo Arcivescovile tutti li più celebri pittori, scultori e architetti milanesi alla presenza d’Alessandro Mazenta Arcidiacono, di Giulio Cesare Visconte Primicerio e d’Antonio Olgiato Bibliotecario istituì il Cardinale la triplice Accademia. Ma perché la sola natura non poteva essere perfetta maestra dell’arte, procacciò dall’arte medesima nuovi ammaestramenti il Cardinale col rintracciarne a gran prezzo modelli di statue lavorate da scarpelli ingegnosi e originali perfettissimi de’ più rinomati Apelli acciocché, coll’imitazione di essi, arrivassero al sommo della perfezione. […] Così si formò il bel teatro in cui i capi della repubblica pittoresca abbero il loro nicchio, come il Tiziano, il Giorgione, Leonardo da Vinci, il Sordo, Andrea del Sarto, Alberto Durero, il Luino, Raffaelle d’Urbino e della scuola, il Caietano, l’un e l’altro Bassano, Paris Bordone, lo Schiavone, il Correggio, l’Uglone, Guido Reni, Giulio Romano, il Palma, il Barocci, Calisto da Lodi, il Mantegna, il Tempesta, il Rubens, e Fede Galizia, il Vanstunmich, il Rathnamer, Giulio Campi, il Perugino, il Civoli, il Caraccio, il Cerano, il Morazzone, il Figino, il Bramantino, Luca d’Olanda, Pietro da Cortona.

Mosse pure con stimoli d’oro il pennello mirabile di Bruguel sino a pagarsi le gemme dipinte al prezzo delle vere, onde fe’ que’ sforzi dell’arte cui ora anche di perfettamente copiare diffidano li pittori. Pregiasi perciò la Galeria Ambrosiana di racchiudere in ventisette pezzetti di quadri di questo gran pittore un impareggiabile tesoro mentre il mondo tutto appena ne vanta tant’altri della stessa mano, oltre che per li soli quattro elementi che sono li veri originali, come attestano le lettere. […] Volle ancora che tutti gli altri pittori di que’ tempi tributassero li più preziosi sudori a questa Galeria, come Paolo Brillo ne’ paesi e altri imitatori dello suaccennato Bruguel, il Marchesino e il Dezio nelle miniature, il Caravaggio nella frutta e tant’altri in perfettissimi ritratti. Raccolse ancora fasci di disegni originali de’ primi pittori e carte storiate, con sottilissime impressioni da primi inventori fiamminghi acciocché fosse tanto provvista la pittura de’ suoi esemplari, quanto la sapienza de’ suoi volumi>>.[27]

La produzione letteraria di Federico Borromeo, oltre alle opere pastorali e spirituali, è imponente e si trova tutta presso la Biblioteca Ambrosiana, è molto eterogenea per genere, stile e lingua, ma certamente molto importante poiché permette di delineare un vasto e dettagliato quadro della cultura post-tridentina italiana. Tra le opere da lui scritte, alcune ci mostrano un universo in cui si svolgono fenomeni soprannaturali, attraverso le presenze angeliche, le unioni mistiche e gli inganni dei demoni: una cosmogonia animata dal soprannaturale in contrasto con la visione aristotelico-razionalista, che portò Federico a prendere posizioni nei casi di stregoneria e di monache visionarie, visione ben diversa da quella del suo vecchio padre spirituale San Filippo Neri, il quale era molto diffidente su tali argomenti.[28] Molto importanti ai fini di questo lavoro sono il “De Pictura sacra” e il “Musaeum” pubblicati rispettivamente nel 1624 e nel 1625, ossia dopo alcuni anni dalla donazione della sua collezione personale alla Pinacoteca Ambrosiana (1618), in cui troviamo i commenti di Federico sul ruolo dell’arte nelle pratiche devozionali, egli attribuiva all’arte sacra tre compiti diversi: devozionale, didattico e documentario. <<Per esempio, spiegava l’autore, le immagini sacre avrebbero potuto essere utilizzate , come all’inizio del cristianesimo, per suscitare in chi le guardava il rimorso per i peccati commessi; poi per insegnare i sacri misteri alla parte incolta della popolazione; infine, per tramandare con rispetto della verità storica l’aspetto dei santi riproducendo, mentre erano ancora vivi, la loro fisionomia, il loro modo di vestire e altri particolari interessanti; anche questo, secondo il Borromeo, per rafforzare l’autorità della fede>>.[29]

Nell’introduzione dell’opera “De Pictura Sacra”, troviamo un preambolo di Federico alle “Leges Observandae in Academia”: <<Nell’istituire la Scuola o Accademia di pittura, scultura e architettura non ci mosse alcun motivo umano, ma fu intenzione dell’animo nostro di preparare gli artisti ai lavori del divin culto e di rendere alquanto migliori in questo campo quelle arti. E’ infatti abbastanza noto che molti pittori, scultori e architetti, poiché non hanno fatto strada o nei precetti o nella pietà che dovrebbero apportare nella produzione di tali opere sacre, spesso mancano gravemente e dipingono i divini misteri e i fatti umani, o progettano i templi sacri e le abitazioni degli uomini senz’alcuna distinzione del sacro e del profano, ed hanno più riguardo alle comuni regole dell’arte che alla pietà e alla santità dei luoghi, dei tempi e delle cose stesse. Per la qual cosa noi vogliamo che sia regola della nostra Accademia che, oltre all’arte della pittura e della scultura, vi sia qualche docente che insegni i doveri delle virtù cristiane e che, all’udire di frequente simili ragionamenti, gli artisti siano formati anche alla pietà e religione. Converrà che essi conoscano bene i misteri della nostra sacrosanta Fede, la cui conoscenza invero contribuisce non poco alla perfezione delle arti. Poiché, come sarebbe assurdo pubblicare libri infarciti di errori e che tendessero a corrompere i costumi, e converrebbe anzi distruggere libri di tal genere; così nella composizione di immagini e di edifici bisogna badare che nulla rimanga di cui gli animi dei mortali siano indotti al male e all’errore>>.[30]

Lo scopo dell’opera è quello esposto dal Cardinale: attenersi a quanto indicato dal Concilio tridentino, secondo cui i Vescovi dovevano insegnare la religiosità non solo con le parole, ma anche con la pittura, insomma l’arte al servizio della fede. Per Federico, quindi, l’arte cristiana riformata era un grosso contributo al rinnovamento della Chiesa di Roma e rappresentava anche uno strumento per la salvezza delle anime. Se la Creazione era opera di Dio per l’umanità, si rendeva necessaria una grande varietà di dipinti d’ispirazione religiosa, che esprimessero la realtà metafisica, quindi non solo i soggetti tradizionali dell’arte sacra, ma anche i paesaggi, le nature morte. L’arte, secondo il Borromeo, per essere incisiva doveva possedere la caratteristica della naturalezza, quindi per essere naturale un’opera doveva esprimere la realtà e il significato metafisico del soggetto raffigurato, ossia doveva essere una rappresentazione non sublimata, perché ciò era tollerabile o addirittura gradito solo nelle immagini della divinità. L’arte doveva descrivere effigiare solamente la verità cristiana, e Federico, nel “De Pictura Sacra”, si occupò anche del contenuto delle opere e dell’ortodossia iconografica, riconoscendo che la licenza artistica era tollerabile, purché non mettesse a repentaglio la veridicità, ma arricchisse la naturalezza e l’effetto emotivo.[31]

Il “Musaem”, stampato nel 1625, un anno dopo il “De Pictura Sacra”, non ebbe grande successo né alla sua pubblicazione né in seguito, forse anche a causa della sua limitatissima tiratura, anche se è di grande interesse per capire i gusti e le capacità critiche di Federico, non solo ma rappresenta la prima descrizione delle opere dell’Ambrosiana dal suo stesso fondatore. All’inizio del testo, Federico spiega le ragioni che l’hanno portato a scrivere quest’opera: <<Qualche tempo fa mi trovavo ad ammirare alcuni quadri, modelli e statue che avevo fatto sistemare qualche tempo prima in un’ala della Biblioteca Ambrosiana fatta erigere a questo specifico scopo, quando mi si avvicinarono due persone del mio seguito appassionate d’arte; i due, con una sorta di sospiro, mi fanno: “Non sarebbe un bel lavoro, un lavoro di gran gusto, descrivere con cura in un testo tutte queste testimonianze di arte straordinaria che vediamo raccolte in questa sede?”>>.[32] Lo scopo didattico dell’opera è indiscutibile: è ideata ad utilità degli allievi dell’Accademia, in un passo del testo, parlando di alcune riproduzioni fatte eseguire da Antonio Mariani, copiandole da originali di Raffaello troviamo: <<Se gli allievi vorranno imitarli con cura, sarà esattamente come se avessero davanti agli occhi le opere dello stesso Raffaello. Se però nello studio e specificatamente in questa imitazione saranno troppo pigri, attribuiscano a sé stessi tale colpa>>.[33] Oltre lo scopo didattico sentiamo anche un grande senso di soddisfazione che il Presule ha verso se stesso per essere riuscito a mettere insieme una tale collezione, anche se, non di rado, ad altissimo prezzo, ma già nel “De Pictura Sacra” scrive dell’enorme quantità di opere antiche andate perdute e si compiace con Plinio (Naturalis Historia) per aver tramandato la loro esistenza, infatti l’influenza pliniana è fondamentale in Borromeo, il quale elogia la pratica ecfrastica poiché: <<Eppure, in ogni caso, questa rovina è risarcita dall’impegno degli scrittori e una così penosa perdita è sanata dalla penna, di modo che straordinari capolavori periti tanto tempo fa sono ancora vivi sotto i nostri occhi e non si possono ritenere ancora scomparsi. Questo dimostra l’abilità con cui sono riusciti gli scrittori a restituire uno per uno i contorni e i tratti, dando vita a un’entusiasmante gara tra la penna e il pennello e lo scalpello, con risultati tanto fortunati da lasciare il dubbio a quale dei due contendenti debba essere aggiudicata la vittoria>>.[34] Federico, quindi, non ha incertezze ad acquistare copie di capolavori, ma sostiene energicamente l’esecuzione di repliche, ovviamente quando gli originali si trovano in condizioni conservative rovinate da far pensare ad un incipiente disfacimento, tutto questo, secondo Borromeo, è una specie di dovere morale verso i posteri. Come già aveva scritto nel “De Pictura Sacra”, ribadisce il criterio tridentino del rispetto della verità storica e i divieti che rivolge agli artisti sono soprattutto in funzione della difesa delle immagini sacre dalle critiche di idolatria e falsità protestanti.[35]

<<Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare, fino a un certo segno, quali siano stati veramente, sarebbe cosa di molta fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano, devess’essere colui che volle una tal cosa, la volle in quella maniera,e l’eseguì, in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia generale per ogni applicazione studiosa…>>.[36] Con queste parole Alessandro Manzoni cerca di illustrare la funzione istituzionale dell’Ambrosiana nell’ambito socio-culturale milanese, evidenziando la grandezza della beneficenza verso i cittadini e a favore della cultura pubblica, come del resto lo fu anche la fondazione dell’Accademia del Disegno nel 1620, ossia l’Accademia di pittura, scultura e architettura, nella quale convocò i migliori artisti milanesi presieduti da Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, e dai maestri Giovan Andrea Biffi (scultura), Carlo Buzzi e Fabio Mangone (architettura). Questa istituzione fu concepita da Federico non tanto in funzione della Pinacoteca, quanto come scuola per i giovani artisti: <<Per nessun altra ragione fu fondata la presente Accademia di Pittura, Scultura e Architettura, se non per aiutare gli artisti a realizzare opere per il culto divino, migliori di quelle che si fanno attualmente>>.[37]

Nel 1613 il Cardinale, tramite Ludovico Carracci e Galeazzo Paleotti, nipote dell’Arcivescovo di Bologna, chiede e riceve le regole dell’Accademia di questa città, il suo intento era quello di fondare un’Accademia che fosse scuola di pittura, scultura e architettura, ma anche una scuola che  sostenesse le riforme circa l’applicazione dell’arte alle espressioni del culto divino imposte dai decreti del Concili tridentino. Per edificare tale istituzione, che doveva essere annessa all’edificio della Biblioteca Ambrosiana, ma indipendente come Istituto, occorreva spazio, quindi Federico offrì alle Scuole fondate da Stefano Taverna una sua casa molto ampia ubicata in via Santa Maria Fulcorina, in cambio delle loro aule e delle abitazioni degli insegnanti, che fece abbattere per costruire due grandi saloni sotto la direzione dell’architetto Fabio Mangone. I lavori, cominciati nel 1611 furono terminati nel 1620, anno in cui il Presule aveva già fatto stampare le regole per la nuova Accademia: “Leges observandae in Academia quae de graphide erit”, l’apertura ufficiale fu con l’atto notarile completato e redatto il 25 giugno 1621 nel Palazzo Arcivescovile di Milano, alla presenza del Cardinale, del Rev. S.V.D.D. Alessandro Mazenta, Arcidiacono della Metropolitana, e del M.R.G.B. Riboldo, Rettore del Seminario di Milano.[38] All’inizio l’Accademia fu molto fiorente, poi l’epidemia della peste influì molto sullo sviluppo dell’istituzione, dopo la morte del Borromeo (1631) decadde e rimase chiusa per circa quarant’anni, riaperta nel 1699, cessò di esistere nel 1776, dopo un secolo di vita debole e fittizia: venne sostituita dall’Accademia di Belle Arti fondata dal Governo austriaco nel nel Palazzo di Brera, lasciato da poco dai Gesuiti.[39]

Una delle regole dell’Accademia affermava il diritto di ogni allievo di poter esaminare e copiare direttamente le opere conservate in Ambrosiana, ciò fa capire quanto fosse importante per il Cardinale lo studio e l’imitazione di opere famose. La natura prettamente religiosa dell’Accademia si rispecchiava anche nel programma didattico: il Prefetto doveva assistere a tutte le lezioni e alle esercitazioni degli studenti presenziava con un altro funzionario dell’Istituzione. Era proibito agli insegnanti laici di criticare con commenti personali le tesi esposte durante le lezioni, probabilmente potevano esprimere le loro critiche in sede privata. Le lezioni dovevano essere chiare e semplici, senza sfoggio di retorica, per facilitare l’apprendimento degli studenti; gli insegnanti dovevano evidenziare l’importanza della pittura di storie religiose, il rispetto della verità storica, la dignità, infine insegnare a realizzare immagini sia sacre che profane in modo onesto.[40]

Federico Borromeo, verso il 1630, scriveva negli “Additamenta alle Constitutiones Collegii ac Bibliothecae Ambrosianae”: <<La città di Milano ha sempre avuto due cose: la prima è stata l’opulentia, cagionata dalla grassezza del suo paese. La seconda è stata una certa magnanimità et liberalità, in abbracciare et fondare luoghi et istituti, così sacri come profani, per la pubblica utilità. Però io mi persuado che facilmente seguirò quello che ora dirò: è che avendo retto e fondato il Collegio Ambrosiano et dedicato la Libraria alla pubblica utilità et al servitio di Dio con gran spesa, non ho tuttavia potuto operare tanto nell’una e nell’altra cosa per la conditione dei tempi, che i redditi della Libraria et Collegio non siano rimasti alquanto deboli. Perciò esortiamo e preghiamo così i Dottori, come i Conservatori, che vogliono, con alcune genti pie et amatrici di lettere, persuaderli che, non avendo figli o parenti strettamente seco congiunti, a tener memoria dei loro testamenti di questa opera la cui utilità sarà perpetua et gloria di Dio grandissima et cosa tanto cara  alle esterne nazioni, non solo a Italia>>.[41]

La prolusione pronunciata recentemente dal Professor Alessandro Zuccari in occasione del Dies Academicus del 21-23 novembre 2018, il cui tema era “1618-2018 La donazione della raccolta d’arte di Federico Borromeo all’Ambrosiana: confronti e prospettive”, ci danno un sintetico, ma efficiente “ritratto” della personalità del Cardinale: <<Federico Borromeo, durante la sua feconda attività pastorale e culturale, ebbe sempre come riferimento soprattutto tre città. Oltre alla sua Milano, trascorse molto tempo della sua giovinezza a Roma, “gran teatro del mondo”, dove ebbe una formazione spirituale e intellettuale tra l’Oratorio di san Filippo Neri e la Curia pontificia. Dove frequentò ed ebbe per amici, nonostante il suo carattere schivo, i migliori ingegni del tempo: fu molto amico di Cesare Baronio, il quale influì molto nella sua formazione.

Le esperienze, le relazioni, gli studi e le riflessioni artistiche, di cui aveva fatto tesoro durante il soggiorno a Roma, furono molto importanti per le scelte da lui operate come Arcivescovo di Milano: molte di quelle esperienze furono determinanti nella creazione della sua collezione d’arte, nella fondazione dell’Accademia Ambrosiana, i cui progetti erano già stati concepiti proprio nel periodo romano e soprattutto nella sua idea di riforma tridentina delle arti. Federico Borromeo aveva, contemporaneamente, come ideale la città di Gerusalemme, vista come modello della vita cristiana e come rappresentazione della città celeste, che possiamo vedere nel suo amore ed interesse per l’archeologia cristiana e nell’interesse per alcuni temi figurativi, come i paesaggi degli amici Brill e Brueghel e le nature morte, ne è un esempio la canestra del Caravaggio, non è certo un caso che quest’opera si trovi all’Ambrosiana, perché Federico Borromeo amava molto la natura morta e di questo ne è testimonianza anche il vaso di fiori di Brueghel che possiamo vedere in questa Pinacoteca>>.[42]

Il grande amore di Federico per l’arte, che fece di lui un raffinatissimo collezionista, si può capire attraverso queste sue parole: <<Ho fatto decorare la mia stanza con quadri, badando che fossero della migliore qualità; non ve n’è uno che sia volgare, o dozzinale. E il piacere che provo contemplando queste vedute dipinte mi è sempre parso non minore di quello [che danno] gli spazi aperti [della natura]… Al loro posto, quando non sono alla nostra portata, i quadri racchiudono in piccole superfici lo spazio della terra e del cielo, e possiamo vagabondare, e compiere lunghi viaggi [con la mente] restando seduti nella nostra stanza…>>.[43]

Federico Borromeo muore il 21 settembre 1631 all’età di sessantasette anni, dopo essere stato Arcivescovo di Milano per trentasei anni e viene sepolto nella Cattedrale davanti all’altare della Madonna dell’Albero, la lapide reca queste semplici parole:<< FEDERICVS BORROMEVS CARD ET ARCHIEP MEDIOLANI SVB PRAESIDIO ALTISSIMAE VIRGINIS HIC QVIESCIT DECESSIT ANNO M DCXXXI XI CAL. OCTOBRIS>>. L’orazione funebre fu pronunciata da Paolo Arese, teologo, filosofo, molto noto come oratore e predicatore e dal 1620 Vescovo di Tortona, con nomina di papa Paolo V.[44]

SALA 1

Entrando nella Sala 1, troviamo, l’inizio del percorso espositivo, due ritratti di artisti anonimi di Federico Borromeo, entrambe le opere risalgono alla prima metà del XVII secolo.

Scheda n. 1

Pittore lombardo

Prima metà del XVII secolo

RITRATTO DEL CARDINALE FEDERICO BORROMEO

Inv. 552 (Sala 1)

Olio su tela ovale; 105 x 78 cm.

 

Scheda n. 2

Anonimo

RITRATTO DEL CARDINALE FEDERICO BORROMEO

Inv. 1925 (Sala1)

Olio su tela, 60×50 cm.

Donazione Margherita Beer

Sia nel dipinto di forma ovale che nell’altro, il Presule è rappresentato in età matura e in veste cardinalizia, nel primo ha la mano alzata in gesto benedicente. In questi due non mirabili ritratti emerge il profilo umano del Cardinale, insito nello sguardo penetrante, ma soprattutto rivelano l’umiltà di Federico nella rinuncia di avvalersi di insigni pittori per commissionare un suo ritratto. Gli sfondi sono molto scuri, conformi all’estetica controriformistica.

 

Scheda n. 3

Pittore lombardo (?)

TESTA DI SAN GIOVANNI BATTISTA

Inv. 85 (Sala 1)

Tempera e olio su tavola; 42 x 35 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo

Datazione: primo decennio del secolo XVI

Il dipinto fu attribuito, in passato, ad Antonio Solario, detto lo Zingaro, originario di Solario ed operante alla fine del secolo XV e nei primi anni del successivo, le sue opere risentirono della pittura lombarda di matrice bramantesca, la tempera fu datata 1508. In seguito gli esperti hanno attribuito l’opera ad un pittore lombardo sconosciuto. Iconograficamente il soggetto pittorico era molto frequente in Lombardia.

Il Vangelo di Marco ci narra che Giovanni Battista fu fatto arrestare da Erode, accusato di un amore incestuoso e adultero dal predicatore: sia l’incesto che l’adulterio erano contrari alla Legge di Mosè. Ma, temendo molto il Battista, Erode rifiuta la richiesta della moglie Erodiade che lo voleva far giustiziare, quindi, la donna convinse la figlia Salomè, di cui Erode era innamorato, a ballare per il patrigno la famosa “danza dei sette veli” e a chiedergli come ricompensa la testa di Giovanni Battista su un piatto. La figura di Salomè appare in tutte le iconografie medievali, perché lei rappresenta lo strumento del martirio e quindi della santità di Giovanni. Anche in seguito questa storia diverrà per secoli un mito affrontato in ogni campo, oltre che nella pittura, da molti artisti: Oscar Wilde nel teatro, Richard Strauss nella musica etc. Il dipinto non appare nel primo Codicillo testamentario di Federico del 15 settembre 1607, mentre in quello del primo aprile 1611 troviamo: <<Una Testa de San Giovanni Battista in tavola di legno di lunghezza di due palmi, e mezzo>>.[45] Una spiegazione di poco più dettagliata la troviamo nell’Atto di donazione: <<Una testa di Gio. Batt. in un piatto, di mano d’un Antico Pittore, alta nove once, larga sette senza cornici>>.[46] Ciò fa pensare che il Borromeo sia venuto in possesso di tale opera nell’arco di tempo che intercorre tra le due date. Molte le ipotesi di attribuzione, ma nessuna certa. Interessante notare come il volto ed i capelli siano avvolti nella semioscurità, lo squarcio del collo reso con una striscia purpurea. Da evidenziare anche il bacile su cui poggia la testa, rappresentato con perizia ed attenzione alla resa di lavoro e di materia, bellissimo il rialzo di luce sull’orlo.

 

Scheda n. 4

Girolamo Marchesi da Cotignola

RISURREZIONE DI CRISTO

Inv. 854 (Sala1)

Tempera e olio su tavola; 64 x 51,5 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo

Girolamo Marchesi nacque a Cotignola (Romagna) da Antonio, in data sconosciuta, forse nel 1480 circa. Della sua formazione artistica non abbiamo notizie certe, ma gli esperti sono concordi che sia avvenuta presso la bottega di Francesco e Bernardino Zaganelli sempre a Cotignola, in seguito allo scioglimento della bottega, Girolamo forse seguì Bernardino a Ravenna, con il quale collaborò a importanti lavori. Tra i maggiori committenti dell’artista troviamo la famiglia Sforza, la quale gli affidò anche la decorazione della sala dei Putti della rocca di Gradara. Il 3 dicembre 1513 Girolamo si trova a Rimini dove firma un contratto di commissione per la decorazione della cappella maggiore di Santa Colomba (cattedrale distrutta dal terremoto del 1672), ma gli affreschi non furono graditi dai committenti che fecero causa al pittore e con un lodo arbitrale del 27 febbraio 1516 tale causa si concluse a sfavore del Marchesi, il quale ricevette una cifra minore di quella pattuita. Nello stile di Gerolamo si nota una svolta raffaellesca a partire dal 1522 circa, quando dipinge lo “Sposalizio della Vergine” per l’altare maggiore di San Giuseppe fuori Porta Saragozza a Bologna, che attualmente si trova nella Pinacoteca Nazionale di questa città. Dopo un breve soggiorno a Roma e a Napoli, il 15 ottobre 1525, l’artista si trova nuovamente a Bologna, dove riscute compensi dai frati Olivetani per le sue prestazioni, a questo periodo appartengono opere i cui esiti rappresentano il culmine della maturazione di sperimentalismo manieristico conseguito dal Marchesi. Gli ultimi riferimenti circa l’attività dell’artista risalgono agli anni successivi al 1530, con gli ultimi versamenti degli Olivetani di Bologna. Sembra sia morto a Roma all’età di sessantanove anni.[47]

Il dipinto fa parte della donazione del Cardinale Federico ed è così descritta nell’Atto di donazione del 1618: <<Una Resurrtezione di N. S. con diversi atti dei Giudei, d’Autore Antico, alta un braccio, e larga dieci once, senza cornice>>.[48] I soldati, raffigurati con abiti romani anziché ebraici, hanno atteggiamenti diversi che denotano le loro emozioni di fronte ad un evento straordinario come la Resurrezione di Cristo, il quale appare in tutta la sua maestà, con lo stendardo bianco con la croce rossa, caratteristica quattrocentesca, simbolo del trionfo sul peccato e sulla morte.

 

 

SALA 2

 Passando nella Sala 2 troviamo una tempera su tela, della fine del secolo XV rappresentante San Bernardino, San Bonaventura e San Cristoforo, l’autore, sconosciuto, sembra sia un pittore veneto attivo a Verona tra il XV e il XVI secolo, molte sono state le supposizioni degli studiosi sul nome del pittore, tuttavia non hanno dato risultati certi, da alcuni è stato identificato come “Maestro della Libreria Sagramoso”.

 

Scheda n. 5

Pittore veneto

Fine XV secolo

SAN BERNARDINO, SAN BONAVENTURA E SAN CRISTOFORO

Inv. 1166 (Sala 2)

Tempera su tela, 146,5×96,5 cm.

Donazione: Attilio Brivio, 1959

Nell’opera, rappresentante i tre santi, sono evidenziati i loro elementi distintivi: a sinistra troviamo San Bernardino, con vesti francescane, il quale tiene in una mano un libro aperto su cui si può leggere un famoso passo latino tratto dalla “Lettera di San Paolo Apostolo ai Colossesi”: <<Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio, pensate alle cose di lassù non a quelle della terra>>. Con l’altra mano benedice. Sopra la testa del Santo il suo emblema: YHS, il nome di Gesù abbreviato inserito in un sole raggiante, che faceva incidere su tavolette di legno, che dava a baciare al pubblico al termine delle prediche; fu accusato di idolatria e di eresia specialmente per quanto riguarda la devozione al Nome di Gesù espresso nel famoso trigramma.

