ALLA CASA UBOLDI UN PUNTO SU FURTI E TRUFFE

TALAMONA 10 dicembre 2015 incontro con le forze dell’ordine

 

CON IL LUOGOTENENTE ANTONIO SOTTILE DELL’ARMA DEI CARABINIERI UNA SERIE DI DRITTE PER TUTELARE I NOSTRI DIRITTI E LE NOSTRE PROPRIETA’

di Antonella Alemanni

Nonostante la tv e i canali di comunicazione in genere dedichino ampio spazio a queste tematiche dispensando consigli e talvolta proponendo simulazioni, la questione dei furti in casa e delle truffe, perpetrate soprattutto a danno degli anziani, è una questione perennemente d’attualità della quale sembra non si parli mai abbastanza. Ed ecco perché anche il comune di Talamona ha voluto dedicare un incontro informativo a riguardo questo pomeriggio alle 14.30 alla Casa Uboldi, un’incontro nato dalla specifica collaborazione tra l’Assessorato per le Politiche Culturali e l’Arma dei Carabinieri.“Un incontro facente parte di un ciclo che coinvolge vari comuni allo scopo soprattutto di informare le fasce più deboli, quelle che vengono più facilmente colpite da questo tipo di reati” come ha sottolineato Fabrizio Trivella, sindaco di Talamona, nell’introdurre il luogotenente Antonio Sottile, nuovo comandante della stazione dei carabinieri di Morbegno che dopo i ringraziamenti ha cominciato il suo intervento sottolineando il particolare interesse delle forze dell’ordine a creare una campagna informativa intorno a queste tematiche “non solo per cercare di individuare e consegnare all’autorità giudiziaria i responsabili di tali azioni, ma anche perché questi ultimi, nei casi più recenti di truffe, stanno cominciando a palesarsi come forze di polizia”. Una campagna che, come ha ribadito il comandante riprendendo le parole del sindaco “si rivolge in particolar modo agli anziani perché sono le fasce più deboli e dunque più esposte a questo tipo di reati, avendo capacità di difesa limitate rispetto ai giovani sia dal punto di vista delle reazioni mentali che di quelle fisiche”. Il comandante si è anche premurato di fornire delle dispense scritte con i punti salienti delle sue spiegazioni in modo da fornire al Gruppo Anziani, intervenuto all’incontro di oggi, uno strumento concreto di conoscenza e di difesa. “La figura del truffatore si è evoluta nel corso degli anni” ha poi ripreso a spiegare “ha imparato a presentarsi al cittadino sotto varie vesti. In questi ultimi anni si è camuffato principalmente sotto le vesti di rappresentante di enti pubblici dunque dipendenti dell’ENEL piuttosto che dell’IMPS e via dicendo, ma si sono verificati anche, nella nostra provincia, degli episodi in occasione dei quali i truffatori si sono qualificati come carabinieri, finanzieri, in generale come membri delle forze dell’ordine. Questo naturalmente ci spinge a intervenire per evitare che possa essere pregiudicata la fiducia del cittadino nei confronti di questi enti, cosa che succede facilmente nel caso di chi subisce una truffa da un soggetto qualificatosi ad esempio come carabiniere. La prima cosa da dire a riguardo è che, perlomeno in Valtellina sono rarissimi, se non nulli del tutto gli episodi in occasione dei quali un carabiniere o altro funzionario delle forze dell’ordine si potrebbe presentare a casa vostra da solo e in borghese. I carabinieri, poliziotti o finanzieri in servizio indossano sempre la divisa riconoscibile e si presentano in casa dei privati cittadini per motivi validi, di certo non per verificare la validità del denaro tenuto in casa o l’effettiva purezza e autenticità dei preziosi. Questi sono tra gli stratagemmi utilizzati dai truffatori per introdursi in casa, un punto su cui riflettere per capire come riconoscere sicuramente un truffatore. L’attenzione che bisogna avere va posta non solo dentro casa, ma già andando in posta o in banca a ritirare la pensione. Questo perché è dimostrato dalla casistica degli episodi che si verificano che la scelta della vittima avviene già al di fuori di questi uffici o davanti allo sportello del bancomat”. Un truffatore individua facilmente i soggetti che possono essere potenziali prede perché deboli fisicamente e/o mentalmente. A questo punto il comandante Sottile ha citato un caso avvenuto a Sondrio di un’anziana che poco dopo essere rientrata a casa coi soldi della pensione ritirati all’ufficio postale, ha sentito suonare il campanello e si è trovata davanti un soggetto con un improbabile cappello riportante lo stemma dell’arma che dopo essersi qualificato come carabiniere, ha chiesto di vedere i soldi facendole credere che all’ufficio dove era stata le avevano dato dei soldi falsi. Egli l’aveva pedinata dall’ufficio fino a casa e poi si è mostrato molto gentile, disponibile ad andare egli stesso all’ufficio a risolvere la questione senza scomodare la signora che così si è lasciata convincere a consegnare i soldi che poi il finto carabiniere si è portato via sparendo poi nel nulla naturalmente. “gli anziani tendono a tenere tutti i loro soldi in casa sebbene non abbiano grandi necessità che implichino grandi disponibilità di contanti” ha sottolineato il comandante “bisognerebbe che si convincano a depositarli in banca o in posta, o quantomeno a detenerli nei luoghi più sicuri della casa che non sono cassetti, comodini o vasi dove possono essere facilmente trovati. Se in casa c’è un quantitativo minimo di contante, anche nel caso in cui si verificassero episodi di raggiro il danno sarebbe più contenuto. Se poi quando si effettuano i prelievi agli uffici ci si accorge di soggetti che destano dei sospetti è meglio non andare subito a casa, ma entrare in un bar o comunque confondersi tra la gente cercare qualcuno che possa assistere e dissuadere il truffatore dall’entrare in azione. Chi truffa tende a mettere in atto i suoi piani quando le persone sono rientrate in casa e sono sufficienti dei piccoli accorgimenti per impedire comunque al truffatore di agire. Il primo è quello di non aprire la porta, interloquire dal terrazzo piuttosto che dal citofono, dalla finestra da dietro la porta chiusa o aperta solo con la catenella. Evitando di aprire si pone davanti al truffatore un ostacolo notevole, perché una volta che il truffatore riesce a farsi aprire sa già quali strategie mettere in atto per portare la sua truffa a compimento, attraverso piani ben congeniati che chi truffa è in grado di modificare anche in corso d’opera, a seconda delle specifiche situazioni che si presentano. Oltre ad evitare di aprire bisognerebbe evitare di far capire al truffatore ce si è soli in casa è meglio sempre essere pronti a dichiarare l’imminente ritorno di un parente in modo da togliere al truffatore tutte le possibilità di agire. La tecnica dei truffatori procede a step. Il primo è accertarsi che la persona da truffare sia sola in casa, il secondo consiste nel riuscire a entrare in casa e a quel punto sa adeguarsi alle varie situazioni, a seconda che il truffato sia uomo o donna o che il truffatore sia uomo o donna il tutto per farsi consegnare i soldi o quantomeno farsi dire dove i soldi sono custoditi per riuscire poi a prenderli di nascosto. Nel momento in cui chi si presenta dichiara ad esempio di essere dell’ENEL  e di dover effettuare la lettura dei contatori, bisogna sapere innanzitutto che la lettura dei contatori è automatica e che in ogni caso per queste operazioni non si è tenuti mai a mostrare la bolletta e poi bisogna cercare di prendere tempo di farsi dire dal presunto funzionario da che ufficio viene così da chiamare e verificare. Ad ogni possibile stratagemma dei truffatori bisogna essere pronti a controbattere. Così come non è possibile che impiegati dell’ENEL richiedano di mostrare la bolletta altrettanto non richiederanno versamenti. Se qualcuno si presenta parlando di bollette non pagate e richiedendo l’immediato versamento delle somme, quelli sono senza ombra di dubbio dei truffatori, perché nel caso di bollette non pagate arrivano i solleciti per posta non vengono mandate persone a riscuotere” A questo  punto il comandante ha chiesto alle persone del pubblico di raccontare eventuali aneddoti, anche solo avvistamenti di persone sospette e quasi tutti avevano qualcosa da dire, ma non sempre si trattava effettivamente di situazioni poco pulite, a volte le persone avvistate erano semplicemente tecnici che effettuavano rilevamenti senza la benché minima intenzione di avvicinarsi a persone o case. In alcuni casi ascoltare questi aneddoti si è rivelato utile per fare ulteriori considerazioni, la più importante delle quali è stata quella di porsi con atteggiamento di diffidenza nei confronti di qualsiasi sconosciuto che viene a suonare alla porta, annunciare sempre l’intenzione di chiamare le forze dell’ordine e farlo per davvero. Già da come la persona che abbiamo di fronte reagisce a questa nostra difesa si può capire con chi si ha a che fare: una persona che davvero è stata mandata da un qualche ente pubblico e non ha nulla da nascondere accetterà il controllo dei carabinieri i quali identificheranno la persona stessa e saranno in grado di identificarla anche per successive segnalazioni in modo da tranquillizzare i cittadini; una persona che invece si dimostra nervosa, cerca di scappare e riesce a dileguarsi prima che arrivino i controlli non è mai chi afferma di essere. Inoltre i funzionari di enti pubblici (come i soggetti preposti a proporre nuovi contratti energetici a domicilio) devono seguire tutta una serie di regole, devono comunicare al comune la presenza sul territorio, di modo che si possa informare la polizia locale e inoltre le autorità devono disporre delle generalità di tutti questi soggetti. Questo perché i truffatori sanno bene che per determinati servizi ci sono enti che mandano effettivamente persone a domicilio e sperano di approfittare dei dubbi di chi li riceve per poter agire. Ma se il cittadino nel dubbio non perde la lucidità fa attendere il soggetto fuori casa e nel frattempo verifica, allerta le forze dell’ordine si ha sempre modo di sventare i piani di chi ha cattive intenzioni. L’importante è togliersi i dubbi subito. Non tutto quello che si vede è per forza sospetto, ma è meglio verificare certi dettagli nel momento in cui si presentano piuttosto che, come accade molto spesso, quando l’evento è già avvenuto. Qualcuno ha raccontato di telefonate sospette e non è un mistero che le truffe passano spesso anche da quel canale senza bisogno di una persona che si presenti fisicamente in casa. Nel corso di queste telefonate spesso vengono richiesti dati sensibili. Chi effettua queste telefonate molto spesso, pur affermando il contrario non si trova nemmeno in Italia e utilizza questi dati per mettere in atto illeciti. Infine la testimonianza di un uomo circa un furto subito in casa ha offerto lo spunto per passare all’altro argomento oggetto dell’incontro, i furti nelle abitazioni appunto, una realtà che in Valtellina, essendo una zona relativamente tranquilla si sta scoprendo solo da pochi anni e per fortuna, almeno per ora, non con le modalità aggressive riportate dai notiziari che si verificano tuttalpiù nei grandi centri urbani, nelle zone residenziali eccetera. Nonostante tutto è necessario imparare a fronteggiare questo fenomeno, a dargli il giusto peso, perché si tratta comunque di eventi in grado di creare danni che si protraggono nel tempo e non soltanto dal punto di vista economico, ma anche morale e psicologico, nel fatto di vedere invaso il proprio spazio, di veder violata la sua intimità, di vedersi sottrarre oggetti importanti che rimandano a legami affettivi. “Avrete certamente appreso dai giornali e dai notiziari locali che la lotta contro questo fenomeno si è fatta particolarmente intensa da parte delle forze dell’ordine” ha ripreso a spiegare il comandante “una lotta che ha portato ad un discreto numero di arresti, soprattutto di cittadini albanesi e ha permesso di capire in che modo operano questi gruppi che si specializzano nei furti in casa. Formano gruppi di tre persone chiamati in gergo batterie. Tra queste uno ha compito di autista e di palo mentre gli altri due eseguono materialmente il furto. Queste bande però, contrariamente a quanto si pensa, non effettuano appostamenti di giorni, non spiano di nascosto i nostri movimenti per individuare il momento opportuno. Nel 99% dei casi non è così. Si tratta si di ladri di mestiere che dunque hanno una certa esperienza e hanno dei metodi precisi, ma questi metodi consistono innanzitutto nella scelta della zona, preferibilmente zone residenziali di villette e case isolate, non certo condomini dove ci sono più movimenti di persone a tutte le ore ed è altissimo il rischio di essere scoperti. Una volta scelta la zona, devono poi scegliere un obiettivo preciso e un periodo propizio. L’inverno è un periodo ottimale perché viene presto buio e se in casa c’è qualcuno c’è la luce accesa dunque scarteranno le case con le luci accese dentro” ecco perché il comandante ha consigliato di tenere sempre una luce accesa in almeno una stanza, anche quando si è fuori casa, una luce che faccia pensare ai ladri che c’è qualcuno in casa anche se non è così (questo però crea dei problemi in materia di consumi energetici e di surriscaldamento globale; è di questi giorni la conferenza di Parigi sul clima che dice chiaramente che la temperatura della Terra non deve più aumentare pena sconvolgimenti ecologici inimmaginabili scomparsa di habitat e di specie animali già a rischio, la cui vita vale molto di più di quella dei ladri di mestiere contro i quali si dovrebbero adottare misure un po’ più crudeli ndr). “una volta scelta la casa” ha proseguito il comandante “il passo successivo dei ladri consiste nel cercare di capire se in casa c’è un sistema d’allarme. A questo proposito bisogna dire che è bene per tutti dotarsi di allarmi e soprattutto di accenderli perché c’è gente che denuncia furti e poi si scopre che l’allarme era spento. Si crede che se ci si assenta pochi minuti da casa non può succedere nulla e invece la realtà è che il furto è questione di minuti non di ore. C’è chi invece non li accende perché possono partire anche accidentalmente e producono rumori molesti”. A questo punto c’è stato chi ha voluto sapere la classica questione che tutti si pongono almeno una volta nella vita: come comportarsi se siamo in casa e sentiamo i ladri che entrano? “La casistica dei furti sul nostro territorio dimostra che non ci si trova di fronte a bande aggressive che entrano in casa e non si limitano a rubare, ma brutalizzano anche gli abitanti qualora li trovassero presenti” ha puntualizzato subito il comandante “questo fenomeno è una realtà che per ora riguarda altre zone, Milano e dintorni tuttalpiù. Dunque la prima cosa importante è non lasciarsi prendere dal panico, non perdere la lucidità. Queste persone entrano dalla porta-finestra che è l’infisso che offre minore resistenza e lo forzano servendosi di un grosso cacciavite da 30 cm che lascia tracce riconoscibili e che i ladri sanno infilare nelle cerniere che dunque vengono forzati con pochi colpi, senza nemmeno fare troppo rumore a volte. Quando poi si accorgono di essere scoperti scappano. Dunque il consiglio è gridare, minacciare di chiamare i carabinieri o la polizia. Questi soggetti non hanno alcun interesse a rimanere dopo aver compiuto il furto e nemmeno a terminare il colpo una volta che ci si è accorti di loro. Se il colpo va male in una casa ne scelgono un’altra dopo essersi tempestivamente allontanati. Addirittura per assicurarsi la fuga bloccano l’ingresso con una chiave o un catenaccio così rientrando il proprietario trova la porta bloccata, cerca di forzarla, fa rumore e nel lasso di tempo in cui realizza che potrebbero esserci dei ladri in casa questi se ne vanno. In questo contesto è determinante che anche i vicini abbiano gli occhi aperti. Si vuole stimolare una sorta di senso civico che porti a pensare anche per gli altri non solo per sé. Certo è un senso civico molto difficile da sviluppare, perché nel momento in cui si è testimoni di un reato, bisogna presentarsi in tribunale, riconoscere una persona arrestata, i cittadini potrebbero avere timore a prendere posizione, però anche da questo punto di vista si può stare tranquilli in realtà, perché nessun testimone di eventi simili ha mai ricevuto minacce o ritorsioni di un qualche tipo. I ladri mettono in conto che qualcosa possa andare storto e si tratta quasi sempre di persone non residenti che arrivano con dei visti turistici e una volta compiuto un determinato numero di furti in una zona, si spostano in un’altra e si spostano in continuazione, assoldati da organizzazioni con sede nel milanese perlopiù che li pagano come ladri operai in base al bottino che riescono a raccogliere, per poi sostituirli spesso. Questo non vuole essere un modo per creare pregiudizi verso gli stranieri, ovviamente ci sono anche italiani che commettono queste azioni”. Il ladro può essere chiunque e può essere anche il più insospettabile e dovunque lo si può incontrare. Qualcuno tra il pubblico ha raccontato degli aneddoti personali che fanno capire come molto spesso, proprio come dice il proverbio, è l’occasione che fa l’uomo ladro, tra la folla e nei luoghi pubblici soprattutto. “l’importante è denunciare e non subire passivamente questi atti” ha chiarito il comandante “nel momento in cui entrano in casa e siamo presenti, bisogna prima di tutto farli scappare e poi allertare subito le forze dell’ordine”. A questo punto ha cominciato a farsi strada nel pubblico una certa dose di indignazione. Qualcuno ha voluto sapere precisamente le pene previste per queste persone e se tali pene poi si rivelino effettivamente deterrenti “il codice penale prevede pene precise per questo tipo di reati” ha risposto il comandante “pene che dipendono dal trovarsi di fronte ad un soggetto già noto alle forze dell’ordine oppure no, un soggetto che abbia dei precedenti, che sia recidivo e dipende anche quanti sono questi precedenti, quanto sono gravi. In genere in seguito al primo arresto e in assenza di precedenti sono due anni con la condizionale, il che significa che il soggetto viene arrestato e dopo il processo rimesso in libertà e questo è garantito indipendentemente dalla nazionalità”. E se, una volta rimesso in libertà, il ladro torna a colpire, si è chiesto qualcuno “può capitare che una stessa casa sia oggetto di più furti” ha risposto il comandante “ma questo non perché i ladri si accaniscono, ma perché la casa in questione è collocata in un luogo particolarmente buio, isolato, è senza allarme, è incustodita e dunque più bande di ladri giungono a ritenerla particolarmente idonea al loro scopo. Di solito c’è una zona più esposta in ogni comune e si tratta sempre di zone che rispondono a queste caratteristiche suddette. Bisogna investire sui mezzi di difesa passiva (oltre ad assicurarsi di aver chiuso bene ogni porta, finestra o altro possibile accesso), allarmi soprattutto, che possono essere accompagnati da impianti di videosorveglianza i quali però, da soli servono a poco . ormai gli allarmi si trovano nei supermercati a prezzi abbordabili. Non bisogna sottovalutare l’importanza degli animali domestici, anche quelli piccoli, tenuti nelle gabbiette” e a questo punto il comandante ha descritto il caso di una donna che è stata svegliata nel cuore della notte da un animaletto che teneva in casa, porcellino d’India o simile, che ha avvertito la presenza di un ladro in casa e agitandosi nella gabbietta ha allertato la padrona e messo in fuga il ladro in questione che ha abbandonato la sua attrezzatura “a seconda dei periodi e del gruppo di ladri si riscontrano più tecniche di scasso” ha spiegato il comandante “non soltanto col cacciavite dal retro, ma anche praticando buchi sui vetri delle finestre con trapani a mano relativamente silenziosi e inserendo poi dal buco dei marchingegni che permettono di girare la maniglia della finestra. Il tutto cercando di produrre il minor rumore possibile. Chi fa furti di notte sa che si introduce in un’abitazione dove i proprietari sono facilmente presenti e dunque sa che deve fate il possibile per non farsi sentire. A questo proposito un altro mito da sfatare è la convinzione che i ladri utilizzino un qualche tipo di sostanza soporifera per addormentare gli abitanti della casa. Ci possono essere solo due modi per mettere in atto questo: il primo è impregnare un fazzoletto di una qualche sostanza e premerlo sulla bocca, ma in quel caso la persona si accorgerebbe e ricorderebbe il giorno dopo questo fatto; il secondo modo consisterebbe nel diffondere nell’ambiente un qualche gas soporifero che però costringerebbe i ladri ad indossare delle protezioni per introdursi in casa. dunque nessun ladro cercherà mai di anestetizzare le persone presenti in casa. Se ci si sveglia col mal di testa cio è dovuto allo stress causato dall’aver subito un furto”. Nel mentre il comandante spiegava, in più d’uno tra il pubblico sentiva il bisogno di intervenire per raccontare delle esperienze dirette oppure sentite dire che permettevano di confermare quanto detto o di fare nuove considerazioni. “Un’altra tecnica usata che non fa rumore consiste nel rompere la serratura” ha ripreso a spiegare il comandante “una tecnica che si può sventare applicando dei chiavistelli, catenacci, eccetera proprio perché i ladri non sono interessati a produrre rumore, cercano di evitarlo e dunque tali protezioni, che non si possono forzare in silenzio, li farebbero desistere. Un’altra cosa importante da tenere a mente è che i ladri si comportano anche a seconda del bottino che intendono fare. Ci sono quelli che una volta introdottisi in casa arraffano tutto il più possibile di quello che trovano e ci sono quelli che ricercano specificatamente valori e oro piuttosto che denaro contante o attrezzature specifiche. C’è chi si specializza con le auto di lusso o che se le ritrova facilmente a portata anche se molto spesso le auto vengono prese esclusivamente perché sono un mezzo per assicurarsi la fuga, perché molto spesso i ladri vengono accompagnati da chi li ha assoldati solo all’andata e non più al ritorno. Va detto inoltre che per la maggior parte i ladri quando entrano in una casa non sanno di preciso cosa troveranno. Sta a noi impedire loro di trovare cose che destino il loro interesse come ad esempio chiavi bene in vista, denaro e preziosi facilmente scovabili”.

