LA CAPPELLA DEL CROCIFISSO NEL DUOMO DI MONREALE, PALERMO

 

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Giovanni Roano, nato in Spagna nel 1618 e formatosi all’Università di Salamanca e a quella di Valladolid, nel 1659 fu nominato Vescovo di Cefalù e nel 1673 di Monreale dove rimase fino al 1703. Uomo dottissimo nelle scienze e personaggio intraprendente, diede segni tangibili della sua vigilante cura pastorale e di amore verso la sua diletta chiesa.
Grande committente d’arte, sistemò gli altari delle absidi del Duomo di Monreale adattando lo stile barocco alle forme architettoniche normanne. Tanto l’altare del Sacramento che quello della Madonna del Popolo, sono uguali per quel che riguarda i principali elementi architettonici, plastici, decorativi e l’ornato a mischio. A lui si deve la costruzione a fundamentis della cappella del Crocifisso nel Duomo di Monreale(chiamata anche la Cappella Roano), splendido esempio del barocco siciliano,realizzata tra il 1686 e il 1692 dall’architetto gesuita Angelo Italia, che l’illuminato prelato volle appartata e non invadente rispetto alla protagonista decorazione musiva del Duomo. All’interno vi collocò il proprio monumento funebre posto simbolicamente in adorazione perenne verso Cristo. L’esuberante cappella, che fonde l’eccesso del barocco alla ridondanza del gusto iberico del prelato, raccoglie numerose frasi tratte perlopiù dall’Antico Testamento che servono, assieme alle tante immagini simboliche, ad addottrinare il catecumeno che entra nel piccolo sacello. Concorrono a conferire solennità al monumento le statue dei quattro profeti maggiori, Daniele, Ezechiele, Isaia, Geremia, e quelle delle tre Virtù teologali Fede, Speranza e Carità. Roano arricchì la sacrestia della cappella con un armadio e un inginocchiatoio in noce intagliato, alto esempio di ebanisteria trapanese, e un lavabo in marmi mischi. La predilezione, da parte dell’Arcivescovo, per il variegato intreccio di colori si rivela ancora nelle preziose suppellettili liturgiche da lui commissionate e nei parati sacri. Gli arredi liturgici sono preziosissimi capolavori dell’arte orafa siciliana, come il pastorale, l’ostensorio e la palmatoria tutti in filigrana d’argento e pietre policrome che Roano utilizzò verosimilmente in occasione della solenne benedizione del piccolo edificio sacro.

 

 

 

 

Lucica Bianchi

EDOUARD MANET

 

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Édouard Manet (1832-1883), nato in una famiglia borghese, dopo gli studi classici si arruolò in Marina. Respinto agli esami, decise di iniziare la carriera artistica. Dal 1850 al 1856 studiò presso il pittore accademico Couture, pur non condividendone gli insegnamenti. Viaggiò molto in Italia, Olanda, Germania, Austria, studiando soprattutto i pittori che avevano scelto il linguaggio tonale quali Giorgione, Tiziano, gli olandesi del Seicento, Goya e Velazquez. Notevole influenza ebbe sulla definizione del suo stile anche la conoscenza delle stampe giapponesi. Nell’arte giapponese, infatti, il problema della simulazione tridimensionale viene quasi sempre ignorato, risolvendo la figurazione solo con la linea di contorno sul piano bidimensionale.

Manet è stato un pittore poco incline alle posizioni avanguardistiche. Egli voleva giungere al rinnovamento della pittura operando all’interno delle istituzioni accademiche. E, per questo motivo, egli, pur essendo il primo dei pittori moderni, non espose mai con gli altri pittori impressionisti. Rimase sempre su posizione individuale e solitaria anche quando i suoi quadri non furono più accettati dalla giuria del Salon.Le sue prime opere non ebbero problemi ad essere accettate. La rottura con la critica avvenne solo dopo il 1863, quando Manet propose il quadro «La colazione sull’erba».

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 La colazione sull’erba, 1863

In questa tela sono già evidenti i germi dell’impressionismo. Manet aveva abbandonato del tutto gli strumenti classici del chiaroscuro e della prospettiva per proporre un quadro realizzato con macchie di colori puri e stesi uniformemente. In esso, tuttavia, l’occhio riesce a cogliere una simulazione spaziale precisa se osservato ad una distanza non ravvicinata.

Nello stesso anno realizzò l’«Olympia». Come «La colazione sull’erba», anche questo deriva da un soggetto tratto da Tiziano. Da questo momento, infatti, molte delle opere più famose di Manet derivano da soggetti di pittori del passato, quasi a rendere omaggio a quei pittori tonali a cui lui aveva sempre guardato.

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Olympia, 1863

Ne «Il balcone» riprende un analogo soggetto dipinto da Goya. E sempre da Goya («La fucilazione dell’8 maggio 1808») deriva il suo «Esecuzione dell’imperatore Massimiliano». Da Velazquez («Las meninas») riprende le visioni riflesse che si ritrovano nel suo celeberrimo «Bar aux Folies Bergère». Tutti questi quadri sono la dimostrazione inequivocabile di come la pittura di Manet sia decisamente moderna, sul piano della visione, rispetto a quella del passato. Tuttavia, questo progresso non fu compreso proprio dal mondo accademico del tempo, al quale in realtà Manet si rivolgeva. Fu invece compreso da quei giovani pittori, gli impressionisti, anche loro denigrati e rifiutati dal mondo ufficiale dell’arte.

Nei confronti degli impressionisti Manet ebbe sempre un atteggiamento distaccato. Partecipava alle loro discussioni, che si svolgevano soprattutto al Cafè Guerbois, e, in seguito, al Cafè della Nouvelle Athènes, ma non espose mai ad una mostra di pittura impressionista. Egli, tuttavia, non rimase impermeabile allo stile che egli stesso aveva contribuito a far nascere. Dal 1873 in poi, sono evidenti nei suoi quadri le influenze della pittura impressionista. Il tocco diviene più simile a quello di Monet, così come la scelta di soggetti urbani («Bar aux Folies Bergère») rientra appieno nella poetica dell’impressionismo. Egli, tuttavia, conserva sempre una maggior attenzione alla figura e continuerà sempre ad utilizzare il nero come colore, cosa che gli impressionisti non fecero mai.

Tra tutti i pittori dell’Ottocento francese, Manet è quello che più ha creato una cesura con l’arte precedente. Dopo di lui la pittura non è stata più la stessa. E la sua importanza va ben al di là del suo contributo alla nascita dell’impressionismo.

