MAUSOLEO DI ALICARNASSO

Il mausoleo di Alicarnasso è la monumentale tomba che Artemisia fece costruire per il marito, nonché fratello, Mausolo, il governatore della Caria, ad Alicarnasso (attuale Bodrum, in Turchia) dal 353 a.C. al 350 a.C.

Mausoleo di Alicarnasso, ricostruzione ipotetica, XVI secolo

Mausoleo di Alicarnasso, ricostruzione ipotetica, XVI secolo

Il progetto dell’edificio fu affidata all’architetto Pitide (lat. Pythis o Pytheus), e vi lavorarono artisti rinomati a quei tempi come Scopa, Briasside, Leochares e Timoteo.

Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, ci ha lasciato una descrizione  dell’edificio:

Scopa ebbe come rivali, nella sua generazione, Briasside, Timoteo e Leocare – vanno nominati assieme perché presero tutti parte insieme a lui ai rilievi del Mausoleo. Il Mausoleo è il sepolcro costruito da Artemisia al marito Mausolo, re di Caria, che morì nel secondo anno della 107ª Olimpiade [351 a. C.]. Si deve soprattutto a questi quattro artisti, se il Mausoleo è fra le sette meraviglie del mondo. I lati a Sud e a Nord hanno una lunghezza di 63 piedi; sulle fronti è più corto; il perimetro completo è di 440 piedi; in altezza arriva a 25 cubiti ed è circondato da 36 colonne; il perimetro colonnato è chiamato pteron. Il versante orientale lo scolpì a rilievo Scopa, quello settentrionale Briasside, il meridionale Timoteo, l’occidentale Leocare. La regina morì prima che lo finissero, ma i quattro non interruppero il lavoro finché non fu compiuto, perché capirono che sarebbe rimasto come monumento alla loro gloria ed al loro talento (ancora oggi si discute a chi dei quattro dare la palma). Ai quattro si aggiunse anche un quinto artista: infatti sullo pteron si innalza una piramide alta quanto la parte più bassa dell’edificio, che ha ventiquattro scalini e si assottiglia progressivamente fino alla punta; in cima ad essa c’è una quadriga di marmo, scolpita da Piti. Se si comprende anche questa, l’insieme del monumento raggiunge l’altezza di 140 piedi.

                                                             (Plinio, Naturalis historia XXXVI 30 )

Ma è evidente che la tomba aveva proporzioni troppo vaste perché  se ne fosse potuto ideare il progetto e completare la costruzione in così poco tempo; è più probabile che ciò sia avvenuto mentre Mausolo era ancora in vita, nel 370-365 a.C., e che l’esecuzione terminasse intorno al 350 a.C., poco dopo la morte di Artemisia.

Ricostruzione computerizzata del monumento in base alle descrizioni dei autori classici

Ricostruzione computerizzata del monumento in base alle descrizioni dei autori classici

Tali erano la magnificenza e l’imponenza della tomba di Mausolo che il termine mausoleo venne poi usato per indicare tutte le grandi tombe monumentali.

Ancora oggi, malgrado il lavoro dell’archeologo inglese Charles T. Newton che cominciò a scavare in quell’area nel 1856, non è chiaro se il sarcofago di Mausolo fosse in una cella o, piuttosto, in una camera funeraria all’interno delle fondamenta, sotto il monumento vero e proprio. L’ ipotesi più accreditata è che non si tratti del monumento funerario di un solo sovrano, ma di un sepolcro eretto in onore e a ricordo di un’intera dinastia, quella degli Ecatomnidi.

Attualmente sono visibili solo alcuni resti della imponente struttura originaria.

Le attuali rovine del mausoleo

Le attuali rovine del mausoleo

Nel XII secolo un terremoto minò la solidità dell’edificio, ma alla sua distruzione contribuirono soprattutto i cavalieri dell’ordine di San Giovanni che, nel 1402, occuparono Alicarnasso e vi costruirono la fortezza di San Pietro che poi, all’ inizio del 1500, rinforzarono servendosi delle pietre del Mausoleo, quasi fosse  una cava.

Castello di San Pietro in Odierna Alicarnasso (oggi Bodrum)

Castello di San Pietro nell’odierna Alicarnasso (oggi Bodrum)

Alcuni resti del mausoleo, soprattutto i resti delle statue dei cavalli e della quadriga che era alla sommità, sono conservati e visibili al British Museum di Londra.