Al centro vediamo San Bonaventura in abiti pontificali, con in una mano un libro, metafora della sua attività di teologo presso l’Università di Parigi, nell’altra tiene il “Lignum Vitae”, opera meditativa del Santo, interpretata iconograficamente in un albero con dodici rami simboleggianti la meditazione di Bonaventura sulla vita,passione e glorificazione di Cristo; sull’albero è fissato il Crocifisso, simbolo della trasformazione del “lignum” in sorgente di vita.

Sulla destra è raffigurato San Cristoforo (in greco Cristoforo significa: colui che porta Cristo), che la tradizione vuole avesse trasportato Gesù sulle sue spalle, traghettandolo da una riva all’altra di un fiume, senza sapere chi fosse in realtà, molto venerato durante il Medioevo, divenne il protettore dei pellegrini. I Santo è rappresentato con la sua iconografia tradizionale: i piedi dentro un corso d’acqua, in mano un vistoso bastone da pellegrino e sulle spalle Gesù fanciullo, che nella sua mano, in quanto figlio di Dio, regge il mondo. L’opera fu donata alla Pinacoteca Ambrosiana da Attilio Brivio nel 1959. Il formato e il supporto dell’opera farebbero pensare all’anta destra di un organo, la posizione di primo piano dei santi Bernardino e Bonaventura fanno supporre una probabile provenienza dall’ambito francescano.[49]

 

Scheda n. 6

Pittore lombardo

Attivo nel 1490-1495 circa

MADONNA CON IL BAMBINO E DEVOTI SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA E SAN GIOVANNI BATTISTA SAN PIETRO E SAN FILIPPO BENIZZI

Inv. 18 (Sala 2)

Tempera su tavola, 147×66 cm.; 115×42 cm.

Donazione: Massimiliano Mainoni d’Intignano, 1884

Un trittico rappresentante una Madonna con il Bambino e devoti Santa Caterina d’Alessandria a San Giovanni Battista, San Pietro e San Filippo Benizzi, è una tempera su tavola, la cui parte centrale misura 147×66 cm., le tavole ai lati 115×42 cm. e in origine costituivano un singolo trittico. Nella tavola centrale è raffigurata la Vergine in trono con il Bambino in braccio, il cui gesto protettivo della mano destra ricorda la celeberrima “Vergine delle Rocce” di Leonardo, ai suoi piedi due figure oranti: un uomo con un berretto in mano e una donna (i donatori?), la figura femminile inginocchiata ha un abito monacale identificabile in quello del del Terz’Ordine o delle monache dei Servi di Maria, mentre il soggetto maschile alla destra della Madonna sembra indossare abiti laici. Nella tavola di sinistra possiamo vedere Santa Caterina d’Alessandria, martire vissuta a cavallo tra il III e IV secolo, con il capo cinto da una corona per indicare le sue nobili origini, al suo fianco è raffigurato San Giovanni, con in mano la croce, simbolo del suo ruolo di precursore che anticipa la venuta e la morte di Cristo. Sulla tavola di destra è raffigurato San Pietro apostolo, con le chiavi in mano e, in abito da servita, Filippo Benizzi, vissuto nel III secolo, con il suoi attributi iconografici in mano: il giglio e il libro.[50]

 

Scheda n. 7

Pittore toscano

Seconda metà del XV secolo

COMPIANTO SU CRISTO

Inv. 825 (Sala 2)

Tempera su tavola, 133×120 cm.

Donazione: Attilio Brivio, 1959

La tavola è una tempera su tavola della seconda metà del XV secolo, eseguita da un pittore toscano attivo in Firenze negli ultimi anni del Quattrocento e probabile seguace di Botticelli. Il dipinto, intitolato “Compianto su Cristo”, ha tutte le caratteristiche della classica “Pietà”: la Madonna addolorata sorregge Cristo morto come fosse un bambino, sulla sinistra è raffigurato un giovane San Giovanni, che sorregge la testa di Gesù, mentre dalla parte opposta Maria Maddalena, con i lunghi capelli sciolti sulle spalle, è rappresentata nell’atto di baciare i piedi di Cristo. Alle spalle della Vergine sono raffigurati Nicodemo, una delle pie donne e Giuseppe d’Arimatea: il primo tiene in mano il martello e la tenaglia e il secondo i chiodi, infatti, secondo il Vangelo di Giovanni, levarono Gesù dalla croce e lo deposero nel sepolcro. Mentre la donna, che, secondo il racconto evangelico, insieme ad altre aveva assistito alla morte di Gesù, potrebbe essere Maria, madre di Giacomo o Maria Salome. Sullo sfondo possiamo vedere una città cinta di mura presso un fiume, con torri rotonde, una delle quali è sovrastata da un camino fumante e nell’angolo superiore destro, in un’anacronistica spelonca, è raffigurato San Girolamo orante davanti al Crocifisso e ai suoi piedi il cappello da cardinale, uno dei suoi emblemi iconografici. Si tratta di una “Pietà” non di un “Lamento”, perché mostra la Madonna Addolorata che tiene in grembo Cristo morto come se fosse un bambino.[51]

 

Scheda n. 8

Giovanni di Francesco

Firenze? Arezzo? 1412/28 circa – post 1458/59

SANT’ANTONIO ABATE

Inv. 345 (Sala 2)

Tempera su tavola; 117 x 40 cm.

Donazione Attilio Brivio, 1959

Datazione: 1455 – 1459

Le notizie biografiche su questo pittore sono molto nebulose, anche perché alla metà del XV secolo operavano a Firenze diversi artisti chiamati Giovanni di Francesco. Lo storico d’Arte Gaetano Milanesi identifica Giovanni da Rovezzano, citato da Vasari (1568) come allievo e seguace di Andrea del Castagno, con Giovanni di Francesco del Cervelliera, miniatore, morto nel 1459 e nel commentario alla vita del Vasari, dedicata a Filippo Lippi, affermava che Giovanni di Francesco da Rovezzano fu lo stesso pittore allievo di Lippi, con il quale ebbe una grave controversia di natura finanziaria nel 1450. Più tardi (1962), Mirella Levi D’Ancona sostiene che il pittore e il miniatore sono due persone diverse: Giovanni da Rovezzano nacque, secondo la studiosa, a Verrazzano nell’Aretino, nel 1412, poiché in un documento dichiarava di avere ventitré anni nel 1435 e risulta registrato tra i medici e gli speziali nel 1428; mentre Giovanni di Francesco del Cervelliera, attivo nella stessa chiesa in Santa Maria degli Angeli e negli stessi anni di Giovanni di Francesco, risulta iscritto all’arte nel 1442. Secondo Luciano Bellosi (1990) Giovanni di Francesco nacque nel 1428 circa e nel 1451 prestava la sua opera presso la suddetta chiesa, dove anche il padre aveva lavorato. Sembra sia morto nel 1458 circa e le sue spoglie tumulate nella chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze.[52] Altri esperti dissentono dai dati sopra esposti. Tra le numerose e celebri opere (Trittico Carrand, Museo del Bargello, Firenze; Adorazione dei Magi, Museo Montpellier; le predelle del Louvre e di Casa Buonarroti etc.) di Giovanni di Francesco si annovera anche il Sant’Antonio Abate della Pinacoteca Ambrosiana, che originariamente faceva parte di un trittico ricostruito da Roberto Longhi nel 1928, formato dalla tavola centrale dalla “Madonna Contini Bonacossi” e da quelle laterali con il Sant’Antonio dell’Ambrosiana e San Giacomo (Lione, Musée des beaux-arts). Il trittico fu definito dal Longhi “il risultato più alto e più maturo” della carriera del pittore, per la sua capacità di aver saputo sintetizzare la solennità propria dello stile di Piero della Francesca con il vigore di Andrea del Castagno. La figura del santo richiama gli sviluppi pittorici nord italiani e caratteri affini a Donatello (si veda il San Marco donatelliano in Orsanmichele).[53]

Nello scomparto laterale del trittico, Sant’Antonio Abate si staglia monumentale sul fondo oro, davanti ad una bassa balaustra marmorea; La rotazione leggera del busto origina un delicato movimento rotatorio attorno all’asse rappresentato dal bastone del santo a forma di T (tau), che simboleggia la vita eremitica. La luce colpisce la figura ieratica del padre del monachesimo cristiano da sinistra, trattenendosi sulla tunica di velluto nera, che appare riflessa di blu e grigio e proietta le ombre sul pavimento marmoreo, dove la posizione dei piedi del santo accentuano il movimento del corpo. I tratti del volto e l’arricciarsi della barba e dei capelli sono resi con fitte e piccole pennellate. La “pittura di luce”, nata verso la metà del Quattrocento a Firenze e in seguito portata al successo da Piero della Francesca, fu appresa dall’artista da Domenico Veneziano, approda in questa tempera ad una resa quasi metallica, con assoluta nitidezza plastica e cromatica, sfruttando gli effetti di luce e l’evocazione del colore.

 

 

SALA 3

 Scheda n. 9

Pseudo-Francesco Napoletano

Attivo a Milano tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo ?

MADONNA CHE ALLATTA IL BAMBINO

Inv. 1000 (Sala 3)

Tempera e olio su tavola, 81×61 cm.

Passando nella Sala 3 troviamo un soggetto molto frequente nell’esposizione della Pinacoteca: una “Madonna che allatta il Bambino”, si tratta di un dipinto a tempera e olio su tavola, attribuito in passato ad un pittore sconosciuto facente parte dell’ambito di Bernardino de’ Conti, ritrattista molto ricercato nel primo decennio del secolo XVI, in seguito la critica  lo ha attribuito allo Pseudo-Francesco Napoletano, di cui non abbiamo notizie certe, fu presumibilmente attivo a Milano tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. L’opera è molto interessante perché presenta la coesistenza di componenti leonardesche come la rupe alla destra della Vergine, derivata dalla “Vergine delle Rocce” di Leonardo, con le caratteristiche della pittura lombarda (Bergognone, Zenale) e l’influsso del Bramantino (panneggio della Madonna).

 

SALA 4

 Scheda n. 10

Pittore fiammingo

Seconda metà del XVI secolo

RITRATTO DI FRATE

Inv. 440 (Sala 4)

Olio su tavola, 29,5×19 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Mentre il visitatore sta ammirando le grandi opere presenti nella sala 4, ad un certo punto si sente osservato e scrutato da uno sguardo vigoroso e irresistibile: è quello di un dipinto catalogato come “Ritratto di frate”, che fa parte delle opere donate da Federico Borromeo e da lui descritto nell’Atto di donazione come <<Un Ritratto che rappresenta un frate fatto da Tiziano alto mezzo braccio e largo quattro once con cornici nere profilate d’oro>>,[54] l’antica attribuzione a Tiziano forse è dovuta alla vivacità espressiva e al luminismo caldo. In seguito, gli esperti, dopo avere azzardato vari nomi di artisti, hanno attribuito l’opera ad un anonimo pittore fiammingo. Il volto, affiorante dal buio, è leggermente inclinato verso sinistra, ma ciò che colpisce maggiormente è lo sguardo intenso rivolto verso lo spettatore.

 

SALA 5

 Scheda n. 11

Pittore fiammingo

Prima metà del XVI secolo

LAVANDA DEI PIEDI

Inv. 107 (Sala 5)

Tempera su tavola, 94×117 cm.

Donazione: Cardinale Federico Borromeo, 1618

Proseguendo nel percorso e arrivando alla Sala 5, lo spettatore può ammirare un’opera intitolata “Lavanda dei piedi” eseguita da un pittore fiammingo: il dipinto, donazione del Cardinale Federico Borromeo, risale alla prima metà del XVI secolo, è un olio su tavola. Si tratta di un dipinto piuttosto singolare, sia per la contestualizzazione sia per la dinamicità dei personaggi: Cristo lava i piedi ai suoi discepoli in una grande sala, in cui viene anche allestito il banchetto pasquale, le figure trasmettono un forte dinamismo a causa del loro atteggiamento.

Gesù vestito di bianco è inginocchiato davanti a San Pietro, cui sta lavando i piedi, gli altri apostoli, divisi in due gruppi, sono raffigurati con abiti dai colori rosso, ocra, grigio, turchese, che risaltano brillantemente nel contesto rigoroso e li stanno guardando. Alcuni di loro sono seduti accanto a Cristo, altri tre sulla sinistra sono hanno da un lato un servitore con un piatto e una brocca, che si distingue dai soggetti sacri perché non ha l’aureola, ma porta un berretto. Gli apostoli mostrano espressioni di stupore, mentre un quarto, vestito di rosso, si prepara alla lavanda tagliandosi le unghie dei piedi con un paio di grosse forbici. Sulla parte destra, un poco in disparte si trova Giuda, che si sta togliendo una calza e volge la schiena a Gesù, con il capo leggermente chino ha un atteggiamento criptico come chi si sente colpevole o nasconde qualcosa. Sullo sfondo, a destra, si apre una porta da cui escono i servitori che portano le vivande per il banchetto pasquale e il cartiglio sopra la porta richiama l’ambiente storico dell’evento. Sempre sullo sfondo appaiono statue e bassorilievi che conferiscono al dipinto una nota classicheggiante: La statua a destra rappresenta Giuditta esibisce la testa di Oloferne, ai piedi della statua possiamo leggere la scritta “VERITAS” (la sola leggibile), è probalile che anche le altre due statue raffigurino altre virtù. I bassorilievi che sovrastano le statue, ci presentano scene bibliche non chiaramente identificabili, forse raffigurano il sacrificio di Isacco, Mosè che riceve le Tavole della Legge e per ultimo l’esposizione di queste. L’opera, nel suo insieme, riesce a trasmettere la scena della lavanda dei piedi in modo reale, grazie non solo alla dinamicità dei personaggi ma anche alle loro espressioni molto naturali. Difficile l’attribuzione della paternità: sembra che l’opera sia stata menzionata in una lettera scritta da Venezia nel 1612 al Cardinale, in cui si parla di tre dipinti acquistati nella suddetta città e spediti a Milano, tra questi uno, attribuito a Raffaello o a Perino del Vaga sembra corrispondere a quest’opera, perché nell’Atto di donazione  un dipinto con lo stesso soggetto viene attribuito a Perino: <<Il lavamento de i piedi fatto dal Signore agli Apostoli, con cornice dorata a fogliami, largo braccia due e mezzo et alto uno e mezzo. E si crede che questo quadro sia di mano di Perino del Vago>>.[55] Discordi i pareri degli studiosi.[56]

Nella stessa Sala si può ammirare un’altra opera che fece parte della collezione privata di Federico Borromeo e che non si può considerare eseguita da un artista minore, poiché attribuita ad uno dei fratelli Campi, famiglia di pittori celebri di Cremona. Il dipinto, molto importante affettivamente per Federico, reca in basso un’iscrizione che ricorda come San Carlo sia morto tenendo gli occhi fissi su quest’immagine, Federico, che riesce ad acquistarlo nel 1588 circa, ossia quattro anni dopo la morte di Carlo, così lo descrive nell’Atto di donazione: <<Un Christo che ora nell’Horto, con cornici di noce con profili d’oro, largo un braccio e mezzo, alto due. Questo quadro non per la finezza del lavoro, ma perché in esso tenendo gli occhi fissi S. Carlo rendè l’anima a Dio, si è conservato e si è consegnato con gli altri>>.[57] L’opera, quindi, non fu comprata dal Cardinale per il suo pregio artistico, ma per la devozione che aveva verso la memoria del cugino Carlo, infatti anche nel Codicillo del 15 settembre 1607 troviamo: <<Un quadro largo un braccio, et un quarto, alto uno et mezo, con cornici profilate d’oro dove è un Christo che ora nell’horto con un Angelo, et i tre discepolinche lo accompagnano; et questo è sol di pregio per la cagione, che si vede descritta nel medesimo quadro>>.[58]

Sia Carlo che Federico furono entrambi grandi appassionati dell’arte, anche se in modo molto dissimile, che riflette le diverse personalità: per il primo l’arte era concepita attraverso la liturgia e la devozione; il secondo, come già visto anche dai suoi scritti, finalizzato altresì a comparire raffinato e colto conoscitore e collezionista.

Scheda n. 12

Giulio o Antonio Campi (Cremona, 1502 circa-1572/ 1525 circa-1587)

Inv. 112 (Sala 5)

ORAZIONE NELL’ORTO

Olio su tela; 95 x 73 cm.

Donazione Cardinale Federico Borromeo, 1618

In passato il dipinto è stato ritenuto opera di Giulio Campi, oggi i critici lo attribuiscono al fratello Antonio per la corrispondenza fra il volto di Cristo e quelli ugualmente macilenti delle figure nella sua “Pietà” affrescata in San Vittore a Meda.

Nel XVI secolo Cremona è un vivace centro culturale, in cui confluisce la sperimentazione pittorica lombarda con elementi di quella emiliana e veneta. E’ in questo clima che opera la scuola pittorica dei tre fratelli Campi: Giulio, Antonio, pittori ed architetti e Vincenzo. I fratelli Campi ebbero un ruolo importante nella ricerca artistica che dal manierismo romano ed emiliano segna il passaggio ad una visione naturalistica moderna, basata soprattutto sullo spazio prospettico, sugli effetti della luce, precedendo di poco l’interpretazione caravaggesca. Gli studi sulla luce e sull’illusionismo prospettico non sono esenti dalla pittura fiamminga.

Del maggiore dei fratelli, Giulio, non conosciamo la data di nascita, che certamente risale ai primissimi anni del Cinquecento (1502?), fu il capostipite di questa dinastia di pittori, realizzò pale d’altare e affreschi, con uno stile che denota grande apertura verso le ricerche artistiche contemporanee, le cui soluzioni vennero poi interpretate e sviluppate ulteriormente dal fratello Antonio. Giulio morì a Cremona nel 1572.[59] Antonio, secondo figlio di Galeazzo Campi, oltre che pittore ed architetto, fu anche scultore e storiografo, sconosciuta la data di nascita; si formò nella bottega del fratello Giulio e certi sono da ritenere gli studi umanistici frequentati, la collaborazione col fratello maggiore è confermata dalla presenza comune negli affreschi del palazzo di Torre Pallavicina e nella chiesa delle SS. Pelagia e Margherita. Nel 1563 fu incaricato di allestire gli archi trionfali e gli apparati decorativi a Cremona, in occasione del passaggio per questa città dei principi Rodolfo ed Ernesto d’Asburgo; l’anno successivo fu chiamato a Milano per affrescare la chiesa di San Paolo, fondata nel 1549 e, secondo il Vasari, avrebbe lavorato ancora a fianco di Giulio; nel 1564 è documentato negli Annali, insieme con i fratelli, della Fabbrica del Duomo di Milano. Nel 1569 Antonio risulta operoso in Lodi, dove esegue gli affreschi nel coro della cattedrale (distrutti nel 1764). Il Campi godeva ormai di grande prestigio, tanto che, infierendo la carestia, i decurioni di Lodi lo inviarono a Milano per la richiesta del grano, che riuscì ad ottenerne 200 moggia da Danese Filodoni. Le sue opere giovanili sono influenzate dallo stile del fratello Giulio, non senza evidenti apporti di cultura mantovana e parmense e risultati affini a quelli dei romanisti nordici, in seguito questo eclettismo si orienterà sugli artisti bresciani, sviluppandone particolarmente le tendenze luministiche e cromatiche (v. la “Pietà” del Duomo di Cremona 1566 e la “Decollazione del Battista” in San Sigismondo 1567), a questo periodo risale la produzione più vigorosa e anticipatrice della pittura di Caravaggio. Nel 1571 il Campi presentò al Consiglio di Cremona una mappa, da lui realizzata, della città e dei suoi territori: per questa sua opera fu esentato da ogni tributo come atto di riconoscenza, disegnò anche la pianta della città ed entrambe, incise in dimensioni ridotte, furono inserite in “Cremona fedelissima”. Oltre che come cosmografo, Antonio si cimentò anche come storiografo: scrisse una storia di Cremona, pubblicata nel 1585, arricchita da numerose incisioni, dedicata a Filippo II di Spagna, intitolata “Cremona fedelissima città et nobilissima colonia de’ Romani…”; un libro sulle opere d’arte e uno sugli artisti di Cremona. Nel 1574, quando Enrico III di Francia passò per questa città, Antonio gli fece dono di un dipinto su lavagna con “Cristo in croce” e nel 1583 papa Gregorio XIII lo nominò Cavaliere aurato dell’abito di Cristo per il suo lavoro di architetto prestato presso la Santa Sede (v anche palazzo Vidoni a Cremona e palazzo Pallavicini a Torre Pallavicina). Antonio Campi morì nel 1587 e fu sepolto nella chiesa dei SS. Nazaro e Celso in Cremona. Il dipinto più antico di questo artista è datato 1546 (“Sacra Famiglia con s. Gerolamo e un committente”), quello più tardo risale al 1586, si tratta della “Circoncisione”, che attualmente si trova in S. Francesco da Paola a Napoli, tra queste due opere ce ne sono moltissime sparse in Italia e nei musei europei.[60]

L’invenzione compositiva, di quest’opera, sembra ispirata, oltre che in parte all’”Orazione dell’orto” del Correggio, soprattutto all’analogo soggetto eseguito da Giovan Paolo Lomazzo, conservato anch’esso all’Ambrosiana, eseguito secondo similari suggestioni luministiche di notturno e con le figure degli apostoli semisommersi dall’oscurità. Nel presente dipinto vengono, tuttavia, esibiti tratti di più crudo realismo nella figura dell’apostolo disteso in primo piano (Pietro), in particolare nel volto dai tratti grossolani e nelle mani nodose, elementi che farebbero propendere a favore di Antonio Campi, gli altri due (Giacomo e Giovanni) appena emergono dall’oscurità. Analoga asprezza si riscontra nel volto emaciato e sofferente di Cristo, contrapposto all’angelo dalle sembianze vagamente raffaellesche. I frequenti rapporti dei fratelli Campi con Carlo Borromeo, testimoniati dalle fonti, rendono difficoltosa la paternità dell’opera: la sua grande drammaticità e la forte valenza pietistica, anche se probabilmente richieste dal committente, sembrano rientrare più nello stile di Antonio che in quello di Giulio. In basso è possibile leggere un’importante iscrizione in latino: <<S. CAROLUS MENTIS CORPORISQ. OCULOS IN HAC TABELLA DEFIXOS HABENS ANIMAM DEO REDDIDIT. San Carlo, avendo gli occhi della mente e del cuore fissi su questa tavola, rese l’anima a Dio>>, fatta aggiungere dal cardinal Federico per ricordare quanto testimoniato da Carlo Bescapè, segretario del Santo, in una lettera dell’ 8 novembre 1584: “A piè del letto (Carlo) fece porre un quadro dove era dipinto il Salvatore, orando in agonia”. Dopo la morte di San Carlo, il quadro fu devoluto, come da suo testamento, all’Ospedale Maggiore e poi acquistato da Federico Borromeo, quindi donato dallo stesso all’Ambrosiana nel 1618, non tanto per la sua importanza artistica quanto per la sua valenza storica.

 

 SALA 8

Scheda n. 13

Andries Daneels (Anversa, attivo tra il 1580 e il 1602)

Frans Francken il Giovane (Anversa, 1581-1642)

MADONNA CON BAMBINO IN GHIRLANDA DI FIORI

Inv. 57 (Sala 8)

Olio su tavola, 65×52 cm.

Donazione: Giovanni Edoardo de Pecis, 1827

Il visitatore potrà soffermarsi davanti ad un dipinto di una “Madonna con Bambino in ghirlanda di fiori”: durante il secolo XVII nei Paesi Bassi, il genere floreale nella pittura simboleggiava implicitamente il messaggio morale della “Vanitas” ed anche il concetto di caducità insito nella bellezza di un fiore, infatti spesso venivano raffigurati nella stessa opera fiori di stagioni diverse per dimostrare che tali dipinti non erano oggettivi ma comprendevano un evidente messaggio morale. Madonne col Bambino circondate da ghirlande di fiori sono un tema che nell’Europa del Seicento ebbe grande fortuna grazie alle opere di pittori fiamminghi come Brueghel il Vecchio, Rubens e Antoon van Dyck, questo genere contraddistinse anche la città di Genova del tempo, che, sulla scia dei rapporti commerciali, ebbe contatti con l’arte delle Fiandre. A Milano la tendenza per questo genere nacque per i contatti commerciali con Genova, ma soprattutto grazie al Cardinale Borromeo e al suo interesse per la pittura dell’amico Jan Brueghel. Il genere pittorico delle Madonne inghirlandate, in cui l’unione di tema naturale e immagine sacra riusciva a esprimere con estrema efficacia la bontà divina, secondo la concezione devozionale dell’arte di Borromeo. Il Cardinale era in possesso di tre quadri di questo tipo: oltre al presente, il secondo ancora di Brueghel e di un collaboratore non individuato, attualmente al Museo del Louvre e databile al 1617 circa; il terzo, del 1621, sempre di Brueghel e di Pieter Paul Rubens, al presente al Museo del Prado. Il dipinto si può definire un quadro in un quadro: i fiori danno l’impressione allo spettatore di essere collocati sulla parete in cui è appeso il dipinto interno alla ghirlanda, assumendo l’effetto di un tromp l’oeil.[61]

L’opera fu dipinta da due pittori: il soggetto religioso è attribuibile a Frans Francken il Giovane, la ricca ghirlanda a Andries Daneels, entrambi di Anversa.

Andries Daneels nacque ad Anversa nel 1580 circa, poche le notizie sulla sua vita: nel 1599 risulta iscritto alla Corporazione di San Luca della stessa città, come allievo di Pieter Brueghel il Giovane, nel 1602 è annotato come maestro della Gilda. Le sue opere, non molto conosciute, hanno per soggetto nature morte, fiori in vasi sfavillanti e ghirlande di fiori, la composizione, il colore e l’illuminazione richiamano molto lo stile di Jan Brueghel il Vecchio, in genere mostrano una ghirlanda di fiori attorno a un’immagine o un ritratto devozionale. Questo genere è stato ispirato dal culto della venerazione a Maria, i dipinti a ghirlanda erano di solito collaborazioni tra pittori di nature morte e pittori di figure. Daneels, insieme a Frans Francken sviluppò ulteriormente il genere delle pitture di ghirlande, creando forme particolari, tra cui ghirlande intorno a medaglioni con le decine del Rosario.[62]

Frans Francken nacque ad Anversa nel 1581, fu allievo del padre e nel 1605 entrò nella Gilda dei Pittori, di cui divenne anche Presidente. Inizialmente dipinse nello stile del padre, strettamente legato alla Scuola fiamminga, in seguito ampliò la gamma dei soggetti con paesaggi, scene di genere, immagini storiche, in piccoli formati con colori più chiari e vivaci. Lavorò in collaborazione con altri artisti, inserendo nelle loro opere le figure nei loro paesaggi e interni. Numerose le sue piccole opere esposte in molti Musei e Gallerie europee. Morì ad Anversa nel 1642.[63]

La Madonna è posta al centro di una ghirlanda, dove non appaiono i soliti insetti come farfalle o formiche, con in braccio il Bambino, che alza teneramente protende la manina verso il volto della Madre, attorno alla Madonna sono raffigurate piccole teste di angeli appena visibili. I fiori si presentano molto più “freddi” rispetto a quelli del dipinto di Brueghel e Van Balen presente in Ambrosiana e i colori risultano più opachi, anche se il soggetto è simile, inoltre i fiori sono dipinti nel dipinto, diversamente nell’altra opera citata, in cui la Madonna è dipinta su un pannello aggiunto, mentre questo lavoro è realizzato su un’omogenea tavola di legno.[64]

 

Scheda n. 14

Josse Lieferinxe?