Lucica Bianchi

SAN PIETRO IN BANCHI

Tra le varie sorprese che i vicoli del centro storico di Genova riservano, ce n’è una davvero molto particolare: la chiesa di San Pietro in Banchi.

 

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La particolarità più evidente di questa chiesa consiste nel fatto che è costruita sopra alcune botteghe: il perché di questa soluzione più unica che rara, ci rimanda alla storia della costruzione. Sul sito della chiesa che possiamo ammirare oggi, ne esisteva un’altra, antichissima (fu costruita molto prima dell’anno Mille: pare nel 972) che era detta San Pietro della Porta, e il cui ricordo permane oggi in una via che si chiama proprio “via di San Pietro della Porta”. Proprio nella piazza dove oggi sorge la chiesa si trovava infatti una delle antiche porte di accesso alla città, e la chiesa di San Pietro della Porta, data la sua vicinanza al porto, era quella dove si fermavano tutti coloro che giungevano a Genova per mare.

Tuttavia, nel 1398, uno scontro tra diverse fazioni politiche condusse alla distruzione della chiesa, che andò in rovina durante un incendio. Due secoli più tardi, nel 1572, alla fine di una pestilenza che aveva flagellato la città, si decise di ricostruirla: la costruzione fu completata otto anni dopo. Ci troviamo nel periodo di massima fioritura dell’economia della Repubblica di Genova: parte della costruzione però dovette autofinanziarsi. Fu così che si ideò di completare la chiesa con i fondi ricavati dall’affitto delle botteghe che furono aperte nei locali ricavati all’interno del basamento su cui sorgeva la chiesa stessa. L’idea ebbe successo, le botteghe furono affittate e la chiesa poté essere completata! I genovesi mostrarono quindi una modernità non indifferente, e ancora oggi i locali del basamento sono adibiti ad attività commerciali.

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E inoltre si tratta di una chiesa importante, perché la piazza su cui sorge,Piazza Banchi, era il centro delle attività economiche della Genova antica. Oggi ci si presenta con il suo aspetto severo, ma ingentilito dalle decorazioni a trompe l’oeil, ovvero quelle per cui gli elementi architettonici, invece di essere veri, sono dipinti. Colonne, cornicioni, balaustre, terrazzini: tutto dipinto, da lontano sembra marmo, ma in realtà sono pitture! Questa tecnica è frequentissima in Liguria per il fatto che l’aria salmastra del mare poteva risultare nociva per molti materiali usati in architettura.

 

 

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Tutta la chiesa è costruita su questo basamento-terrazza, ed è raccordata alla piazza attraverso uno scalone: tutto questo contribuisce a dare un senso di imponenza alla costruzione, accresciuto dalle due torrette campanarie che osserviamo ai lati della facciata. Una facciata divisa in tre parti, che sono segnate dai tre grandi arconi del portico, e una facciata caratterizzata dai colori rosso e verde (oltre che dal bianco delle finte architetture). Il progetto fu ideato dall’architetto Bernardino Cantone, che dimostrò di ispirarsi apertamente a un ben noto progetto del più celebre architetto perugino (ma attivo anche a Genova) Galeazzo Alessi,ovvero la Basilica di Santa Maria Assunta di Carignano, probabilmente la più imponente chiesa della città (è visibile da molte parti di Genova ed è uno dei primi edifici che si notano arrivando dal mare).

 

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Più indietro, vediamo stagliarsi il profilo della cupola. Oltrepassato il portico, ci avviamo verso l’interno, che è a navata unica con cappelle laterali ma soprattutto è particolarmente sontuoso: ci sono magnifiche decorazioni in marmo,stucchi, pregevoli capolavori d’arte del Cinquecento e del Seicento Genovese. Abbiamo una Immacolata concezione di Andrea Semino (che si trova nella cappella dedicata proprio all’Immacolata Concezione), abbiamo statue di Taddeo Carlone e Daniello Casella, abbiamo affreschi di Andrea Ansaldo. La pala d’altare è invece opera di Cesare Corte e il protagonista è, ovviamente, San Pietro.

 

 

 

Lucica Bianchi

LA DAMA E L’UNICORNO

 

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La dama e l’unicorno è un ciclo di arazzi  fiamminghi della fine del XV secolo. Costituisce una delle più importanti opere di arazzeria del Medioevo europeo.

Gli arazzi furono tessuti nelle Fiandre tra il 1484 e il 1500. Commissionati da Jean Le Viste, presidente della Cour des aides di Lione, passarono per eredità alla famiglia Roberet, ai La Roche-Aymon e poi ai Rilhac che nel corso del XVIII secolo li trasportarono nel loro castello di Boussac.

Nel 1883 il castello fu venduto alla municipalità e diventò sede della sottoprefettura dell’arrondissement.

Nel 1841, molto danneggiati dalle condizioni in cui erano stati mal riposti e conservati, vennero notati da Prosper Mérimée, ispettore dei monumenti storici, e classificati come tali.

Nel 1882 la municipalità vendette gli arazzi a un collezionista parigino, M. Du Sommerard, che li collocò all Hôtel de Cluny a Parigi, che, dopo la donazione delle sue collezioni alla città, ospita il Museo nazionale del medioevo.

Il gusto

La dama sta prendendo un dolce dall’alzata che le offre una ancella. Ai suoi piedi anche la scimmietta sta mangiando un dolce. Il leone e l’unicorno reggono stendardi e portano mantelli con l’emblema con le tre mezzelune.

 

il gusto

L’udito

La dama suona un organo appoggiato su un tavolo, l’ancella aziona il mantice che dà aria allo strumento.

 

La vista

L’unicorno si contempla in uno specchio retto dalla dama, seduta con le zampe dell’animale in grembo.

 

L’olfatto

La dama prepara una corona con i fiori che l’ancella le porge su un piatto; altri fiori con cui gioca la scimmietta sono stati raccolti in un cestino

 

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Il tatto

La dama accarezza con la mano sinistra il corno dell’unicorno e con la destra regge una bandiera.

 

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Quest’ultimo pannello, più grande degli altri, differisce nello stile ed è di più difficile interpretazione.La dama si trova di fronte a una tenda, che porta in alto la scritta A Mon Seul Désir (il mio solo desiderio) tenuta aperta dall’unicorno e dal leone. Nelle mani tiene un velo che contiene la collana, che portava negli altri arazzi, e la ripone nel cofanetto che le porge l’ancella.

