POLITICA E FILOSOFIA NEL PARADISO DANTESCO

Loredana Fabbri

“Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, /

tutta tua vision fa manifesta; /

e lascia pur grattar dov’è la rogna.”

(Dante Alighieri, Paradiso, XVII, vv. 127/129.)

A don Franco, amico fraterno.

Angelo Pietrasanta, Ritratto di Dante, Veneranda Biblioteca/Pinacoteca Ambrosiana, Milano

PREMESSA

Questo modesto contributo nasce in prospettiva del Settecentenario della morte di Dante, ma vogliamo precisare che quello che abbiamo scritto è in qualità di lettore appassionato della materia, che non può vantarsi di essere specialista di studi danteschi e, tantomeno, della filosofia del Sommo Poeta, con il quale abbiamo solo l’onore di essere corregionali.

Trattare l’ideologia politica e il pensiero filosofico di Dante Alighieri comporta la necessità di una pur rapida carrellata su un periodo più ampio sia da un punto di vista storico sia da un punto di vista filosofico, per arrivare al tempo in cui operò il Sommo Poeta: una stagione speculativa molto ricca, che diede motivo di grande apertura dialogica su stimolanti temi intorno alle verità di fede e all’uso della ragione e ad affascinati argomenti sull’esistenza umana.

<<Due fine, adun que, cui tendere l’ineffabile Provvidenza pose innanzi all’uomo: vale a dire la beatitudine di questa vita, consistente nell’esplicazione delle proprie facoltà e raffigurata nel paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, consistente nel godimento della visione di Dio, cui la virtù propria dell’uomo non può giungere senza il soccorso del lume divino, e adombrata nel paradiso celeste. A queste [due] beatitudini, come a [due] conclusioni diverse, conviene arrivare con procedimenti diversi. Alla prima invero noi perveniamo per mezzo delle dottrine filosofiche, purché le sieguiamo praticando le virtù morali e quelle intellettuali; alla seconda invece giungiamo per mezzo degl’insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo praticando le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità. […] Per questo fu necessario all’uomo una duplice guida corrispondente al duplice fine: cioè il sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita eterna per mezzo delle dottrine rivelate; e l’Imperatore, il quale indirizzasse il genere umano alla felicità temporale per mezzo degli insegnamenti della filosofia>>.1

Così scrive Dante nel “De Monarchia”, interpretando il pensiero comune dell’uomo medievale. L’opera, in tre libri, è scritta in latino, ciò spiega che trattando un problema universale, era rivolta ad un pubblico di potenti e di filosofi anche non italiani. Il procedimento è quello scolastico, ma nella rigidezza degli argomenti e nella scientificità dell’analisi non è estranea la passione del Poeta, che non può limitarsi ad un’esposizione oggettiva, perché troppo coinvolto moralmente e sentimentalmente dal tema trattato. Nel “De Monarchia” Dante espone la sua teoria sull’ordinamento della società umana, analizzando tre punti basilari: che cosa sia la monarchia e se sia necessaria alla pace del mondo; se a ragione il popolo romano se ne sia assunto l’ufficio; se l’autorità dell’imperatore dipenda direttamente da Dio o da un suo vicario, ossia dal papa.

Dimostrata la necessità dell’Impero e il legittimo diritto dei Romani ad esercitare l’ufficio, nel terzo libro il Maestro fiorentino affronta il problema più importante ed attuale, per i suoi tempi e per il Medioevo, quello del rapporto che deve intercorrere tra l’Imperatore e il Pontefice e della loro diretta dipendenza da Dio. Tali tesi hanno alla base alcune affermazioni molto importanti, come quelle che mettono in evidenza i conflitti dottrinali e morali propri del tempo e tra i quali anche Dante si dibatteva, non riuscendo a conciliare i principi religiosi alle urgenti esigenze di una nuova realtà storica.

L’Alighieri insiste sull’asserzione che due sono le nature dell’uomo, quella corruttibile (corpo) e quella incorruttibile (anima), quindi anche il suo fine è duplice: la felicità terrena e quella celeste, ponendo in tal modo una pericolosa, dal punto di vista della fede, fenditura nei due compiti dell’uomo, pervenendo quasi a postulare un’autonomia dell’attività e della felicità del genere umano nel mondo; chiaramente da questa argomentazione deriva quella dell’assoluta autonomia dell’Impero, cui Dio avrebbe assegnato un compito particolare e indipendente da quello della Chiesa, anche se collegato con esso.

Dante afferma anche l’illegalità della donazione di Costantino, la cui falsità documentaria sarà dimostrata un secolo più tardi, che ha dato inizio al potere temporale dei papi, poiché l’Imperatore non aveva il diritto di alienare ciò che per volontà divina era di sua pertinenza, come un’usurpazione deve essere considerata anche l’incoronazione di Carlo Magno per opera di Leone III, avendo l’Imperatore imposto al Papa una facoltà che non gli spettava.

Dante non accettava le tesi regaliste di Filippo IV di Francia (Filippo il Bello), ma non accettava nemmeno il curialismo teocratico di Bonifacio VIII: sognava un’età, storicamente mai esistita, dove i singoli Stati avrebbero accettato la soggezione all’Impero, nel rispetto della loro autonomia; la Chiesa si sarebbe presa cura solo dello spirituale e l’Imperatore avrebbe governato con saggezza il mondo, mantenendolo nella pace e nella giustizia, consentendo ad ogni uomo il libero esercizio delle proprie facoltà. Una visione nettamente utopistica e irreale, una visione in cui la tesi medievale della “reductio ad unum” e della disposizione piramidale della società erano ormai solo un “rifugio” per uno stato d’animo ed una inquietudine di pensiero, frutto della situazione storica in cui si trovava l’Italia e l’Occidente nei primi anni del secolo XIV.2

Nelle pagine conclusive del trattato, Dante, forse preoccupato delle possibili reazioni dell’autorità papale a una tesi che indeboliva ogni pretesa teocratica, sottolineava il dovere dell’Imperatore di essere riverente nei confronti del Papa, essendo l’autorità spirituale superiore in qualità a quella temporale. Queste tesi procurarono all’opera l’accusa di eresia e nel 1329 fu bruciata pubblicamente per ordine del Cardinale Bertrando del Poggetto, finendo più tardi nell’indice dei libri proibiti, dove rimase fino al 1881.

Nella società medievale, la Chiesa e la vita religiosa erano importantissime, poiché sul Cristianesimo si basavano le teorie politiche ed economiche; le regole della vita quotidiana, scandite dalle ore delle preghiere, dalle feste religiose, dai precetti delle Sacre Scritture. Da un punto di vista culturale, la Chiesa di Roma fu il tramite della cultura greco-romana con quelle del tempo e in cui si fusero le diverse culture della futura Europa, la sua capillare diffusione nella società e nel territorio fece sì che essa potesse esercitare una forte influenza sui poteri laici e una grande autorità morale sulle popolazioni, grazie ad un’enorme potenza politica ed economica.

Fu proprio nel Medioevo che il Cristianesimo occidentale acquisì una propria fisionomia e la Chiesa si organizzò come istituzione unitaria, provvista di una gerarchia facente capo al Vescovo di Roma: il Pontefice. Anche la religione cattolica subì, in tale periodo, una profonda elaborazione, estendendosi approfonditamente in tutti i livelli della popolazione, assumendo conformazioni diverse secondo gli ambienti sociali: tutte queste trasformazioni accadevano nei secoli XI e XII, anche se prima di questo periodo, le donazioni e i lasciti di persone potenti avevano reso le chiese e i monasteri delle grandi proprietà fondiarie; gli intellettuali ecclesiastici, detentori della cultura e del sapere, erano stati insigni consiglieri dei re germanici; l’evangelizzazione dei territori conquistati alla cristianità aveva accordato al clero ampia autorità e grande potenza. In tal modo il mondo ecclesiastico occidentale si era allontanato sempre più dalla dottrina, dalla liturgia e dalla sensibilità religiosa dell’Impero cristiano orientale, dando luogo a molte tensioni, che nei secoli VIII e IX divisero i Cristiani d’Occidente da quelli d’Oriente, in particolar modo sulle questioni del Credo e sul culto delle immagini sacre.3

Nella Chiesa occidentale le carriere ecclesiastiche erano prerogativa di membri dell’aristocrazia fondiaria e guerriera, i laici più potenti fondavano chiese e monasteri, che concedevano ad ecclesiastici loro fedeli. Al tempo degli Ottoni, il Vescovo di Roma, pur rivendicando il primato sulla cristianità, era subordinato all’Imperatore, il quale interveniva direttamente nella scelta dei papi, la cui elezione era condotta dai nobili locali e, nella maggior parte dei casi, frutto di bassi maneggi, che le gerarchie ecclesiastiche condividevano, insieme con la ricchezza, lo stile di vita e gli interessi politici ed economici, con le classi laiche dominanti.4

Il clero, ossia coloro che avrebbero dovuto dare esempio di rettitudine partecipavano con i laici negli interessi terreni, conducendo spesso una vita deplorevole, perdendo prestigio e rispettabilità: a causa di tutto ciò, dall’inizio del secolo XI, si sviluppò un movimento di varie tendenze atto alla trasformazione di tale realtà che fu detta “Riforma gregoriana”, da Gregorio VII, in quanto prevalse l’affermazione del papa relativa al primato della Sede romana e dell’organizzazione della Chiesa attorno a Roma, (nel 1073 moriva Alessandro II, come suo successore fu eletto Ildebrando di Soana, che salì al pontificato col nome di Gregorio VII, uomo dal temperamento intransigente (inflessibile) e profondamente cosciente di possedere un potere soprannaturale, che gli imponeva non solo di essere guida universale della cristianità, ma anche di combattere per la verità e per la giustizia, ciò non escludeva un’azione coordinata dell’Impero e del Papato, ma gli avvenimenti indussero il nuovo papa a mettere in primo piano il diritto divino, concesso da Cristo a Pietro e da Pietro tramandato al pontefice, ossia la giustizia. Ma Gregorio VII capì che la riforma della Chiesa non era possibile in collaborazione con re, principi, signori, anzi il fondamento della corruzione ecclesiastica fu individuato nel rapporto feudale che accostava la Chiesa all’Impero: da questo concetto ebbe avvio la “lotta per le investiture”, concepita come lotta per la libertà della Chiesa. In un Concilio tenuto a Roma, Gregorio VII, oltre a ribadire la condanna della simonia, del concubinato e la proibizione dell’investitura laica dei vescovati e delle abbazie, redasse il “Dictatus Papae”, in cui afferma che la Chiesa romana è stata fondata solo da Dio, che solo il pontefice romano ha diritto al titolo di universale ed ha il potere di nominare, deporre e trasferire i vescovi, di deporre l’imperatore, di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà verso i principi ingiusti, senza bisogno di convocare sinodi; la Chiesa romana è infallibile e chi contraddice questa affermazione non deve essere considerato cattolico.5

Grande importanza, in seno di questa riforma, ebbe l’adesione della potentissima abbazia di Cluny, che fondò un nuovo ordine monastico legato direttamente al Papa e autonomo dal Vescovo. La Pataria, il movimento popolare sorto nell’ambito della Chiesa milanese, che si rivolse contro la simonia, il concubinato del clero e contro le ricchezze e la corruzione morale di coloro che ricoprivano alte cariche ecclesiastiche, soprattutto degli Arcivescovi di Milano, dove la corruzione del clero era molto profonda: esistevano addirittura delle tariffe che stabilivano il prezzo degli ordini sacri;6 a questa lotta sul piano morale, fu accostata anche quella politica per la libertà della Chiesa, soprattutto per l’indipendenza del papa dall’imperatore e dei nobili romani, per i vescovi di gradimento imperiale, per le cariche ecclesiastiche dei potenti laici.

Il papa, in quanto al centro di un’organizzazione che si proclamava universale, si riteneva superiore ad ogni altro potere terreno e la maggiore autorità esistente, dette luogo alla teocrazia orientata verso una vera e propria monarchia papale, che fu la causa del definitivo distacco dalla Chiesa orientale: con la scomunica reciproca dei delegati del Pontefice e del Patriarca di Costantinopoli (1054) si ebbe lo scisma tra i Cristiani occidentali e quelli orientali e una decisa competizione tra le due Chiese per l’evangelizzazione dei popoli slavi.7

Nel secolo XIII, quando la teocrazia raggiunse il suo apogeo, ci fu una ripresa del movimento riformatore, rinvigorito da nuovi movimenti nati nei ceti urbani, influenzati da quelli dei “patarini”, che si ispiravano alla semplicità evangelica, condannando la ricchezza e la potenza della Chiesa: nella vita di Cristo, narrata dai Vangeli, trovavano l’esempio di vita umile e il rifiuto della ricchezza terrena, tutto ciò sfociò nella tendenza a imitare tale modello e alla diffusione della parola evangelica senza la mediazione del clero ufficiale, questi movimenti popolari ebbero ovunque un grande sviluppo con peculiarità più o meno radicali.

La Chiesa, saldamente gerarchizzata, recuperò all’obbedienza alcuni di questi raggruppamenti, come una parte del movimento francescano, che formarono i nuovi ordini conventuali dei mendicanti, così detti perché vivevano della carità dei fedeli e non possedevano niente, come era tradizione dei monaci; altri invece che non accettarono la trasformazione in ordine monastico come un’ala del movimento Francescano, quello di Valdo, di Dolcino, degli Albigesi etc., furono considerati eretici, anche se erano lontani dalle grandi eresie dottrinali della fase iniziale del Cristianesimo, ma si limitavano a condannare la potenza politica ed economica, la gerarchia della Chiesa e la disciplina del clero. I nuovi eretici furono oggetto, insieme con gli Ebrei e i Musulmani, di persecuzioni da parte di una nuova struttura giudiziaria: l’Inquisizione, facente capo direttamente a Roma, con il compito di sorvegliare sull’ortodossia e contro ogni forma di contestazione dell’autorità della Chiesa romana.8

Una prima sistemazione del pensiero politico dantesco è già delineata nel “Convivio”: l’esaltazione dell’Impero, voluto da Dio, per mezzo del quale la società degli uomini amanti della virtù, può pervenire ad una vita terrena ordinata e perfetta. L’opera, è scritta da Dante tra il 1304 e il 1307, ovvero nei primi anni dell’esilio, dopo l’esperienza sconvolgente della lotta politica e di una società lacerata da odio e da passioni. Il “Convivio” doveva essere composto da quindici libri, ma fu interrotto al termine del quarto trattato:il Poeta, mosso da una passione intellettuale e da un grande impegno morale, lo rivolge alla vita di tutti, che con precise proposte, intende mondare e migliorare, contribuendo ad un arricchimento culturale di un pubblico nuovo composto da signori e nobildonne, che non potevano accostarsi alle fonti prime della cultura per l’ignoranza del latino. Un pubblico, quindi, di laici, ma di aristocratici, consono alla natura orgogliosa e altezzosamente restia al volgo di Dante. In quest’opera troviamo anche l’asserzione che il desiderio di sapere è connaturato all’uomo, poiché la perfezione della sua natura consiste nell’esplicazione della capacità razionale che lo rende simile a Dio, facendo di se stesso l’apostolo della verità e della cultura come mezzi per rendere più umana la vita associata.9

Il “De monarchia” è un’opera scritta tra il 1312 e il 1313, la terza cantica della “Commedia”, il Paradiso, fu scritta da Dante tra il 1316 e 1321, quindi tra le due opere c’è un arco temporale che va da un minimo di tre ad un massimo di nove anni, ma l’impressione che ne deriva è quella che il Poeta le abbia scritte in tempi molto lontani l’una dall’altra: la prima con la pari dignità e la reciproca autonomia dei poteri imperiale e papale rispecchia notevolmente il periodo storico in cui fu scritta.

La morte di Beatrice, nel 1290, dà inizio ad un periodo molto travagliato e complesso della vita di Dante e che segnerà il suo inserimento in un contesto culturale più ampio e nella vita politica di Firenze: nel 1289 aveva preso parte nella battaglia di Campaldino e, sempre nello stesso anno, alla resa del castello di Caprona, che l’esercito fiorentino tolse ai Pisani. Ma la sua partecipazione alla vita politica si ebbe nel 1295, con l’emendamento apportato agli “Ordinamenti di Giustizia” di Giano della Bella, che consentì la partecipazione alle cariche pubbliche a tutti coloro che fossero iscritti a una Corporazione d’arte e mestieri, Dante s’iscrisse a quella dei Medici e degli Speziali, dando inizio ad una rapida e brillante carriera politica che, nel 1300, lo portò alla suprema carica di Priore.


Giuseppe Bertini, Vetrata dantesca dettaglio, Pinacoteca Ambrosiana Milano

Alle lotte tumultuose di Firenze, divisa tra la fazione dei Guelfi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi e quella dei Ghibellini, capeggiati dalla famiglia dei Donati, si mischiavano odio, interessi personali e ambizioni private; in questa situazione s’introdusse papa Bonifacio VIII, il quale mirava ad estendere il suo potere, aiutato dai Neri, su tutta la Toscana. Dante si schierò dalla parte dei Bianchi, che intendevano conservare inalterati gli ordinamenti comunali e si oppose con fermezza ai disegni espansionistici del Pontefice. Tra il mese di maggio del 1300 e quello di novembre del 1301, l’Alighieri ebbe un ruolo importante nelle turbolente vicende che videro protagonista la città fiorentina: collaborò al benessere e alla pace di Firenze evitando interessi particolaristici, si oppose ad uno stanziamento in favore di Carlo d’Angiò, sancì la condanna al confino dei capi delle due fazioni politiche, tra cui vi era anche il Cavalcanti, ma soprattutto si oppose con grande fermezza alle richieste di Bonifacio VIII.

Nell’ottobre del 1301, Dante fu inviato a Roma, come membro di un’ambasceria al Pontefice e, sulla via del ritorno, presso Siena (gennaio 1302), apprese la sentenza della sua condanna in contumacia all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, al confino per due anni, ad azioni ostili al Papa e alla pace di Firenze, ad una multa e all’accusa di baratteria, comminando l’esilio anche ai figli appena avessero raggiunto l’età di quattordici anni: mentre l’Alighieri si trovava a Roma, con violenze e saccheggi, Corso Donati e i Neri avevano conquistato il potere del Comune fiorentino. Non essendosi Dante presentato a scolparsi, la pena gli fu commutata in quella capitale: cominciò così un esilio che ebbe fine solo con la morte nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 a Ravenna.10

Particolarmente importanti nella sua vita di esule furono gli anni della discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo, eletto Imperatore nel 1308, la cui volontà sembrava quella di interrompere la vacanza imperiale per affermare la propria autorità in Italia, ciò dette al Poeta la grande speranza di poter attuare il suo ideale (egli scrisse ai principi e ai popoli italiani, ferventi epistole, con le quali cercava di favorire l’impresa dell’Imperatore), di cui parlerà nel “De Monarchia” e di cui sarà permeata tutta la “Commedia”, ma nel 1313 Arrigo VII moriva in Italia senza essere riuscito a restaurare l’autorità imperiale: così crollava anche l’ultima speranza personale di Dante di poter rientrare nella sua città e, più in generale, la restaurazione dell’autorità politica imperiale nella Penisola, che il Poeta considerava indispensabile per la rinascita morale, civile e sociale.

A partire dal 1306 e conclusa verso la fine della sua vita, il Maestro scrisse la “Commedia”, animata dal dolore e, insieme, dalla speranza di un riscatto del mondo: tra il “De Monarchia” e la “Commedia” sembra essere una certa contraddizione nel pensiero politico di Dante, ma gli studiosi sono concordi nel sostenere che non si tratta di un cambiamento del pensiero politico, piuttosto una differenza di punti di vista: ancora pieno di speranza nella prima opera, ma quando tutte le speranze politiche e morali cadono, all’Esule fiorentino non resta che concentrare la sua aspettativa di un riscatto futuro sul piano spirituale, conseguentemente la sua aspettativa si orienta sulla Chiesa, non come istituzione temporale, ma come depositaria della Verità di fede, annunziatrice del Regno di Dio, che comincia su questo mondo per poi completarsi e realizzarsi nell’altro, ossia quello della Città celeste.11

Nel Paradiso, Dante rifiuta il presente ingiustificabile e depravato e mitizza il passato, prima un passato remoto, in cui Giustiniano, il quale rappresenta agli occhi di Dante e del Medioevo il modello perfetto dell’Imperatore cristiano, conferisce al suo Impero lo strumento principale di governo: la giustizia e la legge, <<Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, / a Dio per grazia piacque di ispirami / l’altro lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi; / e al mio Belisar commendai l’armi, / cui la destra del ciel fu sì congiunta, / che segno fu ch’i’ dovessi posarmi>>:12 Giustiniano non appena si avviò per la strada che la Chiesa gli aveva indicato, Dio gli concesse la grazia dell’ispirazione per la grande impresa del “Corpus Iuris”, che riordinò e codificò tutto il diritto pubblico e privato di Roma, dedicandosi completamente a questa impresa e affidando quelle militari al suo generale Bellisario, cui la potenza celeste fu così propizia che lo persuase ad applicarsi esclusivamente ad opere di pace. Quasi tutto il VI canto del Paradiso è dedicato alla rievocazione della storia provvidenziale di Roma, che l’Imperatore Giustiniano descrive partendo dalle sue origini troiane per arrivare a Carlo Magno, per confermarne la sacralità e la provvidenzialità, soffermandosi particolarmente a parlare delle imprese di Cesare e Augusto, per giungere al momento centrale della storia dell’umanità e della redenzione, con la morte di Cristo sotto l’Impero di Tiberio, chiudendo poi l’argomento con l’invettiva rivolta contro i Ghibellini e i Guelfi, colpevoli i primi di traviare il significato del potere imperiale, compiendo ingiustizie motivandole dietro il segno dell’aquila; i secondi ancora più colpevoli, poiché il loro contrapporre all’Impero un’altra forza politica mette in crisi l’intera struttura sociale e culturale del Medioevo: <<Faccian li Ghibellin, faccian lor arte / sott’altro segno, ché mal segue quello / sempre chi la giustizia a lui diperte; / e non l’abbatta esto Carlo novello / coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli / ch’a più alto leon trasse lo vello>>.13

Successivamente, nel canto XV della terza cantica, Dante, tramite il suo trisavolo Cacciaguida, immagina un tempo felice, in cui vi era concordia tra Impero e Chiesa nel guidare l’umanità nel suo duplice destino: la felicità su questa terra e la beatitudine eterna. Le parole appassionate e nostalgiche che il Poeta mette in bocca al trisavolo, alter ego di se stesso, ci raccontano il rimpianto per un mondo che non esiste più (o che, forse, non è mai esistito): l’idilliaca società fiorentina dei suoi tempi, dentro una cerchia di mura ancora ristretta, dove i cittadini vivevano una vita austera, onesta e pacifica, nominando alcuni di essi tra i più insigni e mettendone in risalto la vita morale e la sobrietà dei costumi, sottolineando l’ideologia politica conservatrice e filo imperiale.14 Più forte ed evidente risulta nel confronto il contrasto con la corrotta Firenze dei tempi di Dante: la convinzione che la decadenza della città sia causata dalla crescita, dall’avidità e dalla disonestà dei ceti mercantili e dalle lotte intestine, evidenziando la funzione fondamentale dell’Impero, difensore della pace e delle sopraffazioni della Chiesa; dell’ingiusta condanna subita e della predizione della punizione dei colpevoli. L’enunciazione dei luoghi principali dell’esilio; la forza messianica delle rivelazioni di Dante sul mondo ultraterreno dovranno deprecare i vizi dei potenti per ricondurli sulla giusta via e illuminare e guidare tutta l’umanità.15

Nel canto XVI, Cacciaguida risponde alle domande poste da Dante: sul tempo della sua nascita, sulla sua famiglia, sulla popolazione di Firenze antica e su quali erano le famiglie nobili di allora, l’avo, rispondendo alle prime tre domande, polemizza contro il mischiarsi delle genti, con la conseguente corruzione della razza, garanzia di virtù e tradizione; l’inurbamento (la coniazione del verbo inurbarsi è da attribuire a Dante) di tante famiglie del contado, eventi che danno luogo alla corruzione delle antiche tradizioni fiorentine e all’eccessivo ingrandimento della città. Rispondendo all’ultima domanda di Dante, l’avo premette che nominerà molte “schiatte” che nel Trecento si erano ormai estinte e il ricordo di antiche famiglie virtuose evoca per contrapposizione la disonestà di quelle contemporanee al Poeta. Il canto si chiude con l’immagine di Firenze antica, quando non aveva ancora subito sconfitte e non era lacerata dalle divisioni politiche, che iniziarono nel 1215 con la vendetta degli Amidei con l’uccisione di Buondelmente Buondelmonti, che dette luogo alla divisione della città in Guelfi e Ghibellini.16

Quali siano stati i sentimenti di Dante durante il suo esilio lo possiamo capire dalle parole che si fa dire dal suo trisavolo Cacciaguida nel diciassettesimo canto: <<Tu lascerai ogne cosa diletta / Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale>>.17 In questa terzina, molto intensa, possiamo capire l’angoscia dell’esule, costretto a lasciare la propria patria e le cose più care, il dolore di accettare il pane altrui, ossia quanto sia gravoso mettersi al servizio di vari signori, accettarne gli usi, elemosinare la vita di luogo in luogo.

La “Commedia” e, in particolare, il Paradiso riflettono la dimensione spirituale di Dante, in cui sono venute meno molte speranze: egli non è solo il pellegrino di un viaggio eccezionale, ma il giusto, il prescelto da Dio per ricordare all’uomo le vie del bene, egli può andare per i regni dell’oltretomba come, prima di lui, avevano fatto Enea e San Paolo, a lui è concesso di arrivare a mirare Dio per tornare in terra e raccontare agli uomini la sua straordinaria esperienza.18

E’ ancora nel XVII canto, in cui Dante, titubante per la paura, chiede al progenitore Cacciaguida spiegazioni sulle oscure predizioni che gli sono state fatte durante il suo viaggio nell’Inferno e nel Purgatorio, s’introduce così il tema centrale del canto e di tutta la “Commedia”: il destino del Poeta e il significato di questo suo eccezionale viaggio nell’oltretomba. Cacciaguida premette che gli avvenimenti terreni sono presenti da sempre in Dio, ma dipendono anche dal libero arbitrio, dalla possibilità dell’uomo di scegliere e decidere, di far accadere o no una cosa (riprendendo il concetto dalla “Summa Theologia” di San Tommaso ed anche dalla “Consolatione Philosophia” di Boezio).

Dante ci parla del libero arbitrio, nella terza cornice del Purgatorio (canto XVI), quando tra gli iracondi, incontra Marco Lombardo,19il quale spiega al Poeta che la corruzione dell’umanità dipende dal libero arbitrio di cui ogni uomo è dotato: <<Solea Roma, che ‘l buon mondo feo, / due soli aver, che l’una e l’altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo. / L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada / col pasturale, e l’un con l’altro insieme / per viva forza mal convien che vada>>.20 Il male, quindi, non dipende dall’influsso dei cieli, ma dalla volontà umana: gli uomini sanno distinguere il bene dal male e, per il libero arbitrio, sono liberi di fare le loro scelte.21 Dio aveva dato due guide per condurre gli uomini sulla retta via, le leggi vi sono, ma nessuno le esegue e le fa rispettare, il Papa, usurpando il potere che spetta all’Imperatore, è il primo a dare il cattivo esempio annientando l’autorità imperiale e unendo la spada con il pastorale, con conseguenze nefaste.

Questa affermazione, di Dante-Marco Lombardo, esprime sinteticamente il concetto politico dell’Alighieri, già manifestato nel “Convivio”, elaborato nel “De Monarchia”, nelle Epistole politiche e centrale nel Poema, concetto che Dante non abbandonerà nemmeno negli ultimi anni della sua vita, quando si sente promulgatore e profeta della nuova età e latore della buona novella agli uomini di buona volontà. << Per riportare l’umanità sulla retta strada Iddio ha voluto che il suo Figliuolo s’incarnasse e patisse il supplizio, di modo che l’Agnello di Dio ha potuto liberare il genere umano dal peccato originale […] La liberazione dal peccato originale non ha tuttavia consentito che il genere umano fosse immune dal cadere in colpa, poiché una certa infirmitas lo espone al continuo rischio di peccare; la tentazione di Eva s’è trasmessa a tutti i figli della carne. Ma la clemenza del Signore ha voluto fornire agli uomini, nessuno escluso purché sappia esserne degno, i mezzi per sfuggire alla tentazione, evitare il peccato, praticare la virtù, aspirare al gaudio eterno Gli strumenti creati da Dio furono due autorità, l’Impero e la Chiesa: rimedi contro l’infermità derivata dal peccato>>.22

Antonio Maria Cotti (1879), Dante deriso a Verona

Durante i primi anni dell’esilio, Dante ebbe frequenti rapporti con altri fuorusciti Bianchi per cercare il modo di poter rientrare in Firenze, ma furono rapporti molto difficili e con numerosi dissidi, i quali fecero allontanare il Poeta da quella “compagnia malvagia e scempia” e lo portò a “far parte per se stesso”, Cacciaguida consola Dante sugli aiuti e sulla solidarietà che riceverà durante il suo peregrinare in vari luoghi, soprattutto da Cangrande della Scala, anche se l’opinione del Poeta non fu sempre positiva nei confronti degli Scaligeri e sembra che durante la sua prima visita a Verona non sia stato accolto dalla famiglia come avrebbe desiderato.23 Nei versi 76-84 del canto XVII del Paradiso troviamo l’elogio del giovane Can Francesco della Scala, detto Cangrande, elogio che ha fatto pensare agli studiosi ad una identificazione tra questo personaggio ed il Veltro:24

Dante ebbe molta riconoscenza per la grande ospitalità offertagli dallo Scaligero, ma ebbe anche una profonda stima e un sincero affetto per questo personaggio, tanto che a lui dedicò la cantica del “Paradiso” e inviò la celeberrima epistola, importantissima per la comprensione e gli intenti della “Commedia”. L’epistola XIII fu inviata a Cangrande verso il 1317, preceduta da un “accessus ad autorem”, che, previsto dalla scuola medievale, costituiva l’introduzione, presentava sinteticamente l’argomento, l’autore, la forma di trattazione letteraria, il fine, la filosofia e il titolo. Dante si limita ad indicare come argomento trattato la condizione delle anime dopo la morte da un punto di vista letterale e la giustizia di Dio su quello allegorico, sviluppando però due punti molto importanti: la molteplicità di significati che il suo poema ha in comune con la Bibbia, collocandolo in tal modo nell’ambito della letteratura profetica, poiché afferma l’incombente intervento della giustizia divina nella storia umana e la scelta dello stile “comico”, alternato a quello “tragico”, uscendo dalle rigide posizioni scolastiche, forse per poter esprimere meglio la storia dell’umanità nella sua grandezza e nella sua miseria.25

Importantissima è la risposta finale di Cacciaguida, in cui possiamo cogliere il senso di Dante poeta e profeta e di tutta la sua opera: dovrà raccontare tutto quello che ha visto ed appreso senza preoccuparsi di coloro che si sentiranno coinvolti e offesi dai suoi versi, poiché la forza messianica delle sue rivelazioni avrà funzione redentrice per tutta l’umanità, quindi sarà necessario colpire i potenti responsabili della società decaduta e ricondurli sulla giusta strada di Cristo: <<”Coscïenza fusca / o de la propria o dell’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca. / Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, / tutta tua visïon fa manifesta; / e lascia pur gratta dov’è la rogna. / Che se la voce tua sarà molesta / nel primo giusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta. / Questo tuo grido farà come vento, / che le più alte cime più percuote; / e ciò non fa d’onor poco argomento. / Però ti son mostrate in queste rote, / nel monte e ne la valle dolorosa / pur l’anime che son di fama note, / che l’animo di quel ch’ode, non posa / né ferma fede per essempro ch’aia / la sua radice ingognita e ascosa, / né per altro argomento che no paia”>>.26

Il XVII canto esprime il dolore del Poeta esule, dolore dignitoso, virile, conciliabile con la sua coscienza altera e onesta, che troviamo già ispirata in altri punti del poema: dalla profezia di Brunetto Latini alla vicenda di Romeo di Villanova,27 e che ama ancora la sua patria nonostante sia “disonesta e vile”. Questo canto mostra il ritratto di Dante <<…quale era dopo il bando dalla sua città natale, con que’ suoi lineamenti risentiti, con quel suo sguardo chiaro e fiero, appena temperato dalla malinconia della sventura e della dolcezza degli affetti radicati nell’intimo del cuore. Tutti gli accenni del poema all’esilio, i rimpianti del passato gentile e onesto, gli sdegni contro le malvagità dei grandi mettono capo a questi tre canti (XV, XVI, XVII), e vi si sublimano nel loro accento – più austero, nel loro ritmo – più tranquillo. C’è in essi la fermezza delle convinzioni durature più che lo sdegno dei contrasti più o meno passeggeri con gli uomini. Il Dante di questi canti non è il Dante delle invettive, ma quello dei colloqui con se stesso: è un Dante più intimo, quello che diffonde il calore morale in tutte le vene del suo poema. E’ il Dante “tetragono ai colpi di ventura”, armato solo della sua coscienza e – nella sua coscienza – sicuro. C’è in essi un pathos virile e chiuso>>.28

Di Dante poeta e profeta Bruno Nardi scrive: <<In ogni poeta veramente ispirato, c’è la natura del profeta, e il profeta è a suo modo poeta. Per questo i poeti furon detti vati e interpreti degli dèi, e creduti parlare afflante numine; per questo ancora gli stessi teologi riconobbero quello che d’immaginario e fantastico v’è quasi sempre nelle visioni profetiche.[…] Il profeta, sia esso Mosè o Maometto, Ezechiele o l’abate Gioachino, è l’uomo che, raccogliendosi a meditare sulle condizioni storiche del suo popolo, avverte il travaglio profondo e le aspirazioni d’un’epoca, ne intuisce le forze latenti, ne divina lo sviluppo, presentando il fatale scioglimento del dramma sociale di cui vive la passione. Di questo dramma egli non è solo inerte spettatore, ma spesso attore non secondario, la cui parte è quella d’incitare i volenti, denunciare e sferzare i malvagi, additare la mèta segnata da Dio>>.29

Il linguaggio di Dante profeta non è quello accorto e prudente del politico e nemmeno quello tranquillo del filosofo, ma un linguaggio infervorato e fiammeggiante (infuocato) che sgorga dalla sua interiorità, e i pensieri si manifestano in immagini vive che formano la visione drammatica, che per l’Alighieri non si tratta di un artificio letterario, ma di una vera visione profetica, concessa a lui da Dio, per rivelare all’umanità, una volta tornato tra i vivi, la verità sulle cause della degenerazione del mondo.30

L’esaltazione della giustizia la ritroviamo anche nel canto XX del Paradiso, dove un’aquila sfolgorante, costituita dagli Spiriti del cielo di Giove, sprona Dante a fissare il suo occhio formato dalle anime somme. Il Poeta parla di imperatori e re del passato famosi per la loro integrità morale come David, Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II d’Altavilla e Rifeo: la presenza in Paradiso di Traiano e di Rifeo stupirà Dante, poiché si tratta di pagani, quindi esclusi dalla salvezza, ma, essendo il mistero della predestinazione insondabile per le menti umane, le due anime, per grazia particolare di Dio, ebbero la possibilità di credere in Lui e, nonostante pagani, poterono salire alla beatitudine eterna. L’esule fiorentino non manca di ribadire il trasferimento della capitale dell’Impero romano da Roma a Bisanzio e come la “donazione” di Costantino avesse dato luogo al potere temporale dei Papi, però viene precisato anche che tale donazione fu fatta a fin di bene e il male che ne derivò non nocque alla sue eterna beatitudine: <<L’altro che segue, con le leggi e meco, / sotto buona intenzion che fé mal frutto, / per cedere al pastor si fece greco: / ora conosce come il mal dedutto / del suo bene operar non li è nocivo, / avvegna che sia ‘l mondo indi distrutto>>.31

Durante il Medioevo era famosa la leggenda secondo la quale le preghiere del papa Gregorio Magno, commosso da tanta umanità e giustizia di questo Imperatore, il quale aveva punito gli assassini del figlio dell’umile vedova, lo riportarono in vita per breve tempo, ma sufficiente per ricevere il Battesimo e, quindi, morire da cristiano: <<L’anima glorïosa onde si parla, / tornata ne la carne, in che fu poco, / credette in lui che potëa aiutarla; / e credendo s’accese in tanto foco / di vero amor, ch’a la morte seconda / fu degna di venire a questo gioco>>.32

Il caso del troiano Rifeo è diverso perché non ebbe rivelazioni e visse in una realtà completamente pagana, ma ricevette da Dio il dono di una fede che lo spinse ad agire e a pensare nell’ambito della giustizia e a credere in una futura redenzione; il Poeta prese spunto dall’”Eneide” di Virgilio, dove Rifeo è un personaggio secondario e di cui si parla molto poco, ma è detto “il più giusto dei Troiani e il più rispettoso dell’equità”.33

Contro la corruzione del Papato “esplode” la violenta invettiva che Dante fa dire a San Pietro, nel canto XXVII, che con il pontificato di Bonifacio VIII ha reso Roma, luogo del suo martirio, una fogna: <<Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio, / fatt’ha del cimitero mia cloaca / del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso / che cadde di qua su, là giù si placa>>.34All’invettiva di San Pietro si aggiungerà quella, a fine canto, di Beatrice contro l’umanità corrotta ed entrambe si concludono con delle profezie di speranza.

L’ostilità di Dante verso Bonifacio VIII non nasce solamente da fatti personali, ma anche dalla politica di questo pontefice, ispirata al principio teocratico della superiorità assoluta dell’autorità papale nei confronti di ogni altra autorità, la cui espressione più alta è rappresentata dalla bolla “Unam Sanctam”, del 18 novembre 1302, in cui si sostiene che la Chiesa è detentrice del potere temporale oltre a quello spirituale.