Provenza, documentato dal 1493 al 1505

ECCE HOMO

Inv. 807 (Sala 8)

Tempera su tela; 199 x 136 cm.

Non è conosciuta né la data né per quali vie questa grande tela sia giunta in Ambrosiana, l’attribuzione a Josse Lieferinxe (pittore francese, documentato dal 1493 al 1505, noto anche come “Maestro di San Sebastiano”, appartenente alla Scuola provenzale del XV secolo) fu data dalla studiosa francese Dominique Thiébaut, ma molti particolari e dubbi lasciano aperta la questione della paternità.[65]

L’opera rappresenta brutalmente il momento in cui Pilato mostra Gesù alla folla, il Prefetto della Giudea è riconoscibile per le ricche vesti color porpora, trattenute da una cintura con borchie d’oro, che sostiene una spada dall’impugnatura d’oro e una borsa ornata da nappe, il capo è coperto da un turbante rosato. Cristo ha un’espressione docile, arrendevole, con la corona di grosse spine che lacerano la carne ed è semiavvolto in un mantello nero, diversamente dai Vangeli che parlano di un manto rosso. Dalla parte opposta a Pilato vediamo la folla dei popolani e della classe dirigente ebraica, con atteggiamenti infervorati e scomposti. La scena è ambientata in una piazza e sullo sfondo di un’architettura appena accennata, sono visibili dei palazzi. Ogni figura è colta in un gesto significativo, che crea un’atmosfera di ansia e orrore mentre Gesù è il mite agnello condotto al macello (Is 53,7). Pilato, secondo il Vangelo di Giovanni, dopo avere fatto flagellare il Cristo, lo presenta alla folla dicendo: “Ecce Homo” e la folla risponde urlando: “Crucifige, crucifige eum” . Il dipinto è databile alla fine del XV o inizio del XVI secolo.[66]

 

SALA 10

 In questa Sala, un dipinto di notevoli dimensioni attira l’attenzione del visitatore, è il “martirio di San Sebastiano”, soggetto che ha ispirato moltissimi artisti, ognuno,ovviamente, con un apporto artistico diverso.

Scheda n. 15

Pittore veneto-emiliano (Quarto decennio del XVI secolo)

MARTIRIO DI SAN SEBASTIANO

Inv. 790 (Sala 10)

Olio su tela; 150×101 cm.

Donazione: Giovanni Edoardo de Pecis, 1828

La grande tela raffigura San Sebastiano legato ad una colonna, in piedi su un cornicione, con il piede destro sollevato su un frammento di cornice, il quale subisce il supplizio con un’espressione serena, mentre dalla sinistra un angelo sta per consegnargli la corona del martirio. Secondo la tradizione San Sebastiano (Narbona, 256-Roma288 o 304) fu un alto ufficiale dell’esercito imperiale romano, che, per aver sostenuto la fede cristiana, subì un doppio martirio: condannato ad essere trafitto dalle frecce e abbandonato alle bestie selvatiche, sopravvisse miracolosamente grazie alle cure di una pia matrona, che l’aveva trovato ancora vivo quando era andata a recuperare le spoglie per dare loro cristiana sepoltura. L’imperatore Diocleziano diede ordine che fosse flagellato a morte e, per essere sicuro che questa volta i Cristiani non s’impadronissero del suo corpo, lo fece gettare nella Cloaca Massima. Alle spalle del Santo si vede un gruppetto di uomini armati, alla cui testa è un nobile a cavallo in armatura. L’interesse del visitatore viene però colpito alacremente dalla composizione del dipinto e l’attenzione si sposta dal soggetto in primo piano allo sfondo su cui possiamo vedere i principali monumenti della Roma imperiale: sulla destra si può distinguere l’Arco di Costantino, dietro il quale si individuano i resti delle arcate dell’”Acqua Claudia” e in angolo il Settizonio, l’imponente ninfeo di Settimio Severo, con colonnati a più piani. A sinistra si eleva il Colosseo e un mausoleo rotondo e prima dei colli romani è raffigurata la chiesa di San Sebastiano sulla via Appia. La presenza di numerose piccole figure, distribuite sulle rovine o presso i monumenti, rende tutta la scena vivificata. Molte le supposizioni intorno alla paternità dell’opera, che, tuttavia, rimangono incerte.[67]

 

Scheda n. 16

Pittore veneto

Secondo decennio del secolo XVI

SOLDATI IN UN PAESAGGIO

Inv. 621 (Sala 10)

Tempera su tavola, 65×76 cm.

Donazione: Attilio Brivio, 1959

 

In passato il dipinto fu attribuito a Giorgione, in seguito considerato opera della cerchia giorgionesca o di un allievo che ha eseguito il lavoro sotto la diretta supervisione del maestro. Il primo piano ci mostra due soldati con i loro palafrenieri seduti in un prato ed immersi in una profonda meditazione che sembra distoglierli da pensieri di combattimento; in secondo piano vediamo altri soldati, tra cui uno a cavallo, intenti nelle loro manovre. Nello sfondo una città munita di torri sorta ai piedi di un monte: tutta la scena è ambientata in un contesto campestre. <<Il senso del rilievo, della forma, si riduce man mano che la lontananza aumenta. I volumi perdono peso e spessore e la visione “si scarica di potenziale tattile, sostituendo con una equivalente carica cromatica” (Coletti, Giorgione, Milano 1955, p. 10). Una visione insomma che, abbandonata la precisione disegnativa, assume il colore quale elemento costruttivo, in linea con le più recenti innovazioni allora diffuse dal maestro di Castelfranco>>.[68]

 

SALA 13

Scheda n. 17

Ambito di Salvator Rosa

Seconda metà del XVII secolo

ALLEGORIA DELLA CADUCITA’

Inv. 145 (Sala 13)

Olio su tela, 70×48 cm.

Questa piccola tela, di autore ignoto, ci presenta in primo piano, al centro, una figura maschile con la testa coperta da un cappuccio e vestita con una toga di foggia antica, che lascia scoperta la spalla destra, tiene le gambe accavallate e il mento sorretto dalla mano destra come se stesse meditando. Il personaggio, solo, è circondato da un’ambientazione tetra e desolata: in basso sulla sinistra si vedono delle ossa umane, a destra, sotto un frammento di marmo rappresentante un cavallo, possiamo vedere un teschio di animale. Sullo sfondo, sotto un cielo nuvoloso al crepuscolo, un’urna cineraria e una colonna spezzata ribadiscono il senso della morte in modo inquietante, le erme funebri  e il tronco dell’albero secco rafforzano il concetto funereo.[69]

“Vanitas vanitatum et omnia vanitas”(Ecclesiaste 1, 2; 12, 8): gli oggetti simbolici che vediamo nel dipinto sono un’allusione alla precarietà dell’esistenza, al trascorrere inesorabile del tempo, alla natura effimera dei beni mondani, si può dire un’iconografia con finalità moraleggianti, un invito a lasciare gli appagamenti e le ambizioni per dedicarsi alla salvezza eterna, ma durante il Seicento barocco, tali concetti assumeranno peculiarità ambivalenti, sempre atti a cantare la caducità della vita, ma allo stesso tempo, visto la precarietà della vita stessa, esortano a saper godere dei beni che la vita ci offre giorno per giorno, riassumendo l’ideale di Orazio (Odi, I, 11, 8), di origine stoico-epicurea, di una vita goduta nel bene che essa ci dà. Discordi i pareri della critica sulla paternità dell’opera.

 

ATRIO DI PASSAGGIO

Scheda n. 18

Pitttore lombardo-piemontese (secondo quarto del XVII secolo)

RITRATTO MASCHILE

Inv. 216 (Atrio di passaggio)

Olio su tela; 88×62 cm.

Verso la metà del Novecento, questo dipinto fu attribuito a Tanzio da Varallo, manierista legato alla tradizione lombarda, non esente da influssi caravaggeschi, considerato tra i migliori interpreti di quel rinnovamento artistico in Piemonte e in Lombardia, espressione, in diversi modi, della spiritualità di Carlo Borromeo e dell’Arte della Controriforma. Tale paternità però non è stata avvalorata da elementi oggettivi, ma senza dubbio si tratta di un’opera di un valente ritrattista: da notare la considerevole qualità espressiva del soggetto raffigurato, il quale dall’abbigliamento potrebbe essere contraddistinto come un religioso. L’uomo è ritratto a mezza figura, internamente ad una cornice di marmo, dalla veste austera e scura fuoriesce il colletto e il polsino bianco della camicia, il capo è coperto da una papalina dello stesso colore dell’abito, nella mano destra regge un breviario? Ma ciò che colpisce maggiormente è lo sguardo penetrante, messo in evidenza dallo squarcio di luce proveniente da sinistra, sguardo che insieme alle rughe profonde ed ai capelli bianchi gli conferisce un’espressione severa e nel contempo carica di esperienza.[70]

 

Scheda n. 19

Pittore milanese

1600 circa

RITRATTO DI GENTILDONNA

Inv. 1321 (Atrio di passaggio)

Olio su tela; 70×50 cm.

Quest’opera ci propone una figura femminile colta leggermente di tre quarti, con lo sguardo rivolto verso l’osservatore. La gentildonna, il cui volto è incorniciato da un grande colletto bianco a lattuga ricamato, porta una sopraveste nera ornata da bottoni e bordature dorate, indossa un corpino dello stesso colore e una camicia bianca: un abbigliamento che segue attentamente la moda spagnoleggiante in uso tra la fine del XVI e i primi decenni del XVII secolo, in mano tiene un fazzoletto bianco. L’eleganza ricercata degli abiti è favorita anche dai monili che adornano i capelli, il petto e il polso della gentildonna, la quale, in passato, fu individuata come Anna Borromeo Colonna, cugina di San Carlo, menzionato tra le opere facenti parte della Donazione del 1618: <<Il Ritratto della Signora Anna Borromea Colonna, sorella di S. Carlo, alto braccia due e once quattro, e largo uno e once dieci>>.[71] Attualmente questa identificazione completamente priva di riscontri oggettivi è stata rifiutata dalla critica, anche le dimensioni del dipinto appartenente al Cardinale Federico non coincidono con l’opera suddetta (circa 140×110 la prima, 70×50 la sopradetta ), come anche l’ipotesi avanzata di appartenenza al bibliofilo e uomo politico milanese Pietro Custodi, appare priva di fondamenta, poiché nei documenti relativi alla donazione di Custodi alla Pinacoteca, non si rilevano dati oggettivi per l’identificazione del suddetto dipinto.[72] Il volto della donna è contraddistinto da un forte naturalismo, l’incarnato è reso con impasti luminosi e rosati, che richiamano vagamente un’impronta caravaggesca.[73]

 

SALA 21

Scheda n. 20

Maestro delle Mezze Figure Femminili

Attivo nel 1520-1540 circa

Inv. 48 (Sala 21)

MARIA MADDALENA

Tempera su tavola, 55×42 cm.

Varie sono le opere attribuite al Maestro delle Mezze Figure Femminili, ma vani i tentativi di identificazione dell’artista, probabilmente fu attivo ad Anversa tra il 1520 e il 1530, dove, forse, aveva ultimato un periodo di apprendistato nella bottega di Joachim Patinier (Dinant 1483-Anversa 1524), pittore fiammingo specializzato in soggetti storici, ma soprattutto in paesaggi (fu tra i primi artisti a rappresentare le vedute, ispirandosi alla Scuola danubiana o Donauschule, movimento artistico nato nei primi anni del Cinquecento, di cui Albrecht Dürer contribuì in modo decisivo alla sua nascita). Il nome, convenzionale, ha origine dai soggetti rappresentati nelle sue opere: figure femminili, intente a leggere, scrivere o suonare strumenti musicali, da sole o in gruppi, generalmente effigiate a mezza figura, spesso sedute con lo sguardo abbassato verso l’oggetto da cui sono interessate. La tipologia femminile è abbastanza abituale: i capelli raccolti, spesso coperti da un velo, l’ovale perfetto, gli abiti, in velluto, secondo la moda rinascimentale.

Questo dipinto ci mostra Santa Maria Maddalena, con vesti contemporanee all’artista ed altre particolarità che danno all’opera un carattere profano. La Santa è riconoscibile solo per il suo attributo iconografico, il prezioso vaso di unguento, che apre con gesto garbato e leggero., lo sfondo è uniformemente scuro. Secondo la tradizione era tra coloro che accompagnarono Gesù nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme, Maria Maddalena rimase presente anche alla morte e alla deposizione di Gesù nel sepolcro e il giorno di Pasqua andò alla tomba con il vaso degli unguenti per ungere la salma: <<Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro>> (Giovanni 20,1), <<Maria Maddalena andò subito ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che aveva detto>>. ( Giovanni 20,18). In tal modo la Santa diviene la prima testimone della Resurrezione di Cristo.

 

Scheda n. 22

Maestro dell’Altare Tucher?

XV secolo

MADONNA COL BAMBINO

Inv. 19 (Sala 21)

Tempera su tavola; 38 x 28 cm.

Su un ricco sfondo rosso damascato, la Vergine è presentata a mezza figura, è incoronata e vestita sontuosamente: il capo è adornato da un prezioso diadema di perle che sostituisce il velo, come pregiato è il gioiello d’argento con una pietra rossa incastonata al centro che chiude il manto, su cui ricadono i lunghi capelli ricciuti. La Madonna ha in braccio il Bambino nudo, che tiene nella mano destra quattro ciliegie, simbolo della futura Passione. Gesù guarda la Madre con amorevole intensità e la vicinanza dei loro volti che teneramente unisce guancia contro guancia, esprime il profondo legame tra Madre e Figlio. L’attribuzione del dipinto al Maestro dell’Altare di Tucher (pittore anonimo tedesco, attivo a Norimberga tra il 1440 e il 1450 circa) non sembra molto attendibile, ma più attendibile sembra la provenienza boema assegnabile tra il 1460 e il 1480.[74]

 

Scheda n. 23 (Sala 21)

Pittore tedesco

Metà del XVI secolo

RITRATTO MASCHILE

Inv. 50 (Sala 21)

Olio su tavola; 71 x 51 cm.

Donazione: Giovanni Edoardo de Pecis, 1827

Il dipinto è stato attribuito a diversi artisti: nell’inventario della Pinacoteca del 1830 fu descritto come un <<ritratto di un gentiluomo inglese, vestito di nero guarnito di pelliccia, dipinto in tavola di quasi mezza figura, di grandezza naturale con mani; il fondo e la veduta di una città, lago e monti in lontananza di Giovanni Holbein, nativo di Basilea>>,[75] paternità che fu mantenuta anche nelle successive guide della Pinacoteca, ma nel 1907 Ratti, nella sua guida, l’attribuisce ad “ignoto tedesco”, nel 1925 Röttger avanza l’ipotesi che l’autore sia Hans Mielich, ipotesi mantenuta fino al 1997, anche se con molti dubbi, infine anche quest’ultima attribuzione non sembra essere più sostenibile, ma ad un pittore attivo nella Germania meridionale, attento alla lezione di Mielich.

La figura che vediamo nella tavola è appoggiata ad una balaustra, sulla quale è visibile uno stemma araldico con un elmo da torneo con piume di struzzo, sempre in basso a sinistra, a fianco dello stemma, notiamo un’iscrizione: “ANNO MDXLVIII. AETATIS SVE XXXIII sullo sfondo un paesaggio in cui le architetture sono appena accennate, che insieme alla luce diffusa lo fa sembrare irreale, fiabesco. L’attenzione dello spettatore è più attratta dall’elegante abbigliamento: il cappello, la pesante catena con il pendente, gli anelli, più di quanto lo sia dalla figura stessa che risulta ferma e senza caratterizzazione psicologica.[76]

 

Scheda n. 24 (Sala 21)

Pittore tedesco

Metà del XVI secolo

RITRATTO MASCHILE

Inv. 51 (Sala 21)

Olio su tavola; 71 x 51 cm.

Donazione: Giovanni Edoardo de Pecis, 1827

Anche questo dipinto è entrato in Pinacoteca con la donazione del conte de Pecis era descritto nell’Inventario del 1830 come un <<ritratto di gentiluomo inglese con un bicchieri di vino in mano, vestito di nero , guarnito di pelliccia, e fondo di paese, di Giovanni Holbein, in tavola>>.[77] L’iter per l’attribuzione della paternità è lo stesso della tavola precedente con le stesse ipotesi. L’uomo raffigurato è elegantemente vestito e nella mano destra regge un bicchiere, alle sue spalle un cartiglio sull’albero a sinistra reca la seguente scritta:”ANNO M.D.XLVIII AETATIS SVEXLII”, nell’anello che porta nella mano sinistra si può distinguere una “W” bianca su fondo verde. L’opera è ricca di dettagli sia nell’abbigliamento, sia nel paesaggio e nonostante i due dipinti siano sempre stati considerati corrispondenti, sembrerebbero invece attribuibili a due artisti diversi, per la maggiore qualità del presente ed anche dalla resa dei particolari: il personaggio di questo ritratto ha uno sguardo più vigoroso rispetto al dipinto precedente, inoltre dall’espressione del viso percepiamo un atteggiamento più fiero e quasi distaccato, che attrae il visitatore. L’uccellino sull’albero e lo sfondo paesaggistico dettagliato rendono il dipinto più armonioso ed equilibrato del primo.[78]

I due particolari sul lato destro sono ripresi da un’opera attribuita in un primo tempo a Hans Holbein, successivamente a Hans Muelich, ma anche questa paternità è stata messa in discussione, per cui alcuni critici preferiscono parlare più genericamente di “pittore tedesco”. Il dipinto rappresenta il ritratto di un uomo vestito in modo raffinato ed elegante con un bicchiere di cristallo tenuto tra il pollice e l’indice. La scritta affissa all’albero ci informa che il dipinto è stato eseguito nel 1548 e il gentiluomo ritratto ha 42 anni; molto ricchi i dettagli sia nell’abbigliamento sia nella resa paesaggistica.

 

Scheda n. 25 (Sala 21)

Monogrammista HL

Metà del XVI secolo

RITRATTO DI PELLEGRINO

Inv. 49 (Sala 21)

Olio su tavola, 60×44 cm.

Il dipinto è menzionato nell’Inventario della Pinacoteca Ambrosiana del 1685, sul retro vi è una data (1542) e la seguente iscrizione: <<Era del s. don Federico Crivelli qual morite a li 30 aprile 1589 e i suoi agenti l’ano donato a me prete Battista Rubenino>>.[79] La tavola è opera del Monogrammista HL, come si evince dal monogramma “HLF” su una delle conchiglie poste sulla veste dell’austero uomo del ritratto, che in passato è stato ritenuto un ritratto di Sant’Ignazio di Loyola, come denoterebbero la mantella nera decorata di conchiglie e il rosario sul braccio destro, ma attualmente la critica individua nel soggetto la figura di un pellegrino. L’uomo è ritratto a mezza figura, leggermente di tre quarti, il suo sguardo intenso e penetrante è rivolto allo spettatore, la luce, scaturita da sinistra, gli diffonde sul capo un’aura luminosa.[80]

 

SCALA ROSSA

 Scheda n. 26

Pittore fiammingo

Seconda metà del XVII secolo

VECCHIA FILATRICE CON POLLAME

Inv. 137 (Scala Rossa)

Olio su tela, 132×180 cm.

Donazione: Maria de Pecis Parravicini, 1830

Terminiamo questo exursus con un dipinto di un pittore fiammingo, attivo nella metà del XVII secolo, donato alla Pinacoteca da Maria de Pecis Parravicini nel 1830. Si tratta di un’opera intitolata “Vecchia filatrice con pollame”. Questa tela fu attribuita a Peter Philip Roos da Tivoli (1657-17069, pittore tedesco, che si stabilì a Tivoli, da qui il nomignolo Rosa da Tivoli, le cui opere rappresentano, nella maggior parte, animali domestici. In seguito venne scoperto il monogramma V.H., attualmente poco leggibile, infine è stato riconosciuto il carattere fiammingo dell’artista indicando il XVII secolo come datazione generica del dipinto, e appartenente all’ambito di Bernhard Keilhau, detto Monsù Bernardo (1624-1687), pittore danese attivo in Italia, ma sembra che l’anonimo pittore non sia esente dall’influenza del pittore fiammingo Michael Sweerts (1618-1664), il quale ha raffigurato soggetti simili. Sulla scena, in primo piano a sinistra, spiccano vari animali da cortile, al centro una chioccia battagliera difende la sua covata, appena nata da un tacchino, un pulcino sta uscendo dal guscio e due uova sono ancora intere, sulla sponda dello stagno, davanti alla grossa cesta, un anatroccolo assalta aggredisce un pulcino, un altro nuota tranquillo nell’acquitrino, vicino ad un’altra gallina, un gallo ed un altro tacchino sembrano slanciarsi verso il gatto accovacciato sul muretto. Su tutta questa vivace scena domina la figura di una anziana signora, vestita con abiti semplici, la quale tiene nella mano sinistra un fuso e una pannocchia, nella destra, appoggiata aperta sul grembo, un pulcino che becca alcuni chicchi di grano, ma lo sguardo della donna è rivolto alla gallina combattiva. Nella parte inferiore destra possiamo vedere una lepre accovacciata e sullo sfondo altri volatili si posano su uno stagno, che fa parte di un parco in cui si vede un’architettura ed una fontana zampillante che danno al parco un certo tono di nobile eleganza, che sembra contrastare con le umili vesti della donna, la cui espressione pacata e quasi divertita e la cui compostezza non fanno pensare ad un’anziana contadina, ma ad una signora con delle vesti rustiche.[81]

NOTE

1 Per una biografia ampia e dettagliata si veda Biagio Guenzati, Vita di Federico Borromeo, a cura di Marina Bonomelli, Biblioteca Ambrosiana. Classe di Studi Borromaici, Bulzoni Editore, Roma 2010. Per una sommaria biografia di Federico Borromeo si veda: L. Fabbri, La figura della Madonna nella collezione di Federico Borromeo, in https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2017/11/06/la-figura-della-madonna-nella-collezione-di-federico-borromeo/. Nel presente lavoro cercheremo di evidenziare la personalità di questo grande e complesso personaggio.

2 Durante il periodo in cui Borromeo fece parte della Congregazione fu revisionata la “Vulgata” e allestita l’”Editio romana” contenente i vari atti dei concili ecumenici, Federico prese parte anche alla “Vulgata clementina”, così chiamata da papa Clemente VIII, a fianco di autorevoli studiosi, tra cui anche Roberto Bellarmino, celeberrimo teologo gesuita. Cfr. P. Jones, Federico Borromeo e l’Ambrosiana: arte e Riforma cattolica nel XVII secolo a Milano, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 19.

3 Ibid.

4 Si narra che Filippo raccontò, sul letto di morte, a Federico che gli portava il Viatico, una sua esperienza che non aveva mai detto a nessuno: quando ancora non era sacerdote, perche si riteneva indegno, stava pregando nelle catacombe di San Sebastiano e chiedeva al Signore di concedergli il dono dello Spirito Santo, ebbe un’esperienza mistica che lo cambiò nel corpo e nell’anima, il turgore che gli venne nel petto dopo quel giorno era dovuto ad un eccezionale ingrossamento del cuore, come poi confermò l’Archiatra che eseguì l’autopsia sul corpo di Filippo, che narrò a Federico: “…pregavo di avere Spirito e una fiamma di fuoco penetrò in me attraverso la bocca e mi entrò nel cuore e mi buttò a terra, ed io rimasi a terra e dicevo al Signore, basta Signore, non ne posso più, basta… Cfr. Pippo Bono, in  http://pietroepaolo.org/conferenze.html

5 B.A., G 310 inf., F. Borromeo, Pro suis Studiis, cc. 243v.e r. ; Cfr. P. Jones, Federico Borromeo  e l’Am,brosiana: arte e riforma cattolica nel XVII secolo a Milano, Milano 1997 (ed. or. Cambridge Mass. 1993, p. 15.

6 Cfr. P. Jones, Federico Borromeo… cit., p. 21.

7 Ibid.

8 Alfonso Chacón nacque a Baeza nella provincia di Jaén in Andalusia, dopo la prima formazione culturale, nel 1548 professò i voti, quindi si trasferì nel convento di Santa Catalina di Jaén per studiare teologia, in seguito si trasferì a Siviglia dove si fermò per quattordici anni, addottorandosi in teologia nella categoria di “Maestro en Artes”. Nel 1566 fu chiamato a Roma da Pio V come Penitenziere minore della Basilica di San Pietro per la lingua spagnola; scrisse due opere che furono duramente criticate da Melchor Cano, da Baronio che le giudicò prive di prove documentarie e del Cardinale Bellarmino che definì la seconda addirittura “fabulosa”. Numerose furono le opere successive ma l’ambito di studio più fertile fu quello dell’antiquaria e dell’archeologia cristiana. Morì a Roma il 14 febbraio 1599. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/alonso-chacon_(Dizionario-Biografico)/

9 Cfr. B.A., Ms F 227-229 inf. “Imagini ossia copie di pitture sacre e simboliche esistenti in Roma”.

10 Cfr. G. Gabrielli, Federico Borromeo a Roma, in “Archivio della Società romana di Storia Patria, LVI-LVII (1933-1934), p. 157 e segg.

11 Cfr. P. Jones, Federico Borromeo… cit., p. 19.

12 Ibid., p. 22

13 Cfr. C. Marcora, Un diario sulla morte dell’Arcivescovo Gaspare Visconti e sulla nomina del Cardinale Federico, in “Memorie Storiche della Diocesi di Milano”, II 1955, p. 135 e segg.

