LA CHIESA DI SANT’IVO ALLA SAPIENZA, ROMA

 

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Nel 1640 il Borromini innalzò la stravagante cupola (sulla quale in 32 anni caddero 4 fulmini) sulla piccola chiesa dei SS. Leone, Ivo e Pantaleo, che dal 1870 fu adibita ad altri usi, e ai nostri giorni è stata riaperta al culto. Nel mezzo del cortile è il monumento agli studenti caduti nella prima guerra mondiale, del Cataldi.Entrando dall’ingresso aperto nell’austera facciata sul Corso, si accede al bel cortile, su due ordini di arcate; nella parete di fondo, la splendida chiesa di Sant’Ivo, che il Borromini costruì a partire dal 1642. Sulla facciata concava, già esistente, il Borromini aggiunse l’attico, sopra cui si innalza il tiburio polilobato della cupola; gli attacchi tra tiburio e attico sono coperti da tamburi sovrastati dallo stemma Chigi (sotto Alessandro VII Chigi la chiesa fu completata, intorno al 1660), i monti e la stella.Sopra si innalza la calotta gradinata, poi la lanterna, e infine, tra fiaccole di travertino, la celebre chiocciola, o spirale, riccamente decorata a stucchi, che termina in una fiamma, sopra la quale, in ferro battuto, una tiara, il globo e la croce.È la chiesa dell’archiginnasio romano detto la Sapienza. Fino a Leone X l’archiginnasio non ebbe cappella, fungendo a tal uso la vicina chiesa di s. Eustachio. Leone X con bolla dell’anno 1514 ne ordinò la fabbrica: da principio fu eretta una cappella provvisoria in un’antica scuola dal lato sinistro della porta principale d’ingresso, la quale fu dedicata ai ss. Leone papa e Fortunato martire. Il papa la provvide di cappellania, fondandovi una prepositura, che dichiarò dignità del clero romano. Vi si doveva celebrare la messa in tutti i giorni di scuola in primo crepuscolo. Gregorio XIII demolì quella cappella obbligando i cappellani di adempiere il loro officio nella vicina chiesa di s. Giacomo degli Spagnuoli. Nel 1594 uno dei suddetti cappellani domandò la ripristinazione della cappella, e sembra che fosse soddisfatta la domanda, come risulta dalla relazione della visita fatta nel 1627. Finalmente il collegio degli avvocati concistoriali assunse l’impegno di fare edificare una cappella stabile entro il recinto dell’archiginnasio. La fabbrica fu cominciata nel 1642, e nell’archivio dell’Università si conserva il documento in cui si legge che “il signor cav. Bernini ha fatto sapere da parte del signor cardinal Barberini padrone, d’aver fatto deputare dal popolo romano per architetto della Sapienza l’illo signor Borromino nipote del signo Carlo Maderni ecc.” A questo fu commesso infatti il disegno della nuova chiesa che fu compiuta nel 1660.

 

Lucica Bianchi

FESTE POPOLARI E TRADIZIONI RELIGIOSE – LE LUMINARIE DI DISO

 

La Festa patronale dedicata ai Santi Filippo e Giacomo è uno spettacolare esempio di devozione dei fedeli nei confronti dei propri Santi Patroni.Ogni anno, il 1° maggio Diso, un piccolo paesino dell’entroterra sud salentino, situato nei pressi di Castro, offre uno spettacolo di riti sacri e profani in grado di stupire e carpire l’interesse degli adulti così come quello dei più piccoli.Storicamente la cittadina è legata ai Santi Patroni e ad essi devota. Sebbene già a partire dal 1889 a livello internazionale è stato stabilito che il 1° maggio è la giornata dedicata alla festa del lavoro e pertanto questo rappresenta un giorno di festa nazionale e internazionale, la devozione degli abitanti di Diso non ha vacillato nemmeno per un istante e mentre tutta la comunità festeggia il lavoro e i lavoratori, a Diso si festeggiano i Santi Patroni.
Probabilmente anche per evitare l’accavallarsi di festività importanti e di origine diversa, con il passare del tempo, le celebrazioni liturgiche in onore dei due Santi Patroni hanno subito delle variazioni, essendo state spostate dapprima all’11 maggio e poi definitivamente al 3 maggio. Ciò nonostante gli abitanti più devoti e fedeli considerano ancora il 1° maggio festa patronale, così come comanda la tradizione.Le tradizioni popolari locali testimoniano un forte attaccamento della popolazione ai Santi e ai personaggi sacri, soprattutto ai Santi Patroni.I Santi Patroni hanno sempre rappresentato un valido interlocutore diretto per il popolo sofferente e per il contadino che a volte chiedeva la grazia per un ricco raccolto, altre volte chiedeva semplicemente che la salute accompagnasse lui e la sua famiglia nel corso degli anni. E così le mogli chiedevano un matrimonio ricco di prole, i mariti la capacità di sostentamento della numerosa famiglia e se veniva qualche carestia in ogni caso ci si votava ai Santi per ottenere la grazia.In un’epoca in cui anche la routine era assai difficoltosa e tutt’altro che goliardica, i cittadini offrivano ai Santi quanto più possibile, garantendo, quanto meno, dei ricchi festeggiamenti durante la ricorrenza. Ciò non deve stupire perché, in fondo, questi fastosi festeggiamenti altro non rappresentano che la ovvia evoluzione dei sacrifici offerti agli dei in epoca arcaica.Ma se tutto ciò non stupisce, certamente lascia attoniti la caparbietà dei Disini e la loro voglia di continuare la tradizione, offrendo ai Santi Patroni Filippo e Giacomo dei festeggiamenti che probabilmente sono tra i più ricchi nel territorio regionale.Luminarie, spettacoli pirotecnici e concerti bandistici animano le serate della primavera disina, in onore di festeggiamenti che, tra cerimonie sacre e riti profani, partono addirittura dalla seconda metà di aprile. A partire dal 21 aprile, infatti, le statue dei Santi vengono esposte per l’adorazione ma solo il 3 maggio, a conclusione del periodo loro dedicato, le statue verranno portate in processione e i festeggiamenti culmineranno in uno spettacolo inenarrabile.L’intero paese si trasforma in un palcoscenico, allestito grazie ai fedeli che si riuniscono in comitato e si occupano dell’organizzazione dei festeggiamenti durante tutto il corso dell’anno.

Lucica Bianchi

 

I TESORI ALLA FINE DELL’ARCOBALENO

“Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.”
                                                                                                                                                    Norberto Bobbio (filosofo e storico contemporaneo)
Amici e lettori carissimi vi invitiamo a visitare la nuova pagina facebook affiliata al giornale di cultura e informazione “I tesori alla fine dell’arcobaleno”
                                                       .https://www.facebook.com/itesoriallafine?ref=hl

Dalla storia alla musica, dalla letteratura all’arte, dalla filosofia alla religione,la cultura divenne un patrimonio di tutti, un tesoro da custodire e condividere, apprezzare e valorizzare.