 

Video con i lavori del restauro dell’arazzo La Dama e l’unicorno

 

Galleria immagini in dettaglio degli arazzi

Lucica BIanchi

 

 

UN’ESTATE TRA DRAGHI E PRINCIPESSE

TALAMONA dal 7 al 26 luglio tre settimane all’insegna di giochi e compiti

 

L’IMPEGNO DELLA COOPERATIVA INSIEME PER INTRATTENERE CON ALLEGRIA I BAMBINI E LE BAMBINE DELLA COMUNITA’ TALAMONESE

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Un’attività davvero ricca e variegata quella che si è da poco conclusa tenutasi presso il tendone della palestra comunale ogni lunedì, mercoledì e venerdì dalle 14 alle 17 e, per quanto riguarda la parte relativa ai compiti in biblioteca ogni martedì e giovedì dalle 14.30 alle 16.30. Un’attività organizzata dal Comune di Talamona, la Cooperativa Insieme, da anni impegnata nel sociale, supportate dalle associazioni del Paese. Quest’anno l’iniziativa è stata sostenuta economicamente anche dall’associazione denominata Gruppo della Gioia: importante riferimento per la disabilità all’interno del comune di Talamona.

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Un’attività che ho seguito e documentato anche io (attraverso foto e qualche video che ho realizzato per la pagina FACEBOOK della Cooperativa Insieme:) nell’ambito soprattutto del servizio civile che sto svolgendo proprio nell’arco di quest’anno. Un’attività nella quale i bambini che hanno aderito sono stati divisi in gruppi, corrispondenti a diverse attività che sono state proposte, per la scelta, al momento dell’adesione al progetto nel corso del mese precedente. Due gruppi di pittura, uno di danza, uno di yoga, uno di giochi cooperativi e uno di murales e graffiti ciascuno tenuto da un’educatrice supportata da due o tre assistenti. Personalmente ho avuto modo di seguire certe attività più di altre. Nel corso della prima settimana ho assistito ad una lezione di yoga durante la quale, con l’ausilio di strumenti musicali e in forma di gioco e animazione, l’educatrice ha spiegato l’importanza del rapporto con la terra e con la natura per il benessere fisico e mentale della persona. A partire invece dalla seconda settimana mi sono ritrovata ad essere una sorta di supporto del gruppo di murales e graffiti che oltre a documentarne l’attività qualche volta ha collaborato attivamente alla decorazione di una parete laterale della palestra previo consenso del comune (e con qualche incidente come l’intervento di anonimi graffitari abusivi con disegni e scritte fuori tema). In generale ho potuto osservare l’allegria dei bambini nel prendere parte a questi laboratori creativi integrati da qualche extra (una giornata al tempietto degli alpini, purtroppo sospesa a causa del maltempo, giochi d’acqua, un pomeriggio al bocciodromo e la possibilità offerta ai bambini dal gruppo pompieri di Talamona di diventare provetti pompieri per un giorno) e conclusi ogni volta con una magnifica merenda allietata dall’intrattenimento musicale offerto da Francesco Lietti, Emanuele Petrelli e Luca Toma addetti alla consolle.

Un’attività che, al momento della chiusura, ha coinvolto anche i genitori dei bambini tutti invitati allo spettacolo che si è tenuto sabato 26 luglio alle ore 20 alla palestra comunale, una rappresentazione  volta  a illustrare le attività dei laboratori creativi attraverso la messa in scena di un racconto intitolato LA PRINCIPESSA AZZURRA E IL DRAGONE GOLOSONE ad opera di Rossana Ciaponi, vera anima di tutta questa attività, qui in veste di presentatrice, narratrice e giullare. Una degna conclusione, cui ha preso parte anche la Filarmonica di Talamona, per questo coloratissimo progetto.

Un sentito ringraziamento va a tutte le associazioni che come ogni anno hanno dato un supporto prezioso per lo svolgimento delle attività:  MO.I.CA., PROTEZIONE CIVILE, GRUPPO DELLA GIOIA, AMICI DEGLI ANZIANI, BOCCIOFILA, ALPINI, ARCIDEMOS, PRO LOCO, VIGILI DEL FUOCO, U.S. TALAMONESE, FILARMONICA

Antonella Alemanni

GIACOMO LEOPARDI

 

 

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Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798 in una famiglia della nobiltà clericale di provincia: il padre, conte Monaldo, era un erudito bibliofilo di idee reazionarie; la madre, Adelaide dei marchesi Antici, una donna dispotica, religiosa fino al fanatismo. Primogenito di dieci figli (ne sopravvissero cinque), Giacomo nutrì un affetto profondo per il fratello Carlo e per la sorella Paolina. Ebbe come istitutori il gesuita Giuseppe Torres e l’abate Sebastiano Sanchini; ma fu soprattutto un autodidatta, esploratore febbrile della ricca biblioteca paterna. Nel 1809 scrisse la prima poesia, il sonetto La morte di Ettore, cui seguirono altri componimenti in italiano e in latino, traduzioni da Orazio, dissertazioni filosofiche e due tragedie.

 

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La biblioteca di Casa Leopardi

Nel luglio del 1812 Giacomo iniziò “sette anni di studio matto e disperatissimo” che contribuirono al peggioramento delle sue già precarie condizioni di salute: imparò da sé il greco e l’ebraico, intraprese lavori filologici di eccezionale impegno, stese una Storia dell’astronomia (1813) e un Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), interessante per le pagine sugli stupori infantili, sui sogni e sugli incubi notturni, sulla quiete dell’ora meridiana, sul terrore dei fulmini e delle tempeste. Dopo la sconfitta di Gioacchino Murat a Tolentino, scrisse, con spirito antifrancese, Agli’Italiani. Orazione per la liberazione del Piceno (1815). Non interrompeva intanto il suo esercizio poetico, componendo fra l’altro, nel 1816, l’Inno a Nettuno (che finse di tradurre da un originale greco), le due Odae adespotae (in greco e in latino) e l’idillio funebre Le rimembranze. Più importanti furono le traduzioni dei classici: gli Idilli di Mosco e la Batracomiomachia pseudo-omerica nel 1815, il I libro dell’Odissea e il II dell’Eneide nel 1816, la Titanomachia di Esiodo nel 1817.

