“OH,VANA GLORIA…”

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23 maggio, ore 21.00 in Auditorium delle scuole medie “G.Gavazzeni” di Talamona, un spettacolo inedito messo in scena dal gruppo letterario “Fontana vivace”

Fontana vivace” (una delle tante lodi con le quali San Bernardo si rivolge alla Vergine nella supplica di accompagnamento di Dante alla visione beatifica di Dio nel XXXIII canto del Paradiso) è il nome del gruppo letterario nato ad Ardenno tre anni fa. Persegue l’obiettivo di togliere dagli scaffali delle biblioteche i grandi poeti e scrittori per portarli nelle piazze tra la gente, consapevoli che anche ” l’alta” poesia e “l’alta” letteratura possono essere affascinanti e attuali.

Da tre anni il gruppo si cimenta nell’affrontare la Divina Commedia, mediante l’utilizzo di strumenti linguistici diversi: dalle parole all’immagine, alla musica, sempre nell’ottica di una migliore fruibilità. Il progetto ha trovato un buon consenso nel pubblico ed è stato “esportato” a Talamona e a Delebio.”

 

 

 

TALAMONA , serata di approfondimento su Dante e la Divina Commedia

OH, VANA GLORIA…

IL RITORNO DEL GRUPPO FONTANA VIVACE CHE ATTRAVERSO LETTURE E COMMENTI DEGLI IMMORTALI VERSI DANTESCHI PROPONE STIMOLANTI SPUNTI DI RIFLESSIONE VALIDI IN OGNI EPOCA 

Dopo il grande successo dello scorso anno, questa sera all’auditorium delle scuole medie alle ore 21 di nuovo di scena FONTANA VIVACE, un gruppo di persone accomunate dalla passione per Dante e i versi immortali della Divina Commedia nonché dalla voglia di far conoscere e apprezzare a più persone possibile questo grande patrimonio artistico e culturale attraverso un linguaggio scorrevole e interattivo che utilizza la musica e le nuove tecnologie che tolgono a Dante e alla sua opera la polvere dei secoli per restituirceli più che mai vivi e vibranti. Molto spesso si è sentito dire, nel corso di questi anni difficili di crisi che, ora che l’Italia sta attraversando un momento difficile in cui sembra sempre più un Paese alla deriva, è proprio questo il momento di sottolineare e valorizzare al meglio le nostre eccellenze, quelle che ci hanno resi conosciuti e apprezzati in tutto il Mondo. Tra queste eccellenze la punta di diamante è sicuramente Dante, un po’ anche l’ospite d’onore di questa serata come ha detto l’assessore alla cultura Simona Duca nella sua introduzione. “Dante è una presenza nota a chiunque si sia seduto su un banco di scuola” ha proseguito l’assessore dopo aver fatto le presentazioni “e chiunque lo abbia studiato almeno un po’ sa che è molto difficile da capire e da apprezzare. Il gruppo FONTANA VIVACE, attivo ormai da tre anni, si propone proprio di capire la profondità di Dante e di coglierne l’estrema grandezza che fa si che i suoi versi continuino tuttora a risultare di sconcertante attualità” soprattutto la tematica di questa sera, i vizi, sembra giungere dal passato per parlarci di noi ora, in questo preciso momento storico.

Il vizio

Dal latino, vitium, cioè difetto imperfezione, è un’abitudine inveterata e una pratica costante di cio che è male. Seneca disse che “vivere militare est”. La Bibbia sostiene che la vita dell’uomo sulla Terra è una milizia, una continua lotta morale tra il bene e il male. La scelta di approfondire nel corso della serata in particolar modo la superbia, madre di ogni male, e l’invidia, sorella sibillina e malevola, nasce dalla consapevolezza di quanto esse siano vive, vispe e prepotentemente operanti in noi e nel nostro contesto socio-politico-economico. Ci sono momenti, nelle nostre giornate, in cui a farla da padrone, per motivi diversi, sono questi due vizi che suscitano, spesso in forma inconsapevole, moti lontani dalla stima e dalla valorizzazione dell’altro per cio che è. Ancora una volta Dante ha colpito nel segno con la maestria e la magica abilità poetica che lo contraddistingue ci immerge in questo Mondo vizioso tanto vero quanto deprecabile eppure così umano.

Canto I del purgatorio: lettura collettiva e commento della professoressa Valentina Alessandrini

Il Sommo Poeta dopo aver attraversato tutto il regno dell’Inferno giunge ora nel Purgatorio insieme alla sua guida Virgilio il Sommo Poeta della latinità trovandosi ad affrontare un’esperienza nuova, completamente diversa da quella precedente. Il Purgatorio è più che mai un’invenzione dantesca in quanto, dal punto di vista teologico, l’esistenza di un vero e proprio locus purgatorium era stata oggetto di lunghe discussioni. Solo nel 1254 cioè pochi anni prima della Divina Commedia c’era stato un pronunciamento autorevole da parte di Papa Innocenzo IV che in una lettera affermò l’esistenza del Purgatorio, ne aveva sostenuto l’esistenza rifacendosi alla tradizione cristiana. Ma è proprio da questa tradizione cristiana che Dante si stacca perché la tradizione cristiana poneva il Purgatorio in un luogo vicino all’Inferno, in un luogo altrettanto sotterraneo. Dante trasforma completamente questa collocazione sia in senso topografico che in senso morale, infatti per Dante il Purgatorio è una grande montagna che si libra verso il cielo ed è il calco perfetto dell’Inferno in cui vengono replicati i peccati però in una successione inversa qui dai più gravi ai più lievi. Dunque perché, se i peccati sono gli stessi, li si incontra due volte sia nell’Inferno che nel Purgatorio? In realtà c’è una sostanziale differenza e consiste nel fatto che mentre all’Inferno il peccato non ha possibilità di riscatto infatti il peccatore è un dannato, nel Purgatorio si ha invece la presenza delle anime che in punto di morte si sono pentite dei peccati commessi nel corso della vita e hanno dunque ottenuto la possibilità di redimersi attraverso un percorso che le avvicinerà gradualmente alla beatitudine del Paradiso. Il pentimento è infatti il primo passo di un processo interiore e psicologico che, soprattutto in ambito moderno, nell’ambito delle analisi psicologiche e psicoanalitiche, è possibile apprezzare e capire maggiormente riferendosi alla grande modernità dell’intuizione dantesca. Dante inventa il Purgatorio come un lungo e faticoso processo di terapia, di guarigione spirituale e psicologica perché non basta pentirsi esiste anche dentro la psiche una durata confusa all’interno della quale vengono prese le decisioni morali più importanti, più drastiche e spesso queste decisioni in quella confusione hanno bisogno di essere coltivate e rafforzate per entrare poi a far parte a tutti gli effetti del vissuto in modo che ci si possa riconciliare con esse. Il Purgatorio quindi è la dimensione, il luogo in cui, le anime dei peccatori rivivono e ripensano ai loro sbagli, ai loro peccati, al loro passato, soffrono le conseguenze dei loro peccati però per disfarsene una volta per tutte. Da questo punto di vista c’è addirittura qualche commentatore di Dante che sostiene che il Purgatorio sia una sorta di ergastolo senza speranza. In realtà sarebbe più corretto assimilare la visione dantesca del Purgatorio ad una sorta di casa di correzione o a uno studio di psicoterapia dove si lavora per la riabilitazione morale, per il recupero morale e psicologico. Infatti non a caso le anime del Purgatorio non sono stanziali bensì in itinere per raggiungere la meta finale che è la visione beatifica di Dio. Il primo canto si apre proprio con la metafora della navicella che si eleva attraversando le acque. Una nuova avventura una navigazione all’aria aperta dell’anima col solo sostegno delle qualità personali che da una sensazione di libertà, respiro, freschezza in un paesaggio che Dante descrive aperto sull’oceano sovrastato dall’immensità del cielo azzurro e trasparente illuminato dal bagliore di quattro stelle di una costellazione australe. All’interno di questo paesaggio Venere che vela col suo fulgore la costellazione dei Pesci. Nell’insieme, questo paesaggio che apre la cantica del Purgatorio, rappresenta la metafora dell’alba di un nuovo giorno, l’alba di un Mondo nuovo, sicuramente un’esperienza totalmente diversa dall’esperienza di sofferenza dell’Inferno.

La superbia: citazioni famose

Uno spirito presiede le leggi dell’universo, uno spirito di gran lunga superiore a quello dell’uomo e di fronte al quale noi, coi nostri poteri limitati, dobbiamo fare professione di umiltà  (Einstein)

Meglio essere umiliati con i mansueti che spartire la preda con i superbi (Proverbi 16, 19)

Vanità delle vanità tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il Sole   (Quelum figlio di Davide re di Gerusalemme 1,1)

Canto XI del Purgatorio: prima parte del commento    

Siamo nella prima cornice del Purgatorio, i penitenti sono superbi. Nel canto precedente l’immagine conclusiva vedeva i superbi come schiacciati, contratti sotto dei massi enormi simili a delle cariatidi che si devono muovere portando questo enorme peso piangendo, spremendo lacrime di disperazione dagli occhi. In questa posizione tutti sembravano dire “non ce la faccio più”. Se nel canto X i superbi venivano lasciati in sospeso con questa immagine, questa descrizione della loro condizione, nell’XI il racconto prosegue, ma non , come ci si potrebbe aspettare, in modo violento. Quanto poteva esserci e poteva essere raccontato di violento della violenza tutto sommato fisica che questi penitenti subiscono si esaurisce nella descrizione del canto precedente e viene qui alleggerita nell’esordio di questo canto che in realtà trasforma questa folla di penitenti, sicuramente castigati, in una comunità di oranti. Infatti il canto si apre con la recita del Padre Nostro come a voler dire che la pena è sublimata in preghiera e la sofferenza fisica viene quasi riscattata e ricondotta  al suo valore di terapia e riabilitazione cui si accennava prima. Nel Purgatorio si incontrano spesso personaggi che cantano e pregano molto spesso le anime cantano il miserere, il te deum eccetera. Così come nella liturgia nei rituali vengono scandite le varie fasi della giornata, vengono recitati i salmi, le liriche, allo stesso modo le anime del Purgatorio sembrano seguire una sorta di spartito spirituale che formato di musica e di canto nonché di profonda preghiera, per cui nel Purgatorio emerge una colonna sonora completamente diversa dalla cacofonia infernale, dall’oscurità, dalle tenebre. In questo canto è necessario ricordare ancora che è fondamentale la rieducazione, la terapia, l’uscire dalla propria colpa e quindi poter essere redenti per il Paradiso. Dunque il canto viene introdotto da una preghiera, una preghiera corale, la prima preghiera vera e propria che troviamo nel poema ed è l’unica preghiera che Gesù in persona ha insegnato agli uomini come sostenuto nel vangelo secondo Matteo capitolo 6 versetto 9, una preghiera di grande umiltà la preghiera che Dante rivolge egli stesso a Dio in quanto si considera estremamente superbo. Dante fa recitare la preghiera al coro dei superbi in volgare, non in latino e non si limita solo a tradurla, ma ad ogni versetto fa seguire un’interpolazione cioè una spiegazione, una chiarificazione, utilizza e applica proprio la tecnica, già usata da Sant’Agostino e dai padri della Chiesa secondo appunto questa modalità dell’esposizione prima e della spiegazione dopo. Dunque Dante il Padre Nostro lo traduce e lo spiega. Spiega che Dio sta nel cielo e che dunque non risiede in uno spazio delimitato sia esso uno spazio fisico o lo spazio del pensiero, egli sta ovunque e da nessuna parte perché è infinito. Laudato sia il tuo nome intendendo con questo al concetto della Trinità, la lode va tributata alla potenza di Dio. Questo recitano le anime dei superbi schiacciate dai massi, anime che si umiliano che nella recita di questa preghiera infondono una continua richiesta di soccorso, di aiuto divino vegna per noi la pace del tuo regno, dunque la pace non vista come conquista personale, ma come dono di Dio, una pace che queste anime da sole non riescono ad ottenere, a raggiungere, a costruire, dacci oggi la quotidiana manna, il cibo spirituale che è necessario per affrontare  le tentazioni e per andare avanti per questo cammino di redenzione, un cammino di affanno, rimetti a noi i nostri debiti, perché il merito la generosità non sono sufficienti a colmare il debito che si ha verso Dio, perché troppo fragile è l’anima troppa la fatica di fare il bene e di essere migliori e troppo viene messa alla prova anche per via delle continue tentazioni del demonio. Anche questa una profonda richiesta di soccorso che le anime rivolgono non tanto per esse stesse, ma per coloro che ancora vivono e che dunque sono maggiormente esposti alle insidie ai peccati alle tentazioni e che possono ancora salvarsi dall’essere dannati e dal dover affrontare una lunga espiazione. Una bellissima espressione del vincolo di carità che continua ad essere presente nelle anime anche se sono ormai staccate dalla dimensione terrena e che porta avanti cio che nella religione cattolica viene chiamata comunione dei santi, questa reciproca relazione tra i vivi e i morti, reciproca richiesta di preghiera. In questo atteggiamento profondo delle anime, Virgilio e Dante intanto procedono e stanno cercando una via, forse la via più veloce, la più corta per salire e continuare a percorrere la montagna del Purgatorio. Virgilio come al solito si preoccupa di trovare la strada da prendere e si rivolge alle anime per chiedere se qualcuna di esse conosce la salita più corta per arrivare alla cornice che sta sopra. Bisogna ricordare che questi penitenti sono sovrastati dai massi con la faccia a terra oppressi tanto da non potersi permettere nessuna gestualità spontanea da non potersi muovere sotto quegli enormi massi per cui quando qualcuno risponde ne Dante ne Virgilio sono in grado di capire chi ha risposto perché esce da questi sassi solo una voce, una voce da sotto i massi. Quanto è sottile la legge del contrappasso, ci comunica Dante: queste anime di questi penitenti così orgogliosi e superbi in vita, per il loro nome, il loro ruolo, le loro ricchezze ora sono ridotti a voce, sono ridotti ad un semplice anonimato, una voce oltretutto difficile da identificare. Quando Dante e Virgilio sentono una voce che risponde loro si avvicinano e la voce cerca di farsi riconoscere in primo luogo per impietosire Dante e per indurlo a pregare per lui. Ed è così che si incontra il primo dei tre personaggi che si incontrano complessivamente nel canto, un personaggio che si mostra in tutta la sua superbia e si dichiara dicendo di essere italiano, latino, nato d’un gran tosco cioè nato da un nobile toscano Guglielmo Aldobrandesco. Il nome del padre si stende come uno stendardo ed occupa un verso intero quasi a dimostrare ancora una punta di superbia che non demorde nemmeno li nel Purgatorio. Questa anima che dichiara il nome di suo padre, ma non il suo continua dicendo di non sapere se il nome del padre è ancora noto a Dante sebbene a suo tempo fosse un nome noto. Alcuni dantisti vedono in questo insistere sul padre di questo personaggio, un’ipercorrezione, un eccesso di modestia. Questo personaggio si presenterà, dichiarerà il suo nome solo dopo aver raccontato la sua storia, la sua nascita da una stirpe nobile la sua crescente arroganza il suo considerarsi superiore al di sopra di tutto e di tutti, una superbia che è in qualche modo collegabile all’alterigia che per molti secoli ha caratterizzato i nobili, il peccato che quest’anima deve espiare, il fatto di considerarsi parte di una sorta di elitè intoccabile al punto da credere quasi di appartenere ad una razza diversa e da mettersi al di sopra di tutti per disprezzare gli altri, una superbia che portò quest’anima ad una morte violenta mentre difendeva il castello di Campagnatico, una morte di cui tutti sanno. Ed è a questo punto che il penitente dichiara il suo nome Omberto. Prima di proseguire col commento a questo punto è stata fatta una piccola didascalia storica su questo personaggio.