                                                                                     I Tesori alla fine dell’arcobaleno
La caratteristica che distingue la cultura è una sola e indubitabile: il contagio. Non sarà un’opera d’arte se non suscita nell’uomo quel sentimento, completamente differente dagli altri, di gioia nell’unione spirituale con un altro (l’autore) e con altri ancora (gli ascoltatori o spettatori) che contemplano la stessa opera d’arte.Il compito della cultura è immenso:con l’aiuto della scienza e sotto la guida della religione, deve fare in modo che quella convivenza pacifica degli uomini che ora viene mantenuta con mezzi esterni – tribunali, polizia, istituzioni benefiche, ispezioni del lavoro, eccetera – sia ottenuta mediante la libera e gioiosa attività della gente. La cultura deve sopprimere la violenza.
La cultura, in tutte le sue più variate manifestazioni, deve fare in modo che i sentimenti di fraternità e amore per il prossimo, oggi accessibili solamente agli uomini migliori della società, diventino sentimenti abituali, istintivi in tutti.La destinazione della cultura del nostro tempo è di tradurre dalla sfera della ragione alla sfera del sentimento la verità che il bene della gente è nell’unione e di instaurare in luogo della violenza attuale quel regno di Dio, cioè quell’amore che si presenta a noi tutti come fine supremo della vita dell’umanità.

STORIA DELLA PINACOTECA AMBROSIANA

Caravaggio, La canestra di frutta, Pinacoteca Ambrosiana Milano

Caravaggio, La canestra di frutta, Pinacoteca Ambrosiana Milano

 

Ideata fin dal 1607 e costituita nel 1618, doveva servire, nell’intenzione del fondatore Federico Borromeo, di sussidio e di modello a una futura Accademia di belle arti per la formazione e l’educazione del gusto estetico, in conformità ai dettami del Concilio di Trento.

L’Accademia fu difatti istituita nel 1621, e primo presidente fu il pittore Giovan Battista Crespi detto il Cerano. La nuova istituzione, agli inizi, ebbe vita fiorente: vi aderirono architetti, pittori e scultori insigni, quali il Biffi, il Mangone, il Procaccini, il Morazzone, Daniele Crespi, il Nebbia; ma più tardi decadde, finché, nel 1776, cessò di esistere.
Rimase, però, e si sviluppò sempre di più la Quadreria, che lo stesso cardinale Federico aveva descritto nel volume il Musaeum del 1625, e che annoverava già opere di Raffaello, Leonardo, Luini, Tiziano, Caravaggio, Brueghel, il meglio dell’intera raccolta tuttora esistente. All’epoca della donazione del 1618, si contavano circa 250 dipinti tra originali e copie (una trentina); ora si contano più di 1.500 opere su tavola, su tela e su rame. Fanno parte di questa collezione: la Galleria Resta, o galleria portatile, cosiddetta perché riunita in un volume di grande formato e comprendente 248 disegni di vari maestri con alla testa Raffaello; il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci con i suoi 1750 disegni di carattere tecnico-scientifico e il grande cartone di Raffaello raffigurante la Scuola d’Atene (m 8,04 x 2,85), acquistato dal cardinale Federico per l’Accademia, che presenta alcune piccole varianti rispetto all’affresco vaticano della Stanza della Segnatura.

Tra i dipinti più famosi della Pinacoteca Ambrosiana vanno segnalati: il Musico di Leonardo, la Canestra di frutta di Caravaggio, il Ritratto di dama di Giovanni Ambrogio De Predis, la Madonna del padiglione di Botticelli, il Presepe di Barocci, l’Adorazione dei magi di Tiziano, la Sacra Famiglia di Bernardino Luini, il Fuoco e l’Acqua di Brueghel.

Unito alla Pinacoteca è anche il Museo Settala, uno fra i primi d’Italia, fondato dal canonico Manfredo Settala (1600-1680), ed entrato all’Ambrosiana nel 1751. È una specie di museo di storia delle scienze con varie curiosità di ogni tempo.

Nel corso del ‘900 la Pinacoteca ha subito una serie di ristrutturazioni dovute essenzialmente agli ampliamenti dell’edificio e al danno inferto dai bombardamenti del 1943. Si ricordano, quindi, i lavori del 1905-1906, eseguiti sotto la direzione di Luca Beltrami, Antonio Grandi e Luigi Cavenaghi; quelli degli anni 1932-1938, sotto la guida di Ambrogio Annoni; il riassestamento del 1963 curato dall’architetto Luigi Caccia Dominioni per finire con l’attuale riordino compiuto negli anni 1990-1997.

 

In questa sezione si succedono in ebook singoli passi tratti da varie fonti.
Solo un criterio presiede alla scelta dei passi:
riproporre solo quelli che contengono argomenti
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  1. Biagio Guenzati, Vita di Federigo Borromeo, a cura di  Marina Bonomelli

 

LA GRANDE BIBLIOTECA AMBROSIANA

 

 

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La grande Biblioteca lombarda fondata dal cardinale Federico Borromeo fu una delle prime che per il gesto di un illustre mecenate venisse aperta alla pubblica lettura (1609).Fu concepita dal fondatore come un centro di studio e di cultura: volle infatti che vi fiorissero a lato altre istituzioni come il Collegio dei Dottori, l’Accademia di Belle Arti e la Pinacoteca.Il cardinale raccolse per la sua Biblioteca, che dal santo protettore di Milano chiamò Ambrosiana, un largo numero di codici greci, latini, volgari e nelle diverse lingue orientali. In essi si comprendono i fondi preziosi derivanti da istituzioni religiose come il monastero benedettino di Bobbio, il convento agostiniano di Santa Maria Incoronata e la biblioteca del Capitolo Metropolitano di Milano; così pure quelli provenienti da importanti collezioni private come quella di Gian Vincenzo Pinelli, Francesco Ciceri e Cesare Rovida, illustri studiosi e bibliofili del ‘500. Fra gli innumerevoli donatori che arricchirono in seguito l’Ambrosiana, si segnalano Mellerio, che nel secolo XIX, legarono la Biblioteca delle loro straordinarie raccolte librarie.Per la vastità delle raccolte e per il numero e il pregio dei codici, l’Ambrosiana è indubbiamente una delle prime biblioteche italiane e del mondo. Ebbe illustri bibliotecari quali lo storico milanese Giuseppe Ripamonti, Ludovico Antonio Muratori, Giuseppe Antonio Sassi, il cardinale Angelo Mai, Antonio Maria Mercati e Achille Ratti divenuto pontefice con il nome di Pio XI.La Biblioteca ha carattere storico, letterario, religioso, particolarmente classico retrospettivo, ossia volto allo studio del passato; è retta da due Collegi, uno dei Dottori – presieduto dal Prefetto – che sovraintende alla sua attività culturale, e l’altro dei Conservatori, preposto alla sua amministrazione.Fra le ricchissime collezioni ambrosiane si ricordano il fondo arabo ed orientale, di eccezionale importanza; la biblioteca glottologica-dialettale di Carlo Salvioni e la raccolta araldica di Eugenio Casanova. Si contano numerosi palinsesti (con pezzi pregevolissimi come gli unici frammenti superstiti della Vidularia di Plauto, risalenti al V secolo, e parte della versione gotica del Vangelo compiuta dal vescovo ariano Ulfila) e molti manoscritti splendidamente miniati come il Libro d’ore Borromeo, di mano di Cristoforo De Predis, o il Gellio decorato e firmato da Guglielmo Giraldi.