Statua di un leone proveniente dal Mausoleo di Alicarnasso, Brithish Museum di Londra.

Statua di un leone proveniente dal Mausoleo di Alicarnasso, British Museum di Londra.

Cavallo dal cochio del Mausoleo di Alicarnasso,  British Museum di Londra

Cavallo dal cochio del Mausoleo di Alicarnasso, British Museum di Londra

Curiosità: Il disegno dello Shrine of Remembrance (Santuario della memoria per commemorare i caduti nella Prima Guerra Mondiale 1914-18) a Melbourne è stato ispirato da quello del mausoleo di Alicarnasso.

Shine of Rimembrance, Melborn, Australia

Shrine of Remembrance, Melbourne, Australia

                                                                                                           Lucica

 

LA RELIGIONE MESOPOTAMICA

La religione della Mesopotamia (letteralmente, il paese “tra i fiumi” Tigri ed Eufrate) ebbe origine fra i Sumeri. Per lingua e ascendenza essi erano estranei ai due gruppi principali antichi dell’Asia occidentale, i Semiti e gli Indoeuropei.

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Stele recante le principali divinità mesopotamiche con i loro simboli

Furono tre gli dèi che dominarono il pantheon sumerico: Anu, il dio del cielo, Enlil, il dio del vento, e Enki o Ea, il dio delle acque. Essi governavano dunque le tre divisioni del cosmo: Anu, benché in teoria il sommo, aveva un’influenza minima nelle cose umane ed era Enlil, il suo braccio destro, che governava la Terra. I Sumeri riconoscevano centinaia di altri dèi, i cui nomi e le cui qualità variavano da una città stato all’altra. Con i mutamenti di potere politico questi dèi minori assunsero sempre maggiore importanza e furono aggiunti ai tre dèi principali, giungendo talvolta persino a prenderne il posto. Fu così che nel corso del II millennio a.C. il dio babilonese del Sole e della vegetazione, Marduk, usurpò il posto di Enlil. Marduk era l’eroe del poema “Enuma elish” – Epopea della Creazione- (che risale a un originale sumerico del II millennio, ma ci è giunto solo in una versione del VII secolo a.C.), nel quale è narrato come egli sopraffacesse la dea Tiamat e divenisse re degli dèi. Marduk organizzò poi l’universo e creò l’uomo dalla creta e dal sangue della dea Tiamat.

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Foto della stele contenente l’ Epopea della Creazione”

Ogni anno, durante le feste di primavera, sacerdoti e popolo tornavano a recitare questo mito della creazione, che simboleggiava il rinnovarsi della natura, assieme al mito che narrava la morte e la resurrezione di Marduk. In esso Marduk riceve gli attributi del dio della vegetazione, Tammuz, marito e figlio della dea-madre Ishtar. La dea Ishtar compare anche nella mitologia ebraica, e fusa con la dea Iside, nel tardo mondo ellenistico.

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La dea Ishtar

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Il dio della saggezza Enki  (accadico Ea), tradizionalmente raffigurato con la barba lunga e flutti di acqua e di pesci che sgorgano dalle sue spalle mentre risale una montagna. Alla sua sinistra la dea alata  Inanna (sumero, babilonese Ishtar) in forma antropomorfa e con le ali.Parte di una impronta di sigillo cilindrico risalente al XXIII secolo a.C. conservato presso il  British Museum, Londra.

Più tardi, sotto gli Assiri, il dio Ashshur eclissò Marduk, ma successivamente il potere si spostò nuovamente e Marduk fu riabilitato. Questa volta tuttavia c’era una differenza importante, perché Marduk aveva ottenuto come nome proprio il titolo di Bel,Signore“. Sotto questo riguardo la religione mesopotamica dava segno di avvicinarsi a una fede in un unico sommo Dio. Gli scritti assiri e babilonesi dimostrano chiaramente che il popolo considerava quei cambiamenti politici il risultato di movimenti nel regno degli dèi. Si riteneva infatti che la posizione dei grandi dèi influisse sul potere delle città e degli Stati ai quali quegli dèi erano più legati.