Omberto Aldobrandesco

Fu il secondo figlio di messer Guglielmo dell’antica e nobile casata degli Aldobrandeschi, conti di Soana e Pitigliano, un ampio territorio corrispondente all’odierna provincia di Grosseto. Di famiglia Guelfa, mentre l’altro ramo della famiglia, i conti di Santafiora, era di parte ghibellina, continuò la politica di opposizione del padre alla ghibellina Siena anche con l’aiuto dei fiorentini. Omberto ebbe la signoria di Campagnatico nella valle dell’Ombrone grossetano dal quale sortiva per depredare i viandanti e per rappresaglia ai senesi. Morì nel 1259 combattendo valorosamente contro gli eterni nemici che avevano organizzato una spedizione per ucciderlo. Secondo la testimonianza del cronista trecentesco senese Angelo Dei Omberto fu soffocato nel letto da sicari di Siena travestiti da frati.

 

Commento del canto XI del Purgatorio: seconda parte

A questo punto dunque, dopo aver rievocato le sue vicende terrene, Omberto dichiara la sua identità, usando solo il nome e non il cognome probabilmente per umiltà: in segno di modestia rinuncia ora ad usare il nome di famiglia che è stato il suo orgoglio nel corso di tutta la sua vita, in segno di recupero, in segno che è sulla via di redenzione dal suo peccato. Mentre Dante ascolta il racconto di Omberto assume la posizione dei penitenti per farsi riconoscere, per ristabilire un rapporto personale e comincia a camminare curvo esprimendo, con tale atteggiamento, una profonda sollecitudine per l’amico che sta parlando, ma anche perché Dante è consapevole di essere colpevole dello stesso peccato ed è la seconda volta che mette in risalto il suo gesto di superbia. Mentre si abbassa, uno dei penitenti si torce sotto il peso che lo schiacciava. Ed ecco che dante si volge a guardarlo e si rivolge alla sua anima con una esclamazione. Dante ha riconosciuto in quell’anima Oderesi, la gloria di Gubbio e di quell’arte che a Parigi chiamano (o meglio chiamavano a quel tempo) dell’alluminar e cioè l’arte della miniatura. È venuto il momento ora di conoscere meglio anche questo personaggio tramite un’altra didascalia.

Oderesi di Gubbio

Famoso miniatore del tredicesimo secolo nativo di Gubbio in Umbria e operante, secondo alcuni documenti, a Bologna nel 1268 nel 1269 e nel 1271. Secondo il Vasari fu poi a Roma dove morì intorno al 1299. Dante potrebbe averlo conosciuto a Bologna, ma il rapporto tra i due è attestato unicamente da cio che il poeta stesso ci dice. Le opere di Oderesi ci sono ignote così come quelle del suo concorrente Franco Bolognese poiché nessuna miniatura può essere attribuita con certezza all’uno o all’altro, anche se l’arte di Oderesi era forse legata alla corrente tradizionale e allo stile bizantino, mentre quella di franco era più innovativa e aperta agli influssi francesi e alla pittura di Giotto.

Commento al canto XI del Purgatorio: terza parte

Siamo dunque ora passati da un aristocratico ad un artista quindi dall’alterigia di un nobile all’orgoglio di un pittore. Anche Oderesi come Omberto poco prima parla per esibire, per raccontare il suo pentimento. Cio significa avere la capacità di rileggere la propria vicenda al contrario e quindi di avere raggiunto un livello di pentimento. Come Omberto umilia il proprio nome di famiglia Oderesi umilierà la propria arte che Dante ha invece esaltato. Oderesi dice a Dante che l’onore non è più suo ma di Franco Bolognese che furoreggia nel Mondo come giovane maestro dopo essere stato suo rivale in vita, un nuovo artista dunque del quale si hanno pochissime notizie. L’affermazione di Oderesi l’onore è tutto suo (cioè del Bolognese) e mio in parte sta a significare ancora una volta il tentativo di smorzare queste lodi, un tentativo che in parte fallisce perché permane sempre una punta di superbia anche inconsapevole, una superbia, un costante desiderio di eccellenza nel corso della vita del quale Oderesi ha fatto in tempo a pentirsi in punto di morte ed è per questo, egli spiega a Dante, che è riuscito ad avere accesso perlomeno al Purgatorio. Ed è attraverso questa confidenza di Oderesi del suo bruciante desiderio di primeggiare, che Dante propone una riflessione sulla vanità della vita e della gloria, una riflessione che Dante riprende dai testi sapienziali della Bibbia nonché dalla morale stoica antica e che lui stesso medita dicendo oh vana gloria di potere dell’uomo riferita soprattutto ai poteri politici una gloria destinata comunque ad essere effimera sia che venga dal desiderio di dominio dei condottieri e dei signori sia che venga dal desiderio di eccellenza. Un verso di portata storica dunque quello che esprime questo concetto anche perché subito dopo Oderisi dimostra la fragilità della gloria attraverso una serie di esempi che alcuni storici considerano molto importanti perché sembra che qui Oderisi, con questi riferimenti, abbia fondato la storia dell’arte intesa come un processo di capolavori con un susseguirsi di artisti ciascuno dei quali ha evidenziato un aspetto significativo ed ha lasciato un’impronta indelebile. Qualche dantista parla addirittura, riferendosi alle parole di Oderesi, di progresso, cioè afferma che Oderesi abbia introdotto l’idea di progresso, quando cioè Oderesi fa riferimento a Cimabue che credeva di essere un gran maestro nella sua arte finchè non è stato superato da Giotto così come il poeta Guido Guinizzelli venne superato da Guido Cavalcanti a sua volta superato da Dante. I versi che esprimono tutto questo hanno fatto ammattire tanti critici i quali appunto sostenevano quanto fosse disdicevole il fatto che Dante rivendicasse questo primato. In realtà Dante riconosce di essere un superbo, ma è anche ben consapevole, nel momento in cui si dichiara di essere migliore, che un giorno anche lui sarà scavalcato, quindi Dante, nel momento in cui si candida ad essere il successore di Guinizzelli e Cavalcanti già aspetta il suo successore. In questo sta la fondazione della storia dell’arte, sta proprio nell’idea di continuo progresso di artisti che si succedono ogni volta migliori dei loro predecessori. Un critico, Sapegno, sostiene in tal senso che se Dante non avesse citato se stesso, ma solo i due poeti a lui precedenti avrebbe potuto far intendere che solo la gloria di questi due poeti fosse effimera e non la sua indebolendo anziché rafforzando il proprio atto di umiltà, perché il non riconoscere la propria gloria come effimera sarebbe stata una manifestazione di superbia. Nelle successive tre terzine Oderesi continua su questa strada dissertando sulla vana gloria paragonandola al vento che soffia senza una precisa direzione e a seconda di dove soffia prende nomi diversi. Secondo la professoressa Parolini, un’altra dantista, lo scopo di Oderesi con questa affermazione consiste nell’affermare quanto tutto cio che fa parte del mondo, gloria compresa, sia evanescente e che tutti gli individui che vivono sulla terra sono solo attori per un breve momento. A questo punto Oderesi pone un quesito a Dante gli chiede quale fama maggiore pensi di ottenere? Che differenza c’è se muori giovane oppure vecchio se tu confronti la lunghezza della vita da giovane o da vecchio rispetto a mille anni? Dunque il punto di riferimento di Oderisi e anche quello di Dante è il tempo storico, questo tempo che a sua volta risulta essere un nulla di fronte all’eternità. Dante confronta la fama con il tempo, ma quale tempo? Con il tempo della vita, con il tempo della storia e con il tempo delle stelle. Ed è per questo, di fronte a questo che la fama risulta un nulla incalcolabile, perché il vero obiettivo dell’uomo non è la fama che se ne va ma è l’eterno; è questo l’unico obiettivo importante da raggiungere, un principio che Dante condivide con san Tommaso il quale lo esprime nella Summa Teologica con queste parole: solo nella gloria dell’eternità presso Dio dipende la nostra fama e la nostra beatitudine. Dante dunque si rifà a questo. Oderisi nel frattempo, quasi come a volerlo ergere ad esempio del discorso che con Dante sta imbastendo, introduce un terzo personaggio, un politico che fu a suo tempo molto prestigioso, un grande esponente del comune di Siena che aveva dato filo da torcere ai conti di Santafiora al tempo della battaglia di Montapetti, un grande capo ghibellino che fece risuonare tutta la toscana di se dopo trent’anni dalla sua morte non era più nella memoria di nessuno. Questo personaggio è Provenzano Salvani del quale a questo punto è stata letta la didascalia.

Provenzano Salvani   

È stato un condottiero italiano, nobile comandante nipote della nobildonna senese Sapia Salvani con la quale non condivideva le idee politiche. Durante la lotta tra guelfi e ghibellini fu a capo della fazione ghibellina della repubblica di Siena che era maggioritaria in città. Nel 1260 ebbe un ruolo di primo piano nella battaglia di Montapetti dove i senesi, con l’appoggio delle truppe guidate da Farinata degli Uberti, fuoriuscito fiorentino, riuscirono a sconfiggere le truppe guelfe di Firenze. In occasione del convegno di Empoli si scontrò poi duramente con Farinata degli Uberti in quanto propugnava la distruzione di Firenze. Fu nominato podestà di Montepulciano nel 1262 e successivamente cavaliere per poi assumere il titolo di dominus di Siena. Dove sorgeva la sua residenza a Siena e dove, secondo la tradizione, si verificò un miracolo della Vergine fu poi costruita una chiesa che divenne la chiesa della madonna di Provenzano. Trovò la morte nella battaglia di Valdersa del 16-17 giugno 1269 ucciso dal suo nemico personale Regolino Tolomei. La sua testa fu staccata dal corpo e issata su una lancia per essere portata come un trofeo in giro per il campo di battaglia.

Commento al canto XI del Purgatorio: ultima parte

Sarà Oderisi da Gubbio dopo aver parlato di sé a raccontare a Dante anche la vicenda di Provenzano Salvani, la racconterà in terza persona mentre Provenzano non si esprime. Questo permette ad Oderisi di spiegare meglio i meriti di quel penitente che, se avesse invece parlato in prima persona forse sarebbe stato tacciato di maggiore superbia. Dante sa che Provenzano Salvani è morto da poco, di recente e sa che chi è morto da poco e soprattutto si è pentito all’ultimo momento deve stare nell’anti purgatorio e invece Dante trova questo personaggio nella cornice dei superbi così si chiede come mai può accadere questo come mai questo personaggio si trova qui. Tocca a Oderisi ricordare la motivazione per cui Provenzano è giunto li dall’anti purgatorio, raccontare sinteticamente la vicenda. Quando Provenzano Salvani viveva ed era grande, era un politico importante, all’apice della sua gloria, un suo amico cadde prigioniero di Carlo d’Angiò ed egli, superbo com’era, non esitò a mettere da parte ogni vergogna per mettersi a mendicare in piazza del campo a Siena per pagare il riscatto che avrebbe liberato questo suo amico. Dunque si umiliò fece accattonaggio in pubblico e questo in parte lo riscatta, lo trasforma in un grande personaggio, altruista nonostante la sua spiccata superbia. A questo punto Oderisi non prosegue più col racconto e si rivolge a Dante dicendogli, in riferimento al suo esilio, che anche lui presto avrebbe conosciuto l’umiliazione dell’accattonaggio e della mano tesa a chiedere l’elemosina, cose che per Dante costituiscono effettivamente una ferita dolorosa. Dante non chiede ad Oderisi spiegazioni in merito a queste sue osservazioni perché ha già capito tutto, questo è per Dante l’annuncio che egli dovrà vivere l’esilio come una penitenza terrena che si rivelerà durissima, ma che sconterà in parte i suoi peccati. In questo punto del Purgatorio l’esilio di Dante comincia ad assumere una luce nuova, una luce che comunica che a volte l’ingiustizia che gli uomini mettono sulle spalle delle persone deve essere letta come una provvidenziale anticipazione di penitenza già su questa terra. Il tema dell’umiliarsi a chiedere è diametralmente opposto alla superbia, all’arroganza. Ecco come alla fine in questo canto hanno sfilato tre diverse forme di superbia: quella di un nobile che si rifà alle regali origini, alla ricchezza, quella dell’artista che si rifà all’eccellenza e all’ingegno e la superbia del politico inerente al ruolo sociale. Il sunto di questo canto vuole comunicare che questo vizio, la superbia, non fa differenza di persone ma può contagiare chiunque.

Invidia: citazioni famose e riflessioni

È per la passione dell’invidia che il diavolo è diavolo (S. Agostino)

Per l’invidia del diavolo la morte entrò nel Mondo (Sapienza 2,24)

Per invidia Lucifero si ribellò a Dio per invidia Caino commise il primo omicidio, per invidia i figli di Giacobbe vendettero Giuseppe, per invidia Saul più volte minacciò di morte Davide e ancora l’invidia tra Romolo e Remo, tra Mario e Silla, tra Cesare e Pompeo. L’invidia che Dante definisce la grande meretrice nel sessantaquattresimo verso del tredicesimo canto dell’Inferno.