14 Gravi contese tra Arcivescovo e Governo civile c’erano state anche durante l’episcopato di Carlo, che furono in parte “superate”, specialmente negli ultimi anni del governo del primo Borromeo grazie alla sua forte personalità; Federico non aveva ereditato dal cugino la grande capacità politica, quindi non fu capace di trovare un accordo di fatto e si lasciò trascinare dalle manovre diplomatiche e dal formalismo giuridico. Ci furono innumerevoli riunioni della commissione cardinalizia e lunghissime discussioni, finalmente, nel 1615, venne sottoscritta dal Borromeo e dal nuovo governatore di Milano Pedro de Toledo Osorio la “Concordia iurisdictionalis inter forum ecclesiasticum et forum saeculare Mediolani”, ratificata poi da papa Paolo V e da Filippo III nel 1617 e pubblicata nel 1618 a Milano. Con questo atto la Chiesa milanese acquista ampli poteri giurisdizionali. Queste controversie giurisdizionali ebbero un costo molto elevato: le spese sostenute dalla sola parte ecclesiastica ammontarono a 105.000 scudi, oltre al danno che la diocesi subì per la lunga assenza dell’Arcivescovo, della paralisi della vita ecclesiastica e dal sovvertimento dei valori che essa subì. Cfr. L. Prosdocimi, Il diritto ecclesiastico dello Stato di Milano dall’inizio della signoria viscontea al periodo tridentino, Milano 1941, p. 318 e segg.; L. Fabbri, La figura… cit.,

15 La Diocesi di Milano comprendeva allora 750 parrocchie e 1779 tra chiese, oratori e cappelle, che non sempre erano situate in luoghi di facile accessibilità, nonostante ciò Federico, nel corso del suo episcopato, riuscì a visitarle personalmente tutte e molte più di una volta. Cfr. P. Jones, Federico Borromeo… cit., p. 25.

16 Cfr. A. Falchetti a cura di, La Pinacoteca Ambrosiana. Catalogo a cura di Antonia Falchetti – Saggi di Angelo Paredi, Gian Alberto dell’Acqua. Lamberto Vitali – Neri Pozza Editore, Vicenza 1969, p. 13 e segg.; G. A. Dell’Acqua, Storia dell’Ambrosiana, II Seicento, Cariplo, Milano 1992, p. 297 e segg.; [81] Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacoteca Ambrosiana, Tomo I, Mondadori Electa 2010, p. 15 e segg.

17 Cfr. L. Fabbri, L’Universo in una stanza: Manfredo Settala e l’Ambrosiana, in “https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2018/04/17/luniverso-in-una-stanza-manfredo-settala-e-lambrosiana/

18 Ibid.

19 Ibid.

20 Riportiamo il testo: “Il santo sinodo comanda a tutti i vescovi e a quelli che hanno l’ufficio e l’incarico di insegnare, che – conforme all’uso della chiesa cattolica e apostolica, tramando fin dai primi tempi della religione cristiana, al consenso dei santi padri e ai decreti dei sacri concili, – prima di tutto istruiscano diligentemente i fedeli sull’intercessione dei santi, sulla loro invocazione, sull’onore dovuto alle reliquie, e sull’uso legittimo delle immagini, insegnando che i santi, regnando con Cristo, offrono a Dio le loro orazioni per gli uomini; che è cosa buona ed utile invocarli supplichevolmente e ricorrere alle loro orazioni, alla loro potenza e al loro aiuto, per impetrare da Dio i benefici, per mezzo del suo figlio Gesù Cristo, nostro signore, che è l’unico redentore e salvatore nostro; e che quelli, i quali affermano che i santi – che godono in cielo l’eterna felicità – non devono invocarsi o che essi non pregano per gli uomini o che l’invocarli, perché preghino anche per ciascuno di noi, debba dirsi idolatria, o che ciò è in disaccordo con la parola di Dio e si oppone all’onore del solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo (450); o che è sciocco rivolgere le nostre suppliche con la voce o con la mente a quelli che regnano nel cielo, pensano empiamente.

Insegnino ancora diligentemente che i santi corpi dei martiri e degli altri che vivono con Cristo – un tempo membra vive di Cristi stesso e tempio dello Spirito santo (406) -, e che da lui saranno risuscitati per la vita eterna e glorificati, devono essere venerati dai fedeli, quei corpi, cioè, per mezzo dei quali vengono concessi da Dio agli uomini molto benefici. Perciò quelli che affermano che alle reliquie dei santi non si debba alcuna venerazione ed alcun onore; che esse ed altri resti sacri inutilmente vengono onorati dai fedeli; o che invano si frequentano i luoghi della loro memoria per ottenere il loro aiuto, sono assolutamente da condannarsi, come già da tempo la chiesa li ha condannati e li condanna ancora.

Inoltre le immagini di Cristo, della Vergine madre di Dio e degli altri santi devono essere tenute e conservate nelle chiese; ad esse si deve attribuire il dovuto onore e la venerazione: non certo perché si crede che vi sia in esse una qualche divinità o virtù, per cui debbano essere venerate; o perché si debba chiedere ad esse qualche cosa, o riporre fiducia nelle immagini, come un tempo facevano i pagani, che riponevano la loro speranza negli idoli (407), ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi, che esse rappresentano. Attraverso le immagini, dunque, che noi baciamo e dinanzi alle quali ci scopriamo e ci prostriamo, noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi, di cui esse mostrano la somiglianza. Cosa già sancita dai decreti dei concili – specie da quelli del secondo concilio di Nicea – contro gli avversari delle sacre immagini (408).

Questo, poi, cerchino di insegnare diligentemente i vescovi: che attraverso la storia dei misteri della nostra redenzione, espressa con le pitture e con altre immagini, il popolo viene istruito e confermato nel ricordare gli articoli di fede e nella loro assidua meditazione. Ed inoltre, che da tutte le sacre immagini si trae grande frutto, non solo perché vengono ricordati al popolo i benefici e i doni che gli sono stati fatti da Cristo, ma anche perché nei santi sono posti sotto gli occhi dei fedeli le meraviglie e gli esempi salutari di Dio, così che ne ringrazino Dio, cerchino di regolare la loro vita e i loro costumi secondo l’imitazione dei santi, siano spinti ad adorare ed amare Dio e ad esercitare la pietà. Se qualcuno insegnerà o crederà il contrario di questi decreti, sia anatema.

Se poi, contro queste sante e salutari pratiche, fossero invalsi degli abusi, il santo sinodo desidera ardentemente che essi siano sanz’altro tolti di mezzo. Pertanto non sia esposta nessuna immagine che esprima false dottrine e sia per i semplici occasione di pericolosi errori.

Se avverrà che qualche volta debbano rappresentarsi e raffigurarsi le storie e i racconti della sacra scrittura – questo infatti giova al popolo, poco istruito – si insegni ad esso che non per questo viene raffigurata la divinità, quasi che essa possa esser vista con questi occhi corporei o possa esprimersi con colori ed immagini.

Nella invocazione dei santi, inoltre, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini sia bandita ogni superstizione, sia eliminata ogni turpe ricerca di denaro e sia evitata ogni licenza, in modo da non dipingere o adornare le immagini con procace bellezza. Così pure, i fedeli non approfittino delle celebrazioni dei santi e della visita alle reliquie per darsi all’abuso del mangiare e del bere, quasi che le feste dei santi debbano celebrarsi col lusso e la morale. Da ultimo, in queste cose sia usata dai vescovi tanta diligenza e tanta cura, che niente appaia disordinato, niente fuori posto e rumoroso, niente profano, niente meno onesto: alla casa di Dio, infatti, si addice la santità (409).

E perché queste disposizioni vengano osservate più fedelmente, questo santo sinodo stabilisce che non è lecito a nessuno porre o far porre un’immagine inconsueta in un luogo o in una chiesa, per quanto esente, se non è stata prima approvata dal vescovo; né ammettere nuoivi miracoli, o accogliere nuove reliquie, se non dopo il giudizio e l’approvazione dello stesso vescovo. Questi, poi, non appena sia venuto a sapere qualche cosa su qualcuno di questi fatti, consultati i teologi ed altre persone pie, faccia quello che crederà conforme alla verità e alla pietà. Se infine si presentasse qualche abuso dubbio o difficile da estirpare o se sorgesse addirittura qualche questione di una certa gravità intorno a questi problemi, il vescovo, prima di decidere aspetti l’opinione del metropolita e dei vescovi della regione nel concilio provinciale. Comunque, le cose siano fatte in modo tale, da non stabilire nulla di nuovo o di inconsueto nella chiesa, senza aver prima consultato il santissimo pontefice romano”.

21 Cfr. F. Morante, Corso di Storia dell’Arte. L’età della Controriforma, www.francescomorante.it/cap_IV/IV.1.htm

22 Ibid.

23 Ibid.

24 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo I, Mondadori Electa S.p.A., Milano 2005, p. 15 e segg.; La Pinacoteca Ambrosiana – Catalogo a cura di Antonia Falchetti – Saggi di Angelo Paredi, Gian Alberto Dell’Acqua, Lamberto Vitali – Neri Pozza Editore, Vicenza 1969, p. 11 e segg.

25 Al momento dell’inaugurazione la Biblioteca contava 12.000 manoscritti e 30.000 opere a stampa. Tra il 1611 e il 1620 la Biblioteca viene ingrandita, su progetto di Fabio Mangone, incorporando altri edifici (Scuole Taverna che si spostano in via Santa Maria fulcorina, di fronte al Luogo Pio dell’Umiltà) e con la costruzione della Galleria delle statue e dei quadri, nasce il primo nucleo della Pinacoteca.Cfr.www.storiadimilano.it/repertori/cronologia_federigo/cronologia_federigo.htm; Per un’idea della cerimonia d’apertura della Biblioteca Ambrosiana, riportiamo le parole del Paredi: “Per l’apertura dell’Ambrosiana il card. Federico volle predisporre una celebrazione solenne e festosa. Qualcuno ritiene che nel voler fondare con tanta munificenza la sua libreria il card. Borromeo abbia voluto anche colmare una lacuna incresciosa per la sua città. Di fatti mentre Roma e Firenze e Venezia e Urbino e Cesena vantavano biblioteche ormai celebri, a Milano invece non c’era nulla o quasi. La grande libreria che i Visconti e gli Sforza avevano raccolto nel castello di Pavia, alla caduta di Lodovico il Moro nel 1499 era purtroppo emigrata in Francia. Forse anche per queste ragioni il card. Federico all’inaugurazione dell’Ambrosiana nel pomeriggio del 7 dicembre 1609, festa di sant’Ambrogio, invitò tanta gente come a una festa della città intera. Intervennero in tutta pompa alla funzione il senato, le magistrature, i dottori collegiati, tutti i primari della cittadinanza e del clero, con tale calca di gente che più non capiva non solo nella chiesa di san Sepolcro, in cui si celebrava la cerimonia, ma pure nella piazza e nelle vie che fiancheggiavano l’edificio”. A. Paredi, Storia dell’Ambrosiana, Neri Pozza Editore, Milano 1981, p. 16.

La documentazione relativa all’attività pastorale di Federico Borromeo è conservata presso l’Archivio della Curia Arcivescovile di Milano.

26 Nel febbraio 1603 gli Oblati di San Sepolcro rivolgono una supplica al Tribunale di Provvisione per ottenere alcune modifiche della piazza, finalizzate alla costruzione della Libreria, ossia la futura Biblioteca Ambrosiana, i cui primi disegni per la costruzione di un modello in legno furono eseguiti da Lelio Buzzi, il quale poi, l’anno successivo, abbandonerà l’incarico a causa di contrasti sorti sul progetto. I lavori iniziarono a giugno nell’area di tre case acquistate dal Cardinale. Cfr. http://www.storiadimilano.it/repertori/cronologia_federigo/cronologia_federigo.htm

27 B. Guenzati, Vita di Federigo Borromeo, a cura di Marina Bonomelli, Ambrosiana-Bulzoni, Città di Castello 2010, pp. 216-218.

28 Cfr. L. Fabbri, La figura… cit. I processi alle streghe furono molto numerosi durante il suo episcopato e dal 1599 al 1631 furono nove i roghi di rei di stregoneria, numerosi furono anche i casi di monache estatiche da lui dirette spiritualmente. Tutti argomenti noti e non pertinenti in questa sede. Per queste opere di Borromeo si vedano i lavori curati da Francesco di Ciaccia: Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum. Liber unus/ Fedrico Borromeo. Bulzoni, Roma 2006; De cognitionibus quas habent demone liber unus/Federico Borromeo, Ambrosiana – Bulzoni, Milano 2009; Manifestazioni demoniache/ Federico Borromeo, Terziaria, Milano 2001.

29 P. M. Jones, Federico Borromeo… cit., p. 28.

30 F. Borromeo, De Pictura Sacra, testo e versioni a cura di Carlo Castiglioni, introduzione di Giorgio Nicodemi, Milano 1932; F. Borromeo, De Pictura Sacra libri duo, Milano 1624, F. Borromeo, Della pittura sacra libri due, a cura di B. Agosti, Scuola Normale Superiore, Pisa 1994.

31 Settecento, in “AA.VV. Musei e Gallerie di Milano di Milano. Pinacoteca Ambrosiana, Mondadori Electa, Milano 2005, Tomo I, Introduzione, p. 20 e segg.

32 F. Borromeo, Musaeum, a cura di P. Cigada, Claudio Gallone editore, Milano 1997, p. 3.

33 Ibid. p. 5.

34 Ibid.

35 Cfr. AA. VV., Storia dell’Ambrosiana… cit., p. 326.

36 A. Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XXII.

37 Leges observandae. Pp. 1-2 anche in forma (Ms. Ambr. P 239 sup. foll. 3r-14r. Questa è la citazione della Jones, ma io non le vedo dove lei indica)

38 B. A., Ms. P 239 sup. c. 4r.-6r. Riportiamo parte del documento: “…vocatorum , et rogatorum, asserens quasdam aedes et loca proprijs impensis adornasse prope aedificium Biblithecae Ambrosianae per eum auctoritate Apostolica in Civitate Mediolani iuxta ecclesiam Sancti Sepulchri constructa, ad hoc ut in ipis Accademia erigetur ex peritioribus Architectis, Pittoribusque, et Sculptoribus […] sed in unaquaque imagine corporis habitus status et ornatus ad prothotypi dignitatem, et sanctitatem apte, et decore exprimatur, undetam in spectantium animis mirum in modum pietas axcitari solet, et ardens studium inflamari ad egregia Cristianae religionis facinora imitanda, quae litterarum ignaris ac rudioribus in picturis vel imaginibus legenda, et templanda exibetur. Tam auctoritate sua ordinaria, quam vigore sacri Concilij Tridentini, aliasqueomnibus melioribus modo, iure, via, causa, et forma, quibus melius, et validius fieri potuit et potest…”

39 Cfr. L. Beltrami, La Biblioteca Ambrosiana. Cenni storici e descrittivi con numerose tavole incise in legno di Ambrogio Centenari, Milano 1895, pp. 13-15; G. Galbiati, Itinerario per il visitatore della Biblioteca Ambrosiana della Pinacoteca e dei monumenti annessi, Biblioteca Ambrosiana, Milano 1951, p. 41; A Paredi, Storia dell’Ambrosiana, Neri Pozza Editore, Milano 1981, pp. 17-18.

40 Cfr. P. M. Jones, Federico Borromeo… cit., p 41 e segg.

41 AA. VV., Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento, Cariplo, Milano 1992, prefazione.

42 Riportiamo solo la parte centrale della prolusione del Professor Zuccari e non con le stesse sue parole, anche se simili, ma con appunti da noi presi, in quanto presenti all’evento.

43 B. A., F. Borromeo, Pro suis studiis, Ms. G 310 inf., n. 8, c. 252r-253r.

44 Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-arese_(Dizionario-Biografico)/

45 B. A., S.P.II 262, n. 7 e non 5 come erroneamente scrivono P.M. Jones e A. Rovetta  nelle opere citate.

46 A.S.M., Fondo Notarile, Cancelleria Arcivescovile, Filza n. 138, atto n. 39, Atto di donazione all’Ambrosiana della collezione del Cardinale Federico Borromeo, f. 1. Si veda anche B. A., S. P. II 262, fasc. n. 14, dove sono conservate due copie dell’Atto di Donazione: una con data del 28 aprile 1618, la seconda porta la data del 19 settembre 1905.

47 Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/girolamo-marchrsi_(Dizionario-Biografico)/

48 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 2.

49 Cfr., AA.VV., Musei e Gallerie di Milano… cit., Tomo I, p. 187.

50 Ibid., p. 323.

51 Ibid., p. 177.

52 Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-di-francesco-di-giovanni-del-cervelliera_(Dizionario –Biografico)/

53 Ibid.

54 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 2 e 3.

55 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 4.

56 Cfr. P. M. Jones, Federico Borromeo… cit, p. 343; AA.VV., Musei e Gallerie … cit., p. 315 e segg.

57 A.S.M., Atto di donazione… cit., f. 2.

58 B. A., Ms. S.P.II 262, fasc. n. 5.

59 Cfr. G. Bora, I Campi. Cultura artistica cremonese del Cinquecento, a cura di M. Gregori, Milano 1985, pp. 127-144.

60 Ibid., pp. 181-196; http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-campi_(Dizionario-Biografico)/

61 Cfr. L. Fabbri, La figura della Madonna… cit.

62 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano… cit., Tomo II, Milano 2006, pp.140-141.

63 Cfr. https://www.settemuse.it/pittori_scultori_europei/frans_francken.htm#ARTICOLO

64 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano… cit., Tomo II, pp. 140-141.

65 Ibid., Tomo I, pp. 311.

66 Ibid., Tomo I, pp. 310-312.

67 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano… cit., Tomo I, p. 352 e segg.

68 AA.VV., Mesei e Gallerie di Milano… cit., Tomo I, pp. 348-350.

69 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano… cit., Tomo III, Milano 2007, p. 205-206.

70 Ibid., pp. 259-260.

71 A.S.M., Atto di donazione…cit., f. 3.

72 Cfr. M. Navoni, L’attività artistico-culturale e i rapporti con la città, in “Storia dell’Ambrosiana. L’Ottocento, Milano 2001, pp. 250-251.

73 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano… cit., Tomo II, pp.319-320.

74 Ibid. Tomo I, pp. 312-313.

75 B. A., Ms. A 357 inf., foll. 92-99.

76 Cfr. AA. VV., Musei e Gallerie di Milano… cit., Tomo II, pp.324-325.

77 B. A., Ms. A 357 inf, foll. 92-99.

78 Ibid., pp. 325-326.

79 B. A., Ms. S.Q.+.II.35.

80 Cfr. B. A., Ms. R 180 inf. (S. Q. +. II. 35), B. Guenzati, Biblioteca Ambrosiana: inventario delle scritture in genere, pitture sculture, medaglie, argenti, legnami e altri mobili (eccettuatine i libri), 1685; AA. VV., Musei e Gallerie di Milano… cit., Tomo I, pp.219-220.

81 Cfr. AA. VV., Musei e Gallerie di Milano… cit., Tomo III, pp. 138-139.

 

L’UNIVERSO IN UNA STANZA: MANFREDO SETTALA E L’AMBROSIANA

Loredana Fabbri

 

                                                                                                                       “Niuna cosa entra ad abitar nel palagio

                                                                                                                   dell’intelletto che passata non sia per la porta

                                                                                                                                       necessaria dei sensi”

                                                                                                                                        (Manfredo Settala)

manfredo_ritratto

A mia madre

Il secolo XVI fu segnato da gravi contrasti religiosi, conseguenza della Riforma iniziata da Lutero nel 1517, contrasti che divisero l’Europa a metà e costrinsero la Chiesa cattolica a rivedere le proprie strutture e la propria condotta: la parte centrosettentrionale protestante e quella meridionale cattolica, con notevoli conseguenze non solo di carattere religioso, ma anche sul piano culturale e sociale, lo scontro di potere poi determinò un clima ostile e conflittuale, combattuto soprattutto con le armi dell’Inquisizione. Tale situazione si aggravò ulteriormente nel 1563, alla conclusione del Concilio di Trento, che tredici anni prima era stato convocato per cercare di ricostituire un’intesa tra cattolici e protestanti, divenendo però il centro della nuova ideologia della Chiesa di Roma, la quale dava una risposta alla Riforma protestante.

Il Cinquecento fu un secolo drammatico e pieno di contrasti: dalla mutazione dei valori per la religione, la politica, il pensiero filosofico e scientifico, l’arte, scaturiscono le idee sulle quali si fonderà la struttura culturale dell’Europa moderna. La religione non è più vista come la rivelazione di verità eterne, ma come ansiosa ricerca di Dio nell’anima umana; non esiste più l’obbedienza ad una autorità, ma una scelta che comporta la consapevolezza dell’uomo di fronte a Dio; allo stesso modo, la nuova scienza non è più vista come l’unica sapienza fondata e tramandata sull’autorità delle antiche Scritture, ma come indagine della realtà; in politica non prevale più l’affermazione di una gerarchia di poteri che derivano da Dio, ma un conflitto di forze in cerca di un equilibrio temporaneo. L’arte non è più osservazione e riproduzione dell’ordine del creato, ma ansiosa ricerca della propria natura, della ragion d’essere e dei propri fini: non ha più senso rappresentare nell’arte la forma dell’universo se questa è sconosciuta ed oggetto d’indagine, come non ha senso contemplare l’armonia del creato se Dio non si trova là, ma nell’interiorità dell’anima che combatte per la propria salvezza. Il metodo della ricerca e dell’esperienza scientifica, l’atteggiamento verso Dio, la disciplina della vita religiosa ed anche l’arte nel suo attuarsi fanno parte di questi comportamenti umani, che concorrono alla salvezza spirituale ed è proprio questo il problema di questo periodo: l’atteggiamento antropico, il rapporto tra individuo e Stato riflette quello tra uomo e Dio, se per i protestanti ciò che lega l’uomo a Dio è la grazia (e non si può far niente per ottenerla), per i cattolici, invece, Dio ha predisposto i mezzi per la salvezza e se la storia è il percorso compiuto dall’umanità verso la salvezza, bisogna proseguire su questa strada senza fermarsi. La cultura è una delle vie di salvezza, ma tutti gli uomini hanno il diritto al salvarsi, non solo i dotti, allora bisogna che la cultura arrivi in tutti gli strati sociali, che ogni lavoro anche quello più umile abbia un’origine culturale e un fine religioso, il lavoro dell’artista, dell’artigiano e dell’operaio non deve essere fine a se stesso, ma “ad maiorem Dei gloriam”, e sarà proprio su questi ultimi principi che Federico Borromeo fonderà prima la Biblioteca Ambrosiana il 7 settembre 1607, che sarà inaugurata nel 1609, poi la Pinacoteca il 28 aprile 1618 che Federico doterà con la donazione della sua collezione di pitture e disegni, creata in vista della costituzione dell’Accademia del Disegno a compimento e integrazione della Biblioteca, che doveva servire da esemplare e sostegno economico ad una futura “Accademia di Belle Arti”, finalizzata alla formazione e all’educazione del gusto estetico in conformità alle disposizioni del Concilio di Trento. Nel 1621, dunque, fu creata la nuova istituzione, il cui primo Presidente fu il pittore Giovan Battista Crespi, detto il Cerano. All’Accademia aderirono pittori e scultori famosi e nel periodo iniziale ebbe vita fiorente, ma nel 1776, dopo un periodo di progressiva decadenza, cessò di esistere e confluì nell’Accademia di Brera.[1]

Il Seicento, conseguentemente, è il secolo delle crisi e delle contraddizioni, l’uomo, dopo i profondi rivolgimenti del Cinquecento, non presenta un’unità spirituale, politica, religiosa e sociale, ma è travagliato da molteplici e contraddittorie richieste, da passioni e impulsi che ne frantumano la vita nei più opposti atteggiamenti, ciò nonostante egli cerca un ordine, un’unità ed un equilibrio, quando non ci riesce cede alla sensazione, all’istinto. Nel campo filosofico si dibatte tra empirismo e razionalismo, tra meccanicismo e finalismo; in quello scientifico tra Tolomeo e Copernico, tra Aristotele e Galilei, tra il principio di autorità e lo sperimentalismo. In ambito artistico prevale il Barocco, emblema della crisi di sensibilità e trionfo dell’irrazionale (una rivoluzione culturale in nome dell’ideologia cattolica); il contrasto tra ragion di stato e libertà, tra giusnaturalismo e contrattualismo domina nella dottrina politica, mentre nella religione infuriano le lotte tra cattolici e calvinisti, tra intolleranti e giansenisti. Il Seicento è anche il secolo dell’espansione coloniale degli Stati Europei, il periodo del grande sviluppo commerciale e capitalistico dell’Europa occidentale nel mondo: il centro economico si sposta dal Mediterraneo alla Manica e al Mare del Nord, dall’Italia e dalla Spagna all’Inghilterra e all’Olanda, dove si afferma e domina il capitalismo commerciale che sfocerà nel liberismo, in contrapposizione alle senescenti teorie della Riforma e della Controriforma. L’Italia, chiusa nel dominio spagnolo, affermato con la pace di Cateau Cambrésis, non partecipa alle grandi mutazioni spirituali e politiche dell’Europa, ma come disse Francesco De Sanctis rimase: <<estranea a tutto quel movimento di idee e di cose da cui uscivano le giovani nazioni d’Europa>>. Giudizio cui si oppose Benedetto Croce sostenendo che pur non potendo negare la complessa e generalizzata crisi che interessò l’Italia in quel periodo, non ne addossò la colpa al malgoverno spagnolo, ma al fatto che se l’Italia non fu in grado di reagire, ciò fu la dimostrazione che quella italiana era <<una decadenza che si abbracciava a una decadenza>>. La Spagna controllava direttamente la metà della penisola, avendo il suo dominio sul ducato di Milano e i regni di Napoli, Sicilia, Sardegna e su molti altri Stati italiani, estranei alla sua diretta autorità, ma gravitanti nella sua sfera di controllo; ciò che nel passato era stato florido e ricco s’isterilì, le mutate condizioni del regno di Napoli furono una palese dimostrazione e quelle decadenti della Lombardia furono eccellentemente descritte nelle pagine dei “I Promessi Sposi”, dove Manzoni ci fa toccare con mano l’ipocrita superbia di un governo che fa le leggi, ma non sa o non vuole farle rispettare, dove il particolarismo è regola e la prepotenza diventa giustizia.

