IL MONASTERO DI RADARI

 

Saggio di Loredana Fabbri

Alla memoria di Monsignor Mario Bocci, che fu per me un grande maestro, di cui ricorderò sempre le parole che spesso mi diceva:

<< Loredana, ricordati sempre questa frase ”Timeo Danaos et dona ferentes”>>.

 

PREMESSA

Questo lavoro è un tentativo di ricostruire la storia e la vita cenobitica del monastero di Santa Maria e San Benedetto di Morrona, non trascurando gli aspetti economici ed i rapporti con i laici che di questa abbazia sono condizionamento e risultato. Ho cominciato prendendo gli inizi dal lavoro di Rosanna Pescaglini Monti sulla famiglia dei Cadolingi, che hanno avuto una determinante importanza nel primo secolo di storia di questo monastero: i rapporti tra questa famiglia ed il cenobio si colgono chiaramente tramite diversi documenti. Molto è stato l’interesse della Santa Sede Apostolica, dell’arcivescovato pisano e del vescovato di Volterra verso questo monastero, al punto di essere causa e oggetto di molte divergenze tra gli arcivescovi e i vescovi pro tempore. Attraverso una quantità notevole di documenti reperiti nel corso di vari anni in diversi archivi della Toscana, è possibile ricostruire, pur con delle grosse lacune, la storia di questo monastero dal secolo XI alla fine del secolo XV, quando il vescovo di Volterra Francesco Soderini, manu armata, caccia i monaci e si impadronisce dell’abbazia, assegnandone i beni rimasti e l’edificio alla Mensa Vescovile di Volterra. In seguito e per molti secoli divenne la residenza estiva dei prelati volterrani, fino a quando, nel 1868, per leggi eversive all’asse ecclesiastico furono estromessi e il monastero venne venduto a privati. Le ricerche per il presente lavoro ebbero inizio molti anni fa e si protrassero per alcuni anni, in seguito, a causa di gravi problemi personali, il lavoro non poté proseguire e fu lasciato per anni incompiuto: ne è testimonianza l’opera “Odeporico delle Colline Toscane” di Giovanni Mariti, trascritta presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze, in quanto non ancora edita e che è stata presa come linea conduttrice del presente lavoro, anche se non sempre viene citata, come anche altri riferimenti che oggi potrebbero sembrare “obsoleti”, ma che in realtà sono validissimi, si veda, ad esempio, le pergamene dell’Archivio Vescovile di Volterra, che ho avuto la possibilità di consultare e trascriverne i punti salienti insieme a Monsignor Mario Bocci, allora archivista del detto archivio, anzi sono molti i suggerimenti ed i consigli che il Monsignore mi dette a quei tempi, consigliandomi di essere il più fedele possibile agli originali, compresi gli errori. Altra testimonianza importante è la Visita Apostolica del vescovo di Rimini Giovan Battista Castelli,”territorio” allora assolutamente impossibile da consultare, da me trascritta sempre sotto la guida di Monsignor Bocci, alla cui memoria è dedicato il presente lavoro. Per quanto riguarda le date dei documenti mi sono attenuta a quelle trovate negli stessi, senza considerare lo stile pisano o quello fiorentino, come anche per le misure e le monete: ho semplicemente riportato ciò che ho trovato scritto nelle varie fonti.

 

Ho voluto evidenziare come agli inizi del secolo XI il monachesimo toscano fosse diviso in monasteri isolati, imperniati nelle loro diocesi ed accumunati dal loro richiamarsi alla regola di san Benedetto. Questo quadro cambia in modo quasi radicale  circa un secolo più tardi, i monasteri vengono a far parte di due grandi congregazioni monastiche: la Camaldolese e la Vallombrosana, la cui storia, spesso, si intreccia con quella di grandi famiglie come i Cadolingi, i Gherardeschi, gli Aldobrandeschi, i Pannocchieschi ed altre che emergono per la loro ricchezza e potere. Certamente nel secolo X  ed anche fino alla metà circa di quello successivo, le fondazioni e le donazioni in favore dei monasteri non rappresentano ancora una cognizione di attività riformistica e di rinnovamento religioso, ma nascono chiaramente  dal concetto di espiazione per la salvezza dell’anima, fondare un monastero o fare una cospicua donazione ad esso rappresentava il mezzo per restare ancorati alla vita cristiana e allo stesso tempo era fonte di interessi politici e patrimoniali. In questo caso, il monastero di Morrona era già esistente, ma con la grossa donazione dei conti Cadolingi comincia la sua ascesa. In genere sono monasteri che conservano ancora la peculiarità di quelli privati, in cui la casata spesso si arroga il diritto di intervento e conferma nell’elezione dell’abate, di rappresentare il monastero nelle controversie giuridiche, certe volte anche nell’osservanza della regola e nella disciplina. Sono disposizioni che solo apparentemente sembrano rigoristiche, ma che in realtà sono dettate da interessi di carattere familiare, politico ed economico. Le bolle pontificie e i diplomi imperiali si orientano sempre di più a favore di una indipendenza giurisdizionale dei cenobi e ciò fa capire come i signori laici fossero interessati a queste fondazioni, che rappresentavano un ostacolo all’espandersi dei poteri vescovili nel contado. E’ in questo contesto che vediamo la fioritura di molte fondazioni e donazioni monastiche, non tanto come fuga dal mondo, ma principalmente come reazione alla situazione sociale ed anche come prospettiva di riscatto di se stessi, delegando a questi uomini ”più vicini” a Dio il compito di ottenere una vita migliore su questa terra e un posto nell’aldilà, quindi si affida alle preghiere dei monaci l’espiazione delle proprie colpe.

Anche se, come già detto, i documenti reperiti sono molti, andando avanti col tempo essi si fanno più rari, creando delle lacune non idifferenti, fino ad arrivare al XV secolo, dove la documentazione è veramente sporadica e non mi è stato possibile ricostruire una storia esaustiva dell’abbazia fino alla sua presa da parte del vescovo di Volterra, fatto documentato in modo particolareggiato.

Per la storia del monastero di Morrona si veda anche il lavoro di M. L. Ceccarelli Lemut, Tra Volterra e Pisa: Il monastero di S. Maria Di Morrona nel Medioevo ( secoli XI-XIII), Pacini, Pisa 2008.

Capitolo I Origini del monastero

L’abbazia di Santa Maria e San Benedetto di Morrona risiede nelle Colline Pisane su un poggio di tufo, diramazione di quello in cui è situato il centro di Morrona, che rimane più a sud rispetto alla badia.[1]

La storiografia tradizionale tramanda come data di fondazione il 1089, anno in cui Ugo o Uguccione, figlio del conte Bulgaro della famiglia dei Cadolingi, con la moglie Cilia fecero alla badia una cospicua donazione. Ma da questo documento appare chiaro che il cenobio era già esistente: << …per hanc cartula offerimus, tibi Deo, ecclesiam sancte Marie de monasterio et eiusdem ecclesie donamus, cedimus, tradimus omnia que predicte ecclesie modo habere et detenere videntur, cum casiaet terris et vineis, silvis et buscareis, culti set incultis omnibusque eorum pertinentiis… >>.[2] Prova di un’anteriore esistenza di questa badia è un’enfiteusi del 25 luglio 1092, in cui troviamo: <<…Martino reverendissimo abbas de ecclesia et monasterio divine et beate sancte Marie prope loco Morrona, ubi vocitatur monasterio Radari… >>.[3] Questo appellativo è presente anche in altri due documenti relativi all’anno 1098, per cui avanziamo l’ipotesi che la fondazione del cenobio possa risalire all’epoca longobarda, come farebbe supporre il nome “Radari”;[4]inoltre in uno dei suddetti documenti, cioè una donazione di beni posti in Casanova, il monastero viene menzionato con il titolo di Santa Maria e, per la prima volta, anche con quello di San Benedetto: da questo secondo titolo possiamo dedurre che la regola professata dai monaci era quasi sicuramente quella benedettina, come, del resto, lo era nella maggior parte dei monasteri toscani in questo secolo; anzi il dato comune del monachesimo toscano, che durante il secolo XI è ancora frammentato in singoli monasteri, è rappresentato solo dal loro indifferenziato richiamarsi alla regola di San Benedetto.

Diciassette anni dopo, nel 1109, la conduzione del cenobio passò ai monaci Camaldolesi con una donazione fatta da Ugo, figlio dell’omonimo conte al Sacro Eremo di Camaldoli della << …ecclesia et monasterio Domini Sancte Marie virgini, quot est constructum et edificatum, sive construendum vel edificandum in loco et curte mea, que nominatur Morrona, cum omnibus rebus et iuris sibi pertinentibus… >>,[5] l’atto è sottoscritto anche dall’abate camaldolese Gerardo, rettore del monastero. Fin dall’anno 1101 troviamo come abate di questa abbazia un certo Gerardo e se il rettore e l’abate fossero stati la stessa persona, ciò farebbe supporre che i Camaldolesi si fossero stanziati nel monastero ancor prima della donazione del conte Ugo all’Eremo di Camaldoli. [6]

Non è da escludere che al “passaggio” dall’ordine benedettino a quello camaldolese abbia contribuito molto Pietro Moriconi, tradizionalmente discendente dalla nobile famiglia dei Moriconi da Vico, monaco appartenente a quest’ultima regola e dagli inizi del XII secolo arcivescovo di Pisa, per scopi politici ed egemonici su questi territori. Pietro Moriconi morì nel 1119 e fu sepolto nella cattedrale di questa città.[7]

Completamente sconosciute e non documentate con certezza restano, dunque, le origini del monastero; certo la donazione dei Cadolingi al cenobio va inserita nel quadro più ampio della situazione monastica toscana intorno al Mille: la frammentarietà, di cui abbiamo già accennato, faceva sì che i singoli monasteri non avessero rapporti organici tra loro e frequentemente erano sottoposti alla tutela di proprietari laici, che avevano poteri di pieno governo sui monasteri stessi.

Grandi famiglie laiche fondarono e dotarono molti cenobi come segno del prestigio e dell’importanza raggiunta; una fondazione di monasteri e donazioni in loro favore non si inserivano, in questo periodo (inizio sec. XI), nel quadro di una consapevole lotta di riforma e di rinnovamento religioso, ma nascevano forse da altri motivi e tradizioni: da lunga data rappresentavano un classico mezzo di espiazione e di salvezza personale, inoltre sia le fondazioni che le donazioni facevano parte di una serie di interessi di carattere politico-patrimoniale che significavano il consolidarsi degli interessi politici ed economici della famiglia intorno ad un punto di forza rappresentato dal monastero stesso che diveniva, in tal modo, l’emblema di una nuova influenza e di un nuovo potere. Sono monasteri che conservano un carattere spiccatamente privato, dove la famiglia si riserva, generalmente, molti diritti che mirano ad interventi dettati da ragioni di carattere politico ed economico e da interessi puramente familiari: assicurarsi nuove solidarietà, nuovi appoggi e contrastare l’espandersi dei poteri vescovili nel contado. L’attività dei vescovi a favore delle fondazioni monastiche, che è quasi inesistente alla fine del secolo X, diviene più frequente nella prima metà del secolo successivo e rappresenta gli albori delle idee di riforma anche in Toscana. Un secolo dopo, questo aspetto del monachesimo toscano appare profondamente cambiato, tanto che la sua storia viene a riassumersi, per la maggior parte dei monasteri, nella storia delle due grandi congregazioni monastiche vallombrosana e camaldolese.[8]

Attualmente non resta più traccia di questa antica abbazia; quando nel 1788 Giovanni Mariti visitò questi luoghi, erano ancora visibili delle macerie di pietre quadrate e << …dei manifesti indizi di cose sacre… >>.[9]

Il 30 agosto 1152 l’abate Iacopo, col consenso del priore di Camaldoli e dei suoi monaci, vendette a Villano, arcivescovo di Pisa, i possessi di Montevaso e Montanino eccetto Riparossa, << …pro edificando clausura in loco qui dicitur Podium, que prius erat in loco que dicitur Abbadie Vetere… >>.[10]

Ancor oggi il luogo conserva lo stesso toponimo ed è possibile che i monaci avessero voluto trasferire lì il proprio cenobio sia per motivi di posizione, sia perché vi sorgeva la chiesa di Santa Maria, che assunse tanta potenza da far scadere la stessa pieve del castello ad un’importanza puramente formale.

La chiesa di Santa Maria e il chiostro

L’antica chiesa di Santa Maria divenne, dunque, proprietà del monastero nel 1089 con la cospicua donazione del conte Ugo dei Cadolingi al cenobio, ossia lo divenne legalmente, perché dalla frase riportata dal rogito, sembrerebbe che la chiesa appartenesse già “spiritualmente” ai monaci: << …per hanc cartula offerimus tibi Deo ecclesiam Sancte Marie de Monasterio et eiusdem ecclesie donamus, cedimus, tradimus omnia que monachi predicte ecclesie modo habere et detinere videntur… >>.[11]

L’edificio, tutto in pietre quadrate, sembra risalire al secolo VIII o IX, ma nessun indizio certo può testimoniare la data o almeno l’epoca della sua origine, i molti restauri subiti nel corso dei secoli non permettono un’esatta ricostruzione dell’interno di essa. Questa chiesa, purtroppo, non viene mai descritta nelle fonti reperite, ma solo citata, molte volte, come luogo in cui venivano redatti gli atti notarili. Bisogna arrivare al secolo XVI per avere qualche notizia di questo edificio con la visita apostolica del vescovo di Rimini Giovan Battista Castelli (1576), il quale ci informa che la chiesa << …in omnibus bene se habet, quia tectum fuit de novo coopertum et parietes incrustati et dealbati… >>;[12] mentre il pavimento era in pessime condizioni, ma il presule vide preparati i mattoni con i quali si doveva rifare la pavimentazione. L’altare, di pietra, aveva la lapide di marmo rotta in parte e sopra di esso vi era un’immagine molto antica ma ritenuta decente. Il campanile, a forma piramidale, era stato colpito da un fulmine e stava per essere restaurato, però aveva due buone campane. Erano già stati stabiliti e stavano per avere inizio anche altri lavori di ristrutturazione per la casa, residenza estiva del vescovo pro tempore di Volterra.[13]

Circa duecento anni più tardi la descrizione, molto dettagliata, della chiesa fatta da Giovanni Mariti, che corrisponde a quella del Targioni-Tozzetti, ci fa conoscere questo antico edificio quasi allo stato attuale: la facciata della chiesa, volta ad ovest e come tutta la costruzione in pietre quadrate, è divisa in tre spartimenti terminanti verso l’alto in tre archi. A destra della porta d’ingresso vi era un cippo sepolcrale infisso nel terreno, di epoca etrusca, che Mariti definisce di marmo pisano con poche decorazioni, riadattato a pila per l’acqua benedetta, attualmente rimosso.[14]

L’interno della chiesa, a navata unica, la cui crociera resta sopra il presbiterio, ha un’abside circolare che è stata incamerata nell’interno del monastero in epoca non definibile. Sempre all’interno, sulla destra, una pila di pietra porta scolpite le armi del vescovo volterrano Luca Alemanni (1598-1625). L’altare, posto ad est, rimane sopraelevato di sei scalini di mattoni, sopra di esso << …vi sono ventotto piccole quadrette poste a più ordini e di varia configurazione. Alcuni terminano a semicerchio, altri in angolo e alcuni in figura piramidale, che unite insieme formano un sol quadro. Al primo ordine di essi e nel mezzo vi è l’immagine di Maria… >>.[15] Questo è probabilmente il dipinto cui fa menzione anche il vescovo Castelli: attualmente resta solo la parte centrale raffigurante la Madonna con Bambino. Dietro l’altare c’è un coro piuttosto piccolo e a sinistra di esso una porta, oggi murata, che permetteva l’accesso al campanile; dalla parte opposta un’altra porta immetteva nel chiostro ed un’iscrizione su marmo portava la data dell’anno 1724: porta e lapide non sono più esistenti.

Lungo le pareti della chiesa sono dipinti, a figura intera, i dodici apostoli, affreschi che il Mariti ritiene risalenti al Seicento; ma gli ultimi due apostoli presso la porta d’ingresso furono restaurati dal pittore Domenico Tempesti.[16]

Nel lato nord, esterno alla chiesa, c’era una porta laterale murata (forse dal tempo in cui fu costruito il monastero?). Ad est di questa porta c’è il campanile a pianta quadrilatera, sempre in pietre quadrate, forse coevo alla costruzione della chiesa, << …ma dal piano ove sono le campane fino in cima è fatto di mattoni… >>,[17] infatti sappiamo di un restauro posteriore al 1576, anno della visita Castelli.

Le campane sono due: una più grande in cui ancor oggi si può leggere la seguente iscizione: “Mentem sanctam spontaneam honorem Deo et Patriae liberationem”. La più piccola porta la stessa iscrizione e l’anno 1327; nel secondo giro troviamo: “T.P.R. Dopni Bartholomei lucensis venerabilis abbatis monasterio Sancte Marie de Morrona Gherardus et Thadeus me fecerit”.[18]

La chiesa misura “44 braccia” dalla porta d’ingresso al catino del coro, nel corpo “13 braccia circa” e nella crociera “22 braccia e mezzo”.[19]

Il chiostro, piuttosto piccolo, è in pietre e mattoni, il cui ingresso principale è a sud, risalente al 1316, fu fatto costruire dall’abate pro tempore Silvestro, ai tempi della visita del Mariti c’erano ancora varie iscrizioni su marmo, una della quali in caratteri gotici, oggi non più esistenti; la parte del monastero sopra il loggiato era, come già detto, adibita a villa del vescovo di Volterra. Il Mariti lo definisce: << …di miserabile costruzione di pietre e mattoni e le pietre sono mal lavorate e peggio connesse, per cui non vi è niente di corrispondente all’opulenza monastica e non ha che far niente coll’edifizio della chiesa, il quale è assai più antico… >>.[20]

Nelle Colline Pisane si conoscono tre diverse grandezze di chiese, in base alle quali, con molte riserve, possiamo stabilire all’incirca il secolo in cui sono state edificate: le più antiche sono quelle piccole lunghe circa diciotto metri e larghe nove (lunghe circa dodici passi e larghe sei), che in origine furono oratori privati fatti erigere da feudatari per comodità delle loro famiglie. Questi oratori si cominciano ad edificare fin dal secolo IV, in seguito, a causa dell’incuria e del tempo furono ridotti in condizioni tali che Pipino re d’Italia, nel secolo IX, ordina che siano subito restaurati. Le chiese che possiamo definire di media grandezza misuravano circa 40 metri di lunghezza e venti di larghezza (lunghe venti o trenta passi circa e larghe dai dieci ai quindici passi), furono costruite tra il IX e il XII secolo circa, quando crebbe lo spirito della Chiesa e il numero dei fedeli, facendo sentire l’esigenza di spazi più ampi per accogliere la numerosa popolazione che accorreva dalla campagna circonvicina. A queste cappelle fu assegnato un prete e ad alcune di esse, in seguito, fu dato il titolo di pievi, prepositure e arcipreture. Le chiese più grandi potevano misurare dai sessanta ai novanta metri circa di lunghezza e dai trenta ai quarantacinque, metri di larghezza(quaranta, sessanta passi di lunghezza e venti, trenta di larghezza) erano le antiche chiese battesimali, cioè le pievi. I piccoli oratori e le cappelle di media grandezza restarono sottoposte a queste pievi, ma col passare del tempo e con l’edificazione di nuove chiese, gli oratori privati, che pure erano serviti al popolo, furono ridotti di nuovo a cappelle private o a semplici benefici.

La pieve di Morrona

Circa l’ubicazione della pieve di Morrona i pareri degli storici sono discordi: Targioni-Tozzetti sostiene che era situata dove era la casa del pievano, senza darne l’esatta posizione; Giovanni Mariti ipotizza che fosse la chiesa di Santa Maria del monastero; Repetti la colloca dentro il castello e poi, contraddicendosi, nell’estremità del paese.[22]

L’antica pieve di Morrona intitolata a Santa Maria e San Giovanni e più tardi anche a Santa Lucia, sorgeva distante dal castello circa tre chilometri in luogo detto GINESTRELLA, toponimo attualmente scomparso.[23]

L’esatta ubicazione della pieve si può evincere da una locazione del 1327 che l’abate del monastero di Morrona Bartolo fa a Cecco del fu Milio di cinque pezzi di terre costituenti il podere della << …plebis Sancti Iohannis de Morrona, quod est suprascpti monasterii et quod iam tenit plebanus Biancus in locatione a dicto monasterio… >>.[24] Il primo pezzo di terra, descritto nei suoi vocaboli e posto nei confini di Morrona, circonda la pieve ed ha un lato verso Oriente, uno “versus Stibbiolum”;[25] il terzo verso la via pubblica e “versus Vallem Orti”;[26] il quarto “in terra suprascripti monasteri”.[27] Il secondo pezzo di terra “positum ibi prope”,[28] ha un lato “in viis plublicis quibus itur Soianam et ad plebem predictam”.[29] Anche gli altri terreni, tutti confinanti tra loro, sono in Valle Orti, il cui toponimo è attualmente scomparso, ma da due relazioni e perizie di beni appartenenti alla Chiesa di Morrona, fatte fare all’inizio del Novecento dal pievano pro tempore, possiamo rilevare che due pezzi di terre posti in “Valdorto” confinano con il botro di Bucine, toponimo tuttora esistente.[30] Questo botro scorre sul fondo di una valle a destra della via che ancor oggi porta a Stibbiolo e a Soiana: la pieve sorgeva su questo lato della strada, dove attualmente è costruita una villa, nel cui terreno, secondo la tradizione orale, sono stati rinvenuti numerosi resti di ossa umane e una croce di ferro che era stata sepolta.

La prima volta che troviamo menzionata questa pieve è nel 1141 in un privilegio di Innocenzo II, con cui vengono confermati dei beni al cenobio di Santa Maria e San Benedetto, e tra questi figurano sia la pieve che la cappella di Morrona intitolata a San Nicola.[31]

Più tardi, nel 1176, l’arcivescovo di Pisa Ubaldo si fece aggiungere le pievi di Morrona e di Pava, estendendo maggiormente la sua giurisdizione, ma la pronta reazione volterrana fece sì che le due pievi tornassero alle loro diocesi.[32]

Nel 1214 la pieve ed il suo pievano furono causa di una lite (lite che si protrae nel tempo, di cui parleremo più avanti) sorta tra l’abate del monastero e il vescovo di Volterra per l’obbedienza che il pievano doveva al prelato e per il pagamento di un censo annuo di soldi quindici volterrani che l’abate doveva pagare al vescovo ogni anno per la pieve, in quanto detentore dello iuspatronato della pieve stessa; ma da quanto tempo il patronato spettava all’abate di Morrona?[33]

Dopo un periodo, che dalla metà del secolo X va fino alla metà circa del secolo XI, in cui l’autorità vescovile è in crisi e le pievi vengono alienate a laici sotto forma di livello o di beneficio, segue un altro periodo che comprende la metà del secolo XI e i primi decenni del XII, in cui vengono restaurati e recuperati i diritti del vescovo, viene ricostruita la compattezza dell’ambito pievano e riorganizzate le istituzioni canonicali. Il conflitto contro il possesso delle  decime e delle chiese da parte dei laici fa sì che esse vengano cedute spesso ai monasteri ed anche i Camaldolesi, come pure altri ordini monastici, cominciano ad ottenere numerose chiese e con queste la facoltà di cure delle anime. Dopo alcuni divieti, in vari concili e sinodi, ai regolari di arrogarsi l’esercizio dell’ufficio parrocchiale, nel Concilio lateranense del 1123 venne ordinato ai monaci di astenersi nel modo più assoluto dal celebrare messe pubbliche, visitare pubblicamente i malati, dare la penitenza e l’estrema unzione, perché tutto questo non era di loro competenza. I monaci, inoltre, nelle chiese da loro dipendenti, dovevano servirsi di sacerdoti investiti dall’ordinario diocesano.[34]

E’ molto probabile che il monastero abbia avuto lo iuspatronato della pieve in questo periodo, che coincide con il “passaggio” dai Benedettini ai Camaldolesi e con l’ascesa politica ed economica del cenobio.

Gli Abati di Morrona rispettarono sempre il divieto di esercitare il governo spirituale della pieve, facendola officiare al clero secolare, mentre si ingerirono con una certa prepotenza nell’elezione del pievano, arrogando a se stessi questo diritto, in quanto detentori del suddetto patronato.[35].

Nelle decime degli anni 1275-1276 la pieve non compare; da quelle degli anni 1302-1303 rileviamo che non pagava decima, mentre la chiesa dei santi Bartolomeo e Niccolò di Morrona pagava libbre 1.1[36]. Nel 1356 (Sinodo Belforti) la pieve pagava sette libbre come la cappella o chiesa suddetta.[37]

Nel catasto dei religiosi del 1427-29 appare che << …lo piovano di Morrona dà di censo l’anno, lo dì di santa Maria sopradetto, lire due, soldi cinque per la chiesa di Santo Bartolo da Morrona per la pieve di Santa Maria a Ginestrella… >>[38]. E ancora << …Pieve di Santa Lucia di Ginestrelle et di Santo Bartolo da Morrona unita insieme… >>[39], ciò farebbe supporre che la pieve sia stata unita con la cappella in un arco di tempo che va dal 1356 al 1427-29.

Nel 1576 il vescovo Castelli, durante la sua visita apostolica, scrive della pieve: << …Deinde vidit ecclesiam dirutam Sancte Lucie a Ginestrella a tanto tempore citra, quod non est memoria in contrarium. Cernantur vestigia parietum longes braccia 8, altitudines braccia 4 et nulla bona habere repertum est… >>[40]; il prelato decretò che sopra le rovine della pieve fosse eretta una grande croce come disponeva il concilio tridentino: possiamo avanzare l’ipotesi che la croce sia quella ritrovata sotterrata.

Capitolo II .Il secolo XII: contesto storico e ascesa del monastero

Il feudalesimo mutò ben presto la natura giuridica e il carattere del potere comitale e le funzioni del conte vennero ad essere considerate come semplice accessorio del “beneficium” che già veniva concesso al conte come ricompensa del suo operato, conseguentemente si giunse alla feudalizzazione della contea. Il vincolo che unisce il conte al sovrano si allenta e in seguito (secc. X-XI) si assiste alla decadenza del suo potere politico, attaccato anche dai feudatari che in questo periodo sorgono numerosi, tra questi i vescovi, i quali affermano sempre più la loro autorità nell’ambito della città.

Anche a Volterra, come altrove, gli imperatori, ai quali premeva l’amicizia dei vescovi, avevano continuamente favorito la curia con privilegi e immunità; forti di tutto ciò i prelati si lanciarono alla diretta conquista del potere comitale nella loro città, potere che venne riconosciuto dall’imperatore con l’intento di procurare al sovrano un fedele e vantaggioso alleato, in quanto i vescovi-conti, non disponendo del diritto ereditario del feudo, evitavano il pericolo di un insediamento nella città di vere e proprie dinastie feudali, tornando libera l’investitura ad ogni sede vacanza vescovile, come invece accadeva nel contado con i feudatari laici.

Nel Comitatus volaterranus, la giurisdizione temporale del vescovo si afferma nei secoli IX-XI: nell’ottobre 821 un diploma di Lodovico il Pio conferma i privilegi concessi da Carlo Magno; nell’845 furono concessi da Lotario “gli avvocati del vescovo”, insieme con il diritto d’ingresso dei pubblici funzionari nelle terre della Chiesa. Nell’874 Lodovico II sancisce i precedenti privilegi, conferma alla curia vescovile tutti i beni posseduti fino ad allora a qualunque titolo e ordina la rescissione di tutti i rogiti (contratti di donazione, concessioni, livelli etc.) effettuati nel periodo in cui il vescovo era fisicamente indisposto, disponendo la rivendicazione dei suddetti beni e decretando pene pecuniarie a chi avesse osato offendere o recare violenza alla proprietà del vescovato di Volterra.[41]

Adalberto marchese di Toscana, concede, nell’896, al presule volterrano il possesso e la giurisdizione civile dei castelli di Berignone, Montieri ed altri; mentre Ugo di Provenza, re d’Italia, dona alla sede episcopale alcuni possessi nel territorio di San Gimignano. Ai tempi di Ottone I L’autorità civile concessa ai vescovi volterrani era già abbastanza estesa, in seguito con i diplomi di Federico I ( 1164 ) e di Enrico Vi ( 1186, 1189, 1194 ), il vescovo venne ratificato con il titolo di “Principe del Sacro romano Impero e Conte palatino in Toscana” e acquistò il diritto di battere moneta, riconoscere consoli e podestà, creare conti, giudici e notai, legittimare spuri.[42]

Il periodo in cui si nota il massimo accentuarsi dei poteri è certamente quello dominato dal vescovo Ruggero, il quale appare per la prima volta come vescovo di Volterra il 24 maggio 1103 in un privilegio di Pasquale II a favore della Chiesa volterrana.[43] Divenne poi arcivescovo di Pisa nel 1123, dopo la scomparsa del suo predecessore Attone, morto fra il 29 agosto 1121 e il 24 marzo 1122, mantenendo la cattedra dell’episcopato volterrano.[44] Ruggero firmò con il titolo di arcivescovo i documenti spettanti la curia pisana e con il titolo di vescovo quelli riguardanti la curia volterrana, ma in un documento del 20 agosto 1128 appare con entrambi i titoli: << … vulaterensis episcopus ac pisanorum archiepiscopus… >>, si trattava di una sentenza a causa di una rimostranza dell’abate di Morrona, in territorio volterrano, contro l’arcivescovo di Pisa per dei possessi posti in episcopato volterrano. [45]

Ruggero non appartenne, come è stato ipotizzato in passato, alla nobile famiglia degli Opezinghi, originaria della zona tra Pisa e Volterra, dove aveva anche i suoi possessi,  bensì discendeva da due nobili famiglie lombarde e particolarmente importante fu la famiglia paterna, in quanto il padre Enrico (II) del fu Enrico apparteneva alla sesta generazione dei Gisalbertingi o Ghisalbertini, il cui capostipite Giselberto fu vassallo di re Berengario I, poi conte di Bergamo, infine conte del Sacro Palazzo. La madre del prelato << …Bilisia filia quondam Rogerii de loco Soresina… >>[46] apparteneva ad una famiglia della feudalità capitaneale milanese. Ruggero incrementò i beni della Chiesa volterrana prima nel 1111 con una cospicua donazione di terre poste << …in curte sua de Casano… >>[47] presso il fiume Era, poi nel 1115 con un acquisto della metà dei beni di Gerardo di Catignano e di Alberto del fu Villano entrambi di Pescia, i quali vendevano per pagare dei debiti; detti beni erano posti << …in castri Catignano, castello et curte de Catignano, Riparotta, Arsicile, Cambasi, Sancto Benedicto cum curte Muchio, curte Puliciano, Collemusciori, Camporobiano, Casallia, Fusci, Morrona, Montevaso, Petracassa… >>.[48]

Sconosciuti restano gli eventi che portarono Ruggero a ricoprire l’esercizio dell’episcopato di Volterra, poiché se nel secolo precedente non fu raro che prelati di origine lombarda fossero eletti negli episcopati di Firenze, Lucca e Pisa, nel secolo XII, con la riforma ecclesiastica si torna alla vecchia procedura, eleggendo vescovi provenienti dalla Chiesa locale.[49] Il vescovo Ruggero fu molto più intento alle cure temporali che a quelle spirituali, riassumendo in sé la figura imponente del vescovo-conte.

Quando a Volterra, in ritardo di un secolo rispetto ad altre parti d’Italia, nasce il libero Comune, l’unità patrimoniale e feudale dell’episcopato raggiunge il massimo: siamo alla metà del XII secolo.[50] All’origine del Comune volterrano stanno alcune potenti famiglie, legate da vincoli di parentela, vassalle e suddite del vescovo, queste famiglie stabilite in case-torri dominanti una parte della città, costituivano una piccola comunità, cui i feudatari del contado giurarono di difendere contro tutti nel gennaio del 1194. Quando queste famiglie ebbero la necessità di convertire i beni in loro possesso a titoli diversi, in proprietà definitive e stabili, si trovarono di fronte un vescovo-conte, che accampava e difendeva i propri diritti feudali sorretto da imperatori e papi. Le famiglie si coalizzarono: vassalli vicedomini e avvocati diventarono uomini del Comune e Consoli, staccandosi dai loro signori ecclesiastici, dando luogo ad una sempre più salda unità cittadina. E’ dunque intorno al governo vescovile che si formano i nuovi ceti dirigenti.

Il conflitto, sorto subito con la nascita del Comune, contro il vescovo era inevitabile: in gioco erano le giurisdizioni sul contado, molto ambito dai vescovi.

A Volterra, dalla metà del XII secolo fino al 1239 il vescovo appartenne sempre (con una eccezione) alla famiglia dei Pannocchieschi, grande famiglia comitale, di cui non sono conosciute le origini e l’appartenenza a questa famiglia del primo vescovo, cioè Galgano, è più presunta che reale, in quanto nessun documento ne attesta l’appartenenza e non si hanno notizie prima del suo episcopato. I Pannocchieschi possedevano cospicui beni nel territorio della città; ricordati nei documenti fin dal secolo X, presto si divisero in più rami che tennero signorie nel pisano, nel volterrano e in quel di Massa Marittima.[51]

Nel 1164 Federico Barbarossa conferì a Galgano Pannocchieschi l’investitura ufficiale della città e del comitato, probabilmente per fedeltà e riconoscenza per avere aderito al partito ghibellino, lasciata la curia pontificia e prestare obbedienza all’antipapa Vittore IV, nominato per volontà dell’imperatore in contrapposizione ad Alessandro III. L’atto del 1164 rappresentò certamente l’inizio di quel grande mutamento che vide Galgano trasformarsi da vescovo di Volterra in autorità comitale. Appena divenuto vescovo, dopo l’episcopato di Adimaro, di cui le ultime notizie si hanno nel 1146 e relative al 1150 sono quelle in cui viene menzionato Galgano come vescovo per la prima volta, aggiunse ai possedimenti della sua Chiesa alcuni beni ricevuti per donazione[52] e sempre nello stesso anno cercò di conquistare anche Montevaso, situato metà nella comunità di Castellina, diocesi di Pisa e metà in quella di Chianni, diocesi di Volterra, ciò non poteva non dar luogo a controversie tra i vescovi delle due città, una di queste è testimoniata in un lodo del 15 ottobre 1150, in cui il cardinale Guido, esaminate le molte testimonianze di ambedue le parti, riconobbe la legittimità del possesso di Montevaso all’arcivescovo pisano.[53] Nel 1158 un nuovo successo della politica espansionistica di Galgano portò alla curia volterrana una parte della corte di Gerfalco e di Travale (sul confine del territorio volterrano verso Siena). Di fronte a questa ostentazione di potere ci sono gli interessi concordati dei privati, che intendono difendere i propri beni e le loro libertà e dietro a queste persone c’è il Comune, che vede nel vescovo Galgano, sintesi del regime feudale, l’impedimento maggiore ai bisogni urbani di Volterra.[54]

L’episcopato ha ormai grandi possessi che arrivano fino alle porte di Pisa e di Lucca, Che permettono alla mensa vescovile di impinguarsi con le entrate e con i doni dei fedeli. Intanto il consolato si sta organizzando come istituto giuridico, emancipandosi sempre di più dalla tutela del vescovo, corrodendone a poco a poco le basi del potere. L’intrasigente vescovo, fulminatore di scomuniche, venne accerchiato nel suo palazzo, malmenato e ucciso in seguito ad una congiura popolare. La tradizione vuole che Gargano sia stato ucciso sulla soglia della cattedrale che cinquanta anni prima Callisto II aveva solennemente consacrata al cospetto del vescovo Ruggero.[55]

In venti anni di episcopato del Pannocchieschi l’urto tra Comune e Vescovato si era fatto cruento al punto di contaminare la sacralità.

Seguì un periodo di relativa calma durante l’episcopato di Ugo dei Saladini dei conti d’Agnano, già canonico di Padova, nominato da Alessandro III nel 1173, quindi parrebbe che dalla morte di Galgano (1171) alla nuova nomina la cattedra vescovile sia stata vacante e che per motivi di disordini seguiti all’uccisione del prelato i canonici per difendere la curia e i beni, avessero chiesto la protezione pontificia, accordata in un documento del 1171 e replicata negli anni 1175 e 1179 essendo vescovo Ugo; dopo la morte del quale i Pannocchieschi tornarono alla conquista del potere.[56]

Fu eletto vescovo Ildebrando Pannocchieschi e durante il suo episcopato sembrò che la fortuna fosse dalla parte della sua Chiesa: i privilegi, le concessioni, le protezioni pontificie si alternarono a quelle imperiali, appagando l’intraprendenza e la sete di potere di questo vescovo, che tuttavia seppe sempre mantenere la dignità dell’ecclesiastico.