L’invettiva arriva al suo punto culminante con le parole di San Pietro, il quale dichiara che in mezzo alla cristianità, invece dei pastori, si aggirano lupi rapaci: <<In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua sù per tutti i paschi: / o difesa di Dio, perché pur giaci?>>,35quindi l’indignazione si estende a due futuri papi, Clemente V e Giovanni XXII, che nel 300 si preparavano a bere il sangue dei martiri, ovvero sfruttare a loro vantaggio i beni della Chiesa fondata dal sangue dei martiri. Ma oltre che il canto dell’invettiva di San Pietro, questo è anche l’ultimo canto “terreno”, cioè destinato animatamente alla condizione umana dell’umanità ed è anche un canto in cui ritornano quasi tutti i presupposti che contraddistinguono la caratteristica narrativa e la poesia del Paradiso: il biasimo della miseria umana, la descrizione della luce e del moto dei beati, il passaggio di cielo in cielo di Dante e l’alta illuminazione intellettuale, la raffigurazione di Beatrice, la quale nonostante la sua missione celeste e l’illuminante pietà verso Dante, conserva ancora un fascino terreno, oltre a quelli della profezia e dell’invettiva.36

Alla fine del XXX canto, le parole di Beatrice condannano la cupidigia umana e la malvagità dei due principali colpevoli della corruzione che sta dilagando nel mondo: Clemente V e Bonifacio VIII, il primo, che è colpevole di avere avuto un comportamento ambiguo con l’Imperatore e di non avere appoggiato l’impresa di Arrigo VII, raggiungerà all’Inferno Bonifacio VIII nella terza bolgia, dove sono condannati i papi simoniaci, conficcati a capo in giù dentro una buca scavata nella roccia, da dove fuoriescono le piante dei piedi fiammeggianti: quando arriva un nuovo papa simoniaco, spinge dentro la buca il precedente ed è proprio quello che accadrà a Bonfacio VIII quando arriverà in quel luogo infernale Clemente V, che spingerà il suo predecessore nelle viscere della terra. Questa è l’ultima invettiva politica della “Commedia”, in cui Dante coglie l’occasione per tornare sulla polemica contro alcuni papi e il malgoverno della Chiesa, biasimando con durezza l’operato di Clemente V, ma ribadendo anche l’ulteriore condanna verso Bonifacio VIII.37

Lo scopo etico di questa grandiosa opera è definito da Dante, come già accennato precedentemente, nella Lettera (XIII) a Cangrande della Scala, suo protettore, con cui gli comunica il proposito di dedicargli la terza parte del suo poema: il Paradiso, di cui da poco aveva iniziato la composizione, comprensiva di un commento sulla materia e i fini di tutta l’opera. La lettera comprende tre nuclei principali: la “salutatio gratulatoria”, dove il poeta elogia la grandezza e la giustizia politica di Cangrande; l’esposizione dei criteri generali necessari alla comprensione di tutto il poema; un commento dei primi versi del “Paradiso”. La parte centrale segue gli schemi tradizionali dell’esegesi medievale, in cui Dante descrive separatamente sei elementi, il “subiectum”, l’”agens”, la “forma”, il “finis”, il “genus phylosophie” e il “titulus” dell’opera da capire sia secondo il significato letterale che quello allegorico: il “subiectum”o tema della narrazione, che da un punto di vista letterario è la rappresentazione dei tre regni ultramondani percorsi dal Maestro fiorentino, ma allegoricamente rappresenta la condizione dell’uomo, il quale si rende meritevole del castigo o della Grazia divina, in quanto dotato di libero arbitrio. Passa poi all’”agens”, in cui Dante è allo stesso tempo poeta e personaggio, autore e protagonista, quindi garante della verità letterale della sua storia; la “forma” e il “finis” costituiscono rispettivamente la veste stilistico-dottrinale del poema e il tema dell’intero poema, ossia il proposito del Poeta di riscattare il genere umano dalla sua corruzione e degenerazione morale per guidarlo verso la beatitudine eterna. Il “genus phylosophie” è da intendersi come il genere filosofico in cui si inquadra il proposito operativo di dante, ovvero la disciplina filosofica dell’etica che è strumento di riflessione sui fondamenti del retto agire; il “titulus”, è “Comedia Dantis Alagherii, fiorentini natione, non moribus”, che manifesta il significato che il Maestro attribuisce all’argomento della sua opera, conforme al valore che si attribuiva ai termini medievali di tragedia e commedia: egli chiama “Comedia” il suo poema perché la materia, dopo un esordio drammatico e pauroso, si risolverà in un finale positivo e piacevole, ossia la “visione” del “Paradiso”. Proprio per questo, il Poeta ha scelto, nel rispetto della forma e della materia, un linguaggio particolare: quel volgare che è la lingua degli indotti e persino delle donne.38

Il 20 gennaio 1320, Dante si trova a Verona e, davanti a gran parte del clero cittadino e funzionari della corte scaligera, si appresta a dibattere un argomento di filosofia naturale: “Questio de situ et figura, sive forma, duorum elemento rum, atque vide licet et terre” (Questione intorno al luogo e alla figura, o forma, dei due elementi, cioè l’acqua e la terra). La disputa quodlibetale aveva come tema un argomento molto attuale ai tempi e studiato da molti filosofi, astronomi e cosmologi: il problema dell’equilibrio reciproco tra solidi e liquidi, particolarmente tra la terra e il mare, problema già trattato da Aristotele e, più tardi, da scienziati arabi e scolastici.

La redazione scritta di questa dissertazione tenuta da Dante quel giorno a Verona fu l’ultima opera latina del Maestro fiorentino: “Questio de aqua et terra”, composta circa un anno prima della sua morte, che riprese il tema di una discussione tenutasi a Mantova qualche tempo prima, anche se gli studiosi hanno disputato a lungo sulla sua autenticità: egli sostenne la tesi secondo la quale la terra abitata era una protuberanza emergente dalla sfera dell’acqua nell’emisfero boreale ed identificò la causa di tale protuberanza della terra nell’influsso delle stelle, in evidente contrasto con la sua concezione cosmologica esposta nell’Inferno (canto XXXIV), in relazione con la caduta di Satana. Ma Dante non si contraddice (smentisce) anzi quest’apparente contraddizione è la prova che egli è consapevole della differenza tra un’idea fantastica e l’elaborazione di un concetto scientifico; alla fine della “Questio” si definisce “filosofo minimo” e <<restò sempre fedele alla libertà intellettuale ispiratrice del suo lungo amore della sapienza, frutto della mente umana. E fu il raro caso di un eccelso poeta che volle unire la sua sublime capacità d’invenzione alla ricerca della verità del sapere e della libertà della ragione>>.39

La produzione letteraria medievale è caratterizzata da una spiccata tendenza didascalica e ancor più didattica, che si evidenzia soprattutto nelle opere finalizzate alla divulgazione delle conoscenze o all’educazione di principi morali e religiosi: sia la letteratura sacra sia quella più profana presenta scarsa invenzione e fantasia, facendo dell’arte lo strumento per dispensare monotoni avvertimenti morali, consoni alla visione cristiana medievale che concepisce la vita terrena come una preparazione a quella eterna. Anche la filosofia scolastica influenza ed ispira la letteratura con motivi di meditazione spirituale e morale, fino a quando, dopo la prima metà del Duecento, nella Facoltà delle Arti di Parigi, compaiono le opere allora conosciute di Aristotele, dando luogo a orientamenti diversi di pensiero, che si fronteggiano sul piano dialettico tra coloro che propendono per un atteggiamento “naturalista” e coloro che tendono verso una forma “razionalista”.

Dal IV secolo si va affermando il pensiero cristiano con la Patristica, la cui fonte basilare è il platonismo elaborato nella versione cristiana da Sant’Agostino, questa forma filosofica influenzerà la cultura occidentale fino al X secolo circa, ma dopo il Mille, in seguito ai profondi cambiamenti storici, nascono nuove esigenze culturali, meno dogmatiche e più pratiche, insieme alla necessità di scolarizzare: nasce la Scolastica che elaborerà gradualmente il sistema aristotelico e sarà la filosofia dei secoli XII-XIII e parte del XIV.

Tra la Patristica e la Scolastica vi fu una differenza fondamentale: la fede, la Patristica, sentiva la necessità di darsi un corpo dottrinale, commisurandosi alla ragione e individuando nella filosofia le formule a tutto ciò; la Scolastica, che aveva trovato le formule dogmatiche già determinate, si pone il problema di come la ragione possa arrivare alle verità di fede, ossia dà alla ragione il modo di commisurarsi alla fede. Durante il secolo XII abbiamo il periodo della maturità della Scolastica, con la scoperta del sistema aristotelico e con le correnti del pensiero arabo che s’infiltrano in quello del mondo latino, accrescendone notevolmente il patrimonio della ragione.40

Nelle Università, tra le tante discussioni dialettiche, fu di particolare importanza il problema degli “universali”, che dette luogo a orientamenti contrastanti (“realismo” trascendente (universalia ante rem), “realismo” immanente (universalia in re), e concettualismo (universalia post rem)con orientamento nominalistico), ma l’importanza storica di questo problema fu che, sorto come semplice questione logico-grammaticale, presto venne applicato alla teologia, permettendo la critica razionale nel campo della fede, scatenando la reazione dei teologi più intransigenti (San Pier Damiani), che non concordano con l’attività dialettica della ragione, applicata alla fede ed esaltano l’onnipotenza di Dio contro i principi razionali fondamentali. All’opposto si trova il razionalismo cristiano, con Sant’Anselmo d’Aosta, che è il maggiore esponente di questo pensiero e che fa del motto agostiniano “Credo ut intelligam”il suo emblema.41

Il fervente risveglio di pensiero, che si ha nel secolo XII, mette in luce un centro importantissimo e molto prolifico: la Scuola di Chartres, dove era vivo il senso della continuità storica col passato classico, l’amore per la dialettica, la scoperta di libri fino ad allora sconosciuti, gli studi naturalistici con il contributo della cultura araba, in metafisica alcuni studiosi svilupparono motivi platonici in senso panteistico, grazie alla loro arditezza, emblematica la celeberrima frase attribuita da Giovanni di Salisbury al suo maestro Bernardo di Chartres: <<Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique propriis visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea>>. (Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti).42

Ma la figura che meglio incarna lo spirito del tempo è Pietro Abelardo (1079-1142), acceso sostenitore dei diritti della ragione anche nelle indagini sugli oggetti di fede, è considerato, con Anselmo d’Aosta, come uno degli iniziatori del metodo scolastico; Bernardo di Chiaravalle (1091-1153), esaltatore dello spirito mistico nella forma antidialettica, fu il suo più inesorabile antagonista.

Nel secolo XIII ci fu un grande rinnovamento culturale, dovuto principalmente alla diffusione del pensiero aristotelico nel mondo latino, sia con le opere originali sia con le rielaborazioni degli Arabi; all’organizzazione delle Università (Parigi 1090 circa, Oxford 1096 circa, Bologna 1088, studi giuridici) e all’istituzione dei due grandi ordini religiosi: i Domenicani e i Francescani. Il mondo arabo aveva già assimilato precedentemente la filosofia e la scienza greche, ancora in gran parte ignote alla cultura occidentale: anche la filosofia araba si proponeva il tentativo di trovare una via d’accesso razionale alla verità rivelata e stabilita nel “Corano”, inoltre la filosofia araba di questo periodo pone le basi in quella greca, specialmente del neoplatonismo e dell’aristotelismo, evidenziando in tal modo molti caratteri di somiglianza con quella cristiana e ciò spiega l’influenza profonda che il pensiero arabo ha esercitato nella Scolastica nei secoli XIII e XIV, pur tuttavia rivelandosi in alcuni punti inconciliabili.43

Il sistema aristotelico dominava il pensiero greco, anche se con infiltrazioni neoplatoniche e la spinta alla speculazione di tale sistema era dato agli Arabi dalla necessità di stabilire se la dottrina razionale aristotelica poteva conciliarsi con quella rivelata dal Corano: più tardi il problema si sarebbe presentato analogamente nella Scolastica cristiana. I più grandi interpreti arabi di Aristotele, che influirono maggiormente nel pensiero occidentale furono Avicenna (attivo in Oriente nel sec. XI; fu anche grande cultore di medicina, con orientamento generale conforme alla dottrina di Galeno), e Averroé (attivo in Spagna nel sec. XII, il grande commentatore di Aristotele che sosteneva l’indipendenza delle verità di ragione da quelle di fede).44

Ibn-Sina, che in Occidente fu noto col nome di Avicenna, fu un famoso medico persiano, oltre che filosofo e massimo rappresentante del neoplatonismo (morì a 57 anni nel 1037), egli elabora una metafisica sull’affermazione della necessità dell’essere, ossia l’affermazione che tutto ciò che è o accade, è o accade necessariamente e non potrebbe essere o accadere in modo diverso, in altre parole: <<Le cose naturali, in quanto esistono, sono necessarie perché derivano necessariamente da Dio, essere necessario. Perciò la creazione non è un atto libero, ma un processo che ha la sua prima origine in Dio e che si svolge necessariamente. Tutto quello che esiste nel mondo naturale è quindi necessitato ad esistere. A. giustifica la predizione astronomica: l’azione di Dio sulle cose naturali si verifica attraverso il tramite degli astri e dalla conoscenza degli astri si può quindi desumere quella di ciò che accade sulla terra. Se l’uomo conoscesse perfettamente i movimenti degli astri, la sua predizione del futuro sarebbe infallibile; ma poiché la conoscenza non è completa, le sue predizioni sono spesso incerte o fallaci>>.45

Averroè (Ibn-Rashid), nacque a Cordova nel 1126 e morì nel 1198. Averroè fu il commentatore di Aristotele, il quale rappresenta “la regola e l’esemplare che la natura creò per dimostrare l’ultima perfezione umana”, il pensiero aristotelico è, quindi, la verità e Averroè si propone di esporla e chiarirla, inoltre sostiene che sia in pieno (fondamentale) accordo con la religione musulmana, anzi serve ad estrinsecare meglio la verità che tale religione contiene. Ma, secondo Averroè, l’insegnamento fondamentale del pensiero di Aristotele è la “necessità” di tutto ciò che esiste: il mondo è eterno, in quanto necessaria manifestazione di Dio stesso, quindi deriva dalla stessa natura di Dio, il quale è eterno. L’origine del mondo è tale che non può essere modificato dall’uomo, ma dirige l’azione dell’uomo, che non ha alcuna capacità di libertà di iniziativa. Tutto questo, ossia la necessità dell’ordine del mondo, fu molto importante per l’indagine scientifica, che, nel Rinascimento, sarà animata dalla fiducia di poter scoprire nei fatti naturali un ordine necessario. La conoscenza umana nasce dalla partecipazione dell’uomo all’intelletto divino e da questa partecipazione scaturisce una “disposizione” capace di astrarre le forme intelligibili dalle cose, formando i concetti: riprendendo e modificando il concetto di luce e dei colori aristotelico, afferma che come il sole illumina l’aria portando all’atto i colori delle cose, allo stesso modo l’intelletto attivo illumina quello potenziale e dispone l’anima umana, che fa partecipa di quest’ultimo, ad astrarre i concetti e le verità universali dalle rappresentazioni sensibili, ne consegue che l’intelletto è unico per tutti gli uomini ed è separato dalla loro anima. Da notare che sia la dottrina dell’eternità del mondo, che nega la creazione libera, sia quella della separazione dell’intelletto dall’anima, che nega l’immortalità dell’anima, erano in netto contrasto con il credo musulmano e con quello cristiano.46 Averroè sosteneva, inoltre, che l’attività razionale era la fede religiosa del filosofo e che le credenze religiose rappresentavano un’alternativa a tale attività: gli scolastici cristiani interpretarono questo pensiero come teoria della “doppia verità”, ossia una verità di ragione cui l’uomo arriva per mezzo della filosofia e una verità di fede rivelata e imposta dalle autorità religiose; a tale dottrina si appellarono molti filosofi durante il Medioevo e nel Rinascimento.47

Fino a tutto il XII secolo, per i filosofi conoscere e spiegare una cosa significava rappresentare tale cosa come simbolo e non ciò che appare nelle sue modalità di manifestazioni, perché mancava la concezione di una natura che avesse una struttura in sé e una intelligibilità per sé; ma nel secolo successivo, questo concetto si forma con la scoperta della fisica di Aristotele: l’impatto della filosofia aristotelica con le Sacre Scritture e la tradizione cristiana dà origine ad un aristotelismo cristianizzato, che conduce alla teologia scolastica.

Con le Crociate e gli scambi commerciali sempre più frequenti, poi con la conquista araba della Spagna si erano stabiliti stretti rapporti intellettuali tra l’Occidente cristiano e l’Oriente islamico, che arricchirono il pensiero latino con il ricco patrimonio filosofico e scientifico conquistato dagli Arabi, assimilando ed elaborando la cultura ellenica.48

Agli inizi del sec. XIII le scuole di Parigi si organizzarono in Università, differenziando quattro Facoltà: di medicina, di diritto, delle arti (comprendente matematica, lettere e filosofia) e di teologia. Alla nuova Università furono concessi dai pontefici larghi privilegi, la presero sotto la propria protezione con l’obiettivo di farne la roccaforte della fede e dell’ortodossia cattolica, sorvegliando il suo funzionamento e subordinando alla Facoltà di teologia tutte le altre, assicurandosi in tal modo che nel mondo della cultura rimanesse sempre lo spirito ecclesiastico cattolico, nonostante le agitazioni che avevano portato le correnti di pensiero arabe. I Domenicani e i Francescani furono il mezzo per attuare questo piano di teocrazia intellettuale, che, con l’aiuto dei pontefici, riuscirono ad abbattere l’accesa resistenza dei maestri secolari dell’Università di Parigi e ad ottenere alcune cattedre: fu proprio la rivalità sorta tra i due Ordini che dette luogo a una tradizione filosofica propria, che, a sua volta, dette un impulso fruttuoso allo sviluppo del pensiero scolastico.

Nei secoli XII e XIII, le numerose traduzioni latine delle opere di Aristotele e dei suoi commentatori, cominciarono a circolare nella cultura occidentale, che si pose l’esigenza di prendere posizione davanti ad una nuova visione dell’universo contenuta in esse, considerando che lo Stagirita divenne ben presto la personificazione della ragione umana a prescindere dalla rivelazione. I concetti aristotelici, ovviamente, erano in contrasto con il Cristianesimo, soprattutto in tre punti principali: l’universo è eterno o aveva avuto un principio? Dio agisce direttamente sul mondo per mezzo della Provvidenza o indirettamente tramite le Intelligenze celesti da Lui emanate? L’anima individuale è immortale o perisce col corpo? Tutto ciò generò accanite discussioni e insormontabili contrasti, con la conseguente condanna che inizialmente diede la Chiesa alle dottrine aristoteliche.

Un primo indirizzo di pensiero scolastico fu quello del francescano San Bonaventura da Bagnoregio (Giovanni Fidanza. 1221-1274), nel XIII secolo, il quale ha un rifiuto dello spirito dell’aristotelismo e riafferma il principio indissolubile dell’unità di fede e ragione proclamato da Sant’Agostino precedentemente al periodo scolastico, in quanto sostiene che solo la fede dà il nutrimento vitale alla ragione, conferendo valore alle indagini particolari, in tal modo Bonaventura coglie l’aspetto centrale della filosofia francescana: la presenza di Dio nel mondo, le cose della natura come segni di una realtà soprannaturale, una filosofia che prende in considerazione l’aspetto più superficiale delle cose, in quanto derivante dai sensi, l’anima conosce Dio e se stessa senza l’aiuto dei sensi esterni, trascurando la realtà più profonda che si può apprendere solo dalla rivelazione. Per il filosofo francescano la mente deve seguire un “Itinerario”che la guiderà a Dio: le considerazioni delle cose sensibili come “vestigia” o tracce di Dio, la riflessione dell’animo in se stesso come “imagine” di Dio, e la penetrazione mistica nella realtà eterna e trascendente, nel mondo ideale che è “similitudine” di Dio.49

Alberto dei conti di Bollstädt, meglio conosciuto come Alberto Magno, nacque a Lavingen (Svevia) nel 1193; fu maestro di teologia a Parigi e a Colonia, morì nel 1280. Egli fu il primo a rendersi conto che il processo di identificazione della ricerca filosofica con lo studio del pensiero aristotelico era inevitabile: la sua vastissima opera è un rifacimento personale di tutta l’enciclopedie di Aristotele, utilizzando anche gli interpreti arabi e giudaici. La sua pretesa consiste nel voler esporre le opinioni dello Stagirita e dei Paripatetici, con la convinzione che la filosofia di Aristotele sia l’opera più perfetta cui può arrivare la ragione umana. Alberto Magno separa nettamente la ricerca filosofica dalla teologia, in quanto la prima deve servirsi esclusivamente della ragione e procedere per via di dimostrazioni necessarie; la seconda si serve di principi ammessi per fede, stabilendo in tal modo una netta separazione tra la filosofia e la teologia.50 (NOTA Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1991, Vol. I, pp. 349-350.)

Completamente opposto l’indirizzo del domenicano Tommaso d’Aquino (1225-1274), destinato a trionfare nella Chiesa e che ritiene superabile il contrasto tra aristotelismo e Cristianesimo, dando una nuova svolta al pensiero cristiano con una profonda rielaborazione della filosofia aristotelica: secondo Tommaso, la ragione è autonoma rispetto alla fede, quindi indipendente dalla rivelazione, la filosofia o conoscenza razionale ha una sua competenza, distinta dalla teologia, le cui verità non sono dimostrabili in quanto soprarazionali, Dio non può essere intuito direttamente, perché la sua esistenza deve essere dimostrata con argomenti provenienti dall’esperienza sensoriale, ne consegue che l’impossibilità della visione diretta di Dio spinge alla necessità di dimostrarne l’esistenza a posteriori e Tommaso lo fa attraverso le “cinque vie”.51

Secondo Tommaso, il mondo è stato creato da Dio con un atto di libera volontà, ciò significa che l’esistenza del mondo non è necessariamente connessa all’essenza divina: Aristotele fa una distinzione tra potenza e atto per tutti gli esseri finiti, e tra materia e forma per tutti gli esseri corporei, la forma è comune a tutti gli individui della stessa specie, invece la “materia segnata” è ciò che differenzia un individuo da un altro della stessa specie (principio d’individuazione). L’uomo è un organismo corporeo, in quanto essere animale e, sia per l’Aquinate sia per lo Stagirita, il suo principio informativo è dato da un’anima vegetativa e sensitiva, ma essendo un essere ragionevole è sostanza spirituale, fornita di intelletto individuale, connesso e fuso con l’anima sensitiva e con quella vegetativa che informa il corpo, creato direttamente da Dio. La funzione fondamentale della conoscenza è l’astrazione: non esistono idee innate, quindi il processo della conoscenza razionale deve muovere dalla sensazione: “nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensu”. Nella sensazione il soggetto accoglie in sé la “forma sensibile” dell’oggetto; nell’intellezione separa dall’immagine sensibile la forma intelligibile (essenza concettuale). La verità è corrispondenza tra il concetto attuato nel nostro intelletto (universale post rem) e l’intelligibile che è nella cosa (universale in re), che, a sua volta, è il riflesso dell’idea della Mente divina (universale ante rem).52

L’opera di Tommaso segna una tappa decisiva nella Scolastica, il lavoro iniziato da Alberto Magno, suo maestro, viene da lui continuato e portato a compimento: l’aristotelismo diventa, attraverso la speculazione tomistica, accomodante e malleabile alle esigenze della spiegazione cristiana. Per Tommaso il pensiero di Aristotele appare come il termine ultimo della ricerca filosofica, arriva dove la ragione umana poteva giungere, al di là non c’è che la verità soprannaturale della fede e il compito che Tommaso si assume è quello di integrare e conciliare la filosofia con la fede, l’opera dello Stagirita con la verità rivelata all’uomo da Dio e di cui è depositaria la Chiesa.

Nell’Università di Oxford, molto importanti furono i francescani Giovanni Duns Scoto (1308) e Guglielmo D’Occam (1350): il primo accentuò la separazione tra fede e ragione e la natura soprarazionale delle verità rivelate; il secondo sostenne che il sapere intuitivo ha maggiore valore conoscitivo di quello concettuale (empirismo), e, avendo la ragione potere solo nel campo dell’esperienza, gli oggetti di fede sono per definizione trascendenti l’esperienza, quindi la fede e la ragione sono separate tra loro. Nei secoli XIV e XV la filosofia di Occam ebbe grande fortuna, ma allo stesso tempo fu l’elemento fondamentale del declino della Scolastica, il cui compito era stato quello di razionalizzare la fede, che ora viene dichiarata del tutto soprarazionale; la ragione umana si limita alla fisica e alla critica logica di se stessa e afferma gradualmente la sua libertà e la sua autonomia da ogni autorità divina e umana, sostituendo alla cosmologia aristotelica nuovi concetti anticipatori della scienza moderna.53 L’influenza di questa ricca e vivace atmosfera culturale, che animava le dispute filosofiche, teologiche, scientifiche e politiche della fine del secolo XIII e l’inizio del XIV, trova grande raffronto nelle opere poetiche e dottrinali di Dante, ma soprattutto nell’imponente sistema poetico-religioso-filosofico della “Commedia”.

Dante, come già detto, scrisse il “Convivio” tra il 1304 e il 1307, un’opera, composta da quindici trattati, come egli stesso definisce “sì d’amore come di virtù materiate”, ossia di contenuto filosofico, ma fu interrotta al termine del quarto trattato, nel primo egli esprime i caratteri dell’opera: il suo intento è quello di bandire un banchetto di sapienza per coloro che per vari motivi non hanno potuto compiere gli studi e sono stati sviati dalla sapienza e dalla filosofia, che sono i presupposti per il raggiungimento della perfezione dell’uomo, quindi Dante non ha intenzione di scrivere un’astratta enciclopedia filosofica, ma un’opera rivolta ad illuminare coloro che devono guidare i popoli, alle donne ispiratrici delle virtù negli uomini, e in grado di suscitare i buoni costumi perduti. Il secondo trattato, di commento alla canzone “Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete”, parla di come Dante si sia accostato agli studi della filosofia, in cui ha trovato l’amore, dopo il grande dolore per la morte di Beatrice.

La filosofia è detta da Dante “Donna gentile” che dà salute e felicità allo spirito; la “Donna gentile era stata già menzionata nella “Vita Nova”, ma con un significato molto diverso: rappresentava un’infedeltà alla memoria di Beatrice, mentre nel “Convivio” simboleggiala perfezione morale e l’ascesa verso la verità.54 Nel terzo trattato, elogio della sapienza e commento alla canzone “Amor che ne la mente mi ragiona”, l’ardore (passione) per la filosofia diventa un vero inno e l’amore per la verità è, insieme con la giustizia, l’ideale più alto. Nel quarto trattato Dante si distacca dai problemi filosofico-teologici per parlare della moralità e dove appare una prima sistemazione del suo pensiero politico.55

Sia nel “Convivio” sia nel “De Monarchia” Dante adotta il procedimento scolastico della “questio” posta e poi discussa nei suoi “articula” che la compongono, usufruendo anche del supporto delle “auctoritates” (la Bibbia, i classici, i filosofi), per arrivare al “responso”, l’esito conclusivo che chiude la discussione. Il ragionamento parte dall’universale per arrivare al particolare, usando gli strumenti della deduzione e del sillogismo, soffermandosi a discutere le obiezioni alle sue tesi. In questo schema rigoroso, Dante crea degli spazi con digressioni, che animano gli argomenti filosofici permeati dal suo ardore morale per la verità.56 Nel “Convivio”, Dante per spiegare cosa sia la filosofia si avvale della celeberrima affermazione con cui Aristotele inizia la “Metafisica”: il desiderio di sapere è connaturato in tutti gli uomini, poiché la scienza è l’ultima perfezione dell’anima umana <<Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che in ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti>>.57 Dante conosceva Aristotele solo indirettamente, soprattutto grazie ai “Commentaria” di Tommaso d’Aquino; per il Poeta Aristotele era il filosofo per antonomasia, nell’Inferno lo definirà <<’l maestro di color che sanno>>.58 Per Dante la filosofia è l’amore disinteressato della verità, la ricerca di quella sapienza nella quale gli uomini possono trovare la perfezione e la felicità.

Rifacendosi ai contenuti della Scuola peripatetica, il Maestro fiorentino sosteneva che solo in Dio, somma sapienza, si trova la fonte del sapere, principio unitario di molte scienze e forma di un’unica verità, infatti sia nel “Convivio” sia nel “De Monarchia”, egli rimane fermo nelle sue opinioni etiche e politiche. In vari passi del “Convivio” Dante insiste sul carattere divino della filosofia, avvicinandosi alle dottrine di Alberto Magno e ad inclinazioni (orientamenti) platoniche, considerando tale disciplina la più degna di studio per l’inscindibile unione tra l’anima e la verità.59

Ricostruire la formazione filosofica di Dante sarebbe estremamente complicato, in primo luogo l’incertezza dei dati a disposizione degli studiosi, in secondo luogo l’impossibilità di conoscere la derivazione del suo pensiero, criticamente ricco anche delle teorie di illustri insegnanti conosciuti a Firenze durante la sua gioventù: chiara è l’influenza di Brunetto Latini per la conoscenza dei classici e della letteratura francese e, soprattutto, con un’opera come il “Tresor”.

A proposito della possibilità di studio che Dante poteva avere avuto, specialmente durante l’esilio, il Petrocchi scrive: <<La biblioteca dell’Alighieri non fu certo molto ricca. La povertà del soggetto non lo consentiva, e così i continui traslochi da un luogo all’altro. Tuttavia si può opinare che possedesse una dozzina di auctores, tra classici e cristiani, un’epitome (magari una sola)storica e una geografica, o storico-geografica assieme, una piccolissima raccolta di poeti provenzali, francesi e italiani, forse le Razos de trobar di R. Vidal e la Summa di Guido Faba. Avrà consultato qualche biblioteca? Sarà andato, a Verona, nella Capitolare? Se lo avrà fatto, non avvenne certamente per scoprire classici sepolti nella polvere, per frugare nelle carte di codici dimenticati, ma per verificare luoghi ed espressioni di auctores che già conosceva>>.60

Su questo argomento le interpretazioni degli studiosi sono spesso in disaccordo: alcuni hanno sostenuto che la filosofia dantesca è prettamente scolastica e tomistica, altri hanno interpretato la filosofia di Dante basata su posizioni razionaliste di ispirazione aristotelica e tendenti all’averroismo, che proclamando l’autonomia della ragione avrebbe aperto la strada all’Umanesimo. Aristotele è sicuramente uno dei principali ispiratori del pensiero dell’Alighieri, come egli stesso riconosce in numerose citazioni, ma che volge lo sguardo all’aristotelismo cristiano di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, non tralasciando l’averroismo, tanto che il Poeta colloca in Paradiso Sigieri di Brabante; non mancano certamente impostazioni e concetti derivanti dall’agostinismo e dal platonismo.

La presenza di Sigieri nella prima corona del cielo dei sapienti da luogo a due problemi: il primo è che il pensatore averroista si trova in Paradiso presentato da T. d’Aquino, che fu suo avversario nelle dispute e contro di lui scrisse il “De unitate intellectus”; il secondo è che la morte invocata da S. , costretto a vivere sotto dura vigilanza della Curia, pare arrivare in ritardo e fu violenta. <<Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel Vico deli Strami, / silogizzò invidïosi veri>>.61 Questa è la breve presentazione che San Tommaso fa a Dante di Sigieri di Brabante, cioè la dodicesima e ultima delle luci che compongono la corona dei sapienti: Dante si trova nel quarto cielo, quello del Sole, dove gli Spiriti sapienti sono disposti in tre corone concentriche, che danzano e cantano intorno al Poeta e a Beatrice.62 Qui si trova anche Tommaso d’Aquino, il quale inizia l’elenco delle anime che formano questa prima cerchia di anime sapienti, ossia coloro che seppero essere saggi della sapienza richiesta dalle loro funzioni, partendo dalla sua destra dove si trava Alberto Magno, fino all’ultimo che si trova alla sua sinistra: Sigieri di Brabante.

Tra il 1260 e il 1265 a Parigi si diffonde l’Averroismo latino, che, come già accennato, non aveva bisogno di conciliare la fede con la ragione, poiché per Averroè la filosofia aristotelica è sapere dimostrativo e la verità è solo quella filosofica. Nel 1270 Stefano Tempier, Arcivescovo di Parigi, condannò l’Averroismo e alcune tesi tomiste, dividendo il pensiero cristiano tra i Domenicani, i quali difendevano le teorie di Tommaso d’Aquino e i Francescani che si rifacevano alle dottrine platoniche-agostiniane. Sigieri di Brabante era maestro presso la facoltà delle Arti, il quale fu sostenitore dell’interpretazione averroistica di Aristotele. Sigieri, noncurante dei contrasti tra i risultati della filosofia e gli articoli di fede, professava la dottrina della “doppia verità”, per la quale se le proposizioni di ragione sono in contrasto con quelle della fede, sono similmente accettabili per fede. Se Tommaso cercava di conciliare fede e ragione, Sigieri, invece, separa i due ambiti, non ritenendo vitali le contraddizioni tra questi.63 Nonostante la condanna del Vescovo di Parigi del 1270, Sigieri continua nel suo insegnamento, fino a quando, nel 1277 lo stesso Stefano Tempier condanna 219 proposizioni e con esse l’Averroismo e l’Aristotelismo; Sigieri venne citato dal Tribunale dell’Inquisizione con l’accusa di eresia, egli fece appello al Papa e fu costretto a restare presso la corte papale, che in quel periodo si trovava ad Orvieto, dove, tra il 1291 e il 1284, fu assassinato da un chierico che era al suo servizio.64

Fino a che punto Dante conoscesse la filosofia e le opere di Sigieri è argomento discusso tra i dantisti, comunque, come sostiene il Gilson, <<Dante, dunque, ha saputo di Sigieri almeno questo, che egli era uno dei rarissimi maestri contemporanei che si potessero scegliere per simboleggiare la filosofia pura, cioè un aristotelismo estraneo a ogni preoccupazione teologica>>, ossia una forma filosofica che il teologo-filosofo Tommaso d’Aquino non poteva rappresentare.65 <<Il minimo che Dante abbia potuto sapere di Sigieri è dunque che questo maestro aveva mantenuto una distinzione rigorosa tra ordine filosofico e ordine teologico […]almeno ci teneva a glorificarlo per aver sostenuto questa distinzione radicale tra i due ordini, ed è per questo che introduce Sigieri nel Paradiso>>.66

L’aristotelismo cristiano, di cui San Tommaso era il maggiore esponente, resta l’impronta più profonda che permea tutta la “Commedia”: <<l’amor che muove il sole e l’altre stelle>> questo è il verso che emblematicamente esprime l’aristotelismo cristiano palesato da Dante, dove aristotelicamente Dio è motore immobile del mondo, ma cristianamente è amore.

Teologia e cosmologia si collegano nella rappresentazione scolastica medievale che Dante ci fa dell’universo fisico: la struttura è quella aristotelica-tolemaica, al centro dell’universo si trova la terra sferica e immobile, circondata dalle sfere dell’aria e del fuoco, intorno alla terra ruotano , concentrici, i nove cieli materiali, oltre a questi si trova l’Empireo, il decimo cielo, immobile, immateriale, infinito, quindi non corpo ma luce intellettuale, che irradia da Dio e in cui Dio ha la sua sede nella vera e propria essenza. <<E di fronte all’angustia terrestre dei primi due regni, il Paradiso si dispone nella prospettiva delle sfere celesti, occupando l’intero sistema planetario […]Il Paradiso s’identifica con il firmamento, si converte nell’universo, partecipa dell’infinita presenza di Dio nel cosmo.E, pertanto, il viaggio di Dante si sviluppa nella successione ascensionale dello zodiaco, dal cielo della luna fino all’Empireo, dove fiorisce la candida rosa dei beati […] Forse questa di Dante è la concezione più austera della divinità unica e incommensurabile, universa e inestimabile. Il Poeta l’ha resa nella sua più sgomenta profondità, nel suo mistero insondabile. Il Dio di Dante è la categoria mentale dell’inconoscibile>>.67

L’elogio che Dante fa di Sigieri di Brabante, ponendolo accanto a San Tommaso in Paradiso, è stato causa di infinite congetture e di fiumi d’inchiostro da parte degli studiosi, proprio per le ambigue parole con cui il Poeta lo descrive e per la sua collocazione nel cielo del Sole, dove si trovano gli spiriti sapienti, dando adito ad incertezze sulla teologia e sul rapporto con la filosofia del Maestro fiorentino, soprattutto in questa terza cantica.