E’ questa l’età in cui operano i due Borromeo ed è in questo periodo che a Milano vive il carismatico Lodovico Settala, discendente della casata che prende il nome dal toponimo dell’omonimo borgo, situato ad est di Milano, feudo dei Settala fin dal secolo IX, anche se la famiglia faceva orgogliosamente risalire le proprie origini a San Senatore, Arcivescovo di Milano intorno al 477.[2]  La casata annoverava anche un Passaguado Settala, il quale fu tra coloro che nel 1171, dopo la distruzione di Milano ad opera del Barbarossa, costruirono le nuove mura della città; nel 1213 papa Innocenzo III nominava Arcivescovo di Milano Enrico Settala e con Manfredo, morto verso il 1210, la nobile famiglia vantava anche un beato, Lanfranco, agostiniano e vissuto nel XIII secolo, apparteneva alla suddetta famiglia, e fu fondatore della Chiesa e Convento di San Marco in Milano, dove tutt’oggi si può vedere la sua tomba, opera di Balduccio da Pisa.[3]  Fecero parte della casata, dunque, uomini di Chiesa, di toga, di spada, ma è con il giureconsulto Lodovico, insegnante presso l’Università di Pavia e vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo che ebbe inizio la ricca biblioteca di casa Settala, dando luogo a quel vasto interesse culturale, peculiare degli uomini del Rinascimento italiano, che troverà la piena manifestazione, nell’ambito di questa famiglia, nel protofisico Ludovico e in Gerolamo, suo fratello, ma soprattutto in Manfredo, figlio di Ludovico.[4]

Lodovico Settala nacque a Milano il 7 febbraio 1552, fu allievo dei Gesuiti della stessa città, dove compì i primi studi, a sedici anni sostenne la tesi di fisica, a venti si laureò in medicina all’Università di Pavia. L’anno successivo venne iscritto al Collegio medico di Milano e per un periodo di tempo insegnò medicina presso l’ateneo pavese, insegnamento che lasciò per dedicarsi alla professione privata nella sua città.[5] Gli studi su Galeno, Aristotele e Ippocrate lo portarono ad allargare i propri orizzonti culturali, occupandosi di filosofia, di morale e di letteratura. Durante la peste del 1576, si prodigò insieme a Carlo Borromeo per la prevenzione e il soccorso (Durante questa epidemia, Ludovico fu eletto a deputato per il quartiere di Porta Orientale per le sue conoscenze di pubblica igiene, nel quale ufficio dette importanti disposizioni igienico-sanitarie per l’assistenza dei malati): ciò dette modo a Lodovico di trarne fonti per la realizzazione di opere scientifiche ed anche una grande esperienza, che sarà preziosa durante la nuova epidemia di peste del 1630, quando la sua opera sarà ancora necessaria nonostante la tarda età.[6] Di lui scrive il Manzoni: << Il protofisico Lodovico Settala, che, non solo aveva veduto quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovanissimo, sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come nella terra di Chiuso, era scoppiato indubitalmente il contagio.>> Ed ancora: <<Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di medicina all’università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d’altre università, Ingolstad, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza s’aggiungeva quella della vita, e all’ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficiare i poveri.>>[7]

Alla fine del XVI secolo e l’inizio del XVII, la nascita di “nicchie” di potere costituite dalle famiglie più importanti di Milano permette a Ludovico di prendere il controllo delle cattedre mediche dell’Università di Milano ed altre importanti cariche, quando Ludovico ricopriva la carica di protofisico, che, come dimostra il racconto di Manzoni, gli permise di ottenere un grande credito presso le autorità cittadine e, nonostante l’età avanzata, fu considerato all’avanguardia rispetto agli altri medici del tempo, proprio per questo fu accusato dal popolo di voler terrorizzare i cittadini milanesi a causa delle sue teorie sui rischi del contagio. Ludovico Settala ebbe un forte legame con l’arte e stretto fu il suo rapporto con il pittore Daniele Crespi, che è il personaggio maggiormente menzionato nelle sue relazioni scientifiche, infatti, oltre a commissionargli i ritratti dei membri della famiglia, Crespi assisteva come illustratore alle indagini scientifiche per la scoperta e lo studio dei vasi linfatici che Ludovico effettuava insieme al figlio Senatore, anche lui medico, e a Gaspare Aselli, nel 1623 circa; chiamato, come altri, non solo per approfondire la sua conoscenza dell’anatomia con osservazioni dal vero, ma principalmente per rilevare puntualmente ciò che veniva scoperto durante le dissezioni effettuate su animali.[8]. <<Conferma di questo impegno sono le tavole, pur non firmate, che accompagnano il celebre testo a stampa che presenta per la prima volta al pubblico con immagini la scoperta del sistema linfatico. L’opera da considerarsi la prima in cui vennero realizzate puntuali illustrazioni anatomiche stampate in xilografia a quattro colori, fu pubblicata dopo la prematura morte di Aselli, avvenuta nel 1625, per cura dello stesso Senatore e del collega Alessandro Tadino, pochi anni dopo importante referente per i rilevamenti dei casi di peste nel territorio lombardo. Si metteva così in pratica quella sperimentazione scientifica diretta di cui Galileo era da tempo convinto, e forse il più noto, assertore che includeva osservazione, determinazione del problema, formulazione dell’ipotesi, verifica sperimentale delle ipotesi formulate, raccolta dati a cui, in questo caso, prendevano parte anche pittori e miniatori, elaborazione dei risultati e loro pubblicazione>>.[9]

Le scoperte geografiche compiute tra la fine del XV e durante il XVI secolo fecero conoscere agli studiosi europei una grande varietà di animali e vegetali esotici, il cui studio doveva essere svolto solo con l’osservazione diretta, tutto ciò evidenziò che le nozioni tramandate dagli antichi non sempre potevano dare spiegazioni esaustive, con il conseguente progressivo abbandono della cieca fiducia nei testi classici. Il nuovo metodo, introdotto da Galileo Galilei, basato sulla verifica sperimentale, era ormai divenuto il fondamento della scienza moderna. L’osservazione diretta divenne un procedimento sempre più utilizzato e l’abbandono dei riferimenti classici furono favoriti anche dall’invenzione di strumenti come il cannocchiale e il microscopio, rendendo accessibili campi di indagine molto estesi e completamente sconosciuti dagli antichi. La necessità dello studio dal vero favorì anche la formazione di collezioni scientifiche: nacquero gli erbari, vere e proprie raccolte di piante disseccate, nel settore zoologico si sviluppò la tassidermia,[10] che tutt’oggi rappresentano un grande patrimonio scientifico dei musei di storia naturale.[11]

Ludovico Settala, grazie ai suoi eclettici interessi, si rendeva perfettamente conto del valore del proprio patrimonio, che comprendeva, tra gli altri oggetti, l’eccezionale raccolta di circa diecimila volumi iniziata dai suoi avi e aiutato dal fratello Gerolamo, quindi, nel suo testamento, redatto nel giugno del 1632, istituì un fedecommesso in favore dei figli maschi, che veniva esteso anche alla nascente Galleria del figlio Manfredo.[12] Ludovico morì il 12 settembre 1633 a Milano, lasciando diciotto figli, di cui solo uno seguì la carriera medica come il padre.[13]

L’arte del XVII secolo, affonda le sue radici nella cultura aristotelica, che rimase al centro della coscienza intellettuale europea dalla fine del Trecento a tutto il Seicento e a buona parte del secolo successivo, pur rappresentando l’ortodossia dominante, fu avversata da molti e considerata una filosofia pagana non conciliabile con il pensiero cristiano, quindi, a partire dal XVI secolo, si affermarono nuovi sistemi filosofici contrari alla visione aristotelica del mondo. Nel Seicento, un nuovo metodo sperimentale si prefiggeva di indagare le scienze e di rinnovarle profondamente (Francis Bacon), Cartesio espone le proprie opinioni sull’indagine scientifica. Il nascere di varie forme di atomismo e meccanicismo, offrono una visione alternativa a quella aristotelica, le spiegazioni matematiche sulla Natura, le nuove interpretazioni dello spazio contraddicevano quelle aristoteliche, arrivando al superamento della distinzione tra naturale e artificiale, tra celeste e terrestre. Galileo è un poco l’emblema di questa nuova mentalità, che considera la storia e l’autorità poco o nulla. L’arte, nella concezione barocca, non ha lo scopo di imitare e riprodurre la natura, ma quella ri-crearla: l’artista barocco ingaggia una gara con la natura e affida alle sue opere il compito di mostrare la sua abilità creativa. Nasce il gusto di collezionare oggetti particolari come ad esempio gli “ushabti”, che facevano parte di quella cultura magica, sacrale del tempo, anche se la funzione di tali oggetti è ambigua e non appare chiara: un mobile impreziosito da intarsi e gemme preziose ha funzione di contenitore o è apprezzato per le sue decorazioni? L’oggetto esotico incuriosisce e incuriosiscono molto anche i materiali usati, c’è una ricerca ed amore per il minuscolo, il “miniaturistico” e, soprattutto, per i materiali preziosi usati.[14] Anche gli animali imbalsamati fanno parte di tali collezioni, ma tra il 1520 e il 1720 si è capito quello che prima sembrava una fantasia bislacca è verità e questi animali esistono nella collezione Settala: non c’è più la dimensione della Wunderkammer, l’animale viene ora studiato e viene imbalsamato, cogliendone la cinesi. Sulle volte dei grandi palazzi vengono dipinti i pianeti: il mondo di tenebre è ora squarciato dalla luce che viene dal cielo, dall’alto. Quello che accomuna ciò che abbiamo vissuto è il rapporto tra Natura, opera di Dio che mette nelle mani dell’uomo, e cultura.[15]

Nell’Europa del Cinquecento e del Seicento cresce, dunque, l’interesse per la raccolta di reperti naturalistici, che sono presenti anche in collezioni dell’uomo di lettere, nel cui “studiolo” si potevano vedere anche “naturalia” accanto ai ritratti di uomini illustri, raccolta di medaglie e strumenti scientifico-matematici, ed è per questo fenomeno di gusto per la raccolta amatoriale che si diffusero, anche se tra persone di alto livello sociale, le Wunderkammern, in cui i reperti naturalistici raramente vengono conservati allo stato originale, ma vengono impreziositi con montature artistiche che esulano dalle esigenze scientifiche, frutto di un collezionismo particolare, effettuato dalle classi dominanti e preordinate (anticipate) dalle “Collectanea rerum memorabilium” del mondo antico (Posidonio, Plinio, il De mirabilius auscultationibus pseudo aristotelico), tardo-antico (Solino, Pomponio Mela, Cosma Indicopleuste) e dalle enciclopedie medievali (dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia agli Specula di Vincenzo di Beauvais), ma caratterizzate dal senso pragmatico e dall’esigenza sperimentativa e autoptica della conoscenza moderna. Con l’arrivo della modernità, collezionare naturalia, cioè oggetti provenienti dalla natura e mirabilia o artificialia, ossia prodotti dalla natura, ma manipolati e artisticamente definiti dall’artefice,  significa realizzare l’aspirazione di ricostruire l’universo in una stanza: la Wunderkammer diventa un modo per viaggiare senza muoversi, un luogo capace di restituire una visione panottica e sincronica della poliedrica pluralità del creato: Wunderkammer è un termine tedesco, traducibile con “stanza delle meraviglie”, le prime importanti Wunderkammern nascono nel Nord Europa e si sviluppano soprattutto nella metà del secolo XVI, quando nella pittura emerge il gusto prezioso ed eccentrico del manierismo.[16] In molte raccolte erano presenti anche oggetti con valore apotropaico, usati particolarmente per prevenire l’azione dei veleni. Molto famose erano le raccolte dell’arciduca Ferdinando del Tirolo, dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, del re di Danimarca Cristiano IV, di Federico Augusto il Forte, principe elettore e sovrano di Polonia, a Milano famosa fu la “chambre des meravilles” del canonico Manfredo Settala, a Verona quella di Francesco Calzolari, quella di Anna Maria Luisa de’ Medici, principessa elettrice del Palatinato, a Roma, presso il Collegio Romano quella, ancor più famosa, dell’erudito olandese, amico del Settala, Athanasius Kircher.[17]

L’uomo di questo periodo vuole soddisfare quella sete di conoscenza della totalità dell’esistente che è in lui, ma non trova una spiegazione nella teologia e non è ancora soddisfatta dalla scienza, incuriosito dalla scoperta di nuovi mondi e dai resoconti di queste terre lontane, è fortemente stimolato all’osservazione diretta e alla classificazione della realtà naturale ed proprio questo il clima in cui vengono concepite e prolificano le “collezioni di meraviglie”.

Nella Wunderkammer del ‘500 e ‘600 il contenuto scientifico delle raccolte naturalistiche non era ancora separato dall’aspetto artistico-estetico: l’interesse per i reperti naturalistici derivava, in gran parte, da tutto ciò che appariva insolito, mostruoso, fuori dal comune (gemelli siamesi, strani incroci tra esseri umani animali e vegetali), dando luogo a collezioni stravaganti, spesso frutto di assemblaggi ed alterazioni dei soggetti. Questo collezionismo enciclopedico, che anche in Italia ebbe molta fortuna in epoca rinascimentale, permise, la raccolta di materiali curiosi, eterogenei, che furono l’origine dei moderni musei. Vennero creati dispositivi per definire confini ed estensioni, per determinare posizioni di astri, che furono abbelliti e decorativa materiali preziosi e raffinate incisioni, divenendo più strumenti da “vedere” che da “usare”.[18]

Manfredo Settala nasce l’8 marzo 1600 a Milano, ma nonostante la notorietà del personaggio, mancano le notizie sulla sua infanzia ed adolescenza: di grande importanza fu la visita che effettuò, all’età di quindici anni, presso la corte dei Gonzaga a Mantova, dove il giovane poté ammirare una grande quantità di strumenti scientifici e di rarità naturalistiche che non potevano non destare in lui curiosità e fascino.[19] Il periodo universitario fu molto importante per la sua formazione: dopo gli studi di lettere, retorica e filosofia, a ventun anni si laureò in giurisprudenza all’Università di Pavia, trasferitosi in Toscana, si dedicò agli studi della scienza e della sperimentazione presso gli atenei di Pisa e di Siena, in quest’ultimo ebbe l’occasione di frequentare le lezioni insieme a Fabio Chigi, il futuro papa Alessandro VII, di cui divenne amico, mentre a Pisa frequentò lo Studio pisano, dove venne a contatto con l’ambiente scientifico e soprattutto con la matematica e l’astronomia, che Manfredo continuerà a coltivare: ne sono un esempio le lenti e gli strumenti ottici da lui costruiti.[20] Terminati gli studi, nonostante le difficoltà economiche in cui si trovava la famiglia, partì per un viaggio in Oriente, che iniziò nel 1622, quando riuscì a convincere il padre a trovargli raccomandazioni e denari per realizzare questa sua aspirazione: partì prima per la Sicilia, imbarcandosi sulle galere dei Medici, da qui arrivò a Costantinopoli, dove soggiornò per circa un anno, poi proseguì il suo viaggio lungo le coste dell’Asia Minore e a Cipro, fece ritorno nel 1629 sbarcando nel porto di Livorno e proseguendo poi per Milano carico di materiali naturalistici e dati etnografici raccolti durante questi anni e definiti da lui stesso “turcheschi”.[21]

E’ del 21 novembre 1629 la lettera che il padre Ludovico scrive a Manfredo, biasimandolo per la sua condotta mondana in contraddizione con la vita ecclesiastica che lui stesso aveva scelto senza esserne costretto, ricevendo il diaconato il 18 marzo 1628 dal Cardinale Federico Borromeo,[22] evidentemente Manfredo non ricevette la missiva o perlomeno non rimase molto scosso dall’accorata lettera paterna, poiché Ludovico ripeté, calcando di più la mano, gli stessi rimproveri in un’altra lettera datata 30 dicembre 1629: <<Acciò più non vi venisse in pensiere che havendovi mandato con Carlo a Pisa vi havessi mandato in esilio, vi scrissi una longa lettera paterna alli tanti di novembre, la quale spiacemi non esservi capitata, però con questa di nuovo suplisco, esortandovi a riceverla con affetto figliale, come so, che viene da Padre amorevole zelante del ben vostro dell’Anima, del Corpo e dell’amore. Sapete che Carlo era desideroso di andare a Pisa a Studio e che io quasi vi era condisceso, ma ritiratomi per la mia infirmità e scarsità di denari per la puoca corrispondenza delle entrate quasi a niente ridotte per la guerra, tempeste di due anni et infiniti altri infortunii, ma li sospetti crescenti di peste mi fecero mutare pensiero et essendomi ricordato che tante volte haveva sentito da voi che in simile caso havereste fuggito in coteste parti ancora senza denari, pensai in uno medesimo colpo sodisfare ad un vostro desiderio, dar compagnia pratica a Carlo et assicurar due figlii da li pericoli della peste, facendo forza alla mia debole borsa se ben questo fu il primo motivo è però vero vi erano molte altre cose, che a ciò invitavano. Vi vedeva prima in abito ecclesiastico sì, ma smezzato, al quale però sapete da me non essere stato promesso, ne havendo scorto in voi quello che si ricerca a tale habito: vedeva in fatti da poi non corrispondere non attendendo pure un pocho alle attioni ecclesiastiche, ne apena sapendo le cose a ciò pertinenti fin da secolari sapute: non si frequentavano li Sacramenti, i digiuni dovuti, o non vi erano, o in tutto imperfetti. Ma nelle cose secolari vedeva che eravate arrivato all’età di trent’anni, ne pure pensare a fatti nostri e al fine sapete la povertà della Casa, le entrate andare in niente per l’età e infermità mia poco poter guadagnare, e meno durare, e perciò bisognar pensare a fatti suoi, a niente impiegarsi di utile, mandandovi fuori forsi vi sarebbe venuto pensiere di mettervi a qualche servitù. Ma se ciò non fosse seguito, sperava almeno, che restando fuori un puoco sarebbe seguito alcun altro bene, prima che vi haverei levato da pratiche domestiche, che a me et a vostro zio passavano il cuore, e per l’anima, e per l’honore, e quel che più noi pensavate ciò farvisi sapere da nostra madre: essendo al incontro da ogn’altra parte fattosi sapere: questo era il principale, che ci moveva ad absentarvi al quanto, perché il tempo e l’absenza raffredda tal passione. Con questa peregrinazione, ancora che a me dispendiosa, sperava ancora oltre le cose dette, alle quali facendo riflessione sperava dover intravenire qualche mutazione et emendazione, essendo che ancora in Casa vi era che emendare, così dal essere troppo fastidioso con la servitù, e in altre cose, non vi spiaccia che da un vostro amorevole padre, al quale conosceva che molto vi era al cuore il non darli disgusti, siate di questi vostri diffetti ammonito, che pure so che la natura bona riceve da man destra, e non da mano sinistra e che mancho si arossisce legendo che sentendo le parole. Desidero però che in voi faccino buona impressione, sicuro che vengono da padre, che altro non desidera che il vostro bene. Assicurandovi ancora che quando pure non vi piaccia farvi a servitù con alcuno, potrete ritornare a casa, ricordandovi della povertà di Casa e della quiete dell’animo, del corpo e della conservazione dell’honore di questa nostra Casa da me pure a tal stato ritornata, ma fratanto costì vi trattenerete con quella maggior ritiratezza nelle spese, che fia possibile in questi tempi tanto calamitosi e carestiosi, finché si vegga a che termine questa peste che ci circonda, ancor che fin qui nella Città si siamo diffesi, nel che a me tocca una buona parte per il carico di Protomedico. Iddio Nostro Signore vi prosperi e facci che questa mia vi sia profittevole: la ricevuta della quale desidero, che con una vostra accusiate. Milano 30 dicembre 1629. Vostro amorevole padre Lodovico Settala>>.[23]

Questa, come pure l’altra lettera del 21 novembre ci mettono a conoscenza dei rapporti non sempre facili intercorsi tra Ludovico e Manfredo, ma dalle missive apprendiamo anche una nuova permanenza del figlio a Pisa per accompagnare il fratello minore Carlo, il quale svolgeva i propri studi presso l’Università di quella città e l’amore paterno per allontanare i due figli da Milano, dove l’epidemia della peste mieteva numerose vittime. Ma dal tenore delle lettere traspare anche la preoccupazione del padre per il futuro di Manfredo, che a trent’anni non aveva ancora trovato una stabilità sociale ed economica, nonostante avesse accettato il diaconato l’anno precedente, Ludovico non lo riteneva idoneo per la carriera ecclesiastica a causa del suo comportamento morale non adeguato, che oltre a lui stesso, recava danno all’immagine della famiglia e a quella dello zio Gerolamo, canonico ordinario del duomo di Milano. Il padre, infatti, suggerisce a Manfredo una sistemazione presso una corte principesca.

Nel 1630, il Cardinale Federico Borromeo concesse a Manfredo il canonicato di San Nazaro in Brolo, come si può vedere dallo “status personalis”,[24] basilica nelle vicinanze del palazzo paterno, carica che l’Archimede milanese, come verrà soprannominato più tardi dal suo amico Pietro Paolo Bosca, Prefetto dell’Ambrosiana,[25] manterrà per tutta la vita, assicurandogli una rendita vitalizia che gli avrebbe permesso di dedicarsi interamente alla sua collezione e ai suoi studi.[26]

Nello stesso anno, Ludovico morì colpito dalla peste e, alla morte del padre, Manfredo si trovò da solo a curare e ad arricchire le raccolte dei Settala, anche se Lodovico, con suo testamento del 5 giugno 1632, aveva lasciato con fidecommesso tutte le collezioni ai quattro fratelli Antonio, Senatore, Manfredo e Carlo Andrea.[27] I primi due morirono dopo poco tempo e l’ultimo, minore di Manfredo, abbracciò la carriera ecclesiastica, lasciando al fratello la libertà di occuparsi sia della biblioteca paterna sia delle raccolte scientifiche. Comincia così l’attività frenetica di Manfredo con contatti con la corte fiorentina dei Medici e con i maggiori esponenti dell’ambiente scientifico toscano, allora all’avanguardia e tra i più importanti d’Europa.[28] Dagli editori europei arrivavano al palazzo di via Pantano, dove abitava il Canonico, numerose casse di volumi richiesti da lui, ebbe frequenti contatti con missionari, soprattutto Gesuiti, i quali gli fornivano notizie e materiali da paesi molto lontani: partecipò assiduamente alla vita sociale e culturale di Milano, dove aveva occasione di incontrare personaggi famosi e di alto rango che lo onoravano della loro amicizia.[29] Manfredo era dotato di un’abilità manuale fuori del comune: lavorava molto bene al tornio e tanti oggetti del suo Museo furono modellati da lui, usando materiali come il legno, l’avorio, il vetro, il quarzo e vari metalli, il suo laboratorio era situato in alcuni locali della Basilica di San Nazaro in Brolo, dove egli era canonico e dove forgiava scatole, lenti per microscopi, coppe, congegni meccanici, strumenti di fisica, astrologia. Non mancava la pratica di esperimenti chimici e la distillazione di essenze ed olii.[30] La fama della sua Galleria cresceva sempre di più e personaggi famosi come Anna Maria d’Austria, Cosimo III di Toscana, Giovanni Rucellai ed altri gli facevano visita per ammirare i lavori dell’”Archimede di Milano” come veniva chiamato il Settala. Dopo i numerosi viaggi giovanili, Manfredo sembra che raramente abbia lasciato Milano, ad eccezione della visita a Roma nel 1665, quando fu eletto papa Fabio Chigi, con il nome di Alessandro VII, suo compagno di studi e amico. Durante il soggiorno nella Città eterna, ebbe modo di frequentare il gesuita Atanasio Kircher, con il quale Manfredo era già in contatto epistolare e rappresentava per lui un interlocutore valido e autorevole, poiché il religioso si interessava alla tecnica di strumenti ottici e ai fenomeni inerenti le scienze naturali, inoltre gli era stata affidata la cura del futuro Museo Kircheriano, presso il Collegio Romano della Compagnia di Gesù. Al suo ritorno a Milano, Manfredo affidò a Paolo Maria Terzago, fisico collegiato, la redazione di un catalogo ragionato di tutto ciò che conteneva la sua Galleria, l’opera, scritta in latino, quindi non accessibile a tutti, comprendeva sessantasette capitoli e descriveva tutti gli oggetti che costituivano il Museo ed era corredata da sette brevi trattazioni monografiche sui cristalli, coralli, conchiglie fossili, agate, ambra, magnete naturale. Tra l’enorme quantità di materiale raccolto da Manfredo c’era anche un meteorite recuperato da una gamba di un frate del convento di Santa Maria della Pace di Milano, ucciso dalla caduta della <<Pietra del fulmine qual amazò un frate zoccolante>>,[31] l’opera fu pubblicata a Tortona nel 1664, avvalendosi Manfredo dell’aiuto del fratello Carlo Andrea, Vescovo di quella città.

Manfredo era in contatto con molti studiosi di tutta Europa, con i quali intratteneva una copiosa corrispondenza e in una di queste lettere, scritta il 1 agosto 1667 a Henry Oldenburg della Royal Society di Londra, società scientifica di grandissimo prestigio, Manfredo scrive: <<…sub Mediolanensi coelo Pallas potius ut Bellona excolitur quam ut scientiae diva veneratur. Desunt naturalia profitentibus Maecenates, Magnatesque accumulandis opibus, non illustrandae naturae desudant. Sagatior non qui libros plurimos, sed libras innumeras congesserit>>.[32] Ossia che sotto il cielo di Milano, Pallade è più onorata come dea della guerra che venerata come dea della scienza. Mancano i mecenati interessati alle cose della natura e i potenti si affaticano ad accumulare ricchezze, non ad illustrare la natura. Non è più sagace chi ha accumulato il maggior numero di libri, bensì moltissime libbre. Insomma pare proprio che Manfredo si lamentasse dei cittadini milanesi per la poca considerazione che avevano per lo sviluppo della scienza, preferendo gli affari economici.[33] Ma solo due anni dopo la pubblicazione dell’opera di Terzago, i milanesi sentirono il bisogno di un’edizione italiana del catalogo, con un contenuto dal tenore più divulgativo, per venire incontro alle richieste di molti interessati all’argomento, smentendo in tal modo le lamentele del Settala.[34] La redazione italiana del catalogo fu affidata a Pietro Francesco Scarabelli e fu stampata sempre a Tortona nel 1666, un’altra edizione vide la luce sempre nello stesso luogo nel 1677, questo fa supporre che l’opera in italiano dello Scarabelli ebbe un vasto consenso ed è in questa seconda edizione che viene inserita la famosa incisione di Cesare Fiori dalla prospettiva infinita, dove si può “abbracciare” il contenuto della stanza, infatti gli oggetti coprono tutta la superficie comprese le pareti e il soffitto, si può indovinare il contenuto dei cassettini, delle urne e ciò che si nasconde dietro i drappi, creando nello spettatore l’incredulità e la tentazione ad entrare per scoprire tutti i tesori della Galleria. L’opera di Cesare Fiori rappresenta il Museo di Manfredo molto idealizzato, poiché le fonti ci informano che era ripartito in quattro stanze.[35]

Manfredo morì il 6 febbraio 1680 e proprio con le sue esequie, in cui furono esposti gli oggetti più curiosi della sua Galleria, cominciò quel lento declino che porterà il Museo ad una quasi estinzione. Sei giorni dopo ebbe luogo un sontuosissimo funerale nella basilica di San Nazaro, dove fu apprestato un fastoso catafalco, secondo l’uso barocco del tempo, addobbato con moltissimi oggetti appartenenti alla Galleria, a cui, la maggior parte di essi, non fecero ritorno.[36] Per onorare il defunto, anche presso il Collegio dei Gesuiti a Brera fu organizzata una specie di rappresentazione teatrale, in cui vennero portati in processione vari e significativi pezzi della Collezione che non furono più restituiti.[37] Ancora più pomposa fu l’omelia pronunciata dal gesuita Giovanni Battista Pastorini: <<Nato da così chiari Maggiori il Signor Manfredo Settalasi tenne obbligato a render sua con l’opere la gloria a lui tramandata col Nome, anzi giudicò, che foosse debito di gratitudine aggiunger onore alle Immagini de gli Auoli suoi, dalle quali tanto ne riceveva. Perciò s’accese nel di lui petto una sì gentil fiamma d’imparare, di sapere, di conoscere, di vedere, che non vi fù fatica, non vi fù studio, ch’egli non volesse intraprendere. Ancor biondo di crine uscì della Patria, scorse Provincie, vide Paesi, conobbe nazioni, notò costumi, intese segreti, osservò forme di Governo, apprese Prudenza, ne mosse un passo senza guadagno della Ragione. […] e si fè conoscere da letterati di maggior grido; acquistò l’amicizia di molti grandi; rintracciò vestigi d’antichità; imparò maniere diverse; osservò molti miracoli dell’arte, e della Natura; e ritornossene a’ suoi ricco di que’ tesori… […] Mà nel riposo in Patria ogn’un di voi è testimonio, che non in ozio vile lasciò languire la lena, mà, che, trattenesse l’ore dovute à Dio, ne’ suoi studj priuati, e nei suoi gentili lauori tutto spendeua il prezioso tesoro del tempo, datoci per Patrimonio dalla Natura. Però ricordevole d’un suo detto familiare potius mori quam otiari, si diede per onesto diletto ad un’impiego, che lo rendesse in qualche maniera imitatore dell’opere di Dio.>>[38] Una commemorazione in cui, a parte la retorica barocca, viene messa in evidenza la destrezza di Manfredo di essere allo stesso tempo un uomo di Dio e un uomo di scienza.