L’ultima parte dell’incontro è stata riservata esclusivamente al pubblico che ha espresso ulteriori perplessità, opinioni dando luogo anche ad accesi dibattiti. C’è chi ha fatto notare il fatto di ricevere telefonate a ogni ora portando l’attenzione sul fatto che i dati sensibili tramite internet sono facilmente acquisibili perché basta acconsentire al trattamento dei dati e questi si diffondono (c’è da dire che per certe cose come lo scarico legale di programmi o altri dispositivi viene bloccato se non si acconsente al trattamento dei dati e così l’iscrizione a siti, gruppi, forum a concorsi, tipo letterari o fotografici ndr). C’è chi ha fatto notare come, chi si spaccia per carabiniere o poliziotto riesce a procurarsi divise false che sono indistinguibili da quelle vere. Il comandante assicurava che le divise false sono riconoscibilissime e ribadiva il fatto che chi ha commesso truffe spacciandosi per carabiniere o poliziotto ci è riuscito anche esibendo abbigliamenti assurdi come cappellini con le scritte magari comprati all’autogrill e presentandosi in casa di anziani mettendoli in confusione infilando una dietro l’altra una gran quantità di domande. Ancora una volta il principio è quello di verificare nel dubbio, telefonare al 112. C’è chi ha fatto notare che non tutti gli uffici postali o gli istituti di credito sono dotati di telecamere che potrebbero monitorare eventuali adescamenti e chi ha osservato come per gli anziani sarebbe meglio delegare tali operazioni di prelievo anche se le deleghe non sono mai così semplici da mettere in atto, scegliendo un familiare a scapito di tutti gli altri che potrebbero risentirsene. Sono stati discussi casi specifici e qualcuno ha sottolineato il grande disagio che tali azioni provocano. Il dibattito più acceso si è scatenato quando il discorso è caduto sull’opportunità di reagire ai ladri che entrano. La cronaca racconta spesso casi di persone che reagiscono ai furti aggredendo i ladri o uccidendoli addirittura e tutti sanno come in questi casi si passino grossi guai. Il comandante ha spiegato bene questo punto. Non si può sempre invocare con leggerezza la legittima difesa, bisogna poi essere in grado di descrivere dettagliatamente la situazione (che le forze dell’ordine sono comunque in grado di ricostruire al giorno d’oggi) e da tali ricostruzioni deve emergere indubbiamente una situazione di pericolo che faccia capire come chi ha aggredito, ucciso, lo ha fatto perché in quel frangente non poteva fare altrimenti. Questo ha scatenato proteste e indignazioni nei presenti e io non nascondo di essere la più accesa detrattrice di questi principi di legge che secondo me dovrebbero essere completamente rivisti. Chi entra in casa mia senza il mio permesso ha comunque torto e io cittadino ho il diritto di agire verso quella persona come più ritengo opportuno. Non ritengo assolutamente corretto dare ai delinquenti di mestiere (che sono ben diversi da chi si trova a dover rubare per bisogno perché si trova in stato di indigenza; di solito questi ultimi agiscono commettendo un sacco di errori e vergognandosi pure di quello che si trovano a fare) i miei stessi diritti perché chi sceglie di fare il ladro di mestiere potrebbe benissimo scegliere altrimenti, un mestiere più onesto, oppure mettere in conto di venire ferito o ucciso senza sentirsi in diritto, come è stato detto a un certo punto, di armarsi per tutelare la propria vita. Si è parlato di senso civico durante questo incontro. Senso civico significa anche non scordare le regole base della convivenza civile come ad esempio non sentirsi in diritto di entrare in una casa solo perché si trovano luci spente o passaggi aperti. D’estate in molti dormono con le finestre aperte per via del caldo.  Io ritengo a questo punto doverosa una riflessione. Un privato cittadino per colpa di tali soggetti non è più padrone in casa propria deve vivere costantemente in ansia e terrorizzato dalla minima disattenzione, deve rinchiudersi come se fosse lui in galera e nascondere tutto, quando in realtà dovrebbero essere tutte le persone ad avere ben chiaro il principio secondo cui cio che non ci appartiene non va preso e non ci si può introdurre ovunque solo perché si trovano le vie d’accesso spianate. Chi ancora non lo ha capito deve essere punito, ma non soltanto con l’arresto e la detenzione. Questo però è il mio pensiero che durante l’incontro ho espresso solo in parte e che credo di avere in comune con molte altre persone. In questo dibattito è rientrata anche la questione del porto d’armi, consentito dalla legge a patto di dimostrare la necessaria dose di responsabilità ed ecco perché dal 2002 le leggi si sono fatte più severe intensificando i controlli periodici per monitorare lo stato psicofisico di chi detiene armi.