Ma sopra tutti eccellono l’Ilias picta del V sec., il famoso Virgilio con annotazioni marginali di Francesco Petrarca, miniato da Simone Martini, il Giuseppe Flavio, nella versione latina, su papiro, il codice irlandese e quello provenzale. Vi sono poi diversi codici autografi come il De prospectiva pingendi di Piero della Francesca, l’Aristotele con il commento trascritto dal Boccaccio, la Vita di Guidobaldo di Montefeltro di mano di Pietro Bembo e gli autografi di S. Tomaso d’Aquino, dell’Ariosto, del Machiavelli, del Tasso, di Galileo per arrivare all’intero fondo pariniano e di Cesare Beccaria.

Pregevolissimi, poi, sono molti degli incunaboli (da non dimenticare la rara edizione del Decamerone di Cristoforo Valdarfer, Venezia 1471) e le non poche edizioni principi.

La Biblioteca inoltre possiede molte legature di pregio di manoscritti come di stampati, di cui una addirittura in pelle umana. Fra le collezioni speciali sono infine da segnalare quelle degli statuti, delle edizioni aldine, cominiane e bodoniane, nonché la ricchissima collezione delle incisioni e delle stampe di circa 12.000 unità.

 

In questa sezione si succedono in ebook singoli capitoli tratti
dalla
Storia dell’Ambrosiana edita da Cariplo Banca Intesa.
Non sono in ordine di indice.
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L’Ambrosiana: “Per un servizio universale”
Queste parole, secondo l’Atto di fondazione dell’Ambrosiana stilato nel 1607, riassumono lo spirito del suo fondatore, confermato nel Breve papale dell’anno 1608. Nel 1604 l’arcivescovo Federico Borromeo aveva presentato a papa Clemente VIII il suo primo progetto di fondare a Milano una grande biblioteca pubblica. L’amore per i libri gli era stato instillato quando, in giovane età, aveva sperimentato a Roma l’importanza fondamentale della scienza e dell’arte, per una nuova evangelizzazione mediante il dialogo e lo studio della cultura moderna. A Federico il cardinale Agostino Valier scriveva nel 1587: «I buoni libri non ci portano via il tempo come la gran parte delle persone che ci vengono a trovare: i libri sono amici che ci possono arricchire quanto ne abbiamo voglia. Tu, quindi, o cardinale Federico, dovrai raccogliere una grande quantità di libri, dovrai costruire una biblioteca degna del tuo nobile animo, spendendovi senza risparmio tutto il danaro che sarà necessario».
L’acquisizione dei manoscritti
Un programma che il giovane erudito non tardò a realizzare, raccogliendo in pochi anni migliaia di manoscritti con le opere principali di tutti i letterati e scienziati allora conosciuti.
Mentre procedeva agli acquisti, tra il 1603 e il 1609 aveva già scelto alcuni giovani ecclesiastici di ingegno, come candidati alla Schola o Collegio dei Dottori, che intendeva istituire quale colonna portante del disegno culturale ambrosiano.
Un inviato dell’arcivescovo, il nobile canonico Gian Giacomo Valeri, riuscì nel 1605 ad assicurare all’Ambrosiana i codici dell’antichissimo convento di san Colombano a Bobbio: tra questi, molti palinsesti dei secoli V-VI, con gli Atti del I Concilio di Calcedonia nel 451, e il Canone che poi sarebbe stato chiamato “muratoriano” con il più antico elenco dei libri biblici, risalente ai secoli II-III.
Il colpo più grosso gli riuscì grazie all’abilità di Fabio Leuco, che per suo incarico ad un’asta pubblica in Napoli il 14 giugno 1608 si aggiudicò per 3000 scudi i 700 codici preziosissimi che erano appartenuti aGian Vincenzo Pinelli: tra questi, la celeberrima Ilias picta, miniata probabilmente per la Biblioteca di Alessandria d’Egitto verso la fine del V secolo.
Avido di conoscenze, Federico coltivava personalmente studi in moltissimi campi, interessandosi alla Sacra Scrittura, all’ebraico, all’arabo, al siriaco.
Il fondo ebraico più antico comprendeva originariamente circa un centinaio di codici, alcuni splendidamente miniati, fatti acquistare o copiare in tempi e modi vari, in conformità al piano scientifico della erigenda biblioteca, nel quale si privilegiavano, accanto agli studi classici e storici, gli argomenti biblici e talmudici, qabbalistici e filosofici secondo la prospettiva di Mosè Maimonide, pioniere del dialogo fra mondo antico e moderno.
La passione di Federico per gli studi orientali
Federico, mosso da una «incredibile passione per gli studi orientali», fu sensibile anche alla cultura araba, della quale volle apprendere non solo alcune nozioni di lingua, ma anche elementi fondamentali di quel sistema religioso e civile. Tra i testi letterari persiani figurano celebri poemi quali il Bustan e il Gulistan diSa‘di da Širaz, ed un piccolo gruppo a parte, non meno significativo, comprende tre codici cristiani, tutti recanti il Vangelo secondo Matteo in persiano: due di questi vennero copiati nel 1598 e 1601 da Tuma Jan, armeno di Aleppo, già alunno del Collegio dei Neofiti in Roma.
La raccolta ambrosiana di codici e stampe arabe, persiane e turche riflette un orientamento in armonia con le contemporanee fitte relazioni diplomatiche che andavano intessendosi tra la Santa Sede e l’oriente sotto il pontificato di Clemente VIII (1592-1605), in particolare con lo scià di Persia, il safavideAbbas I (1581-1629). In un suo scritto, stampato in versione latina nel 1626, il cardinale sostiene la dipendenza della cultura occidentale dalle civiltà asiatiche ed orientali:
«Anche gli autori di scienze non ecclesiastiche dovrebbero convenire sul fatto, che le nazioni europee hanno accolto più tardi le leggi e le tradizioni civili, ricevendole dai popoli asiatici, perciò i popoli occidentali sono stati educati da quelli orientali».
L’autore esprimeva anche – insieme a dure critiche – un apprezzamento positivo circa le origini dell’Islam, sostenendo che «Dio ha tollerato la setta maomettana, per distogliere i pagani dal culto degli idoli, e perché il male peggiore venisse meno fino a scomparire del tutto, grazie al male minore, Dio volle recare al mondo un rimedio, così che il maggior male non fosse accolto».
Federico svolge poi una riflessione circa eventuali possibili cause di crollo dell’impero ottomano, mostrandosi attento osservatore della crisi dinastica degli Osmani, culminata nel 1622 con la rivolta dei giannizzeri che trucidarono il giovane sultano Osman II.
Quasi anticipando giudizi e considerazioni che torneranno di attualità dopo due secoli e mezzo, al tempo della spartizione dell’impero ottomano dopo la prima guerra mondiale, il Borromeo esprime un punto di vista che all’inizio del Novecento sarà quello dell’arabista linceo, il principe Leone Caetani (1869-1935), poi vigoroso antifascista; il Borromeo è favorevole alla stabilità garantita da tale impero, al punto da augurarsi che uno dei possibili giovani eredi di stirpe osmana, da lui personalmente incontrato ancora fanciullo (forse il futuro Murat IV) in Italia, possa divenire «più favorevole verso la Chiesa».
I rapporti di Federico con gli umanisti del suo tempo
Amico personale di umanisti e scienziati come Galileo Galilei e Johann Schreck, il naturalista svizzero nominato a Roma accademico linceo, divenuto poi gesuita e missionario in Cina, Federico intratteneva rapporti con studiosi da tutto il mondo. Quando, nel 1615, tornò il Europa da Pechino il successore diMatteo Ricci, l’umanista belga Nicola Trigault, insistette per riceverlo più volte a Milano, e ne ricevette i primi rarissimi libri cinesi, tra i quali figura un esemplare del Da Ming guan zhi, opera forse oggi unica rimasta, nella quale si descrive il sistema della Prefetture del Celeste Impero. A Trigault e Schreck in partenza per la Cina, dopo aver loro fatto visitare la biblioteca, Federico fece dono di un cannocchiale, che fu poi offerto all’imperatore nel 1634. Dalla Cina Schreck nel 1624 gli inviò un dettagliato resoconto sui Libri principali de’ Cinesi con breve argomento della filosofia loro, manoscritto appena riscoperto in Ambrosiana, nel quale gli riferisce che «La divisione generale della scientia, nella quale studiano li Cinesi ordinandola al governo, et conservatione della loro Repubblica (per lasciare da parte le arti liberali, e meccaniche) conforme ad essi contiene due membri principali, quali dicono esser necessari alla Repubblica, come due rote al carro per andare, e le due ali all’uccello per volar, delle quali se una manca, non si può muovere. Questi due membri sono scientia per il governo del regno, e arte militare per la sua difesa, castigo de tristi, e rebelli. Si che per dir che un’homo nella loro repubblica è perfetto, l’addimandano homo consumato nelle due scienze, arme, e lettere».
Il programma culturale di Federico
Il programma culturale di Federico, che Alessandro Manzoni celebrò nei Promessi sposi, rappresentava quattrocento anni fa quanto di più avanzato si potesse immaginare a proposito di incontri di culture e civiltà; nelle sue Direttive ai Dottori così li esortava: «Non credo, che alcuno sin’hora habbia esposto il Catalogo compito de i libri, Siriaci, né Arabi, né pure Hebrei; de gli Armani, de gli Illirici, de i Persiani, de i Chinesi, de gli Indiani, non ve ne è quasi cognitione. Et pure utile sarà la fatica. Massimamente se non sarà puro, et semplice Indice, ma che si dia ragguaglio, et mezzana Cognitione della qualità del libro, et di che cosa egli parla. Vi sono parimente quelli che sono in uso presso al Prete Janni. Et quelli de’ Moscoviti, et de Tartari? Né questa sarà impossibile impresa. Et se alcun’ libro non si potesse havere, si habbi di esso una fedele relatione. Né Tolomeo il Grande, poté vedere tutti quanti i luoghi, che egli descrisse nelle sue Tavole».
Bellezza, scienza, pietas
Il grande cardinale, accanto alla Biblioteca, tracciò norme esemplari per l’attività artistica nel suo Museo, ed eresse uno straordinario polo di carattere universitario e politecnico, istituendo quell’Accademia di pittura, scultura ed architettura, dalla quale Maria Teresa d’Austria nel 1773 cavò la sua Imperial Accademia di Brera. I tre pilastri sui quali volle innalzare l’Ambrosiana – bellezza scienza pietas – sono emblematicamente espressi al mezzo dello scalone d’onore, dove tra due calchi del Laocoonte e della Pietà michelangiolesca troneggia l’epigrafe dedicata al Codice Atlantico di Leonardo Da Vinci, munificamente donato con altri undici manoscritti leonardeschi, nel 1637, dal conte Galeazzo Arconati. Da quattro secoli l’Ambrosiana sorge, nel cuore di Milano, sulle fondamenta del Foro romano, quale simbolo più alto dell’incontro tra fede e ragione, tradizione e modernità, speranza di dialogo e di pace.