Maria Corti, insigne filologa, storica e dantista, propone una sua opinione per la lettura delle due terzine oggetto di tante discussioni: nel 1266 Sigieri era già conosciuto come rappresentante dell’aristotelismo radicale; nel 1270 San Tommaso scrive il “De unitate intellectus”, con cui confuta il monopsichismo,68 Sigieri risponde con due suoi scritti, ma tre anni più tardi, progressivamente il filosofo si avvicina alle posizioni dell’Aquinate, di cui fanno riscontro le ultime due opere che egli scrive (“De anima intellectiva” e “Quaestiones super librum De causis”), dove sembra, specialmente nella seconda, che ci sia un distacco dal monopsichismo. Se San Tommaso affranca Sigieri dal monopsichismo, Sigieri condiziona la formazione di San Tommaso col suo razionalismo: è così, secondo la Corti, che queste due grandi menti si influenzano a vicenda. La morte dell’Aquinate avviene nel 1274, quella del Brabantino nel 1283, Dante scrive il Paradiso circa trent’anni dopo, quando, anche nell’ambiente filosofico di Parigi, il filosofo era divenuto l’emblema dell’autonomia del pensiero filosofico laico e Dante ha seguito i suoi spostamenti quando nel 1276 fuggì da Parigi e venne in Italia, dove fu assassinato ad Orvieto. Sigieri, continua la Corti, merita di trovarsi in Paradiso ed è giusto che sia proprio San Tommaso a presentarlo al Poeta, poiché fu lui che lo guidò verso l’ortodossia e da lui comprese il concetto di filosofia separata dalla teologia.69 La Corti prende in esame anche la frase “a morir li parve venir tardo”, sostenendo che la vita del filosofo fu talmente dura che gli faceva desiderare la morte vera a quella civile. <<…prima i pensieri gravi, cioè pesanti psicologicamente che portano Sigieri a desiderare di morire del tutto; poi per antitesi la luce etterna, alquanto polisemica nella densità dei suoi richiami sia alla salvezza eterna sia all’eternità dei “veri” su cui la mente di Sigierio operò nei corsi parigini. Nelle sue sventure Sigieri ebbe dalla sorte un grande dono, l’omaggio intellettuale dei due uomini più grandi del secolo, S. Tommaso e Dante>>.70

Grandi conoscitori del pensiero medievale come Pierre Mandonnet, la cui opera diede grande impulso alle ricerche sulla filosofia del XIII secolo e, particolarmente, sui rapporti tra l’aristotelismo latino, l’averroismo e il tomismo, giungendo alla conclusione che Dante, tomista, probabilmente vide in Sigieri di Brabante un rappresentante della pura filosofia aristotelica, davanti alla quale anche un teologo come l’Aquinate poteva inchinarsi, in tal modo giustifica la presenza in Paradiso di Sigieri, di cui forse il Poeta fiorentino non conosceva con precisione la dottrina.71 Anche Giovanni Busnelli, Gesuita e studioso di Dante, fu un sostenitore autorevole della dipendenza del Maestro fiorentino da San Tommaso: per arrivare alla comprensione completa dell’arte e del pensiero danteschi, bisognerebbe avere una profonda conoscenza della filosofia e della teologia del Poeta, il quale, secondo Busnelli, aveva ripreso innanzitutto da San Tommaso e poi, tramite questo, da Aristotele e da tutti gli autori che poteva avere conosciuto: sostanzialmente fu un sostenitore di Dante tomista.72

Étienne Gilson, dopo avere confutato il tomismo dantesco di Pierre Mandonnet, nelle conclusioni della sua celebre opera “Dante et la philosophie” afferma che la presenza di Sigieri tra i beati del Paradiso è compreso nel problema più generale del rapporto tra lo spirituale e il temporale; che il Brabantino non si trova tra i sapienti come rappresentante del pensiero averroista, ma per la separazione tra filosofia e teologia avvenuta nell’averroismo latino e che tale separatismo filosofico rappresentò per Dante solo un corollario della separazione tra temporale e spirituale, ossia tra Impero e Chiesa come il Poeta idealizzava; se fosse veramente così, continua Gilson, sarebbe ugualmente sbagliato ipotizzare <<un Dante tomista per desumere da qui il suo atteggiamento verso la filosofia, o un Dante averroista per desumere da qui il suo atteggiamento verso la teologia>>.73

La “Commedia” evidenzia un Dante moralista e riformatore: egli fin dall’inizio dell’opera annuncia la venuta del “Veltro”, anche se non è chiaro chi sia, ma la sua missione è quella di giustiziere, che stabilirà l’ordine umano, rendendo il temporale all’Impero e lo spirituale alla Chiesa, sconfiggendo la Lupa, causa della cupidigia, principio dell’ingiustizia. Il trionfo della giustizia è assicurato dalla figura dell’aquila imperiale, simbolo dell’Impero e il rappresentante della Giustizia divina sulla terra è l’Imperatore. << E da questa ardente passione per la giustizia temporale ottenuta tramite l’Impero che bisogna senza dubbio risalire all’uso che D ha fatto della filosofia e della teologia. L’avversario cui pensa in modo assillante è il chierico che tradisce la sua missione sacra per usurpare quella dell’Imperatore: “Ahi, gente che dovresti esser devota / e lasciar seder Cesare in la sella, / se bene intendi ciò che Dio ti nota!” (Purgatorio, VI, 91-93)>>.74 La “Commedia”, continua Gilson, è l’opera di un poeta e come tale più vasta e più ricca delle passioni politiche del suo autore, in cui troviamo lì esaltazione di tutti i diritti divini: di quello dell’Imperatore, ma nello stesso tempo anche quello del Papa e quello del Filosofo, tutti i diritti sono partecipi come manifestazione della Giustizia divina. <<La Divina Commedia appare allora come la proiezione sul piano dell’arte, della visione di quel mondo ideale sognato da Dante, dove tutte le maestà sarebbero onorate secondo il loro rango e tutti i tradimenti puniti come meritano. E’ insomma il giudizio ultimo del mondo medievale da parte di un Dio che si informerebbe presso Dante prima di emettere i suoi ordini di cattura>>.75

Nella “Commedia” Dante ci fa vedere la Giustizia divina operante, beatificando i giusti nell’amore e annientando gli ingiusti nella sua indignazione, anche se non sempre appare oggettiva nei suoi giudizi, ma dobbiamo considerare che tale Giustizia non è altro che quella di Dante stesso, quindi si tratta di comprendere quest’uomo e la sua opera e non di giudicarli. La funzione del Poeta non è quella di favorire la filosofia o insegnare la teologia, tantomeno di addestrare l’Impero, ma quella di richiamare queste autorità al rispetto reciproco conferito dalla loro derivazione divina: quando una di queste autorità varca i limiti imposti da Dio, commette un deleterio crimine contro la Giustizia, ossia contro la più umana delle virtù, la virtù della Giustizia appare a Dante come la fedeltà verso alle suddette autorità, rese sacre dalla loro origine divina.76 <<E’ inutile pretendere di scoprire il maestro unico di cui sarebbe stato discepolo. Dante non può averne meno di tre alla volta. In realtà, in un dato ordine, egli ha sempre per capo colui che governa in quest’ordine: Virgilio in poesia, Tolomeo in astronomia, Aristotele in filosofia, san Domenico in teologia speculativa, san Francesco in teologia affettiva e san Bernardo in teologia mistica. E gli si troveranno molte altre guide. Poco gli importa l’uomo, purché in ogni caso sia certo di seguire il più grande. Questo è il terreno d’elezioni su cui sembra essersi sempre mantenuto il solo Dante veramente autentico. Se esiste, come viene assicurato, una “visione unificante”della sua opera, essa non si identifica né con una determinata filosofia, né con una causa politica, né con una teologia. La si troverà piuttosto nel sentimento così personale che egli ebbe della virtù della giustizia e delle fedeltà che essa impone. L’opera di Dante non è un sistema, ma l’espressione dialettica e lirica di tutte le sue lealtà>>.77 Nell’interpretazione di Gilson, Dante mette all’apice della piramide scientifica, non la metafisica, quale scienza divina, ma la morale, come la più umana di tutte.

Di parere completamente diverso è Bruno Nardi, il quale sostiene che Dante condivide il primato della metafisica su tutte le altre scienze come vuole la tradizione, inoltre Nardi evidenzia il motivo per cui Dante pone la morale più in alto delle altre scienze: perché la morale “ordina” le altre scienze, <<Dante dunque non contradice a quello che comunemente si pensava sul primato della Metafisica; e nel porre la Morale sopra tutte le altre scienze umane fu indotto da un motivo perfettamente aristotelico, giacché l’Etica addita all’uomo qual è il sommo bene e gl’indica la via per conseguirlo. La speculazione del vero è la più alta e più nobile operazione umana: ma il muovere l’intelletto ad apprendere le scienze speculative è proprio dell’Etica, anzi di quella parte dell’Etica che è la Politica o Etica sociale. Perciò l’Etica in generale e la Politica in particolare hanno un primato su tutte le scienze e le arti, sì pratiche che speculative, in quanto tutte coordinano e indirizzano al fine cui tutte tendono>>.78 In realtà, continua Nardi, questa non è un’idea straordinaria del pensiero medievale, poiché è sostenuta anche da altri autori come ad esempio Al-Farabi,79nel suo “Liber de scientiis”, tradotto da Gerardo da Cremona, ma anche da Alberto Magno, per cui se Dante pone l’Etica sopra la Morale non è così insolito come sembra al Gilson, il quale ritiene che nel “Convivio” la filosofia sia scolasticamente separata dalla teologia, senza essere subordinata a quest’ultima come per San Tommaso e quindi che distingua la filosofia umana da quella divina: <<Sicchè quello che il Gilson scrive, per spiegare come mai Dante, dopo aver posta la Morale sopra la Metafisica, insiste ancora sul primato della vita contemplativa, mi pare inutile sforzo di risolvere un’aporia inesistente>>.80

Anche se Dante, sostiene Nardi, non avesse avuto modo di conoscere direttamente il “Gran commento”di Averroè, che però cita molto spesso, anche se non avesse avuto la possibilità di studiare gli scritti degli averroisti, basterebbe la sua amicizia e le lunghe e abituali discussioni con Guido Cavalcanti per spiegare la sua conoscenza del pensiero averroistico: Dante conosceva molto bene la canzone del Cavalcanti “Donna mi prega”, in cui il pensiero aristotelico-averroista è evidente.81 “Donna mi prega” è una canzone dottrinale, che rappresenta il manifesto filosofico-letterario di Guido Cavalcanti, in cui egli si fa portavoce della teoria aristotelica-averroista: per il Cavalcanti il binomio amore-ragione è assolutamente fallace, perché l’amore non ha niente di salvifico, ma è un’esperienza drammatica che non rivela conoscenze e che si può vivere solamente con i sensi; un’ideologia amorosa in netto contrasto con quella che Dante esprime nella “Vita Nova”.82

<<Il Gilson, per quello che concerne Sigieri, ritiene che questi stia a rappresentare, nella Commedia, la Filosofia pura, la scienza profana separata dalla Teologia. E appunto per questa funzione rappresentativa e simbolica attribuita a Sigieri, Dante non può avere ignorato la netta distinzione che v’è, nella dottrina del brabantino, tra Filosofia e Teologia>>.83

La presenza di Sigieri di Brabante in Paradiso, Nardi la spiega dicendo che Dante valuta dal punto di vista di Beatrice, la cui figura sovrasta il quadro poetico e <<sa molto di più di quanto ne sapesse San Tommaso in terra>>, quindi l’Aquinate riconosce in Sigieri un’anima meritevole di stare insieme con lui nella corona degli spiriti sapienti. Secondo Nardi, in conclusione, San Tommaso e Sigieri di Brabante, antagonisti sulla terra, sotto la visione divina sono in una condizione di armonia e di accordo.

Comunque sia la presenza di Sigieri in Paradiso resta insolubile, ma una cosa è certa: che Sigieri di Brabante esercitò un fascino polemico sui suoi contemporanei e, con il suo razionalismo, influenzò la formazione di Tommaso d’Aquino; per Dante rappresentò colui che rivendicò l’autonomia del pensiero laico.84

Nella “Commedia”, Dante approfondisce ed estende l’idea del rinnovamento, che già è presente nelle precedenti opere, coinvolgendo in se stesso e nel suo destino individuale il rinnovamento di tutto il mondo che lo circonda: dalla religione all’arte, dalla Chiesa allo Stato. Anche se apparentemente questa grande opera è la visione profetica del viaggio del Poeta attraverso i tre regni ultramondani, viaggio che dopo aver conosciuto l’abisso del peccato, sale per la montagna del Purgatorio fino al Paradiso terrestre, dove, obliando i peccati e purificandosi nelle acque del Lete e dell’Eunoè, ha un rinnovamento completo della sua anima, che lo fa degno di portare a termine il suo viaggio attraverso le sfere celesti, fino al limitare del mistero divino. Dante non si propone di descrivere la preparazione della sua anima alla vita eterna, ma favorire il rinnovamento del mondo cui egli appartiene: nella lettera a Cangrande della Scala, afferma chiaramente che il fine del suo poema è quello di condurre alla felicità coloro che in questa vita vivono in uno stato di “miseria”, quindi il viaggio ultraterreno è quello di un uomo vivo che deve tornare tra i vivi per rendere manifesta tutta la sua esperienza, dalla quale il Poeta attende la rinascita del mondo a lui contemporaneo.85 Un ritorno alle origini <<Lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato è lo ritornare a lo suo principio>>.86

La Chiesa, secondo l’ammonimento e l’esempio di San Domenico e San Francesco, dovrà tornare all’austerità primitiva; lo Stato, rinnovandosi nell’idea imperiale di Roma, dovrà tornare alla giustizia, alla libertà, alla pace, come nell’età augustea, ed è proprio per questo che la “Commedia” è ricca di una realtà umana, perché determinata dall’intento di rinnovamento, di cui egli stesso si considera strumento insieme con la sua arte, che deve spronare stimolare gli uomini dalla loro miseria e condurli alla rinascita in un mondo rinnovato: <<Sul tramonto del Medio Evo Dante afferma, con tutta la potenza della sua arte, l’esigenza di quel rinnovamento che doveva essere la parola della rinascita>>.87

Per uno scrittore come Dante, che ha saputo sintetizzare tutto il mondo culturale cui appartenne, è ovvio che gli studiosi abbiano voluto indagare sull’origine di una cultura così vasta, che considerando la difficile esistenza che egli ebbe per molti anni della sua vita e per le precarie condizioni economiche che ebbe durante l’esilio, appare addirittura straordinaria. Tra i maggiori filologi e studiosi danteschi, Giorgio Petrocchi occupa un posto di grande rilievo e per ciò che concerne la formazione culturale del Poeta distingue tre fasi: la prima retorico-grammaticale è caratterizzata dall’insegnamento di Brunetto Latini, che non fu solo maestro di “ars dictandi” ma anche tramite della cultura francese; il secondo periodo filosofico-letterale è contraddistinto dai poeti fiorentini dell’epoca come Dante da Maiano e Guido Cavalcanti, dal nascente stilnovismo e da Guido Guinizzelli. Molto importante fu anche la frequentazione di Dante della Scuola francescana e di quella domenicana che si riunivano in Santa Croce e in Santa Maria Novella, il cui riscontro filosofico sarà evidente soprattutto nel “Convivio”. Con l’elaborazione della “Commedia”, specialmente della terza cantica, crebbe in Dante l’esigenza di una maggiore riflessione filosofico-teologica che distinse la terza fase.

Riportiamo una stupenda “pagina” del Petrocchi: <<Il viaggio d’uno spirito vivente nell’aldilà non era estraneo alla cultura medievale, e probabilmente Dante nel tracciare le linee generali del suo poema si rendeva conto che non poteva evitare il confronto con la Visio sancti Pauli, con la Navigatio sancti Brandani, con la Visio Alberici ovvero con la Visio Tungdali, col Purgatorio di san Patrizio o con i poemi di Giacomino Veronese e di Bovesin de la Riva o col Libro dé Vizi e delle Virtudi, se si vuole anche con un opera musulmana, il Libro della Scala, tradotto dall’arabo in castigliano per ordine di re Alfonso.Dato e non concesso che l’Alighieri conoscesse tutta questa letteratura escatologica (ritengo che ne avesse letto soltanto qualche campione, ma molti anni prima, sì che gliene era rimasta un’impressione piuttosto generica), certo si è che egli ha voluto fare un’opera totalmente nuova, e per ampiezza di costruzione e soprattutto per completezza, giacché tutti i luoghi di tutti i regni dell’oltretomba cristiano dovevano essere oggetto della visita del personaggio-viator, dello studio analitico del poeta-profeta della rigenerazione dell’umanità. Tutta questa letteratura escatologica, comunque sia, andava riordinata secondo schemi più organici e sicuri, staccando il rapporto terra-aldilà, supponendo sin dall’inizio, che il protagonista fosse immerso in una visio in somniis, deducendo gli scomparti della tradizione filosofica dell’aristotelismo diretto o mediato attraverso la Scuola, scoprendo un rapporto immediato tra i segmenti della struttura e i personaggi da far emergere dalla propria memoria. Le affinità, quelle poche che ci sono, con i poemi duecenteschi, integrate dalla conoscenza di rappresentazioni delle arti figurative, arricchite da un confronto diretto coi classici, possono al massimo aver dato qualche porzione d’immagine o fatto emergere qualche cosa letta; non di più. Le due vere “fonti” del poema sono l’Eneide, quale costante ricordo d’una grande esperienza letteraria di descrizione di una discesa agli Inferi, e la Bibbia, come somma di visioni profetiche annunciate nel Vecchio, vissute nel Nuovo Testamento, e come grande costruzione mistico-visionaria. Un Sacrum commercium s’instaura tra Virgilio e san Giovanni Evangelista, tra altri autore classici e san Paolo o i Padri o i mistici della tradizione benedettina o di quella francescana. Questi grandi libri erano del tutto ignoti agli indotti autori di poemi o poemetti duecenteschi, o ne avevano una pallidissima idea, e così per la Etica nicomachea e la Retorica di Aristotele, per il De officiis di Cicerone, per tutto il patrimonio morale insito in Virgilio e in Stazio, in Agostino e Bernardo, in Alberto Magno o Bonaventura o Tommaso. Pare opportuno far ritornare alla nostra memoria qualche esempio: l’idea di collocare il Paradiso terrestre sopra la cima d’un altro monte era già presente in scritti di Padri della Chiesa orientale, e così san Bonaventura aveva situato il Paradiso in un’atmosfera pura, e la struttura dell’oltretomba risponde ai tre gradi conoscitivi elaborati da san Tommaso, questo per ciò che riguarda situazione della seconda e terza cantica; il sito dell’Inferno appare più vicino, invece, alla concezione classica, secondo lo schema aristotelico-tolemaico delle colpe. Tuttavia si tratta di elementi accessori, ché tutta la topografia e geografia morale dell’oltretomba è sottoposta ad una profonda revisione, sia per quel che concerne il vario paesaggio, sia per l’animazione d’esso attraverso simboli e figure di trapassati. Insomma il discorso sulle “fonti” della Commedia finisce per tornare alla potenza creativa del suo autore, il quale utilizza episodi della mitologia classica in forma estremamente libera, situandoli nell’aldilà (così come la selva popolata dalle Arpie, la diversa collocazione dei fiumi infernali, l’utilizzazione ad esempio dell’Ete e dell’Eunoè). >>.88

Dal Trecento al Cinquecento i numerosi manoscritti delle opere di Dante, ma soprattutto della “Commedia”, testimoniano la subitanea fama dantesca e del secolo XIV sono i commenti molto accurati del poema dei figli dello stesso Poeta: Jacopo, il terzogenito, nel 1322 circa scrisse in volgare le “Chiose alla cantica dell’Inferno”, privilegiando l’aspetto allegorico; Pietro, il secondogenito, lavorò a lungo all’esegesi delle opere del padre e il suo “Commentarium”, in latino, alle tre cantiche della “Commedia” resta l’interpretazione più importante del Trecento, grazie alla profonda conoscenza del pensiero dantesco, alle frequentazioni delle dottrine scolastiche e della letteratura classica (i due figli avevano seguito il padre nel suo esilio). Molto importante il commento di Jacopo della Lana, sia per la completezza sia per l’interesse agli aspetti dottrinali, filosofici e teologici. L’anonimo “Ottimo Commento”, scritto a Firenze tra il 1330 e il 1340, è da considerare una delle più importanti esegesi del poema dantesco: questo commento occupa un posto di primo piano, poiché l’anonimo scrittore frequentava Dante e conosceva bene le sue opere, con particolare attenzione, oltre al dato linguistico, anche a quello storico e cronachistico, che questo scrittore aveva appreso, nella maggior parte dei casi, da fonti dirette. Giovanni Boccaccio ebbe un vero e proprio culto per Dante: nel 1373 tenne numerosi incontri con il pubblico, cui leggeva il testo della “Commedia”, poi intraprese un lavoro di commento, lasciato incompleto al canto XVII dell’Inferno per la sopraggiunta morte nel 1375. Curioso è l’episodio raccontato da Boccaccio quando Dante si trovava a Verona e sentendo alcune donne che lo credevano veramente ritornato da un viaggio all’Inferno, il Maestro sorrideva compiaciuto e non si preoccupava di smentirle.89

Durante l’età umanistica la fortuna di Dante è decisamente in declino: viene privilegiato il latino sul volgare e rifiutato l’allegorismo medievale, i primi umanisti fiorentini come Leonardo Bruni e Coluccio Salutati rendono omaggio all’Alighieri, perché rappresenta l’ideale del poeta civilmente impegnato; nel Cinquecento, Pietro Bembo, petrarchista intransigente, rifiutò il modello dantesco, linguisticamente troppo rozzo per i nuovi gusti dell’epoca; non mancarono, tuttavia, in questo secolo le difese a favore di Dante, come quella di Galileo Galilei.90

Tra il XVI e il XVIII secolo, con la nascita del Barocco, l’opera di Dante quasi scompare: la cultura seicentesca condanna la letteratura del passato e a maggior ragione la “Commedia”, espressione di un mondo remoto e zeppa di volgari difetti espressivi. Nel Settecento, quando si affermano gli orientamenti del razionalismo illuministico volte alla semplicità della costruzione e dell’espressione letteraria, l’opera dantesca, ricca di invenzioni espressive e intensamente strutturata, viene definita da Melchiorre Cesarotti un “mostruoso guazzabuglio”; Vittorio Alfieri, difese e subì il fascino della poesia di Dante, ricca di spiriti libertari e indipendenti e ammirò il personaggio che accettò la sofferenza e l’esilio per la difesa dei propri ideali; anche per Giambattista Vico, difese Dante e lo considerò ”toscano Omero”, per avere rappresentato un’età ricca di fantasia e di immaginazione, primitiva ma appassionata. Non è però un caso che si tratti di due grandi anticipatori del Romanticismo, che durante l’Ottocento, in Europa e poi in Italia segnò un’eccezionale rifioritura di tutte le opere di Dante, principalmente della “Commedia”, che divenne il capolavoro assoluto della cultura romanza e il fondamento di tutta la tradizione occidentale.91

Il primo sostenitore della grandezza di Dante in Italia fu Ugo Foscolo, i cui scritti diedero l’inizio alla moderna critica dantesca: l’opera di Dante è valorizzata anche in relazione agli spiriti patriottici dell’Ottocento e all’esilio che tanta importanza ebbe agli inizi del nostro Risorgimento. Con Francesco De Sanctis, che, inserisce l’Alighieri nel suo disegno storico-ideale, come portavoce di una poesia fortemente passionale, che in nome dei concreti valori umani riesce a superare il misticismo e il neologismo del suo tempo, inizia tutto quell’immenso lavoro di critica sulla “Divina Commedia” e le altre opere del Sommo Poeta.

Dante è molto presente anche nel Decadentismo e Simbolismo di fine Ottocento, per riversarsi poi, in varie forme, nella letteratura del Novecento.92

Concludiamo con le parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II la sera del 31 agosto 1997, dopo la lettura e il commento di Vittorio Sermonti dell’ultimo canto del “Paradiso”: <<A distanza di quasi sette secoli, l’arte di Dante, evocando sublimi emozioni e supreme certezze, si rivela ancora capace di infondere coraggio e speranza, orientando la difficile ricerca esistenziale dell’uomo del nostro tempo, verso la Verità che non tramonta […] Stasera siamo stati invitati anche noi a farci pellegrini dello spirito e a lasciarci condurre dalla poesia di Dante a contemplar “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”, fine supremo della storia della vita umana […] l’approdo definitivo dell’esistenza, dove le passioni si placano e dove l’uomo scopre il suo limite e la sua singolare vocazione di chiamato alla contemplazione del Mistero divino>>.93

1 Dante Alighieri, De Monarchia, III, cap. XV. L’opera è stata scritta nell’ultimo decennio di vita del Poeta.

2 Cfr. G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Milano 1972, p. 100 e segg.

3 Cfr. A. Prosperi-P. Viola, Corso di Storia, Dal secolo XIV al secolo XVII, Milano 2004, pp. 40-41.

4 Ibid.

5 Cfr. F. Gaeta-P. Villani, Corso di Storia, Milano 1979, p 161.

6 Cfr. anche F. Gaeta-P. Villani, Corso di Storia, Milano 1979, p 157.

7 Ibid.

8 Cfr. A. Prosperi-P. Viola, Corso di Storia… cit., pp. 40-41.

9 “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere.” Dante Alighieri, Convivio (inizio).

10 Per la vita di Dante si veda l’ampia ed esaustiva biografia di Giorgio Petrocchi.

11 Cfr. F. Lamendola, Vi è contraddizione fra il Dante della “Monarchia” e quello della “Commedia”?, in

http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/cultura-e-filosofia/filosofia/4500-sul-pensiero-politico.di-dante

12 Paradiso, VI, vv. 22-27.

13 Paradiso, VI, vv. 103-108.

14 <<Fiorenza dentro de la cerchia antica, / ond’ella toglie ancora terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica… >>. Inizia qui la celeberrima rievocazione dell’antica e virtuosa Fierenze, in cui si raccoglie l’utopia politica e morale di Dante rivolta al passato, che suona a condanna della corrotta realtà contemporanea. Paradiso, XV, vv. 97-99.

15Cfr. B. Maier, I canti di Cacciaguida, in “Lectura Dantis”, Modena 1986, pp. 126-128.

16Cfr. Paradiso, XVI.

17 Paradiso, XVII, vv. 58-60.

18 Cfr. G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Milano 1972, p. 116.

19 Poche e incerte le notizie su questo personaggio, molte le ipotesi dei commentatori antichi e moderni, ma nessuna attendibile. Marco Lombardo è, con probabilità, semplicemente un espediente narrativo, un portavoce delle idee dantesche circa un argomento che ha una grande centralità nella concezione etico-politica e nell’esperienza umana dell’Alighieri.

20 Purgatorio, canto XVI, vv. 106-111.

21 Nel pensiero scolastico medievale la teoria dell’influsso degli astri sull’indole umana aveva carattere di verità scientifica: i nove cieli, ruotanti intorno alla terra, avrebbero trasmesso agli uomini e a tutta la natura, per mezzo delle intelligenze angeliche, i Decreti della Provvidenza divina.

22 G.Petrocchi,VitadiDante,in https://www.liberliber.it/mediateca/libri/p/petrocchi/vita_di_dante/html/testo.htm )

23 Cfr. Purg. XVIII, vv. 121-126; Conv. IV, 16,6.

24 Inf. I, vv. 101-111.

25 Cfr. Epistola XIII, sulla cui autenticità gli studiosi hanno molto discusso.

26 Paradiso. XVII, vv: 126-142.

27 Romeo di Villanova storicamente fu ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario IV, alla cui morte amministrò la contea e fu tutore della figlia Beatrice, che sposò Carlo I d’Angiò. Morì in Provenza nel 1250. Secondo la leggenda seguita da Dante, Romeo fu un pellegrino che, reduce da Roma, si fermò alla corte del conte di Provenza Raimondo Berengario, che lo nominò siniscalco (ministro), guadagnando la riconoscenza del conte per lo scrupoloso adempimento dei suoi doveri. Ma l’invidia mosse gli altri funzionari di corte ad accusarlo di disonestà presso il conte, il quale credette a quelle voci e lo invitò a rendere conto della sua amministrazione. Romeo dimostrò di aver accresciuto il patrimonio del conte di ben il venti per cento, sbugiardando così i suoi accusatori. Tuttavia offeso dalla diffidenza del suo signore, abbandonò la corte e, povero e vecchio, andò ramingo per il mondo. Certamente il significato è autobiografico. Giustiniano dice che se gli uomini sapessero il grande dolore e insieme la fierezza di Romeo nell’andare errante, povero e vecchio, mendicando il pezzo di pane, benché lo lodino assai, lo loderebbe ancora di più. Non è difficile immaginare che il primo tra gli uomini a capire il significato delle parole di Giustiniano-Dante, perché mentre scriveva questi versi, il Maestro fiorentino aveva già provato e forse provava ancora “come sa di sale lo pane altrui e come è duro lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”.

28 A. Momigliano, Dante, Manzoni, Verga, Messina-Firenze 1955, pp. 40-59.

29 B. Nardi, Dante profeta, in “Dante e la cultura medievale, Bari 1942, pp. 293-297.

30 Ibid.

31 Paradiso, XX, vv. 55-60.

32 Paradiso XX, vv. 112-117.

33 Publio Virgilio Marone, Eneide, II, 425-427.

34 Paradiso, XXVII, vv. 22-27.

35 Paradiso, canto XXVII, vv. 55-57.

36 Cfr. M. Sansone, Canto XXVII, in “Lectura Dantis Scaligera, III, a cura di M. Marcazzan, Firenze 1967, pp. 963-969.

37 Cfr. Paradiso, XXX, vv. 130-148.

38 Cfr. E. Gioanola, Letteratura Italiana, Milano 2001, I, p. 301.

39C. Vasoli, , Il contributo italiano alla storia del pensiero, in https://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:Filosofia%29/

40Cfr. E. P. Lamanna, Il problema della scienza nella storia del pensiero, Firenze 1951, p.182-188; Appunti presi durante vari eventi e lezioni.

41 Ibid.

42 Ibid.

43 Ibid.

44 Ibid.

45 N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1991, Vol. I, p. 342.

46 Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1991, Vol. I, p. 343.

47 Ibid., p. 344.

48 Nel campo della matematica gli Arabi avevano effettuato studi approfonditi di trigonometria applicata all’astronomia e studi di algebra applicata alla geometria. Nel campo dell’astronomia avevano compiuto ricerche, basandosi sullo studio dell’”Almagesto” di Tolomeo, fondando osservatori con grandi risultati. Nel campo della fisica avevano fatto ricerche di ottica ed esperimenti alchimistici. Per l’ottica si veda anche: L. Fabbri, Nell’ottica dell’”Homo sanza lettere”, in https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2019/11/18/nellottica-dell-homo-sanza-lettere/

49 Cfr. E. P. Lamanna, Il problema della scienza nella storia del pensiero, Firenze 1951, p.182-188; Appunti personali elaborati in occasione di vari eventi e lezioni.

50 Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie…cit., pp. 349-350.

51 La prima via (passaggio dalla potenza all’atto) parte dall’osservazione del movimento delle cose naturali: se tutto ciò che si muove è mosso da altro, affinché questo procedere non vada all’infinito è necessario arrivare ad un motore primo non mosso da altro. La seconda via tratta della reciprocità delle realtà naturali tra loro: l’una agisce sull’atra producendo effetti, ma secondo Aristotele nessuna cosa può essere causa di se stessa, quindi per ogni evento bisogna ripercorrere indietro la catena delle cause e degli effetti, fino ad arrivare alla prima causa efficiente, ossia Dio (altrimenti il processo sarebbe infinito). La terza via parte dalla contingenza della realtà che ci circonda: dal nulla non si crea nulla, quindi è necessario postulare l’esistenza di un primo principio originario di tutte le cose, cioè Dio. La quarta via ha origine dall’osservazione che non tutte le cose hanno lo stesso grado di validità, infatti una cosa è più o meno buona e nobile di un’altra, ma per fare tale paragone è necessario un termine di riferimento in cui tutte le proprietà sono al massimo grado, e questo è solo Dio. La quinta via sostiene che gli eventi, anche se realizzati da corpi ed enti naturali privi di intelligenza, sono orientati verso un fine di perfezione (ordine e bellezza), ma ciò che è privo d’intelligenza non può tendere al fine se non è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, ne consegue che ci sia un essere intelligente dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine, cioè Dio. Cfr. Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, Firenze 1964, pp. 180-186.

52 Cfr. E. P. Lamanna, Il problema della scienza nella storia del pensiero, Firenze 1951, p.182-188; Appunti elaborati in occasione di vari eventi e lezioni.

53Cfr.Ibid.; Appunti presi durante vari eventi e lezioni.

54 Cfr. M. Pazzaglia, p. 202-203.

55 Ibid.

56 Cfr. C. Vasoli, Il contributo italiano alla storia del pensiero, in https://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:Filosofia%29/

57 Dante Alighieri, Convivio, libro I, cap. I

58 Inferno, canto IV, v. 131.

59Cfr. C. Vasoli, Il contributo italiano alla storia del pensiero, in https://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:Filosofia%29/

60 G. Petrocchi, Vita di Dante, in https://www.liberliber.it/mediateca/libri/p/petrocchi/vita_di_dante/html/testo.htm

61 Paradiso, X, vv. 133-138. Dante usa il verbo leggendo, infatti le lezioni universitarie consistevano principalmente nella lettura dei testi; il Vico de li Strami era la “rue de Fouarre di Parigi, dove era venduta la paglia per i cavalli, dove si trovavano le scuole di filosofia, via che era detta anche “della paglia” per la consuetudine degli studenti di sedersi nella paglia per seguire le lezioni.

62 Gli altri spiriti sapienti sono, oltre San Tommaso, Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi l’Areopagita, Paolo Orosio, Boezio, Isidoro di Siviglia, Beda, Riccardo di San Vittore, Sigieri di Brabante.

63 Cfr. G. Reale – G. Antiseri, Storia della filosofia, Brescia 1997, vol. I, pp. 653-654.

64 Ibid.

65 È. Gilson, La filosofia nella Divina Commedia, in “Dante e la filosofia”, trad. di S. Cristaldi, Milano 1996, p. 17.

66 Ibid.

67 S. Battaglia, Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Napoli 1975, pp.44-46.

68 Il monopsichismo è una dottrina che afferma l’esistenza di un’unica anima universale, di cui le singole anime individuali sono manifestazioni, tale dottrina è alla base dell’averroismo e condannata più volte dalla Chiesa.

69 Cfr. M. Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze 1982, pp. 98-101.

70 Cfr. Ibid..

71Cfr.P. Mandonnet, Siger de Brabant et l’averroisme lati au XIII siècle, Luovain 1908-11.; https://www.treccani.it/enciclopedia/pierre/mandonnet_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

72 Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni/busnelli_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

73 É. Gilson, Dante e la filosofia, Traduzione di S. Cristaldi, Milano 1996, p. 21-23.

74 Ibid.

75 Ibid

76 Ibid.

77 Ibid.

78 B. Nardi, Dante e la filosofia, in “Studi danteschi, diretti da M. Barbi, vol XXV, Firenze 1940, p. 212.

79 Cfr. Ibid., p. 214. Al-Farabi (870-950) fu un filosofo di origine turca, nacque in Transoxiana e ricevette la sua formazione a Baghdad, dove studiò logica, grammatica, scienze, diritto, esegesi, filosofia, musica, matematica. Una parte cospicua degli scritti di Al-Farabi è dedicata al commento delle opere di Aristotele, dando un grosso contributo di trasmissione della filosofia greca, arricchita da due testi che presentano oltre alla filosofia aristotelica anche quella di Platone. Non a caso gli fu attribuito il soprannome di “Maestro secondo”, ossia dopo Aristotele. Cfr. http://www3.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-online/autori/htm/

80 B. Nardi, Dante e la filosofia.., cit., p. 221.

81 Ibid. . Ibid., pp. 234-235.

82 Molto utile per questo argomento è il lavoro di Maria Corti: “La felicità mentale, Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino 1983.

83 B. Nardi, Dante e la filosofia.., cit., p. 243.

84 Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e Filosofie nella Storia, Torino 1991, vol. I, pp. 339-400.)

85 Ibid.

86 Dante Alighieri, Convivio, VI, 12, 14

87 N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e Filosofie…cit., vol. I, p. 400.

88 G. Petrocchi, Vita di Dante, in https://www.liberliber.it/mediateca/libri/p/petrocchi/vita_di_dante/html/testo.htm

89 Appunti personali presi in occasione di vari eventi e lezioni; Cfr. E. Gioanola, Letteratura italiana, vol. I, Milano 2001, 305-308.

90 Ibid.

91 Ibid.

92 Ibid.

93 M. Muolo, da “Avvenire”, 2 settembre 1997.

Diavoli e Demoni nell’Inferno dantesco

Loredana Fabbri

                                                          Il sentiero per il Paradiso inizia all’Inferno

                                                                                                             (Dante Alighieri)

<<Ed ecco verso noi venir per nave/un vecchio, bianco per antico pelo,/ gridando: “Guai a voi, anime prave!/Non isperate mai veder lo cielo:/ i’ vegno per menarvi a l’altra riva/ ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo./ E tu che se’ costì,anima viva,/ pàrtiti da cotesti che son morti”./Ma poi che vide ch’io non mi partiva,/disse:”Per altra via, per altri porti/ verrai a piaggia, non qui, per passare:/ più lieve legno convie che ti porti”./ E ‘l duca lui: “Caron, non ti crucciare:/vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare”./Quinci fuor chete le lanose gote/al nocchier della livida palude,/che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote./ Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,/cangiar colore e dibattero i denti,/ratto che ‘nteser le parole crude./Bestemmiavano Dio e lor parenti,/l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme/ di lor semenza e di lor nascimenti./Poi si ritrasser tutte quante insieme,/ forte piangendo , a la riva malvagia/ch’attende ciascun uom che Dio non teme./ Caron dimonio, con occhi di bragia/ loro accennando, tutte le raccoglie;/ batte col remo qualunque s’adagia>>.[1]

È con queste terzine che Dante ci presenta il primo demonio che incontriamo nel terzo canto dell’Inferno: il regno del peccato e delle passioni, dove i dannati mantengono il loro carattere che li contraddistinse nella vita terrena, come se fossero vincolati per sempre ai peccati e alle passioni che marchiarono di vergogna la loro vita, quasi innalzati ad accezione universale del male. L’Inferno è popolato da personaggi derivati dalla mitologia classica, dalla storia passata, recente e contemporanea al Poeta, dalla cronaca della vita quotidiana, descritti con versi di scultorea incisività, essi appartengono a tutte le classi sociali: laici ed ecclesiastici, mercanti, principi, imperatori, cardinali e papi.

Caronte o come scrive Dante Caron, secondo l’uso medievale di rendere tronchi i nomi non latini,[2] figlio di Erebo e di Notte, è il vecchio laido nocchiero che traghetta le anime dei morti dall’una all’altra sponda dell’Acheronte, dove avranno accesso al mondo dell’Oltretomba. E’ la prima figura della mitologia pagana che troviamo direttamente nella vicenda dell’opera, cui presto ne seguiranno molte altre, realizzando così il sincretismo culturale del Medioevo di cui Dante è interprete magistrale. Sconosciuto ad Omero e ad Esiodo,  Caronte è una figura comune dell’aldilà dei Greci, dei Romani, degli Etruschi, egli accoglie con parole crudeli le anime, i suoi occhi terribili sembrano sprigionare fiamme, raccoglie le anime nella nave e le colpisce col remo se si attardano. Questo Demonio deve la sua fama a Virgilio, che lo descrive nel libro VI dell’”Eneide”, durante la discesa agli Inferi di Enea, ma la narrazione è più descrittiva e pittorica, quella di Dante, sulla falsariga di ciò che scrive Virgilio, risulta più drammatica e più impressionante, accentuando i tratti demoniaci del traghettatore e facendone uno strumento della giustizia divina.

Dante, riprendendo dalla cultura del suo tempo, segue la teoria tolemaica del geocentrismo e immagina la terra, al centro dell’universo circondata da nove sfere celesti ruotanti di moto diversamente veloce attorno ad essa, sedi dei pianeti: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Saturno, più una per le Stelle fisse e un’altra costituita dal Primo immobile, che trasmette il moto a tutti i cieli sottostanti: è l’Empireo, sede immobile di Dio. La terra, inoltre, è suddivisa in due emisferi, ma solo quello a nord è abitato dall’uomo e limitato ad est dal Gange e ad ovest dalle Colonne d’Ercole, mentre quello australe è interamente ricoperto dalle acque. Questa fantastica cosmologia è derivata dal Poeta in parte dalla scienza e dall’iconografia pagana e cristiana, in parte inventata e rappresenta l’intento di strutturare in modo organico tutto l’aldilà, basandosi su principi più vicini alla razionalità. Questo complesso cosmologico risulta perfettamente combinato con il sistema etico, che stabilisce il luogo e la peculiarità delle pene o delle beatitudini. Al centro di questa macchina sta, immobile, la terra, sede dell’uomo, sulla quale, quindi, piovono dall’alto le influenze celesti, mentre dal basso, dall’interno della terra dove dimora, sale l’influsso di Satana.

La “Commedia” fa parte della vasta tradizione dei viaggi oltremondani, Dante, però, all’inizio del suo pellegrinaggio, nomina solo due personaggi che hanno compiuto il viaggio nell’aldilà prima di lui: Enea e San Paolo, pur conoscendo altri viaggi nell’oltretomba presenti sia nella letteratura antica e tardo antica sia in quella cristiana. Come guida per l’Inferno e il Purgatorio sceglie Virgilio, cantore delle gesta di Enea, il quale fu il capostipite della discendenza da cui avrà origine l’Impero universale.[3] Il poeta latino fu molto ammirato nel Medioevo, tanto da considerarlo un poeta mago-taumaturgo o un “cristiano”, che avrebbe profetizzato la nascita di Cristo, come vogliono varie leggende, ma è nota l’inclinazione del tempo a modificare la realtà storica: i personaggi dell’antichità classica sono frequentemente equiparati a quelli contemporanei, a causa dello scarso senso della cronologia, questo non è il caso del Virgilio dantesco, in cui non troviamo carattere arbitrario, ma una base preziosa e una sintesi emblematica di tutta la classicità sia per la formazione letteraria e culturale sia per gli insegnamenti morali: Virgilio è per Dante il massimo “auctor”, <<”O de li altri poeti onore e lume / vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume. / Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore; / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore.>>.[4] Da questi versi si può desumere quanto sia importante per il Poeta la letteratura antica, posta quasi allo stesso livello della Bibbia, infatti si rivolge alla sua guida e gli chiede se il suo valore è adeguato a compiere un tale viaggio, ossia dal mondo mortale a quello immortale, Enea era disceso agl’Inferi, in quanto investito di una missione divina: fondare Roma e l’Impero. Se Dio fu così benigno con lui, pensando alle straordinarie conseguenze che ne sarebbero derivate, non deve sembrare contro ragione, Enea fu scelto da Dio nell’Empireo come padre di Roma e del suo Impero, destinati come luogo santo dove risiede il successore di Pietro.