Esaurito questo discorso si è passati a spiegare più dettagliatamente come le forze dell’ordine agiscono effettivamente una volta allertate per questi fatti. Ultimamente si tende a non soffermarsi più sul sopralluogo nelle abitazioni quanto a concentrarsi sui controlli a tappeto nelle strade. È così ad esempio che sono stati effettuati qui sul territorio degli arresti importanti come si diceva all’inizio. Dunque è molto importante che le persone non premano per avere i carabinieri in casa, ma che capiscano la maggiore utilità della ricerca del ladro o dei ladri sul territorio. Certo è anche da sottolineare l’importanza di controlli preventivi costanti sul territorio anche senza che si verifichino episodi. Qualcuno in sala ha lamentato ad esempio la scarsità di controlli nella sua zona. Ma sicuramente dopo questa giornata chi ha ascoltato ha sicuramente acquisito degli strumenti in più per fronteggiare determinate eventualità. Una cittadinanza più informata facilita notevolmente l’operato delle forze dell’ordine. Ecco perché questi incontri si rivelano particolarmente utili, ma devo dire che oltre alle informazioni mi sono portata a casa anche un po’ d’amarezza.

 

 

 

 

 

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Legione Carabinieri Lombardia

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Il piacere della condivisione e dell’appartenenza ad una comunità

 

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nella foto: il Coro Valtellina nel Museo della Chiesa Parrocchiale di Talamona

 

Da sempre il Coro Valtellina si attiva con successo per realizzare iniziative volte a valorizzare e promuovere il patrimonio musicale e per rispondere con sollecitudine a richieste di partecipazione a eventi culturali e, anche quest’anno, ha dato ampiamente prova di tale costante impegno.

A titolo informativo segnalo, con alcuni flash, le attività che lo hanno coinvolto negli ultimi tempi.

A Piateda, presso il Polifunzionale, sabato 14 novembre ha preso parte, con i Giovani Cantori “G. Fumasoni” di Berbenno ed il Coro Lareit di Bormio, alla 9^ edizione Autunno in Canto organizzata dall’Associazione Culturale L’Ghirù. Una serata all’indomani di una immane tragedia che ha colpito profondamente il mondo intero; una serata particolare in cui si è affermato con vigore il potere unificante della musica, portatrice di intese, pace, dialogo tra le genti e si è lanciato, attraverso il bel canto, l’augurio fiducioso e speranzoso di un futuro migliore.

A Villa di Tirano, nell’ampia chiesa di San Lorenzo, il 26 dicembre, si è tenuto il “Concerto di S. Stefano” promosso dal Coro Bernina con la partecipazione del Coro Valtellina, i quali hanno dato vita ad un coinvolgente spettacolo che ha contribuito a ricreare, grazie alla piacevolezza e all’armonia della musica, l’atmosfera magica del Natale.

Il Natale, un’importantissima ricorrenza religiosa, che via via si è connotata come la festa dei sentimenti, della famiglia, dell’amicizia, degli affetti, dei valori, del ritrovare l’essenza e del ritrovarsi.

I molteplici messaggi emersi dai testi dei brani proposti – appartenenti al classico repertorio natalizio e, al contempo, estremamente attuali – hanno acceso nei presenti il desiderio di un domani intriso di fiducia e serenità.

E proprio nel periodo natalizio, il Coro Valtellina nell’ambito della manifestazione I presepi delle Contrade –  una tradizione che va avanti dal lontano 89 e che, nel corrente anno, con il logo ha meritatamente ottenuto un riconoscimento ufficiale per la creatività, la vivacità, la laboriosità della comunità talamonese, fortemente sostenuta da spirito di squadra e di fraterna collaborazione – ha ulteriormente tradotto la sua disponibilità regalando canti in giro per le vie del paese.

Domenica 27 dicembre è stata la volta del Tempietto Votivo – un luogo sacro, ai piedi della montagna, lontano dai ritmi frenetici e rumorosi del quotidiano quasi a voler preservare le anime delle molte vite spezzate per ideali di patria -, dove Alpini di diverse generazioni, con l’infaticabilità di sempre, hanno realizzato un presepe denso di tristi ricordi. In una fredda sera sotto le stelle, i coristi, con una apprezzata parentesi canora sui temi della grande guerra, hanno levato gradevoli note al cielo per ricordare e non dimenticare! Un doveroso omaggio alla nostra memoria storica.

Lunedì 28 il punto di incontro è stato il presepe del regno dei Puffi, i fantastici omini blu che, anni addietro, tanto hanno divertito moltissimi bambini e continuano ancora a suscitare curiosità ed interesse in grandi e piccini. Anche nel salotto di via Mazzoni, allestito con semplicità ma con tanta fantasia e voglia di ospitalità, il numeroso pubblico ha accolto con gioia i doni offerti dal Coro Valtellina: una serie di pezzi che, con delicatezza e garbo, rievocano paesaggi e personaggi di quella famosa notte santa; narrano di quell’evento misterioso che ha determinato il corso della storia; annunciano gaudio; diffondono fermenti di pace e semi di armonia che pervadono i cuori.

E per finire – su gentile invito del Gruppo del presepe di Cà Giovanni –  mercoledì 30, non poteva certo mancare il consueto appuntamento nella suggestiva chiesetta di San Giorgio, primo nucleo abitativo di Talamona, dove si avverte ancora la forte presenza del passato. In quella sobria cornice, un numeroso gruppo di persone – uomini, donne, bambini, giovani, meno giovani -, dopo una salutare camminata in compagnia dell’amica luna che ha illuminato il cammino, ha avuto la fortuna di gustare prodotti speciali. Infatti, oltre al Coro Valtellina – abilmente diretto dal direttore Mariarosa Rizzi – erano presenti alcuni poeti afferenti al Laboratorio Poetico di Morbegno, a cura della responsabile Paola Mara De Maestri, che hanno generosamente offerto immagini ricordi suggestioni emozioni riflessioni pensieri personali, fissati in bella rima sulla carta.

Un fruttuoso momento di pausa per assaporare musica e poesia: due arti antichissime che, fin dalla loro nascita, furono intimamente e inscindibilmente legate, accomunate da una ritmica ed armoniosa trama di suoni e parole toccanti.

Il ben riuscito sodalizio fra “parole recitate” e “parole cantate” è proseguito domenica 3 gennaio con il Cantico di Natale – sempre organizzato dal Laboratorio Poetico di Morbegno, sotto la guida della capace Paola Mara De Maestri e dall’Assessore alla Cultura Anna Tonelli del Comune di Cosio Valtellino -, a Piagno, nella raccolta ed accogliente chiesetta parrocchiale, a chiusura delle molteplici manifestazioni che hanno vivacizzato e caratterizzato il clima festoso e gioioso del Natale.

Gli influssi positivi emanati dai brani poetici alternati ai componimenti musicali hanno trovato terreno favorevole negli animi ben disposti dell’attento pubblico e sono stati un’utile occasione per un’esplosione di auguri per invitare a costruire relazioni autentiche, a lasciare tracce significative, a continuare ad assumere un atteggiamento di stupore verso le meraviglie del reale. Una ventata di positività, di ottimismo in un periodo caratterizzato da continui eventi tragici, di profondo cambiamento – a livello non solo locale ma nazionale e mondiale – per spingere ciascuna persona a celebrare la speranza e ad impegnarsi per un mondo migliore.

Rifacendomi all’accezione etimologica di Natalerelativo alla nascita – e al correlato significato di ri-nascita riscoperta rinnovamento – personale e collettivo -, formulo a tutti noi l’augurio di onorare il Natale nei nostri cuori  e di cercare di tenerlo stretto tutto l’anno, per poter così dire:- Ogni giorno è Natale!

Grazie a Anna, Cesare, Giuseppina, Giusy, Mariella, Paola, Paolo, Patrizia che hanno recitato con passione le loro belle poesie, frutto di creatività e sensibilità, e grazie a tutto il Coro Valtellina che, proprio nella coralità d’insieme, conferisce espressione e spessore alle singole belle voci.

A questo proposito, ricordo che il Coro Valtellina, fermamente convinto della necessità di investire sul capitale umano, sarebbe ben lieto di vedere aumentare la sua famiglia… perciò chi volesse intraprendere un divertente viaggio nell’avventura canora non ha che da farsi avanti!

E con tale ottimo auspicio, naturalmente do appuntamento all’anno prossimo per rinnovare – nell’incontro con l’altro – la magia del Natale!

In conclusione non posso fare a meno di rivolgere un affettuoso ringraziamento a tutte le persone – e sono davvero tante – che con estro creativo, impegno, sacrifico, buona volontà, dedizione rendono possibili lodevoli iniziative, a testimonianza di una comunità attiva, operosa, appassionata che incarna il valore della condivisione, della solidarietà e del piacere dello stare insieme.

Cinzia Spini, presentatrice del Coro Valtellina

 

Aldo Manuzio, il perfetto equilibrio tra arte, tecnica e mercato.

di Donatella Salambat

Aldo Manuzio genio dell’umanesimo e fondatore dell’arte tipografica. In mostra all’Ambrosiana nel V° centenario della sua morte.

 

http://www.valtellinanews.it/articoli/Aldo-Manuzio-il-perfetto-equilibrio-tra-arte-tecnica-e-mercato-20151212/#prettyPhoto

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In un’epoca in cui il libro corre velocemente verso trasformazioni digitali, grandi gruppi editoriali si uniscono e l’e-book tenta di cambiare le nostre abitudini di lettura. La Biblioteca Ambrosiana, fondata dal cardinale Federico Borromeo (e  che ha oggi come prefetto monsignor Franco Buzzi) tuttora legittima espressione e vanto della Chiesa cattolica per essere uno dei centri mondiali d’irradiazione culturale, celebra con un evento straordinario la figura di Aldo Manuzio, uno dei più famosi tipografi ed editori d’Europa.