Con un diploma del 15 maggio 1185 di Federico I, vennero annullate tutte le alienazioni di beni della mensa vescovile volterrana fatte probabilmente dall’ antecessore di Ildebrando.[57] Il 26 agosto 1186 Arrigo VI concede in feudo al prelato circa settanta tra ville, castelli, terreni ( di alcuni di tali beni ricevette la metà, terza e quarta parte) posti nel contado volterrano e pisano e il governo della città di Volterra con tutte le giurisdizioni sovrane, oltre al diritto di eleggere consoli non solo a Volterra ma anche a San Gimignano, Casole e Monte Veltraio; quindi Ildebrando oltre alla carica di vescovo si trova ad avere anche funzioni di sovrano o quanto meno di vicario imperiale.[58] Sempre da Enrico VI ottiene la conferma del possesso delle miniere argentifere di Montieri e nel 1189 il diritto di batter moneta con l’o bbligo di una retribuzione annua di sei marche d’argento al regio erario, incrementando le entrate di questa curia tanto che nell’anno 1190 fu in grado di prestare a Enrico Testa, marescalco di Enrico VI, la somma di mille marchi d’argento.[59] Nel 1187 il papa accorda ai possessi e ai diritti della sede volterrana il perpetuo privilegio dell’apostolica benedizione e l’anno seguente la pieve di Colle Val d’Elsa è posta sotto la giurisdizione del Pannocchieschi.[60] Privilegi e immunità vengono anche accordati da Innocenzo III (1189).[61]

Dopo il 1190 i rapporti tra Ildebrando ed Enrico VI subiscono una rottura a causa dell’intesa dell’imperatore con Pisa, di cui ha bisogno per la sua impresa in Sicilia. Enrico VI dichiara fuori corso la moneta volterrana a beneficio di quella pisana; ma nell’estate del 1194 Ildebrando, riaccostandosi di nuovo all’imperatore, ottiene i poteri di Messo regio e Conte palatino, con giudizio sulle cause di prima istanza e di appello spettanti all’Impero.[62]

Le parole del Giachi danno un’idea molto chiara della personalità di questo principe della Chiesa: << …fu così intraprendente che non ebbe difficoltà di mescolarsi nei pubblici affari, e trattar personalmente tanto la pace che la guerra, di modo che fu poi dichiarato Prior Societatis Thusciae nelle fazioni contro l’imperatore Federigo. L’autorità che seppe procurarsi sopra la città e sopra altre parti della sua diocesi, lo portò a tanta grandezza che gli stessi imperatori Federigo e Arrigo lo ebbero in molta considerazione; e la repubblica fiorentina lo volle ascrivere nell’anno 1200 nel numero dei suoi cittadini, esimendo da ogni gravezza le terre e gli uomini soggetti al vescovado >>.[63]

Poco tempo dopo sorse un grosso contrasto tra il vescovo e i suoi canonici, che dette luogo alla secessione tra il capo della diocesi, investito dei poteri temporali, e il Capitolo della cattedrale, che ebbe una violenta reazione quando Ildebrando tentò di nominare canonici a lui fedeli. Innocenzo III dette ragione al Capitolo e i Volterrani si resero conto che per difendersi dal vescovo dovevano mettersi sotto la protezione pontificia.[64]

Troviamo ancora menzionato Ildebrando in un documento del 1211, ebbe dunque l’episcopato volterrano per circa ventisei anni e l’anno successivo troviamo sulla sedia vescovile Pagano Pannocchieschi, arcidiacono della cattredrale e nipote di Ildebrando.[65]

E’ in questo quadro storico-politico che si svolgono le prime vicende documentate del monastero di Radari, in cui i conti Cadolingi hanno avuto, nel periodo iniziale, un’importanza fondamentale.

La presenza della ricca e potente famiglia dei Cadolingi in questa zona è documentata solo dalla fine del secolo XII: nel secolo X i Cadolingi possedevano vasti territori nella zona intorno a Pistoia e nella Valle dell’Ombrone; fu con il conte Cadolo che verso la fine di questo secolo il loro patrimonio cominciò ad espandersi fino all’Arno ed egli stesso fondò il primo monastero della famiglia a Fucecchio. Verso la metà del secolo XI, con il conte Guglielmo detto Bulgaro, i possessi dei Cadolingi si espansero lungo la riva volterrana del fiume Elsa e, tra la fine di questo secolo e l’inizio del XII, Uguccione si impossessò di vasti terreni nell’alta valle del Bisenzio e nel punto d’incontro delle diocesi di Lucca, Pisa e Volterra.[66]

Una gran parte di questa enorme massa di beni era stata chiaramente usurpata ai vescovi di varie diocesi da tutti i membri della famiglia, ma il conte Guglielmo Bulgaro fu uno dei maggiori responsabili di sottrazioni di possessi vescovili e con solenne giudizio, che ebbe luogo il primo dicembre 1059 in Firenze,[67] davanti a papa Nicolò II, Guglielmo dovette restituire a Guido, vescovo di Volterra, la metà dei castelli di Puliciano, Colle Muscioli e tutti i beni che Adelmo e Gisla, fondatori della badia ad Elmo e benefattori di varie pievi della zona volterrana, prima di morire, avevano posseduto nei pivieri di Cellole, Chianni e San Gimignano.[68]

Il 18 febbraio 1113 moriva l’ultimo dei Cadolingi, Ugo o Ugolino: il suo testamento disponeva di lasciare la metà dei propri beni ai vescovi delle diocesi in cui questi erano ubicati.[69]

Ugolino, probabilmente, tormentato dal pensiero che l’estinguersi della propria casata fosse un castigo dovuto alla violenza dei suoi avi a danno delle chiese, disponeva in tal modo che i beni ecclesiastici tornassero alle varie diocesi. Già negli ultimi anni di vita, il conte aveva beneficiato alcuni monasteri, specie se eretti dai suoi antenati, tra i quali quello di Santa Maria e San Benedetto di Morrona con un rogito del 1106; altri nel 1107 in suffragio dei genitori e dei fratelli.[70]

Subito dopo la sepoltura del conte ebbe luogo la restituzione dei beni alle singole diocesi ed a questa cerimonia, oltre ai vescovi di Firenze, Lucca, Pistoia, Pisa, fu certamente presente anche Ruggero, vescovo di Volterra, il quale fu investito della metà del patrimonio che Ugolino possedeva “infra episcopatum vulterranum”. [71]

Ciò che accadde dopo la morte di Ugolino fu causa di urto fra Gerardo, abate del monastero di Morrona e il vescovo di Volterra, che subito ebbe delle pretese nei confronti del cenobio; ma l’abate non fu certamente d’accordo a cedere alle pressioni del prelato volterrano, tanto più che la badia, con una bolla di Pasquale II del 4 novembre 1114, si trovò ad essere sotto la protezione della Santa Sede Apostolica con gli altri monasteri dell’ordine Camaldolese.[72]

Il 21 maggio 1120 Callisto II, essendo presente a Volterra, accoglie sotto la protezione pontificia sia il monastero che i beni, che si espandevano fino a Massa e Montegemoli. Onorio II con sua bolla del 7 marzo 1125, confermano tutti i possessi e i privilegi.[73] Ma questi privilegi, rappresentanti il rafforzamento dei diritti e prerogative dell’abate, non posero fine alle pretese del vescovo fino all’anno 1128, quando Ruggero già divenuto arcivescovo di Pisa, oltre che vescovo di Volterra, << …resideret iuxta ecclesiam et monasterium Sancte Marie de Morrona cum suis iuris peritis et notariis et aliis probis atque nobilibus viris… >>,[74] esaminò con Guido, priore di quella abbazia, le ragioni dei possessi e restituì allo stesso priore << …quedam iniuste detinere de iustitia suprascripti monasterii. Te. Prefatus venerabilis episcopus causa cognita refutavit atque postposuit iam dicto monasterio in manu predicti prioris omnes res que continebantur in suis instrumentis quas ipse habebat et possidebat de Aquisiane curte et vulterrano episcopatu ut pote in Rialto et in Ripa Rossa et in aliis locis… >>.[75]

L’arcivescovo Ruggeri sfruttò l’occasione della temporanea fusione tra le diocesi di Volterra con quella di Pisa, perseguendo una politica a favore di quest’ultima città ed anche gli abati di Santa Maria e San Benedetto agirono in questa direzione, legando sempre più le sorti del cenobio e dei suoi possessi a Pisa e alla Chiesa pisana, che vi andò acquistando sempre più pretese e diritti.[76]

Con un breve del 23 gennaio 1134 diretto a Gerardo abate del monastero di Morrona, papa Innocenzo II ordina che egli resti nel possesso di tutti quei beni che erano stati concessi alla badia dal conte Ugo e dai suoi figli << …aut aliis catholicis… >>;[77] conferma tutti i possessi presenti e futuri; proibisce ad ogni vescovo ed a qualunque altra persona di molestare il monastero, togliere beni o diminuirli con qualsiasi vessazione o legge.[78]

Anche quando il monastero si trovò in difficoltà economiche, perché gravato da ingenti debiti, l’abate Gerardo si rivolse alla Chiesa pisana, vendendo, nell’anno 1135 il 29 marzo, dei beni a Uberto arcivescovo di Pisa per cinquecento soldi: si trattava della metà intera della terza parte << …de podio et castello et curte de Aqui, quod Vivaio vocatur et de podio et castello et curte et districto de Morrona… >>.[79] Nel 1141 l’abate Uberto, successore di Gerardo, si fece confermare da papa Innocenzo II << …in ipso castro et curte eius plebem et capellam eiusdem castri cum decimis. Ea que habetis in curte aquisana. Balneum et acqueductum usque in Casina terras qua habetis in palude et in pantano cum decimis eorum… >>. E il 22 novembre 1148 Eugenio III aggiunse la chiesa di Tora e quella di Collemontanino. [80]

In tal modo è spiegabile l’atto con cui l’arcivescovo di Pisa Ubaldo, relativo al 2 giugno 1199, concede al priore di Camaldoli, ricevente per l’abbazia di Morrona, la facoltà di eleggere e di istituire il pievano della chiesa di Collemontanino, facoltà che costò agli abati del monastero non pochi fastidi, come vedremo più avanti.[81]

Nel 1152, quando venne costruito il nuovo edificio del monastero, l’abate Iacopo, su consiglio di Rodolfo, priore di Camaldoli e col consenso dei suoi monaci, per sostenere le spese della costruzione, in altro luogo e nell’odierna forma, vendette ancora una volta alla Chiesa pisana, allora rappresentata dall’arcivescovo Villano, i beni che possedeva in Montevaso, Montanino e Mortaiolo, eccetto Riparossa, per un valore di quattrocento soldi pisani e un anello d’oro. Il documento fu rogato alla presenza degli abati dei monasteri di San Zeno e di San Michele in Borgo, dei consoli di Pisa e di altri importanti cittadini.[82] La Chiesa pisana venne in tal modo in possesso di ciò che avrebbe dovuto avere alla morte del conte Ugo.

Di grande interesse fu la strada del monastero per lo scambio commerciale tra Pisa e Volterra, che si vivacizzava col mercato di Pava (odierna Pieve a Pitti), traffico osteggiato dagli abitanti di Volterra fin dal 1252 con una chiara disposizione statutaria.[83]

Il patrimonio fondiario e l’economia del monastero attraverso i secoli

Secolo XII

 La grossa dotazione che il conte Ugo dei Cadolingi fece all’antico monastero di Radari nel 1089, consisteva, oltre a molti terreni “cultis et incultis” sparsi in vari luoghi, anche in numerose case ed alcuni mulini << …que sun in fluvio Caldana, cum aquis et aquiductibus… >>.[84] A questa donazione se ne vengono ad aggiungere altre tre nel 1098: la prima del 4 gennaio è di prete Albone del fu Buosi, che per suffragio dell’anima sua e dei suoi genitori offre alla chiesa e monastero la sua parte di patrimonio consistente in due pezzi di terra posti in Casanova: l’abate Eriberto riceve la donazione per sostentamento dei minaci presenti e futuri.[85] La seconda di tre pezzi di terra posti nei confini di Rivalto, viene fatta da Benzo e Gerardo del fu Saracino e da Oliva loro madre e mundualda il 7 gennaio, a Casanova e Rivalto “esclusa la terra figlinese e raimbertinga”;[86] la terza da Bianca vedova di Giudo e figlia del fu Imiglio il 6 luglio: i due pezzi di terra offerti si trovano nei confini di Casanova e sono coltivati a vigne.[87] Questi beni danno luogo alla formazione di un ingente patrimonio ed il cenobio comincia ad avere amministratori e feudo.

Durante la prima metà del XII secolo continua l’ascesa economica del cenobio sia con donazioni private, che con acquisti da parte degli abati.[88]

Ancora una volta i Cadolingi hanno un ruolo preminente nei confronti dell’abbazia accrescendone il patrimonio con due donazioni fatte da Ugo, figlio dell’omonimo conte, negli anni 1105 e 1107; vediamo dunque agire questa famiglia alla stessa stregua di tanti altri individui e gruppi familiari della zona. Con la prima il monastero entra in possesso del terreno che dall’altura su cui era edificato degrada nella valle fino al fiume Cascina, ad accezione di cinque staiora di terra vignata coltivata da Aldibrando di Gerardo.[89] Con la seconda, di un pezzo di terra chiamato Collina, posto nei confini di Morrona in luogo detto Villa Negoziana, ad eccezione di tre particelle, le cui prime due << …sunt feudu de filii Gualandi de Montorgnano… >>;[90] la terza è coltivata da Ildibrando di Gerardo Cinnami.[91] Otto staiora di terra seminativa << …ad staiores duodecimos panos… >> vennero a far parte dei beni del cenobio in seguito ad una donazione di prete Tenzo fu Gumberto il 9 dicembre 1105.[92]

Beni a Soiana, Soianella e Campagnana furono donati da Rodolfo del fu Davit, Gualando del fu Guidone, Mascaro del fu Marco. La chiesa dei santi Cristoforo e Lucia di Villa Negoziana con i suoi beni ed appartenenze, compreso ogni diritto di patronato, compresa la facoltà di istituirvi un prete, fu donata da Ildebrando fu Gerardo, la chiesa era anche dotata di cimitero.[93]

Altri terreni con relative appartenenze furono offerti all’abbazia da “Ragineri comitis de Pantano” nel 1115;[94] Rolandino fu Buoso donò la metà intera del suo patrimonio, l’altra metà sarebbe appartenuta al monastero se alla sua morte non avesse avuto eredi diretti, in caso contrario gli eredi avrebbero avuto l’obbligo di dare alla chiesa del monastero un affitto annuo di dodici denari per la festa di s. Stefano.[95]

Nella seconda metà del secolo XII le pie donazioni furono molto meno frequenti, forse a causa della lacunosità della documentazione e non dal fatto che queste venissero a mancare, gli atti di fine secolo registrano solo due donazioni ad una notevole distanza di anni da quelle sopraccitate. Nella prima, del 20 dicembre 1182, Iugeneta del fu Ildebranduccio e vedova di Guido di Tavernere offre ogni suo avere e se stessa al cenobio, di cui è abate pro tempore Marco, il quale in un codicillo promette in cambio di dare alla benefattrice, vita natural durante, << …victum, vestitum convenientem… >>.[96] La seconda risale al 7 agosto 1184: Corso del fu Opizone e sua moglie Berta donano tutte le loro proprietà mobili ed immobili poste nei confini di Morrona, Aqui e Montanino.[97]

Anche i beni pervenuti all’abbazia per acquisti degli abati dovettero essere piuttosto ingenti: i primi due risalgono rispettivamente al primo febbraio e al 6 aprile 1109, entrambi hanno come attore il conte Ugo dei Cadolingi, il quale vende, col primo, metà della sua porzione del castello e corte di Morrona con << …omnibus casis et cassini, vel casalini… >>.[98] Con questo acquisto gli abati vennero in possesso della maggior parte dei terreni circostanti Morrona. Con la seconda compera, il cenobio entra in possesso della metà di ciò che Ugo possiede in << …Aquisiana curte, cum alia medietatem de tota mea portione de castello quot (sic) nominatur Vivarium… >> ad eccezione del castello e corte di Santa Lucia.[99] Entrambi gli acquisti furono fatti per << …unum par pellium in prefinito… >>; nei codicilli, che seguono la “completio”, viene stabilito che se il conte avesse avuto un erede sia maschio che femmina, tutti questi beni sarebbero stati restituiti dagli abati, contro il pagamento di quaranta lire di denari lucchesi; mentre se Ugo fosse morto senza eredi anche l’altra metà dei suddetti bene sarebbe appartenuta al monastero. Ciò fa pensare ad un prestito con garanzia fondiaria più che ad una vendita. La zona indicata è quella ad est dell’attuale Casciana Terme, individuabili per il riferimento al fiume Caldana, che nasce ai piedi del colle di Vivaia, dove è ubicata questa località e di cui erano già note le proprietà terapeutiche di queste acque, infatti nel documento si fa riferimento alle “aquis et aqueductibus”; in questo luogo era concentrato un nucleo importante dei beni di questa famiglia e l’acquisizione di ciò da parte degli abati fece sì che i rapporti tra il monastero e il Comune di Aqui fossero più frequenti, dando luogo ad interminabili liti di cui parleremo più avanti.[100]

Dopo che all’abbazia di Morrona erano passati, sia per donazione sia per vendite vere o simulate, un’enorme parte dei beni che i Cadolingi avevano in questa zona, il monastero diventa il polarizzatore di questa importante parte della Tuscia, punto d’incontro di tre diocesi: Lucca, Pisa, Volterra, sfuggendo al controllo dei rispettivi vescovi, in particolare a quello di Volterra, diocesi di cui faceva parte. Ma dopo la morte di Ugo, nel 1113,che determinò l’estinzione di questa famiglia, ebbe logo la spartizione e la restituzione dei beni ai vescovi nelle cui diocesi erano situati, come dal testamento dell’ultimo conte.[101] Quando il vescovo di Volterra, come anche gli altri due, fu investito della metà dei beni posti nel suo episcopato e due anni più tardi (1115) acquistò dagli esecutori testamentari anche l’altra metà per la somma di centocinquanta lire di denari lucchesi, si ebbe lo smembramento di questo enorme patrimonio che comprendeva anche i beni della badia di Morrona.[102] Ebbe così inizio il processo di decadimento economico di questo monastero?

Altri terreni, situati nelle vicinanze dell’abbazia, furono acquistati nel 1134, 1136, 1139.[103]

Ci troviamo nell’impossibilità di identificare una serie di “loci dicti”, ora per la maggior parte dei casi scomparsi, per la cui localizzazione i documenti esaminati non forniscono alcun elemento: essi collegano in genere la loro origine a qualche caratteristica del paesaggio o al nome del proprietario o del conduttore, il mutamento dei quali, nel contesto di una diversa organizzazione agraria, ne ha probabilmente provocato la scomparsa.

Il patrimonio fondiario, pur non formando un unico blocco, presenta una certa compattezza: raramente, infatti, gli appezzamenti non confinano, almeno da un lato, con altri di proprietà del monastero. Tra i confinanti figurano anche dei privati, probabilmente esponenti di famiglie più abbienti della zona ed enti ecclesiastici come la chiesa dei ss. Nicola e Bartolomeo. La grande percentuale di fondi privi di indicazione di misura rende, purtroppo, il discorso quantitativo necessariamente generico. Nella maggior parte dei casi viene commerciato il singolo appezzamento, la “petia de terra” sempre definita nei suoi confini, oppure la “terra et res”, la “terra et vinea”, ubicata in uno o più luoghi, confinata e solo in pochi casi misurata. Questa prevalenza della “petia de terra” impone l’immagine di un enorme frazionamento agrario, del resto anche le quattro confinazioni indicate per ciascuna parcella e in cui compaiono con frequenza la “via” e il “fossatus” fanno pensare a una viabilità campestre e ad una rete di fossi piuttosto intensa.

La natura dei beni posseduti dal monastero varia: in gran parte si tratta, come già detto, di pezzi di terra, di mulini, di casine o casalini, più di rado di orti. I terreni sono coltivati a grano, vigne, olivi, prati e pascoli.

La forma di gestione, sulla quale siamo infirmati da quattro documenti risalenti al 1115, 1168, 1196, 1198 è l’affitto, che veniva concesso in cambio di un censo annuo in denaro da soddisfarsi nelle feste di s. Michele e s. Giovanni (4 dicembre).[104]

Dal patrimonio fondiario dell’abbazia furono alienati ancora dei beni con due vendite: abbiamo visto che quando il vescovo Ruggeri divenne contemporaneamente anche arcivescovo di Pisa, rivolse la sua politica a favore di questa città in connessione con la politica di espansione che Pisa perseguiva nelle Colline Pisane e nel contado volterrano fin dall’inizio del secolo XII. Anche gli abati di Morrona si orientarono in questa direzione, cercando di svincolarsi sempre più da Volterra e unendo le sorti del monastero a Pisa; infatti quando nel 1135 l’abate Gerardo si trova gravato da ingenti debiti, vende all’arcivescovo di Pisa Uberto quei beni che aveva acquistati nel 1109 dal conte Ugo.[105] Nel 1152, l’abate Jacopo vende ancora all’arcivescovo pisano tutti i beni che il monastero possiede in Montevaso e nei dintorni, per edificare la badia nel luogo detto Poggio, cioè presso l’antica chiesa di s. Maria dove ancor oggi la possiamo vedere.[106]

Vogliamo concludere l’argomento sull’economia di questo monastero nel secolo XII con le parole del Volpe: << Favorivano in questo tempo siffatto distendersi del dominio territoriale della chiesa e del comune pisano o la libera donazione degli abitanti di qualche castello, o le necessità finanziarie delle abbazie un giorno floride, ora in rapida decadenza, come quella di Santa Maria di Morrona […] i vecchi monasteri di origine longobarda e franca, se renitenti ad accogliere il moto riformista dell’XI secolo, insidiati da tutte le parti dai feudatari avidi, minati dalla sorda e tenace ribellione dei loro dipendenti, si trovano a poco a poco spogliati della terra ed onerati di debiti coi cittadini più ricchi per i quali simile impiego di denaro è un’ottima speculazione, perché non mancherà mai loro l’appoggio del comune contro gli abbati ed i feudatari del contado. E’ questo il caso, nel XII secolo, di molti monasteri del contado pisano, specialmente se hanno vicino un fiorente comune rurale col quale i contrasti sono inevitabili come quello di San Felice di Vada, San Salvatore di Sesto, presso Bientina, di Santa Maria di Morrona nel castello omonimo >>.[107]

 Secolo XIII

 La sporadicità dei documenti impedisce un’organica ricostruzione dei possessi che costituirono il patrimonio fondiario del cenobio anche per il secolo XIII.

I beni acquistati dagli abati, in un arco di tempo che va dal 1239 al 1272, sono appezzamenti di terre lavorative, con alberi, boscate e vignate, in alcuni dei quali sorgono anche case e casalini; se poi volessimo indicare quali alberi fossero coltivati dai contadini del monastero, potremmo compilare, in base alle nostre fonti, un inventario molto inconsistente, in quanto sono nominati solo fichi e peri, in numero maggiore gli ulivi.[108] I cerri e le querce, che pur costituivano la base della vegetazione arborea in queste colline, sono menzionati rarissime volte nei documenti, probabilmente questa lacuna è dovuta alla frequenza di queste piante che ne rendeva inutile la precisazione ed erano sottointese nel generico vocabolo di “albero”.

Vite e frumento sono le uniche colture cui le fonti si riferiscono più frequentemente, in special modo per la prima come di quella più pregiata: queste vigne erano disseminate un po’ dovunque. Quanto al frumento, base dell’alimentazione e base, in molti casi, delle unità di misura di questi terreni, lo troviamo nominato molto spesso anche come retribuzione dei censi che i contadini davano agli abati. Rare volte il pezzo di terra era lavorato a prato.

I riferimenti topografici degli acquisti sono, come per il secolo precedente, designati con “loci dicti” ed il quadro generale è sempre quello di un intenso frazionamento fondiario, in cui, dopo lo sfaldamento del manso, prevale incontrastata la “petia de terra”, ma nonostante ciò possiamo rilevare che il patrimonio fondiario del monastero si dislocava in modo piuttosto omogeneo intorno ad esso per un raggio molto vasto, anche se, data la mancanza di misure dei terreni nella maggior parte delle fonti, non ricostruibile dal punto di vista quantitativo.

Questi beni erano dati a livello o a locazione, ma non è specificato se a contadini o a coloni o ad altre persone di diversa condizione giuridica. Un livello risalente al 13 gennaio 1271 fu concesso dall’abate Alberto a prete Scolario, pievano della pieve di Morrona, per conto della stessa pieve, consistente in numerosi appezzamenti di terreno siti nei pressi intorno alla pieve, per una durata di ventisei anni.[109]

I censi, annuali, erano retribuiti sia in denaro (quasi sempre moneta pisana), che in cereali (grano, orzo, miglio), .[110]

Le nostre fonti non ci permettono di formulare un organico discorso sul punto essenziale dell’organizzazione della proprietà monastica, cioè sui sistemi di sfruttamento del lavoro contadino. L’accumulazione di terre da parte dell’abbazia durante i secoli XII e XIII con il continuo acquisto di terreni, incameramento di patrimoni familiari, organizzazione della propria ricchezza fondiaria intorno a chiese e villaggi, dovette essere considerata, probabilmente, anche come la ricomposizione di un dominio sulle famiglie contadine, in un quadro ormai decaduto dell’antica organizzazione per mansi.

Per quasi tutta la prima metà del secolo XIII nessuna donazione al monastero compare nelle fonti: l’ultima risale al 1184, per cui il cenobio non avrebbe ricevuto donazioni per un periodo di cinquantotto anni.[111] Avanzare delle ipotesi a questa mancanza di offerte da parte laica sarebbe cosa inopportuna e da fare con la massima cautela, d’altra parte il vuoto di donazioni degli anni che vanno dal 1184 al 1242, anno in cui troviamo la prima “cartula offersionis” di questo secolo, potrebbe essere una delle tante conseguenze della lacunosità della documentazione, come già altrove detto.[112]

Tale donazione è interessante per diversi motivi, perché è un’alienazione di beni cospicua, per l’ius patronato  delle due chiese e perché nel documento troviamo una frase che sembra fuori tempo: Scotto del fu Bernardo e Gregorio suo figlio danno a Benedetto, abate di Morrona, oltre ad ogni loro possesso posto nel castello di Montanino anche lo ius patronato della chiesa dello stesso luogo. Offrono, inoltre, il patronato della pieve di San Giovanni di Aqui << …et totam mansionem quam habet et tenet Benenatus quondam Pantonerii de qua consuevit reddere annuati quarras sex grani de Montanino et quam magister Contadinus, de eodem loco, habuit et tenuit a suprascripto Scotto actor et defensor ad penam quingentarum marcarum aurei… >>.[113] L’abate concesse loro un vitalizio annuo consistente in tre staia di grano e una libbra d’olio. E’ da notare la frase << …totam mansionem quam habet et tenet Benenatus… >>[114] in un documento del secolo XIII, bisogna considerare che il frazionamento fondiario è già intenso nel XII secolo, in cui prevale ormai il pezzo di terra o la terra con vigna, la terra con bosco, la terra con alberi; la decadenza del manso è già avvenuta anche se nella prima metà del secolo XII non è raro che alcuni atti notarili nominino il detentore di un complesso fondiario, anche se non si tratta più di un manso. Verso la metà del XII secolo, l’evoluzione della decadenza del manso è giunta al termine e generalmente i documenti menzionano i coltivatori raramente, nella maggior parte dei casi le alienazioni fondiarie non avevano ormai più per oggetto tutte le terre facenti capo a una famiglia contadina, ma singoli ed isolati pezzi di terre. Certo non può essere questo unico esempio a configurare quel tratto principale della struttura curtense, né possiamo desumere la persistenza di questa struttura nella zona alla fine della metà del secolo XIII da questa formula, in cui il manso figura compreso nei beni della pieve di Aqui alienati al monastero, è probabile che rappresenti più un’indicazione geografica che l’espressione di un legame strutturale. Sempre nella stessa carta, l’abate, col consenso dei suoi monaci, promette per sé e per i suoi successori, di dare << …ei vel suo herede aut cui ipse preceperit apud castrum Montanini toto suprascripte vite Scotti esse??? in dicto castro staria tria grani et libram unam olei ad pena dupli… >>.[115] Un altro rogito con la stessa data contiene la conferma dei beni da parte del donatore.[116]

Nella seconda metà del secolo tre sono le donazioni (reperite) fatte all’abbazia: la prima effettuata da Belcolore vedova di un certo Fabbri di Terricciola, che per rimedio dell’anima sua e dei suoi parenti dona a Gerardo abate un pezzo di terra con fichi e bosco, posto nei confini di Morrona in luogo detto Valle, terreno che viene affittato nello stesso giorno dall’abate a Guido fu Saracino di Morrona per sei panieri di grano buono l’anno.[117] Le altre donazioni sono due testamenti: con il primo, del 1286, il monastero entra in possesso di tre parcelle di terreno poste nei confini di Morrona, il testatore, Benvenuto del fu Giovanni dello stesso luogo, obbliga con una clausola l’abate ad affittare gli appezzamenti a Lenzo, Naccio e Donato, figli del fu Carbone e abitanti nello stesso luogo, per un censo annuo di sei quarre di grano. Il testatore, inoltre, lascia all’abbazia altri due terreni situati nelle vicinanze degli altri, uno dei quali con una casa, a condizione che Beldimanda, sua moglie, << …det annuatim suprascripto monasterio quarras duas boni et puri et nostratis grani ad reptam pisanam mensuram apud idem monasterio… >>.[118] Porta la stessa data il rogito con cui Alberto abate entra in possesso di questa cospicua offerta.[119]

Un pezzo di terra posto sempre nei confini di Morrona in luogo detto Cascina viene a far parte del patrimonio fondiario di Santa Maria e San Benedetto con testamento di Lupo fu Pellario di Morrona il 16 giugno 1288.[120]

Negli anni 1275-1276 la badia di Morrona pagava di decima libbre 25 e soldi10; nel 1276-1277 libbre 26 e soldi 6.[121]

Secoli XIV e XV

 All’inizio del XIV secolo, la badia di Morrona pagava di decima lire 14.18, ciò farebbe supporre che le rendite fossero molto diminuite dal 1276-77 quando, come abbiamo visto, pagava lire 26.6;[122] ma al tempo del Sinodo Belforti (1356) il monastero pagava di decima 90 lire,[123] questo farebbe ipotizzare una ripresa economica all’inizio della seconda metà di questo secolo: cosa poco probabile, perché il cenobio, come vedremo, ha un’evoluzione abbastanza rapida di quella decadenza economica iniziata già nel secolo XII. Chiara testimonianza è la bolla pontificia spedita da Bonifacio VIII al pievano di Chianni il 17 aprile 1300, perché si occupasse di rivendicare per il monastero tutti quei beni che erano stati alienati illegittimamente dagli abati, queste concessioni a laici e chierici avevano causato gravi danni economici al monastero.[124] Nella bolla non viene menzionato il nome del pievano, ma supponiamo che si tratti di un certo Giacomo, pievano a Chianni dal 1285; resta ignoto il motivo per cui Bonifacio VIII si rivolga a questo pievano per tale incarico, che in quei tempi rappresentava un esercizio di difficile attuazione e da conseguire con molta diplomazia.[125]

Nella prima metà del Trecento il monastero entra in possesso di vari pezzi di terra acquistati dagli abati, questi beni sono dislocati nei confini di Morrona ed Aqui, sono terreni boscati, campi, con ulivi ed alcuni hanno anche dei fabbricati.[126]

Sempre in questo periodo troviamo due donazioni: la prima, del 1324, è un testamento per il quale “Corbulus quondam Strenne” di Morrona dichiara di voler essere sepolto nel monastero di Santa Maria, lasciando 30 soldi di moneta pisana per il suo funerale, 40 soldi per il settimo giorno dalla sua scomparsa, 10 soldi per l’altare del monastero, 5 per quello della pieve e 5 per quello della chiesa di San Bartolomeo; lascia inoltre due pezzi di terra.[127] Il diritto di sepoltura era molto ambito perché i vantaggi economici che i monaci ne traevano dovevano essere non indifferenti, in quanto ogni corpo seppellito assicurava al cenobio lasciti ed elemosine nello stesso giorno del funerale, poco tempo dopo e generalmente una volta all’anno. Questo tipo di concessione non piaceva ovviamente ai titolari delle pievi, non contenti di perdere i diritti loro spettanti secondo il diritto ordinario.

Nella seconda donazione Ugolino fu Bonaccorso da Morrona e sua moglie Mingarda fu Morronese, dello stesso luogo, offrono, per la salvezza delle loro anime e dei loro peccati, se stessi e tutti i loro beni mobili e immobili presenti e futuri, rinunciano ad un salario, ma si riservano 22 lire di denaro pisano per dote delle loro figlie.[128]

Da una vendita di legna effettuata nel 1306, l’abate Corrado ricava 40 lire “pro utilitate et melioramento” del monastero: la legna si trova in luogo detto “Silva Abbatis” e viene acquistata da due abitanti di Soiana.[129]

Nello stesso anno il 18 di gennaio una grossa parte dei beni della badia fu data in feudo, o meglio in accomandigia dall’abate Corrado a Bonifacio, conte di Donoratico e signore della sesta parte della Sardegna: con la decadenza economica, il monastero si trovò probabilmente in grosse difficoltà specialmente col laicato, come dimostra anche la bolla di Bonifacio VIII, in quanto non era più in grado di esercitare la sua potenza sopra tutto e tutti come era avvenuto per il passato, quindi trovò nel conte di Donoratico più che un feudatario un protettore,[130]  << …erano luoghi, quindi, dove abbondavano boschi e pascoli anticamente comunali, passati poi con la conquista barbarica al fisco regio e donati a Grandi ed a monasteri. Vi avevan perciò nel IX, X, ed XI secolo prosperato vigorosamente nobiltà feudale ed istituzioni monastiche, due prodotti identici di una stessa età storica, della cui protezione e della cui rovina più tardi si giovano le comunità agricole germogliate sul terreno da quelle preparato e desiderose di rivendicare, come realmente rivendicano, quei diritti antichissimi sulle terre comunali: germogliate entro le corti signorili e monacali… >>.[131]

Al 1309 e successivamente al 1320 risalgono tre permute, un’altra è del 1347: con la prima l’abate Corrado cede nove pezzi di terra con ogni appartenenza posti nei confini di Morrona, in cambio di tre terreni appartenenti a Pardo di Bonaccorso abitante nello stesso luogo, la seconda, presente al rogito Bonaventura, priore di Camaldoli, l’abate Bartolomeo cede due case con “orticello”, ubicate in Morrona, in cambio di alcuni beni appartenenti a ser Francesco; sempre nello stesso documento viene permutato un pezzo di terra con un altro più vicino al monastero. che appare anche Nella terza permuta, due terreni di Pardo di Bonaccorso vengono ceduti a “Bartholomei de Eugubio”, allora abate del monastero, perché più vicini agli altri possessi dell’ente ecclesiastico, in cambio di terre confinanti con altre proprietà nel morronese. [132]    

Abbastanza numerose, sempre per quanto riguarda la prima metà di questo secolo, sono le locazioni di terreni, edifici e mulini, che rappresentano in modo esclusivo la conduzione del patrimonio fondiario del cenobio.[133]

Il censo annuo da soddisfarsi in occasione di varie festività era sia in natura che in denaro (sempre moneta pisana). I toponimi e i cosiddetti “loci dicti” sono sempre gli stessi, quindi non ci sono stati grandi cambiamenti rispetto al secolo precedente.

