COSMOLOGIA – CENNI STORICI – prima parte

In ogni secolo gli esseri umani hanno pensato di aver capito definitivamente l’Universo e, in ogni secolo, si è capito che avevano sbagliato. Da ciò segue che l’unica cosa certa che possiamo dire oggi sulle nostre attuali conoscenze è che sono sbagliate.

                                                              Isaac Asimov, Grande come l’universo, Saggi sulla scienza

La cosmologia nasce quando l’uomo incomincia a porsi le grandi domande che riguardano la propria collocazione nell’universo e l’origine, ed eventualmente la fine, dell’universo stesso.

All’alba della civiltà, queste domande hanno una risposta di tipo religioso: gli astri sono visti come dei e a essi si attribuisce il potere di influire sui destini umani. L’interpretazione religiosa lascia tracce anche in quella successiva, di tipo filosofico, che si consolida in Grecia con Aristotele: dagli dei gli oggetti celesti ereditano caratteristiche come la perfezione, l’immutabilità, l’eternità. La cosmologia diventa scientifica quando , con Galileo Galilei (1564-1642), la riflessione sull’universo incomincia a basarsi sull’osservazione.

Immagine

Un’incisione con l’orbita dei pianeti e delle costellazioni intorno alla Terra, pubblicata da Andreas Cellarius nell’opera Harmonia Macrocosmica (1660) 

L’attuale concezione evolutiva dell’universo è però molto recente: si afferma soltanto nella seconda metà del Novecento, con l’accumularsi di indizi osservativi a favore del Big Bang, il grande scoppio primordiale dalla cui energia si sarebbe formata, 15 miliardi di anni fa, la materia. Questa materia, con successive trasformazioni, ha generato tutto ciò che oggi osserviamo.

La cosmologia è per definizione “Scienza del Tutto“. Questa definizione soffre tuttavia di una limitazione fondamentale: non tutte le cose che appaiono nell’universo sono percepibili o osservabili con gli strumenti attualmente in nostro possesso e dobbiamo per forza di cose limitarci a considerare solamente quelle che sono sia pure indirettamente accessibili o ipotizzabili. Ne segue che ogni concezione dell’universo risente del contesto storico in cui è stata formulata e che quello che nel passato era considerato come l’intero universo appare oggi come una parte inpercettibile del tutto. Non possiamo quindi escludere che lo stesso destino attenda la pur grandiosa macchina cosmica del modello attuale.

L’universo geocentrico di Aristotele era eterno e supponeva che tutti i corpi celesti si muovessero intorno alla Terra lungo orbite circolari. Nel II secolo d.C. lo schema aristotelico fu ripreso da Tolomeo (100 circa-175 circa) che lo strutturò in una serie di sfere concentriche, fatte di “quintessenza” (il Quinto Elemento, oltre il mondo fenomenico, costituente i corpi celesti), e di epicicli, ossia di cerchi minori in movimento lungo le sfere principali.

Immagine

Claudio Tolomeo

Il modello di Tolomeo fu infine incorporato da San Tommaso d’Aquino nella visione cristiana del mondo.

Immagine

Claudio Tolomeo, Almagesto

E’ il nome arabo (“al-Magesti”) di un trattato astronomico del II° secolo (intorno al 150) che spiega i moti delle stelle, dei pianeti e della Luna secondo un modello geocentrico che pone la Terra al centro dell’universo. Per più di mille anni fu accettato nei paesi occidentali e arabi come il corretto modello cosmologico. Fu scritto originariamente in greco col titolo “He’ Megale’ Syntaxis” (“Il grande trattato”) da Claudio Tolomeo di Alessandria d’Egitto. Il modello descritto è quindi detto modello tolemaico.

Nella cosmologia di San Tommaso l’universo perde la sua immutabilità perché creato da Dio e lo stesso Dio continua a essere presente nel cosmo come motore immobile della sfera delle stelle fisse che trascina con sé le altre. Questo modello, che è in effetti una sintesi di quello biblico e di quello aristotelico, regnò incontrastato fino a quando  Giovanni Buridano (1300 circa- 1361) mosse nel Trecento una prima critica sostenendo che il moto delle stelle non era mantenuto dall’intelligenza divina, il dantesco “amor che muove il sole e le altre stelle”, bensì dalle stesse leggi che governano il moto dei corpi materiali sulla Terra.