Commento al canto XIII del Purgatorio: prima parte

Dopo aver lasciato i superbi, Dante e Virgilio giungono alla seconda cornice quella degli invidiosi. Dopo la superbia il secondo peccato più grave è l’invidia la cui natura verrà descritta in modo chiaro da Dante giocando su un colore uniforme, il grigio: la pietra grigia, il viso grigio, il tutto volto a sottolineare quell’aspetto, quella caratteristica tipica dell’invidioso espressa molto spesso anche sul volto. Anche in questo caso Dante, prima di incontrare le anime, è investito da un apparato acustico- didattico che serve a lui proprio raggiungere, per rientrare in quel programma di rieducazione e di riabilitazione morale cui si accennava all’inizio e che è presente in ogni balzo della montagna del Purgatorio e questa volta c’è questo aspetto acustico rappresentato dal suono di tre voci che passano velocissime in successione accanto ai due pellegrini e si disperdono girando subito intorno alla montagna. Queste voci propongono valori esattamente contrari al peccato di invidia, sono tre voci, tre esempi d’amore, questo amore che non è generico, ma che con gradualità si va specificando. Le tre voci parlano di un amore al suo inizio inteso come sollecitudine. La prima voce ripete le parole che Maria rivolse a Gesù durante il banchetto delle nozze di Cana per sottolineare la premura, la sollecitudine appunto, un primo esempio d’amore. Successivamente un’altra voce anch’essa velocissima che si dichiara col nome di Oreste è portatrice di un altro tipo di amore, l’amore inteso come abnegazione, in riferimento ad un mito antico che racconta di due amici Oreste e Pilade pronti a morire l’uno per l’altro scambiandosi l’identità. Il mito infatti ci tramanda di come Oreste per salvare Pilade dall’esecuzione capitale si sostituisce a lui. Ed infine una terza voce che esprime l’amore come sublime carità quella che il Cristo ha sintetizzato nella massima amate i vostri nemici, la massima tratta dal vangelo secondo Matteo capitolo 15 versetto 47 e dal vangelo secondo Luca capitolo 6 versetto 27-28. Già la dichiarazione, in queste voci, che l’invidia, si deve e si può riscattare con l’amore, ma ad un certo punto Dante viene invitato da Virgilio ad osservare tutto cio che li circonda con sguardo più attento in modo da vedere come queste anime se ne stanno accucciate tutte alla parete della montagna tutte con un colore livido avvolti nei mantelli e circondati da pietre del medesimo colore. Dante dunque osserva le anime e le ascolta anche e ascoltando si accorge che anch’esse, così come i superbi del canto XI, cantano e cantano le litanie dei santi, uno spettacolo che colpisce Dante al cuore lo commuove al punto che egli afferma che non può esistere al mondo cuore abbastanza duro da restare indifferente. Queste anime si appoggiano le une sulle altre come mendicanti ciechi visto che la Provvidenza divina li condanna proprio ad avere questa caratteristica per aver desiderato in vita tutto cio che apparteneva agli altri senza badare a sé a quello che era la loro vita, per aver dunque usato gli occhi, qui inteso in senso metaforico, in modo in qualche modo malevolo sugli altri, ecco che qui sono condannati, per via della legge del contrappeso, le palpebre forate cucite da un fil di ferro come si faceva con gli sparvieri selvatici per domarli. Anche qui, come nel caso dei superbi, il contrappeso è perfetto: l’invidia che significa guardare gli altri con ostilità augurando loro il male, l’invidia il cui massimo strumento d’espressione è lo sguardo viene appunto soppressa attraverso l’accecamento dei penitenti. Ma che cos’è l’invidia? L’invidia è uno dei sette vizi capitali e trae origine dall’amore per i beni mondani che l’invidioso non vuole mai dividere con gli altri. Quindi l’invidia è il piacere nel vedere cadere qualcuno o addirittura il dispiacere nel vederlo innalzarsi, ma non tanto perché lo si vuole superare, ma semplicemente perché l’invidioso vede il bene di un’altra persona come una privazione del suo. Il dantista Bosco afferma che l’invidia è un sentimento che unico tra tutti non si traduce mai in azione, non esplode, ma implode, cioè si consuma dentro se stesso e si tramuta in una sorta di perpetuo livore che fa si che gli invidiosi non siano mai tranquilli, non vivono mai in pace perché c’è sempre questo desiderio, questo confronto. L’invidioso non si augura le sventure altrui per avere un vantaggio, ma solo per poterne godere. San Tommaso afferma che l’invidioso considera il bene altrui come limitativo della propria eccellenza, della propria gloria, però c’è una differenza tra la superbia e l’invidia. La superbia nasce dalla speranza di eliminare l’avversario per poter emergere e per superarlo in eccellenza in modo che l’avversario nei risulti poi schiacciato e annientato, mentre l’invidia nasce da un compiacimento verso il male altrui per mera soddisfazione. Dante si avvicina dunque a queste anime e prima di interloquire con loro chiede a Virgilio se è possibile. Virgilio intuisce sempre al volo le intenzioni di Dante e gli da un suggerimento, gli dice di essere breve e arguto nel parlare, sintetico e incisivo. Camminando dunque contro la parete con Virgilio accanto rivolto verso lo strapiombo Dante si avvicina alle anime e si rivolge loro incominciando con l’augurio che la grazia divina possa mondare le loro anime dal peccato per poter raggiungere infine Dio poiché è questo l’obiettivo di tanta sofferta penitenza, poi prosegue chiedendo se fra loro c’è qualche anima italiana che possa trarre conforto dalla notizia della sua presenza e voglia raccontarsi. Dal mare d’anime giunge una risposta siamo tutti cittadini di Gerusalemme, ma tu vuoi forse sapere se qui tra noi c’è qualche esule italiano come te? A Dante par d’udire questa risposta, ma non comprende chi sta parlando e deve osservare meglio così riesce a vedere un’ombra in atteggiamento di risposta, di attesa a sua volta della risposta alla domanda da essa posta. In una similitudine rapidissima Dante descrive quest’anima, la descrive col mento rivolto verso l’alto come un cieco che non riuscendo a vedere si mette in questa posizione. Ed ecco che dunque Dante si avvicina a quest’anima e le chiede di raccontarsi, di identificarsi e dunque quest’anima si presenta e comincia col dire la sua provenienza, la città di Siena, e poi il suo nome Sapia, sottolineando come, essendo qui a doversi purificare da un peccato, non ha certo saputo tenere fede al suo nome. Sapia ma non savia cioè saggia nel corso della sua vita prima di ascoltare la quale è stata letta la didascalia del personaggio.

Sapia Salvani

Zia di Provenzano Salvani, incluso, come si è visto, tra i superbi nella prima cornice del Purgatorio. Fu sposa di Guirivaldo di Saracino signore di Castiglioncello presso Montericcioni. Non si conosce molto della vita di Sapia tranne che forse collaborò col marito per la fondazione dell’ospizio di santa Maria per i pellegrini lungo la via Francigena. Vi lasciò un legato nel testamento del 1274.

Commento al canto XIII del Purgatorio: seconda parte

Sapia esordisce raccontando la sua storia a Dante dicendo, dopo aver sottolineato di esser saggia solo di nome e non di fatto, di esser stata più lieta, nel corso della vita, delle sventure altrui che delle sue vicissitudini liete. Il nome Sapia è imparentato, dal punto di vista etimologico, col termine sapienza, con l’aggettivo tardo latino sapius, savio cioè saggio ed era un’abitudine soprattutto medievale, ma non solo, cercare una corrispondenza tra i nomi e le cose come già si può leggere anche nel vangelo quando Gesù dice a Pietro tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia chiesa (Matteo 16,18). Ma questa anima invidiosa è la prima ad ammettere che stavolta la corrispondenza tra il suo nome e quello che dovrebbe rappresentare non hanno nessuna corrispondenza in quanto il suo peccato, l’aver goduto delle disgrazie altrui, viene definito da Sapia stessa come folle un peccato che la colse nella seconda parte della sua vita. Ed è a questo punto che comincia a raccontare la sua vita. Era il tempo in cui i senesi combattevano contro i fiorentini ed ella pregava affinchè perdessero. La sconfitta venne alla fine, ma solo perché già era nel piano di Dio. I ghibellini senesi vennero messi in fuga dai guelfi fiorentini e Sapia, che faceva parte della minoranza guelfa di Siena, dichiara a quel punto di aver provato grande letizia che non ebbe mai eguali. Quindi la sua grande invidia venne resa palese nell’avere gioito di fronte alla sconfitta dei suoi concittadini. L’invidia dunque non è associata al desiderio di emulazione, ma è pura malevolenza, il rattristarsi per un qualcosa che avrebbe potuto essere positiva per un altro e l’augurarsi che diventasse negativa. Nel caso di Sapia si arriva addirittura all’autolesionismo, essa arriva addirittura a godere di una disgrazia che avrebbe dovuto portare un vantaggio alla sua famiglia e un vantaggio personale se non fosse avvenuta e arriva a non temere più nemmeno Dio tanto sente grande in se questa sua soddisfazione come, secondo una leggenda locale, fa il merlo quando in pieno inverno si verificano dei giorni di sole e si rallegra di cio come se fosse già arrivata la primavera. Sapia continua il suo racconto dicendo che essendosi pentita proprio all’ultimo minuto sarebbe dovuta stare nell’anti purgatorio se non fosse che a suo favore sono intervenute le orazioni di Pier Bettinaio, un terziario francescano di Siena, in odore di santità, che conoscendo la vita di Sapia iniziò appunto a pregare per lei per un forte sentimento di carità. Di nuovo l’amore e la carità che riscattano l’invidia come la solidarietà e l’amore riscattano la superbia. È solo a questo punto che Sapia si rende pienamente conto di trovarsi alla presenza di Dante vivo con gli occhi aperti e solo ora chiede perché Dante si interessa così tanto delle anime, solo ora che ripercorrendo la sua vita ha completato il suo percorso di pentimento allontanando dunque il peccato da sé può rendersi conto di cio che le sta attorno. Dante le racconta dunque che sta compiendo questo viaggio per volere di Dio e che anche se ora si trova tra gli invidiosi non sarà suo destino essere collocato qui, ma piuttosto forse in quella precedente dei superbi ed è qui che Dante confessa pienamente la sua percezione di sé come superbo. Quando Sapia si rende conto che Dante è vivo e che Dio gli ha concesso il privilegio di visitare da vivo il regno dei morti se ne compiace vedendo in cio il segno dell’amore di Dio verso Dante vedendo un segno di carità e chiede dunque un po’ di carità anche per sé affidando a Dante un compito, quello di restituirle la fama una volta che sarà tornato in terra di Toscana, recarsi presso i parenti per rassicurarli sul luogo ove essa si trova e della sua redenzione, alla quale però, in chiusura del canto, si aggiunge una coda velenosa, un ultimo rimasuglio di invidia. Sapia chiede a Dante di osservare i suoi sciocchi concittadini intenti a cercare uno sbocco marinaro nel porto di Talamone cocciuti come quando cercavano un fiume sotterraneo a Siena per tentare di risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico. Sapia nonostante tutto non si astiene dal definire sciocchi i suoi concittadini persi dietro progetti inutili. Nonostante la sua salvezza e il suo pentimento Sapia non ha cancellato del tutto da sé l’ironia e il veleno quasi a dimostrare quanto sia difficile staccare il male da sé e liberarsi delle antiche abitudini. Ed è così che si chiude il canto ancora una volta caratterizzato dalla pietà di Dante che si commuove sempre davanti alle donne che incontra nel corso del suo cammino sebbene per ognuna in modo diverso a seconda della storia di ciascuna. La pietà provata per Sapia, dice il professor Sapegno, è una pietà senza simpatia, quasi una pietà costretta. Infatti il poeta non spende parole di commossa partecipazione per la vicenda di Sapia che viene registrata come una cronaca. I dantisti si sono espressi su due linee di pensiero. Alcuni parlano di Sapia come di un personaggio malriuscito perché nonostante abbia dichiarato il suo pentimento ha poi voluto sfogare ulteriore odio nei confronti dei cittadini senesi, un astio che nonostante tutto non pare del tutto superato e che la mette in una posizione anomala rispetto alle altre anime che una volta raccontata la loro vicenda, una volta pentite si addolciscono e si fanno premurose mentre lei conserva i suoi sarcasmi che la rendono quasi più simile ad un’anima infernale. Altri invece pensano che Dante, attraverso le parole di Sapia, ha voluto dimostrare il disprezzo atavico che egli stesso prova per i senesi e Siena essendo appunto in grande contrapposizione con la sua Firenze. La seconda linea di pensiero considera Sapia un personaggio valente e ben riuscito. Il critico Varanini infatti sostiene che questo personaggio abbia permesso a Dante di cogliere e trasmettere magistralmente la complessità del cuore umano. Cio che succede a Sapia succede un po’ a tutti, questa oscillazione tra il desiderio di ripudiare un vizio un qualcosa di sé che non piace il combattimento con le parti meno nobili di sé e allo stesso tempo le punte di vivace positività che si posseggono. Dunque Sapia è una donna che di certo riconosce il suo peccato, ma il cui pentimento non le impedisce di nascondere il suo carattere schietto, i suoi taglienti giudizi il suo sarcasmo. Ecco perché questa seconda scuola di pensiero ritiene che Sapia sia uno splendido personaggio che coi suoi chiaroscuri è ben rappresentativa della natura umana in generale.

Ecco dunque come Dante ci racconta i due peggiori vizi umani affidandoli al riscatto a alla riabilitazione che viene però raggiunta solo con la pratica della carità e con amore.

Finale a sorpresa

Abbanera, Carmen di George Biset. La fatalità e l’imprevedibilità emesse nel canto di Carmen si intrecciano alla cruda malizia provocatoria nascosta nei gesti e negli sguardi della zingara. Il vizio la fa da padrone, niente e nessuno può controllarlo, niente lo scalfisce, ne minacce ne preghiere, credi di prenderlo esso fugge, pensi di evitarlo esso ti prende.

A questo punto uno dei lettori si è esibito nel canto di questo brano famoso della Carmen. Per ricordare come i vizi percorrono i secoli.

Conclusioni

E dopo questo finale inaspettato è giunto il momento di rifare nuovamente le presentazioni che erano già state fatte all’inizio. Si è conclusa così questa serata altrettanto bella e ricca di quella che è stata presentata l’anno precedente. Serate che scaldano il cuore e riempiono l’anima e che sono sempre più necessarie in epoche come questa caratterizzate da grande avidità, aridità, da vizi, momenti in cui riscoprire la bellezza della poesia della musica, di un buon libro diventa fondamentale come ha detto la professoressa Alessandrini nel suo discorso di commiato. Serate che ogni volta lasciano un gran senso di stupore e meraviglia di fronte alla grandezza dell’opera dantesca che sembra contenere un intero universo di volti di storie che se estrapolati potrebbero essere da spunto per opere ulteriori come romanzi o film, volti e storie che parlandoci di loro ci parlano un po’ anche di noi stessi e ci fanno riflettere in un insieme maestoso che da le vertigini e incute quasi paura quando si tratta di leggerlo perché la lettura non può che risultare superficiale e spicciola tanto è immenso il mondo che quei versi sottendono. La Divina Commedia non si può leggere come si leggerebbe un libro qualsiasi è un libro che deve accompagnare per tutta la vita deve essere meditato, compreso considerando che, come succede sempre con i libri, non a tutti parla nello stesso modo. Probabilmente se venisse un altro gruppo a parlare di Dante e del suo poema non verrebbero dette esattamente le stesse cose che si sono ascoltate questa sera. Questa è la magia di ogni libro il fatto di essere si principalmente il prodotto di chi lo scrive, ma nello stesso anche di chi lo legge, perché la lettura è sempre un’esperienza interattiva. In questo caso l’effetto è ancora più forte perché il poema di Dante contiene in sé gia di per sé un numero quasi infinito di libri e di chiavi di lettura possibili che probabilmente non basterebbe una vita intera per capire e indagare fino in fondo nemmeno per uno studioso come ho sentito dire una volta alla tv proprio ad uno studioso di Dante che ha curato di recente un meridiano delle sue opere. Se Italo Calvino diceva che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire allora in questo senso la Divina Commedia si può considerare un classico tra i classici.