Sei retribuzioni di censi date dagli abati al presule volterrano risalgono agli anni 1315, 1318, 1322, 1333, 1335, 1340. Il primo censo viene soddisfatto il 22 ottobre 1315 dall’abate Bartolomeo, consistente in quindici soldi << …pro anno elapso […] pro censu Abbatie predicte et capelle de Morrona, annis singulis… >>[134] e davanti al vescovo e ad altri testi, essendo inadempiente << …promittens dictam solutionem… >>.[135] Il censo soddisfatto il 3 settembre 1318 consiste in due rate di quindici soldi ciascuna, siccome  << …non solutorum per duobus annis… >>.[136] Sempre l’abate Bartolomeo, rappresentato da Mansueto suo monaco, il 14 ottobre 1322, corrisponde al vescovo volterrano quarantacinque soldi a titolo di censo per la pieve di Santa Maria di Morrona e per la cappella di San Bartolomeo dello stesso luogo, lo stesso Mansueto, sempre a nome dell’abate << … finem refutationem et pactum de ultius non petendo dictum censum anni presentis et promittens per se et suos successores dictas confessus est refutationem et finem perpetuo firmam et ratam habere et non confacere ut veire sub obbligationem bonorum Episcopatus predicti… >>.[137] Il 29 dicembre 1333 Benvenuto, monaco del cenobio di Santa Maria di Morrona, in rappresentanza del suo abate corrisponde al vescovo di Volterra soldi quarantacinque di denaro pisano per censo della pieve e della cappella di Morrona, che era tenuto a soddisfare ogni anno per la festa dell’Assunzione. << …Renuntians exceptiam non date, tradite et numerate sibi dicte pecunie et omni exceptioni doli mali et infactum. Nec non promictens stipulatione solepni dicto dopno Benvenuto recipienti pro dicto domino abbate predictam confessionem solutionem renuntiationem et omnia suprascripta et quolibet predictorum firma rata et grata habere et tenere perpetuo et non contrafacere vel venire per se vel olim aliqua ratione vel causa de iure vel de facto, sub pena dupli dicte quantitatis pecunie et dupli omnium expensarum ac interesse litis et extra et sub obligatione sui et bonorum suorum… >>.[138] Il rogito per il censo risalente al 30 dicembre 1335, quando Giovanni di Ugolino di Casanova, procuratore del monastero morronese, a nome dell’abate, paga al presule volterrano non solo quarantacinque soldi di denari pisani, ma anche quindici soldi di denari volterrani per la pieve e cappella di Morrona, ha più o meno lo stesso tenore di quello precedente,[139] come anche quello relativo al 6 giugno 1340, essendo abate Silvestro d’Anghiari.[140]

Durante il secolo XIV sono solo tre i rogiti che ci informano delle elezioni e costituzioni di procuratori del monastero, nel primo, relativo all’anno 1334, Bartolo, abate del cenobio di Morrona e il pievano della pieve di Ginestrelle dello stesso luogo eleggono procuratore Fazio, abate del monastero dei Santi Giusto e Clemente di Volterra;[141] con il secondo, lo stesso abate con il rettore della chiesa di San Bartolomeo di Morrona eleggono a procuratore ancora l’abate del monastero dei Santi Giusto e Clemente di Volterra, il rogito risale all’anno 1336;[142] nel terzo documento datato 1343, l’abate Silvestro elegge procuratore e difensore del monastero di Morrona << … Funtinum porelli de Veneri, conversum dicti monasterii… >>.[143]

 

Fare un quadro della situazione economica e del patrimonio fondiario di questo cenobio è estremamente difficoltoso, ma per la seconda metà del secolo XIV è addirittura impossibile, in quanto le fonti, già lacunose, si interrompono bruscamente alla fine della metà di questo secolo, per riprendere in quello successivo, anche se in modo molto limitato, comunque da questa frammentarietà di notizie possiamo dedurne uno stato di generale decadenza e di miseria. Nella Costituzione camaldolese fatta nel Capitolo volterrano il 21 maggio 1351 il monastero di Morrona figura tra quelli mediocri, ma non sappiamo se è definito mediocre rispetto al numero dei monaci e per la grandezza dell’edificio oppure per i suoi possessi.[144]

Dalle collette dell’Ordine del XIV secolo, che coprono un periodo di tempo che va dal 16 luglio 1315 al 1324, possiamo rilevare che la badia di Morrona pagava tre fiorini, quando il monastero dei SS. Giusto e Clemente di Volterra pagava otto fiorini, ciò fu stabilito nel capitolo celebrato in Cortona nell’anno 1315. Nel capitolo del 1317 fu decretato: << …est ratio distributionis collecte sexcentorum florini aurei in duobus terminis solvendorum… >> da soddisfarsi il primo giorno di agosto e il primo di settembre, quindi come prima rata il cenobio di Morrona doveva pagare otto libbre e quattro soldi;[145] più avanti troviamo che il monastero pagava libbre sedici e quattro soldi, << … isti sunt que solverent collecte sua monasterio contingentis proxime imposite… >>.[146] Il mese di ottobre del 1320: << …infrascipta est ratio collecte MCC florinorum aureorum imposite pro negotiis ordinis maxime pro eam sancti Savini in monasterio Vulterris cum consiliarum ordinis videlicet… >>,[147] al monastero di Morrona spettavano undici fiorini e trentadue soldi. In data 1318 per la festa di Pentecoste << … infrascipta est distributionis collecte MCC florinorum aurei imposite pro negatus ordinis maxime pro eam monasterio sancti Savini in monasterio sancti Zanobi pisanis quando ibidem fuit generale capitulum celebratus… >>,[148] Il monastero di Morrona corrispose una somma di fiorini undici e trentadue soldi, << …infrascripta est pecunia exacta pro abbatem sancti Michaeli de Burgo pisani… >>.[149] Lo stesso importo lo troviamo il 27 aprile 1320 e in maggio dell’anno successivo gli otto fiorini sono scesi a sette e trenta soldi, per arrivare a sei e trenta soldi nel mese di dicembre. Nel 1323 Benedetto, procuratore del monastero di Volterra, paga la colletta per il suo monastero trattenendosi venti fiorini d’oro prestati per fare fronte a debiti del monastero. Allo stesso modo paga per il monastero di Morrona “dominus Vitali”, ritenendo per sé dieci fiorini che aveva dato in prestito per debiti. Il monastero di Morrona deve pagare per la colletta dello stesso anno ed entro determinati termini cinque fiorini d’oro << …et singulis annis sequentibus sibi monastrerium debet solvet… >> tre fiorini d’oro.[150] Il monastero, quindi, aveva corrisposto come prima rata fiorini cinque, come seconda fiorini tre, come terza e quarta quota fiorini cinque. << …Item solve abbatibus de Roma pro presentia… >> fiorini otto; residua la somma di due fiorini. Nel 1381 non viene menzionato il monastero di Morrona.[151]

Il 9 novembre 1390 da una bolla pontificia di Bonifacio IX apprendiamo che il papa ordina ai monaci del monastero di ricevere come abate Giorgio, già abate del monastero di San Michele in Borgo di Pisa, è questa la seconda volta che troviamo un abate eletto da un papa: infatti con una bolla emanata da Clemente V, nel 1313 maggio 24, viene eletto il nuovo abate di Morrona nella persona di Pietro di San Salvatore di Selvamonda, della diocesi di Arezzo, l’abbaziato cenobitico era vacante, per il passaggio dell’abate Bartolo al monastero di San Giovanni di Borgo San Sepolcro.[152] Questo può essere il sintomo di una decadenza non solo economica, ma soprattutto di una decadenza di quel potere che aveva contraddistinto le azioni e la condotta degli abati che si erano succeduti nel corso dei secoli. Questo declino del potere potrebbe essere stato la causa della concessione del feudo di Montanino e altri beni, al conte di Montescudaio. Ormai dell’antica potenza dell’abbazia non restava che il ricordo: l’ascendente che aveva avuto sopra ogni persona che aveva tentato di opporsi ai suoi privilegi o al volere di un abate, alla fine del XIV secolo era quasi nullo. Per difendere i beni restanti il generale dell’ordine Andrea e Giorgio abate di Morrona, col consenso dei suoi monaci, concedono in feudo perpetuo parte di questi beni a Niccolò conte di Montescudaio, cittadino pisano, figlio di Giovanni della famiglia dei Gherardeschi:[153] << …considerata presertim magna potentia et excellentia egregii et potenti viri Nicolai comitis de Montescudario. Considerato etiam quod memoratus dominus haberi possit pro fideli et defensore monasterii et ordinis supradicti… >>.[154] Già abbiamo visto che all’inizio del secolo una grossa parte dei beni vengono dati in feudo a Bonifacio conte di Donoratico, il quale però non lascia eredi, quindi nel 1393 tali beni passano a Niccolò non solo per le sue ottime qualità morali, ma perché è erede indiretto di Bonifacio. Il conte di Montescudaio viene, dunque, dichiarato difensore di questo monastero contro la vioenza dei laici che occupano indebitamente i beni della badia o non soddisfano gli obblighi pattuiti: << …et considerato etiam maxime per prefatum dominum generalem priorem et dictum dominum abatem grata devotionis obsequia et favoris que olim bone memorie magnificus et potens vir Bonifacius comes de Donoratico et sexte pertis regni Kallaritani dominus, cui per cartam rogatam a ser Oliveri Maschione notario olim Michaelii dominice incarnationis anno MCCCVI […] et etiam considerato quod prefatus comes Nicholaus est de prosapia et in patrimonio ut dicitur, prefati magnifici domini Bonifacii comitis et ex dicto domino comite Bonifacio nullus appareat filus masculus, seu descendentes, per hoc instrumentum dedit et tradit et libere concessit prefato domino comiti Nicholao de Montescudaio… >>.[155] I beni consistono in << …medietatem integram pro indiviso totius castri Montanino, Plebarii Balnei de Aquis et eius territorii, dominii o proprietatis… >>,[156] ad eccezione però del patrimonio sulla chiesa di Collemontanino: << …non intelligatur concessus patronatus ecclesiae Sancti Laurentii de Montanino et Rumitorium Terre Veteris et nove, qui et quod in hoc contractu non veniant… >>.[157]

Un documento del 5 maggio 1408 ci informa di una commissione data da Agostino Moriconi da Lucca, abate del monastero di San Pietro de’ Pozzuoli a Orlando, abate di Morrona, per agire in sua vece nella futura elezione del nuovo priore di Camaldoli. Il 16 giugno 1462, con una procura fatta da Iacopo di Andrea da Galatea, abate del cenobio di Morrona, a Benedetto del fu Masco di Andrea da Galata, suo nipote e priore di Santa Maria di Vincareto, “per rinunciare in di lui nome la detta badia di Santa Maria nelle mani del pontefice Pio II o di Mariotto, priore dell’Eremo e generale di tutto l’Ordine camaldolese”. Risale al 15 marzo 1464 un breve di Pio II diretto al priore e generale di tutto l’Ordine camaldolese, con cui gli demanda di consegnare per usufrutto un possesso del monastero di Santa Maria di Morrona a Iacopo, il quale era stato abate dello stesso monastero, affinché possa vivere in modo decente, ma di non andare oltre il sostentamento. Tale bene serve anche per compensare l’abate Iacopo di un credito di duecento fiorini che aveva fornito al suo monastero per avere dovuto sostenere una lite.[158]

Dal catasto dei religiosi degli anni 1427-29 si può tentare una ricostruzione dei beni posseduti dal monastero in quel tempo: nel castello di Morrona possedeva tre case ed un frantoio, un’altra casa era situata nei confini di Soiana.[159]

Dei numerosi mulini dislocati lungo il corso delle acque dei fiumi Caldana e Cascina, di cui abbiamo già fatto cenno ma ne parleremo più ampiamente nel successivo capitolo, ne restavano uno nei confini di Morrona ed altri due presso Aqui, di cui uno era terragno e l’altro francesco, cioè il primo aveva la ruota piccola e più bisogno di acqua, il secondo aveva la ruota più grande, ma occorreva un corso d’acqua più lungo .[160]

Sei poderi posti nei confini di Morrona ed Aqui facevano ancora parte delle proprietà della badia Camaldolese, insieme a numerosi pezzi di terreni, di cui però non conosciamo l’estensione, erano terre campie, vignate, ulivate, fruttate, boscate, pratate e collinate; tra queste figura anche un canneto “sull’acqua del Bagno” , cioè ad Aqui.[161]

Gli affitti menzionati sono quattro che l’abate pro tempore riceveva ed erano sempre retribuiti in grano.

Da tutti questi beni, il monastero traeva una rendita annuale di settecentosettantuno fiorini, diciotto soldi e cinque denari. Ma tra le varie spese ed i debiti il cenobio doveva pagare millecinquecentonovantaquattro fiorini, otto soldi e cinque denari, superando di gran lunga le entrate: da questi dati appare chiaro lo stato di abbandono e di miseria in cui versava la badia, nonostante i beni posseduti fossero ancora considerevoli.[162]

Le spese che doveva sostenere servivano al salario di un monaco, di un fante e di un cuoco; al censo annuo che il monastero doveva pagare al generale dell’ordine, all’eremo di Camaldoli, al vescovo di Volterra ed alla decima papale. Altre spese erano per il mantenimento delle tre case rimaste, << …che stanno molto male e chagiono e sono cadute… >>.[163] Doveva, inoltre, provvedere al mantenimento di un “monachetto”, che accudiva a << …Domenico Orlando  che fu abate della detta badia, perché lo detto è molto vecchio gli fu chonceduto per lo generale dell’ordine per la sua vecchiezza fiorini venticinque l’anno per suo vivere e vestimenti… >>,[164] il quale abate doveva restituire all’abate di San Zeno  otto fiorini che aveva preso in prestito; un fiorino all’abate di San Michele di Pisa e tre fiorini a Meo da Certaldo << …per panno che levò al sopradetto domino… >>.[165] Un oncio d’olio comperato da prete Masino di Terricciola e mai pagato; cinque fiorini presi in prestito da Donato, monaco di San Frediano (Pisa); anche a Barsotto di Corso l’anziano abate doveva restituire cinque fiorini avuti in prestito e a Iacopo di Chele di Chianni doveva nove sacchi di grano, tre fiorini e sette soldi.

Per la festa di Santa Maria di settembre, doveva pagare quattro fiorini.

Il monastero era gravato da molti debiti da soddisfare << …a più e più persone lo quale lo nome non si mette perché sono in molte persone… >>.[166] Gli eredi di Gherardo Canigiani dovevano avere ventisette fiorini, quindi vedendo che il debito non veniva estinto aveva preso in pegno un possesso dei migliori, posto nei confini di Morrona. Dovevano, infine, essere dati quattro fiorini << …al Generale per suo mulo che si schorticò essendo lo detto Generale al Bagno… >>. Per la festa di Santa Maria di settembre, doveva pagare quattro fiorni.

<< …Monasterium porro (sic) de Morona tanquam Eremi Manuale pluries confertur et visitatur. Censumque salmae unius olei Eremo persolvisse constat anno 1329 ad 1483, quod ab Episcopo Vulterrano D. Francisco Soderino vi et armata manu fuit occupatum dum visitaret illud atque in eo abbatem praeficeret… >>.[167]

Risale all’8 di giugno del 1464 la vendita di una casa ad un certo Nanni per la somma di 24 fiorini.[168]

Dopo la caduta di Pisa in potere dei Fiorentini (1406), la documentazione concernente l’abbazia si fa sempre più lacunosa, anche perché ormai era lontano il tempo in cui il cenobio aveva grande potere e ampli privilegi. Le guerre combattute tra Pisani e Fiorentini avevano depauperato l’economia locale e devastato il contado sul cui territorio si era combattuta la guerra ed il monastero non trovò più l’appoggio della Chiesa di Pisa, tanto meno nell’episcopato volterrano, i cui rapporti erano sempre stati molto instabili, talvolta burrascosi, nonostante la badia spettasse a questa diocesi. Dal 1406, dunque, il cenobio divenne di dominio fiorentino.

Capitolo III.  I rapporti degli abati con il clero e con i laici

 La vita, all’interno del cenobio, era piuttosto movimentata e gli abati ricoprivano una carica estremamente impegnativa, che li teneva ogni giorno immersi in problemi amministrativi, politici e spirituali. Come un signore nel suo dominio dovevano esercitare i loro diritti e far rispettare i doveri, difendere la propria autonomia dall’ingerenza dell’arcivescovo pisano, ma soprattutto dal presule volterrano, i cui rapporti furono sempre burrascosi, per terminare, nel 1482, con la presa del monastero “manu armata” da parte del vescovo.

Ma che genere di rapporti ci furono tra gli abati e il clero e tra gli abati e il laicato? Manca, purtroppo, una documentazione omogenea, infatti abbiamo dei “vuoti” in vari periodi di tempo, ma quella di cui disponiamo ci dà un’idea abbastanza chiara di tali rapporti.

Un documento dettagliato, del 23 maggio 1162, ci informa su una sentenza che pose fine ad una lite sorta tra l’abate e i consoli di Aqui: Pellario e Gerardo di San Casciano, consoli di Pisa, su consiglio di Ildebrando Pagano, giudice ordinario e dei suoi assessori, furono incaricati di definire questa controversia causata dalle pretese che l’abate aveva verso i consoli, Comune e popolo di Aqui, << …que non sinebant eum quiete possidere Nigothanam… >>, le cui terre erano poste nel distretto del comune di Aqui, ma facevano parte di un beneficio goduto dall’abbazia.[169] Con una “cartula offertionis” del 25 marzo 1104 il monastero era venuto in possesso di tutti i terreni, vigne, colti e incolti appartenenti alla chiesa di San Cristoforo e San Lucia di Negoziana; il donatore, Ildebrando del fu Gerardo, comprese nella donazione anche tutte le offerte, decime ed oblazioni di questa chiesa, che << …ab omni parte circumsacrata est cum cimiterio… >>;[170] inoltre l’abate aveva la potestà di eleggerne il rettore.

Al cenobio, quindi, apparteneva ciò che era oggetto della disputa: i consoli sostenevano il diritto di ogni castello di “campare et custodire” nel proprio distretto, pur riconoscendo la proprietà di queste terre al monastero, inoltre affermavano che per più di trenta anni il popolo di Aqui << …semper Nigothana campaverant et custodierant… >>.[171] L’abate, dal canto suo, dichiarava che il terreno in questione era sempre stato ritenuto libero e lavorato dai suoi “campari” senza alcuna contraddizione degli Aquisiani e del Comune; esigeva, inoltre, che gli fosse restituito un pezzo di terra di sedici staiora e mezzo che apparteneva alla sua chiesa: << …Plebanenses vero dicebant se per quadraginta annos et plus sine interruptionem prefatum terre petium per se tenuisse… >>.[172]

La disputa continua a lungo restando ferme le parti sulle loro dichiarazioni, infine la causa << …diu ante nos ventilata… >>,[173] fu studiata in tutti i suoi particolari, ma essendo i giudici rimasti molto dubbiosi, emisero la seguente sentenza: << …illi de Aqui pro curia et eius districtu mittant camparios in Negothana et custodiant. Abbas vero aut Morrona nullum camparium ibi ponat, aut per suos camparios custodiri faciat. Campaticum tamen abbas aut Morrona neque de bestiis, neque de aliis rebus tribuat. De hominibus de Nigithana abbatem absolvimus. Pantanum vero illi de Aqui scilicet plebanenses habeant et teneant sine molestia… >>.[174]

In questi anni, in Valdera, si ebbero alcune sollevazioni contro i Pisani: i cattani della zona si erano riuniti nel castello di Peccioli ed erano riusciti a mettere insieme tremila fanti e quattrocento cavalli, ma quando l’esercito pisano invase la Valdera (1163), dopo un breve assedio fu incendiato il castello di Pava, di conseguenza tutte le rocche di questa zona fino a Volterra si arresero, pagando imposizioni e dando ostaggi. Nonostante che il vescovo volterrano avesse ottenuta la giurisdizione politica di questi luoghi nel 1186 da Enrico VI, i Pisani continuarono a dominare su questi castelli, in quanto lo stesso imperatore con un diploma del 30 maggio 1193 aveva assicurato loro il dominio di queste corti. Il vescovo di Volterra reclamò presso il papa, il quale minacciò di interdetto i Pisani, affinché restituissero i castelli al prelato, ma avvalendosi del diploma imperiale continuarono il loro dominio e nel 1202 una delegazione pontificia scomunicò il potestà di Pisa, i suoi anziani e tutto il popolo.

Nonostante le pretese e l’intromettersi della Chiesa pisana, il monastero di Morrona rimase sempre sotto la giurisdizione vescovile di Volterra, anche se in alcuni documenti viene detto “in episcopatu pisano”. Questo equivoco può essere nato al tempo della duplice (fino al 1132) carica del vescovo Ruggero (arcivescovo di Pisa dal 1124) e continuato anche dopo la sua morte fino all’inizio della seconda metà del secolo XIII, tanto più che nei documenti non viene nominato l’arcivescovo o il vescovo pro tempore.[175] Ma i rapporti degli abati, che perseguirono nella loro politica filo-pisana e i vescovi volterrani furono, come già detto, sempre molto discutibili, specialmente durante il corso del secolo XIII, in cui gli abati aumentarono la loro potenza, appoggiati in questo dalla Santa Sede Apostolica, i cui papi emanarono varie bolle a favore dell’ordine Camaldolese e tra gli altri monasteri figurava sempre citato anche quello di Morrona.

E’ datato 25 giugno 1200 l’atto con cui Ubaldo, arcivescovo di Pisa e primate di Sardegna, concede a Martino priore camaldolese, ricevente per il cenobio di Morrona, e ai suoi successori la facoltà perpetua di potere eleggere ed istituire in perpetuo un sacerdote nella cappella di Montanino << …sine mea meorum successorum vel cuiuslibet alius contradictione cum popoli tantum predicte cappelle conscientia… >>.[176] E se il popolo non avesse voluto acconsentire all’elezione << …electus vero sacerdos et instituto debitas et consuetas reverentias predicto monasterio exhibeat… >>.[177] Il sacerdote, però, non poteva assolutamente essere un monaco.

E’ verso la fine del secolo XI che i monaci iniziarono ad avocare a sé il diritto di adempiere alla cura delle anime, ritenendo di possedere tutte quelle qualità indispensabili per tale ufficio: povertà, castità, vita comune. Il problema delle chiese ubicate presso i monasteri fu discusso al sinodo di Clermont del 1095, in cui venne decretato che il governo spirituale non fosse tenuto da monaci, ma da un prete eletto dal vescovo col consiglio dei monaci. Il sinodo di Poitiers del 1100 stabilì che il clero regolare potesse, su ordine del vescovo, predicare, battezzare, dare la penitenza e seppellire i morti, ma ribadiva che nessun monaco poteva attribuirsi il compito di esercitare le suddette attività.[178]

Molti anni dopo, troviamo, in un atto dell’8 settembre 1293, prete Iacopo del fu Corso di Quarrata, rettore della sopraddetta chiesa che offre per censo una candela di cera da una libbra all’abate del monastero di Morrona Alberto (pisano) nel giorno della festa della Vergine Maria , dimostrazione della dipendenza della pieve dal cenobio.[179]

Il 27 settembre 1212 viene stipulata una transazione tra l’abate Viviano e prete Orlando, cappellano della chiesa dei Santi Bartolomeo e Niccolò di Morrona, il primo, a nome dell’abbazia, promette di non esigere più la decima che << …recoligebat ab omni hominibus de Morrona vel aliquis capellanus suprascripte ecclesie recolligebat pro suprascripta ecclesia de Morrona vel pro suprascrpta abbathia in confinibus Morrone vel extra confines et ubicumque homines de Morrona laboraverin… >>.[180] Venne, inoltre, stabilito che prete Orlando e i suoi successori non avrebbero dovuto dare, oltre la decima che solevano pagare, << …de ovis, et lino et candela pro facto decime que solebant dari suprascrpte abbathie… >>.[181] L’abate, che si era intromesso d’autorità nella pieve e nella rettoria dei SS. Bartolomeo e Niccolò, rinunciò dunque alle decime, ma prete Orlando dovette promettere (per sé e per i suoi successori) di dare al monastero, ogni anno per la festa di san Michele in settembre e per la festa dei Santi, in luogo della decima << …unum modium grani de quarris viginti quatuor et unum modium inter ordeum et mileum et quarras duodecim spelde… >>.[182] In più promise di dare, entro suddetti termini, soldi quaranta di denari pisani, che era solito dare anche agli antecessori dell’abate Viviano.

Se i rapporti tra gli abati del monastero e gli arcivescovi pisani furono piuttosto frequenti e pacifici, quelli con i vescovi di Volterra non lo furono altrettanto,  basta citare tre documenti per capire i rapporti che intercorrevano. Il 21 ottobre 1214, il vescovo di Firenze cerca di “appianare” delle divergenze tra l’abate e l’episcopato di Volterra, quindi proferisce un lodo circa la causa che verteva tra prete Paolo, procuratore del vescovo volterrano da una parte e l’abate Viviano e prete Orlando dall’altra, circa l’obbedienza e riverenza che il vescovo pretendeva dal cappellano. La causa, col consenso delle parti, era stata affidata all’arbitrio del vescovo di Firenze, il quale decide: <<…ut predictus capellanus de Morrona seu plebanus qui nunc est vel pro tempore fuit faciat obedientiam episcopo vulterrano pro populo et abbas de Morrona singulis anni in festo Assumptionis Beate Marie virginis det vel dari faciat iam dicto domino episcopo vulterrano vel suo certo nuntio nomine census pro capella et blebe XV solidi denari vulterrani… >>.[183] Decide, inoltre, che tanto l’abate che il cappellano non possano imporre pubbliche penitenze << …scilicet criminalium peccatorum, nec causas matrimoniales audiant… >>.[184] E il cappellano “vocato ab episcopo” sia tenuto ad andare al Sinodo come gli altri chierici del vescovato.

Il presule fiorentino giudica anche che il vescovo volterrano, nonostante l’obbedienza che gli deve il cappellano, non possa comandargli nessuna cosa che sia contraria al monastero e all’abate o contro la loro libertà, << …nec alias exactione occasionem albergerie episcopus exigat a plebaum vel capellanum vel a plebe seu a capella per se vel per alium de monasterio nihil decimus quia credimus ipsum esse exentur ab anni prestationem et quia presbiter Paulus procurator nihil contra monasterium dicit… >>.[185] Le decisioni del vescovo di Firenze evidentemente non soddisfecero quello di Volterra, infatti il 15 agosto 1219, l’abate Viviano incarica Arrigo fu Ugolinello, suo castaldo, di offrire al procuratore di Pagano quindici soldi volterrani il giorno della festa dell’Assunta nella chiesa di Santa Maria in Volterra, come dal lodo del 21 ottobre 1214. Ma il denaro non fu accettato, quindi << …Arrigus nollet dictum et abbatem in penam incidere et gravamen inde habente dictus Arrigus deposuit dictos denarios sigillatos super altare beate Marie qua est in dicta ecclesia eodem suprascripto die… >>.[186]

L’anno successivo, il 15 agosto 1220, Gerardo fu Mulinari, nunzio dell’abate, è costretto a far rogare un atto in cui si attesta che il denaro è stato depositato sull’altare della chiesa di Volterra dal suddetto Gerardo, perché anche questa volta la somma, consistente in 15 soldi di denaro volterrano, viene rifiutata dal vescovo.[187] Una transazione dell’11 febbraio 1221 sembra mettere fine a queste controversie: prete Giovanni, procuratore del vescovo di Volterra a suo nome, rinuncia ad ogni diritto sulla pieve e sulla chiesa di San Nicola di Morrona, alienando tali diritti a Guido priore di Camaldoli, ricevente per l’eremo e il monastero di Morrona.[188] Anche nel secolo seguente troviamo vari rogiti, in cui l’abate di Morrona corrisponde al presule volterrano un censo annuo di quindici soldi di denaro volterrano per la rettoria dei Santi Bartolomeo e Niccolà di Morrona.

Ma i rapporti che intercorrevano tra i vescovi e gli abati non migliorarono con il tempo, infatti dopo molti anni, nel mese di gennaio 1284, l’arcivescovo di Pisa cerca di fare da arbitro nella secolare controversia dell’ius patronato della pieve e cappella di Morrona tra il vescovo di Volterra e l’abate Gerardo. Il presule volterrano si arroga tale diritto in quanto le due chiese si trovano nella sua diocesi ed episcopato; l’abate afferma che il patronato spetta al monastero, come da tempo immemorabile. L’arcivescovo pisano << …nil aliud possit facere quam contineatur in arbitro supradicto non possum absolutum dare responsum… >>,[189] sia perché esiste il compromesso del vescovo di Firenze del 1214, sia per la bolla di Alessandro IV del 1258, con la quale viene confermato a tutto l’ordine Camaldolese il patrocinio accordato dalla Santa Sede, evidenziando che tutti i monasteri erano uniti come un sol corpo al Sacro Eremo . Il presule pisano stabilisce che << …videtur questio de procurationem, rationem, visitationis qua si exempta est plebes vel cappella non debet visitari et procuratio non debet in rationem visitationis iustitia tam quam in privilegiis reservatur episcopum defraudari non debet… >>.[190] Circa un secolo più tardi, l’8 agosto 1345, quando era abate del monastero Silvestro di Anghiari, l’elezione del pievano di San Bartolomeo e San Niccolò avviene << …ex antiqua consuetudine electio et reformatio dicte ecclesie rectoris nolens quod dicta ecclesia in temporalibus nec spiritualibus substineat per vocationem diutinam? Lesionem inquisirit et requisirit… >>.[191] Sono presenti Coli di Corniano e Cinni Ganucci, consoli del comune di Morrona, i quali concordano per eleggere Niccolò di ser Iacopo di Morrona, già pievano di San Giovanni di Ginestrella. << … dicto presbitero Niccholao de suo ore proprio et suis manibus presentavit rogans eundem ut dictam eletionem debeat acceptare qui presbiter Niccholaus electus et presentatus respondit quod super hiis deliberare volebat et maturim cogitare et de predictis respondebit prout dominus instigabit… >>.[192] Segue l’elezione del pievano << …et nichilominus edictum ad hostium suprascripte ecclesie apponat et effigat et dimittat ita quod eiusdem edicti volentibus possit haberi copia. […] Et capiens? Eum per manum mittens eum in dictam ecclesiam et eius corporalem possessionem mittendo in manus eius hostia ecclesie et claves domorum et funes campanarum et libros et pannos altaris ecclesie suprascripte offerendo eum ante altare cantando solemniter Te Deum laudamus… >>.[193]

I mulini appartenenti al monastero e posti sui fiumi Caldana e Cascina dettero ingenti guadagni ma anche molti problemi agli abati sia nel secolo XIII che in quello successivo: il 3 febbraio 1223, Martino, allora abate della badia, col consenso di Guido priore di Camaldoli da una parte e Upezzino fu Ugolino con Guerriero fu Upezzino dall’altra affidano la loro controversia all’arbitrato di Martino, abate dell’abbazia di San Giusto di Volterra e a Bonaccorso notaio. La lite era sorta a causa del possesso di un mulino, al momento distrutto, posto in luogo detto Pantano, vicino al fiume Cascina nei confini di Soiana e di un acquedotto appartenente al mulino e posto nello stesso luogo. Venne stabilita la pena di 100 libbre di denari pisani nuovi per chi non avesse osservato ciò che sarebbe stato stipulato con la deliberazione. L’abate di Morrona, in presenza di tali arbitri, chiede a Guerriero l’ottava parte e a Upezzino la settima dei beni suddetti, in quanto abitati e detenuti per quarant’anni e appartenenti al monastero da tempo immemorabile; chiede, inoltre, le spese legali e venti libbre di denaro pisano nuovo per spese extra. I due rispondono e negano che tutto ciò appartenga alla badia, ma che sia di loro proprietà, poiché furono comprati da Seragone e Guidone fratelli e figli del fu Molinari di Vico, con rogito fatto da Bonaccorso notaio e per mezzo di un’altra compera fatta da Bonaccorso fu Orlandino ricevente per Berta sua moglie, con rogito del notaio Bartalochi fu Grillo, e per donazione della quarta parte fatta da Molinari con rogito di Bertolochi notaio. La lite continua restando ferme le due parti. L’abate insiste per fare annullare i suddetti contratti e riportare le cose allo stato primitivo. Dopo avere analizzato i vari documenti a loro disposizione i guidici deliberano << …per laudum sive laudamentum et amicabilem compositionem ita diffiniorem laudarem et pronuntiaverent que dictum molendinum et locum in quo dictum molendinum conservit esse et aqueductum eius gora eius et ruptarium et aquatarium que et que olim fuere suprascripti molendini vel ad eum pertinere aliquo modo… >>.[194]

Da una vendita del 1228, veniamo a conoscenza che Martino abate di Morrona vende, col consenso dei suoi monaci e per utilità del monastero, un mulino posto in luogo detto Pantano nei confini di Cevoli, a Upertino fu Ugolino e per la valutazione dell’immobile sono chiamati prete Giovanni rettore della chiesa di Morrona e Uberto fu Ventura, non leggibile la stima, pena cento libbre.[195] Quindi, cinque anni dopo la lite il mulino torna ad Upertino o Upezzino, ma l’anno successivo 1229 (AVV, sec  XIII, dec. III, n. XXVII) lo stesso Upezzino vende a Martino abate il mulino sopraddetto per cento libbre di denaro pisano, pena il doppio, << …cum macinis et aquiductis et cum omnibus suis pertinentiis et omnia iura… >>.[196] La sorte del mulino sembra non essere ancora definita: nel 1239, lo stesso Upertino lo vende di nuovo al monastero di Morrona, rappresentato dall’abate Simone, sempre con ogni sua appartenenza  e terreno circostante.[197]Alla fine il mulino viene dato in locazione dall’abate Simone a Boninsegna fu Brinichi.[198]

Il 15 dicembre 1230, in seguito ad un reclamo fatto da Uguccione, sindaco e procuratore del monastero contro Gerardo fu Ianuensis di Morrona, il cenobio ottiene la restituzione della metà “pro indiviso” di otto pezzi di terra posti nella zona circonvicina all’abbazia e quattro libbre di denari per le spese sostenute. I giudici, Rosselmino Malabarba e Uguccio fu Pandolfi Alberti, essendo Gerardo contumace non emettono una vera e propria sentenza, ma stabiliscono che entro l’anno Gerardo si presenti davanti ai giudici, altrimenti il monastero entrerà in possesso di tutti i suoi beni e dovrà anche pagare quaranta soldi per le spese.[199]

E’ del 9 novembre 1231 una transazione, in cui Tedisco fu Venaccio di Morrona mette fine alla lite vertente tra lui e Uguccione, sindaco del monastero a causa di un pezzo di terra campia posto nei confini di Aqui nel piano del fiume Cascina vicino al bosco della badia, rinunciando ad “omni iure et actionem” su questo terreno, pena il doppio della stima per sé e per i suoi eredi; Uguccione offre la remissione dei peccati.[200] L’anno successivo, il 20 di maggio, lo stesso Uguccione presentava ai consoli di Soiana, Ugo e Magliavacca, delle lettere scritte da Tedicio, capitano della Valle d’Era, affinché i pastori e gli animali del monastero potessero continuare a pascolare nei confini di Soiana come era sempre stata consuetudine (sotto giuramento), con pena di cento soldi per chiunque avesse trasgredito entro tre giorni, altrimenti avrebbe preso provvedimenti entro sei giorni, in quanto a lui spettava tale ufficio.[201]

Il 27 maggio 1232 il priore della chiesa di San Paolo a Orto, delegato del papa, è arbitro nella controversia sorta tra Paccino fu Durazzo di Morrona fatto citare da prete Giovanni, cappellano della chiesa e l’abate Martino, il quale ultimo chiede la restituzione di un pezzo di terra con vigne ed alberi e ogni competenza, posto nei confini di Morrona in luogo detto Valle con altri terreni; il priore acconsente alla restituzione, Paccino è contumace.[202]

Il 19 luglio 1236, Pagano vescovo di Volterra e Michele abate di Morrona nominano arbitro dello loro controversie Benedetto, abate d’Elmi e rettore della chiesa di San Martino. L’abate pretendeva che la pieve e la cappella di Morrona appartenessero “in spiritualibus” e “in temporalibus” al monastero in piena proprietà e che fossero completamente libere dalla giurisdizione vescovile, inoltre l’abate voleva pagare al vescovo per la pieve e la cappella solo quindici soldi di moneta volterrana. I loro rettori dovessero prestargli obbedienza e partecipassero al Sinodo come stabilito dall’arbitrato del 1214. Il presule volterrano accorda alcuni privilegi << …super decimis, mortuariis et aliis rebus… >> e concesse a prete Enrico, << …quo se gerit pro plebano plebis Sancte Marie seu Sancti Iohannis de Morrona… >> ad eccezione di quanto stabilito nel documento del 1214.[203] Questa carta ci fa capire quanta stabilità avessero tali contratti, accomodamenti, lodi, compromessi, basta confrontare questo rogito con quelli relativi al 21 ottobre 1214 e 11 febbraio 1221 e capire la precarietà di ciò che veniva stabilito, frutto, senza dubbio, di accordi presi tra i contraenti a favore delle loro convenienze.