Benché le feste di primavera e i miti connessi fossero simili al mito egizio di Osiride, l’atteggiamento della religione mesopotamica verso la morte era alquanto diverso. I Mesopotamici si identificavano col morente e risorgente Tammuz (Marduk) al fine di recuperare la salute piuttosto che per assicurarsi l’immortalità. Il poema epico babilonese “Gilgamesh” dimostra infatti che essi alla fine si adattavano alla morte del corpo.

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Gilgamesh che domina un leone, fregio dal palazzo di Sargon II, Museo del Louvre

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 Epopea di Gilgamesh, Tavoletta XI in argilla, con la storia del Diluvio Universale, scritta in caratteri cuneiformi in lingua accadica, British Museum, Londra

L’eroe Gilgamesh parte alla ricerca di Utnapishtim (il corrispondente babilonese di Noè), al quale è stato svelato da Enlil il segreto dell’immortalità, dono che gli dèi della Mesopotamia tenevano di solito con gran cura celato agli uomini. Utnapishtim era perciò l’unico che possedesse la vita eterna. Egli parla a Gilgamesh di una pianta che dà l’eterna giovinezza, e Gilgamesh trova la pianta ma solo per venirne derubato da un serpente. E’ costretto quindi a prendere la via di ritorno e ad affrontare l’ineluttabilità della morte. La stessa concezione appare nel mito di Adapa, il quale rappresenta il genere umano: Adapa offende Anu, dio del cielo, e si reca da lui per spiegargli il suo atto, dopo aver ricevuto da Ea, dea delle acque,  l’avvertimento di non mangiare o bere nulla. Anu rimane colpito da Adapa a tal punto che gli offre il cibo e l’acqua della vita, ma Adapa li rifiuta senza rendersi conto di perdere così l’immortalità.

Ciò nonostante i popoli mesopotamici credevano in un certo genere di vita dopo la morte, ma i loro documenti descrivono l’aldilà come un triste, oscuro paese da cui non si ritorna, abitato da esseri “adorni d’ali”, che si cibano di terra e di creta. Questa non è tanto fede nell’immortalità, quanto in un’esistenza che prosegue, dopo la morte, sottoterra. La religione mesopotamica si accentrava insomma sulla vita in questo modo, dove i destini umani erano decisi dagli dèi.

                                                                                                                                                                       Lucica

IL MISTERO DEI TESCHI DI CRISTALLO

Un’antica leggenda maya narra che nel mondo esistono 13 teschi di cristallo, a grandezza naturale, che racchiudono misteriose informazioni sull’origine, lo scopo e il destino dell’intera umanità. Nel momento in cui l’umanità si troverà ad affrontare un pericolo che metterà a repentaglio la sua stessa esistenza, saranno i 13 teschi di cristallo, riuniti insieme, a salvare il mondo dalla distruzione. Starà all’Umanità comprendere il loro messaggio.

IL TESCHIO MITCHELL-HEDGES: tra storia e leggenda

All’inizio del XX secolo Thomas Gann, professore di Archeologia del Centro America all’Università di Liverpool, scopre  la città di Lubaantun, un sito maya nel Belize meridionale.

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Foto: La posizione geografica della città di Lubaantum

Nel 1915, Raymond Merwin, del Peabody Museum dell’Università di Harvard vi guida una successiva spedizione. La zona viene ripulita dalla vegetazione, viene dettagliatamente mappata e vi vengono scattate alcune fotografie.

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Foto: Il sito di Lubaantun

Nel 1926 il British Museum finanzia degli scavi che accertano la data di costruzione della città, collocandone la massima fioritura in un periodo compreso fra il 730 e l’890 d.C. Da tali analisi risulta che la città sia stata abbandonata di colpo, fatto insolito per noi, ma non per la civiltà Maya (è un fatto risaputo che tante altre città Maya sono state misteriosamente abbandonate senza un motivo apparente).

Dopo la spedizione del British Museum, Lubaantun, trascurata dagli archeologi, diventa fertile terreno di saccheggio.

Nel 1927, l’archeologo Frederick Albert Mitchell- Hedges insieme alla figlia Anna partono per una spedizione in Belise. Quel viaggio cambierà per sempre le vite di tutti e due. Nella città di Lubaantun, alla base del muro di un edificio, Anna nota qualcosa che riflette la luce in un modo spendido: un teschio di cristallo. Da quel momento, Anna terrà sempre con sé il prezioso tesoro, chiamato d’allora, Teschio Mitchell-Hedges.