Antonella Alemanni

Credits

Commento ai canti: Valentina Alessandrini

Lettura delle didascalie: Nadia Fascendini

Responsabile del gruppo nonché della biblioteca di Ardenno: Michele Libera

Lettori dei canti: Daniele Patisso, Claudio Barlascini, Andrea Civetta, Martino Della Torre, Giuliana Frosio, Gianluca Salini, Liliana Speziale, Giampaolo Tuana Franguel, Barbara Reganzini e Fabio Scimurri

Tecnico: Claudio Bongini

Cantante nella fase finale: Andrea Civetta

 

I BENI PREMESTINI

La proprietà collettiva di Val Lunga di Tartano e i rapporti con il Comune di Talamona

                                                                                                                                                                                                            Guido Combi (GISM)

Qualche anno fa’, per caso, come avviene spesso, ho avuto occasione di prendere visione della tesi di laurea della dott. Simona Tachimiri che, nell’a.a. 1985/86, ha affrontato l’argomento in modo documentato e completo.
Il titolo della tesi è “Questioni storiche sugli usi civici e le proprietà collettive in Valtellina” e da essa ho tratto, con l ‘approvazione dell’autrice, cercando di sintetizzarlo in modo ragionevole, il testo che propongo all’attenzione dei lettori.
L’argomento delle proprietà collettive e degli usi civici, conosciuto di solito solo di nome, salvo che dagli storici locali, è, come si vedrà, parte integrante delle tradizioni della nostra gente e se ne trovano tracce in molti statuti delle “Magnifiche” Comunità Valtellinesi e Valchiavennasche.
Secondo alcuni studiosi, le proprietà collettive e gli usi civici sono nati con le norme primitive del diritto romano. L’istituto giuridico, presente un po’ in tutta l’Italia, si è poi perpetuato nel tempo, evolvendosi e diversificandosi lungo i secoli, fino ai giorni nostri, subendo l’influsso dei popoli che hanno invaso l’Italia, dopo la caduta dell’Impero Romano, e dei vari governi, nelle varie epoche.
Non è facile risalire alla loro origine in Valtellina, perchè molte di queste comunità sono nate per consuetudine e solo molto più tardi hanno elaborato norme statutarie che poi sono state regolamentate da leggi dello Stato.
Il Consorzio dei Beni Premestini di Val Lunga è tra quelli meglio studiabili per la documentazione esistente ed è per questo che su di esso è caduta la scelta, trattandosi anche della realtà meglio e più ampiamente trattata, anche dal punto di vista storico, tra quelle riportate nella tesi della dott. Tachimiri, che ringrazio per la disponibilità.

LE PROPRIETA’ COLLETTIVE IN VALTELLINA
In Valtellina esistono diversi organismi che sono titolari di proprietà collettive: le quadre di S. Giovanni e S. Maria a Montagna; il consorzio dei beni Premestini di Val Lunga a Tartano; la quadra di Acqua; il consorzio dei beni “Piessa”, “Margonzin” e di “Sasso Bisolo” in Val Masino; i frazionisti di Samolaco per il “Bosco della Vicinanza”.
Sono, questi, enti di origine molto varia che ritengo si possano accomunare per i seguenti caratteri:
– il patrimonio goduto collettivamente è costituito senza dubbio dagli antichi beni vicinali, cioè delle vicinìe, (i vicinalia), poichè, là dove esistono questi organismi, i beni comunali (i comunalia) risultano essere molto limitati;
– hanno tutti origine piuttosto recente;
– la loro nascita è legata all’esigenza di mantenere integro il patrimonio di un piccolo comune o di una frazione, in concomitanza con il verificarsi di eventi che avrebbero potuto metterne in pericolo la sussistenza. Può trattarsi di un’unione fra due comuni, come nel caso di Tartano, come si vedrà, oppure di assorbimento di frazioni nell’ambito dell’ente territoriale maggiore, come nel caso di Montagna, o ancora dell’unione di più frazioni che vanno a formare un nuovo comune. Altre volte gli organismi in parola si costituirono come enti privati per evitare l’efficacia delle leggi sfavorevoli alla proprietà collettiva. Fu pertanto la preoccupazione da parte di un nucleo di abitanti di riservarsi il godimento esclusivo dei territori comuni utilizzati a determinare la nascita di questi enti chiusi, i quali, col tempo, perdettero qualsiasi carattere pubblico.
I titoli richiesti per farvi parte erano, e sono, o la discendenza da famiglie di antichi originari, o l’incolato (la residenza, cioè “avere foco”), o il possesso di terreni nel comune.
Non essendo possibile ricostruire la nascita e l’evoluzione di tutti questi organismi, per mancanza di fonti documentali, prendiamo in esame il caso del consorzio dei beni Premestini di Val Lunga, per il quale è stato relativamente facile reperire più ampie fonti.

IL CONSORZIO DEI BENI PREMESTINI DI VAL LUNGA DI TARTANO.
FORMAZIONE (1)
L’attuale statuto che regola il godimento dei beni detti Premestini (2), i Premestii nel dialetto di Tartano, redatto nel 1924, qualifica l’ente titolare come un consorzio di famiglie originarie.
L’art. 1 recita infatti: I beni Premestini appartengono a titolo di condominio collettivo alle famiglie residenti in Vallunga di Tartano, discendenti dalle originarie famiglie che stipularono l’enfiteusi nel 1617 e che ne furono e sono in legittimo possesso. Queste famiglie formano il consorzio Premestini. La norma citata riconnette dunque l’origine del consorzio alla stipulazione dell’enfiteusi, avente ad oggetto i beni denominati appunto Premestini, concessa a favore di tutti gli abitanti di Val Lunga da parte di Talamona.
In realtà, per ricostruire l’origine e le vicende dell’organismo in esame, bisogna ritornare indietro nel tempo fino alla metà del ‘500. In quest’epoca la sola Val Lunga formava il comune di Tartano, mentre la Val Corta e Campo, che oggi fanno parte anch’essi del comune di Tartano, erano uniti al comune di Talamona. Quest’ultimo, già nei secoli antecedenti, aveva attratto nella sua area politica e religiosa le vicinìe, o contrade, circostanti; Campo vi faceva parte da lungo tempo, anche se continuava ad avere i propri sindaci, come si legge in un documento del 1555 dove sono infatti menzionati “homines de Campo seu eorum sindici et agentes”.
Con tutta probabilità, la Val Lunga riuscì a mantenersi autonoma da Talamona e a costituirsi in comune, poichè era più lontana da essa rispetto a Campo ed i suoi traffici erano rivolti verso la Bergamasca, da cui si accede attraverso il passo di Tartano e il Passo di Porcile, situati nella testata della Val Lunga.
Il processo di trasformazione, da semplice vicinanza a comune autonomo non avvenne per Tartano certamente fino al 1347. In un documento che reca tale data, infatti, si trova menzione delle discordie e controversie “inter comune et homines de Ardeno ex una parte et infrascripti habitatores Vallistartani ex alia”. Non si trova mai citato il comune di Tartano ma sempre “nominati de Tartano”, “suprascripti de Tartano”.
Tralasciando questo problema, è certo che successivamente Tartano si costituì come comune autonomo, dotato di propri organi. Infatti nei documenti del ‘500 accanto agli “homines” è menzionato anche il comune, con i sindaci ed il console.
E’ proprio in quest’epoca che, nella storia del comune di Tartano, si inserisce la vicina Talamona, ed è fin da ora che si delineano i presupposti per la costituzione del consorzio dei Premestini.

LA DELIBERAZIONE DI UNIONE TRA I COMUNI DI TALAMONA E TARTANO.
1556, 1 gennaio.

L’autonomia del comune di Tartano non dovette avere lunga vita, come del resto accadde a tutte le vicinìe che si erano costituite in piccoli comuni a seguito della disgregazione politica e religiosa dei maggiori centri. Le spese necessarie per la costruzione, la manutenzione o la riparazione delle opere di carattere pubblico come strade, ponticelli, muri per consolidamento di terreni franosi, frequentemente distrutte dalle intemperie, le spese per il mantenimento del curato e la manutenzione della cappella, le spese dovute a titolo di retribuzione per i pubblici ufficiali, erano troppo gravose per comunità formate spesso da una sola frazione, costituita da pochi nuclei familiari. A ciò si deve aggiungere che i beni più redditizi di questi piccoli comuni appartenevano ai centri più grandi che avevano da sempre esercitato la loro influenza sulle vicinìe. E’ questo anche il caso del comune di Talamona, che possedeva l’Alpe Porcile, situata nel comune di Tartano, concessa “ad acolam”(3).
Causa le scarse risorse di cui disponeva, Tartano dovette seguire la sorte del vicino paese di Campo, chiedendo l’unione con Talamona. Gli abitanti di Talamona, chiamati dal suono della campana, si riunirono il 1° gennaio del 1556, nel portico della Chiesa di S. Maria, per discutere della possibilità di tale unione, in occasione dell’emanazione di nuovi ordini riguardanti il comune e del rinnovo delle cariche municipali.
La richiesta di unione fu accettata ed i motivi sono esposti nel documento che riporta la deliberazione: il comune di Tartano aveva un estimo troppo esiguo, costituito da 6 lire, 3 soldi e 4 denari.
In effetti si trattava di una cifra veramente minima se si considera che l’estimo di Talamona era tredici volte superiore, mentre le famiglie, secondo quanto riferisce il vescovo Ninguarda, erano solo il triplo.

LE COMUNITA’ DI TARTANO E TALAMONA SI UNISCONO.
MODALITA’ E CONDIZIONI DELL’UNIONE

Le trattative per giungere all’unione dovettero presentarsi molto laboriose, poichè questa trovò attuazione, solo dopo quasi un anno dalla deliberazione. Le condizioni per la realizzazione furono minuziosamente stabilite, affinchè i due comuni sopportassero le spese pubbliche in proporzione diretta ai singoli estimi. Poichè le entrate del comune di Talamona erano notevolmente superiori a quelle del comune di Tartano, quest’ultimo dovette porre in comunione, “pro coequatione et equali valore, bona comunia ac ficta et acolas”. L’elenco dei beni passati in possesso del comune maggiore è un quadro interessante circa la distribuzione della proprietà. Il comune risulta infatti titolare di quasi tutti i boschi e pascoli della Val Lunga, che sono concessi agli abitanti attraverso quella forma contrattuale che è tipica della Valtellina: l’accola.
Fra i “communia” elencati si fa menzione di una terra prativa e zerbiva. Accanto ai beni entrati a far parte del patrimonio del comune, sono dunque rimasti quelli aperti al godimento della collettività, probabilmente di scarso valore, utilizzati senza alcun corrispettivo, dal momento che per essi non e previsto il pagamento dell’accola.
L’unione fra i due comuni non rappresentò una vera e propria fusione, fu piuttosto di carattere personale .
E’ singolare che Tartano possa dettare delle condizioni per l’unione, riservando numerose comunanze al godimento esclusivo dei propri abitanti (una spiegazione si può addurre osservando la situazione geografica dei territori interessati: Talamona, situata sul fondovalle e circondata da una zona quasi esclusivamente boschiva, aveva grande interesse ad usufruire degli estesi pascoli situati in Val Lunga; per questo si piega a sopportare delle condizioni imposte dagli abitanti di essa). Saranno proprio questi territori a formare l’insieme di beni successivamente denominati Premestini, oggetto del consorzio che da essi prende nome.
Essi sono: i pascoli della Caslana, della Foppa dell’Orto, i terreni comuni e i pascoli del Dosso Chignolo, della Corna della Valle della Quaresima, delle Foppe, di Gavedo di Fuori.
Dalla clausola di riserva dell’atto di unione si osserva la preoccupazione degli abitanti della Val Lunga di tutelarsi dalle eccessive pretese del comune più grande, preoccupazione manifestata anche attraverso la statuizione di un patto di reversibilità per cui, se le comunità si fossero divise, i beni sarebbero stati nuovamente separati.

IL MANCATO RISPETTO DEI PATTI D’UNIONE DA PARTE DI TALAMONA
L’interesse di Talamona per i pascoli della Val Lunga si rivelò in modo palese attraverso il tentativo di utilizzare tutti i “communia” di Tartano che ormai era diventato un colondello (frazione) del comune, a prescindere dai territori che questo si era riservato nel patto d’unione del 1556. Nel 1614, i beni Premestini furono affittati ad un certo ser Giambellus di Talamona, in seguito a pubblico incanto, cui aveva partecipato anche un abitante di Tartano. L’incanto si svolse secondo le norme degli ordini di Talamona del 1526, le quali, richiamando ordini più antichi, regolamentavano tutta la materia relativa all’affitto dei beni del comune.
Il mancato rispetto della clausola con la quale gli abitanti di Tartano si erano riservati alcuni territori, determinò un profondo contrasto tra il comune ed il colondello. Tartano minacciò di separarsi da Talamona e chiese la restituzione dei beni conferiti in comunione nel 1556. Dopo un susseguirsi di giudizi civili e di decisioni contrastanti, emesse di volta in volta dai giudici aditi, finalmente le due comunità raggiunsero un accordo e la lite venne transatta con rogito 13 giugno 1617.

LA CONCESSIONE DEI BENI PREMESTINI AL COLONDELLO DI TARTANO A LIVELLO PERPETUO
Talamona, per evitare la separazione di Tartano, che le avrebbe sottratto estese zone pascolive e boschive, investì gli uomini di Tartano a livello perpetuo dei Premestini della Val Lunga, per un corrispettivo di 150 lire imperiali annue. Tuttavia, dei sette appezzamenti costituenti i Premestini, solo quelli denominati Foppa del Urso, alle Calsane, alle Brusade e Dosso Chignolo poterono essere utilizzati esclusivamente dagli abitanti della Val Lunga, mentre degli altri dovevano poter usufruire anche quelli di Talamona in caso di discesa forzata dai propri alpeggi.
La stipulazione dell’enfiteusi attesta l’esistenza di quello che il Cencelli Perti chiama “patto di accomendazione” tra due comuni, evento cui molto spesso bisogna risalire per chiarire la nascita di vicinanze, regole, società di antichi originari. Il patto è caratterizzato dalla ricerca di protezione di una piccola comunità che, per mettere al sicuro le persone ed i beni dalle invasioni e dalle guerre (nel nostro caso più che altro per realizzare le opere pubbliche necessarie ad impedire inondazioni e frane), si unisce ad un centro più grande, accomendando se stessa ed i propri beni. Questo, dopo l’atto di accomendazione, riconcede i “bona communia” alla collettività che già li possedeva, dietro corrispettivo del pagamento di un piccolo canone.
E’ evidente in tale pratica la tendenza dei centri minori a tenere per sè i beni collettivi, nel timore che, una volta posti in comunione con quelli di un’altra comunità, diventassero d’uso generale degli abitanti anche di quest’ultima o fossero venduti o locati come beni puramente patrimoniali, vista la tendenza dei comuni a cedere parte del loro patrimonio pascolivo e boschivo a privati o a largheggiare con concessioni a titolo oneroso su di esso, per sanare finanze disastrate. Alle volte, poi, tale patrimonio veniva sfruttato dall’ente pubblico in maniera indiscriminata, perchè fornisse un reddito immediato, atto a soddisfare esigenze contingenti.
Il documento di stipulazione dell’enfiteusi in questione ribadisce più volte che intervennero a costituire tale contratto quattro deputati, agenti e procuratori a nome di tutto il colondello. Non vi è menzionata alcuna condizione di originarietà richiesta per godere dei Premestini, segno evidente che questo elemento di discriminazione fra gli abitanti della Val Lunga interverrà solo più tardi. (continua)

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La Val Tartano con Tartano e, sullo sfondo, Campo, visti dal Dos Tachèr, Alpe Gavedo.