Poi anche San Paolo andò ancora vivo nell’aldilà per trarne sostegno a quella fede cristiana, fondamentale per la salvezza. L’Alighieri, continua dicendo a Virgilio che lui non è né Enea né San Paolo, quindi per quali meriti dovrebbe fare un tale viaggio, poiché lui stesso non si reputa degno di tutto ciò.[5] Dante è il protagonista del suo viaggio oltremondano, nei precedenti testi latini invece è sempre un eroe ad affrontare la catabasi, perché dai classici era considerata un’impresa fatale, ma quello del Poeta fiorentino non è un viaggio eroico, che vuole celebrare la gloria del protagonista, ma un pellegrinaggio necessario per la sua salvezza, che diverrà esempio per tutta l’umanità.

Dante immagina l’Inferno come un’immensa voragine sotterranea a forma di tronco di cono, con la parte terminale (base minore) prossima al centro della terra, mentre la parte più ampia (base del cono tronco) è situata sotto Gerusalemme ad una distanza non precisata. Le pareti della voragine sono incise orizzontalmente a corone circolari, che formano nove ripiani concentrici, che vanno via via restringendosi come le gradinate di un anfiteatro, le loro coste, franate a causa del terremoto che accompagnò la morte di Cristo, permettono la discesa dall’uno all’altro.

I dannati sono distribuiti dall’alto verso il basso secondo lo schema aristotelico dell’”Etica Nicomachea”, che distingue tra i peccati d’incontinenza, puniti nei gironi dal secondo al quinto (lussuria, gola, avarizia, e prodigalità, iracondia e accidia), perché meno gravi; e i peccati di malizia, più gravi perché commessi consapevolmente, sono puniti nella zona più profonda, oltre le mura della città di Dite. Nel sesto cerchio troviamo gli eretici e nel settimo i violenti, nell’ottavo i fraudolenti e nel nono i traditori. Per questa disposizione dei dannati, Dante segue, se pure con estrema libertà e straordinaria capacità di elaborazione, anche il “De officiis” di Cicerone e il pensiero teologico di San Tommaso.

Le pene sono stabilite dal Poeta secondo la tradizione giuridica medievale e conformi alla consuetudine del diritto del suo tempo, basato sulla legge del taglione, sulla legittimità della violenza e della vendetta. I peccati sono puniti con una pena, che, per attinenza o per antitesi, si ricollega alla colpa commessa: la legge del contrappasso.

Nell’Inferno Dante descrive e rappresenta il male, il peccato, ossia l’elemento negativo e il sentimento dell’anima cristiana non può essere che di repulsione; ma rappresenta anche il bene, il divino che fa percepire l’aiuto, il conforto, la speranza a colui che intraprende questo viaggio ultraterreno. Il Poeta fiorentino è protagonista nell’Inferno, poiché attraversa la voragine, parla e avversa i dannati, ma è un protagonista statico, rispetto all’azione generale della cantica, perché in lui non avvengono mutamenti: alla fine del baratro egli è quello che era prima. Il viaggio nell’Inferno è un’esperienza sempre invariata, mentre il viaggio attraverso il Purgatorio porta Dante alla completa purificazione nelle acque dei due fiumi divini.[6]

Nella Divina Commedia l’Inferno è caratterizzato dal dramma, consistente anche nei rischi  cui va incontro il Poeta, dall’interesse dei personaggi per le vicende terrene a cui sono ancora strettamente vincolati, dalla varietà ed originalità con cui essi sono delineati; succede poi un Purgatorio, dove questi interessi si affievoliscono o vengono meno; poi un Paradiso in cui predomina la contemplazione intellettuale e dove Dante cerca di far fronte alla freddezza artistica e di suscitare l’interesse dei lettori con alte discussioni filosofiche, ma piuttosto estranee agli affetti umani. Molto interessante è il giudizio espresso da Giacomo Leopardi sulla “Commedia”, scritto nello “Zibaldone”: <<…inseriva l’accenno al progressivo impoverimento umano e poetico della Commedia in una lunga considerazione sul cristianesimo “più atto ad atterrire che a consolare, o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza”; perché all’infelice che “si trova impediti quaggiù i suoi desideri, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l’adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna” parlano con evidenza non “la promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera”, che egli “non può comprendere, né immaginare, né pur concepire o congetturare, in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione…”, ma la minaccia e la natura dei castighi e mali di cui egli ha purtroppo esperienza. Così “Dante che riesce a spaventar dell’Inferno, non riesce, né anche poeticamente parlando, a invogliar punto del Paradiso”>>.[7]

La cultura di Dante è medievale e scolastica, il suo pensiero filosofico oscilla tra Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, il quale viene posto in Paradiso nel gruppo degli spiriti sapienti, nonostante la condanna ecclesiastica.[8] Il Poeta si forma sui testi e sulle dispute che prevalevano nelle “scholae”, ma non conosciamo quasi niente sul corso di studi di Dante e sui testi da lui letti: attraverso le sue opere, come il “De Vulgari eloquentia” o la “Vita Nova”vediamo nominati, oltre Virgilio, suo “maestro” e suo “autore”, tra i poeti classici Ovidio, Stazio e Lucano, compaiono anche i nomi di Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio, i quali erano già presenti e diffusi nelle “scholae”, ma in Dante ci fanno capire come egli si fosse impadronito della cultura classica, anticipando i tempi ed elaborandola personalmente, un esempio lo abbiamo nel Limbo, dove parla dei grandi spiriti dell’antichità e menziona Omero <<che sovra li altri com’aquila vola>>,[9] che Dante non conosceva direttamente e non godeva di alcuna autorevolezza nel mondo medievale. È impossibile citare gli autori e le fonti di cui Dante si avvale nella Commedia, solo dopo un’attenta lettura di tutta l’opera possiamo farci un’idea delle conoscenze enciclopediche del Poeta fiorentino: del mondo classico, di quello medievale, delle speculazioni dottrinarie, della cultura francese e provenzale in lingua d’oc e d’oil, della lirica trobadorica, dei Cicli bretone e carolingio e della poetica italiana dalla Scuola siciliana allo Stil Novo.

 Quando il comune di Milano era impegnato nella guerra vittoriosa contro il Barbarossa, Firenze non aveva ancora raggiunto una posizione rilevante nel quadro politico italiano, ma un secolo dopo, la città era diventata uno dei più importanti centri economici non solo dell’Italia, ma di tutta l’Europa, contraddistinto da un ragguardevole numero di imprese e da una potenza finanziaria elevata, tra i mercanti fiorentini il commercio dei panni-lana era quello più esercitato: la materia prima e il manufatto semilavorato veniva importato dalla Francia, dalla Fiandra e dall’Inghilterra, a Firenze veniva raffinato e poi riesportato nei mercati italiani ed orientali. Questi mercanti non operavano singolarmente, ma erano organizzati in compagnie e questo consentiva loro di esercitare una vasta varietà di affari e una grossa disposizione di capitali, che consentì lo sviluppo di un’attività bancaria con altissimi profitti, questa attività fu incrementata, nel 1252, con la coniazione del Fiorino d’oro, una moneta a 24 carati, che si affermò rapidamente per i pagamenti internazionali, consentendo ai mercanti-banchieri fiorentini un enorme volume d’affari in tutta Europa. Verso la metà del Duecento la borghesia fiorentina era organizzata in sette “Arti maggiori”, in cinque “Arti medie” e nove “Arti minori”, ai rappresentanti di queste associazioni era affidato il governo di Firenze, poiché erano capaci di far fronte alle consorterie dei nobili. Le nuove forze economiche della città assunsero, quindi, direttamente il controllo politico su di essa a partire dalla seconda metà del ‘200.[10]

Le lotte tra i ghibellini, sostenitori del partito imperiale, e i guelfi, sostenitori del papa conclusosi con la definitiva vittoria di questi ultimi dopo il 1266, non arrestarono la crescita del ruolo delle arti nell’organizzazione politica della città: le vicende delle lotte di fazione a Firenze ebbero più importanza nell’ambito di una storia regionale di quello relativo all’evoluzione sociale e politica della città, infatti il sopravvento dei ghibellini al tempo di Federico II, il risveglio guelfo dopo la morte dell’Imperatore, quando i ghibellini esiliati, comandati da Farinata degli Uberti, furono vittoriosi nella battaglia di Montaperti, la definitiva affermazione dei guelfi dopo la morte di Manfredi, furono tutti avvenimenti dai quali si andò sempre più accentuando l’affermazione delle arti come elementi di governo, al di là dell’alternanza dei partiti al potere. Nel 1282 si costituì il governo dei Priori delle Arti (prima in numero di tre e poi di sei) che sostituì quello dei magistrati precedenti, i sei priori, eletti dalle arti, rappresentavano i sei “sesti”, ossia le sei ripartizioni topografiche della città. Con gli “Ordinamenti di Giustizia”, voluti da Giano della Bella nel 1292 e approvati nel 1293 i magnati (i cavalieri) furono esclusi dalle cariche pubbliche. La vittoria del ceto dei grandi mercanti poteva così dirsi completata. In seguito questa legislazione venne moderata e fu concesso ai magnati di accedere alle cariche pubbliche purché si iscrivessero ad un’arte, questo fu il caso dell’Alighieri che si iscrisse all’arte dei medici e speziali, ovviamente si trattava di una iscrizione puramente formale, ma ciò significava che i membri delle famiglie magnatizie potevano governare solo a nome e nell’interesse delle arti. Quando la borghesia fiorentina non pensa a far la guerra, pensa a far denaro, perfino i palazzi dei ricchi sono costruiti con criteri molto funzionali: a pianterreno i magazzini per i commerci, in alto le torri e gli spalti per la difesa.[11]  

Nonostante i disaccordi, Firenze è una città prospera, dove il denaro scorre abbondantemente e dove gli abitanti cominciano a scoprire gli agi del vivere: le case degli abbienti sono ancora spoglie, ma si comincia a tappezzare le pareti e a dotare i letti di lussuosi copriletti; i pasti sono più elaborati ed abbondanti, con carne, vino, spezie, sempre presente è la selvaggina, essendo la caccia un’inclinazione tradizionale dei Toscani, anche se sulle tavole mancano posate e tovaglioli, ma frequente è la presenza di un buffone o di un novellatore, nelle occasioni solenni intervengono anche i suonatori di vari strumenti. Da tenere in considerazione che la musica fa parte delle Arti liberali del Trivio e del Quadrivio e le persone colte sono tenute a conoscere almeno gli elementi fondamentali.[12]

L’infanzia di Dante trascorse sicuramente in Firenze, ad eccezione di alcuni brevi periodi passati a Camerata e a San Miniato a Pagnolle, poderi di proprietà degli Alighieri insieme con due appezzamenti di terreni, che costituivano il patrimonio della famiglia. Furono anni travagliati dalle lotte politiche, dalla morte della madre Bella (Dante aveva circa dieci anni), di adattamento ad una nuova vita familiare dopo il secondo matrimonio del padre e degli affari sbagliati e non sempre legali del genitore, che sembra essere stato un uomo mediocre e su di lui ci furono “voci” sgradevoli, tra queste quella di essere accusato di usura, “voce” raccolta e sparsa da Forese Donati, che, se vero, non dovette dare molti frutti, perché alla sua morte, i figli si trovarono in condizioni finanziarie molto modeste. Della madre, Bella, il Poeta non ne parla, nonostante le donne dantesche rappresentino l’amore, come quello folle di Francesca da Rimini o quello deformato dall’odio di Sapìa da Siena, ma nessuna rappresenta l’amore materno.

La prima formazione culturale avvenne in una delle varie scuole private della città, probabilmente quella del “doctor puerorum” della scuola più vicina alla casa degli Alighieri, in San Martino, in seguito frequentò gli studi del Trivio e del Quadrivio, ultimo ordine di studi laici per una città come Firenze priva di Università. Dante impara anche a scrivere versi, arte sperimentata da tutti gli intellettuali di Firenze, come anche dal suo maestro più noto, Brunetto Latini, Notaio della Repubblica, oltre che politico, scrittore e poeta: fu quindi una delle figure più rappresentative nella Firenze del XIII secolo. Il fatto che Dante lo consideri suo maestro, forse non si riferisce ad un maestro di una scuola vera e propria frequentata da lui stesso, ma al fatto che Brunetto fu maestro di retorica, di morale, di politica per tutta la città fiorentina e l’Alighieri ammirò molto quest’uomo colto, esperto di “ars dictandi” e teorico della politica, ne divenne suo amico e apprese da lui l’amore per il sapere.

Nella seconda metà del Duecento, Firenze è una libera Repubblica, predominata dall’elemento borghese, teoricamente soggetta all’autorità imperiale, ma è il tempo della “grande vacanza” dell’Impero e l’aristocrazia di sangue ha ceduto il passo a quella del denaro: anche il modo di poetare, lo Stil Novo, che trova in Dante il più grande esponente, rappresenta un ambito dove il mito della nobiltà di nascita è decaduto, il “cor gentil”cantato dai poeti, sull’esempio di Guido Guinizzelli, non è per nobiltà di sangue, ma per valori morali indipendenti dalla nascita.[13]

Il famoso atto notarile del 9 febbraio 1277 ci informa delle trattative prematrimoniali, con le quali Gemma Donati, che all’epoca aveva circa dieci anni, veniva promessa a Dante dodicenne, e viene fissato l’ammontare della dote: duecento fiorini piccoli, non era una grande somma, ma le doti venivano calcolate in base al patrimonio del futuro sposo; inoltre Gemma apparteneva ad una delle famiglie più in vista di Firenze e allearsi con i Donati era socialmente prestigioso: tanta precocità rientrava nell’usanza dell’epoca che vedeva nei matrimoni un’alleanza fra gruppi familiari. Il matrimonio sarà celebrato più tardi, tra il 1283 e il 1285 circa.[14]

Secondo la “Vita Nova”, Dante incontra Beatrice all’età di nove anni e si rivedono nove anni dopo, se, come sembra accertato, Beatrice è la figlia di Folco Portinari, importante cittadino e fondatore dell’ospedale di Santa Maria Nuova, i due incontri sono probabilmente un’invenzione poetica dell’Alighieri, perché le loro abitazioni si trovavano molto vicine e per quanto fossero rigide le regole di vita di una ragazza del XIII secolo, non sarebbero mancate le occasioni per incontrarsi. Il Poeta non parla dell’aspetto fisico di Beatrice se non per dire nel Purgatorio che i suoi occhi sembrano degli smeraldi e nel Paradiso dice che la sua fronte è così bianca da distinguere appena una perla che vi ricadeva come era la moda del tempo, comunque un matrimonio tra i due era impensabile: Dante era promesso a Gemma Donati e Beatrice andò sposa a Simone de’ Bardi e morì a soli venticinque anni circa nel 1290.[15]

Della cerchia di amici stilnovisti di Dante facevano parte Lapo Gianni e Cino da Pistoia, ma i due amici più cari furono Forese Donati e Guido Cavalcanti: due personalità completamente diverse, il primo era la dissennatezza personificata, il secondo la saggezza, Forese, detto eloquentemente “Malefami”, è il compagno di baldorie, del periodo della vita dissoluta di Dante e nonostante l’amicizia non si risparmiano certo le frecciate e le insinuazioni maligne, ne è una prova la celeberrima “Tenzone” composta da tre sonetti dell’Alighieri e dalle rispettive risposte del Donati, in cui i due poeti si scambiano insulti e ingiurie in tono comico conforme al genere mediolatino dell’”improperium”e della “tenso”. Guido Cavalcanti, maggiore di Dante di dieci anni, aristocratico, altero, amante della solitudine e sprezzante dei piaceri volgari, lo rimprovera per il suo modo di vivere e lo allontana da una vita biasimevole.[16]

            Nel 1289, l’Alighieri partecipa alle battaglie di Campaldino contro i ghibellini d’Arezzo (giugno) e a Caprona, per la resa del castello occupato da milizie pisane (agosto), il suo impegno politico era stato fino ad allora insussistente, sia per i suoi impegni letterari sia perché non avrebbe potuto esercitarlo data l’esclusione della nobiltà, anche se piccola come quella degli Alighieri, dagli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, solo dopo i “Temperamenti” autorizzati nel 1295, che concessero alla nobiltà di poter partecipare alla vita politica, a condizione di far parte di una Corporazione o Arte, si aprì per Dante una nuova prospettiva di vita.

Dopo essersi iscritto, quello stesso anno, alla Corporazione dei Medici e degli Speziali, dal novembre all’aprile 1296 egli fa parte dei Trentasei del Capitano del Popolo; viene ascoltato dal Consiglio dei Savi per i suoi autorevoli consigli e nel mese di maggio fa parte del Consiglio dei Cento, dove prende subito posizione contro la politica filo-papale di Corso Donati, schierandosi con l’ala più democratica e filo-popolare dei consiglieri. Dante parteggia, anche se con una visione molto personale, per i Cerchi, avversando le mire espansionistiche di Bonifacio VIII sulla Toscana, la parte popolare prevale e i Cerchi estendono il loro potere, Corso Donati viene allontanato da Firenze, anche in seguito ad uno scandalo e il Papa è intento ad un grande evento religioso: il primo Giubileo, che si svolgerà da Natale del 1299 a tutto il 1300. Roma fu meta di numerosissimi pellegrini provenienti da tutte le parti d’Europa: la tradizione vuole che Dante sia stato tra questi, basandosi soprattutto sui ricordi che il poeta ha della Città eterna, specialmente della descrizione che egli fa dei pellegrini che attraversano il ponte di Castel Sant’Angelo in doppio senso di marcia,[17] sicuramente sappiamo che nei primi mesi del 1300, Dante si recò a San Gimignano su incarico del governo dei Bianchi, per convincere i membri di questo Comune a partecipare alla riunione generale dei Guelfi toscani, per organizzarsi contro la pressante politica di Bonifacio VIII e del suo solidale Corso Donati, politica che si aggravò con la nomina pontificia di Matteo d’Acquasparta a legato papale per la Toscana, la Romagna e altri luoghi d’Italia. Con l’arrivo a Firenze del Legato pontificio, la situazione per i Bianchi e particolarmente per i Cerchi divenne molto critica, furono rinnovate le cariche dei Priori e l’Alighieri venne nominato tra i sei Priori per il periodo 15 giugno – 15 agosto e da qui cominciarono i guai per il Poeta, come egli sostiene in un’epistola andata perduta: <<Tutti mali e l’inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio>>.[18] Proprio in quel periodo scoppiò un cruento scontro tra i Grandi e i popolani, era la sera del 23 giugno, vigilia di San Giovanni, i priori furono costretti a prendere una decisione drastica e mandare al confino i capi dei Neri e dei Bianchi.

Nel 1301, Dante ha ormai assunto una posizione irremovibile contro il Pontefice, capitanando l’ala estrema e antipapale dei Bianchi, che ormai non hanno speranze, dopo l’accordo di Bonifacio VIII con Carlo di Valois stipulato ad Anagni il 5 settembre, utilizzando per i propri fini la spedizione nel territorio italiano del Principe francese, consapevoli del pericolo, i governanti fiorentini inviano un’ambasceria al Papa, di cui farà parte anche l’Alighieri, che sarà trattenuto a Roma dallo stesso Bonifacio, mentre gli altri due ambasciatori tornano a Firenze.

Il primo novembre Carlo di Valois con le proprie milizie entra in Firenze e rientrano anche tutti i Neri e Corso Donati; il 7 ha luogo l’insediamento della nuova Signoria, tutta composta dai Neri e cominciano i processi contro i Bianchi. Dante non si trova più a Roma e non sappiamo se riesce a tornare nella sua città e poi fuggire, certamente non si trova a Firenze nel gennaio 1232, poiché il Podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio firma la prima sentenza di condanna contro il Poeta e altri Bianchi il 27 gennaio, con l’obbligo di presentarsi per rendere conto delle proprie azioni e pagare una sanzione, pena l’interdizione dalle cariche pubbliche e due anni di confino: nessuno si presentò e il 10 marzo il Podestà emise la condanna a morte per Dante ed altri quattordici Bianchi. Cominciano così i difficili e gravosi anni d’esilio per questo grande personaggio, che ripone tutte le sue speranze nell’Imperatore Arrigo VII, ma rimase deluso perché invece di muovere subito verso Firenze, come egli sperava, Arrigo VII prende la strada verso Roma.[19]

La vita di Dante è, dunque, quella di un intellettuale impegnato nella vita culturale, politica e sociale del suo tempo, favorito dal clima di libertà della civiltà comunale, che consentì agli intellettuali di sentirsi parte integrante della società e nel caso dell’Alighieri di concepire la cultura come uno strumento di battaglia per il rinnovamento e la difesa dei più alti ideali umani: egli vide il disgregarsi dei valori religiosi, morali e politici del Medioevo, in cui credeva fermamente e si sentì investito della missione di difenderli e restaurarli, richiamando ai loro doveri il Papa e l’Imperatore, rimproverando duramente Guelfi e Ghibellini, principi e prelati, biasimò la corruzione umana e auspicò la venuta del “Veltro”, ossia di un grande riformatore che avrebbe restaurato gli antichi valori perduti.

Nel 1310 la discesa dell’Imperatore Arrigo VII in Italia sembra, come già detto, una risposta alle speranze di Dante, ma la sua venuta si rivelò presto un fallimento e dopo avere cinto la corona ferrea a Milano, solo dopo diciotto mesi poté cingere la corona a Roma, ma nell’estate del 1313 si ammalò e morì improvvisamente, mettendo fine all’ultima speranza del Poeta.

Dopo questa breve e non esaustiva, ma necessaria panoramica su Dante e il suo tempo, riprendiamo il discorso relativo all’Inferno e ai demoni che il Poeta troverà durante il suo cammino a fianco della sua guida.

Molte divinità sotterranee della mitologia pagana antica compaiono nell’Inferno dantesco, trasformati in mostri o demoni per suscitare terrore, spavento. All’inizio del V canto troviamo Minosse, che nella mitologia classica era il re di Creta, famoso anche come legislatore: figlio di Giove e d’Europa, ebbe vari figli, tra i quali Androgeo, il quale fu ucciso dagli ateniesi invidiosi della sua bravura di ginnasta: ne scaturì una guerra vendicatrice. Minosse, nel rito propiziatorio, per ingraziarsi il favore divino, avrebbe dovuto sacrificare a Giove uno splendido toro che Nettuno aveva fatto uscire dal mare, ma lo cambiò con un altro meno bello, così l’ira di Giove si scagliò contro la moglie del re di Creta, Pasife, facendola innamorare del toro. Da tale orrenda unione nacque un mostro, il Minotauro. La guerra fu vittoriosa per Minosse e gli Ateniesi furono obbligati a inviare a Creta ogni anno sette giovanetti, come premio nell’anniversario dei giochi istituiti in memoria di Androgeo, quando poi il Minotauro venne rinchiuso nel labirinto costruito da Dedalo, i giovanetti venivano uccisi dal mostro, fino a quando Teseo, con l’aiuto di Arianna, liberò Atene da questo obbligo. Dante conosceva questo mito, per la narrazione della guerra contro Atene e i Megaresi nelle “Metamorfosi” di Ovidio e per la loro diffusione nella maggior parte dei poemi latini.[20]

Minosse fu famoso come legislatore e come giusto: sembra che per primo abbia introdotto le leggi a Creta; dai poeti antichi, compreso Virgilio, fu indicato come giudice dell’Ade con Eaco e Radamanto, tuttavia Dante lo tramuta da giudice dei morti a quello dei dannati, facendogli assumere tratti demoniaci non riscontrabili nella tradizione classica, pur restando strumento della superiore volontà divina, in quanto giudice infallibile e inflessibile. <<Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: / essamina le colpe ne l’intrata; / giudica e manda secondo ch’avvinghia. / Dico che quando l’anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa; / e quel conoscitor de le peccata / vede qual loco d’Inferno è da essa; / cignesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa.>>.[21]

Il Minosse della Divina Commedia ha le sembianze del grottesco, ma non del comico, specialmente per la lunga coda, peculiarità assente in Virgilio, con la quale si cinge il corpo tante volte corrispondenti al numero del cerchio dove il dannato deve essere situato, la natura demoniaca dell’antico re di Creta scaturisce anche dall’avvertimento minaccioso, sotto forma di giusto consiglio che rivolge a Dante, e che in realtà serve ad alimentare i dubbi che avevano turbato l’Alighieri e ad insinuargli dei sospetti verso Virgilio.[22]

Nel suo percorso ultraterreno, Dante usa espressioni molto affettuose verso Virgilio, gli studiosi si sono chiesti i motivi della scelta dell’antico poeta come guida: forse perché è stato il cantore dell’Impero? O perché tra gli scrittori antichi menzionati nel “De Vulgari Eloquentia” certamente Virgilio detiene il primo posto? In epoca medievale egli fu ritenuto non solo un grande conoscitore del regno dei morti, ma fu considerato, lui pagano, un attendibile profeta di Cristo. <<Del resto a chi consideri la questione da un angolo schiettamente umano, non può sfuggire quanto vi è di commovente in questo cercar rifugio nell’amicizia d’un poeta vissuto tredici secoli avanti, proprio quando l’amicizia dei coetanei – una corda così vibrante nell’anima dantesca – vien meno, vinta dalla morte o dalla lontananza. Quanto al valore allegorico di Virgilio, si è forse troppo ripetuto che rappresenta la Ragione umana. Forse hanno visto più giusto quanti ravvisano in Virgilio la rappresentazione della Poesia intesa come Arte in generale. […] Maggiore interesse suscita Virgilio come uomo. E’ senza dubbio uno dei personaggi della Commedia più ricchi di sfumature, di complessità, anche di mistero. Una grave malinconia l’accompagna ovunque; essa nasce dal sentirsi escluso dalla Grazia. Nel regno dei morti, siano essi i dannati o le anime penitenti che attendono la salvezza, Virgilio passa come un estraneo, uno di fuori, ben sapendo che al termine del cammino tornerà alla quiete opaca del Limbo. Di qui i suoi silenzi, i suoi profondi turbamenti, quel tanto d’inespressivo che l’avvolge, per servirci d’un termine moderno, quasi d’un alone d’incomunicabilità. Dante accanto al maestro è un estroverso: grida i suoi entusiasmi e le sue paure, dibatte i suoi dubbi, recrimina, protesta, si racconta. Ma Virgilio rimane chiuso in se stesso. Il suo segreto , simile alla veste bianca che gl’illustratori popolari gli dettero, l’avvolge come una nube>>.[23]

Nel sesto canto dell’Inferno, (terzo cerchio), oltre a farci conoscere la biasimevole situazione politica di Firenze, Dante ci presenta un altro demonio, Cerbero, guardiano di coloro che in vita peccarono d’ingordigia e ora sono condannati in eterno a stare sotto una pioggia scura e maleodorante, mista a grandine e neve. Anche Cerbero è un mostro mitologico a tre teste, figlio di Tifeo e di Echidna, collocato a guardia dell’Ade, già descritto da Virgilio e da Ovidio, ma dal primo con i tre colli avvolti da serpenti e dal secondo con la bava velenosa; Ercole riuscì a catturarlo e a trascinarlo fuori dall’Ade. In Dante lo vediamo custode di un solo cerchio dell’Inferno, quello dei golosi, con caratteristiche mostruose molto accentuate e in relazione col peccato della gola: ha gli occhi vermigli, simbolo dell’avidità, la barba unta e nera, il ventre largo per l’insaziabilità, le mani dotate di artigli per afferrare il cibo e tormentare i dannati graffiandoli, spellandoli e facendoli a pezzi; emette dei latrati come un cane rabbioso.

Anche per descrivere Flegiàs, il Poeta prende spunto dalla mitologia classica e ne fa un demonio infernale, che poco ha a che vedere con Caronte, perché non è chiara la funzione che ha:  quella di traghettatore della palude Stigia, in tal caso richiamerebbe il compito di Cerbero, o quella del custode degli iracondi e accidiosi, condannati nel quinto cerchio, o entrambe le mansioni? Se  fosse quest’ultimo caso, il compito sarebbe molto adeguato, visto che etimologicamente il suo nome si accosta al verbo greco “flégo” che significa incendio, e, quindi, chi meglio di lui, incendiario, potrebbe avere il compito di imbarcare le anime e introdurre a Dite, la città del fuoco.[24] Flegiàs non ha peculiari caratteristiche fisiche come i precedenti demoni, ma è il simbolo dell’ira. Già ricordato da Virgilio nell’”Eneide” (Eneide, VI, vv. 618-620) e da Stazio nella “Tebaide” (Tebaide, I, v. 713 e segg.), fa parte della mitologia greca, figlio di Marte e di Crise, fu re dei Lapiti, per vendicare la figlia Coronide, sedotta da Apollo, appiccò il fuoco al tempio del dio a Delfi e per questo motivo fu sprofondato nel Tartaro.

Quando Dante e Virgilio giungono sotto le mura infuocate di Dite, vengono sbarcati da Flegiàs davanti all’ingresso, dove subito si affolla una grande quantità di diavoli: <<Io vidi più di mille in su le porte/ da ciel piovuti, che stizzosamente/ dicean: “Chi è costui che sanza morte/ va per lo regno de la morta gente?”>>.[25] Virgilio è costretto a trattare con loro, che corrono a sbarrare le porte della città. Questi diavoli non sono i demoni mitologici “adattati” in ambito cristiano, ma sono diavoli veri, che in epoca medievale gli uomini erano soliti vedere scolpiti sui capitelli delle colonne dei templi o dipinti nelle chiese, che, con il loro aspetto inquietante, accrescevano la paura delle pene dell’aldilà. Sono diavoli determinati e molto arrabbiati per il privilegio di cui gode Dante: vivo tra i morti, questo loro atteggiamento getta nello sconforto il Poeta e Virgilio è costretto a venire diplomaticamente a trattative con loro.

Nonostante Dite sia la città del fuoco, non ci sono grandi fiammate, poiché il Maestro fiorentino riserva il fuoco per gli eretici, posti in arche infuocate; per i violenti contro Dio distribuiti nel sabbione arido, dove le fiamme piovono lente e continue; per i simoniaci, collocati a testa in giù dentro delle buche e con il fuoco sulle piante dei piedi; infine per i consiglieri fraudolenti, che sono prigionieri dentro lingue di fuoco: sono tutti peccatori contro lo Spirito, quindi la giusta pena è quella di essere eternamente tormentati dal fuoco, uno dei simboli dello Spirito.

Sull’ingresso del quarto cerchio (canto VII), dove sono puniti gli avari e i prodighi, i due poeti sono accolti con parole strane da Pluto, custode del cerchio: <<Papè Satàn, papè Satàn aleppe!>>: gli studiosi hanno dato a queste parole varie interpretazioni, ma quale sia quella giusta non lo sappiamo, sembra che non sia un vero discorso, ma uno sfogo oppure l’inizio di un discorso minaccioso volto ad incutere paura, che Virgilio non gli lascia continuare. L’identificazione di questo demonio è molto problematica, poiché potrebbe trattarsi di Pluto, antico dio greco delle ricchezze, figlio di Iasio e di Demetra, nato forse a Creta; oppure di Plutone, figlio di Saturno (Cronos), dio classico degli Inferi e sposo di Proserpina: la seconda ipotesi sembra essere quella più probabile, perché Plutone, detto anche Dite, era, nel Medioevo, spesso rappresentato come figura diabolica ed era accostato alle ricchezze che sono custodite sottoterra.

La descrizione di Pluto è piuttosto generica e frettoloso è l’incontro dei due poeti con questo demonio: Dante lascia intuire che si tratta di un enorme mostro, in cui vi è una terrificante unione di fattezze umane e di sembianze animalesche, con prevalenza di questo secondo elemento. Il Poeta attira l’attenzione del lettore sull’effettiva futilità del demone: il quale prima è rapidamente accennato nel suo aspetto spaventevole e poi è colto nella sua reale impotenza di fronte al volere divino e nel susseguente improvviso accasciarsi, privo di ogni forza <<Quali dal vento le gonfiate vele / caggiono avvolte, poi che l’aber fiacca, / tal cadde a terra la fiera crudele>>. [26]

Il termine “daimon”si trova nella letteratura greca sia come sostantivo sia come verbo, poi fu accostato a cose ritenute malvagie dal Cristianesimo, quando tale religione voleva guadagnare terreno nei confronti del Paganesimo, quindi trasformò varie creature e antiche divinità in entità maligne: per l’Occidente un “demone” divenne sinonimo di malvagio, collegato al Diavolo e tentatori dell’uomo. Le prime demonologie si trovano già nella cultura mesopotamica, in cui il confine tra dei e demoni era molto confuso; in quella ebraica, che si può considerare la più antica, la Torah tratta ampiamente dei demoni menzionandone due tipi: Se’irim e Shedim, il primo riferendosi ad una specie di satiro, il secondo indicando falsi idoli e dei. Il Talmud, oltre dare consigli su come difendersi dai demoni, ne descrive alcuni come Asmodeus e Igrat, rispettivamente re e regina dei demoni, Samael, serpente della Bibbia, Shibbeta e Keteb Meriri, di natura più folcloristica. Durante il Medioevo i vari movimenti Kabbalistici contribuirono agli studi sulla demonologia.

Nell’Antico Testamento, i demoni non sono citati frequentemente, mentre nel Nuovo Testamento troviamo un inizio di gerarchia tra i demoni, poiché si legge che Belzebù è descritto come il principe dei demoni; nei Vangeli di Marco e Matteo, Gesù caccia gli spiriti maligni dai corpi degli indemoniati, nell’Apocalisse vengono citati questi spiriti infernali.

Nel 1272, Tommaso d’Aquino scrive il suo “Trattato sul male”, in cui parla della natura seducente del Diavolo e persiste sul “crimine di eresia della stregoneria”, poiché al tempo tale crimine era visto come un patto con Satana stesso, quindi la demonologia si sviluppa con l’approvazione delle autorità della Chiesa, per comprendere meglio la natura del male.[27]

Nel pensiero teologico cristiano medievale, la demonologia detiene un posto basilare, il tentatore dell’umanità, il torturatore dei dannati nell’Inferno: il Diavolo, per la gente del tempo, fu una presenza reale, ossessiva, la sua opera pareva manifestarsi sia nelle epidemie sia nelle catastrofi naturali e nell’epilessia dell’”indemoniato”, distruggendo psicologicamente e fisicamente la maggior parte degli uomini, determinando un aspetto fondamentale della religiosità. La vivace immaginazione popolare ispirava e condizionava, le descrizioni letterarie, le figurazioni artistiche ed anche le sacre rappresentazioni: in tanti luoghi, dipinti, sculture ricordavano al cristiano i temi della dannazione con esseri spaventosi pronti a martoriare gli sventurati, e ovviamente incidevano molto i ricordi di specifiche opere d’arte, <<…come il Giudizio giottesco della Cappella degli Scrovegni a Padova, nonché certi elementi di derivazione fantastico-popolare, non avranno mancato di agire anche su Dante: nelle cui asserzioni però, occorre,compare sempre, quanto meno sotteso, un rapporto preciso e diretto con il pensiero teologico scolastico>>.[28]  

Alle origini della demonologia cristiana c’è la ribellione dell’angelo prediletto da Dio, Lucifero, narrata nell’Apocalisse (Apoc. 12, 7-13.) e ignoto nel Vecchio Testamento, egli volle essere uguale al Creatore, peccando di orgoglio e di superbia: <<E così fu certo che ‘l primo superbo, / che fu la somma d’ogni creatura, / per non aspettar lume, cadde acerbo; >>, ossia Lucifero, la più alta delle creature, cadde imperfetto perché non volle aspettare di ricevere la sua perfezione dalla grazia di Dio;[29] ancora: <<Principio del cader fu il maledetto / superbir di colui che tu vedesti / da tutti i pesi del mondo costretto.>> :[30] Beatrice spiega a Dante come gli angeli furono creati per un atto d’amore da parte di Dio e gli dice che la causa della caduta di Lucifero, che aveva visto al centro della terra e su cui gravita il peso di tutto l’universo, fu la superbia. Furono numerosi gli angeli, appartenenti ai nove  ordini angelici, che si schierarono dalla parte di Lucifero, ma come lui furono cacciati con violenza dall’Empireo da quelli che erano rimasti fedeli, guidati dall’arcangelo Michele, tale puntualizzazione corrisponde alla “communis opinio” dei teologi, ad eccezione di Alberto Magno, il quale sostiene che al momento della ribellione gli ordini angelici non erano ancora stati costituiti. Come anche veniva presupposto che creature così perfette erano cadute in tale grave peccato perché non avevano ancora la completa conoscenza di Dio.[31] Dio aveva creato solo angeli buoni, una parte di essi peccò fuori dell’intenzione divina, ma non fuori della sua prescienza; il pensiero teologico rifiutava l’asserzione, considerata eretica, che Dio avesse dato origine ad angeli già malvagi, e tutto ciò, Dante lo scrive nel “Convivio”: <<Lo sole tutte le cose col suo calore vivifica, e se alcuna [se] ne corrompe, non è della ‘ntenzione della cagione, ma è accidentale effetto: così Iddio tutte le cose vivifica in bontade, e se alcuna n’è rea, non è della divina intenzione, ma conviene quello per accidente essere [nel]lo processo dello inteso effetto. Che se Iddio fece li angeli buoni e li rei, non fece l’uno e l’altro per intenzione, ma solamente li buoni. Seguitò poi fuori d’intenzione la malizia de’ rei, ma non sì fuori d’intenzione, che Dio non sapesse dinanzi in sé predire la loro malizia; ma tanta fu l’affezione a producere la creatura spirituale, che la prescienza d’alquanti che a malo fine doveano venire non dovea né potea Iddio da quella produzione rimuovere>>.[32]

Una terza specie di angeli viene posta da Dante nel vestibolo dell’Inferno, insieme alle anime dei vili: <<Mischiate sono a quel cattivo coro / de li angeli che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. / Caccianli i ciel per non esser men belli, / né lo profondo inferno li riceve, / ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli >>.[33] Anche se nessun passo della Sacra Scrittura parla di questi angeli, non si tratta di un’invenzione dantesca, poiché qualche notizia di questa terza specie di angeli si può trovare nelle leggende medievali, e il Poeta, non solo accoglie questa tradizione, ma la adegua alla condizione morale delle anime poste in quel luogo, particolarmente alla condanna del papa Celestino V, “colui che fece per viltade il gran rifiuto”.[34]

La caduta dall’Empireo sulla terra degli angeli ribelli era una considerazione accettata comunemente e il grande Fiorentino fa dire a Virgilio che Lucifero cadde dalla parte dell’emisfero australe: <<Da questa parte cadde giù dal cielo; / e la terra, che pria di qua si sporse, / per paura di lui fé del mar velo, / e venne a l’emisperio nostro; e forse / per fuggir lui qui loco voto / quella ch’appar di qua, e su ricorse>>.[35]

La teologia cristiana vide nella ribellione di Lucifero i principi del Bene e del Male e i loro opposti, costruendo su di essa una vasta struttura demonologica, in cui vennero aggiunti e potenziati i riferimenti biblici. Negli angeli caduti, fautori del Male, nacque una grande invidia verso l’uomo, il cui destino era quello di sostituirli presso Dio nell’Empireo, divenendo in tal modo “nemici dell’umana generazione”, ma Dio, cui è sottoposta ogni potenza, anche quella diabolica, si giovò di loro per mettere alla prova l’uomo sottoposto alle tentazioni ed è proprio in questa ottica che la teologia cristiana interpreta la tentazione del serpente e la cacciata dal Paradiso Terrestre di Adamo (Genesi), poiché l’uomo, se lo vuole, è in grado di resistere alle tentazioni del Maligno. I Diavoli, anche se confinati nell’Inferno, hanno la facoltà di aggirarsi tra gli uomini dimorando temporaneamente nell’aria, nella zona sublunare, per indurli in tentazioni di ogni genere fine al giorno del Giudizio, possono anche arrecare epidemie, provocare tempeste ed entrare nei corpi umani, procurando gravi malattie che costituiscono le caratteristiche degli indemoniati, come le paralisi, l’epilessia, il mutismo etc, di cui parlano spesso i Vangeli.