Un’altra crisi fu aperta da Giordano Bruno (1548-1600) con la transizione dall’universo finito all’universo infinito e privo di centro; lo stesso Bruno pagò con il rogo questa idea.

Immagine

Giordano Bruno

Il sistema eliocentrico, cioè il sistema che pone il Sole al centro del mondo, fu proposto in forma anonima dal canonico Nicolò Copernico nel 1514 e successivamente venne sostenuto sia da Galileo Galilei che da Keplero, nonostante alcuni difetti.

Immagine

Una rappresentazione dell’universo in chiave eliocentrica, con il Sole al centro dell’orbita della Terra e di quella dei altri pianeti. Il primo a suggerire questa visione fu Copernico nel 1514.

Nel 1609 Galileo, usando il cannocchiale, scoprì i satelliti di Giove e inflisse un ultimo colpo al sistema tolemaico.

Immagine

Ritratto di Niccolò Copernico esposto presso il municipio di Torun (Polonia) dal 1580

Immagine

Galileo Galilei

Immagine

Giovanni Keplero

Nella nascita della cosmologia moderna va sottolineata l’importanza che ebbe la visione di Galilei e di Keplero, ambedue convinti che il “gran libro della natura” fosse scritto in linguaggio matematico. La scoperta del cannocchiale espanse i limiti dell’universo al di là di quanto era immaginabile per Tolomeo. Galileo fu il primo a rendersi conto che la Via Lattea era un immenso aggregato di stelle.

La pubblicazione nel 1687 dei “Philosophiae naturalis principia mathematica” (Principi matematici della filosofia naturale) di Newton(1642-1727) rimane uno dei avvenimenti più significativi nella storia della scienza e in particolare della cosmologia.

Immagine

Sir Isaac Newton

Immagine

Isaac Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica, copertina, prima edizione 1686/1687

In quest’opera Newton propose una teoria del moto dei corpi ed elaborò il calcolo infinitesimale che ne era la controparte matematica. Inoltre Newton postulò quella legge della gravitazione universale che ancora oggi rende conto con grande precisione del moto dei corpi celesti.

Immagine

Una pagina del trattato di Newton con la legge del moto dei corpi celesti

Secondo Newton, l’universo infinito non aveva centro ed evitava così il collasso. In realtà l’universo infinito non sarebbe stato comunque stabile, poiché un piccolo addensamento locale avrebbe creato le condizioni per la propria crescita destabilizzando l’intera struttura. Nessun discorso cosmologico può prescindere da una stima delle dimensioni dell’universo.  La conquista di questo parametro è stata molto difficile ed è avvenuta soltanto nell’Ottocento. Fino a meno di due secoli fa si conoscevano esclusivamente le dimensioni del Sistema Solare, e anche questo con larga approssimazione. Non si aveva invece un’idea realistica della distanza delle stelle. Nel 1838 Friedrich Wilhelm Bessel (1784-1846) misurò per la prima volta la distanza tra una stella e l’altra, mediante il metodo della triangolazione diretta ottenendo 10 anni luce.

Immagine

Friedrich Wilhelm Bessel

La stella più vicina risultò ad essere Alfa Centauri, che dista 4,3 anni luce dalla Terra.

Immagine

La posizione della stella Alfa Centauri nella costellazione Centauro

(segue…) 

                                                                       Lucica

L’OPERA DI LEONARDO DA VINCI – I CODICI

Scegliendo come proprio esecutore testamentario Francesco Melzi, Leonardo da Vinci decide il 23 aprile 1519, che a lui andranno tutti i manoscritti e i lavori del maestro. E’ un lascito favoloso per un artista che è “premier peintre et ingenieur et architecte du roi” Francesco I: poiché dona il lavoro di una vita, molte migliaia di pagine di disegni, appunti, ritratti, un patrimonio già prestigioso, al proprio pupillo, allievo e compagno non ancora trentenne.