Foto Giuseppe Miotti.

IN CANTO D’AMICIZIA

TALAMONA 17 maggio 2014 concerto canoro in Auditorium

                                                                                  TRE CORI PER UN’INIZIATIVA SOLIDALE
Un evento tra cultura e solidarietà quello che ha avuto luogo questa sera alle ore 20.45 all’Auditorium delle Scuole Medie. Tre cori hanno prestato la loro voce e la loro arte per una raccolta fondi a favore del GFB ONLUS un’associazione di genitori di bambini affetti da una rarissima malattia genetica per la quale ci può essere speranza di cura soltanto con la ricerca, con la continua informazione e sensibilizzazione di un pubblico sempre più vasto con l’organizzazione di convegni e serate di discussione tra gli addetti ai lavori in tutto il Mondo ma anche con la gente comune e infine anche con serate come questa dove, attraverso il divertimento e l’arricchimento culturale si contribuisce nel frattempo ai progressi nella lotta contro questa malattia chiamata sarcoglicanopatia, una variante della più conosciuta distrofia muscolare, per la quale esistono nel Mondo pochi gruppi di ricerca che se ne occupano. Madrina dell’evento Beatrice Vola, presidente e fondatrice del GFB ONLUS, madre di due ragazzi affetti da questa malattia, che, come in occasione di ogni evento benefico promosso, ha introdotto la serata facendo il punto sullo stato della ricerca e sulle iniziative finora portate avanti dall’associazione come ad esempio la creazione di un portale Internet per mettere in contatto le famiglie che in tutto il Mondo fanno i conti con questa malattia o l’adesione ad una campagna di raccolta punti dell’Iperal, una sorta di concorso che premiava le ONLUS scegliendo tra quelle maggiormente patrocinate dai consumatori attraverso la raccolta punti (il GFB si è piazzato terzo vincendo più di sedicimila euro), tutte iniziative che non possono che andare a beneficio della ricerca. È notizia recente che negli Stati Uniti alla Columbia University si è costituito un gruppo di ricerca che si occuperà in modo specifico di questa malattia.
Una volta informato il pubblico circa l’importanza di questa serata è venuto il momento di introdurre i tre cori.
I primi ad esibirsi sono stati i membri della Schola Cantorum di Madonna di Tirano. Questo coro polifonico si è costituito nel 1996 su iniziativa di un gruppo di appassionati desiderosi di ricercare nuove sfumature e stimoli di crescita attraverso un repertorio che spazia dai brani sacri finanche ai popolari e ai profani di epoche diverse, un repertorio del quale stasera, sotto la direzione di Mario Riva, è stato dato un assaggio attraverso sette brani alcuni accompagnati al pianoforte da Federico Bianchi (il secondo il quarto e il quinto).
Il primo brano presentato è stato O SACRUM CONVIVIUM di Luigi Molfino, uno dei più stimati e poliedrici compositori del XX secolo formatosi al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano presso il quale ha conseguito diplomi d’organo, musica corale, direzione di coro, composizione e polifonia vocale. Dal 1938 al 1941 è stato organista dell’orchestra della Scala e dal 1974 al 1986 è stato docente di organo e composizione organistica presso il conservatorio di Milano e di armonia e composizione e organo presso il Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra a Milano nonché autore di vari brani sacri e organistici.
Il secondo brano è stato MADONNA DE CLARITATE di Marco Enrico Bossi nato a Salò, in provincia di Brescia nel 1861 discendente di una famiglia di organari attiva dal XVI secolo in Lombardia e nel Nord Italia, autore di opere teatrali, messe, oratori, composizioni sinfoniche, musiche da camera, studi di pianoforte ed organo, spesso ispirati ai modelli romantici tedeschi in particolar modo Mendelsson e Brahms. Il brano cantato questa sera è tratto dal testo di una lauda francescana del XIII secolo dedicata a Santa Chiara.
A seguire TOURDION di Pierre Attaignant un editore e compositore musicale francese vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e la prima del Cinquecento che stampò più di 1500 canzoni polifoniche sfruttando la tecnica a caratteri mobili che allora era stata recentemente inventata e che permise una rapida e vasta diffusione delle sue opere soprattutto danze e canzoni negli stili ad esso coevi. TOURDION in particolare identificava un tipo molto particolare di danza francese.
È venuto poi il momento di LIFE UP YOUR HEART di Sally de Ford, una preghiera.
A seguire un salto nell’Ottocento con VERLEIH UNS FREIDEN di Felix Mendelsson nato ad Amburgo da una famiglia aristocratica di origine ebraica, compositore prolifico sin dalla più tenera età fino a diventare nel 1835 direttore dell’orchestra del Gewandhous di Lipsia e a fondare nel 1843 il conservatorio nella città medesima.
Col brano successivo si resta nell’Ottocento facendo un piccolo salto geografico. OCULI OMIUM è una composizione di Charles Wood nato nel 1866 ad Armagh in Irlanda, fin da ragazzo corista nella Cattedrale di San Patrizio poi, dal 1883, studente di composizione, corno e pianoforte al Royal College of Music e infine insegnante ricordato soprattutto per le sue composizioni nell’ambito della musica da Chiesa e per gli inni sacri per coro a cappella che ben esprimono grande maestria nel trasmettere calore e ricchezza di espressione.
L’ultimo brano eseguito dalla Schola Cantorum è stato IL CARNEVALE DI VENEZIA di Gioacchino Rossini fra i massimi esponenti dell’opera buffa sicuramente tra i più rappresentativi, divertenti ed istrionici.
A questo punto il testimone è passato al coro dei Cech di Traona costituitosi nel 1997 sempre ad opera di un gruppo di appassionati con un repertorio che si rifà quasi esclusivamente ai canti popolari, di montagna, degli alpini soprattutto quelli del nostro territorio con l’intenzione di unire la passione per il bel canto al mantenimento della memoria delle genti, degli usi dei costumi della storia e della cultura delle nostre valli. Di questo spirito naturalmente anche i brani presentati questa sera, ciascuno con una sua storia, diretti da Davide Mainetti.
Il primo brano intitolato SABATO DI SERA di Angelo Mazza, è ambientato sul lago Maggiore è racconta di una notte d’amore che inizia in tragedia, ma che si conclude con un lieto fine.
A seguire un’ AVE MARIA musicata da Bepi de Marzi, per dare, come da tradizione nei concerti tenuti da questo coro, una nota devozionale.
Il terzo brano di Benedetto Michelangeli intitolato CHE FAI BELLA PASTORA racconta di un vecchio che si ostina a corteggiare una bellissima donna molto più giovane credendo di avere ancora delle risorse. Tutti i suoi tentativi sono però destinati a fallire.
A seguire I RADISS tratto da un testo di Marco Sironi musicato da Angelo Mazza, il canto nostalgico di un uomo che è costretto a lasciare la sua terra natale dove hanno origine i suoi avi, costretto a salutare tutti i suoi amici, i suoi legami per poi ritrovarli tutti alla fine carichi di ricordi.
Angelo Mazza ritorna anche col brano successivo intitolato QUEL MAT DE TONI RONDOLA che racconta di un qualcosa di molto familiare alle nostre genti fino a due o tre generazioni fa, la vita semplice delle montagne tra povertà e ristrettezze, ma arricchita da personaggi come quello della canzone che riescono comunque a non perdere l’allegria e la voglia di cantare, una canzone che trasmette il ritmo allegro attraverso la ripetizione della parola quattro.
In conclusione al proprio concerto il coro ha proposto un motivo tradizionale musicato da Gianni Malatesta A MEZZANOTTE IN PUNTO che racconta di un appuntamento galante nel bel mezzo della notte.
È venuto ora il momento dell’ultimo coro costituitosi a Talamona il 15 ottobre 1982 e intitolato a Don Vincenzo Passamonti indelebile presenza nella memoria collettiva dei talamonesi quale grande figura di uomo generoso deciso e spontaneo. Inizialmente sotto la guida di Oscar Pasina il coro prevedeva esclusivamente un repertorio sacro classico per accompagnare le funzioni religiose poi dal 1999 col nuovo direttore Tomaso Ronconi (che ha diretto anche questa sera naturalmente) il repertorio ha aperto anche alla musica polifonica moderna a cappella o con accompagnamento strumentale.
Il primo brano presentato è stato un inno sacro intitolato JESU REX AMIRABILIS composto da Giovanni Pierluigi da Palestrina vissuto nel Cinquecento tra i più importanti musicisti del Rinascimento italiano autore prevalentemente di messe e musica sacra, maestro cantore ammirato dalle maggiori personalità della sua epoca.
A seguire tre brani della musica sacra ortodossa: OCE NASH (PADRE NOSTRO) di Nikolaj Kedrov IZE CHERUVIMI di Gavril Lomakin e BOGORODITZE DIEVO di Serghej Rachmaninov, quest’ultimo particolarmente degno di nota in quanto lo scorso anno ricorreva il 140° anniversario della nascita e il 70° della morte di questo compositore prolifico musicista soprattutto nell’ambito della musica sacra russa della quale toccò il vertice in particolar modo con questo brano.
Dopo tanta musica sacra è venuto il momento di quella popolare con altri tre brani.
Il primo AY LINDA AMIGA di autore anonimo spagnolo del XV secolo musicato in seguito da Eduardo Torner fa parte di una raccolta conosciuta come CANCIONIERO DE PALACIO un’antologia di musica polifonica eseguita alla corte dei re Cattolici (un’importante centro di cultura musicale) e racconta i tormenti dell’amore.
Il secondo SZELLO SUG di Lajos Bàrdos un compositore ungherese che è stato anche insegnante e direttore di coro che, insieme a Zoltàn Kodàly gettò le basi della musica corale ungherese; in ungherese da voce solista è stata eseguita la prima parte del brano, tutto il resto in italiano dal coro, in una traduzione poco letterale.
Il terzo brano popolare che è anche quello che ha chiuso il concerto è stato LA CABANA tratto dalla tradizione popolare colombiana con testo di Julio Florez, musica di Emilio Murillo e armonizzazione di Efrain Orozco.
A questo punto dopo un bis eseguito insieme dalla Schola Cantorum e dalla corale Passamonti si è chiuso il concerto ed è cominciata l’ultima parte della serata consistente in un rinfresco e in una piccola festicciola per concludere il tutto in allegria.

Antonella Alemanni

GIOVINARTE

                                                              TALAMONA 17 maggio 2014 mostra estemporanea alla Casa Uboldi

I RAGAZZI DELL’ISTITUTO COMPRENSIVO “G.GAVAZZENI” DI TALAMONA ESPONGONO I LORO LAVORI ARTISTICI

Quadri di tutti i tipi ma soprattutto di soggetto astratto riprodotti con le tecniche più varie (tra cui dei contenitori di cartoni per le uova disposti su tela a formare una composizione cromatica e geometrica) e sui più vari supporti (come ad esempio i sacchi di tela soprattutto per le figure umane abbigliate con classici costumi di Cino, Delebio e altri angoli della Valtellina) riproduzioni di quadri e autori famosi fedeli o anche reinventate (IL BACIO di Klimt, GUERNICA di Picasso, due tele dell’Arcimboldo, due ritratti fruttati, opere di Van Gogh, Gauguin, Mirò, Kandinsky e l’immancabile Orlando Furioso in due scene tratteggiate a carboncino. Tutto questo è GIOVANINARTE la mostra estemporanea presentata quest’oggi dalle 15 alle 19 alla sala mostre della Casa Uboldi con un piccolo rinfresco e intrattenimento a cura dei giovani artisti e col patrocinio della Pro Loco. Proprio la presidentessa della Pro Loco, Savina Maggi, ha avuto l’idea di mettere in mostra i lavori che i ragazzi realizzano a scuola e che finora li rimanevano, esposti nei corridoi tuttalpiù alla vista di genitori e insegnanti, ma che, anche a detta dell’assessore alla cultura Simona Duca, sarebbe positivo valorizzare meglio. Ecco dunque la possibilità di ammirare quest’oggi(con l’apertura per la settimana seguente nei orari della biblioteca) una selezione dei migliori lavori realizzati dai ragazzi negli ultimi cinque anni. L’idea originale prevedeva anche i lavori di quest’anno, ma non è andata in porto per motivi di spazio. Questo lascia ben sperare in una prossima edizione.
Antonella Alemanni

PER DIRE NO ALLA DROGA

TALAMONA 5 maggio 2014 una serata dedicata all’operato della comunità San Patrignano

TRE MADRI DI FIGLI CON PROBLEMI DI TOSSICODIPENDENZA RACCONTANO LA LORO TESTIMONIANZA E DICONO: FATE ATTENZIONE AI VOSTRI FIGLI, NON LASCIATELI MAI DA SOLI!