 

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Edizione delle Opere di Leopardi, Napoli 1835

La conversione letteraria

Allo studio appassionato di queste grandi opere Leopardi fece in seguito risalire la sua “conversione letteraria”, ossia la scoperta della vocazione poetica che, rivelatasi tra il 1815 e il 1816, fu in realtà il risultato di profondi turbamenti interiori che coinvolsero le esperienze letterarie. Da un lato l’angoscia per l’aggravarsi della malattia, il timore della morte, il rammarico per una giovinezza che appassiva già al suo primo fiorire: stati d’animo espressi in modi tumultuosi, ma personali, nella cantica Appressamento della morte (1816). Dall’altro un’ansia di evasione, una volontà fremente di liberarsi dalla prigionia di Recanati. Nel 1816 tentò di inserirsi nella polemica tra classicisti e romantici con una Lettera (rimasta inedita) in cui contestava l’esortazione di Madame de Staël a rinnovare la letteratura italiana attraverso la traduzione e lo studio degli scrittori stranieri. Nel 1817 iniziò la corrispondenza con Pietro Giordani, letterato classicista e liberale, che riconobbe per primo il genio del giovane poeta. Ancora nel 1817 provò l’improvvisa fiammata d’amore per la ventiseienne cugina di Monaldo, Geltrude Cassi Lazzari, che da Pesaro era venuta in visita a Recanati e che gli ispirò l’Elegia I(poi intitolata Il primo amore), l’Elegia II e il bellissimo Diario del primo amore, dove gli stadi e gli effetti dell’innamoramento sono analizzati in una prosa rapida, estremamente limpida.

Lo Zibaldone

Il 1817 fu un anno di svolta. Tra il luglio e l’agosto fissò le prime annotazioni dello Zibaldone, che crescerà a dismisura fino alla data 4 dicembre 1832, raggiungendo la mole di 4526 pagine manoscritte. Lo Zibaldone è uno sterminato laboratorio in cui si alternano pensieri filosofici e abbozzi di studi, pagine di compiuta poesia e fulminei appunti introspettivi, analisi minuziose dei congegni della memoria, dei sensi e dei sentimenti, riflessioni sui rapporti tra individuo e società, dissertazioni filologiche, considerazioni sulle lingue e sulle letterature antiche e moderne. Sono celebri le indagini minuziose sulla percezione dei suoni e sulla vista di spazi e oggetti che suggeriscono l’infinito; quelle sulla noia, sulla malinconia, sul riso, sulla giovinezza e sull’amore, un materiale che alimenterà la poesia dei Canti. L’opera fu pubblicata per la prima volta negli anni 1898-1900, con il titolo Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura; ma dal 1845 si conoscevano i 111 Pensieri, che Leopardi stesso aveva preparato per la stampa ricavandoli in gran parte dallo Zibaldone.

La conversione filosofica 

La crisi personale toccò l’apice nel 1819, allorché alle altre sofferenze si aggiunse una malattia agli occhi che lo costrinse a rinunciare anche alla lettura. Nel luglio un tentativo di fuga dalla casa paterna (per un viaggio a Roma) venne subito scoperto e sventato da Monaldo. Intanto l’ansia e lo scetticismo filosofico radicalizzavano la scoperta del nulla (“Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla”, Zibaldone). Che la realtà sia il nulla e che il nulla sia “solido”, sia fatto di materia, abbia un corpo, è il tragico paradosso alla base del pensiero leopardiano, in cui si generano a catena altri paradossi: l’enigma che il nulla-materia nasconde in sé provocando dolore è un gigantesco interrogativo pietrificato che la natura dissemina in mille frammenti, coinvolgendo nella sua inquietante domanda l’esistenza dei mortali. E dall’arcano “mirabile e spaventoso” racchiuso nel nulla nasce il bisogno disperato delle “illusioni”, anch’esse concepite e sentite nella sfera della corporeità, piaceri “vani” ma “solidi”. Nell’orizzonte del “nulla” Leopardi affrontò i grandi temi che erano stati al centro del pensiero settecentesco e che riemergevano, con soluzioni diverse, nel dibattito romantico: in solitaria meditazione, mise a fuoco una serie di antitesi. La prima antitesi è quella, risalente a J.-J. Rousseau, tra natura e ragione: la natura tende alla felicità, la ragione la distrugge; la natura è il regno del “bello”, delle illusioni, della poesia, mentre la ragione, portatrice del vero, inaridisce il cuore e dissolve i sogni. Il dualismo poesia-filosofia si tradurrà dunque nel contrasto fra “poesia di immaginazione” e “poesia sentimentale”. Per Leopardi la poesia autentica è soltanto la prima, perché prodotta dalla fantasia creatrice di miti; ma i moderni, immersi nell'”arido vero”, non sono capaci che di poesia sentimentale, una sorta di filosofia. Il riconoscimento dell’inevitabilità di una poesia nutrita di pensiero avvicinava Leopardi ad alcune posizioni dei romantici, ma con precisi limiti e insanabili dissensi. Nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (iniziato nel 1818) egli accettava i postulati critici della scuola romantica (il rifiuto dell’imitazione degli antichi e dell’abuso della mitologia), mentre dei principi costruttivi condivideva soltanto l’interesse per il “patetico”, interpretando però questa categoria come una dolorosa necessità, una rinuncia, senza adeguato compenso, al conforto della fantasia.

I primi canti 

Constatato il nulla universale, la poesia di Leopardi nasceva nel segno della precarietà, come paradosso, scommessa, tentazione: nasceva nel momento stesso in cui il poeta aveva decretato la morte della poesia. Dopo il fallimento di alcuni esperimenti romantici, la vera poesia leopardiana cominciò e si sviluppò su due registri distinti: le nove canzoni (1818-22) e i cinque idilli (1819-21), che costituiscono il primo nucleo di quello che diverrà il libro dei Canti, un “libro” che prenderà forma attraverso pubblicazioni parziali, incrementi, correzioni assidue del lessico e dello stile, passando per tre tappe fondamentali: l’edizione Piatti (Firenze, 1831), con 23 poesie; l’edizione Starita (Napoli, 1835) con 39 poesie; l’edizione postuma Le Monnier (Firenze, 1845), con 41 poesie.

 

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Le canzoni

Delle nove canzoni, le prime cinque sono in parte ispirate dalla proposta di Giordani di una poesia come “magistero civile” su modelli classici, ma anche dall’ansia indeterminata di grandi azioni che Leopardi manifestò più volte nelle lettere e nello Zibaldone. All’Italia e Sopra il monumento di Dante, del 1818, trattano di temi esplicitamente patriottici, avendo in comune il paragone tra un passato glorioso e un presente umiliato dalla schiavitù e dalla viltà. Anche la canzone Ad Angelo Mai (1820) è inizialmente impostata come esortazione alla riscossa civile, sennonché la decadenza e l’impotenza dell’oggi si estendono qui a condizione generale dell’umanità, che ha perso le illusioni di un felice stato naturale per precipitare in un’epoca dominata dalla nefasta cognizione del “vero”, generatrice della noia e del nulla.