Dopo pochi mesi, il 10 dicembre 1236, il priore camaldolese presentò all’arcidiacono fiorentino Mugnaro le lettere apostoliche chieste contro prete Enrico del Collemontanino, poiché il priore pretendeva che l’istituzione della pieve di Morrona appartenesse a se stesso e sostiene che don Enrico si sia intromesso “in suum preiudicium et gravamum” in essa. Prete Enrico si difende dicendo che quel rescritto apostolico era surrettizio, perché era stato omesso di dire che la detta pieve era nella diocesi di Volterra ed era stata dotata di diversi privilegi dal vescovo di quella diocesi e che era stato taciuto anche che il vescovo di Volterra si trovava in possesso o quasi di eleggere il pievano di essa << …et in eo qued existit tacitum qualiter episcopus vulterranus est in possessione vel quasi iuris eligendi plebanum in ipsa … >>.[204] Prete Enrico sostenne anche che il detto decreto fosse arbitrario per essere stato ipotizzato che si fosse intruso nella chiesa, quando invece era stato istituito dal vescovo di Volterra. L’arcivescovo fiorentino così si pronunciò: << …nullam eorum tanquam dilatoriam admittendam esse, nec aliquam ex ipsis admitto, presertim cum earum quedam pertineant ad negotio principale… >>.[205]

Le controversie tra l’abate del monastero e prete Enrico continuarono, ma nel frattempo fu rogato un atto dal notaio Pellegrino il 16 aprile 1237, in cui quattordici uomini di Morrona giurarono fedeltà all’abate e ai suoi successori.[206]

Il 27 aprile 1237, ancora una disputa tra l’abate Martino e il vescovo di Volterra Pagano è causata dalla nomina del vescovo diretta a Enrico come pievano della chiesa di Collemontanino nella diocesi di Pisa. L’abate e il prete Enrico nominarono arbitri di tale controversia Martino, abate di San Michele in Borgo di Pisa, Giovanni pievano di Pava, Scotto fu Bernardo del Collemontanino e Bonaguida fu Ardizzone, ma, il 13 maggio dello stesso anno, troviamo come arbitri solo Martino e Scotto.[207] Finalmente nella sentenza emessa il 9 agosto, essendo contumace prete Enrico, i due giudici riconobbero le ragioni dell’abate, al quale il pievano doveva restituire la pieve e i suoi beni, la sua nomina ed istituzione furono dichiarate nulle.[208]

Il 15 ottobre 1241, Guido, priore di Camaldoli, delega Michele monaco dell’Eremo, di precedere all’elezione dell’abate di Morrona in sostituzione di Simone deceduto il 4 ottobre. L’incaricato del priore, dinanzi a Guido e Bruno, monaci della badia di Morrona e Spinello, Morronese, Bernardo, Martino conversi, dichiara che l’elezione dell’abate da tempo immemorabile spettava pleno iure al priore di Camaldoli, quindi elegge il nuovo abate nella persona di Benedetto, già camerario di Camaldoli, (segue un’ampia spiegazione della cerimonia). Il giorno successivo, sempre davanti ai testimoni, stabilisce che per ciò che si riferisce ai beni mobili ed immobili appartenenti al cenobio, << …ut de cetera non vendat vel alienat seu in feudum novum et iure feudi novi det alicui mundi persone vel personis de possessionibus et rebus immobilibus dicti monasterii… >> senza il consenso del priore di Camaldoli e del capitolo dello stesso cenobio, pena la scomunica.[209]

Un documento del 31 marzo 1250, ci fa capire che l’abate doveva contrastare anche con prete Enrico, pievano della pieve di Morrona, il quale attribuisce a sé e ai suoi successori il diritto di scegliere il cappellano della chiesa dei santi Bartolomeo e Niccolò dello stesso luogo, inoltre rivendica il potere di investire i cappellani sulle cose spirituali e temporali. Il notaio Bonaccorso fu Spinelli di Morrona, sindaco del monastero mise fine a questa disputa e prete Enrico, che inizialmente insiste nel dire  che l’abate e gli altri uomini presenti avevano torto, dovette rinunciare alle suddette pretese, pena duecento libbre di denari pisani.[210]

In uno dei soliti privilegi pontifici a favore dei Camaldolesi emanato da Innocenzo IV il 29 novembre 1252 si trova menzionata anche la badia di Morrona., cui seguono due bolle pontificie relative al 5 e 28 aprile 1255, indirizzate all’abate del monastero di Morrona in favore del patronato sulla chiesa di Montanino, nonostante la cessione di Scotto del fu Bernardo e del figlio Gregorio del 1242, papa Alessandro IV dovette intervenire contro il rettore della pieve di Aqui, il quale aveva istituito il rettore della pieve di montanino, andando contro la << …antiqua et approbata et hactenus pacifice observata consuetudine… >>, che ne attestava il diritto al monastero.[211]

Il giorno della festa dell’Assunta, cioè il 15 agosto 1255, Michele, abate di Morrona, dà a Domenico, monaco del monastero di San Giusto di Volterra, rappresentante Ranieri vescovo di questa città, quindici denari pisani d’argento, per soddisfare l’arbitrato e il provvedimento già stabilito da Giovanni vescovo di Firenze per la pieve e la cappella di Morrona, di cui il monastero detiene l’ius patronato ed ogni pertinenza.[212] Il documento è rogato da Filippo fu Baroni notaio e si riferisce ancora a quel lodo emesso dal vescovo di Firenze nel 1214, con cui il presule stabilì che l’abate di Morrona pagasse di censo quindici soldi di denari volterrani, censo che poi fu rifiutato dal vescovo di Volterra nel 1219. Lo stesso notaio stipula un’inibitoria, l’8 settembre 1255, che Michele abate, fa al prete Danesi, rettore della cappella di San Nicolò di Morrona, affinché non paghi nessuna colletta al vescovo di Volterra e che non presti nessun servizio segreto o manifesto al presule in pregiudizio dei diritti del monastero e qualora questi imponesse qualche elemosina, non agire senza il consenso dell’abate. Dopo un anno esatto, l’abate Michele viene trasferito da Morrona al monastero di San Zeno di Pisa; Mainetto, abate di San Michele d Pisa e delegato dal priore di Camaldoli lo elegge abate del suddetto monastero << …ac induxit in corporalem possessionem predicto monasterio tangendo muros dicte ecclesie cum ingredi non possent dicta ecclesia et sic tangendo portam clausam dicti monasteri non valentibus ingredi ipsum claustrum eodemque die dictus Michael promisit obediantia iuxta regulam… >>.[213]

Il 13 ottobre 1257, il monastero di Santa Maria e San Benedetto di Morrona riceve la visita e la riforma fatta da Ranieri, eremita camaldolese, visitatore e vicario di Martino priore di Camaldoli. In primo luogo fu interrogato l’abate Michele, davanti al notaio Orlando di Bonaccorso di Morrona, relativamente alle cose temporali e spirituali. Dopo avere descritto minuziosamente questi due argomenti, si procede alla stesura del rogito, redatto dal suddetto notaio.[214] Non differisce molto l’altra visita reperita, risalente all’8 agosto 1345, in cui Iacopo, abate del monastero di San Pietro in Pozzuoli e Bartolomeo, priore di Santa Maria in Valle Perugina, nominati visitatori dell’Ordine dal priore di Camaldoli Giovanni, visitano il monastero di San Giusto di Volterra e poi quello di Morrona. Dall’ispezione tutto risulta nella norma. L’atto fu rogato nel capitolo del monastero da Antonio di Bonaguida di Morrona alla presenza di Francesco di ser Nello di Arezzo e Blasio fu Vanni di Città di Castello testi.[215]

Il 22 luglio 1260, Iacopo, arciprete e vicario del vescovo di Volterra e i monaci del monastero di San Giusto dello stesso luogo, eleggono abate del medesimo cenobio Michele, già abate di Morrona. La confermazione di tale elezione avviene il 31 luglio << …Idem domino Michael abbas S. Iusti putuit humiliter confirmationem a domino Martino abbate de Cerreto vicario seu delegato domini Iacobi prioris camaldulensis super dicta electione facienda, quam obtinuit cum administratione promisiti que manualem obedientiam… >>.[216] Dopo pochi mesi, il 28 maggio 1261, Bartolo, vicario generale di tutto l’Ordine Camaldolese, fu incaricato da Iacopo, priore dell’Eremo << …prehabita renunciatione in suis manibus facta per domino Michaelem, qui segerebat pro abbate S. Iusti de Vulterris, eo quia in preiudicium provilegior ordinis receperat confirmationem a vicario domini electi vulterrani, eidem domino Michaeli confirmationem contulit in..o potius elegit… >>.[217]

E’del 20 febbraio 1275 una transazione tra Gerardo, abate del cenobio di Morrona e alcuni uomini del comune del Bagno a Aqui, avente ad oggetto la definizione di una vertenza relativa alla manomissione del bagno, pena cento marchi d’argento.[218]

Il 28 agosto 1278, Tarlato di Arezzo, potestà di Pisa, il capitano Rinaldo da Riva e gli Anziani del popolo di Pisa avendo appreso che, a danno del Comune di Pisa e del Monastero di Morrona, da parte di alcuni, erano stati fatti dei nuovi lavori nel Bagno ad Aqui e nel suo acquedotto, lavori che avevano danneggiato gravemente le immunità del cenobio. Quindi le persone menzionate scrivono ai consoli, ai sindaci, al Consiglio e al Comune di Aqui perché si conservino illesi i diritti del Comune di Pisa e del monastero e dispongono di far togliere tutte quelle novità e le fosse che erano state fatte nel Bagno e nell’acquedotto, dove erano i mulini della badia, fino al fiume Cascina, che tutto fosse rimesso allo stato primitivo e che in futuro non fossero fatti lavori che potessero portare danno sia al Comune di Pisa che al monastero di Morrona. Ma i consoli di Aqui fecero, probabilmente, orecchie da mercante, infatti segue un altro documento in cui vengono rinnovate le stesse disposizioni. Dalla testimonianza di vari testimoni si rileva che le novità consistevano in alcune deviazioni di vari corsi di acqua, lasciando i mulini della badia senza acqua, quindi non erano in grado di macinare, perché l’acqua riprendeva il consueto corso sotto i mulini.[219] Il 25 settembre 1278, il Comune di Pisa, in persona del notaio Leopardo, affermò che non avendo il vescovo di Volterra alcuna giurisdizione sul medesimo Comune, non aveva la facoltà di dare ordini circa la controversia tra il monastero di Morrona e il pievano di Aqui, come invece aveva fatto con sua lettera al podestà, agli anziani, al capitano e al consiglio di Pisa.[220] Su questa controversia viene trovato un accordo il 29 ottobre 1278, quando Jacopo eremita camaldolese, visconte e procuratore dell’Eremo e priore di Camaldoli e Gerardo abate del monastero da una parte e Feo pievano della chiesa di Aqui dall’altra, il quale era responsabile della deviazione delle acque e che da tempo cercava di dare fastidio al monastero circa l’uso dell’acqua per i mulini, quindi in nome di detta chiesa, promette di rilasciare in futuro sempre libero il corso delle acque per i detti mulini e di rinunciare a qualsiasi privilegio e diritto che aveva sopra i medesimi. Per questa promessa e rinuncia il pievano riceve un pezzo di terra posto in luogo detto Pantano, col patto di aggregarlo ai beni della sua pieve e di non alienarlo mai sotto qualsiasi titolo.[221]

Il giorno della festa principale del monastero, e della pieve di Morrona (8 settembre 1293), prete Iacopo fu Corso di Quarrata, rettore della chiesa di Montanino, offre ad Alberto pisano, abate del monastero, per censo un cero di una libbra.

Il primo gennaio 1297, con un rogito viene annullato << …revocavit, cassavit et irritavit et nullius valoris esse voluit ipsum perpetuo per hoc presens instrumentum annullanza… >> un atto in cui Ugo Guitti, giudice e cittadino pisano, dà al monastero di Santa Maria sei staia di grano l’anno << …iure perpetuo in fedum contra iura et statuta Camaldulensis ordinis sine consensu licentia et auctoritate prioris camaldulensis sub cuis iurisditione est dictum monasterium… >>.[222] Ciò era stato stabilito da Gerardo “olim” abate del monastero senza il consenso del priore dell’Eremo.

L’abate pro tempore di Santa Maria di Morrona e i suoi predecessori avevano concesso ad alcuni laici e chierici a vita o a censo annuo, decime, terre e altri beni, ledendo però i diritti del monastero, quindi papa Bonifacio VIII essendo venuto a conoscenza di tale situazione, con suo breve del 17 aprile 1300, incaricò, come accennato precedentemente, il pievano della pieve di Chianni di rivendicare per il cenobio tutti quei beni che erano stati alienati illegittimamente.[223] Cinque anni dopo, il 6 agosto 1305, troviamo che Duccio fu Corrado di Morrona, di sua spontanea volontà, dichiara a Leopardo di Orlando, notaio dello stesso luogo e sindaco e procuratore del monastero, che vari pezzi di terre, posti nei confini di Morrona, sono di proprietà dell’abbazia con tutte le loro appartenenze. Duccio confessa che queste terre sono da lui lavorate e avute in affitto e censo, quindi restituisce l’affitto, il censo e il reddito. Molti dei toponimi di queste terre sono rimasti invariati, ciò rende possibile la loro ubicazione.[224]

Venuto a mancare prete Neri rettore della chiesa dei SS.  Bartolomeo e Nicolò, il 27 aprile 1311 fu eletto “Folle dicte Folluccie clerico quondam Berti”. L’elezione fu fatta nel coro della chiesa del monastero dall’abate Bartolo, “pro una voce tantum ex causa iuris patronatus” e da Nuccio fu Cioni e Vanni fu Pucci Fabbri, consoli del comune di Morrona “alia voce tantum”.[225]

E’ del 2 o del 5 gennaio 1312 un’istanza fatta al potestà di Pisa Federico di Montefeltro, capitano generale del Comune e del popolo pisano, in cui si dice che per molti privilegi e concessioni papali e donazioni fatte al cenobio di Morrona, tra le quali anche quella del Bagno ad Aqui e dell’Acqedotto dello stesso Bagno fino al fiume Cascina. Viene rievocato ciò che era accaduto molti anni prima, cioè la deviazione delle acque fatta da Feo, pievano della pieve di Aqui. Da questo documento veniamo a conoscenza che il monastero possedeva lungo l’acquedotto cinque mulini tuttora attivi e che nessuna persona ha potuto in passato, né può costruire al presente ed in futuro alcun mulino nel detto acquedotto. Ciò viene specifcato perché l’anno precedente la Repubblica di Pisa, mentre era potestà Federico di Montefeltro, aveva fatto restaurare vari bagni delle terme di sua appartenenza, tra questi figura anche quello di Aqui, era stato fatto un nuovo condotto per lo scarico delle acque delle terme, ma tutto questo fu fatto con criterio di non danneggiare nessuno.[226]Temendo che i mulini del monastero venissero danneggiati o addirittura che fossero costruiti nuovi mulini, l’abate ricorre al potestà e fa istanza perché fosse provveduto a far  rinnovare e rispettare ciò che era stato stabilito anni prima, che senza l’espressa volontà dell’abate fosse vietato costruire nuovi mulini sopra il nuovo canale.[227] Subito dopo, nei primi mesi del 1313 un documento attesta una convenzione fatta da Donzeno, sindaco e procuratore del monastero, a Ugolino fu Corso e Ferrante, per la quale si dava ordine di riordinare, murare, tagliare siepi ed ogni altra cosa che poteva nuocere ai mulini posti nel canale che da Aqui andava fino al fiume Cascina.[228] Se molti anni prima era stato chiuso il nuovo canale come per volontà dell’abate del monastero, ora il nuovo acquedotto viene lasciato per utilità delle Terme. Gli abati erano molto potenti e accaniti difensori dei loro beni, per cui questa istanza fu fatta con molto impegno dall’abate, tanto che la descrizione dei fatti passati e presenti sembra molto forzata ed esagerata. Certamente il nuovo canale fatto fare dal Montefeltro aveva un’altra direzione e, come il vecchio, andava a scaricare le acque prima nel Caldana e poi nel Cascina e questo poteva dare luogo all’edificazione di altri mulini. La “gelosia” degli abati per i mulini e per il canale è evidente anche quando “Vanne Domini Guidonis de Vade”, cittadino pisano, vuole edificare un mulino Sul fiume Caldana nei pressi del Bagno di Aqui, nell’anno 1325 (4 giugno); la reazione dell’abate e dei monaci la possiamo immaginare: divieto assoluto di fabbricazione, perché per i monaci tale acquedotto apparteneva all’abbazia da tempo immemorabile.[229] Non arrivando a nessuna conclusione ed accordo, nell’agosto dell’anno successivo, troviamo che era stato proposto che l’abate vendesse a Vanni un pezzo di terra presso un altro già di sua proprietà e dell’acquedotto di Caldana. L’abate scrive una lettera a Bonaventura, priore di Camaldoli ed ottiene di vendere il pezzo di terra per un prezzo conveniente a Vanni, col vincolo, però, di non potere edificare il mulino.[230] Ma un rogito del 24 luglio 1325, ci informa che Bartolo, abate del monastero morronese, col consenso dei suoi monaci e di Antonio da Verghereto, riuniti nel capitolo del cenobio di Morrona, << …fecit, constituit atque ordinavit suum et dicti monasterii procuratorem et nuntium spiritualem presbiterum Michaelem quondam Pardi de Corniano, rectorem Sancti Bartholi de Morrona, presentem et suscipientem in omnibus et singulis casis litibus et questionibus… >>, la lite era originata << …per iactum trium lapillorum et alium modum quemqumque dicto sindico et procuratur videbitur omnibus et singulis construentibus vel edificantibus aut construere vel edificare volentibus aliquid edificium super aqua seu cursu aut aqueductu aut alveo aque Caldane Balnei de Aquis a dicto Balneo usque in flumine Cascine vel in alio quocumque loco dicti monasteri aut dicto monasterio pertinente… >>.[231] L’abate dà l’incarico al procuratore di far valere i diritti del monastero.

Il 28 marzo 1303, Ugo Guicci, giudice e avvocato della chiesa di Santa Maria di Morrona, davanti a Guidone notaio e teste, << …liberavit et absolvit fratrem Nicoluccium, monacum et sindicum suprascripte ecclesie et monasterii Sancte Marie, […] domino Ugoni dare et solvere tenetur et debet per suo salario et mercede usque ad festum Sancte Marie de augusto… >>, davanti a Guidone notaio e testimone, Niccolò <<    …dedit et solvit suprascripto domino Ugoni… >> libbre nove e dodici soldi di denaro pisano. Ugone promette di dare nella stessa festa sei staia di grano. [232]

Un rogito datato 26 luglio1317, mette fine ad una contestazione tra Iacopo, notaio di Morrona del fu Bartolomeo e Bartolo, abate del monastero,  per un pezzo di terra con “fichi et remore” e ogni pertinenza, confinata e posta presso Morrona.[233]

Il 12 settembre 1323, Bartolo, abate del monastero di Santa Maria, davanti a Michele notaio, presente come teste, interroga personalmente Giustino fu Miglio di Morrona circa un pezzo di terra, parte campia e parte boscata, posto tra Soiana e Morrona, in luogo detto Stibbiolo con i suoi confini e proibisce a Giustino di lavorare ed entrare nel detto terreno, in quanto di proprietà del monastero. << …ab hodie in antea non intret nec intrare debeat, aut laboret seu laborare debeat vel faciat laborari petium unum terre… >>.[234]

Il 13 settembre 1331, Antonio procuratore del monastero, a nome dell’abate, fa rogare un atto in cui << …inibuit et vetuit Vanni quondam ser Nini de Morrona, que tenet et conducit… >> tre pezzi di terra: il primo con olivi in luogo detto L’Aia Vecchia, confinato; il secondo con fichi e altri alberi in luogo detto Chiusura, con i suoi confini; il terzo vignato in luogo detto Scopeto, confinato. Presentemente questi pezzi di terre non vengono lavorate dal suddetto Vanni, al quale viene chiesto un risarcimento di 25 lire di soldi pisani, perché non lavorando bene queste terre, fa un torto all’abate e al monastero.[235]Tali documenti fanno capire, ancora una volta, quali fossero i rapporti tra gli abati e i laici, specialmente in tempo di decadenza dell’abbazia, queste continue controversie fanno supporre che insieme alla progressiva diminuzione di prosperità si aggiungesse anche il declino del potere.

Il 23 gennaio 1335, essendo vacante la chiesa di San Lorenzo di Montanino, l’abate di Morrona Bartolo, patrono della suddetta chiesa, procede all’elezione del nuovo rettore, nella persona di Gregorio, fiorentino, monaco camaldolese.[236] Nello stesso anno, il 26 marzo 1335, Bonaventura, priore di Camaldoli, essendo vacante l’abbaziato del monastero di Morrona, nomina abate Bartolo “de Eugubio”.[237]

Con bolla emanata da Clemente V, il 24 maggio 1313, viene eletto il nuovo abate di Morrona nella persona di Pietro di San Salvatore di Selvamonda, della diocesi di Arezzo, l’abbaziato cenobitico era vacante, per il passaggio dell’abate Bartolo al monastero di San Giovanni di Borgo San Sepolcro.[238]

In data 8 agosto 1345, Silvestro di Anghiari, abate pro tempore del cenobio di Morrona, essendo da molto tempo vacante la rettoria della chiesa dei Santi Bartolomeo e Niccolò, nomina rettore della medesima chiesa, di cui gli abati avevano, per antica consuetudine, lo ius patronato, prete << …Nicholao nato ser Iacobi capitanei de Morrona, plebano Sancti Iohannis de Ginestrella…>>, chiedendo consiglio circa la nomina a “Dottuccium Coli de Corniano et Cinum Ganuccii de Morrona”, consoli dello stesso comune. Nel documento viene descritta la cerimonia dell’immissione nel possesso della chiesa.[239]

Le guerre tra Pisani e Fiorentini avevano demolito, distrutto, diroccato tutti i castelli del contado e devastato i raccolti, anche la badia di Morrona certamente ne patì le conseguenze e dopo la caduta di Pisa sotto il potere di Firenze,  il 9 ottobre 1406, quando i fiorentini guidati da Gino Capponi, riuscirono ad impossessarsi della città pagando con 50.000 fiorini il capitano del popolo Giovanni Gambacorta che fece aprire la porta di San Marco. Anche la badia divenne di dominio fiorentino e il monastero non poté più contare sul sostegno di Pisa e tantomeno su quello dei vescovi di Volterra, nonostante la badia si trovasse nella diocesi di questa città, d’altra parte i rapporti con il vescovato volterrano non erano mai stati molto tranquilli, infatti vedremo che proprio il prelato di Volterra sarà la causa della fine di questo monastero.

Il 5 maggio 1408 Agostino Moriconi, abate del monastero di San Pietro di Pozzuoli delega Orlando, abate di Morrona di agire in sua vece nella futura elezione del nuovo priore di Camaldoli.[240]

Nonostante il potere di questo monastero fosse decaduto, gli abati continuarono a far valere i propri diritti, per quanto era loro possibile, anche nel secolo XV. Il 3 di giugno 1454 l’abate pro tempore ottenne dagli “Ufiziali Rerum et Bonorum Rebellium et Bannitorum Communis Florentie” la revoca della licenza accordata agli uomini del comune di Bagno a Aqua e di Parlascio di poter costruire un mulino atto a macinare con le acque che uscivano dalle terme, cioè da quell’acquedotto che fu costruito quando era potestà di Pisa Federico di Montefeltro, contro i loro privilegi e diritti. Ma il 25 luglio dello stesso anno, sembra che l’abate e i suoi monaci avessero cambiato idea, infatti trovano un accordo con i Comuni di Bagno a Acqua e Parlascio. In questo documento viene esposto che il monastero aveva posseduto in passato cinque mulini nel corso delle acque delle terme e che i contadini dei luoghi circonvicini avevano avuto grandi vantaggi per macinare, ma le guerre tra Pisani e Fiorentini li avevano distrutti in buona parte, creando forti disagi a coloro che dovevano macinare. Per sopperire a queste difficoltà gli abitanti dei comuni vicini avevano pensato di fabbricare un mulino sul canale che veniva dal Bagno, cioè quello che era sempre stato negato e proibito dagli abati, i quali sostenevano che fin dalla fondazione della badia, il corso delle acque delle terme era sempre stato di loro appartenenza e viene citata la donazione del conte Ugo. Finalmente venne concordato che gli uomini dei vari comuni interessati potevano costruire un mulino con casa, idoneo a macinare sopra il tanto discusso canale: << …Et teneantur solvere uomine annui census in festa Beate Marie de mense septembris unum candelabrum cere libre unius… >>.[241]

Gli ultimi documenti relativi al XV secolo risalgono al 16 giugno 1462 e al 15 marzo 1464: il primo si tratta di un mandato di procura fatto da Iacopo di Andrea da Galatea, abate di Morrona a Benedetto del fu Masco di Andrea suo nipote e priore di Santa Maria di Vincareto, per rinunciare a suo nome alla suddetta badia di Morrona e rimetterla nelle mani del pontefice (Pio II) o di Mariotto, priore dell’Eremo e generale di tutto l’ordine Camaldolese, documento citato precedentemente.[242] Il secondo è un breve di Pio II diretto al priore di Camaldoli, con cui ordina di costituire un usufrutto su un bene del monastero di Morrona a Iacopo, il quale fu abate del cenobio, per poter condurre una vita decente e per ripagarlo di un credito di 200 fiorini che in passato aveva fornito al monastero per avere dovuto sostenere una lite, probabilmente si tratta di spese legali.[243] Seguono quattro bolle pontificie, una di Paolo II del 1467; le altre tre di Sisto IV datate rispettivamente: 1476; 1478; 1483, in cui si dice dei beni del monastero annessi alla Mensa vescovile di Volterra.[244]

Capitolo IV. La presa della badia

 La soppressione del monastero è documentata nei particolari da Pietro Delfino, Generale dell’ordine Camaldolese, in una lettera (in latino) del 13 settembre 1482, diretta a Ventura, abate dell’abbazia di San Michele di Murano, la cui traduzione fa perdere molta dinamicità alla stessa. Il Generale camaldolese scrive all’abate che era dovuto restare alcuni giorni a Siena, perché al suo arrivo era assente il Protettore; il giorno seguente, di buon mattino, arrivarono Antonio da Orvieto e Andrea d’Aquileia, figlio della sorella del cardinale di detta città, i quali portarono la notizia della morte dell’abate di Morrona e insistettero perché il generale Camaldolese si recasse subito a quella abbazia.[245]

Partito da Siena, in quello stesso giorno, arrivò a Morrona il giorno seguente e nonostante avesse sperato in una calda accoglienza, scrive il Generale molto impermalito, a fatica fu fatto entrare dopo due lunghe ore di attesa: << …Ubi sperantes grate nos admittendos, vix duarum horarum spatio impetrare potuimus ingressum… >>.[246]

I monaci e gli uomini del castello di Morrona avevano, nel frattempo, eletto abate don Mauro e, temendo che il Generale e il suo seguito potessero eleggere un altro, non permettevano loro di entrare nel monastero. Nello stesso tempo arrivò un parente di Antonio de’ Pazzi con molti cittadini fiorentini, ai quali fu subito aperta la porta.[247] Pietro Delfino non nascose la propria ira per l’indegnità del fatto: veniva escluso il legittimo superiore religioso mentre erano intromessi arbitrariamente dei laici: << …Non potuimus non moveri admodum indignitate rei, quod excluso religionis patre, laici admitterentur pro arbitrio… >>;[248] quindi, fece ordinare di riferire a don Mauro che se gli era impossibile farli entrare, almeno lui venisse alla porta, minacciandolo che se avesse rifiutato la proposta si sarebbero rivolti contro di lui in modo molto più deciso: il Generale era disposto ad attendere un’ora non di più, prima di procedere giuridicamente contro il neoeletto come ribelle e disprezzatore dell’autorità. Don Mauro ebbe paura di ciò che aveva detto il Generale e andò alla porta seguito da molte persone, con parole di scusa verso se stesso e verso gli uomini che custodivano il monastero, dicendo che essi non volevano altro abate che lui, inoltre supplicò umilmente il superiore di dare conferma alla propria elezione.

Fatti entrare nell’abbazia, fu concesso il perdono da parte del Generale, ma non la conferma dell’elezione, perché prima della partenza da Siena, Pietro Delfino aveva mandato a Firenze un ambasciatore al Priore degli Angeli, perché accettasse la nomina di abate di Morrona.[249]

Poco tempo dopo arrivò Bartolomeo Soderini, vicario del vescovo di Volterra Francesco Soderini, fratello del futuro gonfaloniere di Firenze Pier Soderini (compendio di immoralità e corruzione curialesca) per prendere possesso dell’abbazia in nome del suo vescovo, ma non gli fu permesso nemmeno di avvicinarsi all’edificio, quindi ripartì pieno di furore. Il vento di fronda, che per secoli è spirato tra il vescovato di Volterra e il monastero si fa ora più forte e il presule volterrano, il giorno dopo all’alba, approfitta e parte “manu armata” con i suoi soldati alla conquista della badia. Con i suoi duecento uomini armati entrò nel castello di Morrona, cominciò a minacciare il popolo e ad ordinare che non gli si opponessero: << …abbatiam Morrona sua esse, eamque si aliter non posset, per vim expugnaturum… >>.[250] Nel frattempo da Morrona e da altri luoghi circonvicini erano arrivati molti laici per difendere il monastero con qualsiasi genere di armi e si erano disposti alle porte, nei punti più vulnerabili, sopra i tetti per sorvegliare il nemico e vigilare. Non ancora finito il pranzo fu gridato l’allarme per l’arrivo del drappello vescovile: in un attimo tutti gli uomini armati si disposero sui tetti, sui muri, alle finestre per respingere con spade, frecce, spingarde ed altre armi di fortuna il nemico. Ma l’arrivo di Macerio impedì la lotta che certamente sarebbe stata feroce, inoltre agli uomini ordinò di tornare alle proprie case pena la testa. [251]

Per tre ore Pietro Delfino e gli altri cercarono di persuadere Macerio a procrastinare l’investitura al vescovo, almeno finché essi non avessero ottenuto udienza a Firenze. Fu fatica sprecata, perché egli insistette nel dire che doveva eseguire gli ordini ricevuti e adempire il mandato.

Il Generale Camaldolese scrisse subito una formale protesta e accusa << …ad dominium hac de re , plurimum conquesti de illata nobis ab episcopo injura… >>,[252] poi affidato il monastero a don Mauro, che, per la venuta del vescovo, era stato frettolosamente confermato abate, si dispose a partire, dopo avere avuto dal neo abate la promessa di difendere con ogni mezzo i diritti del monastero a Roma e dovunque fosse necessario.

Il Generale partì in fretta per non vedere con i propri occhi il momento in cui il presule volterrano avrebbe fatto il suo ingresso nella badia, poco dopo arrivò il Priore degli Angeli, ma appena fu informato della partenza di Pietro Delfino ed anche che il vescovo aveva già occupato il monastero, ritornò subito a Firenze: << …supervenit eadem hora prior Angelorum, qui ubi comperit minime nos adesse, et episcopum iam obtenuisse monasterium, Florentiam rediit… >>.[253]

Il giorno seguente il Generale arrivò a Siena con il suo seguito e riferì, addolorato e mesto per gli inutili sforzi, l’accaduto al cardinale protettore, esternando l’amarezza e la meraviglia di vivere in tempi e tra gente che permettevano di essere cacciati vergognosamente dalle proprie case per consegnarle ad estranei, oltre la rapina delle rendite dei monasteri. Il Cardinale lo consolò, lodando la sua diligenza nel difendere l’abbazia, << …qua non stetisset per nos, quin ordini servaretur… >>,[254] inoltre, lo esortò a stare di buon animo e gli disse di ascrivere all’infelicità dei tempi ciò che era accaduto, << …Hortari ut bono animo essemus, quodque accidisser, temporum infelicitati adscriberemus, quatenus immunis a calamitatibus inveniretur nemo… >>;[255] ma che non sempre la spada del divino furore sarà affilata contro di loro e verrà un giorno in cui ci sarà una serena pace per il popolo cristiano, infine promise, che al suo ritorno a Roma, avrebbe fatto tutto il possibile contro la prepotenza dell’invasore del loro monastero.

La lettera fu scritta da Fontebono, il 13 settembre 1482.[256]

I beni del monatero furono assegnati alla Mensa vescovile di Volterra e l’edificio fu trasformato in residenza estiva dei prelati volterrani fino al 1868, quando fu espropriato alla Chiesa e venduto a privati.

 APPENDICE

LISTA DEGLI ABATI

Martino         1092

Eriberto         1098

Gerardo         1101-1123

Guido            1128

Gerardo         1133-1139 (menzionato fino al 1139)

Uberto           1141            

Guidone                      1148

Jacopo           1152-1153

Ugo               1168

Marco           1182 (menzionato anche nel 1184)

Ubaldo          1196

Guido            1198

Viviano         1212-1220 (menzionato nel 1214, 19, 20)

Martino         1223-1232 (menzionato nel 1224, 28, 29, 31, 32)

Nicola           1236 (menzionato nel 1237)

Simone         1239 (menzionato nel 1240, 41 anno della sua morte il 4 ottobre)

Benedetto     1241 (eletto il 15/16 ottobre 1241 e menzionato nel 1242, 43, 44, 45)

Michele        1255 (nel 1256 di settembre Michele viene eletto abate di un altro monastero)

Guidone        1262 (menzionato nel 1263,64,66,67,68)

Alberto         1271 (menzionato nel 1272)

Gerardo        1275-1284 (menzionato nel 1277,78,84)

Alberto         1293 (viene detto pisano)

Gerardo        1297 (olim abbas mon.)

Alberto         1298

R……..         1301 (non decifrabile)

Corrado        1306-1309 (menzionato fino al 1309)

Bartolo         1311- 1318 (Bartolo de Anglario, menzionato nel 1312,13,15,16, 17,18)

Pietro            1313 ( nel 1313 troviamo menzionato Bartolo)

Silvestro       1316 ( nel 1316 troviamo menzionato Bartolo)

Cum…         1318 (il nome dell’abate cambia, ma non è leggibile; risulta che il 7 febbraio è sindaco e procuratore Gherio fu Inghiramo)

Bartolo         1319

Bartolomeo  1320-1336 (Bartholomeo lucensis o de Luca, lo troviamo menzionato negli anni 1321, 22, 23, 25, 27, 29, 31, 32, 34, 35, 36)

Silvestro       1340 (de Anglario, menzionato nel 1343,45)

Bartolomeo  1347 (de Eugubio di cui troviamo la sua elezione il 26 marzo 1335?)

Pietro           1350

Giorgio        1389-1390

Gregorio      1390-1394 (nel 1390 il 19 di ottobre troviamo ancora Giorgio abate)

Martino       1405-1406 (Martino Guiducci, già oriore di San Severo di Perugia, fu eletto il 20 maggio)

Orlando       1408

Iacopo         1457

Iacopo         1462 (di Andrea da Galeata, forse lo stesso che troviamo nel 1457)

Iacopo         1468 (troviamo “stato abate” e forse trattasi sempre della stessa persona)

Mauro         1482

Questa lista è stata desunta dalle numerose pergamene consultate presso l’AVV e dai documenti reperiti nella B.C.V.

[1] La comunità di Morrona è una frazione del comune di Terricciola, da cui dista poco più di un chilometro; << …risiede presso la vetta delle colline cretose che dalla parte di levante acquapendono in Val-d’Era, mentre dal lato opposto scendono in Val di Cascina… >>; << …Giurisdizione di Peccioli, Diocesi di Volterra, Compartimento di Pisa… >>. E. Repetti, Dizionario Geografico, Fisico e Storico della Toscana, III, Firenze, A. Tofani e G. Mazzoni 1833-1845, p. 614. Intorno al Mille Morrona dipendeva dalla consorteria dei conti Cadolingi; dopo l’estinzione della famiglia (1113) la Chiesa pisana vi esercitò giurisdizione sovrana: il 17 marzo 1199 Ubaldo, arcivescovo pisano, emanò un placito in cui ordinava ai consoli di Morrona e a tutta la comunità di ubbidire all’arcivescovo loro padrone e che in nessun tempo tentassero alcuna cosa contro la Chiesa di Pisa e il suo onore. I Morronesi furono sempre dalla parte ghibellina e nel 1238 anche questo Comune inviò i suoi rappresentanti a Santa Maria a Monte per stabilire le convenzioni fra i diversi partiti della lega ghibellina toscana. Nel 1294 i ghibellini della Val d’Era, guidati da Neri di Janni da Donoratico, si radunarono a Morrona e << …unitisi con le genti del conte Guido da Montefeltro, potestà di Pisa, fecero una sanguinosa zuffa contro l’oste guelfa fortificatasi in Peccioli di Val-d’Era… >>. Morrona seguì la sorte di altri castelli delle Colline Pisane e nel 1496, durante la guerra tra Firenze e Pisa, cadde in potere dei Fiorentini, ai quali si sottomise con atto pubblico. Cfr. E. repetti, cit., III, p. 614.

[2] C.f.r., G. Mariti, Odeporico o sia Itinerario per le Colline Pisane, Ms. 3511, III, Biblioteca Riccardiana, Firenze; G. Targioni-Tozzetti, Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, I, Firenze, Stamperia Imperiale 1768, pp. 216-222; E. Repetti, cit., I, pp. 20-21; III, pp.614-615; J. B. Mittarelli et Costadoni, Annales Camaldolenses Ordini Sancti Benedicti, Venetiis, 1755-1773; P. F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum, Italia Pontificia, III, Etruria, Berlino apud Weidmannos 1908, pp. 292-293; G. Lami, Deliciae Eruditorum, XVI, Firenze 1736-1755.

Il conte Ugo, figlio di Guglielmo detto Bulgaro, nipote del conte Cadolo fondatore dell’oratorio di Fucecchio, dal suo primo matrimonio ebbe due figli: Ugo e Lotario; rimasto vedovo, sposò in seconde nozze Cilia o Cecilia, dalla quale ebbe altri due figli: Ugolino e Rainuccio, che compaiono nel rogito e sono chiamati “proximarum parentum”, forse per distinguerli dagli altri due che di Cilia erano figliastri. C.f.r. G. Mariti, cit., J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 96 in appendice.

[3] Archivio Vescovile Volterra, sec.XI, dec. X, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi volterrani fino al 1100, Esame del Restum Volaterranum, con appendice di pergamene trascurate da Fedor Schneider in “Rassegna Volterrana”, XXXVI-XXXVII; XXXVIII-XXXIX, Volterra, Accademia dei Sepolti 1972, p. 71, n. 96. L’atto fu rogato nella chiesa di Santa Maria del monastero da Guido notaio regio; alla subscrptio verbale segue un codicillo di circa tre righe purtroppo indecifrabili.

[4] C.f.r. A.V.V., sec. XI, dec. X, n. V-VI. Gli atti furono rogati rispettivamente presso il castello di Santo Pietro e in Casanova da Guido notaio regio. Questo antroponimo, che non dovette essere molto diffuso nella zona delle Colline Pisane, appare in una carta lucchese dell’VIII secolo: “…Gauspert viri devoti filio Raduare…”. C.f.r. L. Bertini, Indici del Codice Diplomatico Longobardo, II, Bari 1970, p. 259.

[5] J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 213 in appendice.

[6] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. I. Troviamo menzionato questo abate fino al 1139, quindi Gerardo ebbe la guida spirituale e temporale di questo monastero per circa quarant’anni. Crf. A.V.V., sec. XII, dec. IV, n. XV.

[7] Nel 1115 Pietro Moricone ricevette in enfiteusi dall’abate Gerardo la terza parte dei castelli di Aqui, attuale Casciana Terme, e di Vivaia, castello che sorgeva a circa un chilometro ad ovest di Casciana Terme, sopra il quale ebbero la signoria i Cadolingi, che lo cedettero al monastero di Morrona con una vendita del 1109. Cfr. E. Repetti, cit., V, pp. 794-795. << Santa Maria in Morrona (Volterra) risulta tra i trasferimenti dei monasteri affidati a Camaldoli entro il 1113>>. W. Kurze, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana Medievale, “Studi Diplomatici, Archeologici, Genealogici, Giuridici e Sociali”, Acc. Senese degli Intronati, Siena 1989, p. 249.

[8] Cfr. G. Miccoli, cit., p. 47 e segg.

[9] G. Mariti, cit.

[10] G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p. 216 e segg.; G Mariti, cit.; J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 460 in appendice.

[11] J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 96 in appendice.

[12] A.V.V., Visita Apostolica del vescovo Castelli del 1576, c. 444 r. e segg.