Nessun argomento al mondo come la droga è allo stesso tempo oggetto di numerosi dibattiti e ostracizzato. Di droga si sente parlare spesso: di chi ne fa uso, di chi si arricchisce producendola e vendendola, della vasta rete criminale che sottintende. Di droga se ne parla soprattutto ai giovani attraverso campagne di informazione scientifica che spiegano gli effetti delle sostanze su un corpo in crescita e soprattutto sul cervello e in campagne di sensibilizzazione volte a istillare nelle giovani coscienze valori che in chi si avvicina alle droghe non sono presenti in maniera così solida come dovrebbero invece essere. Nonostante questi sforzi il problema della droga continua a sussistere. I giovani in età sempre più precoce (recenti statistiche fanno risalire a 10-11-12 anni la prima sigaretta, la prima canna e anche la prima ubriacatura) ne fanno uso, sottovalutano i rischi che corrono e molto spesso fanno riferimento a delle informazioni erronee come quella ad esempio secondo cui la cannabis curerebbe il cancro (in realtà i cannabinoidi vengono a volte usati come cure palliative più spesso nei pazienti terminali con modalità diverse da quelle usate in contesti di dipendenza, in dosi diverse e sotto stretto controllo del medico) o che una canna farebbe meno male di una sigaretta (cosa non vera in quanto per fabbricare una canna pare si usi il principio attivo, il tabacco della sigaretta come eccipiente e un pessimo filtro che aumenta il potere cancerogeno delle sostanze presenti nella sigaretta, un dettaglio che viene confermato da tutti coloro che hanno fatto uso di tali sostanze). Ne fanno uso perché? Per sballare? Ma perché i giovani hanno bisogno di sballare? Da cosa fuggono, quali ferite spirituali o disagi vogliono lenire? Perché hanno bisogno di assumere sostanze tossiche per stare bene, per ritrovarsi in gruppo e divertirsi, perché si genera in loro la curiosità di provare queste sostanze nonostante la loro pericolosità più e più volte dichiarata? Che ruolo hanno la famiglia e la società in questa piaga sociale, nelle sue origini, ma soprattutto nella sua soluzione? Che si può fare quando ci si trova faccia a faccia con il problema perché un parente o un conoscente si droga e molto spesso i suoi familiari più stretti gli creano intorno un muro di omertà e di ostinazione a non voler vedere il problema, non volerlo affrontare? Come si può essere d’aiuto a chi ci è intorno a chi ci è caro e si fa del male credendo che delle sostanze chimiche siano in grado di riempire profondi vuoti esistenziali? È per cercare di rispondere a queste domande che questa sera alle ore 20.30 al piccolo teatro dell’oratorio è stato organizzato un incontro con tre madri di figli tossicodipendenti ora in via di recupero: Marisa (che è presidente della sezione di Sondrio della ONLUS che fa capo alla comunità di San Patrignano attiva dal 2009) Diana e Letizia. Tre madri con tre storie tutte simili eppure tutte diverse così come lo sono le storie di tutti coloro che approdano a San Patrignano dopo un vissuto doloroso in cerca di un’opportunità per ricominciare a vivere una vita normale. Da quando è stata fondata negli anni Settanta da Vincenzo Muccioli a partire da un vecchio casolare abbandonato nelle campagne riminesi e da alcune roulotte recuperate dopo un sisma, San Patrignano è divenuta sempre più un punto di riferimento fondamentale per persone che, come si è detto in un filmato proposto a inizio serata, hanno quasi più paura di vivere che di morire. Già al tempo della fondazione del centro di San Patrignano la tossicodipendenza era una realtà sociale grave e chi faceva uso di droga doveva subire anche i pregiudizi degli altri, l’emarginazione, l’ostracismo sociale. Alla comunità hanno potuto trovare chi ha restituito loro la vita hanno potuto studiare da zero oppure riprendere gli studi laddove li avevano interrotti hanno potuto imparare dei mestieri per potersi creare delle opportunità, ma soprattutto si sono riscoperti come persone e molti una volta rinati sono rimasti per proseguire questa grande opera sociale restituendo ad altri la speranza che essi stessi avevano ricevuto. Un percorso che continua ancora oggi purtroppo e per fortuna. Purtroppo perché cio significa che gli anni passano, ma la droga non passa mai di moda e per fortuna perché per ogni nuova vittima della droga c’è sempre pronto un sostegno un’opportunità per rialzarsi e riprendersi la propria vita com’è accaduto ai ragazzi le cui madri sono intervenute questa sera. È stata soprattutto la signora Marisa a tenere un lungo e appassionato discorso partendo dalle vicende del figlio (approdato a San Patrignano dopo un periodo trascorso in una struttura statale) per arrivare a una trattazione più ampia dell’argomento un discorso che ha sfatato molti miti come ad esempio quello che suddivide le droghe in leggere e pesanti facendo apparire le prime come un male tutto sommato minore (dimenticando però di sottolineare come negli ultimi decenni, il principio attivo della cannabis sia passato, grazie a sementi geneticamente modificate dal 3 al 21% cosa che ne ha aumentato la tossicità) o come quello che considera veri e propri drogati solo quelli che si iniettano l’eroina in vena dando l’illusione a chi assume altre sostanze o anche l’eroina ma con altre modalità di non esserlo, di non avere un problema o come l’errore in cui cadono molti genitori nel pensare che la tossicodipendenza si possa risolvere nell’ambito della famiglia e che non occorrano percorsi di recupero con persone competenti. Certo dalla famiglia non si può prescindere. È in famiglia che ci si forma è in famiglia che si impara a capire cosa è giusto e cosa non lo è e i genitori non possono mai in nessun caso delegare sempre la formazione dei figli ad altri. La famiglia diventa ancor più determinante quando si tratta di cogliere i segnali di qualcosa che non va. Tutte e tre le madri sono state concordi nel dire che bisogna ascoltare i figli e ancor più i loro silenzi. Tutto questo perché molto spesso quando ci si accorge del problema è gia troppo tardi e i ragazzi non possono più essere recuperati. Senza arrivare alle morti del sabato per collasso dovuto a disidratazione (in quanto le pasticche alterano i centri della termoregolazione sicché i ragazzi si ritrovano a ballare in discoteca tutta la notte con temperature da febbre senza accorgersene senza sentire il bisogno di bere acqua) non vanno trascurati i danni cerebrali irreversibili e le negative ripercussioni sulla salute in generale che si manifestano anche dopo anni a volte anche dopo essersi disintossicati. A questo proposito i medici, risonanze magnetiche alla mano diffondono dati sempre più allarmanti: l’abuso delle cosiddette droghe leggere compromette per sempre i centri cerebrali delle emozioni e in generale la comparsa di sostanze sempre più pericolose ed elaborate farà si che tra non molti anni ci saranno sempre più trentenni malati del morbo di Parkinson come conseguenza degli effetti delle sostanze sul cervello. Com’è possibile che tutto cio non basti a tenere tutti lontano dalla droga? Com’è possibile che i nostri giovani vivano un disagio interiore talmente forte da dover rischiare la propria vita per placarlo per acquisire una sorta di forza d’animo che non sanno trovare altrimenti? È da questo che bisogna partire parlando di droga un argomento che non deve più fare paura che non deve più essere ignorato o sottovalutato. Che non si abbia paura dunque di farsi avanti offrire sostegno anche facendosi odiare, anche ricevendo porte in faccia. Che non si abbia paura ad educare i figli anche con fermezza se serve. Che non ci si nasconda che non ci si indigni per gli interventi delle forze dell’ordine che spesso, come ha sottolineato il maresciallo Sottile, intervenuto a metà serata, salvano la vita ai nostri figli perché sono il primo passo verso la risalita e che ci si liberi da ogni ignoranza e pregiudizio che impediscono un corretto approccio al problema. Non bisogna dimenticare che i giovani sono il nostro futuro e che come ha detto la signora Marisa, se non ci occupiamo del nostro futuro siamo una ben misera società.
Antonella Alemanni

MUSICA MAESTRI !

TALAMONA 1 maggio 2014 concerto del primo maggio

                                                 UNA SERATA DI MUSICA PER CELEBRARE LA FESTA DEL LAVORO

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In occasione di questo appuntamento annuale che per i talamonesi è diventato una vera e propria tradizione, questa sera, alle ore 21, presso la palestra comunale, la Filarmonica di Talamona ha deciso di far aprire il concerto alla banda giovanile, reduce da un concorso nazionale che si è tenuto sempre presso la palestra comunale, nel corso della giornata del 30 marzo di quest’anno. Un’occasione per valorizzare e far conoscere la scuola di musica attraverso la quale si formano i musicisti di domani e il futuro stesso della filarmonica.
Il primo brano che la banda giovanile ha eseguito è OPEN ROAD del compositore statunitense Robert Sheldon, un’opera che descrive in musica il viaggio attraverso le ampie strade americane a bordo di un’automobile, un modo per scoprire l’immensa vastità delle terre oltreoceano alla scoperta di nuovi luoghi e nuove avventure. OPEN ROAD è stato suonato durante il concorso nazionale nella sezione B dedicata ai ragazzi fino a 15 anni.
A seguire ATTACK OF CYCLOPS di Mark Williams. I ciclopi sono gigantesche divinità con un occhio solo appartenenti alla mitologia greca. Con questo brano il compositore ci aiuta ad immaginare proprio un attacco di queste creature.
E ora siamo all’ultimo brano eseguito questa sera dalla banda giovanile. FLASH FLOOD è dedicato alla grande forza dello spirito umano e si ispira un particolar modo alla capacità umana di riprendersi dalle catastrofi che la natura talvolta ci riserva. Questo brano ad opera di Chris Bernotas, prende spunto dal modo in cui è stato affrontato l’uragano Irene che nell’estate del 2011 ha devastato la costa atlantica degli Stati Uniti. Questo brano è stato eseguito durante il concorso nazionale nella sezione A dedicata ai giovani fino ai 18 anni. L’esecuzione di questo brano è stata accolta da una grande ovazione e dalla richiesta di un bis. Prima di proporlo sono stati presentati i componenti della banda giovanile alcuni presenti anche nella filarmonica. Ai flauti Mara Bertolini e Sofia Bianchini. All’oboe Nicolas Duca (che insieme con Sofia Bianchini è entrato nelle file della filarmonica a partire dal gennaio di quest’anno). Ai clarinetti Silvia Bedognè, Elena Cassera, Elisa Libera, Monica Nirosi, Laura Petrelli, Alessia Tarabini. Al sax alto Nicolas Cerri, Michele Ciaponi, Lorenzo Duca, Valentina Perlini. Al corno Loris Gusmeroli e Simone Spini. Alla tromba Mirco Simonetta, Tommaso Sterlocchi, Luca Togni. Al trombone Stefano Cerri (che è anche presidente della filarmonica) e Gabriele Luciani. Al’euphonium Emanuele Petrelli. Alle percussioni Raffaello Barri, Alessandro Bertolini, Damiano Bertolini, Emanuela Gusmeroli e Denni Perlini. Sono stati presentati anche gli allievi della scuola di musica che frequentano i corsi propedeutici all’ingresso nella banda e allo studio degli strumenti: Alex Cerri, Leonardo Perlini, Alice e Martina Papoli, Mattia Scalina, Pierangelo Bertoletti, Samuele Caligari, Giacomo Ciaponi, Fabian Duca, Alessio Lanza, Giulia Mazzoni e Marta Perlini.
Dopo il bis è venuto il momento della filarmonica che ha aperto il suo concerto con l’INNO DEI LAVORATORI di Filippo Turati, il brano con cui ogni anno la filarmonica apre questo concerto. Quest’anno, come l’anno passato, questo brano vuole essere di sostegno ai lavoratori la cui situazione si mantiene difficile e precaria. La presentazione del brano è stata l’occasione per fare una piccola dedica a Celso Bedognè che è stato membro della banda per sessantacinque anni e che stasera era presente tra il pubblico che gli ha dedicato un’ovazione.
Il secondo brano eseguito si intitola CONDACUM di Jan Van de Roost, un compositore belga. Il brano fu composto nel 1996 in occasione del venticinquesimo anniversario della Arts Concil nel quartiere belga Contic. La storia della piccola comunità belga viene raffigurata in musica cercando di ricreare, in apertura, l’avanzata dell’esercito romano. Lo sviluppo del tema iniziale crea una sempre maggiore vitalità sino alla solenne conclusione.
A seguire CHILDREN’S MARCH di Percy Aldrige Grainger. Questa deliziosa opera si caratterizza per la spensieratezza con cui viene esposto il tema iniziale sempre presente fino al termine del brano con variazioni e cambi di colore continui. Ricco di ritmi anche stravaganti è un classico esempio di composizione originale per banda che può esprimere spunti e motivi di approfondimento per la crescita musicale di un gruppo. Ispirandosi alle più classiche melodie per bambini il compositore vuole ricalcare la spensieratezza e l’allegria di un girotondo tra amici.
È venuto poi il momento di DANZA UNGHERESE N. 4 di Johannes Brahms. Le danze ungheresi per pianoforte a quattro mani sono state scritte da Brahms agli inizi della sua carriera musicale nel 1852. Nella partitura originale le danze venivano qualificate come ungheresi perché a quel tempo il folclore magiaro era del tutto sconosciuto e soprattutto confuso con la musica zigana che quel popolo nomade aveva diffuso. Le danze ungheresi sono impregnate del ritmo e delle melodie zigane affrancate dal virtuosismo che veniva inserito dagli esecutori. La danza ungherese n. 4 si ispira alla melodia KALAXAI NEMLEC.
Il quarto brano di questa sera è OLIMPICA di Giovanni Orsomando, un compositore vissuto tra il 1895 e il 1988, uno dei maggiori direttori di banda musicale e uno tra i massimi autori italiani di brani originariamente scritti per questo organico. Ufficiale dell’esercito, è stato clarinetto solista nella banda di fanteria. Trascorse gran parte della vita a Caserta dirigendo bande musicali, insegnando e componendo. Fu direttore della banda della provincia di Roma e nella parte finale della sua vita si trasferì a vivere nella capitale. Tra le sue composizioni oltre 120 opere. Una delle più conosciute, tipica dei repertori delle bande del sud è proprio questo brano, OLIMPICA.
A seguire GOLDEN EAGLE MARCH di Alfred Reed, un compositore americano. Si tratta di una marcia dalla forma classica composta nel 1991 in occasione del quarantaseiesimo meeting nazionale giapponese di bioetica. Il tema del brano deriva infatti da una canzone tradizionale del folclore nipponico e vuole essere un inno gioioso per l’apertura dei giochi in cui si trovano a cimentarsi concorrenti di ogni età.
Prima dell’esecuzione dell’ultimo brano ha preso la parola il sindaco Italo Riva che dopo aver ringraziato l’assessore alla cultura di Morbegno Cristina Ferrè tra il pubblico del concerto, poi la filarmonica sottolineando come essa si sia sempre prestata ad onorare la festa del primo maggio, una festa cui l’amministrazione comunale tiene particolarmente come tributo a tutti coloro che con il loro lavoro migliorano le nostre vite però anche a ricordo di quanti ora vivono delle difficoltà lavorative perché hanno perso il lavoro o perché, come accade ai più giovani soprattutto faticano a trovarlo e infine di tutti coloro che a volte perdono la vita a causa del lavoro, un evento che vuol essere di speranza e di conforto per tutte queste realtà in attesa che la situazione possa migliorare (il che era stato detto anche un anno fa si spera che l’anno prossimo da questo punto di vista “la musica cambi” ndr). A questo punto la parola è passata a Simona Duca, assessore alla cultura del comune di Talamona che ha sottolineato l’importanza della filarmonica come parte dell’identità culturale talamonese e ha condiviso le sue impressioni personali incentrate soprattutto sull’eleganza dei gesti degli strumentisti.
A questo punto, dopo vari ringraziamenti, è venuto il momento del brano conclusivo della serata intitolato GRAN VARIETA’ di Marco Marzi, musicista milanese. Un brano espressamente dedicato alla tradizione televisiva degli anni Ottanta, anni in cui il varietà nasceva come evento principale dei palinsesti tv. Un brano di cui è stato chiesto il bis.
Dopo aver così ben nutrito lo spirito con questi brani magistralmente eseguiti e presentati a fine serata è venuto il momento di nutrire anche il corpo con un rinfresco offerto dalle officine meccaniche Barni. Essendo infatti Talamona il principale paese dell’area industriale insieme con Morbegno è tradizione che il rinfresco venga offerto ogni anno da qualcuno che ha un’attività in quell’area. Il risultato è stato una serata arricchente sotto tutti i punti di vista.