Il LEGGENDARIO SFORZA-SAVOIA

Il Leggendario Sforza-Savoia è uno dei codici più preziosi della miniatura italiana. Realizzato nel 1476 per volontà del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e di sua moglie, Bona di Savoia, il libro è una raccolta di storie – o leggende, da cui il nome Leggendario – tratte dal Nuovo Testamento e dai Vangeli Apocrifi: sono narrate le vicende di Gioacchino e Anna, di Maria, di Gesù e del Battista, con una parte conclusiva dedicata al Giudizio Universale. Il testo in volgare è accompagnato da un apparato illustrativo ricchissimo: ben 324 grandi scene miniate (spesso due per pagina) realizzate da Cristoforo de’ Predis. La vena narrativa delle illustrazioni e la spiccata potenza visiva dell’insieme fanno del Leggendario un vero e proprio racconto per immagini. Oggi il manoscritto è conservato nel caveau blindato della Biblioteca Reale di Torino – dove pervenne nel 1841 – accanto ad altri capolavori come il Codice sul volo degli uccelli di Leonardo e il suo celebre Autoritratto.
IL PRINCIPE MAGNIFICENTISSIMO

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Principe gaudente, esteta “magnificentissimo”, uomo incline all’ostentazione del lusso più sfrenato: con queste parole veniva descritto dai contemporanei Galeazzo Maria Sforza, durante il cui ducato (1466-1476) la corte milanese divenne “una de le più resplendente de l’universo”.
Il suo mecenatismo si manifestò soprattutto nelle grandi opere pubbliche, come la decorazione delle cappelle dei castelli di Milano e Pavia o la fondazione di Santa Maria degli Angeli a Vigevano.
Raffinato bibliofilo, Galeazzo Maria Sforza disponeva di una ricca biblioteca composta da oltre cento volumi, molti dei quali da lui stesso commissionati.
Nelle pagine del Leggendario Sforza-Savoia le insegne del duca si alternano alle armi di Casa Savoia, in onore alla consorte Bona: il codice può dunque considerarsi una sorta di suggello allegorico dell’unione tra le due famiglie, ma anche un segno del riavvicinamento tra Galeazzo Maria Sforza e il re di Francia (Bona era cognata di Luigi XI), cui rimandano i tre gigli dorati raffigurati nel libro.
UNA STORIA ROCAMBOLESCA
Ma com’è arrivato a Torino il Leggendario Sforza-Savoia? Secondo una fonte antica, quando Galeazzo Maria Sforza dovette allontanarsi dalla città per motivi guerreschi, affidò il libro a una monaca di un convento milanese: alla morte improvvisa del duca, nessuno reclamò il codice, che passò in seguito alla famiglia del conte Toesca. Nel 1841 il codice fu poi donato al re Carlo Alberto di Savoia, e da allora fa parte della Biblioteca Reale di Torino.