[13] Ibidem

[14] C.f.r. G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p.216 e segg. Il quale sostiene di averne visti altri simili a Treggiaia, Monte Foscoli e nella pieve di Morrona.

[15] Il Mariti, confermato dal Repetti, sostiene che questo polittico, oggi purtroppo ridotto alla tavola centrale, sia ritenuto anteriore a Cimabue, perché degli esperti ”…vi ravvisano in maniera senza forma e senza intelligenza alcuna delle parti, come pure il colorito monotono, ed il piegare indeciso mostrano l’arte nel suo naturale meccanicismo, e al di fuori di ogni buon principio ed ogni regola, ma comunque si sia certo che sono molto antiche…”. G. Mariti, cit. C.f.r. E. Repetti, cit., I, p. 20. Gli affreschi sono attualmente molto deteriorati a causa dell’umidità.

[16] La porta e la lapide viene menzionata dal Mariti nella sua opera; le notizie concernenti lo stato attuale sono della scrivente, la quale ha esaminato minuziosamente tutte le parti dell’edificio. Domenico Tempesti: pittore pisano nato nel 1688, formatosi nell’accademia domestica di Domenico Ceuli, fu padre del famoso pittore Giovanni Battista, morì nel 1766. Per ulteriori notizie su questo pittore si veda: R. P. Ciardi a cura di, Settecento pisano. Pittura e scultura a Pisa nel secolo XVIII, Cassa di Risparmio di Pisa, Pisa 1990.

[17] G. Mariti, cit.

[18] Tali notizie sono della scrivente, la quale ha esaminato il luogo più volte.

[19] Cfr. G. Mariti, cit. Si pensa che il Mariti nella sua descrizione abbia usato come misura il braccio fiorentino, equivalente a 58,60 centimetri. La chiesa, dunque, sarebbe lunga circa 26 metri, larga 7,5 e nella crociera 13,5 metri.

[20] G. Mariti, cit… Il Mariti vide la seguente iscrizione su marmo in caratteri gotici:”Hoc opus fecit fieri donnus Silvester De Anghiare abbas uius monasteri. MCCCXVI. Sulla sinistra ai piedi della scala che portava all’appartamento per il pievano un’altra lapide recava questa iscrizione:”Hoc S. fieri fecit donnus Iacobus Andreae De Galeata abbas huius monasterii et successor. MCCCCLVII”. Accanto a questa iscrizione sepolcrale vi era un’arme o qualcosa di simile su cui erano scolpite due teste in profilo di uomo. Niente di tutto questo è oggi esistente. G. Mariti, Odeporico… cit., Attualmente il chiostro non si presenta molto dissimile all’epoca in cui fu visto dal Mariti: in seguito a restauri è stato riportato alla luce il loggiato, che era stato incamerato in una parete e intonacato.

[21] Cfr. G. Mariti, cit., pp.55-57. Il passo equivaleva a 1,48 metri circa.

[22] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p. 203; G. Mariti, cit.; E. Repetti, cit., III, p. 614.

[23] Troviamo i titoli di S. Maria e S. Giovanni per la prima volta in un documento del 19 luglio 1236, più tardi, nel 1427, è contitolare anche santa Lucia. Crf. A.V.V., sec. XIII, dec. IV, n. XXVII; A.S.F., Catasto n. 193, c. 609 v.

[24] A.V.V., sec. XIV, dec.III, n. LV.

[25] Ibid., Località con poche case a breve distanza dal centro abitato, sulla via che da Morrona porta a Soiana; il toponimo è invariato.

[26] Ibid.

[27] Ibid

[28] Ibid.

[29] Ibid.

[30] Cfr. A.P.M. (Archivio Parrocchiale Morrona). Le due perizie furono fatte fare da don Giuseppe Levrini pievano di Morrona nei primi anni del 1900

[31] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. V, n. I; F. Schneider, Regestum… cit., p. 58, n. 166.

[32] Cfr. A.S.P., Fondo atti pubblici, Iaffè, II, n. 12692; P. F. Kehr, cit., III, p. 327, n. 42; N. Caturegli, cit., n. 516.

[33] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. II, n. XVII.

[34] Cfr. C. Violante, Pievi e Parrocchie nell’Italia Centrosettentrionale durante i secoli XI e XII, in Le istituzioni ecclesiastiche della “societas christiana” dei secoli XI-XII. Diocesi, Pievi e Parrocchie, Milano, Vita e Pensiero 1-7 settembre 1974, p. 653 e segg.

[35] Cfr. P. Guidi a cura di, Tuscia. La decima degli anni 1274-1280, I, in Rationes Decimarum Italiae, Città del Vaticano, Poliglotta Vaticano 1932, p. 161.

[36] P. Giudi a cura di, op. cit., II, p. 200

[37] Cfr. Archivio Storico Comunale Volterra, (D’ora in poi A.S.C.V.) Sinodo Belforti, c. 51 r.

[38] A.S.F., Catasto n. 193, c. 609 v.

[39] Ibid.

[40] A.V.V., Visita apostolica di monsignor Giovanni Battista Castelli vescovo di Rimini del 1576, c. 445 r.

[41] Cfr. L. Pescetti, Storia di Volterra, Pisa 1985, p. 41 e segg.

[42] Cfr. A. F. Giachi, Saggio di ricerche storiche sopra lo stato antico e moderno di Volterra, Sala Bolognese, rist. anast., p. 207 e segg.; M. Bocci, Annuario della Diocesi di Volterra, Firenze 1981, p. 15; L. Pescetti, cit. p. 57.

[43] Cfr. F. Schneider, Regestu… cit, p. 49, n. 138; C. Violante, L’origine lombarda di Ruggero vescovo di Volterra e arcivescovo di Pisa, Accademia Nazionale dei Lincei, Serie VIII, Vol. XXXV, fasc. 1-2, Roma 1980.

[44] Cfr. C. Violante, L’origine lombarda di Ruggero vescovo di Volterra e arcivescovo di Pisa, “Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche”, Serie VIII, vol. XXXV, Fasc. 1-2 gennaio-febbraio 1980, Accademia Nazionale dei Lincei, p. 11 e segg.

[45] A. V. V., sec. XII, dec. III, n. VII; Cfr. L. A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, III, Milano 1738-1742, p. 1143; F. Schneider, Regestum… cit., p. 56, n. 159; N. Caturegli, cit. p. 202, n. 307; C. Violante, L’origine…cit., p. 11, nota 3.

[46] C. Voilante, L’origine… cit., p. 13 e segg.

[47] F. Schneider, Regestum… cit., p. 53, n. 148; A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 447

[48] F. Schneider, Regestum… cit., p. 54, n. 150; R. Davidsohon, Storia di Firenze, p. 561 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi… cit., p. 31.

[49] Cfr. C. Violante, L’origine…, cit., p. 17.

[50] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 46 e segg.

[51] Ibid.

[52] Ibid.

[53] Cfr. F. Schneider, La Vertenza di Montevaso del 1150, Bullettino Senese di Storia Patria, XV, Siena 1908, p. 12 e segg.

[54] Cfr. L. Pescetti, Storia…cit., p. 57; A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 204.

[55] Ibid.

[56] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p.57

[57] Ibid.

[58] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., V, pp. 804-805

[59] Per la restituzione e per i frutti <<…furono assegnate ad Ildebrando le rendite tutte che le città di Lucca e di Siena pagavano al re, il pedaggio delle porte di Siena, di Castelfiorentino e di Poggibonsi e le rendite ancora, che ritraeva il regio erario da più e diversi castelli nominati nel contratto che ne fu stipulato, che doveva il vescovo per le miniere di Montieri, per la regalia della moneta e del fodro>>. A. F. Giachi, Saggio… cit., p 209; Cfr anche E. Repetti, Dizionario… cit., V, p. 805.

[60] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 57

[61] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., V, p 805

[62] Cfr. L Pescetti, Storia… cit., p. 58

[63] A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 208

[64] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 60

[65] Ibid.

[66] Cfr. R. Pescaglini Monti, La Plebs e la Curtis de Aqui nei documenti altomedievali, “Bollettino Storico Pisano”, L, Pisa 1981, pp. 9-15.

[67] Cfr. F. Schneider, Regestum… cit., p. 46, n. 126; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., VI, p 228.

[68] Cfr. P. F. Kehr, Regesta… cit., III, p. 300; F. Schneider, L’ordinamento pubblico nella Toscana medievale, trad. it. A cura di F. Barbaloni di Montauto, Firenze 1975, pp. 270-271, nota 233.

[69] Cfr. M. Cavallini- M. Bocci, Vescovi…cit., p. 30; R. Pescaglini Monti, cit.., p. 10.

[70] Cfr. A. V. V., sec. XII, dec. I, n. XII; dec. I, n. XI; F. Schneider, Regestum… cit., pp. 50-51, nn. 140-143; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 31.

[71] Cfr. R. Davidsohn, Storia di Firenze, trad. it., I, Firenze 1956-1968, p. 565 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 31.

[72] Cfr. R. Pescaglini Monti, cit., pp. 13-14.

[73] Per la prima bolla Cfr. P. F. Kehr, Regesta…cit., n.1, p. 293; N. Caturegli, Regesta…cit., p. 180, n. 285; per la seconda bolla Cfr. J. B. Mittarelli- Costadoni, Annales…cit., p. 285 e 306 in appendice.

[74] A. V. V., sec. XII, dec. III, n. VII; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1143; G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., pp. 2216-2222; F. Schneider, Regestum…cit., p. 56, n. 159; N. Caturegli, Regesta…cit., p. 202, n. 307.

[75] Ibid.

[76] Già nel 1115 Pietro Moriconi, allora arcivescovo pisano, ebbe in enfiteusi dall’abate Gerardo la terza parte del castello e distretto di Vivaia e della corte di Aqui con ogni pertinenza, ad eccezione però di ciò che apparteneva al monastero prima della donazione del conte Ugo, con lìobbligo di pagare ogni anno in settembre 12 denari di moneta corrente. Cfr. N. Caturegli, Regesta…cit., pp. 152-153, n. 247. Sempre nello stesso anno, l’arcivescovo Pietro fece fare un giuramento di fedeltà ai castellani e agli abitanti di Vivaia, che promisero di difendere la sua persona, i suoi beni e quelli dei suoi successori, eccettuando sempre quei beni appartenenti alla chiesa e monastero di Morrona, che si trovavano nei confini e appartenenze del castello. Cfr. J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 248 in appendice; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1116.

[77] A. V. V., sec. XII, dec. IV, n. VI; F. Schneider, Regestum…cit., p. 57, n. 162.

[78] I documenti pontifici in favore dell’ordine Camaldolese, in cui è sempre menzionata la badia di Morrona, ed altri indirizzati direttamente agli abati, sono numerosi ed hanno sempre lo stesso tenore: confermano beni e privilegi come quelli degli imperatori Lotario e Corrado II del 1137 e del 1139. Ne segnaliamo alcuni: 1137 aprile 22 (Innocenzo II); 1141 gennaio 30 (Innocenzo II); 1146 febbraio 7(Eugenio III); 1154 marzo 14 (Adriano IV); 1176 aprile 11 (Alessandro III); 1179 aprile 23 (Alessandro III); 1184 luglio 7 (Lucio III); 1187 dicembre 23 (Clemente III); 1198 Maggio 5 (Innocenzo III); A. V. V., sec. XII, dec. varie; L. A. Muratori, Antiquitates…cit. ; J: B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit.; A. F. Giachi, Saggio…cit.; F. Schneider, Regestum…cit.; N. Caturegli, Regasta…cit.

[79] L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1153; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 349 in appendice.

[80] A.V.V., sec. XII, dec. V, n. 1; per la bolla di Eugenio II si veda P. F. Kehr, Italia…cit., III, n. 4, p. 293. Il toponimo Tora, tuttora esistente si riferisce ad un piccolo torrente che sorge nei pressi di Gello Mattaccino, nel comune di Casciana Terme, si presuppone che la suddetta chiesa fosse ubicata vicina al torrente.

[81] Cfr. AVV., sec. XII, dec. X, n. XV.

[82] Cfr. F. Schneider, La Vertenza…cit., pp. 3-22; G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., pp.216-222; J. B. Mittarelli.Costadoni, Annales…cit., III, p. 460 in appendice; E. Repetti, Dizionario…cit., I, p 20. << Favorivano in questo tempo siffatto distendersi del dominio territoriale della chiesa e del comune pisano o la libera donazione degli abitanti di qualche castello, o le necessità finanziarie delle abbazie un giorno floride, ora in rapida decadenza, come quelle di Santa Maria di Morrona e del Beato Giustiniano di Falesia, i cui abbati dichiarano espressamente di vendere per bisogno di denaro…>>. G. Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa. Città e contado, consoli e podestà. Secoli XII e XIII, Firenze 1970, p. 12.

[83] Cfr. M. Bocci, La Badia di Morrona e un prepotente Vescovo di Volterra, in “Volterra”, anno III 1964, n. 3 marzo e 5 maggio.

[84] J. B. Mittarelli- Costadoni, Annales… cit., III, p. 96 in appendice. Nel 1097 Ugo e Lotario, figli del conte Ugo fecero redigere un editto contro chiunque tagliasse, predasse, saccheggiasse, rubasse, incendiasse o facesse danno in tutti i dintorni della chiesa e del monastero, i trasgressori sarebbero incorsi in pene pecuniarie e scomunica.

[85] Cfr. A. V. V., sec. XI, dec.  X, n. IV; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 78, n. 119. La pena stabilita fu di 40 soldi d’argento e la maledizione. Il luogo, che tuttora conserva lo stesso toponimo, è una fattoria ubicata tra Terricciola e Selvatelle; Casanova è citata fin dal 780 come corte dei fondatori del monastero di San Savino. Nel 1102 l’abbazia di Carigi vi aveva dei beni, in seguito, la famiglia degli Upezzinghi ebbero il patronato della chiesa (S. Bartolomeo) e alcuni beni. La rocca fu smantellata nel 1164 dai Pisani. Nel 1238 gli uomini di Casanova parteciparono al trattato per la Lega stipulato in Santa Maria a Monte, nel 1289 vi si scontrarono i Ghibellini della Valdera e i Guelfi di Peccioli. Cfr. E. Repetti, Dizionario…cit., I, pp. 492-93.

[86] Cfr. A.V. V., sec. XI, dec. X, n. V. La pena sancita è di 60 soldi d’argento.

[87] A. V. V., sec. XI, dec. X, n. VI. Riportiamo la minatio: “…penam de optimus (arientum) solidos sexsaginta et que hanc cartula offersionis infrangere vel disrupere seu tollere adque contendere presumserit sit maledictus ab omnipotenti Deo et sancta Maria mater Eius…”

[88] Il 10 giugno 1099 Bernardo fu Gerardo, con suo testamento, dispone alcune elergizioni in denaro a favore di enti ecclesiastici situati in Pisa e nella diocesi: tra questi compare anche il monastero di Morrona (nonostante situato nella diocesi di Volterra), cui viene donata la somma di 20 soldi. Cfr. M. Tirelli Carli, Carte dell’Archivio Capitolare di Pisa, “Thesaurus Ecclesiarum Italiae”, III, Roma 1977, pp. 172-74.

[89] Cfr. A. V. V. ,sec. XII, dec. I, n. VIII; F. Schneider, Regestum…cit., p. 50, n. 140.

[90] A. V. V., sec. XII, dec. I, n. XI. Il documento è datato 19 febbraio 1107. Molto elaborata la minatio, anche se abbastanza frequente nei documenti tiscani dei secoli X-XI. “…Et siquilibet persona massculo vel femina quo minime credo suprascripta petia de terra quale super legitur quas in predicta ecclesia et monasterio optuli tollere vel minuare vel subtraere sive alienare presumserit aut aliqua […]causationis inferre voluerit deleat ei Deis optimus nomen eius de libro viventium et cum iusti non scribantur fiat pertipes cum Dathan et Abiron quos aperuit terra os eorum deglutivit sit socius Ananie et Thaèhire qui fraudatam pecunia mentiti sunt apostolis partem quoque habeat cum Pilato et Erode et Nerone et Juda traditore. Sit dannatus cum Simone mago que gratia Sancti Spiritus venundare voluit; sit demersus de ab altitudine celi in profundum in inferni et cum diabolo sit in infernum seper […] susus et in die iudicii ante divini tribunal non resurgat…”.

[91] Ibid.

[92] A. V. V., sec. XII, dec.I, n.IX. Cfr. anche M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p.55, n. 6, che erroneamente riportano “a staiora di 10 pani”, anziché 12.

[93] Per la prima donazione Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 54, n. 1.  L’offerta consiste nell’ottava parte di beni posti nei confini di Morrona. E’ questo il primo documento in cui troviamo menzionato l’abate Gerardo per la prima volta ed è datato 21 aprrile 1101. Con la seconda donazione, il 13 febbraio 1110, il monastero entra in possesso di tutta l’intera parte di case, terre, uomini, mobili e immobili del chierico Gualando fu Guidone notaio, tali beni erano posti nella corte di Soiana e in altri vari luoghi. Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. II, n.XVI; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 60, n. 18. Il rogito per la terza donazione è del 28 luglio 1111, il donatore offre alla chiesa di s. Maria “…que est fundata et edificata in loco et finibus in Poi, que est super planum de Valle de Cascina et prope castellum vestrum de Morrona…”, molti terreni colti e incolti ( vigne, boschi, prati, pascoli, oliveti), con diverse “cassini” e “casalini” posti nei territori di Soiana, Soianella, Campagnana e altri luoghi. A.V.V., sec. XII, dec. II, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 60, n.19. La quarta donazione riporta la data del 25 marzo 1104, Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. VI.

[94] Si tratta di beni ubicati “…in illo Pantano, quod infrascripta ecclesia et rectores eius adquesiverunt ab Uguccione comite et Cilia uxore eius…”. La carta è datata 17 febbraio 1115. Cfr. F. Schneider, Regestum…cit., p. 54, n. 151.

[95] Cfr. A:V.V., sec. XII, dec. III, n. III. Datata 26 marzo 1124.

[96] Cfr. A.V.V., sec. Xii, dec. IX, n. IX. Il rogito fu stipulato da Bartolomeo notaio imperiale con pena del doppio della stima e il lougo dove fu redatto è “in ospitale infrascrpti monasterii”, ospedale che non dovette avere grande importanza, perché oltre a questa prima volta che lo troviamo menzionato, lo ritroviamo menzionato in un privilegio di Gregorio IX del 28 giugno 1227 e in un altro documento relativo all’anno 1284 (5 gennaio), Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. XXX; non compare nemmeno in M. Battistini, Gli spedali dell’antica diocesi di Volterra, Pescia 1932.

[97] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. IX, n. VII.

[98] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. XII, n. XIV.

[99] Cfr. L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1107.

[100] Vivaia, toponimo tuttora esistente, che si trova tra Casciana Terme e Parlascio. I conti Cadolingi di Fucecchio vi ebbero la signoria. Cfr. E. Repetti, Dizionario…cit., V, pp. 794-795 e I, pp. 38-39.

[101] Cfr. R. Davidsohn, Storia…cit., p. 565 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p.31. “ Col testamento lasciò ciò che gli restava del suo, dopo pagati i debiti considerevoli ai vescovi delle respettive diocesi. Così la corte di Bagno a Acqua nella valle di Cascina, sul confine delle diocesi di Pisa e Volterra, venne all’arcivescovo pisano, tranne quello che ne era impegnato nella vicina badia di Morrona…”. F. Schneider, La Vertenza…cit., p.5.

[102] Cfr. F. Schneider, Regestum…cit., p. 54, n. 150.

[103] Per la prima cfr. A.V.V., sec. XII, dec. IV, n. VIII. Pergamena mutila, sul cui retro possiamo leggere: “Venditio facta abbatie Morrone de petio terre posito loco dicto Negozano per Ildebrandum et frates. Per la seconda Cfr. M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 78, n. 67. La vendita fu fatta da Opizzo abate della chiesa e monastero dei ss. Ippolito e Cassiano, consistente in tre vigne ed altri beni “ad Fuscianum”, che erano pervenuti alla sua chiesa per donazione di Rolando fu Ildebrando. Per la terza Ildebrando fu Bernardo aliena al monastero tutti i suoi beni posti nei confini di Negoziana, Morrona e Vivaio “par pellium grisiarum pro solidi viginti et octo in prefinito”. Cfr. ibid.

[104] Per il primo documento Cfr. J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 248 in appendice. L’abate Gerardo dà la terza parte del castello e corte di Vivaio e Aqui in enfiteusi a Pietro Moricone per un censo di 12 denari annui da soddisfare in settembre. Tali beni sono gli stessi acquistati nel 1109 dal conte Ugo. Il secondo è una locazione di un pezzo di terra in luogo detto “Guazo Ardinghi” “…cum aqua que vocatur Caldane super se habentem”, che l’abate dà a Gerardo di Teziciro per fabbricarvi un mulino, per un censo annuo di 4 soldi lucchesi per la festa di s. Giovanni in dicembre, pena 200 soldi. Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. VII, n. XIII; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 90, n. 101.Nel terzo documento troviamo che l’abate Ubaldo concede in livello a “Ianuensi “ fu Considerato 10 pezzi di terra con ogni loro edificio e pertinenze, di circa 65 staiora, per un censo annuo di 16 soldi di moneta pisana corrente, da pagarsi a settembre perc la festa di s. Michele e sua ottava; pena 100 lire, inoltre Genovese deve all’abate 20 soldi pisani “pro servitio dicti libelli”. Cfr. M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 108, n. 151. Nel quarto, l’abate Guido dà un pezzo di terra ad Aliotto fu Baldicione, ubicata presso Morrona, di 11 staiora, per un censo annuo di 12 denari, pena 100 soldi di denari buoni. Cfr. Ibid.

[105] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit.,, I, pp. 216-222; N. Caturegli, Regesto…cit., pp. 225-226, nn. 337-338-339; E. Repetti, Dizionario…cit.,  I, pp. 20-21.

[106] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit.,I, pp.216-222; N. Caturegli, Regesto…cit., p. 291, n. 425; E. Repetti, Dizionario…cit., I, pp. 20-21; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 460, n. 299 in appendice.

[107] G. Volpe, Studi sulle istituzioni Comunali a Pisa, Firenze 1970, p. 12 e 41

[108] Cfr. A.V.V.,1239 gennaio 13, Giunta fu Carbone vende a Simone abate un pezzo di terra posto tra Morrona ed Aqui, per 30 soldi di denari nuovi pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. IV, n. XIX. 1243 gennaio 30, Ubaldo fu Lunardo di Morrona vende a Benedetto abate un pezzo di terra con vigna posto nei confini di Morrona in luogo detto Pescaria, per 7 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. V.  1244 luglio 13, Contrus fu Galgano e Iacopo suo fratello vendono a Benedetto abate la metà di un pezzo di terra con ogni sua pertinenza, posto nei confini di Aqui presso il mulino del monastero, per 400 soldi di moneta nuova pisana, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. VII. 1250 agosto 29,Enrichetto fu Enrichetto di Soiana vende a Bonaccorso fu Spinelli, sindaco del monastero, di cui è abate Guidone, un intero pezzo di terra campia posto nei confini di Morrona in luogo detto Prato la Valle, per 8 libbre di denari nuovi pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. IXI. 1262 novembre 6, Pellegrino fu Benentendi notaio di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra posto nei confini di Aqui oltre il fiume Cascina in luogo detto Aqua Viula, presso il bosco del monastero, per 9 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. X. 1263 settembre 25, Bartolomeo di Morrona (paternità non leggibile) vende all’abate Guidone due interi pezzi di terre posti nei confini di Morrona, in luogo detto “Podio le Cavi”, con peri e ulivi; il secondo in luogo detto “valdelecavi”, entrambi per 35 denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. Vii, n. XX. 1264 settembre 29, Bartolomeo fu Cenati di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra posto nei confini di Morrona in luogo detto “Valle Orsi”, per 400 denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXV. 1266 settembre 21, Maestro Ventura fu Giovanni di Morrona vende a Guidone abate due interi pezzi di terra con vigna, fichi e altri alberi, posti nei confini di Morrona in luogo detto “Chiusdino”, per 20 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXXIV. 1267 aprile 15, Martino fu Riccobe ne di Morrona vende al solito abate un pezzo di terra con alberi, posto nei confini di Morrona in luogo detto “bal de le Cave”, per 8 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXXVI. 1267 ottobre 11, Isabella vedova di Iacopo fu Macchi e figlia di Bonacontri di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra lavorativa posto nei confini di Morrona, in luogo detto “Valle Sive ad Ripalba”, per 8 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, XXXIX. 1268 febbraio 27, Ranuccio fu Spinello di Morrona vende al suddetto abate un intero pezzo di terra lavorativa posto nei confini di Morrona in luogo detto “Miliari”, di 4 staiora e più, per 8 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. VIII. 1272 agosto 31, Inghiramo fu Giacomo Gualandelli di Morrona vende ad Alberto abate un pezzo di terra campia posto tra i confini di Morrona in luogo detto “Sterpeto”, di 4 staiora per 8 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VIII, n. VII.

[109] A. S. F. , Diplomatico Camaldoli, 1271 gennaio 13, Alberto abate, dà a livello a prete Scolario, pievano della pieve di Morrona, tutte le terre , vigne etc. poste intorno alla pieve, per un periodo di 26 anni, l’affitto annuale è di 18 quarre di grano e lire 25.

[110] Cfr. A.V.V., 1224 marzo 15, Martino abate dà a livello perpetuo a Beruccio fu Periccioli un pezzo di terra con ogni appartenenza ed edifici, per 4 quarre di grano all’anno, pena 20 libbre. Sec. XIII, dec. III, n. XII. 1231 gennaio 23, Martino abate, per migliorare il monastero, dà a prete Giovanni, cappellano della chiesa di s. Nicola di Morrona un pezzo di terra lavorativa, posto nei confini di Morrona in luogo detto “La Valle”, censo annuo 2 denari di moneta pisana, pena il doppio. Sec. XIII, dec. IV, n. I. 1240 febbraio 11, Simone abate, per utilità e migioramento del monastero, dà in locazione a Boninsegna fu Brinichi di Gallicano, per 12 anni, un mulino posto nei confini di Soiana in luogo detto “Pantano”, con casa, terra ed ogni sua pertinenza, pena 50 libbre se in tali anni il mulino non avesse funzionato e macinato bene; il censo annuo consisteva in “staria decem et octo boni grani et staria decem et octo inter ordeum et mileum”. Sec. XIII, dec. IV, n. XLIX. 1245 luglio 12, Benedetto abate dà a livello ad Enrico pievano della pieve di Morrona un pezzo di terra in parte vignata, posto vicino alla pieve e la metà di un altro pezzo di terra boscata vicino al primo, lavorato dagli uomini di Morrona, dai quali il monastero riceve la decima; per un censo annuo di 8 quarre di grano buono, una libbra di incenso e al posto delle decime “et oblationum et primitiarum” 10 quarre di grano buono e 25 soldi di denaro pisano, pena 100 libbre. Sec. XIII, dec. V, n. VIII. 1255 dicembre 4, Michele abate dà in locazione a Bario di Casaioli e a Salimbene suo fratello, figli del fu Bergi di Aqui, un pezzo di terra lavorato a prato e giunchetto, posto nei confini di Aqui in luogo detto “Plano de Aqua viva”, per 24 anni, con l’obbligo di fare una “foneam” perché l’acqua scorra a valle del poggio ed un censo annuo di 6 quarre di grano, pena 10 libbre e il doppio del valore stimato se ci saranno danni. Sec. XIII, dec. Vi, n. XXXV. 1259 settembre 5, Michele abate, dà in locazione a prete Pane e Porro di Quarrata, rettore della chiesa dei ss. Bartolomeo e Nicola di Morrona “in vita sua tantum” “totam primitiam et oblationem populi communis Morrone” che spettavano al Monastero; il censo è di 10 soldi di denaro pisano annuo, pena il doppio; inoltre il prete si impegna di mantenere la cappella nello stato attuale, pena 100 libbre di denaro pisano. Sec. XIII, dec. VI, n. LXIX.

A.V.V., 1279 giugno 9, Bonaccorso fu Spinello, sindaco e procuratore del monastero di Morrona, col consenso di Gerardo abate, dà in locazione a Bontalento fu Provinciale e a Provinciale detto Ciale fu “Menculi” entrambi di aqui, un pezzo di terra boscata posta nei confini di Aqui in luogo detto “Pozzale” e la quarta parte di un altro terreno posto in luogo detto “Catasta sine Asino Bonanno”, per un periodo di 25 anni; censo annuo di 25 denari pisani, pena 50 denari pisani e l’obbligo di non sub locare. Lo stesso documento contiene la locazione di altri 7 pezzi di terra a uomini di Aqui, per complessive 1083 staiora, la maggior parte dei quali aveva molti frutti ed olivi. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXX. 1298 luglio 22, Alberto abate dà in locazione a Brandino fu Bonaccorsi di Morrona un pezzo di terra “agrestum”, posto nei confini di Aqui in luogo detto “Steccaia”, per 29 anni ed un censo annuale di tre quarre di grano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. X, n. XXXII.

[111] V. nota n. 95 del presente lavoro.

[112] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. X, n. I.

[113] Ibid.

[114] Ibid.

[115] Ibid.

[116] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. V, n. II.

[117] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. VIII, n. LXXIII.

[118] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. XLVI.

[119] Ibid.

[120] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. LX.

[121] Cfr. P. Guidi a cura di, Rationes Decimarum…cit., I, pp. 153 e 161.

[122] Cfr. P. Guidi a cura di, Rationes…cit., II, p. 200.

[123] Cfr. A.S.C.V., Sinodo Belforti, c. 54 r.

[124] <<…quam predecessores eorum decimas, terras, domos, vinea, ortos, silvas, prata, pascua, remora, molendina possessiones iura iurisdictiones et quedam alia bona ipsius monasterii datis super hoc licteris confectis exinde publicis instrumentis interpositis iuramentis factis renuntiationibus et penis adiectis in gravem ipsius monasterii lesionem, nonnullis clericis et laicis aliquibus eorum ad vitam quibusdam vero ad non modicum tempus et aliis perpetuo ad firmam vel sub censu annuo concesserunt quorum aliqui super hiis confirmationis licteras in forma comuni dicuntur a Sede Apostolica impetrasse…>>. A.V.V., sec. XIII, dec. X, n. XLIII (manca la bolla, esiste solo la traccia). Per la comunità di Chianni si veda L. Fabbri, Le comunità di Chianni e Rivalto (secc. XI-XIX) Chianni delle Colline Pisane, “Rassegna Volterrana” anni LXI-LXII 1987, p. 35.

[125] Cfr. L. Fabbri, Le comunità…cit., p. 35.

[126] Cfr. A.V.V., 1318 febbraio 7, Helia fu Upezini di Morrona vende a Gherio fu Inghirami dello stesso luogo, ricevente per il monastero un pezzo di terra campia, posta nei confini di Morrona in luogo detto “Alipoli”, con ogni diritto, di 2 staia e 45 per 5 denari pisani minuti. Sec. XIV, dec. II, n. LVIII. 1321 gennaio 12, Giovanni detto Vanni fu Brandino, Simonetta vedova di Brandino e Contessa moglie di Vanni, per loro necessità ed indigenza, vendono all’abate Bartolo un pezzo di terra campia posta in luogo detto “Ghiermandi” con ulivi, per 20 lire di soldi pisani. Nello stesso documento è redatta anche la locazione che l’abate fa allo stesso Vanni per 10 anni con censo annuo di 2 staia di grano buono da soddisfarsi per la festa di Santa Maria in agosto, pena il doppio. Sec. XIV, dec II, n. (mancante); 1321 giugno 30, Nino fu Ganeto e Guida sua moglie e figlia di Piero di Morrona, a causa di necessità e indigenza, vendono a Gheri fu Inghirami dello stesso luogo, ricevente per il monastero un pezzo intero di terra campia e boscata, posto nei confini di Morrona in luogo detto “Vallarcho”, per 2 lire e 10 soldi di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XXIV, dec. III, n. IV. 1321 ottobre 13, Vanni fu (paternità illeggibile) vende a Gherio fu Inghirami, procuratore del monastero, un pezzo di terra con casa posta nei confini di Morrona in luogo detto “Le Date”, per 5 lire di denaro pisano minuto, pena il doppio. Sec. XIV, dec. III, n. XII. 1329 febbraio 10, “Tura quondam Bandi” di Morrona e suo figlio Guido vendono a  Bartolo abate del monastero ogni edificio posto nel loro “casalino” con ogni diritto, ubicati in Morrona, per 20 lire di denaro pisano minuto, pena il doppio. Sec. XIV, dec. III, n. CXIII. 1332 gennaio 23, Bonamico fu Bonaccorsi di Ceppato vende a Bartolomeo abate del monastero un pezzo di terra posto nei confini di Aqui in luogo detto “Mercatale” con ogni diritto, per 20 lire di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIV, dec. IV, n.XII.

[127] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. III, n. LXXV. Il documento è rogato nella casa del testatore da Michele fu Pardi notaio imperiale il 25 marzo 1324.

[128] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. IV, n. XXI. Il rogito risale all’8 giugno 1334.

[129] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. XXX. L’atto fu rogato l’8 giugno 1306.

[130] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., I, pp. 216-222. In toscana il termine divenne accomandigia e si applicò soprattutto in diritto pubblico per indicare il riconoscimento di un’autorità superiore fondato su espliciti rapporti di sudditanza.

[131] G. Volpe, Studi…cit., p. 20.

[132] Per il primo documento Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. LIV. Il rogito fu fatto da Gerardo fu Bonaccorsi di Cisanello notaio imperiale, davanti al pezzo di terra del monastero in luogo detto “La Croce”. Dai toponimi in cui erano posti questi beni, possiamo notare che l’abate tendeva a disfarsi dei possessi più lontani dal monastero, cercando di impossessarsi di quelli che invece erano ubicati nelle immediate vicinanze, ma appartenenti a privati cittadini. Questo lo possiamo vedere anche dal documento relativo all’anno 1320 in cui sono rogate due permute relative a due case poste nel castello di Morrona e a terre distanti dall’abbazia con altri beni molto più vicini; il cattivo stato di conservazione di questa pergamena impedisce di rilevare altre notizie. Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. II, n. LXVII. Per il secondo documento Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. V, n. XXVIII.

[133] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. XXXV (1307 giugno 28); sec. XIV, dec. II, n. VIII (1311 gennaio 17); sec. XIV, dec. II, n. XIII (1312 febbraio 5); sec. XIV, dec. II, n. ? (1316 marzo 17); sec. XIV, dec. II, n. XLIX (1317 luglio 29);  sec. XIV, dec. II, n. LVII (1318 febbraio 7); sec. XIV, dec. II, n. LIV (1318 ottobre 2); sec. XIV, dec. III, n. V (1321 luglio 8); sec. XIV, dec. III, n. XXV (1322 agosto 20); sec. XIV, dec. III, n. XVIII (1322 settembre 12); sec. XIV, dec. III, n. XXIX (1322 settembre 13); sec. XIV, dec. III, n. IX (1322 settembre 14); sec. XIV, dec. III, n. LV (1327 febbraio 4); sec. XIV, dec. III, n. CXV (1330 luglio 30); sec. XIV, dec. IV, n. VII (1332 giugno 30); sec. XIV, dec. V, n. X (1343 settembre 22); sec. XIV, dec. V, n. VII (1343 novembre 14); sec. XIV, dec. V, n. XV (1345 dicembre 10).

[134] AVV., 22 ottobre 1315, sec. XIV, dec. II, n. XXXV.

[135] Ibid.

[136] AVV. 3 settembre 1318, sec. XIV, dec. II, n. LII.

[137]AVV. 14 ottobre 1322, sec. XIV, dec. III, n. XXXIV.

[138] AVV. 29 dicembre 1333, sec. XIV, dec. IV, n. XVII.

[139] Cfr. AVV. 30 dicembre 1335, sec. XIV, dec. IV, XXXV.

[140] Cfr. AVV. 6 giugno 1340, sec. XIV, dec. IV, n. LXXI.

[141] Cfr. BCV (Biblioteca Comunale Volterra), Ms. 9335, Index Membranorum Archivi Abbatie SS. Iusti et Clementi volterrani, pars III, Studio D. Jos. Gherardini abbatis, anno MDCCLXIX.

[142] Ibid.

[143] AVV, sec. XIV, dec. V. n. V.

[144] Cfr. G. Mariti, Odeporico…cit.

[145] ASF., Camaldoli Appendice, n. 83, cc. non numerate.

[146] Ibid.

[147] Ibid.

[148] Ibid.

[149] Ibid.

[150] Ibid.

[151] Ibid

[152] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. II, n. XVI.

[153] Cfr. G. Targioni –tozzetti, Relazione…cit.,I, pp. 216-222; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., VI, p. 589 in appendice; G. Mariti, Odeporico… cit. Il Mariti riporta il documento per esteso.

[154] G. Mariti, Odeporico… cit.

[155] Ibid.

[156] Ibid.

[157] Ibid.

[158]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, pp.186-187, n. 76; Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798.

[159] Cfr. A.S. F., Catasto religiosi, n. 193, cc. 606 v.-611 r.

[160] Ibid.; si veda anche: Dizionario della lingua italiana, Accademia della Crusca, ed. IV (1729-1738), v. 5, p. 64.

[161] Ibid.

[162]A.S.F., Catasto religiosi, n. 193, cc. 606 v.-611r. “ 1427-1429. Vescovado di Volterra. Sostanze del Monastero della Badia di Morrona chontado di Pisa dell’ordine di Chamaldoli.