 

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Lo Zibaldone nella sua prima edizione, venne pubblicato col nome Pensieri di varia filosofia e bella letteratura tra il 1898 e il 1900.

Si delinea perciò un pessimismo radicale che si confermerà nelle Nozze della sorella Paolina(1821): crollata ogni speranza di intervenire sul presente, la virtù viene esaltata stoicamente per se stessa. In A un vincitore nel pallone (1821) si esaltano, per se stessi, l’agonismo e il rischio, rimedi unici a un’esistenza svuotata di qualsiasi valore e significato; la terribile conclusione (“Nostra vita a che val? solo a spregiarla”) segna il passaggio alle due grandi allegorie dell’infelicità umana, Bruto minore (1821) e l’Ultimo canto di Saffo (1822), dove ormai la natura non è più madre benigna ma crudele matrigna. Bruto morente distrugge il mito della virtù e, con il suicidio, si erge titanicamente contro la divinità insultandola. Saffo, “dispregiata amante” perché la natura le negò la bellezza, si vota anche lei al suicidio, ma la sua protesta, a differenza di quella di Bruto, ha intonazioni elegiache, intimamente dolenti e appassionate. Funzione di duplice congedo, dalle “favole antiche” dei pagani e dalla mitologia biblica, assolvono infine le altre due canzoni del 1822, Alla primavera e l’Inno ai patriarchi.

 

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La prima pagina della canzone All’Italia, con le correzioni di mano di Giacomo Leopardi

Gli idilli

Gli idilli veri e propri (“idilli, esprimenti, situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”) sono cinque: L’infinito (1819), Alla luna (1819), La sera del dì di festa (1820), Il sogno(1820-21), La vita solitaria (1821). Rispetto alle canzoni, le “situazioni idilliche” sono tutte concentrate e risolte nel soggetto: sono brani della “storia di un’anima”, che si svolgono in un determinato spazio e in un preciso momento, messi sempre in relazione, tramite la memoria, con altri momenti e con altre “avventure” interiori già sperimentate. Il mutamento è anche nello stile: non più l’ardua sintassi, il lessico fitto di arcaismi e latinismi delle canzoni, ma un linguaggio piano, che accosta sapientemente parole rare a parole trasparenti e quotidiane. Capolavori assoluti sono i componimenti brevi, L’infinito e Alla luna, che condensano, rispettivamente, la sensazione di vertigine davanti a un infinito suggerito per contrasto da elementi “finiti” e il piacere di una “rimembranza” sollecitata da un sublime, affettuoso dialogo con la luna.

 

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Il silenzio poetico 

Tra il 1822 e il 1828 la poesia leopardiana tacque, con due sole eccezioni: la canzone Alla sua donna (1823) è un addio alla donna ideale irraggiungibile, simbolo della poesia che fugge; l’epistola Al conte Carlo Pepoli (1826) è un componimento finissimo, in tono tra oraziano e pariniano, che imprime nuovo suggello a una stagione creativa che Leopardi ritiene definitivamente conclusa (nel finale egli dichiara di abbandonare la poesia per gli studi dell’”acerbo vero”). Furono sei anni tuttavia, questi del “silenzio”, di esperienze vive che portarono il poeta lontano dal “natio borgo selvaggio”. Nel novembre del 1822 andò a Roma, presso lo zio Carlo Antici, ma la città e il suo ambiente erudito-archeologico lo delusero profondamente: soltanto la visita all’umile tomba del Tasso lo commosse fino alle lacrime. Tornato a Recanati nel 1823, ne ripartì nel 1825, accettando l’offerta di curare per l’editore milanese Antonio Fortunato Stella un’edizione delle opere di Cicerone. Poi fu a Bologna, a Firenze (dove frequentò il Gabinetto Vieusseux e il gruppo dei liberali toscani) e a Pisa, che gli offrì il soggiorno più gradito e salutare.

Le “Operette morali” 

Leopardi scrisse quasi tutte le Operette morali tra il 1824 e il 1827. In esse si rintracciano alcuni temi centrali: quello dell’illusione e della felicità impossibile (per esempio, in Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo); quello della natura e del piacere (Dialogo della Natura e di un’Anima, Dialogo della Natura e di un Islandese); quello della noia peggiore del dolore (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez); quello che riguarda, più in generale, la responsabilità dell’individuo verso se stesso e verso la società (Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie). Nuove tematiche introducono prose più tarde (1832), come il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, nelle quali affiora una visione più pacata e insieme più eroica della vita. Le Operette sono a un tempo un libro di filosofia e di poesia: idee e ragionamenti si trasfigurano quasi sempre in immagini e allegorie, grazie a una prosa lavoratissima che rinnova modelli antichi (soprattutto i dialoghi di Luciano) con “leggerezza apparente”, con soluzioni originali e vivaci che consentono l’alternanza di meditazione e ironia, di aperture liriche e serrati scambi dialettici.

 

 

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I “Grandi idilli”

Durante il soggiorno a Pisa, nel 1828, Leopardi scrisse alla sorella Paolina parole che annunciavano la sua rinascita alla poesia: “Dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta”. I versi erano Il risorgimento e A Silvia. Seguirono i canti Il passero solitario, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composti tra il 1829 e il 1830 a Recanati, dove il poeta era stato costretto a ritornare nel novembre del 1828, perché gli era stato sospeso l’assegno dello Stella e perché le sue condizioni di salute erano peggiorate. Si trattenne poco meno di un anno e mezzo, soffocato da una malinconia che era “oramai poco men che pazzia”; in quella disperazione nacque la maggior parte dei cosiddetti “grandi idilli”, la cui composizione era stata preceduta da un lungo approfondimento teorico della poesia come pura lirica svincolata dall’imitazione, dalle regole, da fini pratici. “Canto” è la denominazione che si afferma in questo periodo, e Canti sarà il titolo dell’edizione del 1831, sancito in quella del 1835: un titolo senza precedenti, nella tradizione letteraria italiana, che cancella ogni indicazione di “genere” e “sottogenere” per esaltare la poesia “senza nome”, la poesia in assoluto.