Nella lotta tra il Bene e il Male l’azione dei Diavoli viene contrastata dagli Angeli e questo contrasto diviene violento quando si tratta di prendere possesso dell’anima del defunto: <<Francesco venne poi, com’io fu’ morto, / per me; ma un de’ neri cherubini / li disse: “Non portar: non mi far torto>>.[36]Anche nel secondo balzo dell’Antipurgatorio, Dante incontra Buonconte da Montefeltro, morto nella battaglia di Campaldino, egli riuscì a fuggire, dopo essere stato ferito, nel luogo dove il fiume Archiano confluisce con l’Arno. Pentitosi in fin di vita era sorta una contesa tra l’Angelo che aveva presa la sua anima e il Diavolo che si era vendicato facendo strazio del corpo, trascinato e disperso nelle acque in piena: <<Io dirò vero e tu ‘l ridi tra’ vivi: / l’angel di Dio mi prese , e quel d’inferno / gradava: “O tu del ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lacrimetta che ‘l mi toglie; / ma io farò dell’altro altro governo!”>>.[37] Di queste lotte tra angeli e diavoli sono molto ricche l’arte figurativa, la produzione letteraria e l’agiografica, mentre il Poeta si allontana completamente dalla tradizione scolastica nel canto XXXIII dell’Inferno: Dante e Virgilio si trovano nella zona della Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti, condannati a restare in eterno supini nel ghiaccio con le lacrime ghiacciate negli occhi, uno di loro, frate Alberigo, noto per aver fatto uccidere a tradimento dei parenti invitati a pranzo, chiede di liberarlo da quel ghiaccio che gli impedisce uno sfogo al dolore con il pianto, in cambio rivela la sua identità e quella di un traditore genovese, Branca Doria, inoltre spiega anche come i due, ancora vivi col loro corpo, governato in realtà da un Diavolo, siano già all’Inferno. Dante in segno di disprezzo si rifiuta di alleviargli la pena.[38] Quello che Dante scrive risulta difficile da accettare teologicamente, anche se con molta audacia riesce a costruire questi fantasiosi versi da un passo del Vangelo di Giovanni.[39]

Dante, dunque, non ebbe nessuna pietà verso frate Alberigo che si era macchiato di una colpa così infame, ma non sempre il Poeta si comporta così con i dannati: spesso, nel suo cammino per l’Inferno, Dante è fortemente turbato alla vista degli atroci tormenti cui sono sottoposti i dannati, è colpito da grande pietà quando  sente Virgilio <<Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito / nomar le donne antiche e i cavalieri, / pietà mi giunse e fui quasi smarrito.>>,[40] sviene dopo avere ascoltato la storia di Francesca e Paolo, ha le lacrime agli occhi per la pena inflitta a Ciacco ed in altre occasioni, ma quando si commuove per lo strazio degli indovini, Virgilio lo redarguisce con terrificanti parole: <<Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi / del duro scoglio, sì che la mia scorta / mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi? / Qui vive la pietà quando è ben morta: / chi è più scellerato che colui / che al giudicio divin passion porta?>>[41], non si può avere pietà per i malvagi, qui siamo in presenza di peccatori per malizia e frode, che vollero prevenire il giudizio divino, quindi l’uomo ragionevole non deve sentire nessuna pietà. Tuttavia lo stesso Virgilio “smorto” per la commozione della pietà, che a Dante sembrerà effetto della paura, pronuncia queste parole: <<ed elli a me:”L’angoscia de le genti / che son qua giù, nel viso mi dipigne / quella pietà che tu per tema senti.>>.[42]

Da notare che il rapporto di Dante, avvertito da Virglio di non nutrire per queste anime sentimenti di pietà, con i condannati delle Malebolgie, che rappresentano un’umanità veramente degradata, è assente di una compartecipazione affettiva, ma è in forma distaccata, allontanandoli da sé, non si tratta certamente del rapporto appassionato che aveva caratterizzato gli incontri con le anime dei personaggi dell’alto Inferno.

La teologia del sentimento, come venne chiamata da Arturo Graf, nella maggior parte dei casi coincideva con quella popolare e ammetteva che le pene infernali potessero essere in qualche modo attenuate ai dannati, ipotesi negata dalla teologia raziocinate, dottrinale, scolastica: San Tommaso sostiene che nell’Inferno non ci può essere attenuazione della pena, dello stesso parere è San Bonaventura, anzi, sostiene che le punizioni inflitte da Dio sono minori delle colpe loro. San Bernardo di Chiaravalle cerca di dimostrare che i beati provano piacere nel vedere i tormenti a cui sono sottoposti i peccatori; perché quelle pene non riguardano loro, perché se tutti i malvagi verranno condannati, non potranno più preoccuparsi degli inganni diabolici e umani; perché la loro gloria sarà accresciuta dalla contrapposizione; infine perché quello che piace a Dio deve piacere ai giusti, quindi una moderazione delle pene elargite ai dannati, diminuirebbe la beatitudine degli eletti.[43]

Dante segue principalmente la teologia di San Tommaso, quindi non si discosta nemmeno per ciò che riguarda le pene infernali, anche se, come abbiamo visto, spesso dimostra una profonda pietà e talvolta qualche contraddizione con se stesso: parlando del vento impetuoso che travolge i lussuriosi, la chiama <<La bufera infernal, che mai non resta, / mena li spirti con la sua rapina: / voltando e percotendo li molesta. […] nulla speranza li conforta mai, / non che di posa, ma di minor pena.>>,[44] più avanti, nelle terzine in cui parla con Francesca da Polenta, fa dire alla donna: <<Di quel che udire e che parlar vi piace, / noi udiremo e parleremo a vui, / mentre che ‘i vento, come fa, ci tace.>>.[45] Nel VI canto, il Poeta dice: <<Io sono al terzo cerchio, de la piova / eterna, maledetta, fredda e greve:>>,[46] che fa urlare i dannati come cani, ma <<de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo>>,[47]quindi sembrerebbe che i dannati riescano a trovare un sollievo, anche se piccolo, al loro tormento. Nello stesso modo trovano un poco di sollievo i dannati che si trovano nell’ottavo cerchio, sono i barattieri che scontano il loro peccato immersi nella pece bollente, ma <<Come i dalfini, quando fanno segno / a’ marinar con l’arco de la schiena / che s’argomentin di campar lor legno, / talor così ad alleggiar la pena / mostrav’alcun de’ peccatori il dosso, / e nascondea in men che non balena. >>.[48] Così Dante ammette che i dannati possano avere qualche sollievo dalla loro pena e quelli che hanno commesso colpe meno gravi di coloro che si trovano nei cerchi più profondi, chiedono al Poeta di “vendicare” la loro memoria quando egli tornerà nel mondo dei vivi; San Tommaso sostiene che l’amore dei parenti e degli amici non attenua i tormenti dei dannati, anzi li acuisce, poiché se ne sentono indegni. Di opinione diversa sembra essere Dante, e un esempio lo troviamo con Cavalcante Cavalcanti, che pur dannato ama molto il figlio e non gli può certamente nuocere l’essere amato da lui; anche Brunetto Latini pare molto contento dell’affetto che il suo allievo gli dimostra.

E’ probabile che Dante faccia una distinzione tra i diavoli custodi dei cerchi infernali e quelli presenti sulla terra, nel XXI canto dell’Inferno troviamo: <<Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche / a quella terra che n’è ben fornita:>>,[49] mentre il Poeta arriva con la sua guida sul ponte della quinta bolgia, dove sono puniti nella pece bollente i barattieri, compare improvvisamente un diavolo con in spalla un dannato tenuto per i piedi e giunto sul ponte lo scaraventa nella pece dicendo agli altri diavoli che si tratta di un barattiere di Lucca, città che ne è ben fornita. I barattieri sono sorvegliati dai Malebranche, il più folto gruppo di diavoli infernali, dai nomi fortemente espressivi, che fanno intuire il libero sfogo della fantasia dantesca: Malacoda, Calcabrina, Alichino, Barbariccia, Ciriatto, Cagnazzo, Graffiacane, Farfarello, Libicocco, Rubicante, Scarmiglione. Il loro aspetto è sempre adeguato all’iconografia tradizionale, essi sono armati di uncini che strappano ai dannati le carni; anche nella bolgia dei seduttori troviamo una schiera di diavoli, come quelli delle raffigurazioni popolari: questi diavoli sono neri, hanno le corna, Ciriatto è “sannuto”, Cagnazzo mostra un muso non un volto, e sono tutti provvisti di artigli; il diavolo che butta nella pece dei barattieri “uno degli anziani di Santa Zita” è dipinto come le opere artistiche del Medioevo ce lo mostrano: <<Ahi, quanto egli era nell’aspetto fiero! / E quanto mi parea nell’atto acerbo, / con l’ali aperte e sovra i piè leggero! / L’omero suo, ch’era aguto e superbo, / cercava un peccator con ambo l’anche, / e quei teneva de’ piè ghermito il nerbo>>.[50] Dante fa una straordinaria pittura di questo demonio, prima coglie il fiero aspetto generale, poi l’atteggiamento sinistro crudele e feroce, le ali aperte che accrescano la rapidità dei movimenti. Le spalle sporgenti e angolose per la magrezza, proprio come venivano raffigurati i diavoli nelle antiche pitture; e con gli artigli teneva il peccatore per il tendine dei piedi.

I diavoli che spaventano tanto il Poeta nella quinta bolgia del cerchio ottavo, sono orribili, ma hanno anche del comico: fanno gesti infantili, volgari: <<Per l’argine sinistro volta dienno; / ma prima avea ciascun la lingua stretta / coi denti verso lor duca per cenno: / ed elli avea del cul fatto trombetta>>.[51]  

Fondandosi su varie espressioni dei Vangeli, i teologi sostenevano che i diavoli fossero tra loro distinti gerarchicamente e tutto ciò è evidentemente sviluppato nella prima cantica della Commedia: vicino alla gerarchia “militare” delle folte schiere di diavoli, appare una gerarchia “feudale”, in cui Lucifero è “Lo ‘mperador del doloroso regno”;[52] Proserpina è “la regina dell’etterno pianto”.[53] La perdita della beatitudine celeste ha operato nei diavoli un grande cambiamento, conservando della loro prima natura solo la competenza della scienza naturale e acquisita e la conoscenza del futuro, anche se nell’Inferno di Dante i diavoli non predicono il futuro, solo Caronte fa intendere che il Poeta è destinato al Purgatorio, tuttavia non godono della vera sapienza, ma sono incessantemente padroneggiati dall’invidia e dall’ira, quindi possono volere solo il male.[54]

Fin dalle origini, la demonologia riconosce incarnazioni diaboliche in bestie feroci, nocive all’uomo e in quelle particolarmente ripugnanti, nella “Commedia” mosconi, vespe e vermi torturano gli ignavi del vestibolo infernale;[55] questi animali diabolici sono il frutto delle credenze nate nei riti magici e poi entrate a far parte della demonologia popolare, anche le tre fiere che Dante incontra nel primo canto hanno natura demoniaca <<Questi la caccerà ogni villa, /fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno, / là onde invidia prima dipartilla>>.[56]  In seguito, ai suddetti animali venne affiancato il drago, mostro orribile e fantasioso, che oltre ad essere efferato come le altre bestie, aveva forme terrificanti, e divenne il simbolo del male per antonomasia. Le cattedrali europee romaniche e gotiche, nel Medioevo, si adornarono di questi mostri, anche l’agiografia ebbe una vasta fioritura, l’esempio più noto è quello di San Giorgio: la lotta di eroi tra il Bene e il Male. Dal punto di vista teologico l’assioma è che le forze del bene sono bellissime e quelle del male orrende, la rappresentazione antropomorfica del bene è l’angelo pensato come esaltazione e idealizzazione della figura umana: giovane, con un corpo perfetto, bellissimo, con ali bianche, attorniato da una luce radiosa, mentre il diavolo, di colore nero, è dotato di ali di pipistrello e fisicamente è un ibrido deformato di umano e di bestiale: con corna, grugno, coda, zoccoli, etc.

Se la demonologia dantesca è derivata dalle idee della teologia del tempo, ad eccezione di vari concetti sviluppati da Dante in modo molto personale, indipendenti da quella tradizione sono invece i numerosi personaggi mitologici presenti nell’Inferno e trasformati in demoni, come Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegiàs, le Furie, Medusa, Proserpina, il Minotauro i Centauri, le Arpie, Gerione, Caco e i Giganti. <<La simbiosi di demonologia cristiana e mitologia pagana operata da Dante viene di consueto spiegata come frutto d’imitazione letteraria della poesia classica, e pertanto la contaminazione è ricondotta al cosidetto “pre-umanesimo” dantesco. E’ questa, evidentemente, la soluzione più semplice e la più rispondente alla cultura e alla sensibilità moderne, e perciò la più chiara e immediatamente accettabile per tutti>>.[57]

Forse questa non è la spiegazione giusta, ma solo semplicistica, precisa Giorgio Padoan, esperto dantista, addirittura la definisce inesatta e fuorviante dal reale pensiero di Dante: sembra poco probabile che un cristiano scrupoloso come lui e un attento scrittore scolastico, abbia mischiato la demonologia cristiana con invenzioni poetiche pagane per motivi letterari, oltretutto non dimentichiamo che la questione demologica era, per i tempi in cui visse il Poeta, considerevole e seria. Comunque sia insieme con Satana o Belzebub o Lucifero troviamo nel doloroso regno i demoni mitologici, che sono più numerosi di quelli biblici ed hanno cariche molto più importanti, infatti i demoni biblici (ad eccezione dei Centauri e delle Arpie, che sono ripresi dalla mitologia) sono incaricati delegati di tormentare varie classi di dannati, mentre Caronte traghetta le anime, Minosse ha l’importante compito di giudice, Cerbero è il guardiano del terzo cerchio e Plutone del quarto, etc. Dante fu più volte criticato per avere mischiato il mito pagano con la credenza cristiana, e considerare questo come un anticipo di certe tendenze e usanze dell’Umanesimo non è completamente sbagliato, poiché echi e riflessi dei miti pagani si trovano nelle descrizioni dell’Inferno cristiano fin dai primi secoli della Chiesa, la quale non negò l’esistenza degli dei pagani, ma si limitò a negare la divinità e li trasformò in demoni, divenendo ospiti dell’Inferno, sudditi e aiutanti di Satana. Dio, gli angeli e i demoni erano esistiti da sempre e da sempre avevano partecipato (preso parte) agli avvenimenti umani di tutti i popoli, ad eccezione degli Ebrei, i quali furono in grado di dare una spiegazione ai fatti miracolosi e soprannaturali. I Padri della Chiesa sostennero che i pagani, divinizzando anche uomini di particolare valore e che per volere celeste avevano compiuto opere straordinarie (per es. Ercole), ma accanto al Bene agiscono sempre anche le forze del Male, che si manifestarono ai pagani con personificazioni e interventi magici, ossia per suggestione diabolica, vennero adorati anche entità di natura demoniaca. Queste divinità pagane, frutto della fantasia, rispecchiavano una realtà interpretata erroneamente, allora si cercarono gli equivalenti nella Bibbia e dove non era possibile non mancò il lavoro di fantasia, ed è proprio in questa prospettiva che va analizzata e recepita la mitologia pagana nell’Inferno di Dante, il quale parte da una certezza: la discesa agli Inferi di Enea, descritta in seguito da Virgilio, poeta e storico dell’Impero. Secondo l’Alighieri, Enea arrivò fino alla soglia del Tartaro, ossia fino alle mura della città di Dite, e vide molti demoni, quindi anche Dante, che accoglie pienamente l’opera virgiliana, incontra demoni unicamente mitologici, poiché i diavoli della tradizione biblico-cristiana si trovano tutti dentro la città di Dite, dove Enea non era entrato.[58]

 <<Si capisce che una tale costruzione risultasse inaccettabile ai teologi, derivando da una lettura dell’Eneide al servizio di un’ardita prospettiva politico-religiosa (l’Impero romano voluto dalla Provvidenza, ecc.)che fu non ultimo motivo della condanna della Monarchia. Ben presto la cultura e la mentalità umanistiche lessero l’Eneide  con occhi ben altrimenti storicistici, vedendovi non un libro escatologico e storico, ma esclusivamente un’opera d’invenzione poetica; e allora questa parte della costruzione dantesca, specie per la parte ispirata alla mitologia pagana, non s’intese più il profondo impegno dottrinale e la serietà dell’impostazione. La nuova cultura suggerì una spiegazione umanistica, che indicava in quelle riprese l’imitazione del letterato e la fantasia del poeta; la quale interpretazione, tra l’altro, offriva il non piccolo vantaggio di annullare le pesanti riserve dei teologi; e s’impose con tutti i crismi dell’attendibilità, tant’è che vige ancor oggi>>.[59]

Dante è ancora sconvolto dalla paura per l’incontro con i diavoli sotto le mura della città di Dite, quando, giunto con la sua guida all’ingresso della città, giungono improvvisamente le pericolose Erinni, le Furie dai capelli di serpente e il corpo di donna, le quali gridano e si lacerano il petto, minacciando il Poeta di farlo pietrificare da Medusa. Le tre Furie sono Megera, Tesifone e Aletto, figlie d’Acheronte e della Notte, destinate al servizio di Proserpina, regina dell’Inferno, come seminatrici di discordia e tormentatrici dei dannati, esse appaiono in cima alla torre: Megera a sinistra, Tesifone in mazzo e Aletto a destra; Dante molto spaventato si stringe alla sua guida e alla minaccia delle tre Erinni, Virgilio dice gli dice di non voltarsi indietro e di chiudere gli occhi per non vedere il capo di Medusa, la quale, secondo la mitologia classica, fu una delle tre Gorgoni, figlie di Forco, dio marino, uccisa da Perseo che le mozzò la testa, che aveva la potenza di pietrificare chiunque la guardasse, aiutandosi con lo scudo come fosse uno specchio e dalla testa tagliata uscì il cavallo alato Pegaso; Medusa è collocata da Dante tra i demoni a guardia della città di Dite, non compare direttamente ma viene evocata dalle tre Furie per trasformare il Poeta in sasso e impedirgli il passaggio. Anche Proserpina (Persefone), personaggio della mitologia classica, divenne moglie di Plutone in seguito al suo rapimento e poi collegata al culto dell’Oltretomba come regina degli Inferi, viene citata indirettamente, dicendo che le Erinni sono le ancelle della “regina dell’etterno pianto”.[60]   

Dante e Virgilio stanno per scendere verso il primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro il prossimo (tiranni, omicidi, ladri), immersi nel Flegetonte, fiume di sangue bollente e colpiti dalle frecce dei Centauri, quando in cima ad uno scoscendimento vedono il Minotauro, il quale è posto da Dante a guardia di questo luogo. La leggenda di questo personaggio è tra le più conosciute della mitologia classica: nato dalla mostruosa unione di Pasife, moglie del re di Creta, con un  bellissimo toro bianco di cui si era innamorata ed aveva fatto costruire una finta vacca nella quale nascondersi per avere rapporti sessuali con il toro. Il mostro, relegato nel labirinto costruito da Dedalo, fu ucciso da Teseo aiutato da Arianna, sorella del Minotauro, mentre portava il tributo annuo di sette giovani e sette fanciulle. Il Minotauro, spesso accostato al peccato di lussuria a causa delle sue origini, fu per Dante simbolo di violenza per la sua doppia natura umana e bestiale. Alla vista dei due poeti, il mostro si infuria, ma viene placato da Virgilio, il quale gli dice che nessuno dei due è Teseo e che Dante non è istruito da Arianna sua sorella, ma sono per vedere le pene dei dannati, tali parole spingono al parossismo la furia bestiale del mostro, così accecato dal furore i poeti riescono a passare indisturbati. I Centauri, creature mitologiche, avevano sembianze umane fino alla cintola e il resto del corpo equino. Essi sono rappresentati sia come cacciatori armati di arco e frecce sia come esseri dell’Aldilà: Virgilio, nel Vi libro dell’”Eneide”, li colloca all’ingresso dell’Ade, il loro compito è quello di colpire con le frecce chiunque dei dannati tenti di uscire dal fiume. In particolare vengono nominati dal Poeta tre di loro: Chirone, che sembra essere il capo della schiera, figlio di Crono e Filira, nella tradizione classica è ricordato per la sua grande saggezza e come maestro di Achille; Nesso, che innamoratosi di Deianira tentò di rapirla, ma fu ucciso da Ercole e Folo, che alle nozze di Piritoo e Ippodamia, si ubriacò e tentò di rapire la sposa, scatenando la guerra con i Lapiti. In seguito alle parole che Virgilio scambia con Chirone, i due poeti saranno presi in groppa da Nesso per deporli sull’altra sponda del Flegetonte. Dante associa ai Centauri anche Caco e lo colloca nell’VIII cerchio della VII Bolgia, dove sono puniti i ladri, ma non specifica se sia un peccatore o un demonio col compito di tormentare i dannati: <<Lo mio maestro disse:”Questi è Caco, / che sotto il sasso di monte Aventino / di sangue fece spesse volte laco. / Non va co’ suoi fratei per un cammino, / per lo furto che frodo lente fece / del grande armento ch’elli ebbe a vicino; / onde cessar le sue opere bieche / sotto la mazza d’Ercule, che forse / li ne diè cento, e non sentì le diece”>>.[61] La figura di Caco fa parte della mitologia classica, figlio di Vulcano, fu descritto da vari poeti latini, tra cui Virgilio, che nell’Eneide (Aen., VIII, 184 e segg.) fa raccontare la sua storia da Evandro a Enea, lo descrive come un gigante che emette fiamme, come un ladro di bestiame e un assassino: Caco ruba i capi più belli della mandria di Ercole, il quale l’aveva sottratta al re di Spagna e si era fermato nell’Aventino, per far perdere le tracce che avrebbero rivelato il luogo dove le aveva nascosti, Caco trascina le bestie per la coda, ma dalla caverna, i capi rubati sentendo passare il resto della mandria cominciarono a muggire, rivelando il luogo dove erano nascosti; Caco cercò la fuga per sfuggire all’ira di Ercole, che lo raggiunse e lo uccise. Dante invece lo raffigura come un Centauro che porta sulla groppa numerose serpenti e un drago ad ali spiegate dietro la schiena umana, che vomita fiamme contro chiunque gli si presenti. Virgilio spiega che Caco non è insieme ai suoi fratelli a causa del furto fraudolento che commise. Nella scena dantesca i Centauri rappresentano la cieca cupidigia e l’ira folle, attraverso cui si manifesta la bestialità umana.

I due poeti si addentrano, nel canto XIII, in una strana selva, che si scoprirà essere la foresta dei suicidi, è abitata dalle Arpie, mostri mitologici col corpo di uccello e la testa di donna che emettono strani versi: <<Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, / che cacciar dalle Strofadi i troiani / con tristo annuncio di futuro danno. / Ali hanno late e colli e visi umani, / piè con artigli e pennuto il gran ventre; / fanno lamenti in su li alberi strani>>.[62] Esse sono custodi del secondo girone del  VII cerchio, nidificano tra gli alberi dove sono prigionieri le anime dei suicidi, si cibano delle loro foglie, causando grandi dolori ai dannati. Nella mitologia classica, le Arpie sono figlie di Taumante ed Elettra e simboleggiano la violenza e la furia delle bufere, sono menzionate in varie opere della letteratura greco-latina, ma Dante fa un riferimento esplicito alla fonte da lui utilizzata per la sua rappresentazione di questi mostri, nell’”eneide” (Aen., III, 225 e segg.) Virgilio sostiene che esse abitano le isole Strofadi da cui fecero fuggire i Troiani preannunciando loro una terribile quanto ingannevole carestia. Questo canto si apre con l’immagine di un bosco inaccessibile: nella tradizione fiabesca e letteraria il bosco è un luogo designato alle pratiche d’iniziazione e alle metamorfosi magiche. Questo bosco dantesco sembra riprendere questo tratto distintivo magico-iniziatica: il Poeta pellegrino effettuerà un’altra tappa del suo doloroso viaggio iniziatico ai misteri dell’Oltretomba, attraverso la conoscenza del peccato in tutte le sue perverse rivelazioni, incluso la raccapricciante trasformazione in alberi, cui sono condannati i suicidi, che per Dante sono colpevoli di un peccato mostruoso, poiché si sono privati del più grande dono divino: la vita, quindi anche il luogo della loro pena ci riporta continuamente all’idea di anormalità e disumanità proprie del loro peccato.

Dante e Virgilio, giunti alla cascata assordante del Flegetonte, vedono una mostruosa figura che sale dal burrone come se nuotasse nell’aria, si tratta di Gerione, mostro demoniaco assunto anche questo dalla mitologia classica, cui Dante e Virgilio devono affidarsi per superare il dislivello. <<La faccia sua era faccia d’uom giusto, / tanto benigna avea di fuor la pelle, / e d’un serpente tutto l’altro fusto; / due branche avea pilose in sin l’ascelle; / lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste / dipinti avea di nodi e di rotelle. / Con più color, sommesse e sopraposte / non fer mai drappi Tartari né Turchi, / ne fuor tai tele per Aragne imposte. / Come tal volta stanno a riva i burchi, / che parte sono in acqua e parte in terra, / e come là tra li Tedeschi lurchi / lo bìvero s’assetta a far sua guerra, / così la fiera pessima si stava / su l’orlo che, di pietra, il sabbion serra. / Nel vano tutta sua coda guizzava, / torcendo in sù la venenosa forca / ch’a guisa di scarpion la punta armava>>.[63]  Gerione, figlio di Crisaore e di Calliroe, viene descritto da Dante come un mostro con la faccia di uomo giusto, il busto di serpente, due zampe pelose fino alle ascelle e artigliate, il dorso e il petto dipinti con nodi e rotelle simili ai drappi persiani, una coda biforcuta con un pungiglione avvelenato come quello di uno scorpione. E’ l’immagine della frode, ossia la rappresentazione del peccato punito nell’VIII cerchio, di cui il mostro è custode. Nella mitologia classica, Gerione era il re di tre isole iberiche e fu ucciso da Ercole che gli sottrasse una mandria molto bella; Dante arricchisce questa figura con particolari fantastici, la coda biforcuta e velenosa sta a significare che chi imbroglia è sempre pronto a colpire le sue vittime, i nodi e le rotelle che il mostro ha sulla schiena e sul petto simboleggiano, probabilmente, gli intrecci e i maneggi dell’inganno.[64]

I due poeti stanno superando l’argine che li condurrà al IX cerchio, quando Dante crede di scorgere, nella luce del crepuscolo, una città circondata da alte torri, ma Virgilio gli dice che l’aria oscura dell’Inferno gli fa vedere le cose in modo errato: <<Poi caramente mi prese per mano, / e disse: “Pria che noi siam più avanti, / acciò che ‘l fatto men ti paia strano, / sappi che non son torri, ma giganti, / e son nel pozzo intorno da la ripa / da l’umbilicoin giuso tutti quanti>>.[65] I Giganti, nella mitologia classica, erano figli di Gea e Urano e spesso erano raffigurati anguipedi, essi si ribellarono a Giove, con un folle e presuntuoso tentativo di dare la scalata al cielo, ma furono tutti uccisi in Tessaglia nella battaglia di Flegra. Dante li colloca intorno al pozzo che separa l’VIII dal IX cerchio dell’Inferno, non come demoni, ma, essendosi ribellati a Dio, associati al peccato di tradimento.

Nella Bibbia vengono menzionati soprattutto due giganti, Golia, ucciso da David e Nembrod, capo dei discendenti di Cam e primo re di Babilonia, fu secondo la tradizione patristica il promotore della costruzione della torre di Babele, suscitando lo sdegno di Dio e la confusione delle lingue come conseguenza; così Nembrod, oltre la pena inflitta agli altri giganti, è condannato alla confusione mentale di non essere compreso e di non comprendere; mentre nella Genesi è ricordato solo come un grande cacciatore,[66] Dante lo descrive di dimensioni smisurate: <<La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di san Pietro a Roma>>,[67] facendo riferimento alla pigna bronzea, che un tempo aveva forse adornato il Mausoleo di Adriano, poi collocata davanti alla Basilica di San Pietro. Le parole che Nembrod rivolge ai due pellegrini sono incomprensibili e Virgilio lo esorta a sfogare la sua ira con il corno che porta al collo, poi invita Dante a non parlare inutilmente con lui, dal momento che il gigante non capisce nessun linguaggio e il suo è sconosciuto agli altri. A non molta distanza trovano un altro Gigante, si tratta di Efialte, figlio di Nettuno e di Ifimedìa, il quale, insieme col fratello Oto, fu tra i più audaci nella battaglia contro Giove ed entrambi furono uccisi da Apollo, proprio perché avevano osato sfidare gli Dei, cercando di raggiungere l’Olimpo sovrapponendo i due monti Ossa e Pelio. Egli è descritto da Dante ancora più feroce, più pericoloso e più grande del primo, ha le braccia strettamente legate alla schiena con una catena che si avvolge al collo, in modo da non potersi muovere, in quanto dotato di una forza sovrumana, Virgilio passandogli accanto dice che Briareo era un gigante più forte di lui, udendo queste parole Efialte si scuote provocando un fortissimo terremoto che terrorizza il Poeta toscano, che chiede alla sua guida di poter vedere Briareo, Virgilio gli dice che si trova più distante ed è legato come Efialte, ma ha il volto più feroce. I due pellegrini raggiungono, infine Anteo, figlio di Poseidone e della Madre Terra, viveva in una grotta presso Zama, dove costringeva gli stranieri a combattere con lui e poi li uccideva, conservando i crani delle sue vittime per fare il tetto del tempio di Poseidone. Non partecipò alla battaglia contro Giove, perché vissuto dopo gli altri Giganti; si nutriva di carne di leone e il contatto con la terra gli conservava e aumentava la sua forza colossale. Fu ucciso da Ercole, che, dopo una lunga lotta, riuscì a sollevarlo da terra, diminuendo la sua forza finché Anteo morì. Nell’Inferno dantesco questo Gigante non è incatenato, a differenza dei suoi simili, in quanto non prese parte alla suddetta battaglia e non fece atto di superbia. Virgilio prega il Gigante di deporre lui e il suo discepolo in fondo al pozzo nel lago ghiacciato di Cocito, e Dante tornando sulla terra gli darà fama nel mondo con i suoi versi, ma certamente non in modo lusinghiero, quindi il discorso elaborato di Virgilio è da intendersi come antifrastico e la “captatio benevolentiae” è in senso ironico per suscitare la vanità del Gigante, che, convinto, depone delicatamente i due poeti per poi sollevarsi di nuovo come l’albero di una nave. I due Giganti Tizio e Tifeo sono solo menzionati.[68]

Le figure dei Giganti, soli protagonisti di tutto il canto XXXI, anticipano e preparano il Poeta all’incontro con Lucifero: i Giganti sono conficcati nella roccia ai margini del pozzo, come il re dell’Inferno lo sarà nel centro di Cocito, i Giganti si erano ribellati agli dei con il presuntuoso tentativo di dare la scalata al cielo; analogamente l’angelo più bello e più benvoluto da Dio si era ribellato perché voleva essere uguale a Lui; i Giganti non sembrano dotati d’intelletto, ma sono descritti come esseri enormi privi di razionalità, come Lucifero verrà descritto con peculiarità bestiali e come un enorme mostro peloso che divora le anime di Giuda, Bruto e Cassio. Dante segue la tradizione dei Padri della Chiesa, i quali definivano i Giganti come esseri mostruosi, di dimensioni eccezionali e realmente esistiti, ma non demoniaci. 

 Nel XXXIV canto, i due poeti arrivano al cospetto de “Lo ‘imperador del doloroso regno” e celeberrima è la rappresentazione dantesca di Lucifero, al centro della terra, conficcato nel ghiaccio di Cocito, con tre facce mostruose di colore diverso, simbolo della trinità infernale, contrapposta alla Trinità divina che è amore, potenza e sapienza infiniti: la faccia anteriore è vermiglia, simbolo dell’ira, quella di destra è giallastra, simbolo dell’invidia, quella di sinistra è nera, simbolo dell’odio, secondo le credenze del tempo, i principali moventi che spingono al tradimento: in ciascuna delle quali egli maciulla un peccatore, ma quali peccatori: i traditori di Cristo e di Cesare! Giuda, il tesoriere degli Apostoli, non è chiaro per quale motivo abbia pattuito la cattura di Gesù e la sua consegna ai Romani, per la somma di trenta denari d’argento. Dante lo considera soprattutto simbolo dell’avarizia e del tradimento, è collocato nella zona più profonda dell’Inferno ed è il peccatore che viene punito con la pena più grande. Bruto e Cassio,[69] i quali furono considerati dai Romani fedeli alla tradizione repubblicana gli uccisori del tiranno, ma durante il Medioevo furono ritenuti traditori della maestà imperiale nella figura di Cesare, reputato l’effettivo instauratore dell’Impero. Il Poeta considera pienamente appropriata la loro condanna, poiché la colpa dei tre dannati è per lui e per l’uomo medievale considerata una delle più gravi, perché commessa ai danni delle due supreme potestà su cui poggia il fondamento di un’ordinata vita terrena e della beatitudine di quella celeste. La loro collocazione non può essere che nelle fauci del male, da dove cola una sanguinosa bava a completamento del nauseante spettacolo.

Sotto ciascuna faccia di Lucifero spuntano due ali enormi, non pennute come quelle degli angeli o degli uccelli più nobili, ma simili a quelle dei pipistrelli, ricoperte di ripugnante peluria, che, agitandole continuamente, provocano un vento talmente freddo che fa gelare tutto Cocito. La rappresentazione di Lucifero non poteva essere più terrificante e insieme grottesca. Le arti figurative rappresentarono spesso, anche prima del periodo di Dante, i diavoli con ali di pipistrello e gli angeli con le ali pennute, il Poeta seguì nella raffigurazione di Lucifero la tradizione artistica del suo tempo. La descrizione insiste sulle dimensioni smisurate, paragonando la figura di Lucifero ai Giganti incontrati poco prima dai due poeti, che sembravano dei lillipuziani al suo confronto, e sottolineando la sua mostruosità in antitesi con la bellezza sfolgorante che lo distingueva (caratterizzava) prima della ribellione.  

Molto interessante è questo commento su Satana del Petronio, che riportiamo integralmente: << Questi, già Lucifero, scacciato dai cieli per la sua superbia, è precipitato sulla terra, e, scavatasi una sorte di voragine, nata dal ritrarsi del suolo dinanzi a lui, è rimasto confitto al centro del globo, e quindi dell’universo, simbolo del male e antitesi di Dio, mentre la terra che lo aveva fuggito è emersa agli antipodi di Gerusalemme formando la montagna del Purgatorio. E’ facile notare la saldezza concettuale e fantastica di questa struttura, e la forte unità con la quale Dante seppe legare tutti gli elementi della concezione biblica della storia dell’uomo: Dio, sommo bene, e Satana, sommo male, sono contrapposti antiteticamente, anche dal punto di vista della loro collocazione nel mondo; la caduta di Lucifero – che avrebbe dato luogo a tutta la storia umana futura, con la seduzione di Eva, la colpa dell’uomo, il riscatto operato da Cristo – spalanca la voragine infernale in cui è punito chi non ha saputo respingere la seduzione del male, ma spinge verso il cielo quella montagna del Purgatorio che sarà strumento di purgazione e di redenzione. Così i regni dell’oltretomba, quali li aveva concepiti e immaginati il cristianesimo, vengono collegati strettamente alla storia dell’uomo e alla storia sovrumana della creazione e poi della ribellione degli angeli. Egualmente notevole è, in questa concezione, il reciso antropocentrismo, in armonia, anche qui, con la visione della vita propria del medioevo: l’uomo è al centro della creazione e della storia; Dio lo creato, destinandolo alla felicità eterna, nel momento stesso in cui creava il mondo; esule sulla terra per la caduta di Adamo, egli è la posta di un conflitto continuo tra male e bene; intorno a lui e alla terra che abita ruotano le sfere celesti; per lui Dio si è incarnato e ha sofferto la Passione.[70]

Nella Bibbia non sono presenti riferimenti diretti e dettagliati della figura di Lucifero, né della sua cacciata dal Paradiso.[71] Il Nuovo Testamento ha ereditato vari concetti di Diavolo: è un angelo caduto, è il capo dell’esercito demoniaco, è il principe del male, è il non-essere, la cui funzione è quella di nemico principale di Cristo. Restava però il problema della teodicea: il Signore buono crea un mondo buono, deteriorato dal Diavolo e dai demoni, che arrecano ogni sorta di mali, ma anche dal libero arbitrio dell’umanità, che rappresentata da Adamo ed Eva, sceglie di fare il male anziché il bene, di conseguenza tramite l’azione di Satana, supportato dai demoni e dagli esseri umani caduti nel peccato, il mondo si è trovato sotto la dominazione del Diavolo, quindi il male esistente nel mondo non è dovuto al Dio buono, ma alle suddette creature.[72]

La dottrina del peccato originale è sconosciuta nel Vecchio Testamento, rara nella letteratura rabbinica, troviamo degli accenni nella letteratura apocalittica ed anche nel Nuovo Testamento non viene sviluppata, ma i Vangeli menzionano il peccato originale e riferimenti indiretti si possono trovare nel “Corpus Paolino”,[73] mentre nella “Lettera ai Romani” si parla del peccato originale: Paolo spiega che attraverso il peccato di Adamo, il peccato e la morte sono entrati nel mondo,[74] non viene accennato al ruolo di Satana, anche se possiamo dedurre implicitamente che è stato lui che ha indotto Adamo al peccato e ciò implicherebbe che il peccato di Satana sarebbe precedente a quello di Adamo, mentre la prima tradizione cristiana sosteneva prima la caduta di Adamo e poi quella di Satana. Il Diavolo è il signore del mondo degli uomini, perché può tentare chiunque, in quanto signore dei peccatori, è il principe di una legione di angeli caduti e dei demoni, ma la differenza tra i due generi è molto vaga nel Nuovo Testamento, come lo era stata nel tardo giudaismo. Nell’uso neotestamentario, la distinzione tra il Diavolo e i demoni è chiara nei termini “diabolos” e “daimonion”, mentre nella successiva tradizione cristiana questi termini perdono la loro efficacia e i demoni sono esseri sotto il comando di Satana che lo aiutano a ostacolare il Regno di Dio, per mezzo della possessione; il Diavolo, nel Nuovo Testamento è un tentatore, un bugiardo, un assassino, è causa di morte, della stregoneria, e dell’idolatria, danneggia gli uomini e ostacola la predicazione del Regno di Dio istigandoli al peccato e possedendoli spiritualmente.