Nato a Bassiano (oggi comune di Latina) nel 1449, morì a Venezia nel 1515. Dopo anni di formazione umanistica vissuta tra Roma e Ferrara, si trasferì nel capoluogo veneto, città che fu per secoli crocevia di creatività, apertura culturale e fonte d’ispirazione per artisti, scrittori e umanisti.

Aldo Manuzio diventa uno dei maggiori tipografi del suo tempo, il primo editore moderno in quanto introduce innovazioni destinate a segnare la storia della tipografia e dell’editoria sino ai giorni nostri, come nell’ambito della punteggiatura l’apostrofo, il punto, la virgola ed il punto e virgola. In questa mostra si può constatare che tra le immagini appare il geroglifico con l’ancora e il delfino che dal 1502 diviene l’emblema della tipografia.

L’esposizione delle “Aldine”, curata dalla dott.ssa Marina Bonomelli, dell’Accademia Ambrosiana, e dal dott. Angelo Colombo, Catalogatore della Biblioteca, che si terrà presso la Pinacoteca Ambrosiana, dal 2 dicembre 2015 al 28 febbraio 2016, ripercorrerà il meticoloso lavoro di Manuzio, attraverso una selezione dei suoi stampati custoditi nella Biblioteca.

Aldo Manuzio rappresenta il perfetto equilibrio tra arte, tecnica e mercato e per comprendere al meglio la sua figura, ciò che ha rappresentato e tuttora rappresenta abbiamo rivolto alcune domande sia alla curatrice della mostra, dott.ssa Marina Bonomelli, sia al dott. Angelo Colombo, catalogatore della Biblioteca Ambrosiana e sia al Dott. Federico Gallo, direttore dell’Ambrosiana.

Rivolgiamo il primo quesito al dottore dell’Ambrosiana, Federico Gallo, direttore della Biblioteca.

Prima della Mostra delle “Aldine”, in Ambrosiana si è svolto un convegno internazionale su Aldo Manuzio. Qual è il bilancio degli studi presentati?

Il Convegno internazionale svoltosi in Ambrosiana il 19-20 novembre si è chiuso con un bilancio altamente positivo. Sono intervenuti, tra gli altri, i maggiori specialisti sull’argomento a livello mondiale. La biografia di Aldo Manuzio, la storia della sua attività, lo studio delle collezioni dei suoi libri hanno ricevuto nuova luce, nuovi dati, nuove prospettive per la ricerca. Particolarmente interessanti sono stati i momenti di dibattito tra gli studiosi, ai quali ha partecipato in modo costruttivo e competente il pubblico qualificato presente.

Alcune domande specifiche sull’obiettivo della mostra e il messaggio che vuole trasmettere le abbiamo invece rivolte ai curatori della medesima, il dott. Angelo Colombo e la dott.ssa Marina Bonomelli. Cominciamo con il dott. Colombo.

Che cosa vi siete prefissi con questa esposizione?

La mostra ha uno scopo didattico: far conoscere la figura e l’opera di Aldo Manuzio. Non vuole essere un evento riservato ad una ristretta cerchia di bibliofili, bensì aperto al grande pubblico per far conoscere un protagonista della nostra storia culturale. Manuzio fu stampatore, editore, umanista. Alla base della sua attività c’era un deale ben preciso: rivelare, far conoscere il bello, additare agli uomini la grandezza dei pensieri di Platone, la profondità delle ricerche di Aristotele, la suggestione delle liriche greche … pubblicare opere belle … moltiplicare i libri per tutti … far partecipi tutti della ricchezza spirituale della cultura classica.

Che cosa dice a noi contemporanei un personaggio come Manuzio?

Manuzio introduce nella sua stamperia alcune importanti novità, che sono all’origine del libro moderno. Per comprenderne il valore e la portata, potremmo definire Manuzio lo Steve Jobs dell’umanesimo: colui che ha saputo introdurre nella nuova arte della stampa, criteri insieme di bellezza e di efficienza, fino allora sconosciuti. Un vero salto di qualità!

Quali sono queste novità introdotte da Aldo e dalla sua stamperia?

La prima riguarda i caratteri di stampa: l’italico e il corsivo. La seconda il formato dei volumi: non più i grossi volumi che connotavano i manoscritti, ma il formato tascabile, in ottavo. La terza la disposizione grafica del testo, con l’utilissima introduzione della punteggiatura, che rende finalmente leggibili testi alle volte di ostica comprensione. Il suo messaggio per l’uomo d’oggi è riassumibile nelle sue stesse parole:

“ … se si maneggiassero di più i libri che le armi, non si vedrebbero tante stragi, tanti misfatti e tante brutture, tanta insipida e tetra lussuria …”

Con la dottoressa Marina Bonomelli ci siamo invece avventurati nelle campo delle sensazioni persnali.

Quanto tempo l’ha impegnata a pensare la mostra e quanto tempo le è occorso per allestirla?

L’allestimento di questa mostra ha comportato un accurato lavoro, durato più di anno, di ricognizione e analisi del patrimonio delle aldine della Biblioteca Ambrosiana che conserva in tutto ben 296 esemplari, una collezione preziosissima, fra le più rilevanti a livello internazionale. Una suggestiva selezione di 30 aldine è esposta in mostra, in un percorso tematico-cronologico lungo il quale il visitatore potrà ammirare le edizioni più rappresentative della produzione aldina, come anche gli esemplari più singolari di questa collezione.

C’è un lavoro di Manunzio che predilige e che trova spazio nella mostra da lei curata?

In realtà sono due le opere che prediligo e che segnano in modo profondo e durevole la storia del libro. La prima è l’Hypnerotomachia Poliphili del 1499,in assoluto il più bel libro illustrato del Rinascimento, per la varietà della composizione tipografica con cui Aldo sa unire il testo alle immagini. La seconda è il Virgilio del 1501, il primo libro in formato portatile e stampato con il carattere corsivo, opera con la quale Aldo dà avvio alla produzione dei classici latini, greci e in volgare.

 

Il cittadino chiede “certezza della pena”, come Beccaria 250 anni fa

di Donatella Salambat

Una recente mostra alla Biblioteca Ambrosiana ha riproposto il tema della giustizia partendo dal pensiero dell’illustre Milanese vissuto nel secolo XVIII e diventato celeberrimo nel mondo per il suo “Dei delitti e delle pene”.

 

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Nell’apprendere notizie su reati contro le persone o la proprietà la reazione del cittadino, dell’uomo della strada, è di chiedere che il reo sia arrestato e condannato. Ognuno di noi pretende che si possa contare sulla cosiddetta “certezza della pena”, intesa soprattutto come presupposto per la sicurezza.

Spesso, però, dimentichiamo che l’insicurezza che oggi ciascuno di noi avverte è dovuta non solo agli atti criminali, ma anche a un’ assoluta mancanza di legami all’interno della società. È mutato il rapporto con le autorità; il lavoro precario è aumentato così come è cresciuta enormemente la disoccupazione. Di fatto l’intera realtà che ci circonda ha subito trasformazioni epocali.

La Biblioteca Ambrosiana (l’importante centro d’irradiazione della cultura cattolica voluto dal cardinale Federico Borromeo), nei mesi scorsi ha allestito la mostra “Giustizia e ingiustizia a Milano tra Cinquecento e Settecento” e una serie d’incontri con la partecipazione di selezionati studiosi italiani e stranieri.

La mostra, che si articolava in sette vetrine ricche di documenti e incisioni, affrontava questo tema attraverso una capillare e metodica ricerca iconografica e documentaria del materiale presente nei fondi della Biblioteca per ricostruire un quadro sintetico delle diverse rappresentazioni attinenti la sfera della giustizia.

Nella Sala del Prefetto dell’Ambrosiana, si trova una targa con il motto “Securitas propriae vitae jus nautrale est securitas bonorum jus societatis” che rievoca l’ispirazione e il fondamento dell’opera “Dei delitti e delle pene” del nobile Cesare Beccaria (Milano 15 marzo 1738 – Milano 28 Novembre 1794), giurista, filosofo, economista ed anche una figura di spicco della scuola illuminista milanese.

Il libro, un’approfondita analisi politica e giuridica contro la pena di morte e la tortura, ispirò il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di Toscana e fu fonte di ispirazione per i padri fondatori degli Stati Uniti d’America come Thomas Jefferson, Benjamin Franklin e John Adams.

Beccaria ebbe quattro figli; la primogenita Giulia sposò un gentiluomo lecchese, Pietro Manzoni, più anziano di ventisei anni, padre di quell’Alessandro scrittore e poeta italiano di fama internazionale, il quale, dopo la scomparsa del Beccaria, riprenderà alcune riflessioni sulla giustizia nel suo capolavoro “I Promessi Sposi” e ancor di più nella “Storia della colonna infame”.

La storia della giustizia annovera, tra gli studiosi più rappresentativi, ben tre personaggi milanesi, Cesare Beccaria, Pietro Verri ed Alessandro Manzoni, legati tra di loro oltre che per i contenuti dell’opera “Dei delitti e delle pene”, da una riflessione più ampia sul sistema di detenzione e di rieducazione dei carcerati.

Beccaria riteneva che l’entità della pena dovesse essere commisurata al delitto. La sua critica ai metodi barbarici dell’espiazione della pena in vigore ai suoi tempi ottenne un successo mondiale. Beccaria inoltre criticava quei regimi in cui non esisteva la presunzione di innocenza né la certezza della pena; sosteneva poi che il processo dovesse avere una ragionevole durata e che la sentenza dovesse arrivare in tempi certi.

Oggi chiedere più sicurezza significa innanzi tutto realizzare uno stato di diritto che tutela i cittadini proteggendoli da coloro che li vessano o minacciano. Purtroppo nel nostro Paese l’operato delle forze di pubblica sicurezza viene spesso vanificato dalla lentezza di un sistema giudiziario ed istituzionale incapace di consegnare i delinquenti alla giustizia. La pubblica opinione chiede quello che Cesare Beccaria intuì molto tempo fa: “la certezza della pena”.

La giustizia è un pilastro fondamentale di ogni società; e con Beccaria dovremmo pensare alla pena detentiva non solo come ad una “condanna”, ma vedere in essa la capacità di “rieducare” il reo, almeno in tutti casi in cui ciò sia possibile. La mostra tenuta alla Biblioteca Ambrosiana avrà dato qualche suggerimento al dibattito sulla riforma della giustizia in atto in Italia?

 

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VALTELLINA NEL PARADISO DELLO SCIALPINISMO

TALAMONA 18 dicembre 2015 con Beno alla scoperta delle montagne

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RACCONTI, AVVENTURE E IMMAGINI COME UN DOCUMENTARIO IN PRESA DIRETTA

Le montagne sono le cattedrali della terra. con i loro portali di roccia, i mosaici di nubi, i colori dei torrenti e gli altari di neve. Così Lucica Bianchi, assessore alla cultura nel presentare questa serata dedicata appunto alle montagne, un discorso che riprende in parte le parole del comunicato stampa preventivamente diffuso per annunciare la serata medesima, permettendo così a tutti gli appassionati di montagna di poter trovare spazio e momenti di condivisione nell’ascoltare i racconti di Beno, Enrico Benedetti, classe 1979, una laurea in ingegneria elettrica e una sconfinata passione per la montagna alla quale ha dedicato tutte le sue energie attraverso molteplici attività: alpinista, corridore, pastore, scrittore, fotografo, divulgatore ed editore di libri e pubblicazioni sul territorio alpino valtellinese e sulla sua cultura fra cui, sopra tutti, la rivista trimestrale LE MONTAGNE DIVERTENTI, nata nel 2007. Ma è sulla sua attività di fotografo che Beno tende a dare un maggiore accento raccontandola così: “La mia fotografia va di pari passo con il mio modo d’andare in montagna, senza badare alla lunghezza degli avvicinamenti o all’isolamento dei luoghi, e si distingue per scatti in ambienti severi: dalle vette delle montagne, alle creste o alle pareti anche nelle condizioni meteo più strane.”  Una serata per approfondire la conoscenza delle nostre montagne durante la quale si è parlato di scialpinismo in occasione dell’apertura della stagione ed è stato presentato il libro ALPI SELVAGGE che racconta l’arco alpino a tutto tondo. Una serata che ha preso il via a partire dalle ore 20.30 alla Casa Uboldi e che è stata ben accolta anche dal sindaco Fabrizio Trivella che questa sera, come lui stesso ha detto nel suo intervento di saluto, non è intervenuto alla serata in veste di amministratore, ma in veste di sciatore, di sci alpinista amatoriale “scio fin da bambino cominciando con la discesa e finendo per convertirmi allo scialpinismo, un modo più spirituale di vivere la montagna. Riguardo a questa serata non si può che apprezzare l’operato dell’assessore Bianchi che accanto a tematiche legate all’arte e alla cultura alta riesce anche a proporre serate come queste, tematiche più godibili da un maggior numero di persone” che infatti riempivano la sala “difficilmente nell’organizzare le nostre serate abbiamo riempito la sala come questa sera” ha osservato ancora il sindaco “dunque significa che il tema è davvero stimolante per tutti”.