Immagine

Leonardo da Vinci, Autoritratto, sanguigna su carta, 33,5×21,6cm circa, Biblioteca Reale, Torino

francesco melzi rivista_pittura_i0007bci

Giovanni Antonio Boltraffio (attribuito)  Ritratto di Francesco Melzi 

Un’eredità inestimabile  quella che Francesco Melzi terrà gelosamente presso di sé nella villa familiare di Vaprio d’Adda, per il mezzo secolo in cui ancora visse, non mostrandola mai a nessuno.   Immagine

Villa Melzi a Vaprio d’Adda, Milano

Quasi che nelle ultime volontà di Leonardo ci fosse un cupio dissolvi, un desiderio di non comunicare, di nascondere e occultare, affidando i suoi più preziosi beni, ovvero le ricerche, gli studi, i progetti e le idee a un destino senza memoria.

Quasi che volesse lasciare dietro di sé un’attesa senza speranza,mostrando così il tormento e l’inquietudine che l’avevano segnato tutta la vita. In ogni caso, tutto l’enorme patrimonio di Leonardo da Vinci, su cui oggi si reggono in gran parte il mito e la notorietà dell’artista, non era destinato a essere conservato e vincolato in archivi sicuri, collezioni o depositi reali, né destinato a stampa o rapida diffusione. Francesco Melzi  quei manoscritti trattenne e nascose e soltanto sfogliò in privato, estrapolando alcuni fogli per dare consistenza al cosiddetto Trattato della Pittura, apparso in una prima versione a stampa a Parigi nel 1651.

La copertina del Trattato della Pittura

Immagine

Trattato della Pittvra di Lionardo Da Vinci, “novamente dato in luce, con la vita dell’istesso autore, scritta da Rafaelle du Fresnne”.

Immagine

 Leonardo da Vinci, un foglio del Trattato della Pittura

Immagine

Leonardo da Vinci ,un foglio del Trattato della Pittura

Il Trattato, a sua volta, era soltanto una silloge abbreviata del Codice Urbinate lat. 1270 della Biblioteca Apostolica Vaticana, poi riscoperto ai primi dell’Ottocento, come si può apprendere leggendo la corrispondenza fra il bibliotecario Gaetano Luigi Marini e il pittore milanese Giuseppe Bossi, figura essenziale per la ripresa della ricerca leonardesca in età romantica.

Immagine

Leonardo da Vinci, Trattato di Pittura, 219v, Codice Vaticano Urbinate Lat. 1270, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Ma ancora, il Melzi fu così improvvido, o forse così schiacciato da un’eredità vasta, da lasciare che gli eredi causassero la dispersione dei manoscritti, ammucchiati nel sottotetto, quasi a disposizione di ospiti e antiquari di passaggio. La riscoperta dei  Codici di Leonardo costituirà quindi un’avventura bibliografica e intellettuale che muove da più di due secoli energie e passioni.

Il giornale “I tesori alla fine dell’arcobaleno” vi propone un viaggio attraverso il tempo alla scoperta delle storie e faccende che si celano dietro ad ogni uno di questi meravigliosi Codici di Leonardo da Vinci.

Codice Titolo Data No. disegni Luogo di conservazione
Codex arundel.jpg Codice Arundel (1478-1518) 273 British Library (Londra)
Aile mobile Luc Viatour.jpg Codice Atlantico (1478-1518) 1.119 Biblioteca Ambrosiana (Milano)
Codex trivulzianus.jpg Codice Trivulziano (1478-1490) 52 Castello Sforzesco (Milano)
Detail Da Vinci codex du vol des oiseaux Luc Viatour.jpg Codice sul volo degli uccelli (1505) 17 Biblioteca Reale (Torino)
Codex ashburnham.jpg Codice Ashburnham (1489-1492) 44 Istituto di Francia (Parigi)
Paris Manuscript E 1.jpg Codici dell’Istituto di Francia (1492-1516) 964 Istituto di Francia (Parigi)
Codex Forster Book I Fol 7.jpg Codici Forster (1493-1505) 300 Victoria and Albert Museum (Londra)
Vinci - Hammer 2A m.jpg Codice Leicester (1504-1506) 36 Collezione privata di Bill Gates
Studia szkieletu.jpg Fogli di Windsor (1478-1518) 600 Castello di Windsor (Berkshire)
Kodeks madrycki I Leonardo.jpg Codici di Madrid (1503-1505) 349 Biblioteca nazionale (Madrid)

fonte: Wikipedia

A seguire si segnala un breve percorso bibliografico, necessariamente parziale, per chi desideri approfondire i differenti aspetti dell’attività di Leonardo da Vinci.