Nella tradizione cristiana del tempo di Dante (e di Milton), il Diavolo è il re dell’Inferno dove punisce i peccatori e soffre egli stesso, ma nessuna di queste azioni vengono citate nel Nuovo Testamento, dove i riferimenti sono rari e poco chiari e l’Inferno viene indicato con i termini “Hades” e “Geenna”: il primo si trova sottoterra ed è il luogo dove dimorano le anime in attesa di ricongiungersi ai loro corpi con la Resurrezione; mentre il secondo è il sito del fuoco eterno, dove sono puniti i malvagi, ma non viene indicata la sua ubicazione, ma che cosa accadrà e quando sarà la fine del mondo? Il problema dell’Inferno è da inquadrare in quello più vasto dell’escatologia: la fine del mondo e la sconfitta di Satana sembrerebbero simultanee, ma il Nuovo Testamento parla in maniera oscura sia sui tempi sia sui modi.[75]

Numerose e varie interpretazioni sono state date alla caduta di Lucifero e degli angeli suoi seguaci, la cronologia; la natura della caduta; la geografia della caduta, e proprio l’incoerenza e l’ambiguità di questi racconti hanno consentito al pensiero cristiano di far nascere una vasta varietà di leggende circa la sconfitta del Diavolo, ognuna delle quali coerenti con l’insegnamento biblico da cui derivava. Altro tema escatologico è quello dell’Anticristo, a cui vengono associate le bestie e il drago ( Apocalisse, vv. 11-19), che si può identificare con il Diavolo e le bestie con i sui servi, mentre la bestia che viene dal mare simboleggia il potere di Roma. L’Anticristo e le due bestie sono aiutanti di Satana nella sua lotta contro Cristo alla fine del mondo, ossia l’antico eone, la forza del male che ostacola e impedisce il regno di Dio, che vengono gettati in uno stagno di fuoco e tormentati continuamente col Diavolo. ( Apocalisse vv. 19-20; 20,10) Nella tradizione iconografica il Diavolo è rappresentato con le corna, forse perché veniva associato con gli animali selvatici provvisti di corna, con Pan e i satiri, con la fertilità e la luna crescente, comunque sia queste immagini si associarono nel Cristianesimo primitivo e misero sulla testa del Diavolo le corna. Se i demoni del Nuovo Testamento si collegano con molti animali schifosi, Satana si connette al leone  e al serpente, anche se il primo non divenne importante per la tradizione iconografica, perché associato anche a Cristo e a Marco l’evangelista; il serpente, tentatore di Eva, sarebbe l’identificazione di Satana, anche se non è mai troppo evidenziata nel Nuovo Testamento, ma caldeggiata dalla tradizione cristiana posteriore, anche le ali, non menzionate nel Nuovo Testamento, ma spesso associate al Diavolo, che regna nell’aria, fanno parte della sua figura, sempre nella tradizione posteriore è rappresentato dai colori rosso e nero: solo nell’Apocalisse il rosso è considerato un colore negativo, è il colore del drago, della prostituta e della bestia che cavalca. (Ap. 12,3) Il nero deriva dal suo ruolo di signore delle tenebre e dalla sua associazione agli Inferi, dove si trova prigioniero dopo la caduta, tuttavia nel Nuovo Testamento Satana non viene mai rappresentato concretamente, perché esso è uno spirito, non un corpo, pur avendo la facoltà di cambiare aspetto per i suoi fini e trasformarsi anche in angelo di luce.[76]  

Dobbiamo considerare che il senso della paura fu già nell’uomo primitivo, che si trovò a combattere contro tanti pericoli e avversità naturali, ma l’uomo scoprì il valore del magico e del sacro, fondendoli spesso tra loro e arrivando così al culto di vari oggetti e di animali. D’altra parte l’uomo arcaico si era reso perfettamente conto della propria finitezza e la scoperta di questi due valori fu fondamentale per la propria vita, in quanto gli dette la possibilità di proiettarsi in ciò che l’uomo non avrebbe mai raggiunto materialmente: l’infinità. Aspirante alla salvezza si rivolse, quindi, per l’immediato presente alla magia e a quella per il futuro al sacro.[77]

Satana onnipresente come Dio: questa è la realtà essenziale che sta alla base dell’intera credenza. Un manicheismo semplicista, ma molto efficace fa della vita terrena una battaglia perpetua tra il Diavolo e le creature. Il Maligno e il suo esercito infernale possono fare il male entro limiti tracciati da Dio, ma si tratta di limiti estesi, perché approfittano delle debolezze degli uomini.[78]

Alcuni testi medioevale distinguono Satana da Lucifero, la tradizione afferma, invece, la loro unità, in quanto usa indistintamente i due termini per indicare un solo personaggio, il Diavolo, personificazione del male. Il nome di Lucifero nasce dall’associazione del principe di Isaia,[79] che precipita dal cielo a causa del suo orgoglio, con il cherubino di Ezechiele, la cui condotta era sempre stata perfetta fin dalla sua creazione, fino a quando in lui ci fu l’iniquità.[80] Queste due figure si uniscono in quella di Satana; quando avviene tale fusione non si sa, ma Origene, nel III secolo, usa questi nomi riferendoli allo stesso personaggio.[81]

            La credenza al bene e al male, questa dualità costituisce l’idea fondamentale delle religioni orientali ed è all’origine delle più antiche cerimonie rituali. Questa convinzione compare, all’inizio dell’era cristiana, nell’idea dualistica dei manichei, dando luogo ad una nuova concezione: quella del Diavolo, nemico di Dio e capace di dare ai suoi veneratori una forza in grado di sconvolgere l’armonia nell’opera divina, che originariamente comportava solo cose buone. L’esistenza del Diavolo fu proclamata negli atti del IV Concilio lateranense del 1215, diffondendo a poco a poco una forma crescente di paura per le terribili manifestazioni di un’entità così potente.[82]

Il viaggio oltremondano che Dante dice di avere realizzato nasce da un profondo bisogno di rigenerazione morale e spirituale, non solo a livello personale, ma per tutta l’umanità, travagliata da un clima storico-politico e religioso di crisi istituzionale: la decadenza dell’Impero, la supremazia del potere temporale del Papato su quello spirituale, con un’ulteriore mondanizzazione della Chiesa, la cui conseguenza era l’incremento della simonia, del nepotismo e della corruzione. La Firenze di Dante, con il suo sviluppo economico-commerciale, costituiva l’ambiente ideale di dissolutezza morale, che dilaga nella società del tempo e che vede l’abbandono dei vecchi valori cavallereschi per dare spazio alla bramosia di ricchezze e alle conseguenti aspre lotte interne della città, in cui il Poeta resterà coinvolto e che pagherà con l’esilio la falsa accusa di baratteria. Il messaggio profetico dell’Alighieri, nel suo capolavoro, annuncia la venuta di un Veltro,[83] ossia di un riformatore spirituale che avrebbe riportato i popoli sulla retta via, egli stesso si sente investito di una missione profetica e divina volta alla rigenerazione spirituale dell’umanità, che gli sarà confermata dall’avo Cacciaguida in Paradiso.[84]Dante non è più l’”exul immeritus”, come si firmava nella maggior parte delle sue lettere, ma un profeta latore di un messaggio universale, che, dopo Enea, propugnatore di Roma imperiale, e di San Paolo, risanatore della fede, si pone come riformatore politico e religioso.


[1] S. A. Barbi, Dante Alighieri, La Divina Commedia, Commento di Tommaso Casini, Firenze1959,Inferno, Canto III, vv. 82-111. I passi della prima Cantica riportati nel testo sono ripresi da questa edizione della Divina Commedia.

[2]Si tratta del fenomeno dell’ossitonizzazione, cioè rendere una parola ossitona facendo cadere l’accento tonico sulla sillaba finale.

[3] Cfr. Inf. II, vv. 10-33.

[4] Inf. I, vv. 82-87. Era tipico dello scrittore medievale affidarsi ad un’”auctoritas”, per dare validità a ciò che scriveva.

[5] Cfr. Inf. II, vv. 31-33.

[6] Cfr. B. Porcelli, Studi sulla “Divia Commedia”, Bologna 1970, pp. 3-5.

[7] Ibid.

[8] Cfr. Par. X, vv. 136-138. Sigieri di Brabante nasce nel 1240 circa e muore ad Orvieto nel 1282/3. Maestro a Parigi, fu considerato il più importante pensatore del pensiero averroistico del secolo XIII.   La prima condanna fu nel 1270, quando il Vescovo di Parigi condannò e vietò una serie di proposizioni filosofiche teologiche sostenute nei commenti e nelle lezioni dei maestri “averroisti”, che gli procurarono numerosi ed accaniti avversari. Quando la condanna fu rinnovata in modo più solenne e ampia nel 1277, Sigieri si recò a Roma per scolparsi, poi fu ad Orvieto, allora sede della curia papale, accettando la condanna e l’obbligo di restare internato presso la curia stessa, dove morene 1283 forse assassinato da un chierico, suo segretario. La presenza di Sigieri e l’elogio su di lui, che Dante mette in bocca a San Tommaso nel X canto del Paradiso, ha dato luogo a molte discussioni tra gli studiosi, infatti è noto che Tommaso avversò aspramente le dottrine averroistiche del Brabante (v. “De unitate intellectus”), il quale rispose alle critiche con il libro “De anima”, dove ribadiva la sua posizione razionalistica eterodossa e accettava solo in parte le accuse mossegli. E’ probabile che Dante lo abbia collocato tra gli spiriti sapienti per innalzare la memoria di un grande pensatore che l’invidia aveva cercato di sminuire. Cfr. N. Sapegno a cura di, La Divina Commedia, Paradiso, X, Bologna 1964, p. 136 in nota. I passi della terza Cantica riportati nel testo sono ripresi da questa edizione della Divina Commedia.

[9] Inf. IV, v. 96.

[10] Cfr. F. Gaeta-P. Villani, Corso di Storia, I, Milano 1979, pp. 234-235.

[11] Ibid.

[12] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante, in “I Grandi di Tutti i Tempi”, vol. 3°, Verona 1965, pp. 5-17.

[13] Cfr. Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17. 

[14] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17.

[15] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17.  

[16] Forese appartiene al ramo più importante della famiglia dei Donati, fratello di Corso e Sinibaldo, bramosi di potere, cugino di Dante per parte della moglie, egli, a differenza dei fratelli, si tiene lontano dalla politica. Dante rinfaccia all’amico la trascuratezza verso la moglie Nella e le voci che circolano sulla sua origine; Forese risponde ricordando la brutta fama di suo padre Alighiero e la sua posizione economica, che se non fosse per i suoi fratellastri si troverebbe all’ospizio dei poveri. Cfr M. L. Rizzatti, Dante… cit., p. 21. 

[17] Cfr. Inf. XVIII, 28-33.

[18] “ Popule mee, quid feci tibi?”. Conosciamo il contenuto di questa lettera perduta grazie a Leonardo Bruni, da lui vista probabilmente nell’archivio della Cancelleria fiorentina, il quale può avere aggiunto qualcosa di suo, ma si tratta di una testimonianza diretta molto importante. Questa epistola è menzionata anche da Giovanni Villani nella sua “Cronica”.  La frase biblica latina (Mich. 6, 3), è l’incipit di questa epistola, che secondo il Bruni, sarebbe stata scritta da Dante da Verona nei suoi primi anni d’esilio e diretta non solo “a’ particolari cittadini del reggimento”, ma a tutto il popolo di Firenze. Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/popule -mee-quid-feci-tibi_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[19] Cfr. G. Petrocchi, Il Purgatorio di Dante, Milano 1978, pp. 9-19.

[20] Ovidio, Met., VII 456-516; VIII 1-263; G. Padoan, Minosse, in “Enciclopedia Dantesca” http://www.treccani.it/enciclopedia/minosse_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[21] Inf., V, vv. 4-12.

[22]G. Padoan, Minosse, in “Enciclopedia Dantesca” http://www.treccani.it/enciclopedia/minosse_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[23] M. L. Rizzatti, Dante… cit., p. 21. 

[24] Nella mitologia classica Dite era il nome di Plutone e del regno dei morti, Dante lo attribuisce sia a Lucifero sia alla città dei morti.

[25] Inf. VIII, vv. 82-85.

[26] Inf., VII, vv. 13-15; Cfr G. Padoan, Pluto G. Padoan, Pluto, in Enciclopedia Dantesca (1970) http;//www.treccani.it/enciclopedia/pluto_%28Enciclopedia-Dantesca%29/ Un’altra masnada di diavoli appare a Dante nella bolgia dei seduttori “Di qua, di là, su per lo sasso tetro / vidi demon cornuti con gran ferze, / che li battìen crudelmente di retro”. Inf., XVIII, vv. 34-36.

[27] Cfr. S. Urso, La Demonologia, Parte I) https://archaeus.it/la-demonologia-parte-prima-origine-e-storia/

[28] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[29] Par. XIX, vv. 46-47.

[30] Par. XXIX, vv. 55-57.

[31] Cfr. G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[32] Dante Alighieri, Convivio, XII, 8-9.

[33] Inf. III, vv. 37-42.

[34] Cfr. Inf. III, vv. 37-41, 59-60; G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[35]Inf. XXXIV, vv. 121-126. Lucifero cadde giù dal cielo da questa parte, e la terra, che prima della sua caduta emergeva in questo emisfero australe, per paura si riparò con le acque del mare come se fossero un velo e si spostò nel nostro emisfero e la terra che appare di qua, per non avere contatto con lui, dette origine alla cavità detta “natural burella” e si spinse in alto dando origine alla montagna del Purgatorio.

[36] Inf. XXVII, vv. 112-114. Dante si trova nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, dove sono condannati i consiglieri fraudolenti. L’anima con cui sta parlando è quella di Guido da Montefeltro, che gli racconta la propria vita di capo militare e poi di frate francescano, in vita ebbe fama di giovarsi più dell’astuzia che della forza. Alla sua morte l’anima fu contesa a San Francesco, che voleva portarlo in Paradiso e dal Diavolo che dimostrò trattarsi di un peccatore a causa del consiglio fraudolento che dette a Bonifacio VIII, in guerra con i Colonna, si rivolse al Montefeltro per conquistare Palestrina assediata e vincere la guerra, promettendogli l’assoluzione in anticipo. Il consiglio fu di promettere molto e mantenere poco.

[37] Purg., V, vv. 103-108.

[38] <<Oh!, diss’io a lui, “or se’ tu ancor morto?”. / Ed elli a me: “Come ‘l mio corpo stea / nel mondo su, nulla scienza porto. / Cotal vantaggio ha questa Tolomea, / che spesse volte l’anima ci cade / innanzi ch’Atropòs mossa le dea. / E perché tu più volentier mi rade / le ‘nvetriate lagrime dal volto, / sappie che, tosto che l’anima trade / come fec’io, il corpo suo l’è tolto / da un demonio, che poscia il governa / mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto. / Ella riuna in sì fatta cisterna; / e forse pare ancoro lo corpo suso / de l’ombra che di qua dietro mi verna. / Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso: / elli è ser Branca Doria, e son più anni / poscia passati ch’el fu sì racchiuso”. / “Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni; / ché Branca Doria non morì unquanche, / e mangia e bee e dorme e veste panni”. / “Nel fosso su”, diss’el, “de’ Malebranche, / la dove bolle la tenace pece, / non era ancor giunto Michele Zanche, / che questi lasciò il diavolo in sua vece / nel corpo suo, ed un suo prossimano / che ‘l tradimento insieme con lui fece. / Ma distendi oggimai in qua la mano; / aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi; / e cortesia fu lui esser villano.>> Inf. XXXIII, 124-157.

[39] Ioann. 13, 27, “Et post buccellam introiti in eum Satanas” (E allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Per cui Gesù gli disse: Quel che fai, fallo presto.)

[40] Inf. ,V., vv. 70-72.

[41] Inf., XX, vv. 25-30.

[42] Inf., IV, vv. 19-21.

[43] Cfr., A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Torino 1892, V. I,p. 260 e segg. La Chiesa non si pronunciò su tale dubbio, ma nel non pregare per i dannati era implicita la negazione della mitigazione delle pene.

[44] Inf., IV, vv. 31-33; 44-45.

[45] Inf., IV, vv. 93-96.

[46] Inf., VI, vv. 7-8.

[47] Inf., VI, v. 15.

[48] Inf., XXII, vv. 19-24.

[49] Inf. XXI, vv. 39-40.

[50] Inf., XXI, vv. 31-36. Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/

[51] Inf., XXI, vv.136-139. Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/

[52] Inf. XXXIV, v. 28

[53] Inf. IX, 44. Proserpina figlia di Giove e di Cerere, moglie di Plutone e regina dell’Inferno.

[54] Cfr. G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[55] Inf. III, vv. 65-69. “Questi sciaurati, che mai non fur vivi, / erano ignudi e stimolati molto / da mosconi e da vespe ch’eran ivi. / Elle rigavan lor di sangue il volto, / che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi / da fastidiosi vermi era ricolto.”; cagne bramose sbranano i dilapidatori, Inf. XIII, vv. 124-129; XXI, vv. 44-45 e 67-69.) le mani dei ladri sono legate con delle serpi, Inf. XXIV, vv. 94-105.

[56] Inf. I, vv. 109-111. La lupa, simbolo della cupidigia, potrà essere definitivamente debellata solo da un misterioso “veltro” o cane da caccia, che dopo averla cacciata da ogni città e averla ricollocata all’Inferno, la farà morire con dolore.

[57] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[58] Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/ ; G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[59] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[60] Inf. IX, vv. 38-54. La figura di Proserpina compare tre volte nella Commedia, in quella citata nel testo, come regina dell’etterno pianto, nel cato X, v. 44 “la faccia della donna che qui regge”, identificandola con Ecate e la Luna, parole dette da Farinata degli Uberti; in Purg., XXVIII, vv. 49-51, in cui è paragonate a Matelda, la donna che accoglie Dante nel giardino dell’Eden. “Proserpina è dunque segnale del cammino progressivo dell’intellettuale dall’oscura selva del peccato alla luminosa selva del Paradiso terrestre, e della capacità di Dante di portare, insieme con Beatrice, a completa maturazione il processo di acquisizione di cultura e di fede iniziato con Virgilio…”R. Mercuri, Proserpina, http://www.treccani.it/enciclopedia/proserpina_(Enciclopedia-Dantesca)/

[61] Inf., XXV, vv. 25-33.

[62] Inf. XIII, vv. 10-15.

[63] Inf., XVII, vv. 10-27.

[64] Cfr. https.//www.treccani.it/enciclopedia/gerione-%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[65] Inf., XXXI, vv. 28-33.

[66] Genesi 10, 8; XI 1-9.

[67] Inf. XXXI, vv. 58-59.

[68] Ibid., v. 124.

[69] Mario Giunio Bruto, nonostante avesse ricevuto molti benefici da Cesare, fu dalla parte di Pompeo durante la guerra civile tra i due. Dopo la battaglia di Farsalo (48 a.C.) passò dalla parte di Cesare e l’anno successivo fu nominato Governatore della Gallia Cisalpina, nel 45, tornato a Roma fu il principale fautore, insieme a Cassio, della congiura in cui fu ucciso Cesare, successivamente fuggì in Oriente con Cassio, dove si scontrò con Ottaviano e Antonio a Filippi (42 a.C.), sconfitto si uccise. Anche Caio Cassio Longino seguì la stessa sorte, anche se, dopo la fuga, ottenne il comando delle province orientali, ma dopo il colpo di Stato di Ottaviano e Antonio fu ritenuto fuori legge e battuto a Filippi da Antonio si uccise.)

[70] G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palermo 1970, p. 106.

[71] Sulle origini di Lucifero Cfr, L. Fabbri, Il Diavolo e l’Acqua santa, in “Chi ha disprezzato il giorno delle piccole cose?, Aversa 2007, pp. 323-324.

[72] Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel mondo antico, Bergamo 1990, p. 143 e segg.

[73] Cfr. I Corinzi 15, 20-22 e 44-50; Galati 5, 4; Efesini 2, 3; II corinzi 11. 

[74] “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito […] Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. […]Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza  di uno solo tutti saranno costituiti giusti. La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore.>>  La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1974, pp. 2424-2426.

[75]Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel mondo antico, Bergamo 1990, p. 143-154.

[76] II Corinzi 11,14; Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo…, cit., pp.143-154

[77] Cfr, L. Fabbri, Il Diavolo e l’Acqua santa, in “Chi ha disprezzato il giorno delle piccole cose?, Aversa 2007, pp. 323-324.

[78] Ibid.

[79] “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora?Come mai sei stato steso a terra , signore dei popoli?” Isaia 14, 12.

[80] “Tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato, perché non si trovò in te la perversità. Per l’abbondanza del tuo commercio, tutto in te s’è riempito di violenza, e tu hai peccato; perciò io ti caccio come un profano dal monte di Dio, e ti farò sparire, o cherubino protettore, di mezzo alle pietre di fuoco. Il tuo cuore s’è fatto altero per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saviezza a motivo del tuo splendore…” Ezechiele, 28, 15-16.

[81] Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel Medioevo, Bari 1987, prefazione.

[82] Cfr. L. Fabbri, Il Diavolo… cit., p.

[83] Inf., I, vv. 100-102.

[84] Par. XVII, vv. 133-135.

NELL’OTTICA DELL’ ”HOMO SANZA LETTERE”

di Loredana Fabbri

  “L’occhio dal quale la bellezza dell’universo è specchiata dai contemplanti,

                                                                           è di tanta eccellenza, che chi consente alla sua perdita

                                                                        si priva della rappresentazione di tutte le opere della natura,

                                                       per la veduta delle quali l’anima sta contenta nelle umane carceri, mediante gli occhi,

                                                                        per i quali essa anima si rappresenta tutte le varie cose di natura.

                                                      Ma chi li perde lascia essa anima in una oscura prigione, dove si perde ogni speranza

                                                                                          di vedere il sole, luce di tutto il  mondo”

                                                                                      (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, XIX, 1550)

 

Al Professor Aldo Caporossi con infinita riconoscenza

 

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<<In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. […] Dio disse: “Ci siano le luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra”. E così avvenne: Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare il giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre>>. (Genesi, 1, 18) La luce è una creazione di Dio, le tenebre sono la negazione. In tutte le culture la luce è contrapposta alle tenebre: si comprende la luce per ché vi sono le tenebre, la luce indica la vita, le tenebre la morte. La Bibbia è permeata dal simbolo della luce dalla prima all’ultima pagina. Agostino paragona la luce alla grazia divina, sostenendo che l’uomo non essendo e non possedendo per sé la verità, la riceve da Dio, il quale simile a una luce vivida illumina la nostra mente permettendole di apprendere.

Molto frequenti sono i riferimenti a problemi di ottica e di teoria della visione nei manoscritti leonardeschi, questo grande interesse di Leonardo per l’anatomia e la fisiologia dell’occhio, scaturisce soprattutto dalle sue ricerche sulla prospettiva e la pittura. Ma quale idea egli aveva sulla natura della luce? Se per luce vogliamo intendere ciò che gli scienziati del suo tempo chiamavano “lumen”, Leonardo non menziona mai la natura corpuscolare del “lumen”, ma i suoi studi riflettono il caos che regna nella teoria del suo tempo, parla di “razzi”rettilinei, ma il concetto delle “spezie”è indubbiamente quello da lui seguito. Questa teoria sosteneva che chi guardava in uno specchio piano, recepiva negli occhi le specie che sono rimbalzate sulla superficie dello specchio e che si contraevano lungo una piramide che aveva il vertice nell’occhio. Teoria presto abbandonata.

In passato solo con Avicenna e Averroé si ebbe la distinzione tra “lux” e “lumen”, legate a differenti interpretazioni del concetto di luce. Avicenna distingue la “lux”come qualità luminosa degli oggetti che rende possibile, tramite un mezzo interposto, il vederli, mentre il “lumen”sarebbe l’effetto della luce sul mezzo e sui corpi circostanti.

Averroé distingue tra esistenza spirituale ed esistenza corporea della luce e dei colori, sostenendo che nell’anima avrebbero un’esistenza spirituale mentre nei corpi trasparenti un’esistenza interposta tra quella spirituale e la corporea. In tal modo il concetto di luce comincia ad indicare particolarità formali dei corpi, che sono espresse a chi osserva per mezzo dei “simulacri”, “species”, che possono essere materiali o immateriali. La “lux”, quindi, diviene visibile per mezzo del “lumen”, che in tal modo acquisisce il significato di specie della “lux”.

Fino al XII secolo, però, la teoria prevalente sulla luce fu quella del neoplatonismo, mediato dalla tradizione cristiana di Sant’Agostino, per cui il mondo della verità eterna si può raggiungere solo se l’anima è illuminata da Dio, dando luogo ad un processo per cui l’anima vede le verità eterne e per mezzo di queste è in grado di giudicare ogni altra cosa.[1]

Altri procedimenti vennero teorizzati col passare del tempo, creando quel guazzabuglio di idee in atto al tempo di Leonardo, il quale parla di spezie, di simulacri, di similitudini e sporadicamente di razzi, nel “Codice Atlantico (fol. 256r.) troviamo: <<Siccome la pietra gittata nell’acqua si fa cientro e causa di vari circuli, el sono fa nell’aria […]circularmente spargie la sua voce. Ogni corpo posto infra l’aria luminosa circularmente enpie le infinite parti d’essa aria della sua similitudine ed è tutto e ttutto in nella parte>>.

Codice_Atlantico_-_Legatura

 

Leonardo era un uomo di grandissimo ingegno, un acuto osservatore e bramoso di conoscere le cause dei fenomeni, e, come pittore, cercò di spiegare l’effetto strano che si ottiene in un dipinto, ossia si riesce a far vedere quello che si vedrebbe guardando un panorama in un determinato istante. Tutto ciò non solo per curiosità di sapere e di capire, ma soprattutto per perfezionare la tecnica della pittura, non dimentichiamo che fu proprio Leonardo a introdurre “lo sfumato”, e nel “Trattato della Pittura” (§77) scrisse: <<Dell’errore di quelli che usano la pratica senza la scienza. Quelli che s’innamorano della pratica senza la scienza, sono come i nocchieri che entrano in naviglio senza timone o bussola, che mai hanno certezza dove si vadano. Sempre la pratica deve essere edificata sopra la buona teorica, della quale la prospettiva è guida e porta, e senza questa nulla si fa bene>>. Egli vuole rendersi conto del perché con uno strato di impasti più chiari e più scuri sopra una tavola, una tela o un muro si inganni chi guarda, perché questi vede uomini, montagne e alberi in rilievo con le loro forme e i loro colori, certamente Leonardo si sarà chiesto che cosa vuol dire “vedere” ed ha cercato la risposta nei testi che erano più seguiti a quel tempo, ma questi trattati lo devono avere molto deluso, infatti nei suoi appunti troviamo molteplici riferimenti a questi suoi studi, in cui è palese la sua insoddisfazione sia per i concetti contraddittori sia per il contrasto delle sue idee con quelle della scienza, dovuti anche alla difficoltà dell’argomento.[2]

Ai tempi del maestro toscano, l’ottica era ancora un intrico subdolo di enigmi, i cui tentativi di chiarimenti davano luogo a teorie improbabili e contraddittorie, del tutto insoddisfacenti, Leonardo, infatti, dopo avere consultato i testi sull’ottica di cui poteva disporre, deve essere rimasto inappagato dalle varie teorie della visione in essi proposte e scrive : <<L’occhio del quale l’esperienza ci mostra così chiaramente l’uffizio, è stato definito insino al mio tempo da un numero infinito di autori di un dato modo, ed io trovo che esso è completamente diverso>>.[3] Queste parole si trovano nel celeberrimo “Codice Atlantico”, ossia la più vasta raccolta di disegni e scritti autografi di Leonardo: composto da 1119 fogli, in cui sono inclusi disegni, progetti, annotazioni e ricerche di matematica, geometria, astronomia e ottica, oltre ai vari studi dai temi più disparati, che egli inizia nel 1478, quando da giovane era da poco arrivato a Firenze, e prosegue fino al 1519, anno in cui morì ad Amboise.

Questa grande opera si conserva presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano e la sua avventurosa storia è veramente affascinante: nel suo testamento, Leonardo lasciò tutti i suoi manoscritti a Francesco Melzi,[4] suo allievo e discendente di una nobile famiglia lombarda, che seguì il maestro anche in Francia, il quale, dopo il 1519, riportò i manoscritti in Italia, e, come scrive il Vasari li conservò “come reliquie”. Gli eredi di Melzi non fecero altrettanto e dopo la morte di Francesco, furono relegati nel sottotetto della villa di famiglia in forma di fogli sciolti e non rilegati. Ritrovati più tardi, iniziarono un complicato percorso, passando di acquirente in acquirente,[5] fino a quando, alla fine del Cinquecento, arrivarono allo scultore e medaglista Pompeo Leoni,[6] il quale con grandi difficoltà era riuscito a recuperare dagli eredi di Melzi una parte dei manoscritti. I fogli autografi di Leonardo, di diverse dimensioni, vennero incollati da Leoni su fogli più grandi, normalmente usati per realizzare atlanti geografici: da qui il nome che sembra indicare contenuti esoterici, ma che in realtà non si riferisce al contenuto ma alle dimensioni dei fogli di supporto, che vennero ritagliati quando i disegni erano fronte-retro, in modo da poter vedere entrambe le facciate.

Questo lavoro fu estremamente importante, perché rese uniforme una raccolta molto vasta e disomogenea, che contribuì a far arrivare il “Codice Atlantico” fino ai giorni nostri senza dispersione.

Nel 1622 circa il “Codice” fu acquistato dagli eredi di Leone dal nobile mecenate milanese Galeazzo Arconati, il quale lo donò alla Biblioteca Ambrosiana nel 1637, ma con la conquista di Milano da parte di Napoleone, la raccolta venne requisita e trasferita al Louvre nel 1796, dove rimase per diciassette anni, fino a quando, nel 1815, il Congresso di Vienna sancì la restituzione ai legittimi Paesi dei beni artistici trafugati da Napoleone. Si narra che l’incaricato dalla Casa d’Austria alla restituzione delle opere d’arte in Lombardia non riuscendo a leggere la grafia di Leonardo, che scriveva solitamente da destra a sinistra, abbia scambiato il “Codice” per un manoscritto cinese, quindi non di sua competenza, ma lo scultore Antonio Canova, allora Emissario del Pontefice, si rese conto dell’errore e grazie a lui il “Codice Atlantico” fu incluso nell’elenco di opere da restituire alla Biblioteca Ambrosiana.[7]

L’opinione che Leonardo si è fatto del meccanismo della visione e in cui respinge la teoria dei “raggi visuali”, seguita ai suoi tempi, la troviamo nel primo foglio del “Codice Ashburnham 2038”: <<Impossibile è che l’occhio mandi fori di se, per li razzi visuali, la virtù visiva, perché, nello suo aprire, quella prima parte che desse principio all’uscita e avessi andare all’obbietto, non lo potrebbe fare senza tempo. Essendo così, non potrebbe caminare in un mese all’altezza del sole quando l’occhio lo volessi vedere. E s’ella vi agiugnessi, sarebbe neciesario che la fussi continuata per tuta la via ch’è dall’aocchio al sole, e ch’ela sempre alargassi i’ modo che tra ‘l sole e ll’occhio conponessino la basa e lla punta d’una piramide. Essendo questo, non basterebbe se l’occhio fussi per uno milione di mondi e che ttutto non si consumassi in detta virtù. E se pure questa virtù avessi a caminare infra l’aria, come fa l’odore, i venti ne la torcierebbono e porterebono in altro loco. E noi vediamo con quela medesima presteza il corpo del sole, che noi vederemo una distantia d’uno braccio: e non si muta per soffiare di venti, né per alcun altro acidente>>.[8]

Alla fine del XV secolo Leonardo affermava che la finestra dell’anima non era il volto, bensì l’occhio, ma cosa intendeva dicendo “finestra dell’anima”? Sicuramente qualcosa che fa da passaggio e da spazio per l’immagine riflessa sia esterna (mondo) che interna (anima), uno specchio che metta a contatto tra loro il visibile con l’invisibile tramite la pittura. Filosofi ed artisti cominciano ad interessarsi alla teoria dei colori, cercando di porre i rapporti fra i colori semplici e quelli composti.

Secondo la concezione antica l’occhio non era un organo predisposto a sopportare i raggi luminosi, ma era l’origine di un insieme di raggi, chiamati “raggi visuali”, che arrivavano all’oggetto, fu Archita di Taranto che formulò la teoria per la quale l’occhio emana un fluido, una sorta di fuoco invisibile, che andava agli oggetti, li colpiva e tornava indietro, ciò significava che la nostra anima, passando attraverso gli occhi, andava a toccare gli oggetti. L’ottica classica, da Democrito a Tolomeo, accetta la teoria emissionistica dell’occhio.[9] Leonardo scrive nel “Trattato della Pittura: <<L’occhio, che si dice finestra dell’anima, è la principale via donde il comune senso può più copiosamente e magnificamente considerare le infinite opere di natura e l’orecchio è il secondo, il quale si fa nobile per le cose racconte, le quali ha veduto l’occhio. Se voi istoriografi, o poeti, o altri matematici, non aveste con l’occhio visto le cose, male le potreste voi riferire per le scritture. E se tu, poeta, figurerai una istoria con la pittura della penna, il pittore col pennello la farà di più facile satisfazione, e meno tediosa ad esser compresa…>>.[10] E ancora: <<La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede. Adunque queste due poesie, o vuoi dire due pitture, hanno scambiato i sensi, per i quali esse dovrebbero penetrare all’intelletto. Perché se l’una e l’altra è pittura, devono passare al senso comune per il senso più nobile, cioè l’occhio; e se l’una e l’altra è poesia, esse hanno a passare per il senso meno nobile, cioè l’udito…>>.[11] Per il maestro toscano, tali teorie classiche sono chiaramente e scientificamente sorpassate, ma ancora vitali dal punto di vista estetico-poetico, infatti, da ciò che scrive, ci fa capire che è come se i raggi si specchiassero nell’occhio e i moti dell’anima si riflettessero nei corpi.

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Leonardo era a conoscenza delle fonti antiche, medievali e arabe sull’ottica, ma la sua tendenza non è molto chiara, poiché è incerto se credere che vi siano “razzi” che escono dagli occhi, o anche che siano gli oggetti a diffondere delle immagini come loro analogia che raggiungono l’occhio, egli s’impegna con se stesso di revisionare la teoria indagando l’anatomia dell’occhio per conoscere le componenti, ma sembra che questa verifica anatomica e fisiologica non sia mai stata effettuata: nei suoi disegni e soprattutto nelle sezioni dell’occhio si notano dei corpi sferici concentrici non corrispondenti alla realtà, perché nella pupilla, che è lenticolare, non esistono tutte quelle sfere, desunte, indubbiamente, da errate concezioni medievali.[12]

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Vasco Ronchi cosí si esprime a proposito degli studi sull’ottica effettuati da Leonardo:<< Quello che Leonardo ha scritto, a qualche ammiratore incondizionato è apparso come ricco d’interesse. Dobbiamo dire subito che l’ ottica non è il campo in cui Leonardo ha raccolto i frutti migliori, perché molto di ciò che ci ha lasciato a questo proposito perde quasi tutta la importanza attribuitagli, quando lo si inquadri nel complesso delle conoscenze ottiche del suo tempo>>.[13] Occuparsi di ottica ai tempi di Leonardo era un’impresa assai ardua, in quanto non si trattava di studiare o applicare varie leggi matematiche, geometriche o tecniche, ma colui che lo faceva doveva avere la stoffa del filosofo, il quale ha il coraggio di addentrarsi nello studio di problemi intricati e misteriosi come, appunto, era l’ottica dei secoli XV e XVI, le cui “conoscenze” erano limitate a teorie strane e contraddittorie.

Già dal IV secolo a. C. l’uomo viene studiato attentamente nelle sue funzioni naturali, ma soprattutto si cerca di capire il problema della conoscenza, cioè in che modo l’ “io” conoscesse il mondo esterno, arrivando a capire che l’ io o anima o psiche comunica con l’ esterno tramite i sensi. Si cercò di comprendere il meccanismo con cui agivano i sensi e i meccanismi furono accettabili per quanto riguardavano l’udito, il tatto, l’olfatto e il gusto, ma per la vista fu molto più difficile: che la funzione del vedere, del distinguere il colore fosse una realizzazione della psiche, che raffigurava gli elementi che le arrivavano per mezzo dei nervi ottici fu abbastanza semplice, ma quando si pose il problema di come poteva l’ occhio conoscere tali caratteristiche per trasmetterle al cervello, sorsero tante questioni che furono chiarite solo molti secoli più tardi.

Il periodo rinascimentale eredita, dall’antichità e dal Medioevo, una vasta tradizione di studi sull’ottica soprattutto di natura filosofica e matematica, conquistando nel campo dell’ottica geometrica risultati importanti sia nella scienza greca con Euclide e Tolomeo, che in quella araba con Alhazen, in Europa con lo slesiano Witelo (di entrambi gli studiosi parleremo più avanti), e con il tedesco domenicano Teodoro di Freiberg.[14]

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Nel XVI secolo la propagazione della luce viene ancora spiegata sulla base della teoria delle “specie”, ossia la luce scaturita da un corpo luminoso è detta “specie” e si moltiplica tramite il mezzo, muovendosi in linea retta, teoria sostenuta da Roberto Grossatesta, per cui i mutamenti dell’universo materiale sono attribuiti all’attività della luce: tale teoria esercitò una forte influenza sui filosofi del XIV secolo.[15] Prima ancora, nella filosofia medievale, Agostino, come già detto, sosteneva che la luce fosse similare alla grazia divina e alla folgorazione che lo spirito umano riceve dalla verità divina.