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Foto: Frederick Albert Mitchell-Hedges e la figlia Anna

Il teschio Mitchell-Hedges è il più importante fra i teschi rinvenuti. E’ stato ricavato da un unico blocco di cristallo di quarzo con straordinarie doti di lucentezza. La sua superficie, trasparente alla luce, è del tutto levigata. E’ alto 17 cm, largo altrettanto e profondo 21 cm. Eccezione fatta per il peso, che è di 5 kg, rispecchia le misure di un cranio umano.

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Foto: Il teschio di cristallo Mitchell-Hedges 

Nel 1970 il laboratorio Hewlett-Packard di Santa Clara (California, USA), specializzato nell’analisi di quarzi e cristalli, lo sottopone ad una serie di approfonditi esami, ai quali partecipa anche un esperto di gemmologia: l’americano Frank Dorland. i risultati raggiunti sono sconcertanti.

Dal punto di vista tecnico, il teschio di Mitchell-Hedges è un oggetto che “non dovrebbe esistere”: anche con le strumentazioni odierne sarebbe estremamente difficile riprodurlo. Bisogna tener conto ,a questo punto, che l’indice di durezza del quarzo è di poco inferiore all’indice di durezza del diamante e che pertanto costruire qualcosa di così rifinito è un’impresa tutt’altro che facile.

La prima sorprendente conclusione del laboratorio Hewlett-Packard, è che il teschio sia stato inciso procedendo in senso contrario rispetto all’asse naturale del cristallo, rispetto cioè all’orientamento dei suoi piani di simmetria molecolare. Questo procedimento è molto rischioso: comporta il costante pericolo che un colpo non preciso dello strumento usato per sbozzare il blocco ne causi la frammentazione.  I tecnici della Hewlett-Packard analizzarono accuratamente al microscopio la superficie del teschio, eppure non riuscirono ad individuare alcun graffio che attesti l’impiego di uno strumento per la levigazione. Questa circostanza meraviglia molto Frank Dorland che non riesce a spiegarsi quale tecnica di lavorazione sia stata usata.

Altro elemento sorprendente è che l’oggetto sembra avere al suo interno una serie di lenti e prismi che gli consentono di riflettere la luce in modo particolare quando ne viene attraversato: il quarzo allo stato naturale, infatti, non produrrebbe i giochi di luci che produce il teschio Mitchell-Hedges.

Un lavoro enorme, quindi, che rivela una grandissima padronanza tecnica, un lavoro che lascia senza parole gli esperti che lo esaminano e i cui procedimenti non si conoscono ancora.

Anna Mitchell- Hedges non consentirà più, in futuro, che il suo teschio sia sottoposto a ulteriori analisi. E’ morta centenaria, recentemente.

Chiunque l’abbia fatto e qualunque ne sia stato l’utilizzo, il teschio Mitchell-Hedges suscita reazioni contrastanti in chi lo osserva: alcuni ne sono affascinati, altri confusi o perfino turbati. Ma una domanda nasce nella mente di ognuno: quanto c’è di vero nell’antica leggenda Maya?

Altri 12 teschi  simili sono stati rinvenuti finora in diverse parti del globo.

Ora si trovano in vari musei o in collezioni private, qui sotto 2 esempi custoditi in Europa

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Foto: Il teschio di cristallo custodito nel Museo del Trocadero, Parigi

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Foto: Teschio di cristallo custodito nel British Museum di Londra

Da questo enigma archeologico e antropologico ha origine il romanzo/saggio “Il mistero dei Teschi di Cristallo” di Sebastiano Fusco, pubblicato dalle Edizioni Mediterranee, nel 2008.

La lettura del libro sorprende, sia per la lucidità delle supposizioni e della ricerca, sia per la maniera analitica, quasi scientifica con la quale l’autore mette sotto una  lente d’ingrandimento i vari argomenti: dall’antropologia, alla magia, dalla neurologia al funzionamento della psiche. Il libro diventa così un buon punto di partenza per una ricerca, per approfondimenti su uno dei più inquietanti misteri del mondo: i 13 teschi di cristallo.

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                                                                                          Lucica Bianchi