 

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Una pagina con i versi “A Silvia

Il risorgimento è una singolare celebrazione della “rinascita del cuore” composta in strofette metastasiane. Su tutt’altro registro i capolavori successivi: A Silvia, canto alla giovinezza perduta e non goduta; Le ricordanze, canto che nasce dalla memoria di un mondo e di un’età popolati di fantasie e illusioni; Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia è rivolto al mistero della natura e dell’esistenza. Il sabato del villaggio e La quiete dopo la tempesta formano il dittico degli “apologhi del borgo” e per situazioni e stile possono essere avvicinati solo al Passero solitario, in cui rifluisce la “rimembranza”, tema dominante, nella prospettiva limpida e “mitica” del villaggio e della casa paterna: il paesaggio e la memoria diventano improvvisamente luoghi e figure da favola, in cui si condensa una struggente nostalgia di sogni e fantasie della fanciullezza. Nel Canto notturno la meditazione e la liricità si fondono entro più vasti orizzonti: lo spazio del borgo è sostituito da uno spazio desertico, ignoto e sconfinato; la voce del poeta diventa quella di un misterioso “pastore errante” che interroga la luna con una serie di incalzanti domande sul perché della propria esistenza, sul perché della vita e dell’universo.

 

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Il risorgimento, vv. 1-20: autografo conservato nella Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» di Napoli.

La nuova poetica e gli ultimi canti 

Nel 1830, accettato un prestito dagli amici fiorentini, Leopardi lasciò per sempre Recanati. A Firenze riallacciò antichi rapporti e altri ne strinse, fra cui quello con l’esule napoletano Antonio Ranieri (che diverrà l’inseparabile “sodale” degli ultimi anni) e quello con l’affascinante Fanny Targioni Tozzetti, che gli accese una violenta e sfortunata passione. Dal 1833 visse, sempre più malato, a Napoli, dove morì il 14 giugno 1837.

Tutta l’ultima fase della vita di Leopardi è caratterizzata dal rifiuto del suo passato di sdegnosa o malinconica solitudine. Nel dissolversi dell’energia fisica, egli avvertiva un prepotente bisogno di affermare il proprio io, la propria filosofia “disperata ma vera” contro ogni facile visione ottimistica della realtà. Di qui il suo disprezzo per le filosofie spiritualistiche del tempo e la derisione dell’ingenuo entusiasmo dei liberali (nella Palinodia al marchese Gino Capponi del 1835, nella satira I nuovi credenti e nel poemetto Paralipomeni della Batracomiomachia, dello stesso periodo). Di qui, soprattutto, gli ultimi canti del cosiddetto “ciclo di Aspasia” (composti fra il 1832 e il 1835), ispirati da un amore negato (la passione per Fanny) eppure interamente vissuto e sofferto con i sensi e con l’anima; le due canzoni “sepolcrali” (Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna, 1834-35), così ricche di pietas nella dolente ma ferma meditazione sulla morte.

Il “ciclo di Aspasia” è la storia completa di un amore, dalla fase “positiva” (Il pensiero dominante, Consalvo, Amore e Morte) a quella “negativa” di rivelazione dell’inganno (A se stesso, Aspasia). È sorretto, per l’intera durata, dal binomio inscindibile di “ideologia e canto”, nel senso che alla rappresentazione della vicenda passionale si associa costantemente il ragionamento su di essa.

Il tramonto della luna celebra le esequie dell’”inganno idillico”: il paesaggio lunare viene ridescritto con le parole tenere di un tempo, ma solo come “quadro di paragone”, appunto per essere posto in simmetrico contrasto con la “vita mortal” che, a differenza delle “collinette e piagge”, una volta sopraggiunta la notte (la vecchiaia), non si colorerà “d’altra aurora”.

La chiusura del “libro” (escludendo Imitazione, Scherzo e i cinque Frammenti, che costituiscono una sorta di appendice) è invece affidata alla Ginestra, una poesia di ampia e potente orchestrazione, che non suona affatto “congedo”, al contrario riprende motivi antichi, ora rimeditati, con formulazioni e cadenze nuove, ideologiche e stilistiche. Domina il tema cosmico, il paesaggio desertico, vulcanico, con rovine, che spalanca un devastato spazio terrestre in opposizione al sovrastante spettacolo delle stelle che fiammeggiano “in un purissimo azzurro” riflettendosi nel mare. Viene inoltre ripresa la polemica contro il “secol superbo e sciocco” che crede nelle “magnifiche sorti e progressive”, ignorando la ferocia ineluttabile della natura distruttrice. Ma è una polemica che perde qualsiasi punta di animosa asprezza, perché il titanismo leopardiano si sposa ora interamente alla pietà, risolvendosi in un messaggio di fratellanza tra gli uomini, accomunati da un medesimo destino di infelicità.

 

 

Lucica Bianchi

MADONNA DEL MAGNIFICAT

 

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Sandro Botticelli, Madonna del Magnificat, 1482 circa, Galleria degli Uffizi, Firenze.

Secondo la narrazione del Vangelo di San Luca il “Magnificat” è l’inno che Maria, già in attesa di Cristo, innalzò a Dio quando si recò a trovare la cugina Elisabetta, futura madre di Giovanni Battista. Nel momento in cui le due donne si incontrarono, il bambino di Elisabetta si agitò nel grembo, e la Santa comprese che era stata sottomessa alla volontà divina. Fu così che Maria rivolse all’Onnipotente il suo canto di gioia e di ringraziamento.

In questa composizione Sandro Botticelli, come in altre occasioni, non fu fedele al testo. Qui infatti vediamo Maria incoronata dagli angeli – invece secondo l’iconografia più diffusa veniva incoronata da Gesù – mentre è intenta a scrivere la sua preghiera, guidata alla mano del Bambino.
Questa posa ritorna in una piccola tavola dello stesso periodo, conosciuta col titolo LA MADONNA DEL LIBRO (Museo Poldi Pezzoli, Milano).
Con sguardo dolce e sicuro il Bambino indica alla Madre già pensierosa, il passo biblico che allude al suo destino. Ma l’originalità del tondo è data dall’armonia con cui sono orchestrate le novità iconografiche e stilistiche.
Nell’impostazione formale c’è un’innovazione rispetto all’uso consueto della prospettiva: i personaggi e lo sfondo paesaggistico sono disposti in modo tale da creare l’illusione che il tondo sia concavo, una semisfera che attrae lo spettatore verso l’interno. Forse Botticelli ebbe questa idea guardando i giochi illusionistici o le prospettive poco ortodosse dei capolavori fiamminghi che arrivavano a Firenze proprio in quegli anni.
La raffinatezza espressa dal tipico linearismo botticelliano e l’eleganza nella profusione degli ori sarebbero stati sterili senza la tenerezza e la grazia delle espressioni e le movenze dei personaggi tutti silenziosamente dialoganti fra loro.