In primo: Un pezzo di terra parte champia chon ulivi e altri frutti e parte vignata, èosta nei chonfini di Morrona; lavoralo giusto di Giovanni d’Andreadi Romagna; rende ne l’anno di metà a misura pisana: biada staia 6 a soldi 6 a sacca; vino barili 30 a soldi 6 il barile; olio orcia 8 a lire 5 lorco. Uno podere posto in detti chonfini di Morrona, tenello Francescho di Puccino e Solvestro suo chompagno da Morrona. Prende l’anno di fitto : grano saccha 20 a soldi 45 il saccho (la stima del grano è sempre la stessa: soldi 45 a sacco). Uno podere posto nei predetti chonfini di Morrona, tenelo Antonio di Lupo da Morrona e prendene l’anno di fitto: grano saccha 6 e mezzo. Uno podere posto nei chonfini di Morrona, tenelo Giuliano di Ceo da Morrona, prendene l’anno di fitto: olio libbre 6, grano saccha 1. Uno pezzo di terra ulivata posta in esso predetti chonfini di Morrona, tenello Michele di Batino da Morrona, prendene l’anno di fitto grano saccha 10. Due pezzi di vigna posti in esso predetti chonfini, teneli Antonio di Lupo, prendene l’anno di fitto vino barili 2 a soldi 20 il barile. Due chase poste nel castello di Morrona, tene l’una Lorenzo di Ruffia da Cholle Montanino e danne di pigione l’anno lire 5, tiene l’altra Lorenzo di Nanni barbiere da Morrona e rende l’anno lui e sua famiglia si veda oltro………. Uno podere posto nei sopradetti chonfini di Morrona, luogo detto a Ginestrello, tenello Giovanni da Soiana, prende l’anno di fitto grano saccha 7. Uno pezzo di terra cho mulini poste ne predetti chonfini di Morrona, Tiello Biagio di Vannuccio da Morrona, rende l’anno di fitto olio libbre 7 a soldi 25 denari 6 a libbra. Cierti pezzi di terra posti ne sopradetti chonfini di Morrona, tiegli Sobene di ser Guido da Soiana e rendene l’anno di fitto grano saccha 3. Più e più pezzi di terre posto per metà ne sopradetti chonfini di Morrona e per metà ne chonfini di Soiana, tiegli Andrea di Lucha da Soiana e rendene l’anno di fitto grano saccha 2, olio libbre 2 a soldi 25 e denari 6. Un pezzo di bosco chon ghianda posto nel predetto chonfine di Morrona, tiene Bartolomeo di Ricchino da Soiana e rende l’anno di fitto in denari lire 6. Più e più pezuoli di terra poste nelle chonfini di Soiana, tielle Marcho di Giovanni e messer Chelino da Soiana e rendene l’anno di fitto grano quarre 3 a soldi 11 e denari 3 la quartina. Più e più pezzuoli di terra posti nelli sopradetti chonfini di Morrona, li quali tenghono le predette persone e Salvestro da Morrona e rendene l’anno di fitto grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quartina. Antonio di Bartolomeo da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quarra. Pasquino di Puccino da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quartina. Giovanni di Puccino da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Lando di Ghaddo da Morrona dà d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Pieri d’Antonio di Lelmo da Morrona dà d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Uno di fitto d’uno fattoio posto nel chastello di Morrona del quale so l’anno di mezzo ollio libbre 12 a soldi 25 e 6 a libbra. Più e più pezzuoli di terra posti nelli detti chonfini di Morrona e per metà nelli chonfini di Terricciuola, li quali sono parte champie e parte vignate, le quali tenghono le frascritte persone, cioè: Binduccio di Giovanni e Antonio di Lorenzo Celino di Turo e Nicholaio di Brettone e Bartolo di Landuccio e Francesco fabro da Terricciuola, rendono tutto l’anno di fitto i detti nominati di sopra: grano saccha 2. Nelli chonfini dello chomune del Bagno a Aqua due mulini, cioè luno teragno e laltro francescho, de quali lo mulino terragno macina ello mulino francescho no perché sotto di stima tiegli Marcho d’Andrea di Romagna e rendone l’anno di fitto grano saccha 25. Ella bate di sopradetta badia è tenuto alla metà della spesa che acchonciasse per rispese delli detti mulini. Una vigna posta all’orto  alle sopradette mulino, la quale tiene Pagholo di ser Tomaso da Ceuli e rendene l’anno di fitto in danari lire 7. Un pezzo di terra posta nei sopradetti chonfini del Bagno a Acqua, la quale si chonosce come la chiudenda della bate, rende l’anno di fitto grano saccha 1, olio libbre 1 a soldi 25 a libbra. Uno podere posto nei sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto la Chaldana, la quale tiene Lorenzo di … (illeggibile) del Bagno e rende l’anno di fitto grano saccha 16. Uno pezzo di terra posto nelli sopradetti chonfini del Bagno in luogo detto la Serra, la uale tiene Tomeo di Giovanni lo Casamulo e rende l’anno di fitto grano saccha 8 a soldi 45 a saccha.Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini, tiello Checcho di Guccio e Tommeo di Giovanni e Giovanni d’Ugholino e Tome..lo dal Bagno, rendone l’anno di fitto grano saccha 8. Un pezzo di terra parte champia e parte pratata posta ne sudetti chonfini del Bagno, la quale tiene Giubileo da Parlascio e rende l’anno di fitto grano saccha 6. Un pezzo di terra pratata posto ne sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto Acquaviva, lo quale tiene Calisto di Pagholo e Biagio di Bartolo da Parlascio e rendene l’anno di fitto grano saccha 4. Uno podere posto ne sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto in Gojano, lo quale tiene Lenzo di Giovanni da Morrona e prendene l’anno di fitto grano saccha 19. Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini del Bagno, lo quale tiene Bartolo di Cinovo dal Bagno e rendene l’anno di fitto grano saccha 1. Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini del Bagno, la quale tiene Niccholao di Giovanni e rende l’anno di fitto in denari lire 1 soldi 2. Più e più pezzi di terra parte champia e parte pratata posta in de sopradetti chonfini del Bagno, gli quali tiene Mozano d’Andrea da Chasciana e rendene l’anno di fitto grano saccha 6. Pezzi tre di terra posti ne sopradetti chonfini del Bagno, li quali tiene Niccholaio di Nardo di Chasciana e rendene l’anno di fitto grano saccha 6. Uno pezzo di terra champia posta ne sopradetti chonfini del Bagno, lo quale tiene Stefano di Giannello da Chasciana e rende l’anno di fitto grano saccha 1. Uno pezzo di terra champia posta ne sepredetti chonfini del Bagno in luogo detto Ginestreto, lo quale tiene Rinaldo di Petraia e rendene l’anno di fitto grano saccha 2. Più e più pezzi di terre chollinare posti ne sopradetti chonfini del Bagno in luogo detto il Poggio delle Forche,li quali tiene Puccino di Giovanni da Chasciana e Marcho di Bartolo del Bagno e rendone l’anno di fitto grano saccha 3. Gl’infrascritti sono coloro li quali sono censuari e livellari della sopradetta Badia, cioè in primo: Antonio di Lippo da Morrona dà di censo l’anno per una chasa posta nel chastello di Morrona soldi 5 denari 6 (8 settembre). Ser Guido da Soiana dà di censo per una chasa posta nel chonfine di Soiana e danne di censo l’anno lo dì di Santa Maria di settembre lire 5 soldi 0 denari 6. Vanni d’Orso del Bagno dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria di settembre soldi 16 denari 6 d’uno chaneto e d’una ruota da rotare fuori, posta in sulla acqua del Bagno. Duto di Raiano da Chaprona dà di censo l’anno (8 settembre, per dei beni) posti in Petraia soldi 11. Lo prete di Santo Donato di Terricciola dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria sopradetta libbre 1 di rena perché lo detto bade a parte di portinaggio della detta el detto di Santo Donato di Terricciuola. Lo pivano di Morrona dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria sopradetto lire 2 soldi 5 per la chiesa di Santo Bartolo da Morrona per la pieve di Santa Maria a Ginestrella.”

[163] Ibid.

[164] Ibid.

[165] Ibid.

[166] Ibid.

[167] O. M. Baroncini, Chronicon…cit., p. 124 (121 ter).

[168] Cfr. AS.P., Diplomatico n. 23, R. Acquisto Monini, p. 39.

[169] Cfr. AVV., sec. XII, dec. VII, n. VI; sec. XII, dec. VII, n. XIII; Nella prima pergamena non è mai citato il nome dell’abate di Morrona, ma da altri documenti siamo a conoscenza che nel 1153 era abate Iacopo e nel 1168 Ugo, quindi non possiamo stabilire con esattezza quali dei due abati fu quello che prese parte alla lite. Cfr. anche F. Schneider, Regestum…cit., pp. 67-68, n. 190; J. B. Mittarelli.Costadoni, Annales…cit., III, p. 460 in appendice.

[170] AVV., sec. XII, dec. I, n. VI. Il documento fu rogato da Guido notaio del Sacro Palazzo in Negoziana, con pena del doppio del beneficio e 200 soldi d’argento.

[171] AVV., sec. XII, dec. VII, n.VI.

[172] Ibid.

[173] Ibid.

[174] Ibid. La sentenza fu pronunciata nella pieve di Aqui; nella subscriptio troviamo: Ildebrando giudice, Gerardo console, Ildebrando giudice ordinario, Gerardo di Gunfredo console e assessore e “Uguicione de Casanvilia” notaio e giudice ordinario, che “hoc laudamentum scripsi”.

[175] I documenti concernenti questo equivoco cominciano l’anno 1153 e terminano nel 1258. Cfr. G. Mariti, Odeporico…cit.

[176] AVV, sec. XIII, dec. X, n. XV; F. Schneider, Regestum…cit., n. 249.

[177] Ibid.

[178] Cfr. C. Violante, Pievi …cit., pp. 697-698  Pievi e Parrocchie nell’Italia centrosettentrionale durante i secoli XI e XII, Milano 1974.

[179] AVV., sec. XIII, dec. X, n. IX.

[180] AVV. Sec, XIII, dec. II, n.X.

[181] Ibid.

[182] Ibid.

[183] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XVII.

[184] Ibid.

[185] Ibid.

[186] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XXXIX.

[187] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XLII.

[188] AVV:, sec. XIII, dec. III, n I.

[189] AVV, sec. XIII, dec. IX, n. XXX.

[190] Ibid.

[191] AVV. Sec XIV, dec. V, n. XIII.

[192] Ibid.

[193] Ibid.

[194] AVV., sec.XIII, dec. III, n. VIII.

[195] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. III, n XX.

[196] AVV. sec  XIII, dec. III, n. XXVII.

[197] Cfr. AVV. sec.. XIII, dec.IV, n. XLIV.

[198] L’11 febbraio 1240, Simone abate, per utilità e migioramento del monastero, dà in locazione a Boninsegna fu Brinichi di Gallicano, per 12 anni, un mulino posto nei confini di Soiana in luogo detto “Pantano”, con casa, terra ed ogni sua pertinenza, pena 50 libbre se in tali anni il mulino non avesse funzionato e macinato bene; il censo annuo consisteva in “staria decem et octo boni grani et staria decem et octo inter ordeum et mileum”. AVV., Sec. XIII, dec. IV, n. XLIX.

[199] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. III, n. XXX.

[200] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec.IV, n. IV.

[201] Cfr. AVV, sec. XIII, dec. IV, n. VIII.

[202] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. IV, n. IX.

[203] Cfr. AVV., sec.XIII, dec. IV, n. XXVII.

[204] AVV. Sec:XIII, dec. IV, n. XXVIII.

[205] Ibid.

[206] Cfr. AVV. Sec.XIII, dec. IV, n. XXIX. I nomi dei quattordici uomini sono i seguenti:Gerardo molinaius de Morrona, Ranoctinus Mainecti, Geniduccius quondam Januensi, Ubaldus quondam Riciardini, Junta quondam Corboli, Hormanectus quondam Gacti, Ranentus et Rustichellus germani quondam Io…anecti, Bertoldus quondam Carbonis, Rubertus quondam Vernacci, Pollarious quondam Carbonis, Jambone quondam Bernardini, Hormanecttus quondam Guidonis, Bonesigna quondam Bencivenni”.

[207] Cfr. AVV., sec.XIII, dec. IV, n. XXXI.

[208] Cfr. AVV:; sec.XIII, Dec. IV n. XXXII.

[209] Cfr. L. Schiaparelli, Regesto di Camaldoli, Loescher 1907, T. IV, pp. 63-64.

[210] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. V, n. XV.

[211] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VI, nn. XXV e XXV bis; F. Schneider, Regestum…cit., nn. 664-665.

[212] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VI, n. XXX.

[213] AVV., sec.XIII, dec. VI, n. XXXII; A.S.F., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 396, n. 64.

[214] Cfr. ASF., Diplomatico Camaldoli; Camaldoli, San Salvatore (eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680.

[215] Cfr. ASF., Camaldoli appendice, n. 89, c. 45 v. e r.

[216]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 398, n. 79.

[217]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 399, n. 82.

[218] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VIII, n. XXXIV

[219] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXI. Il  documento è molto lungo. Si cfr. anche F. Schneider, Regestum…cit., nn. 845-850, pp. 286-287. Lo Schneider riporta l’anno 1277, forse riferisce la data allo stile pisano?

[220] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VIII, n. LXXI.

[221] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXII; O. M. Baroncini, Chronicon Camalduli, ex Scripturis eius decerp-tum et ad nostra tempora deductum, Biblioteca di Arezzo ms. 343, p. 124 (121 ter)”Transacta quoque est anno 1278, stylo Pisano, er Mense octtobri Differentia AquaeductusMolendini ipsius Monasterii, quod ad Balneum de Aquis dicitur, ut D. Feus plebanus S. Mariae de Morona suisque successores praedictum acqueductum velut proprium praefati Monasterii semper liberum et expeditum manutenere teneantur, et D. Abbas Gerardus de Morona, atque D. Jacobus eremita vicecomes Camalduli in plebem praedictam transtulerunt, atque plebano tradiderunt unam petiam terrae star. XVI, loco qui dicitur Pantano in Plebario de Aquis pacto quod semper pro Mensa dictae Plebis sit, nec unquam vendi aut transferri possit, quae rata habuit confirmans D. Paganellus episcopus Lucanus, manu Guidonis Petri notarii”.

[222] AVV., sec. XIII, dec. X, n. XXX.

[223] Cfr. AVV, sec.XIII, dec. X, n. XLIII esiste solo traccia della bolla.

[224] Cfr. AVV, sec. XIV, dec. I, n. XXVIII

[225] Cfr. AVV, sec. XIV, dec.II, n. II.

[226] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., I, p. 208)

[227] Cfr. AVV, sec. XIV, dec. II, n. XII.

[228] Cfr. AVV., sec. XIV, (decade e numero mancanti nel documento).

[229] Cfr. AVV. Sec. XIV, dec. III, n. LXXX.

[230] Cfr, G. Mariti, Odeporico… cit.

[231] AVV., sec. XIV, dec. III, n. LXXXII.

[232] AVV. Sec. XIV, dec. I, n. XXVI.

[233] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. II, n. XLVIII.

[234] AVV., sec. XIV, dec. III, n. LXVII. Il toponimo è tuttora esistente.

[235] Cfr.  AVV., sec. XIV, dec. IV, n. II?

[236] Cfr. AVV., sec.XIV, dec. IV, n. XXXIX

[237] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. IV, n. XXVI.

[238] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. IV, n. XXVI.

[239] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. V, n. XIII.

[240] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680).

[241] G. Mariti, Odeporico…cit.

[242] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680). V. pag. 27.

[243] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680).

[244] Cfr. ASF. Camaldoli appendice, n. 83, cc. non numerate; B.G.V. (Biblioteca Guarnacci Volterra), Repertorio dell’Achivio di Badia, G. Gherardini MDCCLXIX, Inventario 9335.

[245] Cfr. A.S.C.V., Codice 12516, T, c. 72 v. e r.; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., t. VII, pp. 315-316.

[246] Ibid.

[247] Appartenente alla nobile famiglia De’ Pazzi, di centrale importanza nella storia di Firenze.

[248] Ibid.

[249] Probabilmente si tratta del priore del monastero camaldolese di Santa Maria degli Angeli, fondato nel 1295 da Guittone d’Arezzo, appartenente all’ordine dei frati Gaudenti, in luogo detto “Cafaggio”, fuori del secondo cerchio delle mura, dove, attualmente è pazza San Michele Visdomini e via de’ Servi. Nel 1348 l’Eremo venne ingrandito e furono incorporate varie case appartenute alle famiglie degli Alfani e degli Adimari. Nel 1378, era stato trsformato in deposito per i cittadini possidenti: fu saccheggiato nel 1378 durante la rivolta dei Ciompi. Oggi resta la ex chiesa di Santa Maria degli Angeli in via Alfani a Firenze. Cfr. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_Santa_Maria_degli_Angeli_(Firenze)

[250] Ibid.

[251] Ibid.

[252] Ibid.

[253] Ibid.

[254] Ibid.

[255] Ibid.

[256] Ibid.

LA PORTA DEL PARADISO FIRENZE

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Lorenzo Ghiberti, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze, 1425-52
La Porta del Paradiso del Battistero di Firenze torna visibile al pubblico dopo un restauro durato 27 anni, senza eguali per complessità, e dopo 560 da quando Lorenzo Ghiberti terminò quello che può essere considerato uno dei grandi capolavori del Rinascimento. Secondo il Vasari fu Michelangelo a darle il nome di Porta del Paradiso: ”elle son tanto belle che starebbon bene alle porte del Paradiso”. Il restauro, che ha permesso di salvare la mitica doratura, è stato diretto ed eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, su incarico dell’Opera di Santa Maria del Fiore, grazie ai finanziamenti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e al contributo dell’Associazione Friends of Florence. Realizzata in bronzo e oro, la Porta del Paradiso (del peso di 8 tonnellate, alta 5 metri e venti, larga 3 metri e dieci, dello spessore di 11 centimetri) sarà conservata nella grande teca, realizzata dalla Goppion spa, in condizioni costanti di bassa umidità per evitare il formarsi di sali instabili, tra la superficie del bronzo e la pellicola dorata, che salendo, sollevano e perforando l’oro, possono causare la distruzione. La collocazione dentro il cortile coperto del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze è temporanea: al termine dei lavori di realizzazione del nuovo Museo, previsti nel 2015, la Porta del Paradiso sarà esposta in una nuova sala espositiva, di 29 metri x 21 x 16 di altezza, con accanto le altre due Porte del Battistero a cui sarà riservato in futuro lo stesso destino.
DESCRIZIONE

Dopo un breve soggiorno a Venezia, nel 1424, subito dopo la conclusione della porta nord del Battistero, Lorenzo Ghiberti fece ritorno a Firenze, dove gli venne affidato l’incarico di realizzare una nuova porta di bronzo, sempre per il Battistero. Anche questa porta, al pari dell’altra, ha avuto una lunga gestazione e realizzazione, durata ben 27 anni: fu infatti messa in opera solo nel 1452, quando il Ghiberti aveva ben 74 anni.

Il programma stilistico iniziale non doveva essere molto differente dalle altre due porte. È facile immaginare che anche questa porta doveva contenere 28 riquadri, nei quali dovevano collocarsi Scene del Vecchio Testamento, secondo un piano iconografico predisposto dal letterato umanista Leonardo Bruni. Ma il Ghiberti, questa volta, impose una decisa svolta stilistica, progettando una porta con soli dieci grandi scene di formato quadrato.

I dieci grandi riquadri sono collocati nei due battenti, cinque per parte: le due file verticali sono poi circondate da quattro cornici ciascuna, contenenti in tutto 24 piccole nicchie, nelle quali sono inserite dei personaggi biblici, alternate con 24 piccoli medaglioni dai quali sporgono dei busti (uno di questi si ritiene sia l’autoritratto del Ghiberti).

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Lorenzo Ghiberti, Storie dalla Genesi, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze

Ognuno dei grandi pannelli quadrati raggruppa due o più storie, secondo una concezione di rappresentazione sincrona che, abbiamo visto, era molto utilizzata nel Duecento e Trecento. Ma in questi riquadri domina una visione spaziale unitaria, con molti particolari architettonici costruiti in prospettiva più o meno perfetta. Il Ghiberti mostrò così di saper aggiornare il suo stile sulle novità rinascimentali che andavano maturando in quegli anni, e in ciò non dovette essere secondario il contributo che al maestro diede l’opera di Donatello. Molti elementi delle scene, realizzate a rilievo schiacciato, quasi un puro disegno inciso sul piano della lastra, sembrano proprie dello stile di Donatello. Ma in questi grandi pannelli rimane il gusto ancora tardo gotico per il dettaglio minuto, nonché per la varietà, da atlante naturalistico, di piante e animali. Tardo gotico è anche l’insistere sulle cadenze lineari in motivi curvi e spiraliformi.L’opera ebbe grande fortuna critica, e deve il suo nome di «Porta del Paradiso» a Michelangelo, uno dei primi e maggiori estimatori di questo capolavoro della fusione in bronzo.

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Lorenzo Ghiberti, Storie di Giuseppe, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze

Lucica Bianchi

 

SAN TRIFONE. VITA E CULTO

 

La vita di San Trifone

Sono tanti gli storici che si sono cimentati nella narrazione della Sua vita che, benché atrocemente martirizzata, è stata sempre in odore di santità. Fra i molti che hanno scritto su San TRIFONE (Cardinale, Baronio, Ottavio, Gaetano, Teodorico, Ruinari, Mazzocchi), ho scelto di trarre informazioni da un libro edito nel 1995 ed intitolato: “La storia di San TRIFONE“, scritta da Mons. Luigi Stangarone di Adelfia (Ba), valente ed attendibile storico dello stesso paese che presentò la sua opera in occasione della Festa Patronale dello stesso anno (1995). Altre informazioni sono state tratte dal libretto “San Trifone e la Sua Cattedrale” di Don Anton Belan da Cattaro.

SAN TRIFONE nacque nel 232 circa in Pirgia nella città di Kampsada (oggi Iznir) nei pressi di Nicea (Lampsakos), provincia romana di Apamea. La regione si trovava sotto dominio romano dal 116 AD., in quel periodo Roma possedeva gran parte dell’Asia Minore. Kampsada era già un vescovado nel quarto secolo e l’attività svolta dagli abitanti era prevalentemente dedita all’agricoltura. 

Oggi sono pochi i resti di Kampsada.
La vita di San Trifone si svolse sotto il papato di San Ponziano (230-235), Sant’Antero (235-236) e San Fabiano (236-250). Uno dei primi vescovi di Kampsada fu Partenio (quarto secolo), proclamato santo.
Un manoscritto Armeno riferisce che i genitori di Trifone erano Cristiani e diedero al loro bambino il nome diTriph, che nella radice etimologica significa “animo nobile”. In latino e in greco divenne successivamenteTryphon e nel diciassettesimo secolo l’arcivescovo Croato Andrija Zmajevic diede il nome slavo Tripun. Il padre di Trifone morì quando era bambino e l’intera attenzione per la sua educazione Cristiana fu curata dalla madre Eukaria. Nel Dicembre del 249 sino alla fine del 250 l’Imperatore Romano Decio emanò un decreto autorizzando la persecuzione dei Cattolici. Fu il settimo dai tempi di Nerone ed il primo che investì l’intero Impero Romano. Fu allora che Trifone, ancora giovane, fu martirizzato. Si racconta che per fuggire alla persecuzione i Cristiani, sia ragazzi che adulti, furono costretti a fare un’offerta di fronte alla statua dell’imperatore, spesso granelli di incenso.
Alcuni culti pagani furono vietati, ma il rifiuto di eseguirli portava al sequestro di tutti i possessi, all’arresto, ai lavori forzati, alle torture sino alla morte. Durante la gestione di Aquilino, prefetto di tutta l’Asia Minore, San Trifone fu preso dal suo luogo di nascita. Alla domanda “che cosa sei?”, Trifone rispose di essere “un Cristiano”. Dopo tre giorni di tortura che dovevano costringerlo a fare la sua offerta agli dei, Trifone fu decapitato. Il suo corpo fu inviato al suo luogo della nascita Kampsada, quindi portato a Costantinopoli e da lì a Cattaro.
Probabilmente il 2 febbraio è la data indicata del suo martirio, anche se pare che nei Calendari Napoletani marmorei, nei sinaxari di Costantinopoli, nei calendari russi e in qualcuno greco pre-datano il giorno del martirio di San Trifone al 1 Febbraio. Nel IX secolo il famoso martirologio benedettino dei martiri (Usuardi Martyrologium) e nel calendario di Cattaro, postdatano il martirio al 3 febbraio. Nel 1582 il Calendario Giuliano fu sostituito da quello Gregoriano, Papa Clemente VIII in un decreto del 17 settembre 1594 fissa il 3 febbraio giorno per la commemorazione di San Trifone nel vescovado di Cattaro. Oggi in Cattaro la commemorazione liturgica di San Trifone avviene anche il 10 novembre, mentre il 13 gennaio viene celebrato il trasferimento delle sue reliquie.
Il 10 novembre sarebbe invece il giorno della traslazione del suo corpo a Roma, ove fu deposto in una chiesetta a lui dedicata in Campo Marzio, nel sec. IX. Quella chiesetta, sede di parrocchia, fu designata come «stazione» del primo sabato di quaresima, indicazione tuttora riportata nei calendari liturgici della Chiesa romana. La chiesa di San TRIFONE in Campo Marzio fu distrutta nel sec. XVIII per allargare il convento degli Agostiniani annesso alla grandiosa chiesa di Sant’ Agostino, ove furono trasportati tutte le reliquie ed oggetti sacri prima esistenti nella chiesa di San TRIFONE. A Cerignola vi sono alcune reliquie di San TRIFONE, trasportate nel 1917. Le reliquie del nostro Patrono sono quelle conservate e venerate a Cattaro, in Dalmazia. Stavano per essere portate a Venezia, ma per una tempesta furono bloccate nell’809 a Cattaro e, in onore del Santo proclamato Patrono, venne in seguito eretta la Cattedrale. San Trifone, protettore di Cattaro, secondo alcune tradizioni è un santo giovinetto che compiva miracoli.

San Trifone in arte

Le vicende da cui Carpaccio trae ispirazione avvengono in Frigia, dove il giovane Trifone: guarisce un fanciullo morso da un serpente, un mercante caduto e calpestato da un cavallo che si rialza indenne, rende mansueto un cinghiale inferocito, viene soprattutto ricordato per la liberazione di una fanciulla indemoniata. L’imperatore Giordano chiama Trifone per far liberare dal diavolo la bella e intelligente figlia Giordana. Appena il giovane si avvicina alla principessa, il demonio la lascia e scappa tra grida rabbiose. L’imperatore chiede di poter vedere la bestia e Trifone lo accontenta.

La tela mostra un episodio dedicato a San Trifone, ovvero al suo miracolo più famoso, legato alla guarigione di Gordiana, figlia dell’imperatore Gordiano III, quando il santo aveva dodici anni. Essa era ossessionata da un demonio, che compare in forma di basilisco, un mostro fantastico con corpo leonino, ali di uccello, coda di rettile e testa asinina. La rappresentazione del demonio come basilisco, che non ha altri riferimenti iconografici nelle storie di Trifone, è legata all’identificazione del basilisco come “re dei serpenti” e quindi simbolo di Satana, ma anche alla simbologia dei peccati capitali: il drago (che compare nelle storie di san Giorgio), il leone (che compare in quelle di san Girolamo) e il basilisco, appunto. L’azione si svolge in una sorta di padiglione reale, retto da colonne e sollevato di alcuni gradini, dove il sovrano assiste impassibile al miracolo, a fianco della figlia, la cui fisionomia ricorda le Madonne dalla boccuccia stretta di Perugino. Sono citazioni all’antica i profili sulle specchiature marmoree della decorazione del fianco dell’edificio in primo piano. Assiste alla scena una variegata folla, ma ancor più brulicante, come tipico nelle opere di Carpaccio, è l’umanità in secondo piano, affacciata alle finestre e ai balconi delle architetture della città di sfondo, che ricorda da vicino Venezia, soprattutto nei ponti arcuati che passano i canali. In lontananza si vedono un edificio a pianta circolare e un alto campanile.

 

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Vittore Carpaccio, San Trifone ammansisce il basilisco,1507,Scuola di San Giorgio dei Schiavoni, Venezia

In nome di Dio, Trifone comanda alla bestia di mostrarsi e questa appare sotto forma di “un cane nero con occhi del fuoco” sostenendo che il suo compito è quello di impossessarsi di coloro che non conoscono la religione Cristiana, perché si sottomettono più facilmente al volere del demonio. Sentendo questo, l’imperatore decide di convertirsi.

 

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San Trifone in un mosaico di Monreale

 

Erano anni di relativa pace per i cristiani finché sul trono di Roma salì nel 249 il crudelissimo Traiano Decio che riprese la lotta sanguinosa contro i cristiani emanando severissimi decreti: lo zelo apostolico di S. Trifone, la sua illuminata predicazione incontrarono l’opposizione dei persecutori così, quando al Prefetto di Oriente, Aquilino, giunse notizia che S. Trifone disprezzava gli editti imperiali esortando i cristiani alla fedeltà in Cristo sino alla morte, fu arrestato e portato in Nicea: “Caricato di catene, come un malfattore, dopo inauditi maltrattamenti inflitti durante il viaggio” affrontò il Prefetto con indicibile serenità, rifiutando di rinnegare Cristo ben sapendo i tormenti a cui andava incontro: lo legarono ad un palo e gli strapparono la carne con pettini di ferro; Trifone non parlava nonostante Aquilino quasi lo supplicasse l’abiura: “quasi ignudo, legato come un assassino, spinto per le vie sassose e ghiacciate… fu legato alla coda di due cavalli e così, sbattuto, tutto lacero e pesto, lasciando tra le spine e i sassi brandelli della sua virginia carne… il Prefetto ordinò che gli si perforassero i piedi con due acutissimi chiodi e così, ignudo lo menassero per le vie di Nicea battendolo senza alcuna misura”; gli bruciarono i fianchi, fu battuto aspramente e, dopo aver visto morire fra i tormenti il giovane Respicio che gli si era avvicinato, dopo un’ultima giornata di sofferenze incredibili, fu affidato al carnefice che tagliò con la spada il suo corpo “biondo e ricciuto”.

 

37-s-trifone-martire-protettore-di-cerignola-dal-1595

Per volere dello stesso Santo le sue spoglie, prima sepolte in Nicea, furono trasferite a Kampsade il 5 maggio del 254, dopo la morte di Decio; quando la fede delle colonie orientali cominciò ad incrinarsi, fu disposta la traslazione del corpo a Roma: “le reliquie furono deposte con quelle della vergine e martire Ninfa e di Respicio in un’urna sotto l’altare maggiore della chiesa dell’Ospedale di S. Spirito“.

 

 

 

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processione con il quadro di San Trifone, Adelfia 

 

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Il Culto di San Trifone a Cerignola (Fg)

(tratto da http://www.parrocchiasantrifone.it/index.php/san-trifone-martire/culto)

Nell’anno 1595, e seguenti, tutta la Puglia sentiva il flagello dei bruchi: in tale circostanza capitò nel nostro territorio(di Cerignola) un venerando prete greco “religioso dell’Ordine di S. Basilio”, che incitò il Clero e il Popolo a ricorrere devotamente a S. Trifone: egli stesso, percorrendo le campagne, invocando il Santo allontanava e distruggeva le locuste cosicchè tutti riconobbero la validissima protezione del giovane martire e unanimamente lo acclamarono e benedissero quale speciale Patrono e Protettore di Cerignola. L’Arciprete del tempo, D. Giovanni Giacomo De Martinis, dedicò al Santo la cappella, che si trova dietro l’attuale sacrestia del Reverendissimo Capitolo Cattedrale (La Cappella successivamente dedicata a S. Rita da Cascia, si trova nella ex Chiesa Madre ed è la prima sulla parete di destra della navata maggiore), collocandovi un quadro con l’immagine dello stesso che in mezzo ai campi, con l’aspersorio in mano benedice i terreni scacciandone l’infausto flagello: per accrescere la devozione del popolo, finchè visse, celebrò sull’altare, ivi eretto, la Santa Messa.

 

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Ma il tempo e l’amara ingratitudine cercano di oscurare questo insigne favore del Cielo, quando un vescovo pio, Mons. Giovanni Sodo, si accorge che questa popolazione comincia a perdere il ricordo delle sante memorie e per richiamare i fedeli alle tradizioni religiose degli avi pensa di rimettere in onore il culto del Martire glorioso, di ridare a Cerignola il Patrono dei suoi campi.

 

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Da Roma, per eccezionale e benigna concessione del Santo Padre Benedetto XV, ed in seguito a non facili pratiche dal Nostro amato Pastore felicemente esperite, le preziose Reliquie del corpo di S. Trifone furono trasferite nella nostra Cattedrale il 16 maggio 1917. Fu proprio Mons. Sodo che commissionò la statua del giovane martire: la stessa, in cartone romano, veniva portata solennemente in processione almeno fino agli anni trenta. Nella Cattedrale Tonti durante il Triduo e la festa la statua era collocata alla destra dell’Altare maggiore: per l’occasione venivano distribuiti il “pane di S. Trifone” e una candelina. Due anni dopo, sotto il ministero pastorale dello stesso Mons. Sodo, la nobildonna Clementina De Nittis Gatti donò una artistica e pregevole urna di bronzo e cristallo, nella quale furono esposte le sacre reliquie del Martire: sulla fascia basale corre la seguente iscrizione “CORPUS S. TRJPHONIS M(ARTYRIS) PATR(ONI) CERIN(IOLENSIS) ET SOC(II) CAPSULAM HANC AERE SUO FECIT D(OMI)NA CLEMENTINA GATTI DE NITTIS ANNO MCMXIX – AUSPICE IOANNE SODO EPISCOPO”  (Per il corpo di San Trifone Martire, Patrono consociato di Cerignola, donna Clementina Gatti – De Nittis fece preparare a proprie spese questa urna nell’anno 1919 con l’approvazione del Vescovo Giovanni Sodo). La predetta urna è stata trasferita, nel 1934, sotto l’Altare della Confessione del medesimo Duomo Tonti, dove tutt’ora è collocata.

A spese dell’Università, nel primo giorno di febbraio, si solennizzava ne’ tempi andati un festeggiamento assai devoto e solenne, che ora è andato in disuso, in onore del glorioso Martire S. Trifon, Protettore minore della Città, ma patrono principale delle campagne, sotto il cui patrocinio stanno i nostri campi. Nel giorno festivo enunciato, i Decurioni con il Sindaco intervenivano nella Cattedrale, ed accoppiavano agli effetti religiosi del cuore una oblazione di moltissimi ceri al Reverendissimo Capitolo.

Ed il 1° febbraio è rimasto per tradizione, da quel lontano 1595 a tutt’oggi, il giorno dedicato alla celebrazione della Festa del nostro Protettore S. Trifone. Attesta la devozione al Santo anche la presenza di una Sua effige impressa insieme a quelle dei Compatroni S. Pietro Ap. e Maria SS.ma di Ripalta, e a quella del SS. Crocifisso sulla campana grande del Duomo Tonti.

Con decreto vescovile del 23 novembre 1980, Mons. Mario Di Lieto istituiva la Parrocchia, nel nuovo quartiere residenziale “Fornaci”, intitolata a S. Trifone Martire. La stessa, affidata alle cure dei PP. Salesiani e senza una sede stabile, dal settembre del 1987 fu retta da Don Tommaso Dente che provvide a dotarla di una Cappella, inaugurata la prima domenica di Avvento di quell’anno anche se le celebrazioni sacramentali continuavano nella Chiesa di Cristo Re. Dal 21 febbraio 1988 Don Domenico Carbone ne fu l’animatore pastorale divenendone Parroco nel maggio del 1989. Nel gennaio del 1991 lo stesso chiese ed ottenne dal Parroco dell’antica Chiesa di Cristo Re la statua del Santo: l’8 dicembre 1991 è stata ufficialmente inaugurata da Mons. Giovanni Battista Pichierri, nostro vescovo, la nuova sede, in un prefabbricato dello stesso rione.

Nei pressi del prefabbricato sorse il cantiere per la costruzione della nuova chiesa, realizzata tra il 1993 ed il 1996. Nella stessa chiesa, fin dal febbraio 1995, è stata ripristinata, dopo circa sessant’anni, la processione in onore del titolare parrocchiale, che registra un’ampia partecipazione di fedeli.  Terminata la costruzione della nuova struttura, il 7 giugno 1997 il vescovo Picherri, durante una solenne concelebrazione eucaristica, con i sacerdoti della diocesi, presenti le autorità civili e moltissimi fedeli, celebrò il rito della dedicazione della nuova chiesa parrocchiale intitolandola a San Trifone Martire. La nuova struttura, il 29 maggio 1999, con autorizzazione del Capitolo Cattedrale, ha accolto festosa alcune delle reliquie del santo, martire della Frigia.

 

Trifone Cellamaro

bibliotecario presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana

LA CHIESA DI SAN SEPOLCRO, Milano

 

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LA CHIESA DI SAN SEPOLCRO sorge su due livelli -uno sotterraneo e uno esterno- nella omonima piazza a Milano, non distante da piazza Duomo e sull’area di quello che fu il Foro di Milano in epoca romana.