Lucica Bianchi

IL POEMA DI GILGAMESH

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la statua di Gilgamesh, Museo del Louvre, Parigi

Uno dei pochi racconti sumerici che è potuto giungere fino a noi è il celeberrimo poema di Gilgamesh, composto a Uruk intorno a 4500 anni fa. Chi è Gilgamesh? non si sa di preciso. Forse è un personaggio reale, un re di Uruk, vissuto circa 4600-4700 anni fa e diventato famoso per essersi posto, analogamente al suo collega faraone, l’ obiettivo dell’ immortalità. Già subito dopo la sua morte, su di lui circolano un certo numero di aneddoti, che vengono prima raccontati in forma orale
e in modo frammentario e successivamente raccolti, ordinati e messi in forma scritta in lingua sumerica. L’opera ha successo e si diffonde in tutto il Vicino Oriente. Intorno a 3000 anni fa, essa viene tradotta in lingua assira e viene conservata nella biblioteca del palazzo di Ninive, voluta da Assurbanipal, dove è stata ritrovata a seguito degli scavi archeologici compiuti nel XIX secolo. Ecco una sintesi del racconto.
Gilgamesh è il potente e arrogante re di Uruk. Stanchi del suo strapotere, i sudditi si rivolgono agli dèi perché gli oppongano qualcuno di pari valore. Gli dèi creano allora Enkidu, un uomo di mentalità primitiva e selvaggia, che cresce in compagnia degli animali selvatici. Saputo delle prepotenze del re, Enkidu si reca in città e lo affronta, ma Gilgamesh si mostra valoroso tanto che, alla fine, Enkidu riconosce la legittimità del suo potere e i due diventano amici. Insoddisfatti della loro vita tranquilla, i nostri eroi decidono di intraprendere un viaggio alla ricerca di gloria. Strada facendo, la dea Istar si innamora di Gilgamesh, ma questo la respinge perché sa che la dea ha trasformato molti suoi amanti in animali. Irritata, Istar si rivolge ad Anu, il dio della volta celeste, chiedendogli di vendicarla. Anu manda contro i nostri eroi il gigantesco Toro del Cielo, ma essi lo uccidono. Invidiosi della loro fortuna, gli dèi decidono la morte di Enkidu, il quale, lamentando la sua fine ingloriosa, lontano dai campi di battaglia, esala l’ultimo respiro fra le braccia dell’amico, che ne piange la perdita. Sentendo incombere anche su di sé la minaccia della morte, Gilgamesh vuole scoprire il segreto dell’immortalità e si mette in viaggio alla volta di Utnapistim, l’unico uomo che sembra l’abbia ricevuta dagli dèi e che vive in un’isola agli estremi confini della terra.Lungo il cammino deve superare una serie di difficoltà, che si frappongono fra lui e Utnapistim: affronta due mostri spaventosi, che fanno la guardia al “Giardino delle Delizie”, resiste ad una locandiera, che cerca di dissuaderlo prospettandogli l’irrealizzabilità dell’impresa, e attraversa l’Oceano. Gilgamesh non si ferma davanti a nessun ostacolo, finché giunge al cospetto di Utnapistim, il quale, dichiaratosi disponibile a svelargli il segreto dell’immortalità, gli racconta come gli dèi abbiano mandato sulla terra il diluvio universale, come egli, aiutato dal dio Ea, abbia costruito un’arca e vi abbia caricato la propria famiglia e tutti gli animali salvandosi, e, infine, come, per grazia degli dèi, gli sia stato concesso di vivere per l’eternità in quella remota isola. Avendo compreso che non c’è alcun segreto da svelare e che l’immortalità è una prerogativa divina, deluso, Gilgamesh si prepara al ritorno, quando Utnapistim, tratto in compassione, vuole dargli un’estrema possibilità: se avesse raccolto una certa pianta, che si trova in fondo al mare, e l’avesse mangiata, avrebbe guadagnato l’immortalità. Ancora una volta, l’eroe affronta con successo l’impresa e, mentre fa ritorno alla sua città con l’intento di far mangiare la pianta a tutti gli uomini, essendosi fermato a bere da una sorgente e avendo deposto a terra la pianta, un serpente gliela rapisce. Così Gilgamesh ritorna a Uruk a mani vuote.Il mito di Gilgamesh ci permette di cogliere il livello di civiltà raggiunto dai sumeri, che appaiono in grado di riflettere sulla natura degli uomini. Dal momento che l’intelligenza, la forza, la volontà e il coraggio non bastano a fare di lui un essere immortale, all’uomo altro non resta che accettare i propri limiti e rassegnarsi al proprio destino. Tale è il senso tragico dell’opera, che presenta tratti di grande interesse, alcuni dei quali saranno poi ripresi dalla letteratura successiva, in particolare dalla Bibbia (Giardino delle Delizie, Diluvio) e dai poemi omerici (uomini-eroi, dèi antropomorfizzati, viaggio avventuroso, pianto per la morte dell’amico).

 

Lucica Bianchi

CODICI LEONARDESCHI – IL CODICE LEICESTER

Il volume si compone dei 36 fogli che riproducono il manoscritto, di una trascrizione fedele del testo di Leonardo e di una trasposizione in italiano. Il Codice Leicester (datazione probabile 1504-1506) è una raccolta di osservazioni e disegni di Leonardo da Vinci; argomento dominante del testo è l’acqua anche se non mancano osservazioni di astronomia, di meteorologia e di geografia fisica.Una ristampa anastatica di un’edizione facsimile del Codice Leicester è stata pubblicata dalla Casa editrice Cogliati di Milano nel 1909.
La cronologia del manoscritto è incerta: c’è chi ne fa iniziare la composizione già nel 1504, ma i più concordano per un periodo che va dal 1506 al 1508 con aggiunte successive fino al 1510. I vari scritti leonardeschi hanno subito una vicenda complessa ed intricata, che ha contribuito nel tempo a creare intorno ad essi un alone di mistero; dopo la morte di Leonardo da Vinci, nel 1519, quasi tutti i suoi documenti vennero ereditati da un suo fido discepolo, Francesco Melzi, che li portò dalla Francia in Italia, dove ebbero una sorte varia e ricca di vicissitudini, che nel tempo portò, purtroppo, alla perdita di molti di essi. Più lineare e facilmente ricostruibile sembra essere stata la storia del presente codice, che probabilmente non fece parte dell’eredità Melzi: nel 1537 lo sappiamo conservato dallo scultore milanese Guglielmo della Porta, nel 1690 circa fu acquistato dal pittore Giuseppe Ghezzi e dallo stesso fu rivenduto nel 1717 a Thomas Coke, Lord Leicester: da questo proprietario prese il nome con il quale è ricordato in presente.