Ettore Verga, Bibliografia Vinciana, Bologna, 1931

Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di Rosanna Bettarini e Paola Barocchi, 4 voll., Firenze 1976

Trattato della Pittura di Lionardo da Vinci, a cura di Raphael Trichet Du Fresne, Parigi, 1651

Carlo Amoretti, Memorie storiche su la vita, gli studi e le opere di Lionardo da Vinci, in Trattato della Pittura, Milano, 1804.

                                                                                                                      Lucica

NEANDERTHAL

G. A B R A M- C O R N E R

Immagine

Noi umani, che in sempre maggior numero calpestiamo ogni angolo del pianeta, abbiamo avuto qualche tempo fa un fratello bello, forte, gagliardo e intelligente, che poi abbiamo perso per sempre o forse sopravvive segretamente e silenziosamente dentro di noi. Il suo nome è Homo e di cognome fa Sapiens Neanderthalensis, mentre noi facciamo Homo Sapiens Sapiens (due volte). 

Era il 1856 quando durante degli scavi in una cava di ghiaia nella valle del Neander, in Germania vicino a Dusseldorf, un operaio s’imbatté in uno straordinario frammento di cranio ed alcune ossa che finirono casualmente nella raccolta di teschi e reperti fossili umani ed animali di un professore di ginnasio, che sottoposte lo stranissimo cranio agli esperti dell’Università di Bonn. Fu allora che si scatenò la rissa furibonda fra scienziati, col coinvolgimento dell’opinione pubblica e perfino della Chiesa, sull’identità del titolare di quelle ossa che attestavano autentiche caratteristiche umane, anche se un po’ diverse dalle nostre. Nel frattempo era uscito il famoso, rivoluzionario e contestato volume di Darwin sull’origine della specie, che chiarì molte cose e fu alla luce di queste nuove idee che qualcuno ipotizzò che, con molta probabilità, in passato avevamo avuto un fratello umano molto simile a noi, col quale avevamo perfino convissuto e non per qualche week-end ma per alcuni millenni.

Ma chi era quest’uomo e da dove veniva? L’uomo di Neanderthal, che chiamerò Neander per brevità, proveniva dalla notte dei tempi, e rappresentava un ramo laterale del nostro stesso albero evolutivo, una specie di ramo cadetto(come i Savoia e gli Aosta). La loro esplosione demografica si ebbe alla fine della glaciazione di Riss, un oceano di ghiaccio che occupò un terzo delle terre emerse per oltre 100.000 anni, da circa 250.000 a 125.000 anni fa, e prosperò durante la glaciazione di Wurm durata da circa 80.000 fino a 11.000 anni fa.

Il Neander popolò tutta l’Europa continentale e il Medio-Oriente per oltre 50.000 anni, fino a circa 30.000 anni fa, quando ebbe la sfortuna di incontrarci.

Questo nostro fratello visse quindi in contemporanea con l’ultima glaciazione, la quale fu però intervallata da periodi temperati e perfino caldi, anche se nella maggior parte dei millenni il freddo dominò incontrastato. Basti pensare che sopra l’Inghilterra e la Scandinavia gravava il peso di una coltre gelata di oltre 2.000 metri e anche sulle Alpi con lingue e propaggini fino alla pianura padana. L’ambiente era terribilmente ostile e per sopravvivere occorreva una capacità di adattamento eccezionale ed un fisico nerboruto ed il Neander possedeva in maniera eccellente entrambe le qualità. Egli non era molto alto, circa 155-165 cm di statura, come del resto l’Italiano medio ottocentesco, anche se in Medio-Oriente sono stati ritrovati scheletri di questi uomini alti più di 170 cm, ma aveva una corporatura robusta con una muscolatura potentissima.