A questo punto ha preso la parola Beno stesso cominciando a introdurre il suo racconto “questo doveva essere un incontro di presentazione del libro ALPI SELVAGGE, ma ho pensato di non fare una presentazione classica, di non presentare il libro sempre nello stesso modo e così ho pensato di proporre come corollario una serata sullo scialpinismo per riuscire a vedere un po’ di neve a dicembre quest’anno”.

Il racconto di Beno è cominciato dalla fine si può dire, con una prima presentazione dedicata alle gite da lui effettuate in montagna proprio quest’anno con immagini realizzate in modo anche un po’ grezzo, perché, come lo stesso Beno ha puntualizzato “in montagna si pensa più a sciare che a girare delle immagini”. Ed ecco ora il suo racconto.

La Valtellina secondo me è il paradiso dello scialpinismo perché per il 90% le montagne valtellinesi sono completamente sconosciute e quindi si riesce ancora a fare esplorazione ed è quasi un lusso poter dire questo a 100 km da Milano. Quel che mi piace fare quando vado in montagna è proprio questo, esplorare, conoscere. È molto raro incontrare altre persone durante queste escursioni. La Valtellina, rispetto ad altre zone alpine dove ho viaggiato, ha la splendida particolarità di avere in pochissimo spazio tantissime valli e tantissime montagne, se pensiamo ad esempio alle Dolomiti c’è una singola montagna che la vedi a chilometri di distanza. Qui ci sono montagne con distese infinite di valli. Una volta salita una montagna viene la frenesia di andare alla scoperta delle altre, capire se si può sciare. Le mie escursioni sono spesso il risultato di anni e anni di preparazione e di osservazioni. Bisogna tornare nello stesso posto più e più volte prima di pianificare precisamente l’escursione vera e propria. Il tempo non è buono oppure non si ha tempo, bisogna che questi due elementi vengano a coincidere, bisogna che nevichi per andare a sciare. Per questo ci sono annate buone in cui cadono fino a due metri di neve, come due anni fa e annate meno buone piene di notti serene, che se per tutti sono una gioia, per uno sci alpinista sono un incubo.

Il racconto di Beno era accompagnato sia dalle immagini che dalla musica, sottofondi di musica pop rock a sottolineare la versatilità delle sue passioni.

Finalmente a febbraio di un anno caratterizzato da notti serene e da spolverate (il 2013) il tempo è cambiato. Una bella nevicata consente di partire per un’altrettanta bella gita. Le prime nevicate possono essere pericolose per il rischio valanghe, ma i veri sci alpinisti non le evitano perché per chi ha questa passione sono i momenti migliori.

Le gite classiche

Queste escursioni sono molto diverse dalle gite classiche che possono venire in mente più facilmente a tutti e dunque fanno si che i luoghi siano piuttosto affollati. Un luogo per una gita classica può essere ad esempio Cima Piazzi scendendo da passo del Foscagno che richiede abilità sciistiche di base. Non è un luogo in realtà così frequentato, non è molto facile da trovare, ma è comunque una delle gite più classiche e famose. Un’altra meta classica è punta Cadini che siccome ha poco dislivello quando viene aperta la strada in aprile è trafficata come al supermercato, come in città all’ora di punta. I giorni migliori per godersi questa gita sono quelli infrasettimanali in periodi in cui ha nevicato da poco così da non trovarsi tutti insieme così come accade in val Tartano dove tutti si ritrovano sui medesimi percorsi. Le gite sono bellissime però dover fare la fila anche in montagna non è molto emozionante. In Val Masino poca gente esce dai soliti percorsi montani del Sasso Moro appena sopra gli impianti sciistici di Palù, oppure Pizzo Scalino che conta sulla cima almeno settecento persone di domenica. Da pizzo Scalino la cima regala una splendida vista sulla val di Togna e la val Fontana, due posti eccezionali per chi ama lo sci. Le due cime che ritengo più interessanti sono quelle accanto a pizzo Scalino. Bisogna andarci esplorarle e conoscerle partendo da zero perché non si sa nemmeno come salire, come trovare un percorso, bisogna procedere per tentativi ed errori, riorganizzare più volte. Comunque ne vale la pena.

A questo punto Beno ha presentato due discese da lui effettuate in val Fontana. Nel suo archivio Beno ha i ricordi, le immagini di almeno seicento gite di scialpinismo. Per stasera ha scelto di portare quelle di sci ripido.