Nelle VITE del 1568, Giorgio Vasari ricorda che al suo tempo il tondo era molto ammirato; la preziosa testimonianza però non è chiara sulle notizie della committenza e della originale collocazione. E’ documentato, invece, l’acquisto della tavola, comprata dal granduca Pietro Leopoldo presso Ottavio Magherini come opera di un ignoto artista. Oggi la maggior parte degli studiosi è d’accordo nel datare l’opera dopo il viaggio di Botticelli a Roma (1481-1482), dove l’artista aveva affrescato la Cappella Sistina ricevendone fama e successo.

 

 

Lucica Bianchi

RITRATTO DEI CONIUGI ARNOLFINI

 

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L’opera più conosciuta di Jan van Eyck resta il celebre Ritratto dei coniugi Arnolfini realizzato nel 1434.Considerato tra i capolavori dell’artista è anche una delle opere più significative della pittura fiamminga; nella sua aura complessa ed enigmatica, ha acquistato una fama misteriosa, che i numerosi studi e le domande ancora irrisolte hanno alimentato. Sul significato del duplice ritratto e dei numerosi simboli che il pittore aggiunse, vanno senz’altro menzionati il particolare dello specchio in cui sono riflessi il pittore stesso e un altro personaggio in qualità di testimoni dell’evento; le luci e le ombre, rispettivamente, sulle arance da un lato e su coperta e baldacchino dall’altro; i volti dei coniugi, imperscrutabili, quasi rapiti da un’atmosfera intrisa di spiritualità; la raffinata torciera da cui scintilla, però, una sola candela; lo specchio che ospita, nei tondelli incisi nella cornice, dieci storie della Passione; il gesto della mano sinistra della sposa che allude al ventre.
Secondo l’interpretazione tradizionale, il quadro celebrava il matrimonio tra il mercante lucchese Giovanni Arnolfini, da oltre un decennio stabilitosi a Bruges, e Giovanna Cenami.L’opera è uno dei più antichi esempi conosciuti di pittura che ha come soggetto un ritratto privato, di personaggi viventi, anziché le consuete scene religiose. La posa dei personaggi appare piuttosto cerimoniosa, praticamente ieratica; questi atteggiamenti “flemmatici” sono probabilmente dovuti al fatto che si sta rappresentando la celebrazione di un matrimonio, dove pertanto tale serietà è d’obbligo, o consona.Ancora oggi, gli storici dell’arte discutono del significato e dello scopo dell’opera: la tesi proposta da Erwin Panofsky nel 1934 è che si tratti della rappresentazione del matrimonio della coppia e di un’allegoria della maternità, a cui alluderebbero i numerosi simboli sparsi per la stanza. Varie altre interpretazioni hanno, tuttavia, permesso di elaborare punti di vista differenti, che hanno messo in dubbio la tesi stessa di Panofsky.La soluzione che appare più probabile è che si tratti del giuramento tra gli sposi prima di presentarsi al sacerdote. Tale rituale avveniva tramite una promessa di matrimonio a mani congiunte, che aveva valore giuridico e richiedeva la presenza di due testimoni: per questo, più che al matrimonio in sé, il dipinto alluderebbe al momento del fidanzamento. In questo senso il quadro, con la sua esattezza fotografica, rappresenterebbe proprio il documento ufficiale dell’avvenuto giuramento, come sembra suggerire anche la particolare firma dell’artista (“Jan van Eyck fu qui”), più simile nella forma e nella disposizione a una testimonianza notarile, piuttosto che a un’autografia di un’opera d’arte. Può anche darsi che van Eyck volesse indicare come il ritratto venne preso dal vero, in sua presenza: è possibile che avesse eseguito uno schizzo dei protagonisti in una o più sessioni di posa e poi avesse realizzato il dipinto nei mesi successivi.Si è parlato anche di un possibile esorcismo o cerimonia per recuperare la fertilità. Questo tipo di cerimonie, erano abituali all’epoca. Infatti dietro le mani unite dei protagonisti vi è una gargolla sorridente che potrebbe simbolizzare il male incombente sul matrimonio, come punizione del fatto che Giovanni Arnolfini poteva essere stato un donnaiolo e un adultero.

 

Lucica Bianchi

GEORGES SEURAT

 

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Georges Seurat
disegno di Ernest Laurent, 1883, Louvre, Parigi.

Georges Seurat (Parigi 1859 – Gravelines 1891), è il pittore che porta alle estreme conseguenze la tecnica pittorica degli impressionisti. Il problema di dar maggior luce e brillantezza ai colori posti sulla tela era già stato impostato da Manet e dagli impressionisti. La loro risposta a questo problema era stato il ricorso a colori puri, non mescolati, così da evitare al massimo le sintesi sottrattive che smorzavano i colori rendendoli privi di luminosità. Georges Seurat intese dare una nuova risposta a questo problema. Egli voleva giungere ai risultati di massima brillantezza utilizzando il “melange optique”, ossia la mescolanza ottica.
Negli stessi anni, le ricerche sul colore avevano trovato un notevole impulso scientifico da parte del chimico francese Chevreul. Egli aveva messo a punto il principio di “contrasto simultaneo”, secondo il quale se si accostano due colori complementari le qualità di luminosità di ognuno vengono esaltate.
Il principio non era sconosciuto agli impressionisti che anzi lo utilizzavano spesso nella loro tecnica pittorica. Ma la grande novità fu il principio di “melange optique”, che per primo formulò proprio Seurat. In sostanza l’occhio ha una capacità di risoluzione che lo porta a distinguere due puntini tra loro accostati se questi non sono troppo piccoli. Se i puntini diventano eccessivamente piccoli, o se aumenta la distanza dell’osservatore dai due puntini, l’occhio dell’osservatore non ha più la capacità di separare i due puntini ma vede un’unica macchia di colore. Se questi due punti sono di colore diverso, l’occhio vede un terzo colore dato dalla somma dei due. In tal modo, secondo il principio di Seurat, un occhio, guardando dei puntini blu e gialli, vede un verde più brillante di qualsiasi verde che possa ottenere il pittore con la mescolanza dei pigmenti.
La grande novità tecnica della pittura di Seurat furono i puntini. Egli realizzava i suoi quadri accostando piccoli puntini di colori primari. Ne derivava una specie di mosaico che trasmetteva un’indubbia suggestione. Dalla sua tecnica derivò il nome dato a questo stile, definito «puntinismo» o “pontillisme”, alla francese. Altro nome che ebbe questo stile fu di neo-impressionismo, a sottolinearne la sua ideale continuazione con l’impressionismo.