Successivamente fu acquistato all’asta da parte del petroliere americano Armand Hammer che lo portò a Los Angeles e rinominò a proprio favore: per molti infatti è noto come Codice Hammer. L’attuale proprietario è Bill Gates, il re dell’informatica, che lo ha acquistato, sempre ad un’asta, nel 1994.
Il manoscritto è costituito da 18 carte doppie, cioè 36 fogli (dimensioni: cm 25 x 19) con recto e verso. Sono stati compilati riempiendo un foglio doppio dietro l’altro ed inserendolo ogni volta nei precedenti. E’ esemplare per conoscere il metodo di compilazione usato da Leonardo: è infatti una raccolta di appunti non organizzati in modo sistematico e definitivo e reintegrati via via con osservazioni, nuove considerazioni ed esperimenti. Ci sono sottolineature, aggiunte, cancellature improvvise che evidenziano l’immediatezza della composizione ed un procedere per enunciati ed interrogativi. Il tema principale è l’acqua con appunti e disegni di vortici e correnti, osservazioni di idrostatica, idrodinamica ed ingegneria idraulica, ma non mancano studi e riflessioni sull’illuminazione del sole, della terra e della luna. Insieme alle intuizioni più originali, come quella sul lumen cinereum della luna, dal codice emergono anche gli errori che Leonardo ereditò dalla tradizione: per esempio riteneva che le maree siano dovute al fatto che l’acqua viene “bevuta” dal fondo del mare (11A-26 verso). Il tutto è composto con scrittura speculare a quella comune, scrive infatti da destra verso sinistra; questo sembra sia dovuto ad una questione ottica istintiva, assai frequente nei bambini, che in Leonardo non viene corretta in giovane età, anche se molti hanno voluto intravedervi più affascinanti intenti di segretezza.

 

Lucica Bianchi

ME, IL MATU E POI ALTRO ANCORA

Racconti e pensieri di un Talamonese– Giuanin Fant de Pic

Il Matu era uno affettato col coltello grosso. Gli importava mica di scureggiare davanti alle femmine, tanto, diceva, doveva piacergli così com’era o niente. Al bar metteva sempre i diti dentro al naso e poi lanciava le taccole addosso a quelli vicini. Gli piaceva vedere se si accorgevano o no, poi dopo se si giravano per mollargli una sberla alzava il bicchiere e gli faceva “Prosit”. Beveva tutto quello che c’aveva giù nel calice in un fiato, si puliva la bocca giù nel braccio e correva via prima di prenderle. Il Matu era un mio socio poi anche per quello. Una volta gli ho detto che se mangiava un maggiolino io gli pagavo una pizza e lui il giorno dietro è venuto a casa mia con un sacchetto pieno di maggiolini, saranno stati una ventina. Ha aperto un panino e ce li ha infilati dentro tutti. Quando l’ha messo in bocca c’erano le antenne che cercavano di scappare dalle fette di pane. Io son stato lì a guardarlo perché se no ci credevo mica che lo faceva. Alla fine l’ha mangiato tutto, si è ciucciato i diti, si è pulito la bocca col braccio e ha pestato un rutto da stending ovescion. Poi, mi ha detto: “Adesso mi paghi venti pizze”.

Dopo, mi ricordo di quella volta d’estate che io, il Matu e l’Erminio Stagnola siamo andati al cimitero a fumare l’erba tutto il dopo mezzogiorno anche se faceva un caldo della madonna. Ora della fine si era talmente stonati che era difficile tornare a casa, ma lo Stagnola mi ha dato uno strappo col motorino lo stesso, così ce l’abbiamo fatta. Il Matu sapeva mica come fare e c’aveva sonno, così si è imbucato in un loculo per dormire perché diceva che era più fresco e ha messo una scala a pioli davanti al buco per nascondersi. Passa un po’ di tempo e arriva una vecchia che ha da bagnare i fiori del suo uomo sciopato e fa per prendere la scala davanti al loculo del Matu. La tira, la tira ma viene mica e allora guarda cos’è che succede e così vede una mano magra spuntare fuori dalla tomba che la blocca e sente una voce che le dice: “lascia stare la scala, vecchia!”. Il Matu dice che è volata per terra come un sacco di cemento e si è sentito stom! così forte che c’aveva paura che i morti si svegliavano e uscivano per mangiargli il cervello. Sta signora non si è più ripresa, neanche dopo che i dottori l’hanno guardata dietro per bene: tutti pensano che è l’Alzehimer ma io lo so che è stato il mio socio a farla andare fuori di matto.

Se lo scopriva il mio papà me le dava anche a me solo perché vado in giro con uno così. Quando ero piccolo mi diceva che essere amico di uno che pensa solo a fare asinate m’avrebbe mica aiutato a imparare a far su i muri. Il mio papà è un valtellinese doc e ha la sensibilità di un sasso. Quando sono nato mi ha visto prima della mia mamma e lei gli ha chiesto com’è che ero perché lei era ancora dentro nel letto, e lui le fa “è così un robo”. La mia mamma si è messa a piangere. Il mio papà si chiama Franco ma tutti lo conoscono come il “Francu che fa su le case”. Mi ricordo che da piccolo mi portava con lui al cantiere per farmi fare la molta, che doveva essere bella fresca altrimenti poi dopo era un casino tirar su i muri dritti. Si faceva una fatica della madonna e quando ero stanco mi fermavo a guardare i suoi dipendenti che erano uno più brutto dell’altro. Avevano delle facce cattive e sporche di lavoro. Secondo me se c’era gente che doveva finire in galera erano proprio quelli lì. Quando il mio papà mi vedeva lì imbambolato a studiare i suoi muratori veniva tutto rosso e gridava “cosa fai lì coi denti in bocca? Muoviti!” e io sapevo che dovevo ricominciare subito a lavorare, se no a casa mi prendeva per l’orecchio e mi trascinava su per le scale fino al terzo piano. Era un tipo così, era un po’ come il suo, di papà. E’ colpa sua se io e il Matu non siamo più soci adesso.

 

 

TALAMONA E IL SUO DIALETTO

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Foto panoramica di Talamona

CONSIDERAZIONI SEMISERIE SUL NOSTRO DIALETTO: “UL TALAMUN”
Guido Combi (GISM)