Per ciò che riguarda la documentazione sul Museo settaliano, abbiamo accennato all’opera in lingua latina di Paolo Maria Terzago del 1664 e alle due edizioni, in italiano, di Pietro Francesco Scarabelli edite nel 1666 e nel 1677, queste tre edizioni del catalogo, pubblicate nell’arco di tredici anni, ebbero un enorme successo editoriale in tutta Europa, ma non sono le fonti più antiche per lo studio della Galleria di Manfredo, poiché, l’edizione di Scarabelli del 1666 ci informa che era, come già detto precedentemente, corredata da sette brevi trattazioni monografiche, in cui erano riprodotti i disegni ad inchiostro, a tempera e ad acquerello di circa trecento oggetti facenti parte della raccolta, che Settala commissionò a vari artisti, noti nell’ambiente milanese contemporaneo, raccogliendo poi in gruppi le illustrazioni di materiali simili, anticipando le divisioni in sezioni del museo moderno, con note sui reperti scritte di propria mano, molto utili per capirne la natura, la provenienza, le tecniche e gli utilizzi. Di questi sette codici illustrati vennero perse le tracce, solo agli inizi del Novecento vennero ne recuperati cinque: tre si trovano presso la Biblioteca Ambrosiana, due presso la Biblioteca Estense di Modena, non conosciamo tracce degli ultimi due.[39] Molto importanti sono anche i resoconti e le notizie che Manfredo riceveva dai viaggiatori, dagli studiosi, e dagli scritti di coloro che visitarono il Museo.

Gli interessi artistici di Manfredo sono già evidenti nell’ingaggio di artisti milanesi per la creazione del catalogo illustrato della sua raccolta, ma è documentato che egli raccolse molti dipinti e sculture di artisti lombardi noti, come Bernardino Luini, Fede Galizia, Cerano, Camillo e Cesare Procaccini, Daniele Crespi, Melchiorre Gherardini, Annibale Fontana ed altri. Il 4 marzo 1669, nella prima Congregazione della rinnovata Accademia Ambrosiana, testimonia la presenza del Settala, che non fu certamente casuale, non solo per il prestigio della sua Galleria, ma anche per le esperienze di collezionista  e per la sua politica di promozione della cultura artistica del luogo, che lo legavano alle vicende dell’arte milanese.[40] Considerevole fu anche l’interesse per l’archeologia, collezionando urne cinerarie, lucerne e vasi balsamari, usciabti, scarabei apotropaici, varie parti di mummie, tutti oggetti che oltre il valore artistico avevano il ruolo di attestare il culto dei morti nell’antichità.[41] Nel suo laboratorio Manfredo eseguiva lavori di artigianato e costruiva strumenti meccanici e di precisione, distillava essenze ed olii e fabbricava strumenti musicali: celebri sono gli specchi ustori capaci d’incendiare una tavola di legno distante sette metri, le sfere armillari, i compassi, gli orologi, gli automi meccanici e flauti ricavati dalle chele di gamberi. Numerosi erano gli oggetti di gusto barocco, come le lenti deformanti, i vasi lavorati a tornio fatti con materiali strani, le sculture di dimensioni piccolissime, il rosario con i segni dello zodiaco. Il lungo viaggio che Manfredo fece negli anni giovanili suscitò in lui un grande interesse per l’etnografia e con una grande curiosità per le culture di popoli lontani.[42] Grande fu anche l’interesse per la storia naturale, <<…tuttavia, i reperti naturalistici non furono raccolti privilegiando esclusivamente il criterio del raro quanto per svolgere una funzione di divulgazione che, in una città come Milano, colmava la gravissima lacuna culturale prodotta dall’aristotelismo imperante e dall’emarginazione dai filoni più vivi del pensiero scientifico seicentesco. Schierato apertamente a favore della nuova scienza sperimentale, Manfredo, pur effettuando limitate attività di ricerca (dissezioni anatomiche in compagnia dell’Aselli e di Stenone, raccolta di fossili e animali) si riservò il ruolo del divulgatore colto e del promotore piuttosto che quello dello scienziato. >>[43]

Dopo la morte dei due fratelli maggiori, Manfredo, come già detto, divenne fidecommissario, tale istituto ebbe origine nel diritto romano, fu poi largamente impiegato a partire dal XVI secolo e consisteva in una disposizione testamentaria attraverso la quale il testatore istituiva erede o legatario un soggetto determinato con l’obbligo di conservare i beni ricevuti, che alla sua morte andavano automaticamente ad un soggetto diverso indicato dallo stesso testatore. In data 16 luglio 1672, Manfredo fece redigere dal notaio Carlo Cadolini il suo testamento in favore del fratello Carlo Andrea, dei nipoti e dei loro discendenti maschi primogeniti (senza dispersioni e alienazioni). In caso di estinzione della discendenza diretta, la collezione era destinata alla Biblioteca Ambrosiana.[44] Nel suo testamento il testatore parla degli oggetti che compongono la sua Galleria, dicendo che <<…sunt mea propria tantum…>>, che gli eredi non hanno nessun diritto su tale materiale e che questa grande collezione era dovuta alla sua attività di ricerca, al suo lavoro manuale, agli acquisti fatti con i proventi che gli derivavano dal suo canonicato e a quelli fatti durante i suoi viaggi, ai doni ricevuti da importanti e numerosi amici sparsi in tutta l’Europa: <<…quae habeo in dictis locis Gabinetti, ea omnia per me sunt conflata, aquisita et cumulata pro parte, mea propria industria, labore et parsimonia et pro parte propriis meis pecuniis, proventis ex peculio meo quasi castrensi, nimirum ex dicto meo Benefitio Canonicatus, per me gravisi ab annis quadraginta duo bus citra et ultra immo multae res existentes in dicto meo Gabinetto ex infra descriptis mihi Testatori donatae et largitae sunt etiam a diversis Princibus Europae ac aliis meis Amicis diversis respective temporibus quando profectus sum ad varias partes regione set Civitates nedum Italiae, verum etiam Europae.>>[45]

Manfredo Settala morì il 6 febbraio 1680 e la data del suo funerale, celebrato sei giorni dopo la sua morte, coincide con l’inizio della dispersione del suo Museo. In lettera di Carlo Settala, erede ed esecutore testamentario di Manfredo inviata al nipote (Francesco) e datata 11 febbraio 1680 leggiamo: “Signor Nipote, Ricevo due delle sue delli 6 e 7 corrente dalla quale intenda il passaggio all’altra vita del Signor Manfredo con sentimenti santissimi e con cordoglio universale, ho visto la particolarità del funerale, con dimostrazioni riguardevoli e la parzialità del Signor Conte don Paolo Monti veramente amorevolissimo della Casa. Quanto alla disposizione testamentaria della Galleria, converrà esaminarla (e vedere come parla il testamento del Signor Ludovico mio Padre toccante essa Galleria, e V.S. procurerà accennarmela), poiché vi sono le cose antiche di Casa quelle e li moltissimi danari dati dal Signor Senatore Padre e le molte mie preziose. Circa li quadri stupisco come habbi disposto di ciò che non è suo, poiché sono quasi tutti toccati in mia parte e altri portati da Toscana, Roma, Napoli e fatti fare in Milano, e copiare, oltre quelli quattro del Ceriano, Ficiano, Louino, Aretino, et altri sono communi, come del Signor Ludovico, avo e padre mio, converrà ch’a suo tempo faccia la dichiarazione il Signor Francesco per togliere ogni ombra, e quanto alla Galleria si consulterà il modo per formarne una protesta. Gradisco saper s’abbi lasciato una messa quotidiana, come mi disse voler fare, il che saria d’aggravio grande alla Casa […]Quanto alla cassetta, che non si trova, ove suppone vasi denari in oro, egli era tanto in ciò secreto, che non so ove si possi far capo per saperne conto, vero è che avendo palesato (ma non so come e quando il danno trovatogli) e probabile non ve ne havesse altro…”.[46]

Il 18 settembre 1670 e il 2 luglio 1678, Manfredo aveva fatto cospicue donazioni di libri alla Biblioteca Ambrosiana, con una clausola in cui si diceva che il donatore se ne riservava l’uso vita natural durante: ciò dimostra gli ottimi rapporti del Settala verso questa istituzione, di cui era anche Conservatore.[47]

Il primo erede fu, dunque, il fratello Carlo, Vescovo di Tortona e con lui cominciarono i dubbi che in seguito porteranno alla lunghissima causa tra gli eredi Settala e l’Ambrosiana. Il 21 febbraio 1680, cioè pochi giorni dopo la morte di Manfredo, l’erede ed esecutore testamentario scrisse una lettera al Prefetto dell’Ambrosiana Pietro Paolo Bosca, rendendo effettive le donazioni dei libri sopraccennati: “Annesso alla sua amorevolissima lettera ricevo la lista che il Signor Manfredi ha lasciati a cotesta tanto insigne Bibliotheca, della quale essendo io tanto partiale accerto V. S. che sento gran piacimento della memoria ha havuto di detta nobilissima libraria, della quale tengo vivissima memoria anch’io, havendo preparato un donativo, che non sarà inferiore a quello di mio fratello. Gradirò bene che V.S. veda quali di detti libri habbia la Bibliotheca per non privarne di quelli che siano duplicati la Casa, come mi accerto dalla compitissima sua amorevolezza. Il ritratto del Sig.r Manfredi sarà consegnato al più longo a maggio che spero, a Dio piacendo, secondo il solito, portarmi a milano, et all’hora si vedrà quale sarà più adattato per ricever l’honore di collocarlo in cotesto gran Museo, di che ne dovrà meco la Casa tutta restar a V.S. et a cotesti S.ri tenutissima. Gradirò che in ciascun libro si compiaccia farci porre Manus D. Manfredi Septale Patritiis Mediolanensis, il che sarà d’incentivo ad altri di regalare altre simili opere”.[48] In una nota sul margine destro quasi alla fine del folio troviamo: “della cui molta cognizione desideraria haver notitia distinta delle materie e particolarità contenute nell’annessi 26 volumi enontiati nell’ingionto foglio e bramaria non fossero incorporati in modo nell’Ambrosiana, siche venendo io a Milano il prossimo maggio, come alle volte soglio, li potessi una volta vedere in casa mia con commodità”.[49] In un documento rogato da Tommaso Buzzi, Notaio Apostolico della Curia Arcivescovile di Milano, compare la lista dei libri donati e in un piccolo foglio troviamo che: <<Li Libri segnati con la + si sono avuti da signori Settala a diì 27 giugno 1680 e li segnati con questa linea — sono i duplicati restituiti, quelli che non anno alcun segno sono ancora da restituirsi dalli sudetti Signori (circa 15 senza segno)>>.[50]

Alla morte del Vescovo di Tortona (1682) il Museo passò a Francesco (canonico di San Nazaro come lo zio), il quale morì nel 1716, senza che vi fossero altri eredi maschi, conseguentemente la Biblioteca Ambrosiana sarebbe dovuta entrare in possesso del Museo settaliano, ma ciò fu impedito dalle azioni giudiziarie promosse dai collaterali della famiglia Settala, azioni che si definirono soltanto nel 1751, venendo così a rispettare la volontà di Manfredo. La lunga vertenza intercorsa tra la famiglia Settala e la Biblioteca Ambrosiana è nota: il 13 agosto 1711 moriva Francesco Settala, canonico di San Nazaro come lo zio ed ultimo erede maschio secondo la linea di primogenitura discendente da Senatore, fratello di Manfredo, il quale aveva nominato, con suo testamento, erede universale il conte Carlo Settala, appartenente ad un ramo collaterale della famiglia e con un atto di notorietà distingueva tra gli oggetti effettivamente appartenenti al Museo dello zio Manfredo e quelli che provenivano dalla famiglia o che erano stati raccolti ed aggiunti da lui stesso, infine esprime il desiderio che questa parte della Galleria potesse restare a coloro che erano uniti da legame di agnazione alla famiglia, riconoscendo, tuttavia, i diritti dell’Ambrosiana su tale Museo.[51]  Pochi giorni dopo la morte del canonico Francesco, il 25 agosto, si riunì la Congregazione dei Conservatori, per dare incarico al canonico del Duomo e al prevosto di Santa Maria Podone di reperire negli archivi la copia del testamento di Manfredo e risolvere la faccenda, ma il 3 marzo 1712, da un verbale della Congregazione risulta che la copia del testamento non era stata ancora trovata, quindi insieme con il prevosto viene incaricato, al posto del canonico del Duomo, il prefetto dell’Ambrosiana Giuseppe Antonio Sassi a tale compito. L’anno successivo, il 16 febbraio 1713, si riunisce di nuove la Congregazione, poiché la questione era ferma al punto di partenza e sia il canonico del Duomo che il prevosto vengono delegati, con ampi poteri, ad andare dagli eredi Settala per definire la questione della donazione: il 9 giugno fu redatto un compromesso della durata di sei mesi per la ricomposizione amichevole tra le due parti, la Biblioteca Ambrosiana e il conte Carlo Settala. Da un verbale della Congregazione risalente al 22 gennaio 1715, apprendiamo che il caso sta chiaramente prendendo la via giudiziaria, infatti nello stesso anno il 16 dicembre la controversia risulta avocata (assunta) presso il Senato. La vertenza subisce un arresto per vari motivi e il contraddittorio che si doveva tenere il 29 settembre 1718 in presenza del Senatore di Milano, non ebbe luogo a causa dell’assenza del Senatore dalla città e nel verbale datato 21 giugno 1720 risulta che il contraddittorio non era ancora stato tenuto e che ci sarebbe stato un tentativo di risolvere la questione per via amichevole, evidentemente i tentativi fallirono e il 14 gennaio 1723 la Congregazione si rende conto che la lite non era risolvibile per via amichevole e che restava solo la via giudiziaria. Il fatto si complica ancora di più quando si ripresenta (sulla scena) la marchesa Caterina Settala Del Pozzo, la quale aveva già affrontato una causa contro Francesco Settala, negli anni 1698-99, per il possesso della Galleria, ma la causa non va avanti: tutto viene rimandato sia per le ferie del Senatore, sia per l’avvicendarsi di nuovi delegati, insomma arriviamo al 3 luglio 1730 quando la marchesa Caterina Settala Del Pozzo comunica di rinunciare ad ogni pretesa. Negli anni successivi tutto tace: i delegati, sempre con la stessa procedura, vengono incaricati di continuare l’istanza. E’ difficile capire se questa situazione di ristagno sia stata dovuta a delle difficoltà procedurali o all’incapacità e alla mancanza di volontà dei delegati della Congregazione dei Conservatori, comunque il procrastinarsi della causa rendeva sempre più probabile il rischio di alienazione e dispersione del patrimonio del Museo Settala. Dal verbale del 6 febbraio 1750 veniamo a conoscenza che Senatore Settala, fratello di Carlo si era intromesso per contestare all’Ambrosiana il diritto nell’eredità della Galleria; il 16 settembre dello stesso anno viene annunciato alla Congregazione che finalmente era pronta la relazione per il dibattito risolutorio! Il 19 febbraio 1751 il Senato emette la sentenza in cui viene riconosciuta la piena validità del fedecommesso di Manfredo e il diritto della Biblioteca Ambrosiana a subentrare nel possesso del Museo, gli oggetti facenti parte di esso devono essere riconosciuti avvalendosi dell’inventario di Scarabelli inserito nel testamento di Manfredo, Carlo e Senatore Settala erano tenuti alla consegna di tali oggetti, ma il conte Carlo Settala impugna la sentenza perché, prima della consegna del materiale, pretende che l’Ambrosiana dia debita garanzia di tutela e di conservazione, per la trattazione dell’eventuale consegna nomina procuratore il proprio figlio Antonio. Il 1° luglio 1752, la Congregazione prende in considerazione che necessita dare le dovute garanzie sulla custodia della Galleria, ma l’argomento viene di nuovo discusso in Congregazione il 25 gennaio 1753, evidenziando anche i nuovi contrasti circa l’identificazione degli oggetti appartenenti al Museo: il conte Carlo affermava di avere consegnato tutto ciò che rientrava nei diritti dell’Ambrosiana e che non era propenso a rilasciare altro (a far avere). Dal verbale successivo datato 29 maggio dello stesso anno veniamo a conoscenza che il Senatore aveva ingiunto al Settala di completare la consegna di tutti quei materiali spettanti all’Ambrosiana entro otto giorni, ingiunzione che il conte Carlo non rispettò, perché nel verbale del 29 novembre, sempre dello stesso anno, la Congregazione viene informata del contraddittorio tenutosi davanti al Senato: “…al termine del quale fu intimata la consegna di alcuni cammei e della collezione delle medaglie e di quant’altro era di spettanza dell’Ambrosiana; tuttavia l’esecuzione dell’ordine era rimasta sospesa a causa del periodo delle ferie […] finché nella riunione del 7 agosto 1755 si chiede di mettere in ordine le cose avute dai signori Settala: indizio chiaro che la consegna dei materiali ancora mancanti era stata finalmente completata”.[52] Si concludevano in tal modo le vicende di una lunghissima causa durata quasi quarant’anni per una, a dir poco, difficile eredità, cominciata con il problema di riconoscere gli oggetti effettivamente appartenenti al Museo di Manfredo non ricorrendo, secondo gli eredi, all’inventario compilato da Scarabelli, perché il tempo aveva logorato molte cose, altri oggetti erano stati inseriti nel catalogo “ad ostentationem”, per fare bella figura ma non erano mai esistiti, molti provenivano dalla collezione di Ludovico, padre di Manfredo, altri erano stati raccolti dal nipote canonico Francesco, altri erano stati rubati, come si evince da una lettera di Manfredo scritta al fratello Carlo, Vescovo di Tortona del 14 aprile 1666: “Questo anno 1666 a me molto infausto piaccia a Nostro Signore me la mandi buona la prima di già saperà la cosa de’ libri e delle dieci doppie, patientia ma hora a da sapere, Hieri mentre Carlo mostrava il Gabinetto a certi Francesi arivò al scrittoio delle medaglie d’oro et vide che non ve ne era manco una, restò pensando che io li havessi mutato loco, me lo mandò a dire, finito il nostro Capitolo, vado a casa e trovo che erano state rubate, rimasi tutto attonito, ma quelle d’argento non le toccorono, andai a vedere nell’altro scrittoio dove sono li anelli ne vidi che ve ne mancavano tre de’ più belli, che ero certo hebbi a cascar in terra il primo è stato la bellissima turchesa che era di nostro padre, cioè quella di Pio Quarto, il secondo anello, quello dove era il bellissimo Platone, tanto stimato da tutti per la sua conservazione, il terzo annelo era quello che mi donò il Signor Canonico Moroni Bibliotecario del Signor Cardinale Barberino che certo le prometto Monsignor mio, che non so dove mi sia, et questo non puol esser altro che uno ben prattico o famigliare, poiché alla sera vi erano et al mezzo dì, venendo quelli Francesi, non vi erano più: o mi sono stati rubati la notte o la mattina di giorno, poiché l’uscio in cima della scala è sempre aperto, haveran visto dove si pone la chiave et chiavette, et così haveranno fatto il colpo colpo certo che mi atterisce sì per non saper di chi fidarmi per l’avvenire, ma questo cosa certa è che è persona molto pratica, et inteligente, ne ho voluto partecipar a Vostra Signoria Illustrissima che so ne deriverà qualche cordoglio, poiché io con tanto stento li ho posti insieme et hora tutto in un colpo levatemi. Io non volevo lasciar le chiavi, né le chiavette, ma li Signori Nipoti pareva che io non mi fidassi di loro, così lasciavo la chiave et chiavette, hora veda come è andato patientia piaccia a Vostro Signore non si inoltri più et con tal fine li sono et sarò sempre “.[53] La Galleria non apparteneva per intero a Manfredo, infatti molti pezzi appartenevano al padre Ludovico e molti altri furono aggiunti dal canonico Francesco, quindi gli eredi, cominciando dal fratello Carlo, erano propensi a distinguere ciò che spettava effettivamente all’Ambrosiana dai beni di famiglia, che dovevano restare tali, anche in base al testamento di Ludovico del 5 luglio 1632, in cui dava in custodia la sua collezione a Manfredo con un “fedecommesso” che impediva qualsiasi alienazione o frazionamento dei beni di famiglia, quindi non cedibile a terzi. Ma nell’istanza al Senato del 18 gennaio 1698, Francesco riconobbe piena validità alle disposizioni testamentarie dello zio Manfredo ed ammise il diritto di successione dell’Ambrosiana nel momento in cui si sarebbe estinta la linea maschile di primogenitura, non facendo mai riferimento ai vincoli familiari presenti nelle disposizioni di Ludovico. Il testamento di Manfredo, di chiara interpretazione, divenne, in tal modo, la base di tutta la vertenza e a conferma di ciò fu la sentenza del Senato emessa contro Caterina Settala a favore di Francesco.[54]

Dopo tanti anni e tanti “disguidi” la Galleria di Manfredo non aveva certamente potuto conservare quell’unità organica e particolare con cui era stata creata ed anche l’Ambrosiana non contribuì a ciò che era rimasto di organicità: furono acquistati altri oggetti da un’altra collezione e uniti alla Galleria; furono fatti degli scambi di materiali, senza considerare gli espropri del 1796 e del 1798 da parte dei Francesi, i prestiti ad altre istituzioni e non restituiti, le concessioni fatte di vari oggetti.

Nei primi anni del Novecento, quando era Prefetto dell’Ambrosiana Antonio Maria Ceriani, il futuro papa (Pio XI) Achille Ratti riordinò il Museo Settala, basandosi sul Catalogo Scarabelli, quella stessa copia che era stata allegata al testamento di Manfredo, rendendolo disponibile al pubblico, nonostante le grandi difficoltà incontrate. Una nuova riorganizzazione della Galleria fu realizzata dal Prefetto Giovanni Galbiati negli anni 1926-34, di cui lascia una particolareggiata descrizione nella sua guida dell’Ambrosiana, pur restando evidente il miscuglio tra i reperti originali e quelli provenienti da altre donazioni. Durante la seconda guerra mondiale, la notte tra il 15 e il 16 agosto Milano venne bombardata, anche l’Ambrosiana fu colpita: i danni furono incalcolabili e la Galleria Settala perse molti dei suoi reperti; nel 1970, per acquistare spazio, l’Ambrosiana cedette al Museo di Storia Naturale di Milano importanti oggetti dei reperti zoologici rimasti mentre molti furono rifugiati nei depositi  ed altri ceduti. A questo punto possiamo dire che il Museo Settala era definitivamente disgregato, frazionato ed un tentativo di ricostruzione sarebbe pressoché impossibile.[55]

Le collezioni del centro Europa erano concepite per essere contemplate dal sovrano e pochi erano i visitatori ammessi a queste meraviglie, destinate ad una solitaria meditazione. Più tardi, nel Seicento, l’erudito vide nella propria collezione uno strumento per catalogare i molteplici aspetti dell’universo, formando un’enciclopedia del sapere di facile consultazione ed è proprio questa impronta che Manfredo intende dare alla sua “Galleria”: non una “chambre des meravilles”, ma un luogo di documentazione e d’incontro tra studiosi in campo naturalistico e tecnico e ciò appare evidente dalla corrispondenza intercorsa tra Settala e Redi, Kircher, Oldemburg.[56] Nel 1646, dopo la visita alla Galleria di John Evelyn, letterato con interessi verso gli studi antiquari, il quale nel suo resoconto descrisse vari oggetti appartenenti al Museo di Manfredo, questo divenne tappa d’obbligo per i visitatori stranieri e nel 1664, ormai famoso, ricevette delle visite molto importanti: quelle di Balthasar de Monconys, consigliere del re di Francia, che dimostrò molto interesse per l’attività tecnica e i lavori al tornio di Manfredo; John Ray, famosissimo botanico inglese, il quale ebbe molto interesse per gli specchi ustori, quelli deformanti e per gli automi e i “moti perpetui” costruiti dall’Archimede milanese; Philip Skippon, autorevole naturalista e parlamentare inglese, che, nel resoconto del suo tour europeo, segnalò tra le novità in campo meccanico alcune invenzioni create da Manfredo come orologi a pendolo, torri cilindriche per lo studio dei “moti perpetui”. Walther von Tschirnhaus, uno degli inventori della porcellana d’arte europea, si recò, nel 1676, a Milano per incontrare Manfredo che gli rivelò alcuni fondamentali segreti per la produzione della porcellana.[57] Tutto questo ci fa capire che il Canonico milanese aveva concepito la sua Galleria come un centro di ricerca, in cui era possibile il confronto e la verifica delle proprie ricerche con quelle degli studiosi di passaggio a Milano. Dopo la morte di Manfredo la Galleria da laboratorio sperimentale divenne un luogo delle meraviglie, visitato più per ammirare gli oggetti stravaganti che per il valore della raccolta: il Museo stava diventando obsoleto e non appagava più le esigenze scientifiche degli studiosi illuministi, se nel 1699 lo scrittore francese Francois J. Deseine definiva con queste parole il Museo settaliano: <<Una delle più belle curiosità di Milano è il gabinetto del signor Francesco Settala, canonico di San Nazaro, messo insieme dal signor Manfredo Settala, suo zio, dove si può vedere tutto ciò che la natura e l’arte hanno di più singolare>>,[58] quarant’anni dopo Charles de Brosses, primo presidente del Parlamento di Digione, magistrato, umanista e storico, il quale in una sua lettera del 1739 non mancò di criticare aspramente la Galleria settaliana: <<Quanto alla collezione di Settala, tanto celebrata in tutti i libri su Milano, essa ha la sorte di tutte le collezioni, che è quella di deperire a poco a poco>> e ancora: <<Gli eredi del canonico Settala hanno venduto o regalato una parte delle rarità che lo componevano. Ci si può tuttavia divertire ancora a rimirare alcune buone cose che restano nelle otto o dieci sale che compongono la galleria, e che sono piene di molte cianfrusaglie>>.[59]

Attualmente che cosa resta di tutto il materiale artistico, scientifico, etnico, curioso, bizzarro che costituiva il Museo di Manfredo? Presso la Pinacoteca Ambrosiana il visitatore può ancora ammirare vari oggetti ed avere un’idea, se pur lontana, di quello che fu la Collezione settaliana: di seguito diamo la descrizione, non completa ed esaustiva, di quello che, a nostro avviso, può destare maggiore interesse e curiosità.