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È santuario della parrocchia di San Satiro dell’arcidiocesi di Milano.La chiesa venne fondata come privata nel 1030 con il titolo di Santissima Trinità, dal Magister Monetæ Benedetto Ronzone o Rozone, Maestro della Zecca, e costruita su un terreno della famiglia dello stesso nei pressi della sua abitazione.Il 15 luglio 1100, in piena epoca di Crociate, l’arcivescovo di Milano Anselmo da Bovisio nel giorno delle celebrazioni del primo anniversario della spedizione crociata lombarda che nel 1099 prese Gerusalemme e alla vigilia della seconda spedizione del 1100, ridedica la chiesa della Santissima Trinità al San Sepolcro di Gerusalemme, proprio per via dell’importanza assunta in quegli anni dai luoghi Santi (lo stesso Anselmo parteciperà e morirà nella Crociata del 1101). La chiesa viene pesantemente rimaneggiata al fine di conferirle le forme del Santo Sepolcro di Gerusalemme.I rimaneggiamenti sono d’altronde tantissimi nel corso dei secoli, a partire dall’aggiunta dei due campanili nel corso del XII secolo.La chiesa di San Sepolcro fu eletta nel 1578 da Carlo Borromeo a sede principale della congregazione degli Oblati dei Santi Ambrogio e Carlo da egli stesso fondata; lo stesso Borromeo istituì la cerimonia del Santo Chiodo che, annualmente, si snoda dal Duomo a San Sepolcro.Nel 1605 Federico Borromeo chiamò l’architetto Aurelio Trezzi a trasformarne l’interno alla maniera barocca e fece erigere al fianco e nel retro della chiesa la Biblioteca Ambrosiana.La chiesa fu poi ulteriormente modificata e restaurata tra il 1713 e il 1719.La facciata attuale, è frutto di una ricostruzione degli anni 1894 – 1897 ad opera di Gaetano Moretti e Cesare Nava, in stile romanico lombardo, in linea col gusto anacronistico di quei tempi. In tale occasione i due campanili vennero resi gemelli, e l’affresco del Bramantino che era collocato sopra il portale venne staccato e trasferito all’interno della chiesa.L’interno è rimasto fino ai giorni nostri in stile barocco. L’atrio è attribuito a Francesco Maria Richino e chiuso da due cappelle decorate dagli affreschi di Carlo Bellosio San Carlo al Sepolcro e San Filippo Neri presentato a San Carlo. Nelle due cappelle a lato dell’altare due pregevoli gruppi scultorei in terracotta con una bella Ultima Cena a sinistra e un trittico sulla Morte di Cristo a destra attribuiti a Agostino De Fondulis. Posto davanti all’abside un sarcofago opera forse di maestri della prima parte del XIV secolo e che doveva contenere alcune reliquie di Terrasanta ivi portate dai crociati lombardi (terra di Gerusalemme e alcuni capelli di Maria Maddalena).Nel 1928 la chiesa fu acquistata dalla Biblioteca Ambrosiana e cessò così il suo status di parrocchia.

 

nelle immagini: l’altare maggiore e le statue in terracotta

CRISTIANESIMO E LA CHIESA RUSSA

Lungo il corso dei secoli VII-IX le pianure di quella che oggi è la Russia furono interessate da un massiccio popolamento, oltre alle popolazioni nomadi presenti nella zona già da millenni iniziarono a giungervi anche i vichinghi, chiamati dalle genti del posto variaghi, che ben presto stabilirono rotte commerciali dalla Scandinavia al Mar Nero e di lì fino a Costantinopoli. I normanni riuscirono ad imporsi ben presto come classe dirigente dei popoli stanziati nell’alta valle del Dnjepr, da qui poi cominciarono a espandersi.

La regione dove si stanziarono i vichinghi era costituita dall’area oggi corrispondente all’Ucraina settentrionale, una regione quindi molto ricca di grano. Fu grazie a questa risorsa che i vichinghi poterono accedere alle immense ricchezze messe loro a disposizione dal mercato cerealicolo di Costantinopoli, la quale essendo all’epoca la più grande città del mondo aveva continuo bisogno d’approvvigionamento di beni alimentari.

Visti gli stretti rapporti con la seconda Roma, i variaghi, diventati col tempo signori di Kiev, subirono ben presto l’influenza del cristianesimo. Fu grazie all’opera dei fratelli monaci Cirillo e Metodio, che le regioni della Russia meridionale e dell’Ucraina furono convertite al cristianesimo. Il cristianesimo della chiesa russa però ebbe poco a che fare col cristianesimo occidentale, infatti la chiesa ortodossa divenne ben presto egemone nella vita religiosa dei variaghi, alla fine del X secolo sulla spinta della popolarità di cui la nuova religione godeva fra la gente e anche per ingraziarsi l’imperatore bizantino, i principi di Kiev si convertirono al cristianesimo ortodosso.

Nel 989 Vladimir principe di Kiev decise di abbandonare il paganesimo e costrinse alla conversione il suo intero popolo, da questo momento grazie alla conversione e all’appoggio di Bisanzio il principato di Kiev diverrà lo stato egemone delle terre russe, con la conversione arrivò anche la struttura ecclesiastica sulla quale i bizantini mantennero il controllo, infatti il patriarca ortodosso di Costantinopoli si garantirà il diritto di nominare il metropolita di Kiev, assumendo quindi un controllo diretto sul vertice della chiesa russa e precludendo qualunque influenza cattolica sull’evangelizzazione delle steppe.

La Russia di Kiev della fine del X e inizio del XI secolo è uno stato potente e unito, ma già con i suoi eredi, l’antico stato si suddivide in principati autonomi, tanto che dalla metà del XII secolo inizia un lungo periodo di disgregazione politica.
All’inizio del XIII secolo le terre russe subirono i primi seri attacchi dal potentissimo esercito mongolo, sotto il comando del khan Batu nipote di Gengis Khan, tanto che nella metà del XIII secolo circa, quasi tutti i principati russi si trovarono sotto il potere dell’Orda d’Oro. Contemporaneamente, nell’Impero romano d’Oriente governa la dinastia Macedone (metà del IX – metà del XI secolo); con essa si avrà una nuova fioritura delle arti, denominata dagli storici come “rinascimento macedone”. Con l’arrivo del cristianesimo in Russia si iniziano a costruire le prime chiese in muratura, e con esse, si da impulso alle nuove arti – musive, pittoriche (affreschi, icone e miniature) e le arti applicate in genere. L’imponenza e la straordinaria portata di questi edifici e opere servivano a enfatizzare la grandezza del nuovo stato cristiano e dei principi di Kiev.Le icone più antiche a noi pervenute, sono databili tra XI – inizio XII secolo; molte di queste, sono state poi portate a Mosca, nel XVI secolo, dallo zar Ivan il Terribile. Nella Cattedrale della Dormizione, presso il Cremlino di Mosca, si conserva una di queste icone, di grandi dimensioni, dipinta sui due lati – La Madonna Odigitria con Bambino (metà del XI secolo), usata per le processioni. Sul retro troviamo l’immagine di San Giorgio, martire e guerriero, in ottime condizioni rispetto all’immagine principale, mostrante la lancia nella mano destra e la spada in quella sinistra. Di norma sul lato anteriore delle icone usate per le processioni venivano dipinte l’immagine della Madonna e sul retro – la Croce o la Crocefissione o l’immagine di un santo martire come manifestazione della Passione di Cristo.

 

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L’antica immagine della Theotokos, purtroppo, risulta assai rovinata: i riflessi, le ombreggiature, ma soprattutto lo sguardo malinconico di Maria, stilisticamente, collocherebbero l’opera nel XIV secolo, periodo in cui sarebbe stata pesantemente rimaneggiata. Della vecchia immagine del XI secolo, sono rimaste solo le grosse proporzioni e le pieghe appesantite dell’abito.La composizione densa e intensa, la resa voluminosa delle forme, con allusione alla realtà, trapela invece nell’immagine di San Giorgio, sia nel volto, sia nelle mani, sia nell’armatura dipinta con straordinaria verosimiglianza e precisione, soprattutto nella riproduzione delle giunture delle diverse placche della corazza. L’immagine eroica dell’irriducibile sostenitore e difensore della fede cristiana si manifesta grazie alle grandi proporzioni: infatti, la figura arriva quasi a toccare i margini della tavola. Il colore del volto, straordinariamente chiaro e luminoso, così diverso dalla scelta artistica del secolo successivo, rende quest’opera veramente unica.

Lucica Bianchi

BASILICA DELLA SS. ANNUNZIATA, FIRENZE

La basilica della Santissima Annunziata è il principale santuario mariano di Firenze casa madre dell’ordine servita. La chiesa, è collocata nell’omonima piazza nella parte nord-est del centro cittadino, vicino all’Ospedale degli Innocenti.

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L’ampio porticato in pietra serena che s’apre sull’entrata della Basilica, fu eretto da Giovanni Caccini, continuando il disegno dell’arco centrale di Michelozzo (1453). Lo stemma del Papa Leone X campeggia su un dipinto molto deteriorato di lacopo Carucci detto il Pontormo. Tutto il loggiato fu compiuto nel 1601, ed una iscrizione latina che corre sopra gli archi, ricorda i nomi dei fratelli Alessandro e Roberto Pucci che lo fecero costruire in onore della Vergine.

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Sotto il porticato si aprono tre porte: quella centrale, che conduce nel chiostro dei Voti e per esso nella Chiesa; quella del Chiostro Grande a sinistra, e la porta dell’Oratorio di S. Sebastiano, a destra. Sulla porta centrale, possiamo ammirare un’Annunciazione in mosaico di David Ghirlandaio (1512).

IL CHIOSTRO DEI VOTI.

Svelte colonne di ordine corinzio reggono gli archi di un portico quadrilatero, iniziato nel 1447 su disegno di Michelozzo di Bartolommeo. Il Chiostro servì per diverso tempo a raccogliere gli ex-voto e le immagini che i fedeli offrivano alla Madonna in segno di gratitudine per le grazie ricevute. Di qui il suo appellativo di Chiostro dei Voti.

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Ma la sua nota caratteristica consiste nell’essere divenuto come una palestra e un manifesto artistico per un gruppo di giovani pittori fiorentini dei primi del XVI sec. i quali assommano in sé quella ricerca inquieta, propria del periodo di transizione, che dall’arte di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, sfocerà poi nel manierismo toscano. Non è puro caso che, sulle pareti bianche del Chiostro, oltre agli artisti Baldovinetti , Cosimo Rosselli, e al ventiquattrenne Andrea del Sarto, trovano libertà di espressione giovani artisti come il Pontormo, il Rosso Fiorentino e il Franciabigio. Il mecenatismo dei Servi di Maria per le arti in genere era proverbiale, e si concretizzerà sempre nello stesso secolo, con il fattivo aiuto dato alla Compagnia delle Arti del Disegno, da un artista dello stesso Ordine, Giovanni Angelo Montorsoli (v. Cappella dei Pittori). Sedici lunette si susseguono sotto il porticato, e di queste, dodici furono affrescate quasi tutte nello stesso periodo di tempo, perché i lavori dovevano essere fatti per l’8 settembre del 1514, data della pubblicazione del Giubileo perpetuo concesso alla Chiesa da Leone X. Le pitture a destra di chi entra, svolgono scene ed episodi della vita della Madonna: l’Assunzione (1513), è di Giovanni Battista Rosso fiorentino; lo Sposalizio di Maria (1514) di Andrea del Sarto; la Visitazione (1515), del Pontormo. I guasti di questo affresco sono dovuti alla suscettibilità dello stesso artista, che deteriorò la pittura in un momento di sdegno provocato dalla curiosità dei committenti. Nelle due lunette che seguono, vi erano un tempo gli sportelli dell’armadio dell’argenteria, dipinti dal Beato Angelico per la Cappella della Madonna e ora al Museo di S. Marco. Al loro posto vediamo la Madonna della Neve, altorilievo di marmo attribuito recentemente a Luca della Robbia. Di Andrea del Sarto sono la Natività della Vergine e il Corteo dei Magi (1513-1514). In quest’ultimo affresco, nel gruppo delle tre persone a destra, l’artista ritrasse il suo amico Iacopo Sansovino, e Francesco d’Agnolo Aiolle (musico famoso, insegnante di canto e composizione di Benvenuto Cellini) nella figura intera che guarda verso di noi; nel volto in profilo, dietro le spalle dell’Aiolle, eseguì un’autoritratto. Le due acquasantiere di bronzo sulle colonne davanti all’entrata principale della Chiesa, sono di Francesco Susini (1615).Dopo le due porte della chiesa, troviamo l’Adorazione dei Pastori (1463) di Alessio Baldovinetti, opera pregevole ma molto deperita nei colori.

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Il ciclo narrativo della vita di S. Filippo, occupa tutto il lato sinistro del portico. Il primo affresco è di Cosimo Rosselli, pittore appartenente con il Baldovinetti alla vecchia generazione, ma le altre cinque lunette sono tutte di Andrea del Sarto. Esse rappresentano la Vestizione religiosa del santo del Rosselli (1475); S. Filippo risana un lebbroso (tra le lunette, il busto in marmo di Andrea del Sarto, opera del Caccini); i Bestemmiatori puniti; la Liberazione di una indemoniata; Morte del Santo e risurrezione di un fanciullo; Devozione dei fiorentini alle reliquie di S Filippo (nel vecchio, vestito di rosso, è ritratto Andrea della Robbia. Andrea del Sarto affrescò queste sue cinque lunette tra il 1509 e il 1510. In soli sei anni (1509-15) il Chiostro della Madonna (fatta eccezione per i due affreschi del Baldovinetti e del Rosselli) raccoglieva e ci tramandava il meglio della pittura fiorentina del sec. XVI.Gli altri affreschi nei pennacchi delle volte sono di Chimenti di Lorenzo, del Bechi, del Cinelli e di Andrea di Cosimo.Tutti gli affreschi del Chiostrino sono stati staccati e restaurati nella seconda metà del secolo scorso.

L’INTERNO DELLA CHIESA.

Entrati in chiesa, la ricca decorazione barocca ci lascia un istante a disagio, per il contrasto che nasce con la purezza e la grazia rinascimentale del Chiostro dei Voti. Ma è un attimo. Il soffitto meraviglioso del Volterrano, la profusione di marmi e stucchi e dorature, le sfarzosità dell’insieme, non tolgono quel senso di raccoglimento proprio ai luoghi sacri.I grandi quadri in alto, tra gli spazi dei finestroni, narrano i più famosi Miracoli della Madonna e furono dipinti da Cosimo Ulivelli (1671), tranne il primo a destra che è di Giovanni Fiammingo, e l’ultimo a sinistra, di Ferdinando Folchi. I cori d’angeli sopra i due organi sono di Alessandro Nani a destra, e Alessandro Rosi a sinistra. Le pitture dei medaglioni (1693-1702) sono di Tommaso Redi, di Pietro Dandini, di Alessandro Gherardini, e gli stucchi di Vittorio Barbieri, Carlo Marcellini e Giovanni Battista Comasco. Da notare sopra il secondo medaglione a destra la grata dorata che chiude un finestra orizzontale. È la ”finestra dei Principi”, dalla quale la famiglia del Granduca, venendo dal Palazzo della Crocetta (oggi Museo Archeologico), poteva assistere in privato alle funzioni liturgiche che si svolgevano nella Cappella della Madonna.

Quasi tutte le cappelle della Basilica, nacquero per iniziativa di ricche famiglie fiorentine che ambivano di avere la propria sepoltura e il proprio stemma nella chiesa della Madonna. Scomparso, poi, l’uso di seppellire nelle chiese, queste cappelle, invece di mantenere il loro antico nome e patronato, furono chiamate col nome del Santo o del soggetto sacro dipinto nella pala dell’altare.

Cappella di S. Nicola da Bari.

Appartenuta fin dal 1353 alla famiglia del Palagio, conserva a ricordo di questo patronato una parte del trecentesco monumento tombale, ora internato nel muro di sinistra. Taddeo Gaddi aveva affrescato le pareti con alcune scene della vita di S. Nicola, ma nel 1623 Matteo Rosselli sostituiva queste pitture con i suoi affreschi. La tavola dell’altare è di Iacopo Chimenti detto l’Empoli, e rappresenta la Vergine con S. Nicola ed altri Santi. Anche i quattro Evangelisti della volta, e i due episodi de/la vita di S. Nicola nelle lunette, sono di M. Rosselli.

Cappella del Beato Giovacchino da Siena, dell’Ordine dei Servi.

Ne ebbe il patronato, nel 1371, la famiglia Macinghi, come si legge ancora nella lapide dinanzi all’altare. Nel 1677, al posto della tavola della Natività di Nostro Signore, dipinta da Lorenzo di Credi (ora agli Uffizi), fu messa l’attuale, il Beato Giovacchino di Pietro Dandini. Sulla parete sinistra è appeso il Crocifisso in legno, già appartenente all’altare maggiore e intagliato da Antonio e Giuliano da Sangallo nel 1483. Il monumento sepolcrale al marchese Luigi Tempi, fu scolpito da Ulisse Cambi (1849).

Cappella dei Sette Santi Fondatori dei Servi di Maria.

In essa, dal 1387, ebbe la propria sepoltura la famiglia Cresci. Nel 1643 Matteo Nigetti disegnò la presente architettura, e la cupoletta fu affrescata da Baldassarre Franceschini detto il Volterrano, che raffigurò S. Lucia davanti alla Trinità (alla Santa martire era prima dedicata la cappella). Il quadro dei Serre Santi Fondatori fu qui collocato nel 1888 ed è del pittore Niccolò Nannetti. Il monumento marmoreo a Fabrizio Colloredo è opera di Orazio Mochi.

Cappella di S. Pellegrino Laziosi dei Servi di Maria.

Fu fondata verso il 1425 e intitolata alla Pietà. Nel 1456 la cappella – che presentava nell’ancona l’affresco di un Calvario (croce e 4 figure ancora intatte dietro l’attuale tela) a sfondo di un gruppo in terracotta della Pietà, del pittore e scultore Dello Delli -, passò in patronato di Andrea di Gherardo Cortigiani. Nel 1675 Cosimo Ulivelli dipinse la tela dell’altare: il Crocifisso che risana da cancrena S. Pellegrino. Il monumento di marmo della parete di destra, in memoria del celebre medico Angelo Nespoli, è opera di Lorenzo Bartolini (1840); quello a sinistra, di Lorenzo Nencini ricorda l’incisore Luigi Garavaglia da Pavia (1835).

Cappella dell’Addolorata.

Fu edificata da Michelozzo intorno al 1450 per Orlando di Guccio Medici, di cui vediamo sulla parete di sinistra il bel monumento marmoreo attribuito a Bernardo Rossellino. Nel 1455 Andrea del Castagno dipingeva nell’ancona dell’altare una S. Maria Maddalena piangente ai piedi della croce (oggi distrutta). Al presente in una nicchia è collocata la statua della Madonna Addolorata. Prima dell’alluvione essa era normalmente ricoperta da una tela di Raffaello Sorbi, rappresentante S. Filippo Benizi al quale era stata dedicata la cappella nel 1885. Sulla parete destra un grande monumento marmoreo della fine del sec. XVI, raccoglie le ceneri di Tommaso Medici, condottiero della flotta del granducato operante nel Tirreno.Gli affreschi delle pareti sono di Cosimo Ulivelli: nella volta i Sette Fondatori dell‘Ordine dei Servi di Maria; nelle lunette: i BB. Martiri di Praga, il Martirio del B. Benincasa e del B. Piriteo Malvezzi dello stesso Ordine dei Servi.

Cappella del Salvatore.

Si trova sotto l’organo di destra e risale almeno al 1486. Passata a Salvatore Billi, fu adornata di marmi nel 1520 e sull’altare venne posta una tavola di Fra Bartolommeo della Porta: il Salvatore, i quattro Evangelisti, e ai lati: due quadri, con Isaia e Giobbe, sempre dello stesso autore.

Così il Vasari descrive la cappella: ” …Salvatore Billi mercante fiorentino, intesa la fama di fra Bartolommeo … gli fece fare una tavola, dentrovi Cristo Salvatore, alludendo al nome suo, ed i quattro evangelisti che lo circondano … sonvi ancora due profeti molto lodati. Questa tavola è posta nella Nunziata di Fiorenza sotto l’organo grande … è intorno l’ornamento di marmi tutto intagliato per le mani di Piero Rossegli …” (Vasari, Vite, etc. vol. IV, p. 190, Firenze Sansoni 1906).

Queste tavole furono tolte dal cardinale Carlo dei Medici (1556) e al loro posto furono messe delle copie eseguite dall’Empoli. Attualmente la tavola del Salvatore di fra Bartolommeo si trova alla Galleria dei Pitti, ed i due profeti (pitture e disegni) sono agli Uffizi. La copia dell’Empoli si può vedere (e non sappiamo perché non sia più alla SS. Annunziata) nell’antica chiesa fiorentina di S. Iacopo tra i Fossi.

Fino alla piena del 1966 era sull’altare una tavola di Maso da San Friano, con l’Ascensione di Gesù al cielo. Al suo posto vediamo ora un mosaico di Anna Brigida, rappresentante S. Antonio Pucci dei Servi di Maria, canonizzato nel 1962. I due Angeli oranti sui lati, sono attribuiti all’Empoli.

La coppia di piccole colonne di marmo a sostegno della mensa apparteneva all’altare della cappella dell’Annunziata disegnato da Michelozzo.

GLI ORGANI.

Sopra la cappella del Salvatore è un bellissimo organo con basamento e ringhiera scolpiti in marmo da Piero Rosselli, mentre il prospetto in legno, ricco d’intagli e dorature è, in parte, di Giovanni d’Alesso Unghero. Si tratta di un capolavoro del celebre organaio del sec. XVI Domenico di Lorenzo da Lucca, che lo terminò nel 1521. Una tela dipinta nel 1705 da Antonio Puglieschi con la Presentazione al Tempio serve a coprire la mostra. L’organo, giunto fino a noi quasi intatto, è stato sottoposto nel secolo scorso a restauro nella parte meccanica e lignea, a cura della Soprintendenza delle Belle Arti.

Di fronte all’organo di Domenico di Lorenzo, sul lato sinistro della navata, ve n’è uno simile costruito da Cosimo Ravani da Lucca nel 634. Il basamento in marmo è scolpito da Bartolommeo Rossi; la ringhiera di pietra tinta a marmo è di Alessandro Malavisti; la parte lignea è intagliata da Benedetto Tarchiani; il progetto è opera di Matteo Nigetti. Il pittore Giuseppe Romei dipinse la tela che ricopre la mostra con la Morte di S. Giuliana Falconieri (1772). Ambedue gli organi, nel 1763 furono ridotti alla medesima tonalità dal p. Bonfiglio Vambré dei Servi di Maria.

Altri tre organi si trovano nel coro, nella cappella della Madonna Annunziata e nella cappella dei Pittori.

L’Ordine della Madonna vanta una tradizione lunghissima di cultori della musica tra le sue file. Fin dalle origini, si può dire, abbiamo testimonianze che ci parlano di frati organai. Nessuna meraviglia che intorno all’altare della Vergine fiorisse un’arte che è parte integrate del culto e del sentimento religioso del popolo italiano. Già nel 1299 c’era nella chiesa di S. Maria di Cafaggio un organo che venne poi sostituito, nel 1379, con l’altro voluto dall’architetto fra Andrea da Faenza, generale dell’Ordine, il quale ne affidò il progetto ad Andrea di Giovanni dei Servi, la costruzione a fra Domenico, frate basiliano di Siena e il collaudo a Francesco Landino, detto il Cieco degli Organi.

Un altro organo, meno di cento anni dopo, rimpiazzò quello di Andrea dei Servi, fino a che non fu costruito quello di Domenico di Lorenzo da Lucca.

Di frati musicisti possiamo ricordare lo stesso fra Andrea, poeta e compositore di una parte dei madrigali conservati nel Codice Squarcialupi alla Biblioteca Medicea Laurenziana, e che fu tra coloro i quali diedero maggiore impulso all’Ars Nova fiorentina. Suoi discepoli, un fra Antonio, un fra Biagio, un fra Gabriele, dello stesso Ordine e il pittore Bonaiuto Corsini. Ma altri nomi di frati, che ebbero una certa fama nella musica, troviamo nei secoli: Mellini (eletto da Leone X maestro della Cappella Vaticana), Mauro, Berti, Borri, Braccini, Dreyer, Florimi, etc…

Come dimostrazione viva di questo culto plurisecolare alla musica sacra nella nostra Basilica, la Cappella Musicale è rimasta attiva dal 1480 fino all’alluvione del 1966.

Cappella di S. Barbara

Si trova a destra della crociera. Nel 1448 fu affidata alla Compagnia dei Tedeschi e dei Fiamminghi che vivevano e lavoravano a Firenze. Oltre alla cappella essi possedevano altre stanze e un oratorio, sempre sul lato destro della chiesa, e a questi locali si accedeva da una entrata privata, posta nell’attuale via Gino Capponi. Nel 1957, l’oratorio (chiamato fino a poco tempo fa Cappella degli Sposi) servì ad aprire un’uscita secondaria alla chiesa.

Le altre stanze appartenenti alta Compagnia dei Tedeschi, adibite in seguito a deposito di sagrestia, sono state adattate alle nuove attività del Convento. Nella cappella di S. Barbara, la Compagnia dei Tedeschi e dei Fiamminghi ebbe la propria sepoltura, ed ancora ne rimane la lapide sul pavimento. Un’altra lapide in graffito ricorda Arrigo Brunick, l’artista tedesco che sbalzò in argento il paliotto dell’altare maggiore. Sul pilastro di sinistra, in alto, è il ritratto in marmo del pittore belga Giovanni Stradano.

Sull’altare, il quadro di S. Barbara fu dipinto da Giuseppe Grisoni.

Cappella del SS. Sacramento o di S. Giuliana Falconieri.

Già esistente nel 1350 e chiamata di S. Donnino, in essa ebbe la sua sepoltura la famiglia dei Falconieri. La cappella venne poi detta della Concezione, per una tavola di M. Rosselli, posta sull’altare (1605), e rappresentante la Vergine Immacolata. Nel 1676 fu trasportato sotto l’altare ed esposto alla venerazione dei fedeli, il corpo della Beata Giuliana, fondatrice delle Suore Mantellate Serve di Maria. Dopo la canonizzazione della Santa fiorentina (1737), la famiglia dei Falconieri decise di arricchire di marmi rari la cappella secondo un progetto di Ferdinando Fuga, adattato da Filippo Cioceri, e nel 1767 i lavori erano terminati.

La cupoletta e la tela dell’altare sono di Vincenzo Meucci, e i due quadri laterali, Morte di S. Giuliana e Morte di S. Alessio Falconieri sono di Giuseppe Grisoni.

Nel 1937, in occasione del secondo centenario della canonizzazione di S. Giuliana Falconieri, i Servi di Maria del convento di Firenze, pensarono di sostituire alla vecchia urna in legno dorato, che racchiudeva le reliquie della Santa, un’ urna in bronzo, su disegno di Giuseppe Cassioli.

La guerra impedì l’attuazione del progetto. Nel 1957, sempre su iniziativa della Comunità di Firenze e con l’aiuto dei fedeli, vennero ripresi i lavori. Oltre all’urna in bronzo (realizzata dalla ditta Bearzi di Firenze sul primitivo disegno del Cassioli) veniva applicata al teschio della Santa una maschera di plastica, opera dello scultore E. Bava. Sempre nello stesso anno si restauravano anche i marmi dell’altare e di tutta la cappella, ad opera della ditta Tosetti di Firenze.

Recentemente è stato collocato sopra il ciborio dell’altare il Crocifisso delle Misericordie che la tradizione collegava al Movimento dei Bianchi degli inizi del sec. XV. In realtà, questo Crocifisso dipinto su tavola sagomata, è attribuito ad Alessio Baldovinetti e datato intorno al 1456 (v. Cappella del Crocifisso).

Cappella della Pietà.

Appartenne dal 1340 alla famiglia Pazzi, ma nel 1559 passò allo scultore Baccio Bandinelli e ai suoi discendenti. Il gruppo della Pietà è dello stesso Bandinelli che si effigiò nel vecchio che sostiene il Cristo morto. Ma il suo vero ritratto (insieme a quello della moglie) lo vediamo nella base posteriore del monumento. La cappella rimase incompleta e disadorna per la morte del Bandinelli, sopravvenuta breve tempo dopo la collocazione del “gruppo”.

A proposito di questa cappella, leggiamo nella autobiografia di Benvenuto Cellini che “il detto Bandinello aveva inteso, come io avevo fatto quel Crocifisso, che io ho detto di sopra; egli subito messe mano in un pezzo di marmo, e fece quella Pietà che si vede nella chiesa della Nunziata”.

Il Cellini aveva scolpito il Crocifisso per la tomba che si era scelto in Santa Maria Novella, ma trovò qualche difficoltà all’attuazione del suo desiderio. Quindi “subito mi volsi alla Chiesa della Nunziata, e ragionando di darlo in quel modo (il Crocifisso), che io volevo a Santa Maria Novella, quelli virtuosi frati di detta Nunziata tutti d’accordo mi dissono, che io lo mettessi nella loro chiesa, e che io vi facessi la mia sepoltura in tutti quei modi che a me pareva e piaceva. Avendo presentito questo il Bandinello, e’ si messe con gran sollecitudine a finir la sua Pietà, e chiese alla Duchessa (Eleonora da Toledo, moglie del Granduca Cosimo I) che gli facesse avere quella cappella che era dei Pazzi, la quale s’ebbe con difficultà, e subito ch’egli l’ebbe con molta prestezza ci messe su la sua opera; la quale non era finita del tutto, che egli si morì”. (B. Cellini, Vita, Firenze 1829).

Il Crocifisso in marmo destinato dal Cellini a questa cappella, ora si trova all’Escurial di Madrid. L’artista aveva ricevuto dai frati un altro luogo, sempre in chiesa, per la sua sepoltura (così scrive Benvenuto a Benedetto Varchi, Vita, vol. III, lettera XXIII), ma in realtà egli fu poi “sotterrato, per ordine suo” nella cappella dei Pittori, nel Chiostro grande.

L’ALTARE MAGGIORE.

Forse lo stesso Leon Battista Alberti, nel 1471 aveva dato il disegno dell’altare, per il quale, nel 1483 Antonio e Giuliano da Sangallo scolpivano in legno il Crocifisso ora collocato nella cappella di S. Gioacchino da Siena, Nel 1504 venne alzato dietro la mensa e, a separazione dal coro, un arco ad ancona in legno, lavoro pregevole ideato, si dice, da Leonardo da Vinci, e realizzato da Baccio d’Agnolo. Il fornice era chiuso da due grandi dipinti: dalla parte del Coro, una Assunzione del Perugino (ora sull’altare della cappella dell’Assunta), e verso il corpo della chiesa una Deposizione di Filippino Lippi, terminata però dal Perugino, perché la morte impedì al Lippi di completarla (ora essa si trova nella Galleria dell’Accademia). Nel 1546 i due dipinti vennero tolti dall’altare e al loro posto fu collocato un grande ciborio intagliato in legno da Filippo e Giuliano di Baccio d’Agnolo.

Nel 1655 Antonio di Vitale dei Medici donava alla chiesa il Sancta Sanctorum d’argento, sormontato da una croce di cristallo di rocca. Autore del Sancta Sanctorum è Alfonso Parigi, ed esecutori Giovan Battista e Antonio Merlini. Il paliotto d’argento dell’altare, disegnato da G. Battista Foggini fu eseguito ne 1682 dall’argentiere fiammingo Arrigo di Bernardo Brunick. Nel rilievo centrale del paliotto è L’Ultima Cena e ai lati sono episodi e personaggi simbolici dell’Eucarestia, tratti dal Vecchio Testamento.

L’altare nella ricchezza dei suoi marmi fu terminato nel 1704 su disegno di Giovacchino Fortini, al quale appartengono le sculture dei gradini della mensa, il piede e gli angeli in marmo del grande ciborio d’argento, le statue di S. Filippo Benizi e di S. Giuliana Falconieri(1705) sopra le due porte del coro e il disegno dei cherubini in bronzo dorato sulle stesse porte.

Ai lati del presbiterio, sono due edicole monumentali in marmo di Giovanni Caccini, con le statue di S. Pietro e S. Paolo. Il S. Pietro, gli angeli e i puttini sono opera di Gherardo Silvani, sempre su modello del Caccini. Sul pavimento, sotto la statua di S. Pietro, una lapide ci mostra il luogo ove fu sepolto Andrea del Sarto.

Addossati ai pilastri che reggono la cupola e formano l’arco del presbiterio, due monumenti sepolcrali in marmo di Carrara, racchiudono le spoglie di Mons. Angelo Marzi-Medici, a sinistra, e del senatore Donato dell’Antella, a destra. Il primo monumento è opera di Francesco di Giuliano da San Gallo (1546); l’altro, di Giovanni Battista Foggini (1702).

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Cappella di S. Filippo.

Proseguendo lungo la crociera, troviamo la cappella di S. Filippo Benizi. Le sue prime notizie risalgono al 1464 con il titolo di S. Giovanni evangelista. Nel 1671, anno della canonizzazione di S. Filippo, fu restaurata ed abbellita. La tavola dell’altare che rappresenta il Santo in gloria e il piccolo quadro di S. Giovanni Evangelista, sono del Volterrano.

Questa cappella fu sempre patronato della famiglia dei Tedaldi.

LE CAPPELLE DELLA TRIBUNA.

Saliti i due scalini e passati sotto l’arco che s’apre a sinistra della cappella di S. Filippo, entriamo nel vestibolo di sagrestia, che ha sul fondo il passaggio (1937) alla tribuna. Questo vestibolo, creato da Michelozzo, fu trasformato nel 1625 in cappella della Presentazione, di cui rimane ancora l’architettura, al posto dell’altare.

Le due piccole statue in pietra nelle nicchie laterali, sono di autore ignoto. Il tondo sopra il vano è lo stemma di Parte Guelfa. A destra, un busto di stucco, qui posto nel 1592, ci tramanderebbe la vera effigie di S. Filippo Benizi, come dice l’iscrizione della lapide.

Cappella della Natività.

Passati nella tribuna, abbiamo a destra la cappella della Natività della Madonna, che fu eretta nel 1471 dalla famiglia dei dell’Antella. La sua architettura è dell’anno 1600 su disegno dello scultore fiorentino Bartolommeo Rossi. Il grande quadro dell’altare, la Natività della Vergine (1602), è tra le opere più famose di Alessandro Allori, discepolo del Bronzino. Sulle pareti, altri quattro pregevoli dipinti narrano alcuni fatti della vita di S. Manetto dell’Antella, uno dei sette Fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria. Il primo dipinto in alto a destra di chi guarda è di Iacopo Ligozzi, e rappresenta Il Santo al piedi del Papa Clemente IV. Quello inferiore, S. Manetto che risana uno storpio, è di Cristoforo Allori, figlio di Alessandro (nel vecchio che guarda verso di noi Cristoforo ritrasse il padre; l’altare che vi notiamo è l’altar maggiore della Basilica, con l’antico arco trionfale di Baccio d’Agnolo). A sinistra, il primo quadro in alto è di Alessandro Allori; in esso vediamo: i Sette Santi Fondatori diretti a Montesenario. Sotto, S. Manetto eletto Generale dell’ordine, è di Domenico Cresti detto il Passignano. La volta fu affrescata da Bernardino Poccetti, che vi rappresentò il Paradiso.

Cappella di S. Michele Arcangelo.

Appartenuta dal 1470 alla famiglia dei Benivieni passò poi a quella dei Donati che la restaurava nel 1666. Sia il quadro dell’altare, la Vergine e S. Michele (1671), che i due laterali, S. Carlo Borromeo e S. Maria Maddalena dei Pazzi, sono del pittore Simone Pignoni. Gli affreschi della volta sono di Cosimo Ulivelli.

Cappella di S. Andrea Apostolo.

Fu eretta nel 1456 da Francesco Romoli dei Bellavanti; ma nel 1721 ne ebbe il patronato la famiglia dei Malaspina che la restaurava nel 1726.

La tavola dell’altare, Madonna e Santi, è detta comunemente del Perugino; di ignoto sono i due quadri laterali rappresentanti il Martirio di S. Andrea.

Cappella della Risurrezione.

Così chiamata dalla pala dell’altare di Agnolo Bronzino. Pietro del Tovaglia, procuratore e tesoriere in Firenze de marchese Lodovico Gonzaga di Mantova (colui che fece proseguire con il suo aiuto finanziario i lavori della tribuna), fu il primo patrono della cappella, ma nel 1552 il patronato veniva assunto dalla famiglia Guadagni che la restaurava nel 1742. Oltre il dipinto del Bronzino, degna di nota è la statua di S. Rocco, in legno di tiglio di Veit Stoss. Il S. Francesco di Paola, in marmo, nella nicchia di fronte è di Giuseppe Piamontini (1700).

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Cappella della Madonna del Soccorso.

Nel 1444 mentre si innalzava la tribuna, la famiglia dei Pucci pensava di erigere qui la sua cappella. Ma terminata la tribuna con gli aiuti finanziari del Marchese di Mantova, questi si riservò il patronato della cappella che, in seguito era ceduto alla famiglia Dolci, e quindi, nel 1599, passava al famoso scultore Giambologna. L’architettura in pietra serena e il Crocifisso in bronzo, sono dello stesso Giambologna, e a lui appartengono anche sei bassorilievi in bronzo, con scene della Passione. Le statue invece (in marmo soltanto le due della parete di fondo, che rappresentano la Vita attiva e la Vita contemplativa), sono del suo allievo Pietro Francavilla. Le altre di stucco, Angeli e Apostoli, sono di Pietro Tacca.