Antonella Alemanni

 

 

                                          TALAMONA 3 maggio 2014 un insolito spettacolo al piccolo teatro dell’oratorio

                                                                                                      ZIMMER FRY SHOW

UNA SERATA IN ALLEGRIA FATTA DI MUSICA E INTRATTENIMENTO

Questa sera  alle ore 21 al piccolo teatro dell’oratorio si è voluto proporre uno spettacolo insolito che vira dal teatro puro verso uno stile di intrattenimento più simile ai vecchi varietà con tanto di presentatore dallo stile esilarante come i mattatori televisivi di una volta. Uno spettacolo che mira a divertire il pubblico coinvolgendolo direttamente abbattendo quella che Pirandello chiamava la quarta parete del teatro vale a dire quella barriera invisibile che separa gli attori dalla platea. Uno spettacolo proposto dagli Zimmer Fry un gruppo canoro diretto dalla talamonese Valentina Mazzoleni, il primo gruppo pop rock a cappella animato al Mondo che si è esibito questa sera per la prima volta in assoluto a due anni di distanza dalla sua costituzione. Un percorso lungo e tortuoso fatto di impegno, passione e sacrificio che questa sera ha trovato il suo coronamento grazie alla sentita partecipazione del pubblico. Gli Zimmer Fry cantando senza strumenti o basi musicali (a cappella appunto) dandosi il ritmo e le sonorità con un uso animato della voce hanno proposto un variegato repertorio musicale (dalla dance anni Sessanta alle sigle dei cartoni animati passando per Michael Jackson e i Queen) aiutati in alcuni frangenti da alcuni componenti del pubblico (che sono stati scelti personalmente dal presentatore per accompagnare il gruppo la prima volta con strumenti e la seconda con precisi e codificati versi) quando non dal pubblico intero che doveva, in chiusura, prima battere le mani e poi pronunciare alcune parole onomatopeiche per dare il ritmo. Uno spettacolo in due tempi durato circa due ore che ha divertito grandi e piccini e che ha visibilmente riempito di gioia gli stessi Zimmer Fry (i cui membri sono anch’essi di età variabile dai giovani adulti ai signori di mezza età più o meno equamente ripartiti tra uomini e donne) i quali inseguendo con tenacia il loro sogno hanno ottenuto questa sera di regalare al pubblico presente una serata fuori dagli schemi.

Antonella Alemanni

 

I NOSTRI MAGGENGHI

Un bene paesaggistico da preservare

                                                                                                                                                                                                                        Guido Combi (GISM)

 

I nostri maggenghi talamonesi, che, sul versante settentrionale delle Alpi Orobie, si estendono numerosi, già in mezzo alle prime selve, appena sopra le contrade abitate del paese, come Sassella e Civo, e giungono fino ai 1500 metri di Madrera, stanno ad indicare l’operosità dei nostri antenati per strappare il terreno al bosco per farne prato da fieno. Dimostrano la cura con cui tenevano il territorio e i luoghi montani da cui sono scesi a formare nuovi nuclei abitati in zone meno impervie e più coltivabili, a partire da quelle più vicine alle selve, sul conoide del Torrente Roncaiola.
Questo, che il corso d’acqua principale del comune, raccoglie, sopra San Gregorio, la maggior parte della acque delle valli del bacino delimitato a Sud, alle spalle di Talamona, dalle creste che vanno dalla Cima del Pizzo Piscino (Piz Uolt per noi) al Monte Baitridana, toccando il punto più meridionale nel Monte Lago, punta estrema del nostro comune, e separandolo, come una barriera naturale, dalla più meridionale Val Corta di Tartano e dal resto della catena orobica.
In questa grande ventaglio compreso tra i 230 m del Fiume Adda a Nord e le cime più alte a Sud, che toccano i 2353 m del Monte Lago, possiamo individuare una grande varietà di aspetti nel paesaggio che Stefano Tirinzoni, ha ben descritto in un suo studio, pubblicato sul volume “Alpi Orobie Valtellinesi, montagne da conoscere”, al quale abbiamo lavorato assieme. L’architetto Stefano Tirinzoni, prematuramente scomparso, era l’ultimo discendente maschio di una famiglia di origini talamonesi, trasferitasi a Sondrio all’inizio del secolo scorso, ed è stato uno studioso del versante orobico valtellinese a cui era legato anche affettivamente. Era infatti il proprietario degli alpeggi Madrera e Pedroria, che ha lasciato, nel 2011, in eredità, al F.A.I. (Fondo Italiano per l’Ambiente), per una loro idonea valorizzazione. E’ stato anche uno dei promotori del Parco delle Orobie Valtellinesi e l’estensore del Piano del Parco.
Ecco le sue parole: “LE UNITÀ DI PAESAGGIO”

Possiamo classificare i vari orizzonti paesaggistici in cinque diverse unità tipologiche:
1) Il paesaggio sommitale e delle energie di rilievo: interessa l’ambito compreso fra le creste delle Alpi Orobie e le praterie d’altitudine.
E’ un paesaggio aperto, dai grandi orizzonti visivi che si frammenta nel complesso articolarsi delle energie di rilievo, con i circhi glaciali, le emergenze rocciose, le vette, i crinali, i passi, le pareti, e nel diversificarsi dei sottostanti elementi paesistici con i ghiacciai, i nevai, i piccoli laghi, gli ambienti umidi, i corsi d’acqua, la vegetazione rupicola e nivale, le praterie d’altitudine caratterizzate dalla festuca.
2) Il paesaggio dei boschi subalpini e degli alpeggi: interessa un complesso di ambiti compresi fra le praterie d’altitudine ed il bosco delle conifere. E’ un paesaggio di versante caratterizzato dall’alternarsi di ampie superfici a pascolo con episodi di peccete subalpine e lariceti radi. La varietà paesistica é arricchita da cespuglieti a rododendro, da ambienti umidi e palustri, da torbiere, da vallette e corsi d’acqua e da segni della attività di carico degli alpeggi, con gli episodi puntuali degli edifici rurali isolati o a piccoli nuclei e con forme di paesaggio a rete costituite dai recinti dei “müràchi” (dei “bàrek” in particolare) e dai sentieri.

3) Il paesaggio delle conifere e dei maggenghi:interessa la parte più elevata dei fondivalle aperti, caratterizzati dalle superfici delle praterie falciate che spiccano nel rivestimento dei versanti a peccete montane.

Elemento determinante di questo paesaggio sono i prati da fieno ed i maggenghi che interrompono la continuità del bosco a prevalente copertura di conifere. Rilevanza paesistica assumono le costruzioni rurali, a supporto delle attività di carico e cultura dei maggenghi, sia in episodi isolati che in nuclei, i segni del paesaggio a rete quali le recinzioni a “müràchi” ed i sentieri, le vallette con i corsi d’acqua ed alcuni frammenti di ambienti umidi.

4) Il paesaggio delle latifoglie e dei maggenghi: interessa la parte inferiore dei fondivalle aperti caratterizzati dai prati di versante che emergono nel rivestimento dei versanti a latifoglie. Elemento caratterizzante di questo paesaggio sono i prati da fieno ed i maggenghi che interrompono la continuità del bosco a prevalente copertura di latifoglie. Faggete e castagneti si alternano a boschi misti di aceri, frassini e tigli e compongono un quadro vegetazionale-paesistico di grande varietà. Rilevanza paesistica assumono le costruzioni rurali a supporto delle attività agro-pastorali con agglomerati e nuclei anche consistenti, arricchiti da edifici religiosi di interesse monumentale. Recinzioni, delimitazioni dei fondi, sentieri, vallette e corsi d’acqua compongono la struttura a rete.

5) Il paesaggio di transizione al piano alluvionale con insediamenti: interessa la fascia di versante dal limite dei maggenghi fino al fondovalle alluvionale e si caratterizza per il persistere dei boschi di latifoglie con i caratteristici castagneti, anche terrazzati, e con i prati di versante: è il contesto maggiormente insediato dove sorgono i nuclei abitati permanenti di più rilevante consistenza. Si caratterizza per la presenza degli ambienti di forra che sono posti principalmente allo sbocco dei torrenti sulle conoidi di deiezione.”

 

Entro questo quadro e in questa varietà di ambienti montani sono incastonati i nostri maggenghi, dove stanno le nostre radici. I Talamùn scendono da lì. Basta scorrere gli Statuti della Magnifica Comunità di Talamona, del 1525 e la cronaca della visita pastorale del vescovo Feliciano Ninguarda del 1589, dove si parla delle vicinìe o vicinanze. Il paese si era sviluppato, o stava sviluppandosi, dove si trova ora, con altre contrade o colondelli, ed è facile intuire come, in origine, gli abitati fossero tutti sulla montagna, soprattutto quando l’uomo non era ancora intervenuto a modificare il paesaggio di fondo valle invaso dal Fiume Adda e dai torrenti che scendevano dal versante orobico e a proteggerlo dalle loro inondazioni improvvise e devastanti, che si susseguivano con frequenza.

Come abbiamo già avuto modo di vedere i maggenghi come Premiana di Sotto e di Sopra, San Giorgio, Faedo Sopra e Sotto,  per citarne solo alcuni, sono le contrade storiche da cui, pian piano, nei secoli, i nostri antenati sono scesi  verso il basso, dove hanno trovato maggiori possibilità di coltivazioni e di allevamenti.  Stiamo parlando, e non solo per Talamona, di una società prettamente contadina basata sulla coltivazione della terra e sulla pastorizia. Non che con questa discesa  al piano siano stati abbandonati maggenghi e alpeggi. Tutt’altro. Essi sono diventati i luoghi di permanenza  primaverile ed estiva per le  famiglie con le bestie e, aggiunti ai terreni  del fondovalle, hanno rappresentato la possibilità di allevare un numero maggiore di bestie, soprattutto mucche.  I maggenghi erano il momento di passaggio primaverile  con le bestie, prima della salita agli alpeggi, dai quali poi, a fine Agosto o ai primi di settembre, si tornava per l’ultimo pascolo, prima di ridiscendere al piano. In alcuni testi il maggengo è chiamato anche premestino, nel senso di prima dell’estate, ma di questo parleremo più diffusamente in un prossimo articolo.

Un duro lavoro

Abbiamo accennato al fatto che i prati verdi, che circondano le baite e le case, sui maggenghi, sono stati strappati alla selva con un lavoro costante e faticoso.

A dimostrarlo abbiamo dei toponimi che lo testimoniano. Sotto il Monte Baitridana abbiamo il maggengo “Pràtaiado”, in altri posti, abbiamo el Taiàdi o la Taiàdo, come in Premiana e altrove. Questi toponimi, che si riferiscono a prati o a maggenghi, dati a luoghi ben precisi, stanno a dimostrare come i prati per la coltivazione dell’erba, siano il frutto di grandi operazioni di taglio del bosco  e conseguente utilizzo del legname, sia da costruzione che da fuoco. Seguiva poi  il lavoro di estirpazione dei ceppi, di spietramento (i sassi venivano usati per la costruzione di muretti di sostegno o anche per le baite), di pulizia da radici e arbusti vari, quindi di livellamento del terreno, per quanto ripido, e di semina (cul bgécc) e coltivazione del prato, da cui ricavare una ulteriore quantità di fieno, con la possibilità di aumentare il numero delle mucche per un miglior sostentamento della famiglia.

Bisogna pensare che gli arnesi per questi lavori erano molto semplici e il lavoro manuale degli uomini e delle donne, e per quanto possibile, anche dei ragazzi che partecipavano sempre, era preponderante, molto faticoso e con tempi molto lunghi. Per capire le fatiche che costavano queste opere per un migliore utilizzo del terreno, dobbiamo trasportarci con la mente a quando non esistevano mezzi meccanici come motoseghe, scavatori, mezzi di trasporto del materiale ecc. Tutto veniva fatto a mano. La pazienza e la costanza e la forza fisica non mancavano ai nostri avi.

E avevano, a volte, nonostante tutto, anche uno spiccato senso dell’ironia e dell’umorismo, se, ad esempio, in Premiana, un prato, ricavato dal bosco  e dalla pendenza impossibile, è stato chiamato la Pianezzo o el Pianezzi. Si poteva falciare solo usando i sciapéi feràa, e il fieno, perchè si potesse portar via, doveva essere fatto rotolare in basso dove c’era il sentiero sostenuto da un muretto. Solo lì si potevano caricare i cämpàcc  e fare  i mäzz dal fée.

I toponimi

Anche i toponimi dei nostri maggenghi sono interessanti, nel loro significato. Vediamone alcuni. Quagél deriva da quagià, cioè cagliare il latte. Scalübi: mi pare evidente che possa riferirsi alle scalinate scavate nella roccia che bisogna percorrere per raggiungerlo da Cà di Risc, unica via d’accesso dal basso. Canalècc: che si trova tra i canaletti che confluiscono nel Torrente Malasca. La Foppa e le Foppe: si riferiscono alla loro posizione in una conca ben riparata come una tana (in altri posti troviamo la Fopo del’urs o dul luf) e di solito anche ricca d’acqua sorgiva, che favoriva la vita delle persone e degli animali e l’irrigazione di prati e di piccole coltivazioni orticole. Bunänocc, potrebbe avere pure un significato ironico, vista la posizione della baita e i prati estremamente ripidi che la circondano: “se tu lisèt: buno nocc”. Runc si riferisce chiaramente all’operazione del “roncare”, cioè scavare il terreno in profondità per mettere le pietre sul fondo e coprirle con un abbondante (per quanto possibile) strato di terra. Per Pradalacquo il riferimento al prato ricco d’acqua mi pare chiaro vista anche la posizione, nel punto dove la Val de Faìi, in Taìdo,  si unisce alla Roncaiola, aumentando la portata del torrente principale anche con possibilità di esondamenti. Inoltre al confine Est  del maggengo, si trova la Möio, zona notoriamente umida, dove passa il sentiero scorciatoia da Sän Rigori per SänGiorsc. Ul Fuu del’ustario: deriva dalla presenza di alcuni grossi faggi, che ho sempre visto, e dal fatto probabile che qualche proprietario della baita avesse avuto l’idea di vendere qualche bicchiere di vino per togliere la sete a coloro che salivano in Pigòlsa, a Madréra o a Pedròria.  Faìi (Faedo) deriva dal latino fagus “faggio”, quindi zona di faggete. Toponimo molto diffuso (Faedo Valtellino, Faedo nel Trentino, Faido nel Canton Ticino…) è documentato anche nelle forme de Faedo, Faedum, Faiedum e Faye.