Questo titolo non vuol significare che il dialetto nostro non sia serio. Tutt’altro. Del dialetto bisogna parlare seriamente e soprattutto scrivere, per il solito detto latino verba volant, scripta manent, che tradotto in parole povere significa che noi possiamo parlarne finchè vogliamo, ma se vogliamo che rimanga traccia del nostro dire dobbiamo scrivere, perchè altri possano leggere, commentare, criticare, discutere anche a distanza di tempo e dopo di noi.
Allora voglio iniziare con alcune considerazioni che sentiamo spesso.
Prima considerazione, fondamentale: ul nos dialèt n’è numò lüu, da per lüu, ghè n’è mingo n’otru cumpàgn, l’è ünèc.
Seconda considerazione: apèno nün en se bun da parlàl asèn. Impusibèl per tücc i otri.
Terza considerazione: a scrìvel l’è ‘n prublémo.
Quarta considerazione: la giängio en gu l’àa apeno (numò) nun.
Quinta considerazione: ‘n de la noso “linguo” ghè del parol nosi, e apeno nosi, che i otri i capìss mingo.
Sesta considerazione: l’è da tegnì present ch’el parol ch’el se riferìs a tüt quel che l’è femno, el fenìss per o e mingo per a, cume ‘n di otri dialèt.
Ci sono altre considerazioni, ma le farò poi, qui di seguito, dentro il discorso.
E’ appena uscito “Ul Talamùn”, 2a edizione, vocabolario del dialetto talamonese, scritto da Padre Abramo M. Bulanti. Anche lui, emerito studioso e traduttore degli Statuti della Magnifica Comunità di Talamona, iniziati nel 1525, la cui ultima stesura è del 1560, con altre parole, sostiene l’unicità del nostro dialetto a causa di parole e modi di dire originali; della nostra pronuncia di alcune lettere che è una caratteristica solo nostra e della tipica e unica inflessione che noi talamonesi diamo alla nostra parlata, la giängio, che trasportiamo anche nel nostro parlare in italiano, tanto da farci distinguere come talamùn in mezzo a tutti, non appena apriamo bocca, pure parlando la lingua di Dante.
Tutto questo fa sì che solo chi è nato e cresciuto a Talamona, sia in grado di parlare ul talamùn correttamente, con tutte le caratteristiche tipiche, soprattutto per chi ha conservato modi di dire e parole come quelli della parlata originale. Pensiamo, ad esempio, ai nostri emigranti in varie parti del mondo, che hanno conservato inalterata la parlata, perchè in famiglia hanno sempre parlato in dialetto e non hanno subito influssi esterni che lo hanno modificato, come invece è avvenuto qui da noi. Ma se si può parlare di dialetto originale per gli emigranti, cioè di quando hanno lasciato, spesso definitivamente la patria, si può usare l’appellativo “parlata originale” qui da noi? Di quale originalità si può parlare? A che periodo della nostra storia si può attribuire? Tutto questi quesiti, probabilmente, sono destinati a non avere una risposta precisa. Se qualcuno la sa dare, è caldamente invitato a farcela conoscere.
Visto che il dialetto, nel tempo, si è evoluto, sotto l’influsso della lingua italiana e degli altri dialetti valtellinesi e di fuori provincia, è difficile sostenere l’affermazione che in un certo periodo ci sia stata una fase originale che ha generato le successive. Se poi siamo attenti alle parlate delle varie contrade, dobbiamo constatare che a Cà di Giuàn si parla con inflessioni e accenti diversi rispetto a la Pciazzo, u a Cà di Bar, tanto per citare tre poli diversi. Alcune parole sono pronunciate con accenti o anche con vocali diverse come garlöos a Cà di Giuàn e garlüus in Ränscigo, e altre.
Tra l’altro, c’è da tenere presente che il dialetto, nelle scuole soprattutto nelle elementari e anche dopo, fino agli anni attorno al 1970, è stato combattuto come negativo in quanto rendeva difficile l’apprendimento della lingua italiana, la lingua di tutti, e quindi anche l’acquisizione delle nozioni scolastiche.
Infatti per noi non era facile scrivere in un italiano corretto, in quanto avevamo difficoltà ad esprimerci con proprietà di linguaggio. Inoltre il nostro scrivere, sempre molto stringato, era infarcito di quei termini chiamati in italiano barbarismi, che sono poi parole e modi di dire dialettali, che noi trasportavamo alla lettera nel nostro parlare e nel nostro scrivere, assieme a modi di dire. E questo con la lingua italiana non andava d’accordo. Evidentemente il dialetto era considerato come un linguaggio a sè, semplicemente come un’espressione fonetica che ostacolava l’apprendimento della grammatica e della sintassi italiane, creando una reale inferiorità a scuola rispetto ai compagni che avevano sempre parlato in italiano fin dalla più tenera età. Personalmente, a scuola ho sperimentato direttamente queste difficoltà, infatti ho sempre avuto problemi, sia con l’italiano scritto, sia con l’orale, che poi, con l’età e lo studio ho superato.
Dopo il 1960/70, i linguisti, pian piano, hanno capito che il dialetto, i vari dialetti, erano qualcosa di più di un modo di parlare, erano una ricchezza che aveva dei contenuti importanti.
Rappresentavano, come ogni linguaggio umano, dietro e sotto l’espressione vocale , una realtà molto complessa, cioè la cultura di una popolazione, le sue radici, le sue tradizioni di vita, di lavoro, di usanze, di concezioni morali, di progonda religiosità ecc. cioè una grande ricchezza.
Per capire tutto questo basta scorrere i vari Statuti delle Magnifiche Comunità: il nostro, quello di Fusine, di Grosotto, di Bormio, solo per citarne alcuni. Ma anche pensare a quello che ci hanno insegnato i nostri regiùur, alla realtà contadina profondamente religiosa, in cui sono cresciuti, realtà di lavoro e di sacrificio, ma anche di grande saggezza e serenità, che ha formato uomini e donne delle generazioni che ci hanno preceduto.
Ecco il grande patrimonio che abbiamo alle spalle e che non possiamo dimenticare.
Ho parlato di espressione vocale, perchè, con la mentalità imperante cui ho accennato prima, in un atteggiamento generale e una considerazione negativi nei confronti del dialetto, nessuno provava a scriverlo. Non ci pensava proprio, magari ricercando grafie adatte a mettere per iscritto certi suoni unici nel loro genere. Solo la lingua italiana era degna di essere scritta. E ci si riferiva ai grandi della nostra letteratura: Manzoni, Leopardi, Carducci ecc. Nessuno, o pochissimi studiosi, mettevano per iscritto lemmi, cioè vocaboli, modi di dire, preghiere, tradizioni, usi, racconti, credenze, storie di uomini e donne, avvenimenti, magari semplici composizioni poetiche, descrizioni di persone e di luoghi, in termini brevi, la storia di una popolazione cioè la sua cultura. Ecco quindi cosa dobbiamo intendere per “cultura” degli abitanti di un paese e quindi anche del nostro. Riprendendo il concetto di dialetto originale dobbiamo quindi riferirci solo a quello che noi abbiamo ricevuto dai nostri padri? Il nostro ricordo non può portarci più lontano nel tempo. Dobbiamo parlare solo di tradizione orale, come è avvenuto per molti popoli, che noi chiamiamo selvaggi, i quali di padre in figlio, con un grande esercizio della memoria, si trasmettono storia, miti, leggende, principi e comportamenti religiosi dei loro antenati. Quasi come eccezioni, ricordiamo i grandi poeti e gli scrittori dialettali come Carlo Porta che ha scritto nel dialetto milanese, Trilussa in quello romanesco romanesco, i poeti napoletani e pochi altri.
Dobbiamo ricordare che abbiamo anche noi un poeta che ha scritto poesie in dialetto chiavennasco: il Cantore delle Alpi Giovanni Bertacchi: Un violìn de carne sèca, oppure, Un momént de nustalgìa, dedicata a Chiavenna, sono due della quindicina di altre poesie che ha scritto.
Se ricordo bene, anche Don Vincenzo scriveva componimenti scherzosi in poesia in dialetto, che recitava dopo le rappresentazioni teatrali che presentavamo nel teatro dell’oratorio, negli anni 50 del 900. Chissà dove sono finiti i suoi scritti dialettali.
Non è che non esistano documenti della storia della nostra comunità di Talamona. Gli statuti ne sono il massimo esempio, gli archivi comunali e quelli parrocchiali rappresentano un altro grande patrimonio di documenti. Non esistono invece documenti scritti in dialetto che ci possano dire come era il parlare in talamùn in una certa epoca della nostra storia.
Negli anni settanta del secolo scorso si è iniziato anche a scuola, a rivalutare il dialetto come un’altra lingua rispetto alla lingua nazionale, che rappresenta, come dicevamo, una diversa cultura, quindi una ricchezza.
Non è che allora è scoppiata la mania del dialetto, semplicemente si è iniziato a studiare il dialetto nelle sue diverse realtà, con scritti e iniziative di varia natura, perchè si è capita la sua importanza nella formazione dei giovani. A partire da quel periodo, in Valtellina e in Valchiavenna, molti studiosi si sono messi all’opera e hanno scritto libri sui toponimi di molti paesi come Livigno, Grosio, Chiuro, la Val Masino e altri; vocabolari ponderosi come quello della Val Tartano di Giovanni Bianchini, dove sono riportate tradizioni civili e religiose, usanze, testimonianze di vita e di lavoro. E’ sorto, a coordinare tante iniziative, l’Istituto di Diallettologia con sede a Bormio formato da emeriti studiosi come Remo Bracchi, Gabriele Antonioli, che stanno svolgendo una gran mole di lavoro che già costituisce una importante patrimonio della cultura delle varie realtà comunali e vallive della nostra provincia. Se ricordo bene, anche da noi, negli anni 50 del 900, la maestra Palmira Gusmeroli, aveva scritto un volumetto sui toponimi, le filastrocche e le preghiere in dialetto. Ma anche questo, non l’ho più visto in circolazione. Spero che ci sia nella biblioteca comunale.
A questo punto possiamo quindi affermare che il dialetto costituisce una grande ricchezza per conoscere l’identità originale di una comunità. E anche della nostra.
Padre Abramo, in relazione alla scoperta, o riscoperta, della nostra identità e delle nostre tradizioni, ha accumulato grandi meriti con i suoi studi e le sue ricerche sul dialetto e la storia talamonesi. Ci ha indicato la strada. Sta a noi e, in primis, alla Casa della cultura, incentivare e portare avanti approfondimenti e nuove iniziative sul nostro dialetto e su tutto quello che rappresenta per la nostra comunità.
Credo che anche la Pro Loco potrebbe trovare un suo spazio specifico nella valorizzazione del nostro dialetto.
E il Gustavo Petrelli, il menestrello, dove lo mettiamo? E’ stato il primo a creare le canzoni in dialetto talamonese e soprattutto a registrarle, che poi è un altro modo di scriverle e tramandarle. Sono poi seguiti altri cantautori che, in modo altrettanto originale, hanno composto e musicato testi in talamùn e anche loro si esibiscono in pubblico e diffondono le nostre tradizioni.
In questi ultimi mesi c’è poi stato un altro fenomeno, diciamo, on line: facebook.
Prima Emanuelel Milivinti in “Sei di Talamona se…” ha lanciato il censimento dei soprannomi e sulla sua scia è iniziata la raccolta di detti, piccole sentenze, modi di dire, proverbi ecc., che hanno avuto moltissime adesioni. Ma, ancora una volta, tutto questo, se lo lasciamo così episodico e in modo frammentario, solo sparso nella varie schermate del computer, finirà per passar via e scomparire anche dalla memoria. Perciò con un paio di appassionati, meglio, appassionate, stiamo accogliendo il tutto e poi lo pubblicheremo prossimamente su questo nostro giornale on line, della biblioteca, che spero leggano in tanti. Cercheremo cioè di dare un ordine agli interventi appassionati dei talamonesi e una stesura che tutti possano leggere.