Sull’altare, rifatto in marmo e decorazioni bronzee nel 1749, la tavola della Madonna del Soccorso, da cui prende il nome la cappella, sembra sia di Bernardo Daddi. Dietro l’altare, al di sopra del sarcofago che racchiude le spoglie del Giarnbologna e del discepolo Pietro Tacca, è il quadro della Pietà di Iacopo Ligozzi. Degli altri due dipinti, la Risurrezione è opera del Passignano, e la Natività di Cristo di Giovanni Battista Paggi.

Cappella di S. Lucia

(già dei SS. Martiri e S. Francesco). Prima appartenne alla famiglia del Giocondo, ma nel 1723 passò a quella degli Anforti che la restaurava nel 1727.

Sull’altare vi era un tempo il quadro delle Stimmate di S. Francesco di Domenico Puligo (ora alla Galleria Pitti), poi vi fu posto quello dei Sette Santi Fondatori (ora nella cappella omonima), e infine l’attuale S. Lucia, di Iacopo Vignali. I due quadri delle pareti, Storia di SS. Martiri e S. Francesco, sono di autore ignoto.

Cappella del Cieco Nato.

Questa cappella prende il nome dal quadro del Passignano, che rappresenta il miracolo operato da Cristo al cieco nato. Nel 1534, erano patroni della cappella i della Scala, e nel 1604 i Brunaccini. Sempre del Passignano si dico sia l’architettura della cappella. A destra l’Adorazione del cieco nato è dell’Empoli; il quadro di sinistra, di Piero Sorri senese; le pitture della volta, di Ottavio Vannini.

Cappella di S. Caterina.

I primi patroni di questa cappella furono i Bardi, quindi gli Accolti e nel 1612 Buontalenti, che l’adornarono su disegno di Gherardo Silvani. Il quadro dell’altare che rappresenta le Nozze mistiche della Santa con il Cristo (1642) è di Giovanni Bilivert, e i due laterali, S. Maria Maddalena e S. Margherita da Cortona con gli affreschi della volta, sono del Vignali.

Cappella di Sant’Anna.

Questa cappella appartenne alla famiglia Giacomini-Tedalducci. Nel 1543 veniva dipinto, da Antonio Mazzieri, il quadro di S. Anna, con i SS. Stefano, Lorenzo, Filippo Benizi e Giuliana Falconieri.

IL CORO E LA CUPOLA.

Tornando indietro dalla cappella di S. Anna soffermiamo la nostra attenzione sul Coro che costruito da Michelozzo nel 1444 in forma circolare, ebbe nel 1668 l’attuale sistemazione esterna ad opera di Alessandro Malavisti su disegno di Pier Francesco Silvani. La porta centrale con il gruppo della Carità (stucco) è del Giambologna (1578). Altre sei statue in marmo posano sulla spalletta del recinto. A sinistra (guardando l’altare maggiore) la prima che rappresenta S. Filippo Benizi è attribuita a fra Vincenzo Casali Servita; il Redentore, S. Gaudenzio e (dopo la porta del coro) il S. Girolamo sono di Giovanni Angelo Montorsoli Servita (c. 1542); l’Addolorata è di Alessandro Malavisti (1666), il B. Lottaringo della Stufa è di Agostino Frisson (c. 1668). All’interno del coro il pavimento di marmo risale al 1541; gli stalli di noce su modello dei precedenti, intagliati da Giovanni d’Alesso Unghero nel 1538 furono rifatti nel 1846. L’organo fu costruito da Carlo Vegezzi-Bossi nel 1912, ma dopo la piena del 1966, la consolle, completamente rifatta da Giovanni Bai, fu sistemata nel presbiterio (1969). I due leggii di ottone, con aquila ad ali spiegate, sono opera pregevole del XIV e XV secolo. Del più antico è stata riconosciuta la provenienza inglese. Il grande leggio in noce al centro del Coro è di Antonio Rossi (1852).

La Cupola fu dipinta dal Volterrano in soli tre anni (1680-83) L’autore intese esaltare l’Assunzione della Vergine Maria che, tra una folla di santi del Vecchio e del Nuovo Testamento, viene sollevata dagli Angeli al trono dell’Altissimo.

Prima di uscire dalla tribuna attraverso il vestibolo della sagrestia, possiamo soffermare la nostra attenzione sui piccoli quadri della Via Crucis appesi ai pilastri, che sono attribuibili al pittore Luigi Ademollo (c. 1828).

LA SAGRESTIA.

Tornati dalla tribuna nel vestibolo, troviamo a destra un breve corridoio che conduce alla cappellina delle Reliquie e alla Sagrestia.

Nella Cappellina delle Reliquie, detta così perché negli armadi a muro si conservano molte reliquie di Santi), il Passignano scelse la sua sepoltura e dipinse a olio sul muro dell’altare (1622) la Vergine e Santi e nella volta un volo di angeli.

La Sagrestia fu iniziata da Michelozzo nel 1445 e la sua architettura non ha subito fino ad oggi trasformazioni di rilievo. La Parte Guelfa che ne aveva sostenuto le spese, vi fece apporre nelle volte il suo stemma (l’aquila che artiglia un drago), e vi custodiva, dentro un bellissimo armadio a muro, il proprio archivio segreto, come ci informa Giovanni Villani nelle sue Croniche (libr. VII, cap. XVII). Di questo armadio, demolito nel 1570, è rimasto solo il frontespizio intagliato da Salvi Marocchi su disegno di Michelozzo, e che ora fa da portale all’entrata. I due grandi lavabo di marmo, opera di Giovacchino Fortini, provengono dal convento e furono qui collocati durante il restauro che interessò tutta la sagrestia: pavimento, altare, porte laterali, finestrone, armadi, bancone centrale (1766). Dello stesso periodo è la decorazione di Pietro Giarré, le statue di terracotta di Pompilio Ticciati (sopra gli armadi): l’orologio a muro è di fra Giovanni Poggi Servita. Il quadro dell’altare con Gesù morto e i due Beati dei Servi è di Cesare Dandini (1625), ed era stato dipinto per la Cappella della Presentazione (il vestibolo di sagrestia) ora soppressa.

LE CAPPELLE A SINISTRA NELLA NAVATA.

Cappella del Crocifisso.

Tornati in chiesa, nella crociera di sinistra è la cappella del Crocifisso. Qui era la vecchia sagrestia,prima che fosse edificata quella di Michelozzo. La vecchia sagrestia nel 1445, divenne cappella padronale della famiglia Villani, della quale si conserva ancora, sul pavimento, la lapide sepolcrale. Sull’altare il Crocifisso in legno, è uno di quelli detti del Movimento dei Bianchi (1400). Questa immagine che era collocata in una cappella della nostra chiesa dedicata a S. Martino, era molto venerata nella prima metà del secolo XV. Nel 1453 essa passò in dote della famiglia Villani che la accettò a condizione che mai più fosse rimossa dalla propria cappella. Venne così dipinto da Alesso Baldovinetti il Crocifisso delle Misericordie (v. cappella del Sacramento) al quale si tributò l’antica denominazione di Crocifisso dei Bianchi.

Ai piedi del Crocifisso ligneo, due pregevoli statue di terracotta a grandezza naturale, la Vergine e S. Giovanni Evangelista della metà del sec. XV) furono qui poste nel secolo XVII. Negli ultimi decenni sono state restaurate riportando alla luce i colori originali e sistemate nel convento.

La tela che a volte ricopriva l’ancona fu dipinta nel 1855 da Ferdinando Folchi, e rappresenta una Deposizione. La decorazione in finta architettura (1746) è di Giuseppe Sciaman, e la volta, di Vincenzo Meucci. La grande statua in terracotta del San Giovanni Battista sembra sia il modello del S. Giovanni ideato da Michelozzo (1452) per il dossale dell’altare del Battistero (ora al Museo dell’opera del Duomo). Il fonte battesimale è opera dell’architetto Giuseppe Cassioli (1958); il bel paliotto dorato dell’altare e l’urna che accoglie il Santo martire Fiorenzo, sono di Luca Boncinelli (1689).

Scesi i due gradini della Cappella del Crocifisso, troviamo a destra una porta che conduce nel Chiostro Grande. Vicino a questa porta, è la cappella di S. Biagio.

Cappella di S. Biagio.

Al suo posto era un tempo (aperta nel campanile dell’antica chiesa) la Cappella di S. Ansano. Infatti si conserva (non visibile di chiesa), tra la pala d’altare attuale e la scaletta dell’organo un affresco con il martire senese, di Bicci di Lorenzo (1440). La tela di S. Biagio ed altri Santi martiri è del secolo XV ma di autore ignoto, mentre di Iacopo Vignali sono le due piccole tele dei SS. Pietro e Paolo. La volta fu affrescata dal Volterrano, che vi effigiò una S. Cecilia in mezzo a uno stuolo di angeli musicanti. Il paramento di marmi della cappella è opera di Alessandro Malavisti.

Cappella dell’Organo.

Essa era un tempo dedicata a S. Rocco e sull’altare si vedeva la statua in legno del Santo che ora è nella cappella della Risurrezione, dietro il coro. Essendo stato costruito l’organo nel 1634, la cappella fu affidata alla famiglia Palli che pensò alla ricca decorazione marmorea a opera di Bartolomeo Rossi, e fece dipingere a Cesare Dandini il quadro dell’altare, La Vergine Assunta che protegge Firenze.

Cappella dell’Assunta.La famiglia dei da Rabatta fu la patrona della cappella fin dal 1451, al tempo dei lavori della tribuna. Essa venne restaurata nel 1667. L’Assunzione di Maria del Perugino, fu qui trasportata dall’altare maggiore dove prima si trovava. Sulle pareti, il David e Golia e l’Arca Santa sono di Luigi Ademollo (1828).

Sull’altare di Questa cappella, in una nicchia di pietra serena, era il S. Giovanni che abbiamo visto nella cappella del Crocifisso.

Cappella della Crocifissione.

Fu patronato dal 1450, della famiglia del Gallo. Sull’altare il fiammingo Giovanni Stradano dipinse la tavola della Crocifissione, dalla quale prende il nome la cappella. I due affreschi dei profeti Isaia e Abacuc sono di ignoto, la Resurrezione di Lazzaro, nella parete destra è di Nicola Monti (1837). Nella parete di sinistra, la grande tavola del Giudizio Universale, copia di un particolare del Giudizio di Michelangelo, è di Alessandro Allori, ed era già sull’altare della cappella di S. Girolamo.

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Cappella di S. Girolamo.

Nel 1451 il Convento cedeva alla famiglia Corboli questa cappella. Fino a poco tempo fa essa era chiamata del Giudizio Universale, per la tavola di Alessandro Allori, posta sull’altare, ma rimesso in luce (1933) il bellissimo affresco del S. Girolamo di Andrea del Castagno (1454 c.), la cappella ha ripreso il suo antico nome.

Gli affreschi delle pareti, i Profanatori scacciati dal Tempio, Gesù tra i dottori (notare il ritratto di Michelangelo Buonarroti, del Pontormo ed altri artisti e personaggi dell’epoca), e quelli della volta, il Paradiso terrestre, Profeti e Sibille, Annunciazione, Natività, Presentazione di Gesù al Tempio, Fuga in Egitto sono di Alessandro Allori.

Cappella di S. Giuliano o di S. Giuseppe.

Fu eretta nel 1451 e Andrea del Castagno vi affrescava, tra il 1455 e il 1456, il S. Giuliano. Nel fastoso restauro, ricco di marmi e stucchi, eseguito da Giovanni Battista Foggini (1693), fu messa sull’altare la tela del Transito di S. Giuseppe, del bavarese Giovanni Carlo Loth. Sui due monumenti sepolcrali, della famiglia Feroni, patrona della cappella, la statua di S. Francesco è del fiorentino Camillo Cateni, quella di S. Domenico, di Carlo Marcellini. Le altre sono degli scultori Francesco Andreozzi, Isidoro Franchi, Giuseppe Piamontini; i medaglioni di bronzo dorato sono di Massimiliano Soldani Benzi.

Studio e ricerca a cura di Lucica Bianchi

fonti:

Guida Turistica di Firenze

Il Santuario della SS: Annunziata di Firenze – Ordine dei Servi di Maria

Arte.it  http://www.arte.it/guida-arte/firenze/da-vedere/chiesa/basilica-santuario-della-santissima-annunziata-1868

Che cosa ha visto Egeria nel suo pellegrinaggio?

 

Nicoletta De Matthaeis

articolo pubblicato su “Reliquiosamente

https://nicolettadematthaeis.wordpress.com/about/

Nicoletta De Matthaeis è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. E’ una grande appassionata di arte medievale, soprattutto arte romanica, preromanica e paleocristiana, a cui ha dedicato buona parte della sua vita. Attualmente vive a Madrid e recentemente ha scritto il libro ‘Andar per Miracoli. Guida all’affascinante mondo delle reliquie romane oltre che un esaustivo articolo in lingua spagnola sui mosaici di Ravenna che è pubblicato sul sito del “Circulo Románico”, uno dei più importanti portali dedicati all’arte romanica attualmente esistenti.

Il giornale “I Tesori alla fine dell’arcobaleno”è lieto di pubblicare integralmente alcuni articoli dell’autrice Nicoletta De Matthaeis.

 

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Egeria, la famosa pellegrina in Terra Santa del secolo IV, una delle primissime, lasciò un racconto del suo viaggio, un documento di estrema importanza per ubicare i sacri luoghi, conoscere la liturgia gerosolimitana, diffusasi poi in Occidente, e molte altre preziose informazioni. Il pellegrinaggio, o diario di viaggio, fu rinvenuto nel 1884 ad Arezzo, dal giurista Gian Francesco Gamurrini. Non l’originale, ma una copia dell’XI secolo, purtroppo incompleta. Gli studi realizzati in questi ultimi anni, ci dicono che la pellegrina Egeria molto probabilmente fece il viaggio fra il 381 ed il 384 e che fosse una monaca, per il continuo uso che fa delle espressioni ‘dominae venerabiles sorores’, ‘dominae venerabiles’, ‘dominae animae meae’, ‘dominae, lumen deum’.. che hanno fatto pensare che si rivolgesse alle sue compagne/sorelle di convento per le quali scriveva il suo diario. Altri studiosi, come Elena Giannarelli, pensano che potesse trattarsi, invece, di una vedova. Però la cosa certa è che si trattava di una persona non solo colta, ricca e di alta estrazione sociale, ma anche con buoni contatti nelle alte sfere politiche. Di fatto, doveva avere il denaro sufficiente per sostenere le spese di tre anni di viaggio per lei ed il suo seguito; poi disporre di salvacondotti e lettere di raccomandazione da presentare alle diverse autorità civili e militari. Veniva ricevuta da vescovi e funzionari imperiali e, nei tratti considerati più pericolosi, era scortata da militari appartenenti a distaccamenti situati in punti strategici. Un viaggio di queste caratteristiche era reso anche possibile grazie alla pax romana dell’epoca post-costantiniana. Sappiamo che il suo paese di origine stava nell’Occidente europeo, infatti nel suo racconto menziona il Rodano comparandolo con l’Eufrate. L’ipotesi più probabile è che provenisse dalla Galizia, al Nord-ovest della Spagna. Tant’è così che nel 1984 la Spagna stampò il francobollo commemorativo ‘XVI centanario del viaje de la monja Egeria al Oriente Bíblico, 381-384’, ricordando, appunto, il sedicesimo centenario del viaggio della connazionale, cent’anni dopo il ritrovamento del famoso ‘Itinerarium’.

 

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L’itinerario, ossia la parte ritrovata, si divide in due parti principali: la visita ai luoghi biblici come il Sinai, la terra di Gessèn, il Monte Nebo, l’Egitto, l’Indumea, il paese di Giobbe, il passaggio in Mesopotamia, e poi Tarso, Seleucia e Calcedonia, ecc; e la visita ai luoghi legati alla vita di Gesù, con la descrizione della liturgia praticata nei templi eretti in questi luoghi e soprattutto nella basilica del Santo Sepolcro. La politica di Costantino aveva propiziato lo sviluppo ed il ripristino dei luoghi santi costruendo basiliche e ricercando reliquie.

In tutti i luoghi visitati la prassi era leggere la pagina corrispondente delle Scritture con le orazioni di prammatica. Nella maggioranza dei casi in tutti questi luoghi c’era un convento dove era ben accolta dai monaci che la accompagnavano nella visita e dove veniva ospitata. Era una instancabile e devota curiosa, emozionata dai luoghi che man mano visitava. Vediamone alcuni.

Sul Monte Sinai visita il luogo dove Mosè ricevette le tavole della legge la prima e la seconda volta, dove Dio gli parlò dal roveto in fiamme e dove gli comandò di togliersi i sandali perché stava calpestando una terra santa. Poi la valle dove fabbricarono il vitello d’oro contro il quale scagliò le prime due tavole.

 

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Dalla terra di Gessèn, in Egitto, attraverso il Mar Rosso ripercorre il cammino dell’Esodo. Visita Tanis, dove nacque Mosè. La terra di Gessèn, sulla riva del Nilo, era piena di vigne e frutteti ed era abitata dai figli di Israele. Questi partirono da Rameses per dirigersi verso il Sinai. Il faraone, prima di seguirli, la fece incendiare.

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Poi, già verso la terra promessa, sale sul monte Nebo, di fronte a Gerico. Dalla cima del monte, come Mosè, contempla la terra promessa, anche se lui non ci mise piede. Lì morì e lì c’è la sua tomba. Egeria da lì vede anche tutta la valle del Giordano e Segor (oggi Zoara), l’unica città rimasta dell’apentapolis del Mar Morto, le cui due più famose erano Sodoma e Gomorra.

Poi Salem, la città del re Melchisedec che si incontrò con Abramo e offrì ostie a Dio. Nella Valle del Giordano, visita la grotta del profeta Elia, il luogo dove fu battezzato San Giovanni Battista, Enon, e poi vede la pietra dove fu trovato il corpo di Giobbe.

Arriva fino in Mesopotamia di Siria, e a Edessa il vescovo le regala le lettere che il re Agbar (re di Edessa) mandò a Gesù per mezzo di Anania supplicandolo di curarlo, e la risposta di Cristo fattagli recapitare dall’apostolo Giuda Taddeo. Queste lettere protessero Edessa ed il palazzo dall’invasione persiana. In questa città visita anche il sepolcro dell’apostolo Tommaso, morto in India. Poi Antiochia, direzione Costantinopoli, passando da Tarso, città natale di San Paolo. Giunta a Costantinopoli, esprime il desidero di visitare il sepolcro di San Giovanni ad Efeso, ma il racconto si interrompe.

 

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A Gerusalemme vi rimane parecchio tempo e la descrizione che fa dei sacri luoghi e delle cerimonie è molto dettagliata. La basilica costantiniana del Santo Sepolcro era formata da tre parti: la Anàstasi, ossia la Resurrezione, un’edicola circolare costruita sulla tomba che conteneva i resti della grotta identificata come luogo della sepoltura di Gesù con dentro un letto di pietra; il Martyrium, una basilica a cinque navate di fronte all’Anàstasi, ed il Calvario (o Golgota) luogo della crocifissione di Gesù. Una grande croce indica il luogo esatto. Poi il Triportico (un atrio chiuso), costruito attorno alla roccia del Calvario. Egeria resta abbagliata dalla decorazione in oro, pietre preziose e sete ricamate in oro sia di questa basilica che di quella di Betlemme. Anche l’arredamento è tutto decorato in oro e gemme. Poi ancora visita, a Betania, la casa di Lazzaro, che fu resuscitato da Cristo, dove viveva con le sorelle Marta e Maria.

Ci parla della processione verso la chiesa del monte degli Ulivi (o Eleona), costruita sulla grotta dove Cristo si appartò con gli apostoli il giovedì santo, e che da lí sale verso l’Imbomon(la collina), il luogo da dove Gesù salì al cielo. Qui si venera la pietra con le impronte sacre che Cristo lasciò nel momento dell’Ascensione. Esistono ancora, ma se ne vede sola una, quella del piede sinistro perché pare che quella del piede destro la presero i turchi per portarla al tempio di Salomone, quindi tagliarono la pietra.

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Descrive anche l’adorazione della reliquia della Santa Croce il venerdì santo. Sul Golgota, dietro la croce, il vescovo si sedeva in cattedra. Davanti a lui veniva sistemato un tavolo, coperto da un panno, intorno al quale si disponevano i diaconi. Veniva portato un cofanetto d’argento contenente il legno della croce che era esposto insieme all’iscrizione (INRI). I fedeli passavano uno alla volta per baciare il santo legno. Ma la sorveglianza era molto stretta per evitare che il bacio non fosse un morso, come già era successo nel passato, un espediente per portarsi a casa un frammento della Vera Croce. Questi vigilanti erano chiamati ‘staurofilakes’ dal greco ‘staurós’ (croce) y ‘philos’, amico.

E così, una ad una, descrive tulle le celebrazioni più importanti: la Quaresima, la Pasqua, Pentecoste, la preparazione dei catecumeni, il Battesimo. Non manca una visita a Betlemme, alla basilica della Natività, costruita sulla grotta dove nacque Gesù.

Ma questi che ho dato sono solo pochi cenni. L’itinerario è ricco di spunti, di riflessioni e di notizie interessanti, tanto da invogliare alla sua lettura. Magnifico per i viaggiatori e giramondo indefessi, anche se i problemi per viaggiare liberamente in alcune di quelle zone dopo tanti secoli, non sono ancora risolti.

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Per saperne di più: 1) Elena Giannarelli. Egeria – Diario di vaggio,  Milano 2000.   2) Manuel Domínguez Merino. Itinerario o Peregrinación de Egeria. Mérida 2005

 

(vedi articolo originale:https://nicolettadematthaeis.wordpress.com/2013/03/26/che-cosa-ha-visto-egeria-nel-suo-pellegrinaggio/)

I SACRI VASI DI MANTOVA

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La tradizione attribuisce al soldato romano Longino, che trafisse con la propria lancia il costato di Cristo, la raccolta ed il trasporto di terra imbevuta del sangue del Salvatore nel luogo ove ora sorge la città di Mantova. Dalla ferita uscirono sangue ed acqua che, cadendogli sul volto, gli fecero guarire gli occhi ammalati e lo fecero convertire alla fede cristiana. Longino, raccolto il sangue di cui era intrisa la terra ai piedi della croce, lo custodì assieme alla spugna che era servita per dare da bere a Cristo sul Golgota e con essi arrivò a Mantova, dove nascose le preziose reliquie nell`ospedale per i pellegrini in cui aveva trovato albergo. Il 2 dicembre del 37 Longino subì il martirio in contrada Cappadocia, nel luogo dove ora sorge la chiesa del Gradaro. La cassetta con le reliquie venne ritrovata nell`anno 804, nell`orto dell`ospedale di Santa Maddalena, dove era stata sepolta accanto alle ossa di Longino; il pontefice Leone III inviato a Mantova dall`imperatore Carlo Magno ne dichiarò l`autenticità, avendone avuto in dono una porzione per l`imperatore.

Nuovamente occultate, temendo la loro profanazione da parte degli Ungari che minacciavano di invadere Mantova, le reliquie furono riscoperte nel 1048, al tempo di Beatrice e Bonifacio di Canossa che fecero costruire nel luogo del ritrovamento un monastero benedettino e una chiesa, poi distrutta per far posto all`edificio dell`attuale basilica di Sant`Andrea, voluta di Ludovico II Gonzaga. Nei secoli passati in occasione dell`esposizione della reliquia si svolgeva il burchiello della Sensa (la barca dell`Ascensione) organizzato dall`arte dei pescatori. Era una sorta di spettacolo allegorico durante il quale alcuni pescatori interpretando gli apostoli Pietro, Giovanni ed Andrea lanciavano pesci e anguille sulla folla prendendoli da una barca che veniva portata a braccia dalla cattedrale a Sant`Andrea. Per tradizione, ogni anno nel pomeriggio del Venerdì Santo si svolga la cerimonia per l`apertura dei forzieri che custodiscono i due preziosi reliquari, e che vengono posti ai piedi del Cristo crocefisso nell’abside della Cattedrale. Le sequenze della cerimonia vedono scendere S.E. il Vescovo nella cripta sotterranea della basilica di Sant`Andrea, seguito dal Prefetto Autorità e da molti fedeli. L’apertura è un’operazione laboriosa che comporta l`impiego di ben 12 chiavi.In rispettoso silenzio vengono aperte una dopo l`altra le serrature dei forzieri le cui chiavi sono conservate da autorità ecclesiastiche e statali. Quando finalmente i due Vasi sono all`esterno, il Vescovo incensandole pronuncia una preghiera. I Sacri Vasi sostenuti, uno dal Vescovo e l`altro da un`altro prelato, percorrono la cripta e le strette scale che portano nella Basilica, poi i due reliquari sono posti ai piedi del Cristo crocefisso nel lato sinistro dell`abside della Cattedrale. Per tutto il pomeriggio e la serata la Cattedrale diventa meta dei mantovani che renderanno omaggio alla Reliquia, che, dopo una breve processione cittadina, viene riposta nuovamente nei forzieri della cripta sotterranea.

 

Lucica Bianchi

LA PALA D’ORO, BASILICA SAN MARCO VENEZIA

La Pala d’oro, conservata nel presbiterio della basilica di San Marco a Venezia, è un grande paliotto in oro, argento, smalti e pietro preziose (140x348cm). Il corredo dei suoi smalti è tra i più rilevanti nel suo genere. Alcuni risalgono alla metà del XII secolo (il Pantocratore, gli arcangeli, le feste) e sono pezzi pregiatissimi, tra i vertici dell’arte bizantina del tempo.Grande è l’eleganza del disegno delle figure e la loro realizzazione richiese un notevole virtuosismo tecnico, con l’uso della tecnica cloisònné.

 

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Gioiello prezioso e raffinato, espressione del genio di Bisanzio e del culto della luce, intesa come elevazione dell’uomo verso Dio,posto dietro l’altare maggiore, la Pala d’Oro è rimasta fino ad oggi nella sua originale posizione. E’ una pala d’altare che riunisce circa 250 smalti cloisonnés su lamina d’argento fortemente dorata di dimensioni ed epoche diverse (X-XII secolo), realizzato a Bisanzio su committenza veneziana.
Nel riquadro inferiore, attorno al grande Pantocratore, al centro, sono riuniti: evangelisti, profeti, apostoli e angeli. Le piccole formelle del contorno raffigurano episodi della vita di Cristo e di San Marco.
La cornice gotica in argento dorato viene realizzata a Venezia a metà del XIV secolo.
Tra gli smalti sono incastonate numerose perle e pietre preziose. La Pala d’Oro è l’unico esempio al mondo di oreficeria gotica di notevoli dimensioni rimasto integro.

 

Pala discende dal latino palla, cioè stoffa, ornata a volte con immagini di santi, per l’uso liturgico di coprire l’altare o abbellirne lo sfondo. Dalla stoffa si passa all’oro o all’argento, da cui il nome di Pala d’Oro o d’argento, frequente almeno nelle chiese delle lagune venete. Di queste la più famosa è proprio la Pala d’Oro di San Marco, ordinata dal doge Ordelaffo Falier nel 1102 e finita nel 1105 a Costantinopoli.
E’ composta di 2 parti: la Pala d’Oro vera e propria e il contenitore ligneo, che la riveste posteriormente.
Fin dalle origini viene aperta solo nelle feste liturgiche della Basilica, così come avviene anche oggi. Negli altri giorni resta chiusa e ricoperta da una Pala detta “feriale”, una tavola lignea dipinta. La più antica viene eseguita da Paolo Veneziano e figli nel 1343-1345 con storie di San Marco e santi, ora conservata nel Museo della Basilica. L’attuale, lavorata nella prima metà del Quattrocento da un maestro tardogotico, si può contemplare sul lato posteriore della Pala.

 

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Al centro della preziosa Pala domina la maestosa figura del Cristo benedicente, circondato dagli Evangelisti, che tiene il libro aperto, dove le parole del libro sacro vengono sostituite da gemme a sottolineare la preziosità del suo verbo. Al di sotto del Cristo, si trova la Vergine Maria orante, e ai suoi lati il doge Ordelaffo Falier e l’imperatrice Irene.
Sopra il Cristo è raffigurata l’etimasia, la preparazione del trono del Giudizio Finale, per la seconda venuta di Dio in terra, tra due cherubini e due arcangeli. Più sopra la Crocifissione.
Ai lati sono disposti, in tre registri sovrapposti, i dodici profeti, dodici apostoli, dodici arcangeli.
Allineate superiormente si trovano quasi tutte le feste della Chiesa bizantina, da sinistra: l’annunciazione, la natività, la presentazione al tempio, il battesimo di Gesù, l’ultima cena, la crocifissione, la discesa al Limbo, la resurrezione, l’incredulità di Tommaso, l’ascensione, la pentecoste.
Ai lati, in posizione verticale, in dieci piccoli riquadri, a sinistra i fatti salienti della vita di San Marco, e, a destra, gli episodi relativi al suo martirio ad Alessandria d’Egitto e al trasferimento del suo corpo a Venezia.
Il grande fregio superiore, proveniente da una della tre chiese del monastero del Pantocrator a Costantinopoli, raffigura l’arcangelo Michele al centro e sei formelle con l’Ingresso di Cristo in Gerusalemme, la Discesa al Limbo, la Crocifissione, l’Ascensione, la Pentecoste e la Morte della Vergine (o Dormitio Virginis). Numerosi tondi smaltati di varie dimensioni, raffiguranti i santi venerati dai Veneziani, completano il quadro d’altare.

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Per la storia di questo prezioso oggetto vanno individuate tre fasi:
– La parte inferiore risale al periodo del doge Ordelaffo Falier (1102-1118). Dello stesso periodo è la disposizione degli smalti, sia sulle cornici laterali, con le storie di San Marco, sia sulla cornice superiore con i sei diaconi e le feste cristologiche del calendario liturgico, nonché del gruppo centrale del Pantocrator.
– Alla seconda fase va assegnata la parte superiore della Pala, con la serie delle sei feste bizantine e l’arcangelo Michele al centro, forse recate a Venezia da Costantinopoli dopo il 1204.
– Il terzo intervento si è verificato tra il 1343-1345 affidando, su volere del doge Dandolo, a due orefici veneziani il compito di inquadrare il complesso entro cornici ad arco romanico (parte superiore) o arco gotico (parte inferiore), distribuendo dovunque le 1927 pietre preziose e gemme.

 

Lucica Bianchi

 

Biografia consultata:

Veludo, Giovanni, La pala d’oro della basilica di San Marco in Venezia / illustrata da Giovanni Veludo, Venezia, Ferdinando Ongania, 1888

La pala d’oro / a cura di H. R. Hahnloser e R. Polacco, Venezia, Canal & Stamperia editrice, 1994

Da Villa Urbani, Maria, La Basilica di San Marco e la Pala d’Oro, Venezia, Storti edizioni, 2009

BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA

“La Biblioteca Apostolica Vaticana è dotata di un abbondante e prezioso, anzi inestimabile patrimonio librario, per metterlo a disposizione degli studiosi, nelle diverse fasi della consultazione, della lettura, del riscontro e della sintesi conclusiva”.
Papa Paolo VI nel Discorso nel V centenario della Biblioteca Apostolica Vaticana

La documentazione storica attesta l’esistenza nel IV secolo di uno Scrinium, che doveva essere sia la biblioteca sia l’archivio della Chiesa latina, mentre un documento del 784 (sotto il pontificato di Adriano I) parla del bibliothecarius Teofilatto. Lo Scrinium papale andò comunque disperso nel XIII secolo e le successive raccolte librarie, di cui esiste un inventario realizzato durante il papato di Bonifacio VIII (1294-1303), subirono gravi perdite dopo la sua morte in seguito ai continui spostamenti,a Perugia prima, poi ad Assisi e infine ad Avignone. In Francia, Giovanni XXII (1316-1334) avviò una nuova biblioteca, in parte confluita nel Seicento in quella della famiglia Borghese e ritornata con questa nel 1891 alla Santa Sede.Fu l’umanista e bibliofilo Tomaso Parentucelli (papa dal 1447 al 1455 con il nome di Niccolò V) il primo a concepire l’idea di una biblioteca moderna, realizzando una consistente raccolta di antichi codici e liberalizzandone nel 1451 la consultazione a studiosi ed eruditi in una sala al pianterreno del Vaticano annessa al cosiddetto Cortile dei pappagalli. Passata dai 350 codici della biblioteca avignonese ai 1200 registrati alla morte di Niccolò V, quella collezione costituì il primo nucleo della futura biblioteca.L’istituzione ufficiale della Biblioteca apostolica vaticana risale a papa Sisto IV e alla bolla Ad decorem militantis Ecclesiae del 15 giugno 1475. Subito dopo, il 18 giugno, ebbe inizio l’attività del suo primo gubernator et custos: il precettore umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina dal suo paese natale Piadena, da cui dipendevano tre collaboratori e un legatore. La nuova biblioteca raccolse i manoscritti, i codici, i fondi, le raccolte di Sisto IV e dei suoi predecessori: 2500 opere (divenute 3500 sei anni dopo), distribuite in quattro sale (la Bibliotheca Latina e la Bibliotheca Graeca per i testi nelle rispettive lingue, la Bibliotheca Secreta per quelli esclusi dalla consultazione e dal prestito esterno, la Bibliotheca Pontificia che fungeva da archivio) decorate con un ciclo di pitture realizzate da Melozzo da Forlì, Antoniazzo Romano e dai fratelli Domenico e David Ghirlandaio.

 

Lucica Bianchi

 

 

 

Oltre 4.000 antichi manoscritti appartenenti alla biblioteca Apostolica Vaticana a portata di click.

NTT DATA Corporation, fornitore di soluzioni IT a livello mondiale, ha annunciato la realizzazione di un nuovo applicativo per la navigazione e la consultazione dell’archivio digitale online della Biblioteca Apostolica Vaticana, raggiungibile a questo indirizzo. Le immagini, in alta definizione, saranno visualizzabili attraverso uno speciale visore sviluppato da NTT DATA grazie alla tecnologia proprietaria per l’archiviazione digitale AMLAD™. Questo visore, dotato di interfacce per diverse tipologie di dispositivi tra cui i tablet, renderà accessibili a livello globale le immagini nitide di questi manoscritti unici al mondo.

 

CONSERVAZIONE DIGITALE – NTT DATA è stata scelta dalla Biblioteca Apostolica Vaticana per partecipare ai suoi progetti di conservazione digitale. Il progetto è stato lanciato il 20 marzo 2014, quando i due partner hanno firmato un contratto iniziale di quattro anni per la digitalizzazione di circa 3.000 documenti entro il 2018. Inoltre, utilizzando la tecnologia AMLAD™, NTT DATA ha creato l’infrastruttura necessaria per l’archiviazione a lungo termine, la preservazione e la visualizzazione degli esemplari in formato digitale. Attualmente, NTT DATA sta ottimizzando la propria tecnologia di gestione dei metadati con l’obiettivo di sviluppare – entro la fine dell’anno – una funzione di ricerca efficace per l’archivio digitale della Biblioteca Apostolica Vaticana. “Siamo entusiasti di ammirare questi antichi manoscritti in formato digitale ad alta risoluzione, oggi resi prontamente e ampliamente accessibili agli utenti di tutto il mondo”, ha commentato Toshio Iwamoto, Presidente e CEO di NTT DATA. “Continueremo a mettere a disposizione le nostre soluzioni IT per il progresso della ricerca in diverse discipline accademiche e soddisfare la curiosità delle persone per questi manoscritti unici”.

 

FAR CONOSCERE I TESORI DELL’UMANITA’ – “Abbiamo accolto volentieri la collaborazione di NTT DATA per favorire l’ulteriore sviluppo del progetto di digitalizzazione dei nostri manoscritti utilizzando le tecnologie innovative sviluppate da NTT DATA”, ha spiegato Monsignor Cesare Pasini, prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana. “In questo modo sviluppiamo ulteriormente la nostra missione di rendere sempre meglio conosciuti e approfonditi i tesori dell’umanità qui conservati, in uno vivo spirito di universalità: l’universalità del sapere e l’universalità delle collaborazioni e intese con istituzioni e società di ogni angolo del mondo”. Il nuovo sistema di archiviazione digitale della Biblioteca Apostolica Vaticana potrà essere consultato anche attraverso il portale allestito da Digita Vaticana, fondazione affiliata alla Biblioteca che si propone di raccogliere fondi per sostenere i progetti di conservazione della Biblioteca.

LA BIBLIOTECA ”DEI PAPI” – La Biblioteca Apostolica Vaticana, la “biblioteca dei Papi”, è situata nella Città del Vaticano. Fondata da Papa Niccolò V Parentucelli (1447-1455) nell’antico palazzo quattrocentesco dei Papi, verso la fine del Cinquecento è stata trasferita nel Salone Sistino, voluto da papa Sisto V Peretti (1585-1590) al piano superiore di un nuovo edificio costruito a delimitare a nord il Cortile del Belvedere. La sede attuale, dal pontificato di Leone XIII Pecci (1878-1903) sino a oggi, comprende anche altri edifici contigui nei quali la Biblioteca ha dovuto espandersi per poter ospitare le ulteriori acquisizioni e donazioni dei suoi cinquecento sessant’anni di storia. Ricca di 82.000 manoscritti, di 100.000 unità archivistiche, di un milione e 600.000 libri a stampa (di cui 8.700 incunaboli), 400.000 tra monete e medaglie, 100.000 tra stampe, disegni e matrici e 150.000 fotografie, la Biblioteca conserva una documentazione immensa della storia e del pensiero dell’umanità, della letteratura e dell’arte, della matematica e della scienza, del diritto e della medicina, dai primi secoli dell’era cristiana sino ai nostri giorni, nelle più svariate lingue e culture dall’estremo oriente all’occidente dell’America precolombiana e un fondo umanistico di straordinaria ricchezza.