Per la Baitélo o la Baito dul Crüin, la Baito dul Tumun, Ca la Vulp, Ca di Risc, Ca dul Märtul (da martora?), Cà ruti, Ursàt (la leggenda degli orsacchiotti), Faìi d’Ars,  Sän Giorsc e Sän Rigori,  dai nomi dei santi cui sono dedicate le rispettive chiese, le origini dei toponimi sono abbastanza evidenti, come per  ul Baitun Bgiänc.

Pigolso  è  un nome  che richiama l’altalena in dialetto talamonese; non saprei però se riferito al fatto che esistesse qualche altalena appesa i rami di qualche pèsc o ad altro fatto o fenomeno.

Premiana o meglio Prümgnäno, pare derivi (vedi Giampaolo Angelini in Itinerari talamonesi) dalla sua  “preminenza”  rispetto agli altri maggenghi-vicinìe, dovuta anche alla residenza,  storicamente provata, della famiglia del Massizi o Masizio, predominante per censo e potere, anche a San Giorgio, chiamato appunto San Giorgio di Premiana. Ca Lisèp significa casa del Giuseppe, Isèp nel vecchio dialetto.

Chignöol èpiantato  proprio come un  cuneo (chignöol in dialetto) tra la valle di Valéna e la montagna di Madrera, su un piccolo conoide di terreno alluvionale.

Per el Crusèti posso  fare un paio di ipotesi: la prima è basata sul fatto che si trova  proprio all’incrocio delle valli di Valéna e di Zapéi; la seconda, forse un po’ azzardata, è che nei pressi fosse posto il cimitero di San Giorgio, del quale non ho mai sentito parlare nè letto, ma che pur doveva esserci da qualche parte. Visti i ripidi pendii della zona attorno alla vicinìa, questo potrebbe essere il luogo più idoneo; poi forse con le sue croci (crocette appunto), che segnavano le tombe, è stato portato via da qualche alluvione non infrequente. Non so, però, fino a che punto possano reggere queste mie supposizioni.  Sasélo deriva da sasso, rupe. Péciarùs  da  pettirosso.

Per Mädrèro, (forse da madre?), Pédrorio (monte del Pietro, Pedru in dialetto?), Lünigo, Urtesìdo, Rusèro e per gli altri non azzardo ipotesi. Qualcuno potrebbe avere notizie più complete.

I cambiamenti nel tempo

Tutti questi maggenghi, che fino agli anni 1970/80 venivano abbastanza regolarmente abitati d’estate, con una presenza piuttosto  numerosa, soprattutto per quelli più grossi con parecchie case e baite, erano anche tenuti in ordine  soprattutto nei ripidi prati che venivano regolarmente falciati con notevole fatica, in quanto c’era ancora una certa quantità di bestiame, soprattutto di mucche, con qualche capra e qualche pecora.

Allora, osservando la montagna dal basso, si potevano vedere chiaramente i prati di color verde chiaro  che spiccavano in mezzo al verde scuro delle selve e delle peghère,  come gemme incastonate a creare un paesaggio quasi da favola con al centro del bacino il campanile trecentesco di S. Giorgio a fare da punto centrale di riferimento.

Da quegli anni in poi sono state riattate molte baite e case, ne sono state costruite nuove, mentre molte altre sono state abbandonate, forse perchè costava troppo ristrutturarle, e ora cadono in rovina, come a Premiana Sopra e non solo lì.

Soprattutto sono sparite, o vanno sparendo, “le gemme” verde chiaro, color smeraldo a contornare gli abitati costituiti a volte di più costruzioni, baite con stalle e fienili, a volte di poche casette o anche di una sola abitazione. Il perchè di questo degrado è dovuto al fatto che i prati non vengono più falciati con cura e il loro verde ha lasciato il posto al marrone e al giallo dell’erba seccata in piedi. Cosa ne fanno del fieno coloro che frequentano le varie località, a volte solo con andata e ritorno in basso in giornata, se non ci sono più le mucche che lo mangiano? E allora, come conseguenza, il bosco che circonda i prati avanza, anno dopo anno, sostituendosi ai coltivi e togliendo la vista dal basso sui vari nuclei sparsi sulla montagna. E’ cambiato il paesaggio per un mancato intervento dell’uomo  o per  interventi fatti a caso,  come certi recinti per pecore e capre che hanno sostituito i falciatori di un tempo e hanno eliminato le stagioni della fienagione con i tagli del mägenc (primo taglio del fieno), de l’adigöor (secondo taglio),  dul terzöol (nei prati posti in basso) e dul pàscul con le mucche appena arrivate da munt in autunno. Non c’è più, di conseguenza, nemmeno la fatica del trasporto a spalla del fieno fino al fienile con i cämpàcc e cul fraschéri, su o giù per i ripidi pendii.

Ovviamente è stata eliminata anche la fatica da‘ngrasà i praa. Fatica ingrata, col trasporto a spalla,  cul gerlu  su quei pendii, veramente in pée, tanto da dover portare i sciapéi feràa e magari la gianèto  cui appoggiarsi, per poter riuscire a salire col carico, senza correre il rischio di scivoloni che avrebbero potuto rivelarsi molto pericolosi. Poi c’era da distribuire la graso in modo uniforme su tutta la superficie del prato, se si voleva avere il fieno l’anno successivo. Oggi tutto questo, come si è visto, non avviene più. Sono fatiche di tempi passati quando anche il prato del maggengo costituiva una ricchezza per la famiglia, come il bosco, per il quale si può fare un discorso simile.

“O tempora o mores” dicevano i latini. Cambiano i tempi, la società si evolve e cambiano i costumi, i modi di vita.

Per raggiungere i maggenghi sono state costruite le strade consorziali, certo per la comodità di tutti, ma con quali criteri? I vecchi sentieri e le mulattiere costruite con tanta fatica dai nostri predecessori e, va detto, con molta oculatezza sul modo e sulla scelta dei percorsi, in sintonia con l’andamento delle pieghe della montagna, spesso sono state distrutte con la ruspa senza rispettare gli antichi percorsi che ora non si trovano più. Ora l’escursionista appassionato di andare a cercare i luoghi caratteristici, le maestose peghère con i loro magnifici esemplari di pèsc e di avèz, i fregèer, le tipiche bedülère, i gisöi, i tanti affreschi di Madonne e di Santi sui muri delle case, le condotte per il legname dette uue e reviùn, i ruscelli che convergono nelle valli minori con le loro bellissime cascatelle, con la possibilità di vedere nidi, vari esemplari di uccelli, scoiattoli (el gusi) e tutta una serie di altri abitatori delle selve e delle abetaie, deve andare a cercare i sentieri che non ci sono più perchè invasi dal bosco, in stato di abbandono, in quanto non più frequentati.

Quei percorsi che collegavano i maggenghi sono ora sostituiti dalla strada che si percorre, velocemente chiusi in auto. Anche la frequentazione dei maggenghi è cambiata. E’ venuta a mancare la vita, che soprattutto d’estate vi si svolgeva, le seconde case spesso sono frequentate solo di giorno, come abbiamo detto sopra, vista la facilità di raggiungerle e il breve tempo necessario. E gli incontri di amici e conoscenti che  si facevano sui sentieri in salita e in discesa? Pure quelli sono finiti. Come le soste per salutare parenti e amici passando per i vari maggenghi.

E’ cambiato il modo di frequentare la nostra montagna, e di conseguenza  è cambiata anche la montagna stessa : il paesaggio non è più  lo stesso.

E quanti sono coloro che si prendono la briga di visitare i numerosi maggenghi alla ricerca di antiche abitazioni, di segni della nostra storia e del lavoro dei nostri avi, della loro religiosità, della loro vita?

E quanti giovani conoscono il numero e i nomi e la posizione esatta dei maggenghi?

Un modo per portare all’attenzione questa nostra realtà forse ci sarebbe, per quanto di non facile realizzazione. Attraverso il recupero dei principali antichi sentieri e una  apposita segnaletica, forse sarebbe possibile  invogliare gli appassionati a effettuare visite di carattere etnografico di studio e di conoscenza uniti alla bella passeggiata nel verde e nel silenzio delle selve, alla riscoperta di un territorio ancora  vivibile. Non credo sia una cosa impossibile da fare.

A conclusione, propongo qui, ora, un elenco dei maggenghi talamonesi, con l’avvertenza che potrebbe mancarne qualcuno.

Galleria immagini Talamona e maggenghi Talamonesi

 

MAGGENGHI  POSTI ENTRO I CONFINI COMUNALI DI TALAMONA

 

Tra   il confine con Morbegno e la Val de Faii 

Ca la ulp (sul piano) – Baito fregio – Mamùnt – Urtesìdo – Ruséro -Peciarùs – Faii d’Ars – Mürado – Ul Praa – Ciif – Sasélo – Cabbetùi- Pra Taiàdo – Faii zut – Faii zuro – Lunigo.

Munt : El Curteséli

 

Tra la Val de Faii e la Val di Zapéi

Praa d’Olzo – Olzo – La Baitélo – Baito dul Cruìn.

 

Tra la Val di Zapéi e la Val Valéno

El Crusèti – Ul Chignöol – Ul Fuu de l’Ustario – Pigolso zuro – Pigolso zut – Ul Baitun Bgiänc- Valéno – Turìcc.                       

Munt:  Mädrèro  e Pedròrio.

 

Sotto San Giorgio

Ursatt- San Rigori – Praa da l’acquo- Sän Giorsc.

 

Tra la Val di Valéno e la Val Mälasco

Prümgnano zut – Prümgnano Zuro (con Cà Lisèp e la Cà de légn) – El Cà ruti – La Fopo –

Ul Runc – Bunanòcc – Grum -El Fopp – La Curt dul Beladro –  La Curt  del’Austin – Ul Curnél-La Bgiänco

 

Tra la Val Mälasca  e la Val  dul Tarten

Scalübi e Dundùn e Canälècc  ‘n de la Val de la Mälasco

Cà di Risc e Cà dul Martul, considerati maggenghi una volta, ora stanno popolandosi con abitazioni fisse.

 

De là dul Tàrten

Ul Quagèl – Sulla costa  dul Dos de la Cruus, poco sopra l’inizio della vecchia mulattiera per Tartano.

La Turascio – sul piano, senza abitazioni fisse.

 

I munt

El Curteséli – Mädrèro – Pèdròrio

 

N.B. -Per saperne di più sui possibili itinerari, vedasi su Internet, in “Paesi di Valtellina e Valchiavenna” di Massimo Dei Cas: http://www.Alpeggi di Talamona.it

 

IL TAJ MAHAL

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Il Taj Mahal, un mausoleo situato ad Agra nell’India settentrionale, è da sempre valutato come una delle più belle opere architettoniche del mondo, per questo considerato, dal 9 dicembre 1983, tra i patrimoni dell’umanità dell’UNESCO e,dal 2007, una delle sette meraviglie del mondo moderno.

Venne fatto costruire nel 1632 dall’imperatore Moghul Shah Jahan in memoria della moglie Arjumand Banu Begu,conosciuta anche con il nome Mumtaz Mahal (in persiano “luce del palazzo”),  morta nel 1631 dando alla luce il quattordicesimo figlio dell’imperatore, il quale lo fece costruire per mantenere una delle quattro promesse che aveva fatto alla moglie quando era ancora in vita.

 

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Imperatore Moghul Shah Jahan e la moglie Arjumand Banu Begu

Inizialmente, fece seppellire la donna nel luogo della sua morte, ma, per problemi di trasporto, decise di spostare i lavori ad Agra, i quali iniziarono nel 1632 e durarono 22 anni, per concludersi nel 1654. Ne presero parte 20.000 persone, tra cui si contarono anche numerosi artigiani provenienti dall’Europa e dall’Asia centrale.

L’architetto a cui fu commissionata la costruzione è tuttora sconosciuto,tuttavia la maggior parte degli studiosi ne attribuisce il merito a Ustad Ahmad Lahauri ma molti parlano anche del turco Unstad Isa.

L’opera venne costruita utilizzando materiali provenienti da ogni parte dell’Asia,come il marmo bianco, il diaspro,la giada, il cristallo,i turchesi, lapislazzuli, gli zaffiri e la corniola. Per il trasporto di queste materie prime vennero impiegati più di 1.000 elefanti. In tutto vennero intersecate nel marmo più di 28 tipi di pietre preziose, per un valore di circa 32 milioni di rupie.

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Per realizzare le impalcature furono utilizzati i mattoni, che, al termine dei lavori, dovevano essere smantellate,questa operazione avrebbe richiesto circa cinque anni. Per risolvere il problema, l’imperatore stabilì che chiunque avrebbe potuto prendere per se i mattoni: la tradizione narra che in una sola notte l’impalcatura venne smontata.

L’edificio copre circa un’area di 580X300 metri ed è composto da cinque elementi principali: il darwaza (portone), il begeecha (giardino), il masjid (moschea), il mihman khana (casa degli ospiti) ed infine il mausoleum, ovvero la tomba di Shah Jahan.

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Subito dopo la fine della costruzione del mausoleo, Shah Jahan fu deposto ed imprigionato dal figlio, la capitale dell’impero venne spostata da Agra a Delhi, facendo diminuire così la sua importanza. A causa di un disinteresse durato diversi secoli, dall’erosione provocata dagli agenti atmosferici e dai ladri di tombe, la struttura era in grave stato di abbandono e un piano per demolirla venne progettato per recuperare i marmi, ed i terreni da utilizzare per la coltivazione. Questo periodo di abbandono terminò nel 1899, quando l’inglese George Nathaniel Curzon venne nominato viceré dell’India e, nel 1908 fece restaurare l’edificio.

Durante il XX secolo il mausoleo venne curato: nel 1942, durante la seconda guerra mondiale, il Governo indiano eresse un’impalcatura attorno alla struttura per difenderla da eventuali danni provocati da attacchi aerei da parte dei tedeschi  e dei giapponesi. Tale precauzione fu presa anche durante la guerra tra India e Pakistan, tra il 1965 e il 1971.

Negli ultimi anni il Taj Mahal ha dovuto affrontare, tuttavia, un nemico molto più subdolo: l’inquinamento. A causa delle polveri sottili, infatti, il marmo bianco di cui è ricoperto si sta ingiallendo. Come soluzione a questo problema, oltre alle normali operazioni di pulitura commissionate dal Governo indiano, dovrebbe essere fatto un intervento di trattamento dei marmi  con dell’argilla dal costo elevatissimo. Per evitare un intervento così dispendioso, le autorità locali hanno messo in atto delle misure di prevenzione: una legge, infatti, vieta di costruire industrie inquinanti nell’area attorno al Taj Mahal.

 

 

Marta Francesca Spini,

studentessa scuola secondaria di primo grado.