Il matematico siciliano Francesco Maurolico, nel Cinquecento, espone una teoria diversa, secondo cui da ogni punto del corpo luminoso e di quello illuminato hanno origine infiniti raggi rettilinei, capaci di illuminare, riflettersi e rifrangersi, trattati non conosciuti da Leonardo, in quanto scritti e pubblicati dopo la sua morte[16]

Leonardo sostiene che la propagazione della luce avviene in modo simile alla formazione delle onde create da una pietra gettata in uno stagno: la sua intensità è proporzionale alla forza della percussione e inversamente proporzionale alla distanza della fonte.

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L’ anatomia dell’ occhio rivelò che la sua costituzione era formata da un globo cavo, pieno di sostanze trasparenti e quasi completamente chiuso, ad eccezione di un piccolo foro, generalmente di due millimetri, la pupilla, quindi ciò che conduceva all’occhio le forme, i colori, la posizione di corpi esterni vicini e lontani, doveva necessariamente entrare nel piccolo pertugio della pupilla, ma arrivare a capire tutto questo non era certamente un problema semplice, da qui le varie teorie. Una di queste ipotizzò che da tutti i corpi <<…partissero in ogni momento come delle “scorze” sottilissime, impalpabili, identiche per forma e per colori al corpo emittente. La propagazione doveva avvenir e in tutte le direzioni, a velocità grandissima, per alcuni addirittura infinita. Queste “scorze”, dette anche “èidola” , non dovevano disturbarsi assolutamente intersecandosi durante il loro percorso, quelle di un corpo con quelle di un altro; e inoltre dovevano possedere la proprietà di contrarsi continuamente per via, fino a diventare così piccole da potersi introdurre nella pupilla di un occhio, ovunque lo incontrassero>>.[17] Tale teoria, decisamente molto azzardata, trovò pochi seguaci, soprattutto tra i matematici, che avevano dato un forte impulso agli studi della prospettiva fin dall’epoca greco-romana, anche se significava rinunziare al principio per cui vi doveva essere un’esalazione dei corpi verso l’occhio, infatti questi studiosi elaborarono una teoria della visione, che rappresentò quella ufficiale per almeno quindici secoli, nonostante non fosse meno strana della precedente: << Costoro, rilevando che il cieco, pur senza toccare direttamente con le mani gli oggetti circostanti, riesce a rendersi conto della loro forma e della loro posizione (non però del colore) se li esplora con un bastone, giunsero alla concezione dei “raggi visuali”, ossia dei bastoni infinitamente sottili, rettilinei, emessi dagli occhi e capaci di esplorare il mondo antistante all’ osservatore, in modo da portare agli occhi gli elementi necessari perchè la psiche potesse rappresentarsene la forma, la posizione e il coloro>>.[18]

Tra i fisici, seguaci della prima teoria e i matematici ci furono vivaci discussioni e vicendevoli domande a cui non venivano date risposte, poiché era facile abbattere, ma più difficile edificare. Da queste due teorie estreme ne nacquero molte altre, che cercarono di riprendere il meglio dell’una e dell’altra, ma nessuna ebbe carattere di validità.

Aristotele contestò sia la teoria delle “èidola” sia quella dei “raggi visuali” e sostenne ricorre al mezzo interposto tra occhio e oggetto e che la visione avviene per mezzo di una specie di pressione, che sotto l’ azione del soggetto si trasmette nel mezzo fino all’occhio, enunciazione enigmatica e troppo generalizzata. Aristotele, demolendo la teoria dei “raggi visuali” propone quella del mezzo interposto tra l’occhio e l’oggetto e cerca di spiegare il fenomeno della visione come una specie di pressione che dall’ oggetto si trasmette nell’ aria fino all’ occhio: questa teoria non ebbe fortuna.[19]

La maggior parte degli studiosi seguiva la teoria dei “raggi visuali”, teoria esposta in due opere di Euclide: l’“Ottica” e la “Catottrica”, risalenti al IV secolo a. C., ma fu nel secolo XI dell’era volgare che questa teoria venne velocemente demolita dagli scienziati e filosofi arabi e soprattutto con il contributo fondamentale dello scienziato Ibn-Al-Haitham, meglio conosciuto come Alhazen.[20]

Alhazen osserva che se guardiamo il sole o oggetti molto luminosi, quando chiudiamo gli occhi continuiamo a vederli per diverso tempo, lo studioso arriva alla conclusione che la visione del sole non avviene per qualcosa che esce dagli occhi, altrimenti dovrebbe cessare immediatamente con la chiusura delle palpebre o con altro oggetto ostacolante, allora la visione, sostiene Alhazen, avviene per opera di un agente esterno emesso dai corpi luminosi e idoneo ad imprimere un’ impronta più o meno duratura in quella parte dell’occhio detta “sensorio”: l’indagine del fenomeno della “persistenza delle immagini retinee” fu di grandissimo valore, perché indirizzò gli studi dell’ottica in quella via che avrebbe portato, anche se cinque secoli più tardi, alla soluzione del problema. Alhazen considerò l’oggetto, di qualsiasi dimensione, come un insieme di parti piccolissime, puntiformi. <<Considerato a sè, ogni elemento emette le sue “scorzettine” che si propagano in linea retta in tutte le direzioni, conservando la similitudine con l’elemento che le aveva emess. Una qualunque di queste “èidola”, se incontra una pupilla, vi entra senza difficoltà, essendo assai più piccola della pupilla stessa, e vi entra a qualunque distanza dallo oggetto avvenga l’incontro>>.[21]  In tal modo cadeva la difficoltà più evidente della teoria delle “èidola”, consistente proprio in quella loro strana contrazione per via.

L’occhio, secondo Alhazen, era composto da tanti strati sferici concentrici e questa convinzione lo porta all’idea di un meccanismo ottico molto ingegnoso: se un elemento puntiforme di un oggetto manda le sue “èidola” in tutte le direzioni, ciò significa che in uno stesso occhio ne arrivano più di una, cioè tutte quelle che colpiscono la superficie della pupilla, ma solo una arriva secondo la perpendicolare e si introduce attraversando tutte le “tuniche” oculari concentriche senza esser deviata; << …mentre le altre “èidola” simili, emesse dalla stessa sorgente in direzione così prossime a quella precedente da giungere ancora sull’ area della pupilla, vi giungono però con un angolo d’ incidenza diverso da zero, e quindi vengono rifratte, cioè la loro traiettoria viene come spezzata. Orbene Alhazen pensa che soltanto la “scorzettina”che non viene rifratta conservi la sua capacità stimolante, e che le altre vadano perdute>>.[22] In altre parole, un oggetto esteso davanti ad un occhio viene diviso in numerose unità di dimensioni ridottissime, ciascuna capace ad inviare le sue “èidola” in tutte le direzioni, ma all’occhio interessano solo quelle che gli arrivano perpendicolari alle sue “tuniche” e tra queste ce n’è sola una per ogni punto dell’oggetto, che penetrano nell’occhio, nel centro del bulbo si incrociano e proseguono ricostruendo punto per punto una figura simile all’oggetto nella retina. Ma la figura ricostruita sulla retina appariva rovesciata rispetto all’oggetto, quindi Alhazen pensò che il “sensorio” non fosse la retina, ma la superficie anteriore del cristallino; nonostante la conclusione inaccettabile il contributo dello scienziato arabo fu determinante, ma a causa della lingua tali studi si conobbero in Occidente solo nel XIII secolo, quando il polacco Vitellione[23] tradusse dall’arabo gli scritti di Alhazen. L’argomento dominante dell’ottica antica e medievale fu, dunque, il meccanismo della visione e fino a quando non si sarebbe risolto questo problema, non si poteva andare avanti, perché sconosciuta la natura dell’agente capace di stimolare l’occhio.[24]

La teoria dei “raggi visuali”, che colpivano le particelle degli oggetti e poi le portavano all’occhio, era supportata da Euclide, da Bacone e da Witelo, quindi da “auctores” antichi e medievali, fu confutata, come già detto, dallo scienziato arabo Alhazen, il quale osservò anche il fenomeno della “persistenza delle immagini retinee”, osservando che se qualcuno guarda il sole o un’ altra fonte molto luminosa, quando chiude gli occhi continua a trattenere l’immagine per molto tempo, desumendo che la visione non avviene per qualcosa che esce dagli occhi, perché non appena chiuse le palpebre essa si interromperebbe, ma avviene a causa di un agente esterno diffuso dai corpi luminosi o dagli oggetti ritenuti come l’ insieme di elementi puntiformi.[25]

Queste teorie non furono subite accolte negli ambienti accademici, dove, nei secoli XIV e XV, si seguivano molto i testi della filosofia greco-romana, ma si cercò di accordare la classicità con la novità, con il risultato di un lungo periodo in cui nacquero le teorie più sconcertanti: questa era la situazione caotica delle teorie della visione al tempo di Leonardo, da cui egli, come altri artisti del Rinascimento, quali Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti, ne era molto attratto e non solo cercarono di svilupparne i contenuti, ma la utilizzarono in funzione delle rappresentazioni dello spazio nell’arte: le leggi matematiche alla base della visione diventano leggi della rappresentazione dello spazio in pittura, o prospettiva.[26]

La posizione di Leonardo nei confronti dell’ottica e dei problemi relativi alla visione oscilla, dunque, continuamente tra l’accettazione delle teorie accreditate presso gli studiosi dell’ antichità e del Medioevo e tra teorie alternative e contrastanti.

Queste teorie erano conosciute da Leonardo, grazie alle traduzioni in latino e in volgare di tali opere ma ancora di più grazie alla tradizione orale e ai frequenti dibattiti nei circoli artisti e scientifici che egli frequentava, ma sarebbe compito assai arduo individuare le fonti cui si ispira per i suoi studi di ottica, indubbiamente era a conoscenza di quelle opere di cui abbiamo accennato prima, anche se amava definirsi “Homo sanza lettere”, che non era un’ostentazione di umiltà, ma una proclamazione di fede nelle scienze: considerava, infatti, la logica e la filosofia “bugiarde scienze mentali”, disapprovando tutto ciò che era basato sull’autorità degli scritti classici e che mancava del supporto dell’esperienza. La Firenze in cui si formò, quella della seconda metà del Quattrocento, era una città molto vivace, in cui fervevano l’arte e gli studi e lui ebbe la fortuna di vivere questa grande avventura creativa.

Certamente il maestro toscano conobbe l’ opera di John Pecham “Della Prospectiva communis”, la prima edizione italiana fu pubblicata nel 1482 da Fazio Cardano, professore a Pavia, frequentato da Leonardo, il quale scrive: << intra li studi delle naturali considerazioni la luce diletta più i contemplanti; intra le cose grandi delle matematiche la certezza della dimostrazione innalza più preclaramente l’ingegni delli investiganti. La prospettiva dunque è da esser preposta a tutte le traduzioni (per traduzioni Leonardo intendeva le tradizioni) e discipline umane, nel campo della quale la linia radiosa complicata dà e modi delle dimostrazioni, in nella quale si truova la groria non tanto della matematica quanto della fisica, ornata co’ fiori dell’una e dell’altra, le sentenzie della quale, distese con gran circuizioni, io le ristringerò in conclusiva brevità intessendo, secondo il modo de la materia, naturale e matematiche dimostrazioni, alcuna volta conchiudendo gli effetti, aggiungendo ancora nelle mie conclusioni alcuna che non sono in quelle, non di meno di quelle si traggono, come si degnerà il Signore, luce d’ ogni cosa, illustrare me trottatore della luce, el quale partirò la presente opera in 3 parti.

La luce, operando nelle cose chiare e splendide contra sé converse, alquanto teme in sé riserba alquanto le spezie di quelle.

La luce, operando nel vedere le cose contra sé converse, alquanto le spezie di quelle ritiene. Questa conclusion si pruova per li effetti.

Perché la vista, in vedere la luce, alquanto teme. Ancora dopo lo sguardo rimangano ne l’occhio similitudine della cosa intensa, e fanno parere tenebroso il logo di minor luce, per insino che dall’occhio sia spartito il vestigio de la impression de la maggior luce>>.

Queste parole che Leonardo scrive nel Codice Atlantico (f. 543 r.), databili verso il 1489- 1490, e che sembrano introdurci nei suoi studi sull’ottica come se fossero un proemio, sono tratte dalla ” Perspectiva communis” di Pecham testimoniando così la conoscenza di  Leonardo dell’autore e dell’opera, anche in un altro passo del Codice Atlantico (f.729 v.) il maestro toscano, confutando la tesi “estromissiva”, cita quasi alla lettera il suddetto autore.

Alcuni disegni di Leonardo sull’incidenza e sulla riflessione dei raggi sembrano rivelare la conoscenza dei modelli di Witelo, come pure il frequente riferimento al cosidetto ” Problema di Alhazen” attesta la conoscenza delle opere di Alhazen, forse già dagli anni della sua formazione fiorentina. Il modello dell’occhio, che Leonardo disegna numerose volte, si basa sulla raffigurazione delle parti dell’ occhio che troviamo negli studi di Alhazen, il quale sosteneva che tutte le componenti interne di questo organo fossero sferiche.[27]

L’ ottica è in rapporto molto stretto con la pittura e gli studi del genio toscano sembrano nascere dalla volontà di teorizzare i fenomeni luministici, o concernenti il chiaroscuro, il rapporto tra luce e rilievo, ma soprattutto riportano al “primato”della pittura e in particolare al celebre passo in cui l’ artista dice: <<Il pittore è padrone di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’ uomo, percioché s’egli ha desiderio di vedere bellezze che lo innamorino, egli è signore di generarle, e se vuol vedere cose mostruose che spaventino, o che sieno buffonesche e risibili, o veramente compassionevoli, ei n’è signore e creatore. E se vuol generare siti deserti, luoghi ombrosi o freschi ne’ tempi caldi, esso li figura, e cosí luoghi caldi ne’ tempi freddi. Se vuol valli, il simile; se vuole delle alte cime di monti scoprire gran campagna, e se vuole dopo quelle vedere l’ orizzonte del mare, egli n’è signore; e cosí pure se dalle basse valli vuol vedere gli alti monti, o dagli alti monti le basse valli e spiagge. Ed in effetto ciò che è nell’universo per essenzia, presenzia o immaginazione, esso lo ha prima nella mente, e poi nelle mani, e quelle son di tanta eccellenza, che in pari tempo, generano una proporzionata armonia in un solo sguardo qual fanno le cose>>. ( Trattato della Pittura, Parte prima, § 9) Negli ultimi dieci anni del Quattrocento, Leonardo approfondisce i suoi studi sull’ ottica per dare una base scientifica alla pittura e un chiaro esempio lo possiamo vedere nel ” Cenacolo”: i riflessi  colorati sui piatti di peltro e il riflesso della luce all’ interno, le trasparenze dei vetri e dell’acqua, le ombre primarie e secondarie, l’ uso del chiaroscuro.

I temi ottici furono affrontati da Leonardo durante tutta la sua carriera artistica, anche se non sempre in modo chiaro e incoerente, accavallandoli con gli altri innumerevoli studi, usando i mezzi di cui disponeva: innanzitutto la geometria euclidea, che gli permetteva di accostarsi alle leggi di propagazione dei raggi visivi e al loro comportamento, e, in secondo luogo, la sua prodigiosa facoltà di analizzare i fenomeni naturali artificiali, che poi trasponeva nei suoi disegni.[28]

Sempre nel Codice Atlantico troviamo che: <<L’ occhio, del quale l’esperienza ci mostra così chiaramente l’uffizio, è stato definito insino al mio tempo da un numero infinito di autori di un dato modo, ed io trovo che esso è completamente diverso>>. ( Cod. Atl., fol. 35 verso- b), quindi da queste parole possiamo dedurre che Leonardo intende dare un grande e ambizioso contributo all’ottica; ancora: <<Scrivi nella notomia  che proportione ànno infra loro li diametri di tutte le spere dell’occhio, e che distanzia à da loro la spera cristallina>> ( Cod. Atl., f. 345 v. b), ma bisogna tenere presente quali erano i mezzi di misura e d’indagine per i suoi studi e soprattutto calcolare che nel progettare lo schema del suo occhio, aveva davanti tre ostacoli sostanziali: la mancanza di strumenti di misura per piccole lunghezze; l’ inattuabilità di studiare l’occhio dal vivo, restringendo le sue ricerche solo al campo anatomico; l’assenza di una legge valida della rifrazione della luce. Ma non erano certo le difficoltà a spaventare Leonardo, infatti così scrive: <<Nella natomia dell’occhio, per ben vederlo dentro senza versare il suo umore, si debbe mettere l’occhio intero in chiaro d’ovo e far bollire, e soda ch’ell’è, tagliare l’ovo e l’occhio a traverso acciocché la mezza parte di sotto non versi nulla>>. (Codice K, f. 39). In tal modo si spiega come mai in tutti i suoi disegni schematici dell’occhio, Leonardo rappresenta il cristallino con una forma quasi sferoidale, ossia quella forma che assume quando è staccato dall’occhio, mentre nell’occhio vivente ha forma di una lente biconvessa, come l’iride è appoggiato al cristallino, invece nell’occhio morto iride e cristallino sono quasi sempre staccati.

Nel Codice Atlantico (fol. 337 r.-a) troviamo una figura in cui il cristallino è rappresentato a forma di palla e allontanato dall’iride, con queste due peculiarità, Leonardo costruisce un modello di occhio in vetro e metallo, da lui descritto minuziosamente: <<Sarà fatta una palla di vetro di cinque ottavi di braccio per diamitro. Di poi ne sia tagliato tanto da una parte che vi si possa mettere il viso insino alli orecchi. E poi sia stabilito dentro al fondo un fondo di scatola d’un terzo di braccio che nel mezzo un foro che sia quattro tanti più che la popilla dell’occhio (o circa, chè non fa caso). Oltre a di questo, sia stabilita una palla di vetro sottile di grandezza d’un sesto di braccio per diamitro. E fatto questo, empi ogni cosa d’acqua tiepida e chiara. E metti il viso in essa acqua, e guarda nella palla, e nota, e vedrai: tale strumento manderà le spezie del s t all’occhio come l’occhio le manda alla virtù visiva>>. Ma l’imperfezione più evidente di questo modello consiste nella piccola palla interna di sottile vetro, che comporta che sia vuota internamente e che lo sia anche quando tutto viene riempito d’acqua, rendendo il modello leonardesco dell’occhio incompatibile con l’ottica odierna, nonostante egli sapesse che il cristallino è più denso di tutti gli altri mezzi rifrangenti dell’occhio, quindi se avesse fatta la palla tutta di vetro e non vuota, il suo modello sarebbe risultato coincidente con il sistema ottico: gli errori di Leonardo derivano da quello fondamentale che l’immagine sulla retina dovesse necessariamente essere diritta.

Molto importante, sempre nel XVI secolo, è la teoria dei colori, che diviene oggetto di indagine di filosofi e di artisti, i quali tentano di stabilire i rapporti quantitativi tra i colori semplici e quelli composti: Leonardo, nel “Codex Urbinas”,[29] identifica sei colori semplici e definisce una relazione tra colori ed elementi: il bianco è determinato dalla luce, il giallo dalla terra, il verde dall’acqua, il blu dall’aria, il rosso dal fuoco, il nero dalle tenebre che sono collocate sopra l’elemento del fuoco.[30]

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Al maestro toscano si devono anche contributi sulla prospettiva lineare e su quella area, il quale, per la prima, esamina i cambiamenti che si hanno quando mutano le posizioni del piano pittorico, dell’oggetto e dell’osservatore; per la seconda determina le variazioni di intensità luminosa e le gradazioni dei toni in raffronto alle distanze e alla posizione della fonte luminosa. La prospettiva, durante il Medioevo era la scienza che studiava la percezione visiva e le sue tecniche, basate principalmente sulla geometria di Euclide; dal XV secolo in poi con la “perspectiva naturalis” s’intende l’ottica, mentre con la “perspectiva artificialis”viene indicata la tecnica di simulazione dello spazio tridimensionale su un piano bidimensionale, per mezzo di regole per la riproduzione dell’effetto della visione diretta. Filippo Brunelleschi e Masaccio sono i primi a far conoscere la prospettiva, che verrà poi teorizzata da Leon Battista Alberti con la sua opera “De pictura”, ma il trattato che inciderà sugli sviluppi della prospettiva sarà quello di Piero della Francesca: il “De prospectiva pingendi” del 1474 circa, concepito come un manuale ad uso dei pittori.[31]

Leonardo da Vinci si occupa anche della camera oscura, le cui origini risalgono all’antichità, la usa per le ricerche di ottica e per la teoria della visione. Egli paragona la pupilla ad una camera oscura, supponendo che questa invertirà le immagini; nello stesso tempo ritiene che le lenti cristalline dell’occhio, equivalenti ad una palla d’acqua, che invertono anche esse le immagini,  rifiutando la possibilità che l’immagine si inverta una sola volta, com’è la vera spiegazione, quindi sono proprio gli esperimenti che lo portano fuori strada, non le teorizzazioni.[32]  Tuttavia egli non arrivò fino in fondo, l’assimilazione dell’occhio alla camera oscura era sostanzialmente giusta, tralasciò il capovolgimento delle immagini sulla superficie della retina; Leonardo non ebbe il minimo sospetto del fenomeno dell’accomodamento, compito principale del cristallino, poiché ammise che il cristallino aveva il compito di raddrizzare le immagini capovolte dal sistema cornea-pupilla: <<La spera vitrea è messa nel mezzo dell’occhio per dirizare le spezie che si intersegano dentro lo spiracolo della popilla, acciò che la destra ritorni destra e la sinistra ritorni sinistra, nella intersegazione seconda, che si fa nel centro d’essa spera vitrea>>. (Codice D, fol. 3 v.) E ancora: <<La popilla dell’occhio, che per minimo spiraculo rotondo riceve le spezie de’ corpi posto dopo esso spiraculo, sempre le riceve sottosopra, e sempre la virtù visiva le vede diritte, come sono>>. <<E questo nascie che le dette spezie si dirizan secondo l’obietto donde son causate, e di lì son prese dalla imprensiva e mandate al senso comune, dove son giodicate>>. (Codice D, fol. 2v.) Da ciò si capisce che per Leonardo c’era un primo incrocio nel centro della pupilla ed è giusto, ma c’era anche un secondo incrocio nel centro del cristallino che è completamente falso. Circa cento anni dopo (1604) Keplero postulò questo capovolgimento, confermato da altri studiosi di anatomia.[33]

Il maestro toscano studiò e osservò a lungo il fenomeno della dilatazione e del restringimento della pupilla: <<La popilla dell’occhio si muta in tante varie grandezze quante sono le varietà delle chiarezze e oscurità delli obbietti che dinanti se li rappresentano. In questo caso la natura à riparato alla virtù visiva, quando ella è offesa dalla superchia luce di restringere la popilla dell’occhio, e, quando è offesa dalle diverse oscurità d’allargare essa luce a similitudine della bocca della borsa. […] Vedrai la sperienza nelli animali notturni, come gatte, gufi, allocchi e simili, li quali di mezzogiorno ànno la popilla piccola, e di notte è grandissima. […] E se lo voi sperimentare nell’omo, guardali fiso la popilla dell’occhio, tenendo una candela accesa alquanto discosto, e falli guardare esso lume, il quale li accosterai a poco a poco, e vedrai essa popilla che quando più tal lume se le avvicina tanto più si restringe>>. (Codice D, fol. 5v.) Leonardo, nel suo sconfinato e portentoso spirito d’osservazione, studiando questo fenomeno, deduce erroneamente che più l’occhio ha la pupilla grande più vede grandi le immagini: <<Tutte le cose vedute paranno maggiori di mezzanotte che di mezzodì e maggiori di mattina che di mezzodì. Questo accade perché la popilla dell’occhio è minore assai di mezzodì che di nessun altro tempo>>. (Codice H, fol. 86r.)

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A Leonardo va il merito di aver riconosciuto che l’organo specifico della sensazione luminosa è la retina, formata dal tessuto delle numerose ramificazioni del nervo ottico: <<E’ necessario che la imprensiva sia nell’occhio. El nervo che si parte dall’occhio e va al celebro è simile alle corde perforate che con infiniti rami tessano la pelle de’ corpi e per lor vacui si porta al senso comune>>. (Codice Arundel fol. 172r.)

Spesso Leonardo parla della presbiopia, attribuendo, giustamente, la causa ad una carenza di elasticità causata dal passare degli anni, che riducono la flessibilità e rendono deboli i muscoli, ma sbaglia quando attribuisce tutto ciò ai nervi e ai muscoli che presiedono e disciplinano la convergenza binoculare anziché quelli che comprimono il cristallino. Parla anche degli occhiali per corregerla, che ai suoi tempi sembra siano graduati secondo l’età della persona che doveva usarli, infatti menziona occhiali da cinquant’anni e occhiale da sessant’anni, ma, per quanto riguarda le ametropie dell’occhio, non accenna mai alla miopia.[34]

Molto interessante è la spiegazione che Leonardo ci dà del perché le lenti convergenti correggono la presbiopia: <<Pruova come gli occhiali aiutan la vista. Siano li occhiali a b e li occhiali c d, quali, per essere invecchiati, bisogna che l’obbietto, che soleano vedere in e con grande facilità e forte piegare il loro assis della rettitudine de’ nerbi ottici, la qual cosa, per causa della vecchiezza, viene tal potenzia di piegare a essere indebolita, onde non si può torcere senza gran doglia d’essi occhi, sì che per necessità son costretti a fare più remoto l’obbietto, cioè da e a f, e li poi lo vede meglio, ma non alla minuta. Ora, interponendo l’occhiale, l’obbietto è ben conosciuto nella distanza della gioventù, cioè in e, la qual cosa accade perché l’obbietto e passa all’occhio per vario mezzo, cioè raro e denso; raro per l’aria che è tra l’occhiale e l’obbietto, e denso si è per la grossezza del vetro delli occhiali, onde la rettitudine piega nella grossezza del vetro e torce la linia a d in modo, che vedendo la cosa in e, esso la vede come in i f, per comodità di non piegare l’assis dell’occhio da’ sua nervi ottici, e per vicinità la vede e conosce meglio in e che in f e massime le cose minute>>. Leonardo, dunque, pensa che la presbiopia sia un indebolimento della capacità di convergenza e non di accomodazione, d’altra parte avendo una concezione singolare della funzione del cristallino non poteva intraprendere la via giusta.[35]

È noto che Leonardo spesso si definì “homo sanza lettere”, ma non dimentichiamo che anche Cicerone, molti secoli prima, descriveva se stesso in termini simili: “homo sine ingeniis, sine litteris”. Anche se ciò fosse stato, egli fu capace però di capire le buone lettere e di deridere quelle dei “trombetti”, come li chiamava lui, un artista in grado di rappresentare i miracoli della natura, uno scienziato in grado di spaziare in molti campi.

Quando a diciassette anni circa, Leonardo andò a Firenze nella bottega del Verrocchio fece tesoro di questo periodo fecondo della seconda metà del Quattrocento, che gli permise di superare la visione medievale e di dedicarsi a un genere di ricerca sperimentale senza confini di tempo e di materia, in cui l’uomo nella natura è il suo ambito scientifico. Il disegno è, per il genio toscano, analisi e studio del fenomeno e dei suoi effetti, non tanto per rappresentare il mondo conosciuto, ma per prospettare e incentivare a una proiezione più lontana della conoscenza.

Per Leonardo lo studio dell’ottica fu fondamentale per capire il procedimento in base al quale si crea l’immagine, perché gli era indispensabile per la rappresentazione prospettica e per la pittura, infatti tutti gli studi che egli fece in questo campo servirono per rappresentare una realtà pittorica più conforme ai fenomeni naturali.

Vogliamo concludere con le parole che Vasco Ronchi scrive undici anni dopo il suo giudizio negativo sugli studi di ottica del maestro toscano: <<Leonardo non era un accademico, ma non era un artigiano, tanto meno un artigiano occhialaio. Era un uomo di grande ingegno, di acuto spirito di osservazione, e di buon senso. Egli ha studiato i testi dei maestri classici e li ha ammirati, vi ha imparato molte cose; ma poi, ha guardato coi propri occhi e ha avuto fiducia in ciò che vedeva, anche se aveva imparato che la vista inganna, e ha concluso che la vista inganna meno degli altri sensi; e avendo avuto fra mano delle lenti, non ha esitato a guardavi attraverso, ha tentato di misurare quante volte facevano vedere ingrandito, e ha tentato di spiegare perché correggevano la presbiopia. Se poi in questi suoi tentativi non è giunto a risultati di rilievo e definitivi, non deve diminuire il valore del fatto che vi si è dedicato. Non si può non riconoscere che il compito era sovrumano per un uomo del tardo medio evo; i suoi sforzi erano prematuri e i problemi da lui affrontati potevano essere risolti soltanto con lo sforzo combinato di diecine e diecine di ricercatori in tutti i settori della scienza>>.[36] Con queste parole Vasco Ronchi modifica un poco il giudizio e la valutazione di Leonardo nell’ambito dell’ottica, soprattutto per ciò che riguarda le lenti, che aveva espresso tredici anni prima: <<Tutto sommato, però, non si può dire che l’ottica sia il campo in cui Leonardo ha raccolto i frutti migliori>>.

NOTE

[1] Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica, in “Leonardo Saggi e ricerche”, a cura del Comitato nazionale per le onoranze a Leonardo nel Quinto centenario della nascita, Poligrafico dello Stato, Roma 1954, pp. 179-180; web.tiscali.it/corpo visione/02_scienze/03_luce/03.html

2 Ibid., p. 173.

3 Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, fol. 361v.

4 Francesco Melzi, di nobile famiglia lombarda, nacque a Milano tra il 1491 e il 1493, sia la data sia il luogo di nascita sono incerte. Il padre Gerolamo fu capitano della milizia milanese sotto Luigi XII re di Francia, ingegnere militare sotto Massimiliano Sforza e probabilmente fu lui a far entrare il figlio nella bottega di Leonardo e avendo avuto un’educazione umanistica fu probabilmente impiegato dal maestro in lavori di cancelleria. La sua calligrafia compare frequentemente nelle carte leonardesche e già dai primi anni prese parte al progetto di raccogliere e ordinare gli appunti vinciani per una versione pubblicabile. Le opere originali del Melzi, sparse in molti musei europei, sono caratterizzate da uno stile e da una cultura figurativa decisamente leonardeschi. Il 24 settembre 1513 l’allievo seguì il maestro a Roma e nel 1517 lo seguì anche nel trasferimento in Francia. Il 24 aprile 1519, Leonardo, nel proprio testamento, lo nominò esecutore testamentario, lasciando a lui i materiali grafici e i manoscritti. Al suo ritorno in Italia, in data non precisabile, il Melzi sposò Angela dei conti Landriani, dalla quale ebbe otto figli; successivamente iniziò  il riordino sistematico dei manoscritti, organizzando le annotazioni sulla pittura in modo e in previsione di un’edizione a stampa: da questo lavoro derivò il codice della Biblioteca Apostolica Vaticana, intitolato “Libro di pittura”. Melzi morì probabilmente a Vaprio d’Adda, dove la famiglia possedeva una villa, nel 1570 circa. Cfr. http://treccani.it/enciclopedia/francesco-melzi_(Dizionario–Biografico)/

5 Tra gli acquirenti ci fu anche lo stampatore veneziano Aldo Manuzio.

6 Pompeo Leoni nacque nel 1530 circa da Leone, scultore aretino e da Diamante Martini, nel 1542 raggiunse il padre a Milano, che lo formò come scultore e nel 1549 lo condusse con sé a Bruxelles come aiutante, dal 1557 divenne scultore reale alla corte di Valladolid, poi alla corte di Maria d’Asburgo, regina d’Ungheria, infine a Madrid presso Filippo II. Nel 1557 l’Inquisizione spagnola lo condannò ad un anno di confino correttivo presso un monastero ignoto, a causa dei suoi contatti con aree di fede protestante, avuti durante i suoi frequenti viaggi. Nel 1569 sposò Estefania Pérez de Mora, dalla quale ebbe quattro figli ed altri tre naturali: uno da Mariana de Sotomayor nel 1582, legittimato dieci anni dopo; due dalla milanese Ginevra Villa. Fu incisore dei coni della Zecca di Milano, pur continuando a vivere prevalentemete a Madrid. Molto numerose le sue opere sia in Spagna che in Italia e alla sua morte avvenuta a Madrid nel 1608, lasciò incompiuti vari lavori commissionati molti anni prima dal Capitolo della Cattedrale di Toledo. I figli alienarono prima la collezione madrilena, che fu acquistata da lord Thomas H. Arundel, poi quella milanese, in cui oltre a numerosi oggetti d’arte risultano inventariati, nel 1609, quadri di Tiziano, Tintoretto, Parmigianino, copie da Raffaello, opere attribuite a Giorgione e disegni di Leonardo, tra cui il Codice Atlantico. (Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/pompeo-leoni_ (Dizionario-Biografico)/

7 Nel 1968 il “Codice” subì una radicale restaurazione presso il monastero di Grottaferrata (Lazio), in cui fu rilegato in 12 grossi volumi, ma nel corso degli anni questa scelta risultò inadatta ai fini conservativi e di studio, inoltre limitava le possibilità di esposizione nelle mostre. Per questi motivi, nel 2008, il Collegio dei Dottori dell’Ambrosiana fece operare una sfascicolatura dei volumi, che facilitasse l’esposizione e il prestito, facendolo conoscere al pubblico italiano e straniero. Cfr. M. Navoni – A. Rocca, La Pinacoteca Ambrosiana, Novara 2015, pp. 338-339.

8 Il “Codice Ashburnham è conservato presso l’Istituto di Francia ed è composto dall’ex Codice B, ora identificato con il numero 2037 e dall’ex Codice A, oggi con il numero 2038. Durante il Seicento furono donati alla Biblioteca Ambrosiana tredici codici di Leonardo: il primo nel 1603 da Giovanni Ambrogio Mazenta; undici da Galeazzo Arconati nel 1634; il tredicesimo da Orazio Archinto nel 1674. Napoleone Bonaparte, nel 1796, ordinò la requisizione di tutti gli oggetti artistici per arricchire i musei e le biblioteche di Parigi. Le casse con gli oggetti d’arte sottratti a Milano arrivarono nella capitale francese il 25 novembre e quella contenente il “Codice Atlantico” fu portata alla Biblithèque Nationale de France, un’altra cassa, contenente altri dodici manoscritti fu destinata all’Institut de France. Nel 1815, con l’occupazione di Parigi delle potenze alleate, vari manoscritti non furono restituiti alla Biblioteca Ambrosiana. Verso la metà dell’Ottocento il matematico e bibliofilo Guglielmo Libri sottrasse vari manoscritti da biblioteche di Firenze e di Parigi, dall’Institut de France rubò vari fogli che raccolse in due volumi e li vendette poi all’inglese Lord Bertrand Ashburnham. Accusato di furto di numerosi manoscritti, il Libri fu condannato a dieci anni di carcere in Francia, che non furono mai scontati, perché egli si rifugiò in Inghilterra, dove, appunto, vendette le preziose carte. In seguito, alcuni manoscritti furono recuperati dall’Institut de France, con alcune parti mancanti e, tra questi, il “Manoscritto A” e il “Manoscritto B”, catalogati come “Ashburnham 2037 e 2038”, il contenuto del 2038, datato 1490-1492, tratta principalmente di pittura, ma anche di fisica. Una curiosità: nei fogli 114 r. e v. si possono vedere studi di decorazioni che, secondo alcuni studiosi, si potrebbero riferire al castello di Vigevano. Mentre nel 2037 troviamo i disegni della strada coperta, proposta come sistema difensivo e chiamata da Leonardo “Nobile corridore”, che a Vigevano unisce il castello alla Rocca Vecchia. Cfr. L. Beltrami, La Biblioteca Ambrosiana. Cenni storici e descrittivi, Milano 1895; https://www.beic.it/it/content/i-codici-di-leonardo

9 Cfr. R. Calanca, L’astronomia e l’ottica di Leonardo da Vinci, www.coelum.com/articoli/l’astronomia-e-l’ottica-di.leonardo-da-vinci/7

10 Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, § 15.

11 Ibid., § 16.

12 Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit.,. 173.

13 V. Ronchi, Leonardo e l’ ottica… cit.,  pp. 159-185.

14 Teodoro di Freiberg o di Vriberg nacque in Sassonia nel 1250 circa, fu Domenicano e Provinciale dell’ordine in Germania, maestro di teologia a Parigi, scrisse numerosi trattati filosofici e scientifici. Di notevole importanza per la scienza furono le sue opere “De colori bus; De iride et de radiali bus impressioni bus”, in cui riuscì a spiegare che l’arcobaleno è la conseguenza della rifrazione della luce nel suo spettro di colori. La sua morte avvenne nel 1310 circa.

15 Roberto Grossatesta nacque a Suffolk nel 1175, fu teologo, scienziato e statista. Fondamentali nei suoi studi furono il suo interesse per i fenomeni naturali, la matematica e l’ottica: nella sua fisica e metafisica risulta centrale la dottrina della luce e il concetto di illuminazione da essa derivato. Fu fautore di un ritorno al platonismo agostiniano, fu Cancelliere dell’università di Oxford, maestro di teologia e Vescovo di Lincoln. Tradusse dal greco in latino molte opere e numerose sono quelle scritte da lui. Morì a Lincoln nel 1253. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/roberto-grossatesta/

16 Francesco Maurolico nacque a Messina nel 1494, da una famiglia di origine greca. Fu matematico, astronomo, architetto, storico e scienziato; nel 1521 venne ordinato sacerdote. Si dedicò anche a studi di ottica e su questi studi scrisse i “Photismi de lumine et umbra”, in cui rivisitò le teorie di propagazione e riflessione della luce, mentre nei “Diaphana”studiò il fenomeno della rifrazione, le due opere risalgono rispettivamente al 1521 e 1523, quindi non furono conosciute da Leonardo, morto nel 1519. Numerose le sue opere concernenti le varie discipline, tra le quali anche testi devozionali. Maurolico morì a Messina nel 1575. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-maurolico_(Dizionario-Biografico)/

17 Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit., p. 163.