Come si scrive
Su questo argomento il discorso si fa più difficile, perchè si tratta di stabilire delle regole relative alla grafia che possano essere condivise e capite nelle loro motivazioni, da tutti.
Anche in questo settore ritengo che Padre Abramo abbia indicato la strada.
All’inizio del vocabolario, ha indicato delle regole che condivido e possono costituire il punto di riferimento per chi intende scrivere in dialetto. Ciò serve a capirci meglio e a uniformale il modo di scrivere ul Talamùn. Personalmente avevo qualche dubbio sul come scrivere quella che lui chiama la “sesta vocale” che abbiamo solo noi, cioè la a nasale di mämo (mamma) o di päa (pane), che ha un suono, appunto, nasale tra la a e la o.
Io, finora preferivo scriverla sottolineata a per distinguerla da quella normale.
A pensarci bene però, sono arrivato alla conclusione che l’autorevolezza di Padre Abramo in materia di dialetto non si può mettere in dubbio e quindi la nostra sesta vocale si scrive così: ä, come lui ha indicato. Anche per la consonante n che io scrivevo sottolineata n, quando è nasale, visto che ciò avviene sempre quando è finale di parola, concordo con lui che è inutile mettere segni particolari. Per il resto delle regole grafiche, vale quanto è scritto nella prefazione del vocabolario “ul Talamùn” , 2a edizione, che, mi risulta, è stato distribuito a tutte le famiglie talamonesi, come a suo tempo gli Statuti.
Ci sono poi le elisioni di vocali all’inizio di articoli e sostantivi che secondo me, per sentirle, prima di scriverle, bisogna pronunciarle come nel parlare normale. Es.: el in el m’äa ciamäa , diventa ‘l in lüu ‘l mäa ciamäa. Cioè si da precedere un apostrofo all’articolo o al nome.
Come si vede anche nelle due frasi scritte, nel nostro parlare, spesso le vocali finali si allungano, strascicando leggermente la voce e allora, a mio giudizio, vanno scritte doppie. Quando hanno una grafia speciale come la ä, la seconda a si può scrivere normalmente.
Comunque, penso che, quando si scrive, bisogna sempre, prima, pensare in talamùn la frase che si vuole riportare scritta.
Ci sono poi gli accenti tonici, cioè quegli accenti che ci fanno capire dove cade la voce nella pronuncia di una parola. In certi casi, è opportuno metterli, perchè la nostra pronuncia è diversa da altri dialetti. Un esempio è la e di curtél, ciapél, fradél…, che noi pronunciamo stretta, quindi con l’accento acuto, mentre negli altri dialetti, di solito, è aperta e si scrive con l’accento grave: curtèl, ciapèl, fradèl…
Abbiamo poi gli articoli che sono diversi da altre parlate: ul (il), el (le), ii (i e gli).
Ora non voglio dilungarmi in una esposizione che, capisco, può sembrare e diventare noiosa e quindi chiudo ritenendo di aver detto abbastanza nella speranza di suscitare un interesse sempre maggiore per la nostra parlata unica e, per noi, così bella.
Ovviamente si accettano altri interventi sul tema, che possano arricchire il discorso.

 

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La chiesa parrocchiale di Talamona

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