Appena varcata la soglia dell’ingresso della Pinacoteca Ambrosiana, sulla sinistra c’è una teca che raccoglie vari piccoli oggetti provenienti dalla Collezione di Manfredo Settala, oggetti che hanno incuriosito nel passato ed attirato numerosi ed anche celebri visitatori, ma che anche oggi non hanno perso il loro interesse. Oltre a due astrolabi, di cui parleremo più avanti, possiamo vedere una piccola statuetta di usciabti, cioè quelle statuette che venivano collocate nelle tombe egiziane per servire il defunto sostituendosi ad esso nei lavori che dovevano svolgere nell’aldilà, secondo la religione osiriana. Queste statuine funerarie, risalenti al Medio Regno, facevano parte del corredo funebre di personaggi importanti, ebbero il massimo utilizzo durante il Nuovo Regno, per scomparire nell’età Tarda.[60] Una lucerna a tre beccucci, unico esemplare rimasto dello otto menzionate nel “Museo Settaliano del 1677, sopra di questa vediamo due balsamari, ossia due vasetti di vetro di un tipo comune, risalenti al I secolo d. C. e usati come contenitori di balsami.[61] Molto belli sono tre piccoli quadretti dipinti ad olio su lapislazzuli, il primo eseguito da Giovan Battista del Sole, figlio di Pietro, nacque probabilmente a Milano negli anni 1615-1625. Sconosciute le notizie intorno alla sua formazione, che non può essersi svolta all’Accademia Ambrosiana, in quanto chiusa nel 1630 a causa della peste e riaperta nel 1669. La sua produzione artistica sia pittorica che incisoria è documentata a partire dagli anni 1644 circa, molte delle quali perdute. Dopo un periodo trascorso a Varese, fece ritorno a Milano intorno al 1663, dove eseguì sette disegni su lapislazzulo per la Collezione di Manfredo Settala, oggi perduti. L’artista si dilettava anche con le acqueforti, poca certezza si ha per i disegni, alcuni dei quali sono conservati all’Ambrosiana, ma la loro attribuzione appare quanto meno discutibile. Nessuna notizia ci è giunta circa la sua morte che si può collocare dopo il 1673, ultimo anno in cui viene documentata l’attività del pittore.[62] Il dipinto, “Tempesta di mare con barche”, raffigura un galeone, una galea e un’altra imbarcazione piccola in balia delle onde, è di forma ovale, (10,7×4,7 cm.) racchiuso in una cornice in legno dipinto color ebano. Gli altri due dipinti, sempre di forma ovale e di 11,5×4,7cm. il primo e 10×4,2cm. il secondo, rappresentano rispettivamente “Il ratto di Europa” e “Incontro di Glauco e Scilla”, sono inseriti in un’unica cornice di legno dipinto color ebano. Non sono descritti nel catalogo latino di Terzaghi, ma li troviamo nella traduzione italiana dello Scarabelli: <<Quadro con cornice di Ebano, in cui sono incassati due ovati di Pietra Lazzuli: in un de’ quali è dipinta Europa figlia di Agenore involata da Giove: e nell’altro un’altra favola di Ovidio>>, cioè l’incontro tra la ninfa Scilla e Glauco, divinità marina che susciterà la gelosia della maga Circe con la conseguente trasformazione della fanciulla in mostro marino.[63] La paternità delle due piccole opere fu spesso attribuita a Giovan Battista del Sole, in seguito a Giovan Battista Maestri, detto il Volpino, per le scelte stilistiche, riscontrabili nei disegni e nei quadri, si caratterizzano come peculiari di questo artista, di cui non si conosce né il luogo né la data di nascita, presupponibile intorno al 1640. Proveniente da una famiglia di pittori, il Volpino fu più noto come scultore ed allievo di Dionigi Bussola, grazie al quale fu introdotto tra gli scultori della cattedrale milanese tra il 1658 e il 1661. Quando il 4 novembre 1668, riaprì l’Accademia Ambrosiana, la cattedra di scultura fu assegnata al Bussola, anche il Volpino fu ammesso tra gli artisti. Nel 1669 sposò Paola Rossi nella chiesa di San Calimero e proseguì operò per il Duomo di Milano fino al 1680, anno della sua morte.[64]  Il piccolo paesaggio con ponte, vicino agli altri descritti, è stato dipinto su pietra paesina, il cui disegno naturale è stato arricchito per rendere il soggetto più piacevole; la cornice è in ebano e metallo dorato.[65]

Altri oggetti che possono incuriosire molto il visitatore sono le piccole sculture di figure antropomorfe fatte di semi, conchiglie, ali di insetti, che si trovano sempre all’interno della bacheca, dal tipico gusto barocco e rappresentanti molto bene il gusto eclettico di Manfredo Settala. Risalenti al XVII secolo, le vesti e i volti barbuti dei soggetti denunciano l’origine nordica di una produzione artigianale di qualità. Così vengono descritte dallo Scarabelli: <<Quattro scatole, nella prima delle quali si vede un mezzo corpo armato fatto di verdi Mosche Indiane, tolta la faccia che è composta di Mosche del Congo del colore del bronzo, e la barba che da i loro piedi è formata. I capelli non sono altro che piccole fibre tolte da’ semi de’ fiori; così ancora il collaro. Gli occhi sono di vetro imitante il rubino. Per bottoni al vestimento servono i semi de’ fiori. Il rimanente del torace è tutto mosche, come dicemmo dell’India, che mischiate con alcuni altri anima lucci rossi vengono a formare con molti individui distinta il vago, e curioso ritratto di un solo. Nella seconda scorgersi un altro simile mezzo corpo, ma con barba assai più lunga, e con la faccia di maggior grossezza somigliante a uno Svizzero, con capigliatura di semi di fiori, e con petto pur di seme ma giallo formato. Nella terza ravvisasi un altro mezzo corpo molto bizzarro nella sua fabbrica, ma di gran lunga da altri diverso. Simile a questa terza è la quarta scatola, che parimente ha in se un mezzo corpo della medesima fattura che habbiamo detto. Due donne composte di varij semi di fiori, col capo di più minori semi, l’uno dall’altro assai diversi industriosamente composto>>.[66]

Proseguendo la visita alla Pinacoteca, il visitatore, arrivato alla sala numero otto, detta Sala della Medusa, in cui sono conservati dipinti del XIV-XVI secolo e una vasta gamma di oggettistica, può ammirare un “Astrolabio latino”.[67]

L’invenzione dell’astrolabio è attribuita a Ipparco di Nicea (IIsecolo a.C.) il quale conosceva la proiezione stereografica, cioè la tecnica di rappresentazione grafica di un solido geometrico su un piano. I primi astrolabi furono realizzati ad Alessandria d’Egitto, poi a Bisanzio; fu il dominio islamico in Spagna e in Sicilia che diffuse, già dal X secolo, la conoscenza dello strumento in Europa, dove cominciò la sua costruzione a partire dal XIV secolo in Francia, Inghilterra e nel nord d’Italia. Indipendentemente dall’utilità per gli astronomi e topografi, gli astrolabi divennero oggetti di grande valore, specialmente quelli in ottone finemente incisi ed entrarono a far parte delle collezioni di principi e di nobili come simbolo di raffinatezza culturale. L’astrolabio iniziò il suo declino nel XVII secolo, quando furono introdotti nuovi strumenti e metodi di calcolo.[68]

Questo astrolabio, su cui dorso è incisa la data del 1500, possiede inconsuetamente un calendario zodiacale, in cui vengono indicati i pianeti dominanti e permette di indicare la posizione di trentotto stelle. Sul dorso è visibile un calendario annuale e zodiacale con l’inizio della primavera all’11 marzo ed quadrato delle ombre su cui possiamo vedere sovrapposto il doppio tracciato delle ore ineguali, dette anche Temporali, Antiche, Naturali, Giudaiche, Bibliche, Canoniche, Planetarie…, esse sono le più antiche e si computano a partire dall’alba al tramonto, dividendo l’arco diurno sempre in dodici parti uguali, con la conseguenza che esse sono più corte d’inverno e più lunghe in estate.[69]

Sempre nella stessa sala non possono non incuriosire e non attirare l’attenzione del pubblico (turista) le sfere armillari:

La sfera armillare deriva il suo nome dal latino “armilla” che significa anello, cerchio, braccialetto Eratostene (III secolo a.C.) è ritenuto l’inventore della sfera armillare, detta anche astrolabio sferico. E’ un antico strumento astronomico, una specie di mappamondo formato da un vario numero di cerchi: quello dell’equatore celeste, dell’eclittica, del meridiano attraversati dall’asse della terra cui se ne possono aggiungere altri come l’orizzonte e i paralleli; la terra è rappresentata al centro della sfera. Era utilizzata sia a scopo di osservazione sia a scopo didattico, infatti serviva a descrivere il moto dei corpi celesti e come orologio solare equatoriale. A partire dal secolo XVII alle sfere tolemaiche furono annesse quelle rappresentanti il sistema copernicano, in cui attorno alla centralità del Sole ruotavano gli anelli planetari.[70]

La prima sfera è in ottone, alta 30,4 cm. ed ha un diametro di 25,5cm. Questa sfera armillare porta la data del 1644 e la firma di Manfredo Settala: “MANFREDUS SEPTALIUS FECIT M.DC.XXXXIV”. Nella corona circolare possiamo leggere i nomi dei venti in latino; composta dall’anello equatoriale e da quelli raffiguranti i tropici, dai circoli polari e, perpendicolari a questi, dagli anelli dei coluri: solstiziale ed equinoziale. L’eclittica è rappresentata da una fascia su cui sono incisi i segni zodiacali con i rispettivi nomi, internamente si trovano due anelli ortogonali nei quali è fissato un piccolo globo colorato rappresentante la terra. Un dispositivo mobile dello strumento descrive l’epiciclo della Luna secondo il sistema tolemaico. La Biblioteca Ambrosiana conserva anche il disegno autografo del Settala, che riproduce la sfera, dotato di una legenda che spiega come l’oggetto riporti vari motti.[71]

Molto interessante anche la seconda sfera armillare, che faceva parte della collezione della famiglia Settala e fu costruita a Milano nel 1549 da Giannello Torriano: “IANELLUS*MEDIOLANI*1549*F*”, cremonese, molto famoso per la costruzione di strumenti astronomici e orologi, la firma del costruttore  la possiamo vedere lungo la linea dell’Equatore. Lo strumento è in ottone, alto 26 cm. e con un diametro di 17,1cm. Partendo da una base circolare si diramano quattro settori che sostengono una corona circolare in cui troviamo i nomi dei punti cardinali e inserito in essa un cerchio rappresentante il mediano celeste, dove si trova una sfera formata dall’equatore e dagli anelli dei tropici e dei cerchi polari, perpendicolari a questi gli anelli dei coluri (solstiziale ed equinoziale). L’eclittica è raffigurata da una fascia in cui sono incisi i nomi dei mesi e i simboli dei segni zodiacali, all’interno della sfera, su due sistemi mobili, è imperniata la terra. Un’altra iscrizione “HERMETIS DELPHINI”è forse riferita al primo proprietario?[72]

Questa terza sfera armillare, montata su un elegante supporto inciso, sarebbe appartenuta, secondo la tradizione, a San Carlo Borromeo. All’interno di questo prezioso oggetto, un dispositivo in ottone dorato segna l’epiciclo lunare secondo il sistema tolemaico: l’inizio dell’equinozio di primavera è fissato al 21 marzo, ciò fa capire che la sfera è stata costruita dopo il 1588, anno in cui si ebbe la riforma gregoriana del calendario, quindi in contraddizione con la tradizione che la vuole appartenuta a San Carlo, morto il 3 novembre 1584. La sfera, di fabbricazione italiana, reca in una corona circolare i nomi dei mesi e i simboli dei quattro punti cardinali. Nella corona è inserito un cerchio meridiano graduato, in cui è fissata una sfera, formata dagli anelli dell’equatore, dei tropici, dei cerchi polari, perpendicolare a questa si trovano gli anelli dei coluri (solstiziale ed equinoziale), mentre una fascia graduata rappresenta l’eclittica con incise le costellazioni e fra i poli della sfera si trova la terra. La sfera, utilizzata soprattutto per spiegare il movimento lunare, è molto rara.[73]

Ancora nella Sala della Medusa, non molto evidenziato, in alto in una vetrina, possiamo vedere un piccolo ritratto di Manfredo all’età di settantasette anni.[74] L’iscrizione sul bordo di questa medaglia in legno, che molto probabilmente fece da modello per la realizzazione di medaglie in bronzo, ci fa conoscere non solo il soggetto e l’età, ma anche l’autore di questa piccola opera lignea: Cesare Fiori, pittore, incisore, architetto, nato a Milano intorno al 1636 da Girolamo, a soli otto anni realizzò il ritratto del padre defunto. Alla fine del 1670 risale il suo matrimonio con Maria Elisabetta Ignazi, dalla quale ebbe quattordici figli. Nel 1673 Cesare Fiori risulta iscritto alla seconda Accademia Ambrosiana  ed è probabile che sia stato tra i fondatori; nel 1698 fece parte degli artisti che apprestarono i disegni per la statua di Sant’Ambrogio, attuata in argento dall’orefice Sparoletti per il Duomo di Milano. All’ottavo decennio del Seicento appartengono la maggior parte delle medaglie eseguite su disegno del Fiori, tra queste anche quella rappresentante Manfredo eseguita nel 1677; in occasione delle esequie del Settala (1680), Fiori eseguì vari disegni allegorici, perduti, che esaltavano la figura e le opere dell’Archimede milanese, con il quale fu attivo collaboratore. L’ispirazione barocca è evidente nelle linee ondulate, nei panneggi stropicciati e nei chiaro-scuri che distinguono i ritratti, realizzati poi in medaglie di bronzo (Biblioteca Ambrosiana; Castello Sforzesco) ed è proprio questo “linguaggio” barocco che distingue Cesare Fiori nel panorama milanese, in cui l’arte barocca ebbe un impiego piuttosto ristretto. L’artista morì a Milano il 3 giugno 1702.[75]

Nella stessa Sala, è custodito anche un planetolabio, probabilmente di origine tedesca, risalente agli inizi del secolo XVI: si tratta di un particolare astrolabio con il quale si poteva individuare la posizione dei pianeti durante i dodici mesi dell’anno, quindi era un congegno più astrologico che astronomico, poiché era utilizzato per predire gli oroscopi, basandosi sulla posizione dei pianeti rispetto allo zodiaco. Possiamo vedere, infatti, un calendario annuale e zodiacale con l’equinozio al 10,20 di marzo; su dei cartigli disposti tra le ore planetarie leggiamo: “Vite”, “Census”, “Fratrum”, “Patrum”, “Filiorum”,  “Servorum”, “Mulieris”, “Mortis”, “Itineris”, “Regis”, “Fortune”, “Laboris”. I cinque cerchi concentrici divisi in dodici settori, posti al centro indicano le posizioni dei pianeti nel corso dell’anno. In modo originale è fissato (incentrato) il cerchio mobile dell’eclittica con i segni zodiacali e otto lancette con i simboli dei pianeti indicati.[76]

Bellissime e molto eleganti sono le coppe o versatoi ricavate da conchiglie di Nautilus a forma di chiocciola, che fin dal Medioevo vengono importate in Europa dai porti della Cina Meridionale, dove le botteghe erano specializzate nella decorazione dei gusci in madreperla. Dal XVI secolo, grazie ad orafi abilissimi, si diffonde la moda di incastonare queste meraviglie oceaniche dentro raffinate montature in argento dorato. La coppa inventariata con il n. 2350 è una conchiglia di Nautilus polita, traforata a giorno, montata su una base circolare di legno tornito nero e marrone, tramite una lamina metallica cesellata. Anche quella inventariata con il n. 2351 è una conchiglia di Nautilus polita, traforata a giorno, montata su un sostegno circolare di legno sagomato a balaustra e con attacco a forcella terminante a giglio. Entrambe le coppe sono databili alla prima metà del XVII secolo e non è da escludere che le montature in legno siano state eseguite dallo stesso Manfredo.[77]

L’orologio da tavolo con astrolabio è solo un esempio di quelli posseduti da Manfredo nel suo Museo.[78] Nell’opera del Terzaghi e poi nella traduzione dello Scarabelli l’elenco degli orologi non segue un ordine sistematico, ma sono descritti senza seguire una classificazione tipologica e da questo elenco ne risultano venti circa, tra questi descritti uno dei più importanti quello conservato presso la Pinacoteca Ambrosiana. Si tratta di un orologio meccanico, astronomico ad edicola a pianta rettangolare con cassa di ottone dorato, finemente cesellato ed è databile intorno al 1580, così viene descritto da Scarabelli: <<Frà i maggiori un’Hrologio quivi si mira non punto dissimile nella construttura  da quello di cui la Città di Strasburgho si pregia. Nella prima delle otto sfere maggiori, che nella superficie esterna delle quattro facce dell’horologio sono distribuite, osservasi la lunghezza di ciascun giorno, e notte dell’anno, e col suono di diverse campane l’hore da’ suoi quarti regolarmente si distinguono. In altra sfera si scoprono di mezzo rilievo, i dodici Segni dello Zodiaco. In altra sfera si comprendono i nomi di ciascun’ giorno della Settimana in mezze figure di rilievo risultante. In altra i quarti si discernono; in altra l’hore Astronomiche si ravvisano. In altra le Babiloniche si disegnano. Nell’altra sfera maggiore dirimpetto alla mentovata scorgesi un’ Astrolabio di esquisito artificio, per il quale raggirandosi il Sole nella Coda del Drago, che ivi è riposto, frà l’ombrose caligini del suo Eclisse fa spiccare il deliquio de’ proprij splendori, e con ritrovato assai riguardevole le quadrature della Luna, e di tutti i Pianeti mirabilmente si raffigurano>>.[79] Tutte queste indicazioni sono visibili su sei quadranti disposti sui due lati maggiori: il quadrante principale indica le ore ultramontane (con inizio a mezzanotte e a mezzogiorno) e le ore all’italiana (con inizio mezz’ora dopo il tramonto); l’ora del sorgere e del calare del sole con l’immagine visiva della durata del giorno e della notte; in basso a destra possiamo vedere i mesi con i segni dello zodiaco e a sinistra il quadratino della sveglia. Nel lato posteriore dell’orologio possiamo osservare l’ora siderale, la posizione delle principali stelle; l’età della luna, la testa e la coda del dragone. In basso a destra i giorni della settimana e a sinistra la regolazione del tempo. Questo bellissimo orologio ha la superficie riccamente decorata e sbalzata con motivi vegetali.[80]

Più avanti, nella sala numero sedici, dedicata alla pittura lombarda del XVII secolo, il turista può ammirare due dipinti eseguiti da due famosi pittori lombardi: il “Ritratto di Manfredo Settala” di Daniele Crespi e il “Suicidio di Lucrezia Romana” di Melchiorre Gherardini.

Il primo dipinto, olio su tela, di 44×33 cm., ci mostra un “giovin signore” dal volto pallido e malinconico, raffigurato a mezzo busto, con il viso ruotato di tre quarti, che indossa un abito scuro, con un candido colletto che illumina il volto del giovane. Ma ciò che cattura l’attenzione è uno strano oggetto, ben evidenziato contro il fondo scuro, sorretto da una mano cerea e curata che lo sorregge: è un vasetto in avorio lavorato al tornio con perizia e pazienza, probabilmente di produzione di Manfredo. Il coperchio del piccolo vaso ricorda una scala a chiocciola, terminante con una punta acuta, sulla quale c’è una sfera, l’ostentazione dell’oggetto sembra alludere alla caducità, alla fragilità e alla complessità della vita, che si può facilmente spezzare come questo stelo d’avorio tenuto stretto delicatamente tra le dita. Il ritratto, databile al primo ventennio del Seicento, costituisce una delle prime opere ritrattistiche di Daniele Crespi, di evidente ispirazione caravaggesca, è pervenuto alla Pinacoteca Ambrosiana probabilmente nell’ambito della donazione del Museo Settala.[81]

Non sono certi né il luogo né la data di nascita del pittore Daniele Crespi, figlio di Gaspare, discendente da una famiglia di pittori di Busto Arsizio e parente di Giovan Battista Crespi, detto il Ceriano, il quale fu anche suo maestro, probabilmente nacque a Milano negli ultimi anni del Cinquecento e nonostante la morte prematura avvenuta a causa della peste del 1630, Crespi è considerato uno dei maggiori esponenti del Seicento lombardo. Nel settembre 1621, cominciò a frequentare i corsi, anche se per pochi mesi, dell’Accademia Ambrosiana, interessandosi molto all’arte del Ceriano, direttore della Scuola di pittura della suddetta Accademia e a quella di Giulio Cesare Procaccini, come si può evincere dai numerosi dipinti di quel periodo. Importante fu il rapporto con Ludovico Settala: fu il personaggio maggiormente menzionato nelle relazioni scientifiche scritte dal protofisico, infatti, come già detto, oltre a fare i ritratti dei membri della famiglia, Crespi assisteva come illustratore alle indagini scientifiche che Ludovico effettuava, chiamato non solo per approfondire la sua conoscenza dell’anatomia con osservazioni dal vero, ma soprattutto per rilevare ciò che veniva scoperto durante le dissezioni effettuate su animali. In seguito la ricerca di una contenuta intensità drammatica, l’attento studio della modellazione e degli incarnati e il netto contrasto tra luce ed ombra portano l’artista ad un inedito linguaggio iconografico ed espressivo, evidente frutto dell’incontro dell’esperienza caravaggesca con quella della Scuola del Seicento lombardo. Oltre alle opere di soggetto religioso commissionate dai maggiori ordini monastici del milanese, Crespi fu molto famoso anche come ritrattista, tra le sue opere figura anche il ritratto di Manfredo. Daniele Crespi morì a Milano il 19 luglio 1630, lasciando incompiuta la sua opera di maggiore impegno: il ciclo di affreschi della Certosa di Pavia, che furono terminati dai suoi collaboratori.[82]

La seconda tela, risalente al 1630 circa, raffigura l’eroina romana Lucrezia nell’atto di uccidersi.[83] Lo storico Tito Livio ci narra che durante il regno dell’ultimo re di Roma Tarquinio il Superbo, Lucrezia, figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Collatino, venne violentata da Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo, il quale si introdusse nella sua camera da letto armato di spada, la donna cercò di fare resistenza, ma minacciata di morte e di gravi calunnie, cedette all’adulterio. Il giorno dopo Lucrezia raccontò l’accaduto al padre e al marito, poi con un pugnale si tolse la vita. La verecondia e la pudicizia erano, presso i Romani, considerate le più importanti virtù che una donna potesse possedere, di conseguenza l’adulterio era una colpa gravissima. Il fatto ebbe dei risvolti politici determinanti, infatti il marito, il padre ed un amico di famiglia provocarono e guidarono una sommossa popolare che alimentò l’insoddisfazione che i romani avevano verso i metodi tirannici dell’ultimo re di Roma, i Tarquini vennero cacciati via e costretti a rifugiarsi in Etruria: lo stupro subito da Lucrezia e il conseguente suicidio furono la causa immediata della rivolta che rovesciò la monarchia e stabilì la Repubblica Romana. Scarabelli descrive così il dipinto: <<Quadro grande singolarmente stimato, historiato dal successo di Lucrezia Romana in atto di uccider se stessa, con attorno i suoi Parenti, che con diverso atteggiamento rimirano quell’atroce spettacolo. Fu dipinto dal Gran Cerano, nel quale superò se stesso>>.[84] La tela è oggi attribuita più correttamente a Melchiorre Gherardini, allievo e genero di Giovan Battista Crespi, detto il Cerano.

Melchiorre Gherardini, soprannominato il Ceranino, nacque probabilmente a Milano nel 1607, fu allievo del Cerano e fece parte dell’Accademia Ambrosiana, sposò la figlia del suo maestro Camilla e, nel 1632, ereditò dal suocero la bottega e l’abitazione. In tutte le sue numerose opere ritroviamo lo stile del maestro, pur riuscendo ad acquisire una sua personalità e più tardi un avvicinamento ai modi di Daniele Crespi, caratterizzato soprattutto dalla scelta dei colori più caldi e l’ammorbidirsi dei contorni, per arrivare, intorno al 1636, ad una maniera più autonoma. Nell’ultimo decennio della sua vita Gherardini sembra non avere prodotto molte opere e da quelle conosciute notiamo una fase chiaramente barocca; non molti sono i disegni a lui attribuiti, molti dei quali si trovano presso l’Ambrosiana. Gherardini fu anche incisore, attività attestata fin dal 1630. Il pittore morì a Milano nel 1668.[85]

Nella collezione di Manfredo erano presenti anche due oggetti particolarmente curiosi e molto famosi: il Mantello Tupinambá e l’Automa, il primo, in restauro, sarà esposto all’Ambrosiana in un prossimo futuro,[86] il secondo si trova oggi al Museo del Castello Sforzesco.