La val Fontana è composta da una sfilza di montagne sul cui fondo si intravede Talamona, dunque dalla statale si può intravedere un piccolo brandello di val Fontana. Dal 2004 ho cominciato a pianificare la mia esplorazione della val Fontana, di tutte le cime che vi si trovano. Alcune sembrano appetibili per lo sci, altre, come la vetta di Ron, sembrano totalmente repulsive, però a questa montagna che guarda direttamente il fondovalle valtellinese c’ero particolarmente affezionato allora ho cominciato a condurre i miei tentativi nei modi più strampalati. Nel 2004 decido di voler salire in invernale. Per quanto riguarda l’attrezzatura ero ancora agli albori, equipaggiamento molto artigianale, arrangiato. A cavallo del periodo di Natale il primo giorno affondando nella neve ho battuto traccia fino all’altitudine di 2008 e il giorno dopo sfruttando questa traccia sono salito fino a 3050 raggiungendo quasi la vetta mentre stava scendendo la notte, il che mi ha costretto a tornare indietro. Questi posti sono caratterizzati da pendii adatti più ai camosci che alle persone, ma non ho proprio potuto fare a meno di tornarci nel 2006 col mio amico Matteo approfittando di una splendida nevicata da un metro a novembre. Sulle guide turistiche le informazioni relative alla cima di Ron per quanto riguarda i consigli per escursionisti e sciatori recano “assolutamente da evitare con neve” e questo mi attraeva particolarmente, come una sfida che dovevo assolutamente vincere. In realtà poi questa salita non offriva particolari problemi tranne che per il fatto che era stretta. Dapprima a novembre con Matteo e poi il 26 dicembre da solo per la mia discesa con gli sci. Dopo la val Fontana un’altra montagna che volevo assolutamente sciare era pizzo Calino perché è una montagna strana a forma di tronco di piramide, con la punta piatta grande come un campo di calcio, ricorda un po’ il cratere di un vulcano, come se questo monte fosse un po’ il Vesuvio valtellinese. Credevo di poter scendere questa montagna con gli sci perché la via normale che sale dallo spigolo di destra non ha grandi pendenze soprattutto in presenza di molta neve, però bisognava studiare e aspettare le condizioni ottimali. Ho studiato e osservato dal 2005 al 2008 poi nel 2008 nei giorni di Natale non c’è neve per tre giorni. Cio vuol dire che sulla montagna c’è la giusta quantità di neve senza cornici, le condizioni ideali. Ho fatto la mia escursione il giorno stesso di Natale del 2008 seguita dalla discesa con gli sci lungo il pendio accompagnato da un gruppo di camosci sulla cresta montuosa. Quel giorno ero da solo arrivo al punto dove si lascia la macchina e mi ritrovo impantanato rischiando che salti tutto. Fortunatamente incontro un cacciatore che mi ha aiutato con la macchina poi ognuno è andato per i fatti suoi finchè alla sera ci siamo ritrovati nello stesso momento e nello stesso punto dopo che ho disceso in sciata continua più di duemila metri di dislivello. Di fronte al Calino c’è il monte Combolo. Chi guarda questo monte da Ponte in Valtellina dopo le prime nevicate afferma di vedere sulla parete il volto della Madonna che rende il monte famoso ai credenti del luogo, mentre i non credenti nello stesso punto ci vedono Madonna la cantante. Questa montagna di per sé non è difficile da sciare però ha dovuto aspettare tanti anni perché è pericolosissima per le valanghe. Dalla cima c’è tutto un pendio che scende a quaranta gradi immettendosi in una valle sempre più stretta che infondo diventa un canyon. La pala sud della montagna esposta al sole tende facilmente a scaldarsi e a creare valanghe che scendono fino a valle spazzando via tutto sul loro cammino. Ci sono poche piante disposte a ciuffettini qua e là. A gennaio di due anni fa col mio amico Giovanni abbiamo trovato le condizioni ideali per la gita sognata da tempo, una arrampicata sul pendio seguita da discesa libera con sci. Alla salita vera e propria, il 25 gennaio, è preceduta due giorni prima una salita preliminare per studiare le condizioni della neve. Gli ultimi metri prima della vetta erano più scivolosi a causa del vento che ha fatto ghiacciare la neve. Il mio amico era particolarmente in forma e mi distanziava spesso. Salendo si intravedevano le piste dell’Aprica. Dalla cima si poteva poi intravedere il gruppo del Bernina. La maggiore difficoltà in alto sono le rocce nascoste sotto la neve poi il bello comincia dopo i primi 100 m. una delle più belle emozioni quando si condivide una salita con gli sci è, tanto per citare una frase di un altro mio amico Pietro, arrivare sulla cima per stringere la mano al compagno, come simbolo appunto della condivisione dello sforzo. Un’altra montagna che mi ha fatto dannare è la corna Brutana che si trova nel comune di Tresivio ed è la sua cima più alta che si affaccia sulla Valtellina e si trova vicino alla vetta di Ron e presenta a sud una parete che può sembrare del tutto rocciosa, ma in realtà ha al suo centro un canale nevoso nemmeno troppo ripido che ritenevo sciabile. Il problema di questa parete è che è orientata a sud e questo rende difficile trovare una neve che sia nelle condizioni adatte per consentire una discesa con gli sci. Di solito o la neve è ghiacciata oppure è farinosa con pericolo di valanghe e quindi bisogna aspettare i giorni con pericolo 4 per provare l’escursione. Quando ci sono andato è stato in compagnia di un mio amico di Caspoggio, uno dei migliori sciatori valtellinesi, molto spericolato. Due giorni prima di andare con questo amico, visto che sembravano esserci le condizioni giuste ho provato ad andare da solo, ma una volta in salita la neve si è rivelata non molto stabile. Finalmente arriva il giorno. Una nevicata, seguita da un pomeriggio di sole, l’ideale per una bella gita a quattro con anche le fidanzate in attesa in una piazzola sicura che possono dunque ammirarci dal basso come due puntini sul fianco della montagna. Il segreto dello sci ripido sta tutto nell’atteggiamento mentale, nel superare le paure e acquisire sicurezza in sé stessi. Solo così si evitano errori e dunque anche di farsi male. La cima del monte dava su un canale incuneato che dava il via a tutta una serie di curve e poi ad un tratto ripido. Una volta rientrati dal canale principale tutto diventa più bello e più facile. Un’altra pazzia che avevo in mente da anni era quella di poter sciare la montagna del Painale. Rocciosa e uniforme su tutti i lati più o meno, particolarmente ripida sulla parete nord ovest un’altra che tende ad essere verticale in basso, la parete sud ovest a strapiombo e la parete est dove i primi escursionisti di fine Ottocento erano riusciti a trovare una via, è una montagna che, dopo molte salite, ho ritenuto potesse prestarsi per dare una possibilità anche agli sciatori. Anche questa montagna la salgo con l’amico spericolato di Caspoggio. C’è una speranza per poter sciare probabilmente sulla cresta, ma è ancora da testare. Noi si è ripiegato sulla parete est, non altissima, intorno ai 400 m che però presenta una grossa barra di rocce. Bisognava capire se fosse possibile salire comunque, aggirarla in qualche modo e poi capire come organizzare la discesa con pendenze che si aggirano intorno ai sessanta gradi. Col mio amico saliamo in un giorno in cui la neve non è particolarmente bella, prevalentemente ghiacciata coi passaggi stretti tra le rocce e una discesa che complessivamente metteva in difficoltà con le picozze, ma il mio amico la scendeva a salti con gli sci. Nel complesso e se si esclude la parte finale, il Painale è stata la montagna più difficile tra quelle affrontate. Tra le vette valtellinesi, le Orobie in particolare, la più famosa è il pizzo di Coca dalla cui vetta scende un lungo canalone diretto a nord ovest. Dagli anni Ottanta questo monte è diventato un classico dello sci ripido. Ci si è finiti a fare una gita qui per caso, avendo inizialmente in mente un’altra montagna che però quel giorno programmato per quella gita aveva un notevole rischio valanghe che ha spinto ad optare per il pizzo di Coca esposto a nord con una buona neve al contrario delle esposizioni est con neve troppo instabile. Il canalone di discesa del Coca è molto famoso coi suoi 1200 m di dislivello in sci ripido, un must per gli specialisti di questa disciplina da provare almeno una volta nella vita, ma anche due o tre con la neve bella come quella di quel giorno. La montagna che si era pensato di scalare originariamente era il pizzo di Scotes, la sesta cima più alta delle Orobie con una pala rivolta a nord ovest molto ripida che scende fino a digradare in un vallone  della Piota, un vallone che sfocia su delle cascate di ghiaccio. In un’annata eccezionale come il 2014 le cascate di ghiaccio erano ridotte ad una striscia di una ventina di metri e per il resto era tutto sciabile allora finalmente è arrivato l’anno scorso il momento anche per la gita allo Scotes che si può osservare da Teglio con un binocolo per studiarlo e programmare l’escursione. La cima è preceduta da un avvallo ripidissimo ma prima di raggiungerlo c’è un tratto più pianeggiante con una barra di rocce. Mi è capitato di leggere schede tecniche che riportavano temperature di quaranta gradi, ma sono state redatte da persone che qui non sono mai salite. Io e il mio amico Giovanni salendo abbiamo trovato una cima dalla neve immacolata cui è seguita una discesa molto ripida. La ripidità si può dedurre dagli spostamenti della neve. Una difficoltà nello sci ripido consiste nel saper scegliere l’attrezzatura corretta che non deve essere mai troppo leggera, ma affidabile. Chi risparmia sul peso deve essere abilissimo a sciare perché l’attrezzatura leggera è sottoposta a maggiori sollecitazioni ambientali. Una volta discesa la parte alta del vallone, ritorno alle cascate da fare sempre in discesa e dopodiché il percorso si snoda in mezzo ad un labirinto di grossi massi. Questa montagna è visibile dalla valle e vedendola si può notare chiaramente che è adatta ad essere sciata. Nonostante questo non si trova mai nessuno lassù e neanche nei valloni vicini eppure vi sono zone su questa montagna che non richiedono neppure troppo sforzo per essere sciate. Una volta chiusa questa esperienza la mia attenzione si è concentrata sulla Val Malenco dove si trova una montagna caratterizzata da rocce scure e cime repulsive, il pizzo di Recastello di 2888 m che sorge completamente in terra bergamasca sul retro della valle. col mio amico di Caspoggio molto spericolato l’abbiamo raggiunta direttamente dalla Valtellina con gli sci. Particolarmente interessante per la discesa, la parete nord. L’itinerario seguito è stato particolarmente lungo, dal passo di Bondone si scende al lago del Marmellino e da li si risale alla cima di Recastello. Il tutto con un dislivello di 3004-3005 m. Il mio amico qui è stato particolarmente spericolato scegliendo per la discesa un percorso pieno di rocce che non si sapeva bene come andava a finire. Restando sulle Orobie una cima molto interessante è il Medasc caratterizzato da sette picchi frequentati soprattutto d’estate per discese alpinistiche, ma io volevo provare a fare una discesa con gli sci. Nel 2012 si comincia a provare la traiettoria di sinistra un po’ stretta. Ci si ritorna un’altra volta nel 2014 e ci si accorge che questa via è piena di voragini così il mio amico Giovanni decide di optare per la via di destra caratterizzata da tutta una serie di placche rocciose inaccessibili su cui però si può scendere quando si deposita la neve sopra. Questa non è stata la discesa più difficile del 2014, ma è stata la più pericolosa per via della nutrita presenza di ghiaccio che rendeva la neve dura e compatta come marmo. Non sempre intestardirsi per voler scendere a tutti i costi una montagna comporta dei buoni risultati. Il corno di Braccia l’avevo salito in tutti modi. Nelle guide moderne nessuno diceva che c’era un accesso sulla parete nord. In un libro di fine Ottocento ho letto di alcuni pionieri che partiti da Sondrio che un passaggio lo hanno trovato, ma è un canaletto stretto difficile da scovare. Subito non l’ho trovato nemmeno io quando sono andato apposta a cercarlo. Dopo un mesetto decido di tornare e riprovarci, ma mi sono scontrato con una grande valanga, c’erano persino i gipeti che volteggiavano e io mi sono trovato li vicino al versante che veniva trascinato a valle. le valanghe spesso hanno una velocità pari a quella di una persona che cammina, ma questo non impedisce loro di trascinare tutto con se. E mentre si stava li ad osservare la valanga il gipeto portava via a poco a poco i pezzi di una carcassa, forse proprio quella di un animale morto travolto dalla valanga. Questo gipeto insieme ad un altro esemplare sono la prima coppia di gipeti insediatisi in Val Malenco dopo anni in cui erano estinti sterminati dalla superstizione popolare, soprattutto dei pastori che temevano di vedersi portare via gli agnelli. Appena al di là delle creste della Valmalenco, una valle rinomata per lo scialpinismo, si trova un’altra valle, la Val di Forno che dal Maloja si incunea fino ai versanti settentrionali della Val Masino. Un posto incredibile per lo sci che si può raggiungere in camminata da Chiareggio. Dietro monte del forno c’è passo Vatseda e dietro ancora vari versanti tra cui la discesa della cima di Rosso. Al nostro amico spericolato dei salti un po’ troppo temerari rompono gli sci a percorso appena iniziato. Si procede lungo valle Rosso finchè da lontano si vede arrivare qualche perturbazione e allora si va verso nord della cima di Rosso coi suoi 45-50 gradi di dislivello che l’amico temerario ha disceso con uno sci legato con lo scotch, ma poi ha fatto seguito un’altra avventura sul pizzo del Torrone Centrale con un versante ripido che scende sul versante nord la cui difficoltà è un crepaccio terminale di 6-7 m. Nel 2014 è arrivata molta neve che ha chiuso il crepaccio così la salita è stata possibile, dopo aver fatto quella della cima di Rosso. Io col mio amico temerario partendo dalla Val Malenco, mentre altri due amici sono partiti dal Maloja finchè ci siamo trovati in mezzo alla valle alle 7.30 di mattina perché qualcuno doveva andare a lavorare. Una valle enorme che dalla fine dell’Ottocento si è abbassata mediamente di 180 metri di spessore. Li l’amico temerario ha voluto gareggiare con un gruppo di ragazzi accampati nella valle per girare un documentario sullo sci ripido. Solo che loro avevano degli sci più spessi e specifici lui degli sci più standard. Lui così si ribalta due volte e la seconda perde uno sci. Così gli presto un mio sci. In salita sono andato io con uno sci solo e poi lui è sceso dal pendio con uno sci solo. Oltre a questa piccola selezione il nostro territorio presenta altre mete sciistiche interessanti, in val Masino, il Canal Corto, una cresta rocciosa su cui si scia nel lato che rimane dietro, io con un amico ci sono andato nel 2009, una discesa ripidissima che è sempre sul dosso piano, ma con una barra di rocce che protegge l’altopiano sommitale. Una neve che sembrava glassa, nonostante tutto faceva caldo perché l’estate era alle porte. E poi il Ligoncio sciata dopo un po’ di salite a piedi e due tentativi. Il vero sci estremo è questo: trascinarsi per tre ore sugli sci per sciare effettivamente solo un’ora e mezza incontrando ostacoli climatici come la grandine e cercando di individuare la traiettoria migliore, tenendo conto che alcuni passaggi sono particolarmente problematici, strettoie, barre di roccia. Nulla che potesse spaventare il mio amico temerario che scivolava tranquillo tra curve e passaggi stretti distanziandomi parecchio. In questo sta l’essenza dello sci. La val Masino offre altre cime interessanti, due tutte vicine su cui sono salito e sceso. La cima della Moldasca o ferro centrale (le cime infatti sono le cime del ferro) poi c’è il ferro orientale con salita a S. La Moldasca reca dietro i colossi del Cingalo del Badile tra l’Italia e la Svizzera. Io l’ho fatta da entrambe le parti e la cosa più lunga è il ritorno coi mezzi pubblici più che i 2500 m di dislivello. Per quanto riguarda il ferro orientale, esiste una guida di scialpinismo che dice che questa cima si raggiunge facilmente dalla cresta, ma in realtà la salita si è rivelata ardua così sono tornato indietro accontentandomi della salita fatta l’inverno prima da un’altra parte.

Ma le gite sono troppe per raccontarle tutte e dunque a questo punto Beno è passato alla presentazione del libro.

Alpi selvagge

Questo libro è il prodotto degli sforzi congiunti di 17 fotografi e di due autori di testi con lo scopo di fare un omaggio all’arco alpino, in particolare le 24 cime ritenute più rappresentative associando a ciascuna cima una specie animale anch’essa ritenuta rappresentativa, una sorta di simbolo per ciascuna cima descritta. L’intero arco alpino è molto lungo. Si parte dal colle di Caribona in Liguria fino a Vienna. Le montagne richiedono una trattazione molto vasta, anche perché di ogni montagna, come Beno ha fatto notare raccontando le sue avventure sulla neve e le cime, c’è moltissimo da dire, infiniti dettagli e curiosità. Ed è proprio la descrizione di una sfaccettatura diversa di ogni montagna la parte che Beno ha avuto nella realizzazione di questo libro, che stasera è stato presentato avvalendosi di una presentazione realizzata con una scelta di foto tratte dal libro medesimo. Il tutto partendo da una domanda: perché una montagna può risultare più famosa o più importante delle altre? Magari perché tale montagna ha una forma bellissima oppure per le storie degli uomini che sono saliti, che hanno fatto della conquista di quella specifica vetta la loro missione o per gli animali che ci vivono, per i particolari fenomeni geologici o climatici che vi si verificano o magari per la presenza di ghiacciai dalle proporzioni inimmaginabili.