18 Ibid.

19 Ibid., p.164.

20 Cfr. Ibid., p. 164. Alhazen, figlio di un dignitario, nacque a Bassora, nella regione Mesopotamica, attuale Iraq, nel 965 circa. Dalla sua autobiografia del 1027, veniamo a conoscenza che inizialmente venne indirizzato verso gli studi religiosi e di pubblica amministrazione, fu nominato Visir per la provincia della sua città natale, ma essendo convinto che le diverse religioni potessero trasmettere la verità, si dedicò completamente allo studio delle scienze, seguendo soprattutto il modello di Aristotele: fu medico, filosofo, matematico, fisico ed astronomo. Si trasferì in Egitto dietro invito del Califfo al-Hākim, il quale era venuto a conoscenza di un suo progetto per la regolazione delle acque del Nilo, ma arrivato ad Aswān, ebbe delle difficoltà, non sappiamo se di natura tecniche o finanziarie, e dovette rinunciare al suo progetto. Il Califfo lo accusò di essere incapace e gli assegnò un posto da semplice impiegato, si narra che Alhazen reagì fingendosi pazzo e confinandosi in casa fino alla morte del Califfo. Sembra che al Cairo abitasse vicino alla moschea di Azhar, che già fungeva da università, dove insegnò e tradusse in arabo testi di antichi come gli “Elementi” di Euclide e l’”Amagesto” di Tolomeo, introducendo importanti speculazioni personali, approfondimenti e riformulazioni. Si dice che abbia scritto più di duecento opere, quasi tutte perdute, di matematica, astronomia, filosofia, ottica etica, musica, teologia e poesia: importantissimo il suo contributo all’ottica, con la sua opera Kitāb al-Manāzir (Libro dell’Ottica), trattato in sette libri, tradotto in latino nel 1270 circa, col titolo di “De aspectibus” e pubblicato a Basilea nel 1572, contenente anche la “Perspectiva” di Witelo, suo traduttore dall’arabo. Nel primo libro Alhazen prende in considerazioni le proprietà generali legate alla visione, nel secondo studia la percezione visiva, nel terzo la fallibilità della percezione delle immagini, il quarto, quinto e sesto libro sono dedicati alla riflessione, nel quinto troviamo la formulazione e la soluzione del famoso “Problema di Alhazen”così riformulato da Huygens: <<dato uno specchio sferico, convesso o concavo, e una sorgente luminosa puntiforme, trovare il punto dello specchio in cui si riflette il raggio che perviene all’occhio di un osservatore>>, la cui soluzione geometrica è incomprensibile. L’ultimo libro si occupa della refrazione. Oltre a questo trattato, scrisse numerose altre opere sull’ottica, in cui si occupa della luce della Luna, della sua dimensione apparente, dell’arcobaleno, delle eclissi, dell’ombra etc. La sua “Ottica”influenzò moltissimo gli studiosi fino al XVII secolo, fu citata frequentemente da Ruggero Bacone, da Witelo, conosciuta da Keplero e Cartesio, fu usata anche da Lorenzo Ghiberti, influenzando molto, secondo il parere di vari studiosi, lo studio della prospettiva dei pittori rinascimentali. Alhazen morì al Cairo nel 1040 circa; al suo nome è dedicato il Cratere Alhazen sulla Luna e l’asteroide 59239 Alhazen. Importanti anche le sue opere di astronomia: “M(aqāla) f(ī) Hy’at al-ālam‘” fu tradotta in spagnolo per Alfonso X di Castiglia e poi in latino “Liber de mundo et coelo”, contribuì alla popolarità dell’astronomia tolemaica. Cfr. https://www.aif.it/fisico/biografia-alhazen )

21 V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit., p. 165.

22 Ibid., pp. 165-166.

23 Witelo (latino Vitellio e italiano Vitellione) era nato in Slesia tra il 1220 e il 1230, studiò arti a Parigi e diritto Canonico a Padova, si trovava a Viterbo nel 1271. Vari sono i suoi scritti tra i quali quelli sull’ottica, utilizzando come fonti l’”Ottica” di Alhazen e gli “Elementi” di Euclide. Nella fisica fece importanti studi sulle dottrine della luce e della visione che espose nella sua opera “Perspectiva”, in cui utilizzò schemi presi dalla propagazione della luce secondo raggi diretti, riflessi e rifratti, dando una spiegazione matematico-sperimentale dei fenomeni ottici, con particolare attenzione alla tecnica di costruzione ed utilizzazione degli strumenti ottici, di cui fece importanti esperienze pertinenti alla costruzione di specchi, lenti e allo spettro dei colori. Morì dopo il 1277. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/witelo/

24 Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit., p. 167.

25 Cfr. Pietro Cesare Marani, l’occhio di Leonardo. Studi di ottica e di prospettiva. Disegni di Leonardo dal Codice Atlantico, Novara 2014, pp. 9-15.

26 Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit., p. 167 e segg.

27 Cfr. P.C.Marani, L’occhio di… cit., pp. 9-15.

28 Ibid., p. 15.

29 Il “Codex Urbinas” non è altro che una versione del “Trattato della Pittura”, così chiamato perché nel 1626 il volume faceva parte della biblioteca di Francesco Maria II della Rovere, ultimo duca di Urbino, successivamente venne ereditato dal Papato e nel 1631 fu trasferito ad Urbino e infine alla Biblioteca vaticana. Nonostante esistano varie versioni manoscritte del “Trattato della Pittura”, il “Codex Urbinas” è il solo completo, le altre sono mutile di alcune parti, ed è dal XIX secolo che possiamo leggere il trattato integralmente grazie alla pubblicazione basata su questo manoscritto.

30 Cfr. library.weschool.com/lezione/ottica-prospettiva-teoria-della-visione-20631.html; http

31 Ibid.

32 Cfr. K. H. Veltman, Gli studi di Leonardo da Vinci sull’ottica, in “L’Amanacco Italiano, Florence, Vol. LXXX, (1980), pp. 134-144.

33 Cfr. D. Argentieri, L’ottica di Leonardo, in “Leonardo e la Tecnica”, Istituto Geografico de Agostini, Novara 1978, pp. 64-74.

34 Ibid.

35 Cfr. V. Ronchi, Leonardo e l’ottica… cit., p. 184.

36 V. Ronchi, Un aspetto poco conosciuto dell’atti

vità di Leonardo da Vinci nel campo dell’ottica, in “Luci e Immagini”, Firenze, serie II, n. 1137, 1965, pp. 133-140.

 

 

 

L’UOMO SENZA LETTERE

Autore: Lucica Bianchi

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“Acquista cosa nella tua gioventù, che ristori danno alla tua vecchiezza. E se tu intendi la vecchiezza aver per suo cibo la sapienza, adoperati in tal modo in gioventù che a tal vecchiezza non manchi il nutrimento”

Leonardo da Vinci, 1452-1519

Certe qualità eccezionali di cui danno prova esseri umani sono spesso doni piovuti loro dal cielo, ma ciò è naturale. Soprannaturale è invece che bellezza, virtù e talento possano confluire profusamente in un unico individuo rendendolo superiore a tutti gli altri uomini qualunque cosa egli faccia. Ogni sua azione sarà infatti così miracolosa da rivelarsi per quel che è: un fenomeno di origine divina, non il semplice risultato dell’ingegno umano. Leonardo da Vinci fu uno di questi fenomeni. C’erano in lui, oltre a una bellezza fisica mai sottolineata abbastanza, una facilità e una felicità d’azione sconfinate. Aveva cosi tante qualità che ovunque volgesse la sua attenzione riusciva a trasformare un problema insolubile in una cosa facile a farsi, e fatta alla perfezione. Alla sua forza fisica, possente, si associava abilità, ardimento e una nobiltà d’animo regale e prodiga di sé.

La fama di Leonardo fu illimitata: valicò i confini dell’epoca e raggiunse i posteri.

Non fosse stato tanto versatile e irrequieto, Leonardo sarebbe diventato un raffinato uomo di lettere e un erudito. Intraprese studi di ogni tipo, ma dopo un po’ si sentiva sazio e piantava tutto. E’ vero che iniziò molte opere d’arte senza mai finirle, ma era perché la sapeva troppo lunga in materia. Considerava la perfezione artistica che aveva in mente irraggiungibile sul piano pratico. Nemmeno con le sue stesse mani poteva venire a capo delle imprese grandiose e difficili che era solito immaginare.

Il suo maestro fu Andrea del Verrocchio, che all’epoca stava lavorando a una tavola raffigurante un San Giovanni in atto di battezzare Cristo. Leonardo ebbe il compito di dipingere nella tavola un angelo con in mano delle vesti. Allora era giovanissimo, ma lo disegnò cosi bene che l’angelo fece fare brutta figura alle figure dipinte da Andrea. Pare che Andrea, indispettito che un ragazzino ne sapesse più di lui, non volle più saperne di prendere in mano i pennelli.

E allora: è possibile, oggi, conoscere e “vedere” Leonardo da Vinci? Ovvero apprezzarlo nella sua opera e nel contesto delle vicende dell’arte, come si può fare per moltissimi altri artisti? Domanda apparentemente paradossale e incongrua, visto che su di lui è stata pubblicata una biblioteca di migliaia di tomi che si accresce di altre migliaia di contributi ogni anno, mentre istituzioni importanti sono solamente dedite alla conservazione e allo studio dei suoi “Codici”, e la “Gioconda” è notoriamente il quadro più conosciuto al mondo, oggetto di devoti pellegrinaggi anche da parte di genti che nulla conoscono della pittura occidentale. Ogni giorno escono libretti divulgativi in cui Leonardo è indicato come “il più”: “il più” grande genio della storia dell’umanità, “il più” grande scienziato, “il più” profetico nunzio dell’età delle macchine, e cosi via all’infinito, elencandone le benemerenze in campi dello scibile che invece datano da pochi secoli, e che Leonardo neppure conosceva. Domanda però giustificata dall’evidente frattura fra la documentazione archivistica nota e l’immagine dell’artista presso i contemporanei, fra la costruzione del mito dopo la sua morte, e le fasi successive, passate attraverso scoperte, infinite discussioni attributive, tentativi disperati per fermare in qualche modo il degrado progressivo e rapidissimo dell’unica sua opera pittorica del tutto certa: il “Cenacolo” di Milano.

 Giungere dunque a lui, attraverso simili intrichi, ricollocarlo in qualche modo nel suo tempo, appare impresa quasi disperata. E’ possibile evitare di considerarlo “l’uomo più ostinatamente curioso della storia” secondo la definizione di Sir Kenneth Clark, o l’espressione del “genio umano e universale” di Goethe? Comunque, Leonardo era già considerato la sintesi dell’età del Rinascimento nell’apologia costruita da Giorgio Vasari, che anche in questo caso, si dimostra un grande romanziere. A fine Ottocento Edmondo Solmi aveva intuito ed esposto: “Noi dobbiamo capovolgere questo giudizio dei contemporanei. Essi misurano l’intero Leonardo nelle sue manifestazioni pratiche, e lo definirono vario, instabile, mutabile; noi, contemplando la sua vasta teoria, alla quale dedicò le forze di tutta la vita, dobbiamo definirlo intento ad un solo proposito e fermo di fronte ad ogni contrasto. Dagli anni primi della giovinezza fino alla morte egli infatti drizzò le sue forze ad un unico intento: la conoscenza delle leggi dei fenomeni, la descrizione delle forme naturali.” Ma Leonardo in realtà, non fu assolutamente capace di costruire una teoria, almeno nelle accezioni scientifiche e filosofiche, e ideologiche, che noi diamo al termine. Non fu né sistematico né sperimentale, ma portò l’arte dell’osservazione, sostenuto dal meraviglioso ed eccezionale talento di disegnatore, ai vertici possibili nel suo tempo. E tale osservazione trasferì in quella pittura che così diventa un’ arte di sottile invenzione, la quale con delicata a attenta speculazione considera tutte le qualità delle forme. Questa tensione fra l’osservazione e le qualità formali costituì un assillante rovello, determinante per l’insoddisfazione nei confronti dell’opera limitata e incompiuta. Ed è proprio questa tensione fra Arte e Natura, Pittura e Osservazione, portata ad un estremo limite di perfezione e gentilezza a costituire il motivo primo del fascino di Leonardo da Vinci. Questa inesausta ricerca era certamente rara, ma del tutto coerente con il suo tempo, negli anni in cui gli artisti cominciano a emanciparsi dalla condizione artigianale, aspirando essi stessi a quell’ideale di “Uomo Universale”.

Chiunque volesse vedere fino a che punto l’arte è in grado di imitare la natura, basta guardare Leonardo da Vinci.

Leonardo da Vinci rappresenta il culmine della tradizione ingegneristica italiana quattrocentesca: egli più di ogni altro artista-ingegnere precedente e contemporaneo riesce a staccarsi dalla dimensione artigianale per assumere quella del dotto tecnologo.

Il percorso di riqualificazione culturale e professionale degli ingegneri quattrocenteschi è espresso in maniera esemplare dalla biografia di Leonardo da Vinci. Leonardo comincia la sua carriera a Firenze come apprendista presso la bottega di Andrea del Verrocchio e la conclude come ingegnere e pittore al servizio del re di Francia Francesco I. La sua maturazione intellettuale sul piano scientifico si completa con il tentativo, poi fallito, di elaborare una nuova meccanica a partire da un’integrazione tra i teoremi dei filosofi e le esigenze costruttive degli artigiani.

L’eccezionalità dell’ascesa sociale e culturale di Leonardo è suggellata dalle parole di Benvenuto Cellini il quale, quando narra il momento della sua morte, lo descrive con l’appellativo di “grandissimo filosafo”. Sarebbe tuttavia un errore considerare Leonardo come la massima espressione del genio rinascimentale staccandolo dal contesto culturale degli altri artisti-ingegneri quattrocenteschi a contatto con i quali si è formato e con i quali ha condiviso gli sforzi per l’affermazione del sapere tecnico e per il riconoscimento della dimensione intellettuale degli “omini senza lettere”. I legami con la tradizione sono fin troppo evidenti, tuttavia è opportuno riconoscere a Leonardo il merito di essere stato l’ingegnere che più di ogni altro ha saputo dar voce e visibilità grafica ai “sogni tecnologici” condivisi dalla maggioranza degli artisti-ingegneri del Quattrocento.

Dopo l’infanzia trascorsa a Vinci, Leonardo si trasferisce a Firenze col padre, Piero, e nel 1469 entra nella bottega di Andrea del Verrocchio, nella quale si afferma come pittore e apprende tutti i segreti che costituiscono il bagaglio tecnico di un abile artigiano. Il primo riferimento di un interesse di carattere tecnico da parte di Leonardo si ha in occasione della realizzazione e messa in opera, da parte del Verrocchio, dell’enorme sfera di rame che sovrasta la cupola di Santa Maria del Fiore nel 1472. Da un riferimento più tardo alla tecnica utilizzata per la saldatura delle enormi lastre di rame che costituiscono la sfera, attraverso specchi ustori, veniamo a conoscenza della presenza nel cantiere dell’Opera del duomo del giovane Leonardo, il quale in quest’occasione ha modo di visionare le macchine progettate da Filippo Brunelleschi. È infatti significativo notare come nei suoi primi progetti di macchine l’elemento più ricorrente sia la vite, ampiamente usata da Brunelleschi.

Gli anni milanesi

Nel 1482 Leonardo lascia Firenze per trasferirsi a Milano al servizio di Ludovico il Moro, dove rimane per quasi 20 anni. Sul piano artistico questo periodo è caratterizzato, oltre che dall’attività pittorica (Cenacolo, Vergine delle rocce, Dama con l’ermellino), anche dai preparativi per la fusione del monumento equestre a Francesco Sforza che però, a causa dell’invasione francese di Milano, non viene portato a termine.

Durante gli anni milanesi Leonardo si impegna anche in studi di natura tecnologica e architettonica. Intorno al 1487 sembrano risalire i suoi disegni relativi alla città ideale a due livelli, così concepita per far fronte ai problemi di sovraffollamento urbano. Le città devono essere progettate secondo un’organizzazione razionale degli spazi, separando le aree destinate all’attività produttiva e commerciale dagli spazi destinati alla vita sociale. Durante questo periodo formula anche il progetto di un trattato sull’acqua, che per Leonardo costituisce una premessa necessaria per la risoluzione di problemi di carattere idraulico, come la costruzione e la manutenzione dei canali.

Con l’invasione francese del 1499 Leonardo abbandona Milano insieme all’amico e maestro Luca Pacioli, che lo aveva introdotto allo studio della matematica e della geometria. Dopo aver soggiornato a Venezia e a Firenze, nel 1502 entra al servizio di Cesare Borgia come ingegnere militare. Per lui esegue rilievi topografici e piante di città e regioni dell’Italia centrale, come lo splendido disegno della pianta di Imola. Nel 1503 è nuovamente a Firenze, dove offre prestazioni di consulenza e assume incarichi ingegneristici nella guerra contro la città di Pisa, proponendo alla magistratura fiorentina uno studio per la deviazione del corso dell’Arno così da tagliare fuori dal corso del fiume la città nemica, progetto che poi risulterà inattuabile.

Nel 1508 torna nuovamente a Milano, per entrare al servizio, con la qualifica di “peintre et ingénieur ordinaire”, del governatore francese Carlo d’Amboise, per il quale studierà il sistema idrico lombardo. Dal 1513 al 1516 è a Roma, dove alterna gli studi di anatomia a progetti di carattere idraulico per la bonifica dell’Agro Pontino e per il porto di Civitavecchia.

Nel 1516 si trasferisce in Francia, alla corte di Francesco I, al servizio del quale resterà fino alla morte.

 

LA MAPPA DELL’INFERNO DI BOTTICELLI

 

 

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Botticelli – La mappa dell’Inferno 2b – BAV Vat Lat 1896

 
Le 100 pergamene con i disegni danteschi eseguiti da Botticelli alla fine del ‘400 furono commissionate da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici detto il Popolano (cugino di secondo grado di Lorenzo il Magnifico), amico e mecenate di Sandro Botticelli. Per lo stesso Pierfrancesco, il maestro dipinge le sue opere più celebri: “La Nascita di Venere” e “La Primavera” (Uffizi, Firenze).L’opera dantesca di Botticelli, realizzata in un’arco temporale che va dal 1480 al 1495, è da secoli smembrata in due gruppi. Il primo, con il maggior numero di pergamente (85) è conservato nel nuovo Kupferstichkabinett del Kulturforum, in seguito alla riunificazione dei Musei statali di Berlino; il secondo con sette pergamene è racchiuso nella Biblioteca Apostolica Vaticana, proveniente dalla collezione della regina Cristina di Svezia.
Mancano all’appello, per completare il corpus relativo alle 100 cantiche della Commedia, otto tavole dell’Inferno considerate disperse (II-VII, XI, XIV), mentre quelle relative ai due canti del Paradiso (XXXI e XXXIII) si ipotizza che non furono eseguite.Comprese nel corpus delle 92 tavole ci sono “La voragine infernale” e “Inferno I” disegnate rispettivamente sul recto e sul verso di uno stesso foglio, e “Il grande Satana” che occupa un foglio doppio. A queste si aggiunge la pergamena del canto XXXI del Paradiso, senza illustrazione.I fogli, di fine pergamena di pecora, misurano circa 325 mm di altezza per 475 mm di larghezza, e solo il “Grande Satana” è di 468×635 mm.Ad eccezione de “La voragine infernale”, le illustrazioni si trovano sul lato interno liscio, mentre il testo è sul lato esterno poroso. Per l’esecuzione dell’immensa opera, Botticelli utilizza diversi strumenti: per le linee fondamentali della composizione si aiuta con “stili metallici”, anche d’argento, mentre per precisare i contorni usa la “penna” e inchiostri che danno quel colorito talvolta giallo chiaro, oppure oro o nero.L’opera, in ogni caso, si presenta in diversi stadi di finitura. Solo alcuni disegni sono giunti fino a noi completi e interamente o parzialmente colorati. L’unico completo è “La voragine infernale”. Qui l’artista ha realizzato una suggestiva rappresentazione globale dell’Inferno dantesco: un grande imbuto, ricco di particolari architettonici e figure miniaturizzate, che costituisce una summa, sintetica ma completa, delle scene dipinte nei disegni successivi.L’intera opera, oggi montata su fogli separati, rappresenta un continuum narrativo, una sorta di modernissima sequenza cinematografica che racconta il viaggio letterario e filosofico di Dante.

 

Lucica Bianchi

ALDO MANUZIO

 

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Aldo Manuzio, umanista, editore e stampatore (Bassiano, presso Sezze, 1450 circa – Venezia 1515),ha dato all’umanesimo europeo ottime edizioni di classici greci, latini e italiani, contrassegnate dal 1502 dalla famosa marca tipografica dell’ancora e del delfino, ripresa poi anche dai suoi successori.

 

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Nelle sue prime edizioni si firma latinamente Aldus Mannucius, dal 1493 Manucius e dal 1497 Manutius, che dai posteri è stato poi re-italianizzato in “Manuzio”. È probabile che il nome originario fosse “Mandutio” (Mandutius). Che il vero nome potesse essere Teobaldo Mannucci è notizia priva di fondamento, sostenuta dall’edizione di pubblico dominio dell’Enciclopedia Britannica ma non confermata dalla letteratura scientifica.

 

Per l’accuratezza filologica e la bellezza tipografica dei suoi prodotti, per il suo spirito d’iniziativa, Manuzio è ritenuto il più grande tipografo del suo tempo e il primo editore in senso moderno. Dopo aver studiato latino e greco a Roma e a Ferrara, nel 1482 si ritirò a Mirandola presso Giovanni Pico; nel 1483 era a Carpi, istitutore del principe Alberto Pio, che gli concesse poi di aggiungere al suo il nome della famiglia Pio. Iniziò la sua attività a Venezia nel 1494 con le edizioni di Museo e di Teodoro Prodromo; nel 1495 ristampava gli Erotemata di Lascaris e dava inizio alla monumentale editio princeps di Aristotele, che portava a termine (5 volumi) nel 1498, lo stesso anno in cui uscivano l’editio princeps di Aristofane e le opere del Poliziano. Del 1499 è il celeberrimo Polifilo di Francesco Colonna, il più pregiato libro a figure del Rinascimento.

Con il Virgilio del 1501, stampato nel corsivo,inciso da Francesco Griffi da Bologna (carattere detto ben presto italico o aldino), Manuzio creava il prototipo del libro moderno. Adottati in successive edizioni, il formato e il carattere avevano una rapida fortuna ed erano presto imitati. Seguirono altre numerose edizioni di classici, specialmente greci (Tucidide, Sofocle, Erodoto, Euripide, Pindaro, Platone, Omero, Demostene e altri oratori, ecc.). Dal 1508 gli fu socio il suocero A. Torresani. Oltre che curare le edizioni di classici, alle quali premetteva dotte dissertazioni, Manuzio diede una grammatica greca (1515) e una latina (1502), un trattato di metrica, le vite di Ovidio ed Arato, traduzioni da Esopo e Focilide. Nel 1502 aveva fondato l’Accademia Veneta, che raccolse studiosi greci e italiani e fu strumento efficace per la diffusione dell’ellenismo di cui Manuzio è ritenuto a ragione uno dei primi e certo il più grande propulsore.

 

 

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Miniatore fiorentino (?) attivo a Venezia all’inizio del XVI secolo
Quinto Orazio Flacco, Opere,Venezia, Aldo Manuzio, 1501
Dedica di Aldo Manuzio a Marin Sanudo e Frontespizio con il Ritratto di Orazio
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana

 

Lucica Bianchi

LA PORTA DEL PARADISO FIRENZE

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Lorenzo Ghiberti, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze, 1425-52
La Porta del Paradiso del Battistero di Firenze torna visibile al pubblico dopo un restauro durato 27 anni, senza eguali per complessità, e dopo 560 da quando Lorenzo Ghiberti terminò quello che può essere considerato uno dei grandi capolavori del Rinascimento. Secondo il Vasari fu Michelangelo a darle il nome di Porta del Paradiso: ”elle son tanto belle che starebbon bene alle porte del Paradiso”. Il restauro, che ha permesso di salvare la mitica doratura, è stato diretto ed eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, su incarico dell’Opera di Santa Maria del Fiore, grazie ai finanziamenti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e al contributo dell’Associazione Friends of Florence. Realizzata in bronzo e oro, la Porta del Paradiso (del peso di 8 tonnellate, alta 5 metri e venti, larga 3 metri e dieci, dello spessore di 11 centimetri) sarà conservata nella grande teca, realizzata dalla Goppion spa, in condizioni costanti di bassa umidità per evitare il formarsi di sali instabili, tra la superficie del bronzo e la pellicola dorata, che salendo, sollevano e perforando l’oro, possono causare la distruzione. La collocazione dentro il cortile coperto del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze è temporanea: al termine dei lavori di realizzazione del nuovo Museo, previsti nel 2015, la Porta del Paradiso sarà esposta in una nuova sala espositiva, di 29 metri x 21 x 16 di altezza, con accanto le altre due Porte del Battistero a cui sarà riservato in futuro lo stesso destino.
DESCRIZIONE

Dopo un breve soggiorno a Venezia, nel 1424, subito dopo la conclusione della porta nord del Battistero, Lorenzo Ghiberti fece ritorno a Firenze, dove gli venne affidato l’incarico di realizzare una nuova porta di bronzo, sempre per il Battistero. Anche questa porta, al pari dell’altra, ha avuto una lunga gestazione e realizzazione, durata ben 27 anni: fu infatti messa in opera solo nel 1452, quando il Ghiberti aveva ben 74 anni.

Il programma stilistico iniziale non doveva essere molto differente dalle altre due porte. È facile immaginare che anche questa porta doveva contenere 28 riquadri, nei quali dovevano collocarsi Scene del Vecchio Testamento, secondo un piano iconografico predisposto dal letterato umanista Leonardo Bruni. Ma il Ghiberti, questa volta, impose una decisa svolta stilistica, progettando una porta con soli dieci grandi scene di formato quadrato.

I dieci grandi riquadri sono collocati nei due battenti, cinque per parte: le due file verticali sono poi circondate da quattro cornici ciascuna, contenenti in tutto 24 piccole nicchie, nelle quali sono inserite dei personaggi biblici, alternate con 24 piccoli medaglioni dai quali sporgono dei busti (uno di questi si ritiene sia l’autoritratto del Ghiberti).

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Lorenzo Ghiberti, Storie dalla Genesi, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze

Ognuno dei grandi pannelli quadrati raggruppa due o più storie, secondo una concezione di rappresentazione sincrona che, abbiamo visto, era molto utilizzata nel Duecento e Trecento. Ma in questi riquadri domina una visione spaziale unitaria, con molti particolari architettonici costruiti in prospettiva più o meno perfetta. Il Ghiberti mostrò così di saper aggiornare il suo stile sulle novità rinascimentali che andavano maturando in quegli anni, e in ciò non dovette essere secondario il contributo che al maestro diede l’opera di Donatello. Molti elementi delle scene, realizzate a rilievo schiacciato, quasi un puro disegno inciso sul piano della lastra, sembrano proprie dello stile di Donatello. Ma in questi grandi pannelli rimane il gusto ancora tardo gotico per il dettaglio minuto, nonché per la varietà, da atlante naturalistico, di piante e animali. Tardo gotico è anche l’insistere sulle cadenze lineari in motivi curvi e spiraliformi.L’opera ebbe grande fortuna critica, e deve il suo nome di «Porta del Paradiso» a Michelangelo, uno dei primi e maggiori estimatori di questo capolavoro della fusione in bronzo.

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Lorenzo Ghiberti, Storie di Giuseppe, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze

Lucica Bianchi

 

VENERE E MARTE

“Non si sdegni Apelle di essere eguagliato a Sandro: già il suo nome è noto ovunque”.
(Ugolino di Vieri, Epigrammata III, 23)
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VENERE E MARTE
Venere e Marte è un dipinto a tempera su tavola (69×173 cm) di Sandro Botticelli, databile al 1482-1483 circa e conservato alla National Gallery di Londra. L’opera viene in genere datata a dopo il ritorno dal soggiorno romano (1482), per gli influssi classicheggianti che l’autore avrebbe potuto studiare sui sarcofaghi antichi della città eterna. Essa viene inoltre messa in relazione con gli altri grandi dipinti della serie mitologica, commissionati forse dai Medici: la Primavera, la Nascita di Venere e la Pallade e il centauro. La presenza delle vespe nell’angolo in alto a sinistra ha anche fatto pensare che si trattasse di un’opera commissionata dai Vespucci, già protettori di Botticelli, magari in occasione di un matrimonio. Il formato orizzontale farebbe così pensare alla decorazione di un cassone o di una spalliera. La scena raffigura Venere mentre osserva, consapevole e tranquilla, Marte dormiente, distesi su un prato e circondati da piccoli fauni che ruzzano allegri con le armi del Dio. I satiri sembrano tormentare Marte disturbando il suo sonno, mentre ignorano del tutto Venere, vigile e cosciente: uno ne ha l’elmo che gli copre completamente la testa mentre, con un altro, ruba furtivo la lancia di Marte; un altro sta per suonare un corno di conchiglia nell’orecchio del dio per svegliarlo; un quarto fa capolino dalla corazza sulla quale il dio è adagiato. Nonostante il contorno scherzoso dei fauni, nel dipinto serpeggiano anche elementi di inquietudine, come il sonno spossato e abbandonato di Marte o lo sguardo lievemente malinconico di Venere. Il significato del dipinto è oscuro, ma quasi sicuramente andava letto secondo le tematiche filosofiche dell’Accademia neoplatonica. In particolare sarebbe la figurazione di uno degli ideali cardine del pensiero neoplatonico, ossia l’armonia dei contrari, costituita dal dualismo Marte-Venere. La fonte d’ispirazione di Botticelli sembra ragionevolmente essere infatti il Symposium di Ficino, in cui si sosteneva la superiorità della dea Venere, simbolo di amore e di concordia, sul dio Marte, simbolo di odio e discordia (era infatti il dio della guerra per gli antichi). Secondo il critico Plunkett il dipinto riprenderebbe puntualmente un passo dello scrittore greco Luciano di Samosata, in cui viene descritto un altro dipinto antico raffigurante le Nozze di Alessandro e Rossane, in cui alcuni amorini giocavano con la lancia e l’armatura del condottiero. La scena sarebbe un’allegoria del matrimonio, in cui l’Amore, impersonato da Venere, ammansirebbe la Violenza, di cui Marte è la personificazione. L’opera potrebbe dunque essere stata realizzata per il matrimonio di un membro della famiglia Vespucci, protettrice dei Filipepi (come dimostrerebbe l’inconsueto motivo delle api in alto a destra) e quindi questa iconografia sarebbe stata scelta come augurio nei confronti della sposa. È anche possibile però che gli insetti simboleggino semplicemente le “punture”, cioè le spine dell’amore. Marte starebbe vivendo la “piccola morte” che segue l’atto sessuale, che neanche uno squillo di tromba nelle orecchie riesce a destare; il fatto che i faunetti lo abbiano depredato della lancia simboleggia anche il suo disarmo davanti all’amore. Un’altra interpretazione possibile è quella dell’incontro tra Venere, raffigurante i piaceri catastematici, e Marte, i piaceri dinamici, presente nel proemio dell’opera De rerum natura del poeta latino Lucrezio. Nell’opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche dell’arte di Botticelli. La composizione è estremamente bilanciata e simmetrica, che può anche sottintendere la necessità di equilibrio nell’esperienza amorosa. Il disegno è armonico e la linea di contorno tesa ed elastica definisce con sicurezza le anatomie dei personaggi, secondo quello stile appreso in gioventù dall’esempio di Antonio del Pollaiolo. A differenza del suo maestro però, Botticelli non usò la linea di contorno per rappresentare dinamicità di movimento e sforzo fisico, ma piuttosto come tramite per esprimere valori anche interiori dei personaggi. L’attenzione al disegno inoltre non si risolve mai in effetti puramente decorativi, ma mantiene un riguardo verso la volumetria e la resa veritiera dei vari materiali, soprattutto nelle leggerissime vesti di Venere. I colori sono tersi e contrastanti, che accentuano la plasticità delle figure e l’espressionismo della scena. Grande attenzione è riposta nel calibrare i gesti e le torsioni delle figure, che assumono importanza fondamentale.

Lucica Bianchi

 

LA MENTE DI LEONARDO. DISEGNI DI LEONARDO DAL CODICE ATLANTICO

LA MENTE DI LEONARDO. DISEGNI DI LEONARDO DAL CODICE ATLANTICO

 

 

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nell’immagine: Leonardo da Vinci, Geometria f. 795 r Quadratura di porzioni di corone circolari e proporzionalità tra cerchi, penna e inchiostro su carta mm 210 x 295 antica numerazione 225 C.A. 795 r (ex 291 v b) Circa 1508-10.

Comunicato stampa

Dal 10 marzo al 31 ottobre 2015, la mostra “LA MENTE DI LEONARDO.DISEGNI DI LEONARDO DAL CODICE ATLANTICO” presenta alla PINACOTECA AMBROSIANA e alla SAGRESTIA DEL BRAMANTE, 88 fogli che coprono gli interessi artistici, tecnologici e scientifici del Genio del Rinascimento, lungo tutta la sua carriera.
Saranno Leonardo da Vinci e il suo Codice Atlantico gli ambasciatori della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano ad EXPO 2015.
Per tutto il periodo dell’Esposizione Universale, dal 10 marzo al 31 ottobre 2015, la mostra La mente di Leonardo. Disegni di Leonardo dal Codice Atlantico, allestita nei due spazi della Pinacoteca Ambrosiana e della Sagrestia del Bramante nel convento di Santa Maria delle Grazie, consentirà di far conoscere la personalità di Leonardo e la ricchezza delle tematiche da lui toccate, la varietà dei suoi campi di interesse e di studio, la particolarità della sua opera e del suo genio nel contesto del Rinascimento italiano. Attraverso gli studi presenti nello stesso Codice Atlantico o, per alcuni fogli sciolti, come quelli artistici, conservati in Ambrosiana.
L’iniziativa chiude il ciclo di esposizioni iniziate nel 2009, in occasione del IV centenario dell’apertura al pubblico dell’Ambrosiana, col fine di offrire ai visitatori l’opportunità di potere ammirare nella quasi sua interezza il Codice Atlantico.
La mente di Leonardo, curata da Pietro C. Marani, propone un nucleo di 88 fogli – esposti in due tempi, di tre mesi ciascuno – che illustrano alcune delle principali tematiche artistiche, tecnologiche e scientifiche, cui Leonardo si è interessato lungo tutta la sua carriera, e che si articolano in sezioni che danno conto di Studi di idraulica, Esercitazioni letterarie, Architettura e scenografia, Meccanica e macchine, Ottica e prospettiva, Volo meccanico, Geometria e matematica, Studi sulla Terra e il Cosmo e Pittura e Scultura. Quasi seguendo l’ordine delle proprie competenze elencato dallo stesso Leonardo nella celebre missiva con cui offre il suo lavoro a Ludovico il Moro.
“Sfogliando le pagine del Codice Atlantico – afferma Pietro C. Marani – in questo cuore segreto di Milano, ed esaminando i disegni e le carte in esso contenute, si rivive l’emozione di un contatto diretto con la mente di Leonardo, mentre si è catapultati nell’atmosfera e nel clima degli anni gloriosi del collezionismo milanese. Quando Galeazzo Arconati, nel 1637, poteva donare i preziosi manoscritti di Leonardo da lui fino ad allora posseduti, e custoditi nel Castellazzo di Bollate, alla Biblioteca Ambrosiana appunto”.
Particolarmente interessante sarà l’analisi della tematica architettonica; in mostra si può ammirare una veduta di chiesa a pianta cruciforme che ricorda l’abside di Santa Maria delle Grazie a Milano, disegni per edifici ottagonali, lo studio per il Tiburio del Duomo di Milano che testimonia la presenza effettiva di Leonardo in quel cantiere o ancora i disegni per una galleria sotterranea, per una fortezza a pianta semi-stellare, per un ponte mobile. Questi ultimi tre studi d’arte militare danno l’idea delle applicazioni pratiche con cui Leonardo dovette cimentarsi al servizio dei potenti del suo tempo, come Ludovico il Moro, preoccupati per la loro sicurezza.
La sezione ‘Congegni e invenzioni’ analizza uno dei campi di indagine più spettacolare esplorato da Leonardo: quello sul volo umano, qui rappresentato da quattro studi in cui la macchina volante è associata allo studio delle ali battenti.
Catalogo De Agostini.
Breve storia del Codice Atlantico
Il Codice Atlantico (il nome deriva dal suo grande formato, tipo atlante) è la più ampia e stupefacente collezione di fogli leonardeschi che si conosca.
Questo enorme volume (401 carte di mm 650×440) fu allestito nel tardo Cinquecento dallo scultore Pompeo Leoni (1533 ca.-1608) che raccolse, quasi alla maniera di zibaldone, una raccolta miscellanea di scritti e disegni vinciani costituita di circa 1750 unità.
Il materiale raccolto nel Codice Atlantico abbraccia l’intera vita intellettuale di Leonardo per un periodo di oltre quarant’anni, cioè dal 1478 al 1519. In esso si trova la più ricca documentazione dei suoi contributi alla scienza meccanica e matematica, all’astronomia, alla botanica, alla geografia fisica, alla chimica e all’architettura. Disegni di ordigni da guerra, macchine per scendere nel fondo del mare o per volare, dispositivi meccanici, utensili specifici di vario genere frammisti a progetti architettonici e urbanistici. Ma c’è pure la registrazione dei suoi pensieri attraverso apologhi, favole e meditazioni filosofiche. I singoli fogli sono gremiti di annotazioni sugli aspetti teorici e pratici della pittura e della scultura, dell’ottica, della teoria della luce e dell’ombra, la prospettiva sino alla descrizione della composizione dei materiali usati dall’artista.
Cinque anni dopo la morte di Pompeo Leoni, il figlio Giovan Battista offrì a Cosimo II de’ Medici, Granduca di Toscana, l’acquisto del Codice Atlantico. Al suo rifiuto, nel 1622 Galeazzo Arconati, di nobile casata milanese, ottenne per 300 scudi una parte del tesoro vinciano dal genero di Pompeo Leoni Polidoro Calchi, marito della figlia Vittoria. Nel 1637, l’Arconati faceva munifico dono alla Biblioteca Ambrosiana del Codice Atlantico assieme ad altri 11 manoscritti leonardeschi e al De divina proportione di Luca Pacioli.
I codici vinciani rimasero custoditi con ogni cura nella Biblioteca Ambrosiana sino all’ultimo decennio del sec. XVIII. Il 15 maggio 1796 (26 fiorile Anno VI) l’esercito francese guidato da Napoleone entrava in Milano e quattro giorni dopo, veniva pubblicata un’ordinanza che, con il pretesto di conservare i patrimoni dell’arte, determinava i procedimenti da tenere nello spogliare le città di quegli oggetti artistici o scientifici che potevano arricchire i musei o le biblioteche di Parigi. Nella capitale francese il Codice Atlantico rimase sino al 1815 quando, in seguito alla capitolazione francese, fece ritorno alla originaria sede milanese per non muoversi più.
È del 2008 la decisione di sfascicolare i 1118 fogli che, legati insieme e montati su grandi fogli di carta, costituivano i dodici volumi che formavano il Codice Atlantico. Dopo una serie di analisi sullo stato di conservazione dei fogli, e di incontri e discussioni scientifiche, mantenendo i passe-partout moderni sui quali erano fissati i fogli originali di Leonardo, si è resa possibile la visione, a rotazione, grazie al montaggio di ogni singolo foglio in un nuovo passe-partout rigido, di gran parte del Codice Atlantico.

Pinacoteca Ambrosiana: da martedì a domenica (chiuso lunedì) dalle 10,00 alle 18,00, ultimo ingresso ore 17,30.
Sagrestia del Bramante: lunedì 09,30 – 13,00 e 14,00 – 18,00; da martedì a domenica: 8.30 – 19.00, ultimo ingresso mezz’ora prima della chiusura