 


Molte sono le affinità tra i due stili artistici, soprattutto sul piano della scelta dei soggetti tratti dalla vita parigina di quegli anni. Tuttavia, sul piano estetico, le differenze sono notevolissime tali da rendere i due stili quasi opposti. Uno dei maggiori fascini della pittura impressionista era la poetica dell’attimo fuggente che veniva materializzata in immagini sfuggenti e tremolanti. Nel neo-impressionismo, invece, non vi sono attimi che trascorrono ma una sorta di congelamento del tempo che rende tutto immobile e statico.
Georges Seurat morì molto giovane, nel 1891, a soli trentadue anni. La sua eredità venne raccolta soprattutto dall’amico Paul Signac. Oltre all’attività pittorica, Signac si dedicò anche a quella di teorico e con il suo libro, “Da Delacroix al neoimpressionismo”, diede i fondamenti teorici del “pointillisme” che egli proponeva invece di chiamare “divisionismo”. Sosteneva infatti che il loro obiettivo non era fare dei puntini ma dividere il colore. Il puntino era quindi solo un mezzo e non un fine. Tanto che gli stessi procedimenti divisionistici potevano ottenersi anche con tratteggi accostati e non solo con piccoli punti. Ed il tratteggio divenne infatti la tecnica preferita dai divisionisti italiani quali Pelizza da Volpeda, Segantini e Previati.
Il divisionismo fu infatti un movimento più vasto e che andava oltre il semplice puntinismo. Divisionisti furono molti pittori europei tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, diffondendo questa tecnica per tutto il continente.

 

Lucica Bianchi (NL VBA)

LE VETRATE DEL DUOMO DI MILANO

Una Bibbia di luce e colori scolpita in vetro!

 

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L’arte vetraria del Cantiere del Duomo seguì pari passo le vicende edilizie ed il problema di chiudere con vetri le finestre si pose già con la conclusione del primo organismo architettonico, la sacrestia aquilonare.
La prima soluzione proposta(1397) fu quella di inserire vetri colorati, ma nel 1403 si decise per dare alle finestre vetrate istoriate.Il motivo di questa scelta fu la facilità di lettura delle vetrate, decorate in modo da essere il racconto visivo con il quale Dio si manifesta al suo popolo, l’immagine della “luce vera / quella che illumina ogni uomo” (1 Gv 1,5), cioè il Cristo, il figlio del Dio vivente.

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Nella seconda metà del XV sec. venne creato in Duomo un originalissimo linguaggio nell’arte vetraria, capace di tradurre le arditezze prospettiche di estrazione mantegnesca e ferrarese in una gamma cromatica di tessere vitree basate su toni fulgenti e freddi.Nella prima metà del Cinquecento si rese necessario un ampio programma di riordino e di risistemazione dell’intero corpus vetrario. In questo periodo ebbero varie commissioni Pietro da Velate, i fiamminghi Giorgio da Anversa e Dirck Crabeth ed emerse la personalità di Giuseppe Arcimboldi che creò numerosi cartoni per vetrate, tra cui quella di S. Caterina d’Alessandria. L’intervento di questo singolare artista e di Pellegrino Pelegrini (Vetrata dei Santi Quattro Coronati) segnò l’inizio di un nuovo modo di operare che distingueva nettamente la fase di progettazione, affidata ad un valido pittore ma inesperto di tecniche vetrarie, da quella di realizzazione, attuata da una abile maestro vetraio. La tecnica di lavorazione rimase pressappoco uguale fino all’Ottocento quando, con il rinnovamento culturale prodotto dal Romanticismo lombardo e con il “Gothic Revival” operato dal Palagi, dal Sanquirico e dall’Hayez, l’interesse per il patrimonio vetrario della Cattedrale di Milano crebbe moltissimo.
In questo clima di rinnovato entusiasmo operò Giovanni Battista Bertini ed i suoi figli, che impiegarono una nuova tecnica, quella della decorazione a smalto, sull’antico modello della vetrata istoriata.I Bertini eseguirono ex novo ben undici vetrate, tra le quali due absidali. Le vicende belliche comportarono lo smontaggio di tutte le vetrate, per metterle al sicuro dai bombardamenti, all’interno di un sotterraneo.Nel secondo dopoguerra si procedette all’esecuzione delle vetrate per la facciata: la Chiesa, la Sinagoga, la Trinità, opera di Giovanni Hajnal, al quale si sarebbe affidata nel 1988 la vetrata dedicata ai Beati Cardinali Andrea Carlo Ferrari e Ildefonso Schuster.Nel 1968, vennero eseguiti da vari artisti lombardi (De Amicis, Longaretti, Panigati, Filocamo) i cartoni di vetrata sul tema Maria Mater Ecclesiae e i Messaggi Conciliari.
Recentissima storia (1962-92) è l’imponente restauro di pulitura, consolidamento e riordino delle vetrate, che ha rappresentato un impegno per la Fabbrica fin dal Seicento, quando iniziò il lavoro di adattamento e restauro delle vetrate già esistenti.
Il vetro di rovina sia per gli effetti dell’azione antropica (polveri sottili, gas inquinanti e aggressivi, piogge acide, vibrazioni del traffico) sia per cause naturali (vibrazioni e lisciviazione prodotte dal vento, pioggia e nebbie, terremoti…) e di installazioni di una flora di funghi, licheni e muffe e di colonie di batteri.


Il restauro conservativo delle vetrate, per ovvi motivi di organizzazione del cantiere e di sicurezza, veniva attuato contestualmente al restauro marmoreo della parete nella quale si trova il finestrone. Il restauro, lungo e meticoloso, è avvenuto nel pieno rispetto del protocollo sottoscritto, dopo l’esecuzione di un finestrone campione, tra la fabbrica e due Soprintendenze milanesi. Sono stati trattati in trenta anni (1962-1992) oltre 1700 mq di vetri istoriati, più circa 800 mq di vetri a decoro.

Lucica Bianchi (NL, VBA)