Il viaggio del libro parte da un gruppo di monti nelle alpi Liguri famose per il loro interno con 40 mila chilometri di grotte calcaree. Una montagna in questa parte dell’arco alpino è divenuta tristemente famosa quando nel 2012 vi si è disperso il primario di chirurgia di Lecco durante un’escursione ed è stato ritrovato morto qualche tempo dopo, un paio d’anni dopo per la precisione con i due amici saliti con lui. Si diceva all’inizio che sono stati associati degli animali ad ogni montagna trattata. Un’associazione non facile perché gli animali tipici delle alpi sono presenti un po’ su tutto l’arco alpino e dunque a volte le associazioni sono state casuali. In alcuni casi invece come in quello del Gran Paradiso l’associazione è stata d’obbligo. Il Gran Paradiso di per sé non ha niente di che. In alcune descrizioni di inizio Novecento si legge che “ha roccia, ma non troppo, ghiaccio, ma non troppo, è alta ma non troppo, gli italiani ci tengono particolarmente semplicemente perché si tratta dell’unico Quattromila delle alpi che sorge completamente in territorio italiano”. L’animale rappresentativo di questo monte non poteva che essere lo stambecco. A fine Ottocento questi animali erano stati quasi completamente sterminati per delle stupide credenze come quella di un ossicino che gli stambecchi hanno vicino al cuore che preserverebbe dalle malattie cardiache improvvise o quella delle corna afrodisiache (un luogo comune che riguarda molti animali e anche per parti diverse dalle corna ndr), insomma per un motivo o per l’altro questi animali erano diventati trofei di guerra e pure in Svizzera non ce n’era più neanche uno. Essendo trofeo ambito, il re ne voleva un po’ per sé da cacciare. La sua riserva di caccia è diventata il nucleo di quello che oggi è il Parco Nazionale del Gran Paradiso, creato negli anni Venti del Novecento e preservato ora non più dalle guardie reali ma dal Corpo Forestale dello Stato. Gli stambecchi viventi oggi sono tutti discendenti di quei pochi esemplari preservati dal re per la sua caccia personale. Lo stambecco è uno splendido animale perfettamente adattato ai pendii ripidi coi loro zoccoli che si aprono sul davanti. L’età di uno stambecco si stabilisce contando i nodi sul corno. A me recentemente è capitato di trovare un corno (senza cervo perché capita che li perdono) con 27 nodi. Un nonno stambecco. Parlando delle alpi questa sera vi accennerò le principali. Il Monte Bianco, la più alta dell’arco alpino (ma non la più alta d’Europa perché recentemente ho scoperto che questo primato va ad un monte dell’Europa Orientale che mi pare stia sul Caucaso il Monte Ebron ndr) eccezionale sotto ogni punto di vista; altezza a parte un dato interessante è la cima, una cupola di ghiaccio che si trova a una quarantina di metri più in alto rispetto alla cima rocciosa e quaranta metri più ad ovest per via dell’azione dei venti. La storia della prima salita del monte a fine Settecento è particolarmente interessante. Erano stati promessi dei soldi a chi ci fosse riuscito da uno scienziato di Ginevra cui occorreva che qualcuno arrivasse in vetta per poter fare delle verifiche sperimentali sul barometro di Torricelli. Dopo ventisei anni due giovani riescono ad arrivare in vetta e lo scienziato che stava ad osservarli da lontano col binocolo per essere sicuro che tutto si svolgesse in regola ha chiesto che i due l’anno successivo lo accompagnassero, resosi conto che la salita non presentava particolari problemi. Una salita eccezionale perché questo scienziato si è portato dietro di tutto. Diciassette portatori che recavano damigiane di vino, tenda, un piccolo laboratorio scientifico per gli esperimenti in vetta, il suo letto e addirittura una stufa a legna. Essendo il monte Bianco dunque il monte più alto di tutti ed essendo che una funivia ne raggiunge facilmente le pendici ormai, ai giorni nostri ci salgono milioni di turisti ogni anno dunque il monte Bianco purtroppo non è più un posto dove fare esplorazione perché, sebbene sia un massiccio grandissimo c’è sempre tantissima gente. Io ci sono stato col mio amico Giovanni che in questo modo concludeva la sua esplorazione dei Quattromila delle alpi con cinque creste appunto situate sulla vetta principale del monte Bianco. Sulla cima del monte Bianco, abbiamo scoperto, non solo c’è molta gente, ma è tutta gente che lascia “ricordini” come quelli dei cani per le strade delle città, ma per accamparci siamo comunque riusciti, fortunatamente, a trovare un punto tutto con la neve bianca. Sulla cima dove saremmo dovuti salire ad un certo punto c’era un elicottero che portava via da quella stessa cima un gruppo di alpinisti come fossero delle salsicce. Il mattino dopo ci avviamo per la Cresta del Diavolo per raggiungere le famose cinque creste rocciose caratterizzate da un granito rosso, ruvido, generalmente solido, dove si alternano appunto passi di roccia a selle di neve e ghiaccio. All’inizio siamo soli, ma poi siamo raggiunti da carovane di gente; lì infatti le guide vengono pagate profumatamente per portare clienti e dunque la montagna diventa luogo di buisness, anche d’avventura ma regolata, dove tutti vanno negli stessi punti a fare le foto ricordo di fretta perché sono molti i gruppi che salgono. Una volta che noi raggiungiamo la cresta da scendere poi a corda doppia si sale si riscende un po’ di volte fino ad arrivare al punto dove avevamo visto l’elicottero che portava via come dei salsicciotti gli alpinisti. Arrivati li si scopre che è una calata nel vuoto da cui non ci si riesce più a liberare se non arriva appunto l’elicottero. Quando siamo arrivati c’era un gruppo di tedeschi che si stavano calando. L’ultima cresta rischiava di non essere conquistata per via della presenza di un ricordino particolarmente sovradimensionato che però non ha scoraggiato il mio amico dal compiere la sua impresa, la parte più coraggiosa di tutta la traversata. Dopo il monte Bianco non poteva mancare il Cervino, forse la montagna più bella delle alpi cui sono legate molte storie di alpinisti che l’hanno scalata, storie a volte tragiche; quella però cui la montagna è associata nell’immaginario collettivo è l’impresa di Walter Bonatti, la scalata della parete nord, un’impresa voluta per ricordare un gruppo di alpinisti che, cento anni prima, proprio su quella parete sono morti mentre erano di rientro dalla conquista della vetta: erano legati insieme in una cordata, è bastato che uno scivolasse per far precipitare tutti, tranne tre alpinisti che si sono salvati perché la corda (che a metà Ottocento era di canapa) si è rotta così loro non sono stati trascinati. Anche un altro monte, lo Iunfrao è associato ad imprese alpinistiche tragiche, ma è famoso soprattutto per l’imponente ghiacciaio dell’Aresh il più grande ghiacciaio delle alpi che è solo uno dei ghiacciai che occupano i vari versanti di questa montagna. I dati di questo grande ghiacciaio sono impressionanti: grande come 12 mila campi da calcio, 900 m di spessore nel punto più spesso e se pensassimo di mantenere l’attuale popolazione mondiale sciogliendone le acque ponendo che ogni abitante del mondo beva un litro di acqua al giorno, con l’acqua di questo ghiacciaio l’umanità potrebbe sopravvivere sei anni. è impressionante soprattutto se si considera il progressivo assottigliamento dei nostri ghiacciai che ormai non basterebbero al fabbisogno di una famiglia media per una settimana. Per quanto riguarda le montagna Valtellinesi nel libro c’è il pizzo Badile cui è associato il gallo Cedrone. Poi abbiamo il pizzo Bernina che è l’ultimo Quattromila delle Alpi a est delle stesse con una vasta distesa di neve mista a ghiaccio, la più vasta di tutto l’arco alpino. C’è poi la cima che porta alle Dolomiti con le loro rocce chiare i cui effetti cromatici si possono apprezzare in particolar modo all’alba e al tramonto. Sulle Dolomiti soggiorna spesso il nostro fotografo di punta, un ragazzo che ha realizzato la maggior parte degli scatti li ha fatti tra i diciannove e i vent’anni, un grande appassionato con una tecnica eccezionale, è riuscito, con mesi di appostamenti in tenda o in capanno, ad immortalare gli animali più difficili, uno di quei fotografi che cercano di  acquisire confidenza con gli animali da fotografare cercando di scomparire nell’ambiente, di mimetizzarsi al punto tale che gli animali giungono a considerarli come parte dell’ambiente, come se fossero rocce o alberi e poi usando varie tecniche ingegnose. In questo modo ha fotografato i cuculi, che depongono le uova nei nidi di altre specie che diventano genitori adottivi a tempo pieno, anche perché, una volta che il cuculo esce dall’uovo, butta fuori dal nido le uova e gli eventuali altri piccoli che vi trova al suo interno; ha fotografato anche il martin pescatore un bellissimo uccello dal piumaggio azzurro e arancione un po’ cangiante, difficile non solo da fotografare, ma anche da avvistare perché è molto veloce. Per scovarlo bisogna seguirne un esemplare per un po’ e conoscere le sue abitudini. Si tratta infatti di un uccello abitudinario che caccia sempre nello stesso posto e si mette sullo stesso rametto a mangiare il pesce che ha catturato, perché è di pesce che si nutre. Il nostro fotografo, Jacopo, ha passato mesi a fare amicizia col martin pescatore fino appunto, come dicevamo prima, ad apparire come un elemento del paesaggio, nascosto nel suo capanno, mentre studiava le tecniche migliori per catturare i momenti significativi. Ha montato la macchina fotografica su una slittina galleggiante, ha costruito gabbie di vetro da mettere sottacqua collegata ad un cavo di scatto remoto lungo otto metri. Naturalmente i fotografi (e non solo quelli di natura) devono fare tantissimi scatti per ottenerne uno solo che è quello giusto, perfetto, che si trova nel mucchio e neanche sempre c’è (conosco addirittura un fotografo che si occupa di altri generi, ma che dice sempre che se una persona che vuol fare questo mestiere riesce a realizzare nell’arco di tutta la vita cento scatti ottimi è un bravo fotografo, questo per dire che bisogna puntare sulla qualità e non sulla quantità, pochi ma buoni insomma ndr). Dallo scatto perfetto però si può notare la particolarità di questo animale, una membrana che gli copre gli occhi rendendoli impermeabili e permettendogli dunque di immergersi. Nel libro c’è tutta la foto sequenza (mostrata anche nella presentazione proiettata ndr), immersione, cattura del pesce, consumazione del pasto. In generale tutte le foto di animali che si trovano nel libro sono opera di Jacopo e sono di una qualità eccezionale. Bisogna tenere conto che Jacopo, che lo ricordiamo è un ragazzo di poco più di vent’anni, pubblica per TIME, NATIONAL GEOGRAPHIC è uno dei più bravi fotografi d’Italia. Restando sulle Dolomiti parliamo della cima della Marmolada, che ci fa conoscere un altro ragazzo prodigio. Un ragazzo che a ventitré anni è salito per una via molto difficile sulla montagna con pochi attrezzi senza dire nulla a nessuno, una via molto rocciosa di 1200 m di dislivello. Altri alpinisti lo hanno visto salire quasi allo sbaraglio da solo, nel libro c’è pure una parte di un’intervista che questo ragazzo ha rilasciato in seguito in cui dichiara che la via non è difficile ci sono solo un paio di strapiombi che richiedono attenzione e accorgimenti particolari. Uno strapiombo che si apre su 600 m di vuoto che va saltato avendo dall’altra parte un appiglio largo un dito. Comunque questo ragazzo è ancora vivo e sta continuando a fare questo tipo di scalate con una tecnica davvero sopraffina. È un ragazzo straniero dal nome impronunciabile che a vederlo sembra il classico secchione della classe timido e occhialuto per nulla portato all’attività fisica ed è invece tra i cinque più forti rocciatori al mondo con un forte autocontrollo. Nel libro si incontrano anche le tre cime di Lavaredo (una splendida foto con la via Lattea sullo sfondo), poi le montagne su cui Messner ha mosso i primi passi e poi arriviamo alla montagna più orientale dell’arco alpino che sorge vicino a Caporetto, località divenuta tristemente famosa durante la Grande Guerra, una piana dritta di pascolo senza capannoni. La cosa che mi è piaciuta di più di questa terra quando l’ho visitata sono i fiumi che escono di colpo dalla montagna con un’acqua talmente trasparente che la si nota solo sentendo il bagnato sui piedi. Il Trigla, la montagna più orientale dell’arco alpino è anche la montagna nazionale della Slovenia caratterizzato da un fenomeno ottico spettacolare chiamato fantasma di Broken che io sono riuscito a vedere appena ci sono andato. Per vederlo bisogna avere il sole basso alle spalle e la nebbia di fronte. Si tratta di una sorta di arcobaleno circolare con l’immagine di chi sta osservando come stampata in mezzo. Alzando le braccia, nel riflesso di questa immagine compaiono lunghissime. La particolarità è che ognuno vede solo il suo fantasma di Broken. Se voi state osservando il vostro fantasma di Broken e c’è in quel momento una persona accanto a voi, il vostro non lo vede, è tutta una questione di posizione e di gradi, basta essere sfasati di pochissimo per non vederlo più. Io ho scoperto questo fenomeno su un libro di fine Ottocento che racconta di una spedizione in val di Togno di Bruno Galli Valerio con altre persone tra cui tre cacciatori che raggiunse il passo del Forame; arrivati in cima, fucile alla mano per via degli orsi, raccontano di vedere tre fantasmi cui puntano il fucile, ma che a loro volta puntavano il fucile verso la spedizione. Da quando l’ho letto l’ho visto 10 volte perché a quel punto sapevo dove guardare, è facile ovunque ci sia nebbia bassa. Per chi è appassionato di fotografia, una piccola curiosità: il fantasma di Broken è difficile da fotografare e lo è per un motivo preciso ed è che, essendo un’illusione ottica non ha una posizione precisa nello spazio una profondità e dunque la macchina fotografica non può determinare la profondità di campo, regolare la messa a fuoco. Dunque le foto non rendono mai davvero la reale bellezza di questo insolito fenomeno.