Il Mantello Tupinambá, inventariato con il n. 2605, è fatto di penne, piume, fibre di cotone e ananas, ha forma trapezoidale con un cappuccio all’estremità superiore, è lungo circa 155 centimetri e largo 128 ed veramente un “unicum”, ampiamente descritto dallo Scarabelli, è testimone delle culture e tecniche artigianali amerinde, quindi si può considerare un oggetto di alto valore scientifico ed artistico. La decorazione del mantello rappresenta forse l’immagine stilizzata di un uccello, che, indossato durante le cerimonie religiose, riusciva a coprire tutto il corpo dell’officiante, trasformandolo in un essere piumato simile ad un grande uccello dai vari colori. Il manufatto è principalmente composto di penne e piume di “Eudocimus ruber” o più semplicemente ibis rosso, mentre una parte minore è composta di quelle dell’ara scarlatta (Ara macao, uccello appartenente alla famiglia Psittacidae, Categoria tassonomica: Specie, diffuso in America Centrale e Meridionale), ara militare (Ara militaris, Come l’altro) e oropendolo (Psarocolius, uccelli appartenenti alla categoria tassonomica Genere e dell’orine dei Passeriformi). Il mantello, formato da circa nove file di penne, ha come base, su cui sono state intessute tali penne, una fitta rete di cotone e ananas, mentre il cappuccio è composto di sole penne. Un particolare molto interessante è il processo di colorazione delle piume: il colore giallo è reso con le piume dell’oropendolo e con quelle dell’ibis rosso, ricolorate tramite una tecnica chiamata “tapirage”, consistente nella modifica del colore del piumaggio sull’uccello vivo, tecnica diffusa nell’antica tradizione dell’America del sud. Il mantello ebbe grande importanza  e suscitò molta curiosità nella collezione settaliana, non a caso il valore del manufatto fu ribadito anche nella stampa di Cesare Fiori, che rende una visione panoramica del Museum di Manfredo: il mantello è riconoscibile appeso nella parte di destra in alto della galleria. In una annotazione Settala stesso lo descrive come “Vesta di sacerdote d’India…”, che ricevette in dono da Federico Landi, principe di Val di Taro, il quale possedeva una collezione di oggetti rari nel suo castello di Bardi vicino a Piacenza, ma nel dono c’erano compresi anche una sonagliera di frutti di “Thevetia neriifolia”, da una corona e da una cintura. Tale abbigliamento era indossato dai “Pagé” o sacerdoti durante le danze rituali, infatti queste popolazioni pregavano con la danza, che veniva effettuata, insieme col digiuno, prima di dare inizio ad ogni impresa importante, come la guerra, le migrazioni, in previsione di calamità e fenomeni naturali minacciosi. Il mantello Tupinambà sembra essere il più importante tra gli otto ancora esistenti in tutta Europa.[87]

<<Un cassettone dal quale esce all’improvviso una spaventosa faccia di demonio che si mette a sghignazzare, a cacciare la lingua e a sputare in faccia ai presenti, il tutto in mezzo ad un enorme fragore di catene di ferro e di ruote adattissimo per produrre un vero terrore>>, così definisce l’automa costruito da Manfredo Charles de Brosses, il quale durante una sua visita a Milano nel 1739, non perse l’occasione di visitare ed ammirare il Museo Settala, restando particolarmente colpito da questo automa meccanico, noto come lo “Schiavo incatenato”.[88] In realtà sembra che, girando una manovella l’automa, in legno intagliato, muovesse gli occhi , la lingua ed emettesse sia un suono sia del fumo dalla bocca.  Fin dall’antichità l’uomo ha sempre desiderato di far compiere a dei meccanismi quelle funzioni, non sempre gradevoli, riservate agli umani, quindi l’ingegno umano insieme ad eccezionali effetti speciali furono capaci di creare creature che riuscirono a stupire in ogni epoca per la loro somiglianza con demoni, figure mitologiche ed animali: ad Efesto, dio del fuoco, furono attribuite varie invenzioni tra cui macchinari semoventi; a Dedalo, padre di Icaro, la mitologia attribuisce la creazione di alcune statue lignee che muovevano occhi, braccia e gambe. Talos, il gigante di bronzo, fabbricato da Efesto, o da Dedalo, ma secondo il mito di origine ignota, posto da Minosse a guardia dell’isola di Creta, con il compito di fare il giro dell’isola tirando pietre contro coloro che si avvicinavano alle coste, impedendo lo sbarco ai nemici o di fermare i cittadini senza il consenso del re, a coloro che riuscivano a raggiungere l’isola, venivano raggiunti da Talos, che entrato nel fuoco, faceva diventare il suo corpo metallico incandescente e poi stringeva forte al petto gli sventurati e li stritolava e bruciava. Prima di Creta, il gigante sembra sia stato in Sardegna, dove aveva ucciso molti uomini con lo stesso sistema, provocando nei malcapitati il cosiddetto “riso sardonico”, ossia una dolorosa contrazione delle labbra a causa delle ustioni. Talos era invincibile, ad eccezione di un punto della caviglia dove si trovava l’unica vena che andava dal collo alla caviglia, chiusa da una sottile membrana, in cui scorreva il suo sangue; la leggenda dice che quando la spedizione degli Argonauti sbarcò sull’isola, il gigante metallico fu ucciso da una freccia scagliata da Peante, uno degli argonauti, mentre un’altra versione racconta che Talos sia morto a causa della fuoriuscita del sangue causata dall’urto della caviglia contro una roccia.[89] La testa grottesca dell’automa, eseguita nella prima metà del Seicento, è probabile che sia stata adattata al busto di una statua cinquecentesca raffigurante “Cristo alla colonna” o “San Sebastiano morente”. Lo splendido e orrido demonio-automa in legno di ciliegio intagliato si trova attualmente nella collezione di ArtiApplicate del Castello Sforzesco ed è forse divenuto l’emblema di come Manfredo amasse i “curiosa”, oltre ai “naturalia” e agli “artificialia”, ossia tutto quello che può incuriosire o stupire in quanto fuori dalla norma, con evidente gusto barocco.

Come già detto il fenomeno delle Wunderkammern, nacque nel Sedicesimo secolo, come eredità dello studiolo umanistico, che fu il primo esempio di ambiente destinato alle varie collezioni, ma anche antenato delle istituzioni museali; gli studioli erano ambienti piuttosto piccoli ed appartati, in cui i Signori raccoglievano gli oggetti più importanti delle loro collezioni: quello di Lorenzo il Magnifico a Palazzo Medici e quello di Francesco I in Palazzo Vecchio costituivano due esempi ammirevoli nella città di Firenze, il primo per la ricchezza della raccolta, il secondo, realizzato tra gli altri da Vasari, come “rifugio” del granduca in cui coltivava i suoi interessi alchemico-magici. L’evoluzione dello studiolo si ha con la nascita della Galleria Rinascimentale, che, nell’Europa del Nord, diviene il modello delle prime Wunderkammern, ma se le Gallerie accoglievano soprattutto statue e quadri, l’attenzione dei principi del Nord Europa era attratta principalmente dai fenomeni naturali e dalle curiosità scientifiche, poiché le Wunderkammern dovevano generare la considerazione per la reputazione del collezionista, il quale era riuscito ad impossessarsi di oggetti di grande valore, ma, allo stesso tempo, doveva suscitare lo stupore, la meraviglia, la sorpresa di fronte a oggetti inconsueti. Generalmente la Wunderkammer era una grande stanza con le pareti ricoperte di scaffali di legno alternati ad armadi e stipetti, dove venivano esposti i reperti o “mirabilia” della collezione, anche il tetto veniva usato per appendere animali essiccati, il tutto era rigorosamente organizzato: da una parte i “naturalia”, ossia gli elementi forniti dalla natura stessa, che erano tanto più sorprendenti a seconda della forma, della dimensione e della provenienza geografica, dall’altra gli “artificialia”, cioè tutto quello che era stato realizzato dall’uomo, legati alla peculiarità e alla complessità delle tecniche utilizzate per la loro realizzazione. In conclusione lo scopo delle Wunderkammern era quello di ricostruire l’universo in una stanza ed è per questo che al collezionista veniva assegnato una specie di facoltà creatrice, che ancora oggi conserva tutto il fascino di un personaggio come Manfredo Settala e la sua stupenda collezione, anche se paragonare la Collezione Settala con le Wunderkammern è sbagliato, perché Manfredo voleva fare della sua raccolta un centro di ricerca e d’incontro per il confronto e la verifica tra le varie ipotesi poste dagli studiosi, quindi con un fine prettamente scientifico e dinamico e non statico della Wunderkammer, dove i pezzi collezionati erano posti in modo da essere solo contemplati, pur mantenendo la tendenza barocca per gli oggetti strani e la propensione al collezionismo di dipinti, disegni, incisioni, libri, monete, armi. Tutto ciò è comprovato anche dai rapporti epistolari e personali che Manfredo intrattenne con personalità famose in ambito culturale dell’epoca.[90]

Il Museo Settala rappresenta l’ultimo tentativo dell’uomo barocco di ricostruire su termini moderni e aggiornati l’idea di unità del sapere propria del Rinascimento. <<Fu il Museo Settala inizialmente una vera enciclopedia oggettiva del Seicento, curiosa per l’epoca in cui fu raccolta, interessante ai moderni per la storia della scienza.>>[91]

NOTE

1 Cfr. F. Buzzi, La Pinacoteca Ambrosiana, www.costantinianorder.org/magazine/la-pinacoteca-ambrosiana.italiano.html

2 Poche sono le notizie su questo Vescovo: vissuto nel corso del secolo V, fin da giovanissimo decise di seguire la carriera ecclesiastica, forse influenzato anche dal Vescovo di Como Sant’Abbondio. Intorno al 450 ebbe dal Papa (San Leone Magno) il compito di recarsi a Costantinopoli per discutere con il Patriarca e con l’Imperatore circa l’eresia eutichiana, al suo ritorno ebbe altri importanti incarichi e godendo di grande stima tra il clero e tra il popolo arrivò a coprire la carica di vescovo di Milano, morì tre anni dopo la sua nomina e fu sepolto nella chiesa di Sant’Eufemia, che lui stesso aveva fatto costruire in territorio milanese, nell’anno 475. Cfr. http:77www.santiebeati.it/dettaglio/92056

3 Cfr. V. Ascani, voce Giovanni di Balduccio, in “Enciclopedia dell’arte Medievale, 1995, VI, pp. 703-711. Figlio di Balduccio di Alboneto nacque probabilmente a Pisa nel 1300 circa, fu scultore e architetto attivo in Toscana e in alcune città del nord Italia dal 1318 al 1350 circa. Giovanissimo svolse il suo apprendistato nel cantiere dell’Opera del Duomo di Pisa, nel 1334 circa si trasferì in Lombardia, al servizio di Azzone Visconti, per il quale, in quegli stessi anni, lavorarono vari artisti tra cui Giotto. Dal 1349, quando gli fu offerta la nomina a capomastro del cantiere del Duomo di Pisa, da lui rifiutata, la mancanza di documentazione non permette di costruire il periodo successivo: si ipotizza che la sua morte sia avvenuta intorno al 1349. Il monumento funebre del Settala, in ottimo stato di conservazione, è contraddistinto dalla presenza del defunto, vestito del saio nero agostiniano, disteso sopra un letto di parata, vegliato da due diaconi ed altri due personaggi reggono la cortina funebre. Nel frontale Lanfranco viene rappresentato in cattedra (è probabile che avesse insegnato teologia presso l’Università di Parigi) davanti ad una folla di ascoltatori, nelle due nicchie ai lati sono raffigurate Sant’Agnese, a sinistra, con l’agnello in braccio e Santa Caterina d’Alessandra, a destra, con un libro, la palma del martirio tra le mani e la ruota dentata, simbolo del supplizio patito dalla Santa. Il sarcofago, nella parte inferiore, presenta due ordini di mensole decorate con stemmi della famiglia.

4 Gerolamo Settala è il primo personaggio della famiglia menzionato in un documento della Biblioteca Ambrosiana: “Hunc codicem D. Septala patritius Mediolanensis et Modoetiae Archiepresbiter dono dedit anno 1607”, Gerolamo fu Vicario generale di Carlo Bescapè, Arciprete a Monza, e nel 1618 fu nominato Canonico ordinario e Penitenziere maggiore del Duomo di Milano; Manzoni, nel XVI capitolo del suo romanzo, lo ricorda come colui che con una sua predica riesce a calmare la folla in un momento molto critico. Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana e il Museo Settala, in “Storia dell’Ambrosiana”, pp.205-255.

5 Cfr. http//www.treccani.it/enciclopedia/ludovico-settala_%28Enciclopedia-Italiana%29

6 Fu nominato protomedico il 9 gennaio 1628. Cfr. B. Corte, Notizie istoriche intorno a medici scrittori milanesi, Milano 1718, p. 137 e segg.

7 A. Manzoni, I Promessi Sposi, Edizione del 1840, capp. XXVIII, XXXI.

8 Cfr. L. Facchin, Ludovico Settala: un intellettuale barocco fra scienza e arte, in www.enbach.eu/content/ludovico-settala-un-intellettuale-barocco-fra-scienza-e-arte

9 L. Facchin, Ludovico Settala… cit.

10 La tassidermia è l’arte di conciare le pelli degli animali per la conservazione e di imbottirle per dare loro l’aspetto e l’atteggiamento degli animali vivi a scopo scientifico. Le pratiche per la conservazione dei cadaveri umani e degli animali erano molto antiche e diffuse presso molti popoli, ma le origini della tassidermia, cioè della preparazione per scopi scientifici datano dal Rinascimento con l’istituzione dei musei di musei di storia naturale. Cfr.http://www.treccani.it/enciclopedia/tassidermia_%28Enciclopedia-Italiana%29/ )

11 Cfr. L. Galli Michero-M. Mazzotta a curadi, Wunderkammer: arte, natura, meraviglia di ieri e di oggi. SKIRA, Milano 2013, pp. 79-80.

12 Cfr. A. Squizzato, Tra arte e natura: il Musaeum di Manfredo Settala, spazio, memoria, “esperienze” e “trattenimento” nella Milano seicentesca, in “Wunderkammer: arte, natura, meraviglia di ieri e di oggi. A cura di L. Galli Michero-M. Mazzotta. SKIRA, Milano 2013, p. 47.

13 Data la numerosa prole, il palazzo di famiglia, situato nell’odierna via Paolo da Cannobio,  era diventato troppo piccolo per tutta la famiglia, quindi Ludovico fece costruire un palazzo più spazioso in piazza San Ulderico, oggi via Pantano 26. Cfr www. storiadimilano.it/Personaggi.Milanesi%20illustri/settala/manfredosettala.htm

14 Le notizie sono state riprese da appunti personali dell’autrice, tratti da varie lezioni del Professor Andrea Spiriti.

15 Ibid.

16 Cfr. . A. Aimi-V. De Michele-A. Morandotti a cura di, Septalianum Musaeum. Una collezione scientifica nella Milano del Seicento, Museo Civico di Storia Naturale di Milano, Firenze 1984, pp. 21-24.

17Cfr. Ibid. p. 21 e segg.; F. Dori, Il museo Settala. Wunderkammer adunata dal sapere e dallo studio, in “POLITesi>Tessi Specialistiche/Magistrali,A.A.:2012-2013http://hd1.handle.net/10589/87923

18 Cfr. L. Galli Michero-M. Mazzotta a cura di, Wunderkammer: arte, natura, meraviglia ieri e oggi, SKIRA, Milano 2013, pp. 79-80.

19 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala nella Milano del XVII secolo, Milano 1938, p 1 e segg.

20 Ibid.

21 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala…cit., p. 1 e segg.; M. Navoni, L’Ambrosiana e il Museo Settala, in “Storia dell’Ambrosiana”, pp.208-209.

22 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., pp. 209-214.

23 B. A., Archivio dei Conservatori, 163, fasc. 2.

24 Lo “Status personalis” di Manfredo era il seguente: “Status personali set temporalis die 30 aprilis 1673. Manfredus Septalius filius quondam domini Ludovici Regii Protofisici in universo Mediolani dominio, ac domina Angele Arona iugalium annos natus septuagintatres habitum clericalem suscepit de licentia Emminentissimi quondam Cardinalis Federici Borromei gloriose semperque recolende memorie de anno 1621, prout ex litteris in Cancelleria expedits sub die. Ad ordines fuit promotus de anno 1628 die decima octava martii a supradicto Emminentissimo prout ex litteris datis sub die suprascripto et anno.

Ad sacrum vero sub diaconato de anno 1631 ad titolum canonicatus in Ecclesia insigni Collegiata Sancti Nazarii de quo canonicata fuit pro visus eodem anno ab eodem Emminentissimo, prout ex litteruis in Cancelleria espeditis sub die.

Canonicatus supradictum possidet de presenti et est sub titulo S. Ulderici

Eius redditus consistent in tribus petti terre pertica rum in totum 440. Circiter iacem in territorio Sexti Ultriani Plebis Sancti Iuliani huius diocesis ex quibus annuatim percipiuntur de nitido libre cinquecentum.

Solvitur eidem prebenda etiam per Venerandum Capitulom eiusdem.

Ecclesia annuus fictus libellarius librarum viginti septem, et modia octo sicale, et milii.

Humanioribus litteris, ac Rettorica et philosophie studiis operam in Braidensi Collegio iuri vero Pontificio, et C.sareo in Gymnasio Pisano, in quo laurea doctoralis fuit donatus, prout ex Instrumento recepto per Professionem fidei emisit in Synodo Diocesana trigesima prima”. B. A., Archivio dei Conservatori, 163, fasc. A, c. 3r.

25 Pietro Paolo Bosca nacque in provincia di Alessandria nel 1632, dopo la laurea andò a Milano, dove entrò negli Oblati e insegnò nei seminari lombardi. Fu Prefetto dell’Ambrosiana dal 1668 al 1681, fu poi nominato Protonotaro apostolico da papa Innocenzo XI, passando all’arcipretura della basilica di Monza. Tra i suoi molteplici scritti, oggi in gran parte perduti, quello più famoso fu: “De origine et statu Bibliothecae Ambrosianae Hemidecas”, fu amico di Manfredo Settala, che soprannominò l’Archimede milanese. Morì a Monza nel 1699. Cfr. http//www.treccani.it/enciclopedia/pietro-paolo-bosca_%28Enciclopedia-Italiana%29/; A. Squizzato, Tra arte e natura… cit., p. 45-49. Per la grande capacità di Manfredo di costruire congegni meccanici di precisione, per l’abilità dell’uso del tornio, per la costruzione di strumenti ottici e specchi ustori, anche Filippo Piccinelli, biografo, lo definì “l’Archimede del nostro secolo”. Cfr. V. De Michele, L’Archimede milanese, in “Kos”, 3, 1986, n. 24, p. 19 e segg.; M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 215. Non è certo se il soprannome di “Archimede milanese” al Settala sia stato dato per primo dal Bosca o dal Picinelli.

26 M. Colombo, Manfredo Settala, l’Archimede Milanese, in www.storiadimilano.it/ Personaggi/Milanesi%20illustri/settalamanfredosettala.htm

27 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala…cit., p 1 e segg.;

28 Ibid.

29 Ibid.

30 Ibid.

31 Ibid.; Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 232.

32 G. Bardelli, http://pikaia.eu/la-cultura-non-si-mangia/

33 Cfr. Ibid.

34 Il testo italiano fu pubblicato sempre a Tortona nel 1666 e nel 1677 venne stampata una seconda edizione con varie aggiunte. Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala nella Milano del XVII secolo, Milano 1938, p 4 e segg.; M. Navoni, L’Ambrosiana… cit., p. 219

35 Ibid.

36 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…, cit., p. 236.

37 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 237; M. Colombo, Manfredo Settala… cit., http://www.storiadimilano.it/Personaggi/Milanesi%20illustri/settala/manfredosettala.htm

38 Orazion funebre per la morte dell’illustriss. Sig. Can. Manfredo Settalanell’esequie celebrate in Milano da suoi nipoti nella Basilica di S. Nazaro detta dal P. Gio. Battista Pastorini della Compagnia di Gesù, in Milano. Nella Stampa Arcivescovile. MDCLXXX., pp. 11-12-13.

39 Cfr. A. Aimi-V. De Michele-A. Morandotti a cura di, Septalianum Musaeum…cit., p. 28.; M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., pp. 221-233. In queste pagine Navoni fa un’ampia descrizione del contenuto dei tre volumi.

40 Cfr. A. Aimi-V. De Michele-A. Morandotti a cura di, Septalianum Musaeum…cit., pp. 32-33.

41 Ibid., p. 33.

42 Ibid., p. 34 e segg.

43 Ibid., p. 39.

44 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala…cit., p 5.

45 Cfr. B.A., Archivio dei Conservatori, 150, fasc. A; M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 233.

46 B. A. Archivio dei Conservatori, 163, fasc. 4.

47 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., pp. 232-233.

48 B. A., Archivio dei Conservatori, 161, fasc. G, cc. 1r.e v.

49 Ibid.

50 B.A., Archivio dei Conservatori, 161, fasc. D

51 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana e il Museo Settala, in “Storia dell’Ambrosiana”, p. 241; B.A., Archivio dei Conservatori, n. 161, fasc. O, c. 1r. “Dal fu Signor Canonico Manfredo Settala mio zio fu lasciata alla Biblioteca Ambrosiana la Galleria, e perché nel di lui testamento restò inchiuso un libro in stampa del contenuto in detta Galleria, nel qual libro ci sono molte cose ad ostentazione, molte altre che non vi furono, e molte che non erano parte della Galleria, perciò non doverà attendersi detto libro, massime rispetto alli quadri, mentre quelli, che di ragione potevano essere del detto Signor Manfredo, si riducono a quelli che si ritrovano nella Sala de Specchi, e talli ritratti del medesimo Signor Manfredo, essendo tutti li altri quadri descritti in detto libro tutti vecchii di Casa, come così attesto con mio particolar giuramento, sì come molte cose delle descritte in detto libro erano in casa prima del medemo Signor Manfredo, e molte sono state da me messe doppo, onde non cadono sotto detta disposizione; et però in quanto a questo particolare mi rimetto a ciò si farà dà Signori miei esecutori, ben è vero, che se fosse possibile con qualche honesto temperamento conservare al mio Erede la detta Galleria, mi sarebbe molto caro per la conseguenza dell’honorevolezza, desiderarei continuata nella mia Agnazione”.

52 M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 248.

53 B. A., Archivio dei Conservatori, 162, fasc. C. c. 23r.-24r.

54 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 247.

55 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala…cit., p 6; M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., pp. 251-252.

56 Cfr. A. Aimi-V. De Michele-A. Morandotti a cura di, Septalianum Musaeum…cit., pp 30 e segg.

57 Ibid.

58 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., pp. 239-240.

59 A. Aimi-V. De Michele-A. Morandotti a cura di, Septalianum Musaeum…cit., pp 31; M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p.240.

60 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI, Mondadori Electa 2010, p. 34.

61 Ibid., p. 35.

62 Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/del-sole-giovanni-battista_(Dizionario-Biografico)/

63 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI, Mondadori Electa 2010, pp. 59-61.

64 Cfr. http:/www.treccani.it/enciclopedia/maestri-giovan-battista-detto-il-volpino_(Dizionario-Biografico)/

65 AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI…cit., pp. 79-80.

66 P. F. Scarabelli, Museo ò Galeria Adunata del sapere, e dallo studio del Sig. Canonico Manfredo Settala Nobile milanese. Descritta in Latino dal Sig. Dott. Fis. Coll. Paolo Maria Terzago et hora in Italiano dal Sig. Pietro Francesco Scarabelli. Dott. Fis. Di Voghera. 1677   Et hora ristampata con l’aggiunta di diverse cose poste nel fine de medemi capi dell’opra. In Tortona 1677: per Nicolò, e fratelli Viola, p. 223.)

67 Inv. 1009;  Astrolabio latino; Rame, 24,7 cm. (diametro); Secolo XVI; Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

68 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI…cit.,  p. 62.

69 Inv. 1009; Rame (24,7 cm. diametro); Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

70 Cfr. AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI…cit., p. 71.

71 Inv. 304; Sfera armillare tolemaica; Ottone (h. 30,4 cm.-diametro 25,5 cm.); Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

72 Inv. 305; Ottone (h. 30,5-diametro 17,1 cm.); Sfera armillare tolemaica; Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

73 Inv. 306;  Sfera armillare; Ottone argentato (h. 39 cm.-diametro 22,1 cm.); Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

74 Inv. 338;  Cesare Fiori, Milano, 1636 . 1702; Ritratto di Manfredo Settala; Legno di bosso intagliato, 10 cm. (diametro).

75 Cfr. G. Fogolari, Il Museo Settala, in “Archivio Storico Lombardo”, s. 3, XIV (1900), p. 118 e segg., http://www.treccani.it/enciclopedia/cesare-fiori_(Dizionario-Biografico)/

76 Inv. 1010; Planetolabio; Rame, 42 cm. (diametro); Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

77 Inv. 2350-2351; Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

78 Inv. 307; Orologio da tavolo con astrolabio; Bronzo dorato (h. 32,3 cm.); XVI-XVII secolo; Museo Settala; Ambrosiana dal 1751.

79 Cfr. L. Pippa, Orologi e strumenti del Museo Settala, il primo Museo scientifico milanese, in “La voce di Hora”, Milano, N. 11, dicembre 2001, p.7e segg.

80 Ibid.

81 Inv. 492; Daniele Crespi; Busto Arsizio, 1597/1600 – Milano, 1630; Ritratto di Manfredo Settala; Olio su tela (44x33cm.).

82 Cfr. http://www.treccani,it/enciclopedia/daniele-crespi_(Dizionario-Biografico)/

83 Inv. 214; Melchiorre Gherardini; Milano, 1607 – 1675; Suicidio di Lucrezia Romana; Olio su tela (107x77cm.).

84 P. F. Scarabelli, Museo ò Galeria Adunata del sapere…cit., p. 238.

85 Cfr. A. Spiriti, Gherardini, Melchiorre, detto il Ceranino, http://www.treccani.it/enciclopedia/gherardini-melchiorre-detto-il-ceranino_(Dizionario-Biografico)/

86 Comunicazione orale.

87 Cfr. V. de Michele-L. Cagnolaro-A. Aimi-L. Laurencich, Il Museo di Manfredo Settala nella Milano del XVII secolo, Milano 1938, pp. 20-21; AA.VV., Musei e Gallerie di Milano. Pinacopteca Ambrosiana, Tomo VI…cit.,  pp.48-51.

88 Cfr. M. Colombo, Manfredo Settala, l’Archimede Milanese, in http://www.storiadimilano…cit.

89 Cfr. M. Pugliara, Il mirabile e l’artificio: creature animate e semoventi nel mito e nella tecnica degli antichi, Roma 2003, <<L’Erma>> di Bretschneider, p. 90 e segg.

90 Cfr. M. Navoni, L’Ambrosiana…cit., p. 215 e segg.

91 G. Galbiati, Itinerario per il visitatore della Biblioteca Ambrosiana della Pinacoteca e dei monumenti annessi. Biblioteca Ambrosiana, Milano 1951, p. 192.