Il momento dell’acquisto dei saluti e degli autografi

A questo punto Beno ha concluso, il suo ricco racconto dando alcune informazioni di servizio. Il libro presenta tre copertine diverse più una quarta in edizione limitata, una per ogni zona delle alpi. Per chi fosse stato in ritardo coi regali di Natale era possibile acquistare tre copie a 50 euro dunque un prezzo inferiore di quello di ogni copia singola che era 20 euro.

Dopo la presentazione di Beno, l’assessore Lucica Bianchi ha voluto condividere i pensieri personali suggeritigli dall’ascoltare gli avventurosi racconti delle gite in montagna, ha voluto in particolar modo mettere l’accento sul senso di libertà che le montagne sanno trasmettere, sottolineando che lei non ci va come alpinista.

In sala tra il pubblico erano presenti anche gli amici di Beno coprotagonisti delle sue avventure che sono stati dunque omaggiati (grande assente lo sciatore spericolato) e poi è venuto il tempo del dialogo, delle domande, dei libri da comprare con le dediche che Beno si è offerto gentilmente di fare.

La fidanzata di Beno vendeva i libri e ha portato alcune copie della rivista MONTAGNE DIVERTENTI così mi è venuto di chiedere qualche delucidazione sull’iter che ci vuole per fondare e portare avanti una rivista. Un grosso impegno. Bisogna andare in tribunale, fare la registrazione, avere un pubblicista che faccia da direttore responsabile, avere soldi da investire per la stampa, avere un locale dove stampare che non per forza deve essere una tipografia vera e propria purchè sia registrata legalmente come sede, bisogna avere dei bravi collaboratori che abbiano voglia di lavorare, che consegnino i pezzi in tempo, compatibilmente con i tempi della stampa. C’è stato un periodo nella storia in cui si fondavano riviste a gogò. Oggi si aprono blog e siti, ma anche in questo caso c’è tutto un iter dietro. Per quanto riguarda le avventure di Beno mi restava un’ultima curiosità mentre mi firmava la mia copia del libro. Sarà stato nella zona dove fu ritrovata la mummia del Similaun? Risposta. No. Magari una prossima gita. E chissà, una prossima serata.

Antonella Alemanni

L’EVENTO DI PACE

TALAMONA 12 dicembre 2012 incontro con poeti locali

 

LETTURE COLLETTIVE POESIE E CANZONI

poetianatale

Dicono i poeti che solo la poesia ispira la poesia. Credo che la poesia sia nata prima della scrittura, infatti le prime forme di poesia erano orali come gli antichissimi canti di pace, di amore, di armonia. Poi, via via che la poesia si evolve, si libera da schemi obbligati per poi diventare pura forma di espressione che si fonda sulle dimensioni musicali del linguaggio, sui ritmi, gli accenti, le sonorità per trasmettere contenuti ed evocare suggestioni ed emozioni. Il linguaggio poetico, sia nelle sue forme codificate da secoli sia in quelle più libere, è in grado di cogliere e di dare voce a esigenze profonde dell’uomo, mescolando in modo indissolubile scrittura, senso del ritmo, musicalità della parola, rivelazione di particolari significati. Proprio questi particolari significati andremo a scoprire questa sera insieme a un gruppo di poeti che tutti conosciamo perché sono nostri compaesani, un gruppo di poeti che magistralmente ci condurranno nel percorso di scoperta del messaggio di pace e di armonia che i versi da loro composti e recitati racchiudono. Sono solita dire che la poesia è la sorella della musica, che la poesia fa rima con la musica e dunque avremo anche il piacere di sentire cantare e suonare colui che viene chiamato il menestrello sondriese, Angelo Coppelli, che a molti sarà capitato di incontrare passeggiando per le vie del centro di Sondrio. Uomini come lui si incontrano nelle più rappresentative piazze del Mondo oppure nelle antiche strade della città. Uomini come lui si incontrano, si sentono suonare, cantare, portare, per quanto sia possibile, l’armonia e la gioia di vivere nelle nostre anime, nelle nostre case.

Così Lucica Bianchi, Assessore alla Cultura di Talamona, nel suo discorso introduttivo prima di lasciare spazio proprio ad Angelo Coppelli che ha avuto l’onore di aprire la serata offrendo agli astanti un primo assaggio della sua arte. Un brano suonato col flauto di Pan, quello fatto con canne in ordine di lunghezza, un brano suonato mentre sullo schermo alle spalle scorrevano immagini di pace, armonia, gioia e serenità. Le sue esibizioni (anche cantate di brani molto famosi come BLOWIN’IN THE WIND di Bob Dylan della quale Coppelli ha proposto anche un adattamento in italiano) hanno continuato ad intervallare, nel corso di tutta la serata, le letture dei poeti, che proponevano almeno due brani ciascuno, principalmente, inni alla pace e alla concordia anche in riferimento agli spiacevoli fatti che sono avvenuti nel Mondo come il dramma dei disperati che annegano in mare, l’attacco terroristico a Parigi.

Ad aprire poi la serata tra il gruppo di poeti è stata Anna Barolo con i brani IL CANTO DEGLI ANGELI e A DUE VOCI. Poi Teresa Cattaneo con IL ROSETO e FINESTRA ILLUMINATA.

Ogni due poeti che leggevano interveniva Angelo Coppelli. Purtroppo non ha potuto far ascoltare tutti i brani che aveva in programma perché due si sono persi chissà come. Il bello della diretta.

È venuto poi il turno del poeta dialettale talamonese per antonomasia Cesare Ciaponi che attraverso la sua arte racconta storie del passato, la vita e le memorie di un tempo, facendo anche a volte delle riflessioni e dei paragoni con il presente. Questa sera si parla di Natale e di pace. La prima poesia letta da Cesare Ciaponi, UL NATAL DA PININ (IL NATALE DA BAMBINI) la seconda in italiano si intitolava LA BELLEZZA “più che poesia qualcuno la chiama prosa poetica”. Confermo pienamente. Prosa poetica più filosofica che narrativa. La letteratura ha molte sfaccettature.

Dopo Cesare Ciaponi è stata Paola Mara De Maestri a proporre due chicche della sua arte intitolate IL PANE DEL SORRISO e RICORDO I NATALI.

Angelo Coppelli ha dato un contributo prezioso anche offrendo la sua musica come sottofondo musicale durante le letture dei poeti, strimpellando con la sua chitarra. Dopo queste ultime due letture ha proposto una canzone conosciuta più nei paesi di lingua anglofona che parla di un tamburino che si reca in visita ad un presepe portando un piccolo dono.

È stato poi il turno di Giusy Gosparini la quale aveva già fatto la scorsa primavera una piccola presentazione di una sua raccolta poetica nel negozio CATIA CREZIONI 2000 di una ex dipendente. Giusy Gosparini ha infatti esercitato per gran parte della sua vita il mestiere di parrucchiera, scoprendo la poesia (una vocazione che in realtà, come lei stessa raccontava, l’ha accompagnata per tutta la vita, ma che non aveva trovato un vero e proprio sbocco) in seguito ad un incidente accorso alle sue mani che l’ha costretta a chiudere la sua attività. Lei stessa nel raccontare questa vicissitudine personale disse “il Signore mi ha permesso di trovare una nuova strada”. Nel raccontare la sua poesia Giusy Gosparini dichiarò di “non utilizzare termini troppo ricercati, ma di basarsi molto sui sentimenti e sull’osservazione della natura”. Questa sera Giusy Gosparini ha proposto tre poesie intitolate SUSSURRA IL VENTO che riprende tematiche di attualità come appunto le morti del mare per la disperazione e gli orrori giustificati in nome della religione e A NATALE TUTTI BUONI, un sogno. Per finire IL BIMBO NON SA.

Anche Angelo coppelli ha questo punto non ha ne cantato ne suonato, ma letto una lirica intitolata CREARE PACE “perché la pace dobbiamo crearla noi, nessuno ce la offre” .

A seguire un’altra poetessa di nome Giuseppina ha letto  IL MIO NATALE e LETTERA DI UNA MADRE dedicata ovviamente alle sue figlie.

Angelo Coppelli per rimpiazzare i due brani che non è riuscito a trovare ha proposto un canto di pace dedicato a tutti i ragazzi e le ragazze del Mondo che se si dessero la mano potrebbero fare un girotondo intorno al Mondo. in chiusura di serata è stato riproposto questo brano e tutti hanno fatto un girotondo intorno alla stanza. Intanto però un momento teatrale, una scenetta che ha visto per protagonisti Angelo Coppelli e Giusy Gosparini. La prima di due scenette.

Il ciclo delle letture poetiche è poi proseguito con Paolo Mandelli che ha proposto i brani IMMAGINI DI SOGNO e IL SOLE DI DICEMBRE. A seguire Patrizia Biglioli con LA PACE e NATALE NON PER TUTTI.

E ora Angelo Coppelli con BLOWIN IN THE WIND scritta nel 1964 su un tovagliolo in un pub di Greenweech Village quando il suo autore Bob Dylan era ancora uno dei tanti cantanti underground emergenti. Meno male che qualcuno ce la fa. Dovremmo riflettere un po’ tutti su quello che ci perdiamo impedendo ai talenti di emergere e di esprimersi. I sogni uccisi e soffocati sono un danno che si ritorce contro l’umanità intera.

Non è mancato chi ha voluto dedicare un pensiero alla maestra Ines Busnarda Luzzi una persona che ha trasmesso cultura e senso civico. Il brano si intitola BLU CARTA DA ZUCCHERO.

Dopo la seconda piccola recita del duo Coppelli-Gosparini ecco un fuori programma di paolo Mandelli che ha voluto recitare una poesia inizialmente non prevista, dedicata al fratello e ai fratelli in generale. “si diventa fratelli quando si condivide qualcosa non esiste solo la fratellanza di sangue”. La poesia recava titolo NASCEMMO FRATELLI.

Siamo arrivati al gran finale dopo il quale l’Assessore Lucica Bianchi ha voluto dire ancora qualche parola.

Vorrei dare un corollario a questa bellissima serata riprendendo una strofa di una poesia letta in un opuscolo regalo di Angelo Coppelli, un testo che esprime benissimo i ringraziamenti che avrei voluto fare. Con queste parole di pace, amore, armonia ringrazio i poeti che sono intervenuti stasera che sono nostri, un nostro patrimonio locale. Non resta altro che augurare che la pace e l’armonia accompagnino tutti in ogni momento della vita perché non potrebbe esserci niente di più meraviglioso di queste tre semplici parole.

Non c’è bisogno di aggiungere altro.

Antonella Alemanni