Le ossa erano forti e pesanti con attacchi che fanno presupporre muscoli pettorali e dorsali possenti e così per la muscolatura del collo decisamente taurina. Se Neander avesse stretto la mano a uno di noi ci avrebbe causato fratture multiple scomposte, e Tyson sul ring sarebbe finito al tappeto nel giro di dieci secondi!

Straordinaria era anche la testa, provvista di un cervello enorme fini a 1.600 centimetri cubi, quando nell’uomo attuale è di circa 1.400/1.500, anche se non è la quantità del cervello che ne garantisce la qualità, quanto la sua organizzazione.

Aveva inoltre un viso caratterizzato da arcate sopracciliari pronunciate, un naso imponente, un mento sfuggente e la fronte bassa, a differenza di noi umani contemporanei che siamo in possesso di fronti altissime a volte inutilmente spaziose.

Il Neander viveva in piccole comunità esercitando la caccia, la pesca e la raccolta di frutti spontanei, non essendo ancora stata inventata l’agricoltura e scarsamente praticato il commercio, ed aveva una dieta che molti studiosi definiscono varia, e nessuno di loro soffriva di carie dentaria. Questo ci fa presumere che commercialisti e dentisti fossero fortunatamente categorie professionali sconosciute presso di loro.

In conclusione tutto ci porta a pensare che fossero tozzi e tarchiatelli ma anche forti e scattanti, veloci e nerboruti e forse, dato l’ambiente in cui vivevano, anche provvisti di una bionda capigliatura e profondi occhi celesti!

Il fratello Neander cacciava anche animali di grossa taglia come il cavallo, l’uro, possente capostipite del bue europeo (Bos Primigenius), cervi, daini, stambecchi, cinghiali e perfino il mammuth ed il rinoceronte lanoso, evitava però di stuzzicare l’orso delle caverne(Ursus Speleus), una bestiolina alta tre metri e di una tonnellata di peso, non si sa se per tabù religioso o per il terrore che il bestione suscitava. Infatti nelle discariche neanderthaliane le ossa ursine sono rarissime e casuale.

Il Neander era anche un abilissimo sarto che si cuciva le pelli al fine di proteggersi dal freddo, dopo averle ammorbidite anche con la masticazione, infatti molti crani ritrovati portano denti usurati in conseguenza di questa attività. Probabilmente non conoscevano l’uso dell’ago ma ugualmente tagliavano e ritagliavano i loro villosi indumenti su misura e li univano con lacci e lacciuoli come dei Versace o dei Valentino, anche se pare escluso che sfilassero regolarmente, o che le collezioni estate e inverno fossero esageratamente differenziate.

L’intimo, sia come necessità pratica che come categoria dello spirito, in quei tempi duri sembra non fosse stato neppure ipotizzato!

L’epoca gloriosa dei Neander si estese fra gli 85.000 e i 30.000 anni fa dopo di che le tracce e i reperti neanderthaliani rapidamente svaniscono sostituiti da resti di Homo Sapiens Sapiens (detto anche Cro-Magnon, dal nome della località francese dove furono trovati i primi reperti ossei), i nostri trisnonni in tutto simili a noi al punto che gli studiosi sostengono che un bimbo di allora allevato in una normale famiglia di Vigevano o di Tubingen in Germania o di Vetlanda in Svezia, potrebbe diventare senza difficoltà un ottimo sindacalista, uno stupendo meccanico dentista o in illuminato e casto pastore luterano. Ma come finì questa incredibile avventura?

L’enigma della scomparsa di Neander è ancora avvolta nel mistero, si contano però numerose ipotesi.

Qualcuno sostiene che l’incontro fra i Neander e i nostri antenati fu infausto per i primi, come accadde per i pellerossa a contatto con la civiltà europea più evoluta, altri pensano che l’unione sessuale fra le due specie abbia diluito i caratteri di Neander fino a farli scomparire.

C’è anche chi sostiene che nuove malattie portate dall’Homo Sapiens Sapiens per le quali il sistema immunitario di Neander non era attrezzato li abbia portati all’estinzione come è successo ai popoli dell’Amazzonia o agli Esquimesi a contatto coi bianchi invasori.

Altri ancora ipotizzano che i vecchi abitatori dell’Europa, sotto la pressione dei nuovi arrivati, siano costretti in zone sempre più ristrette e marginali, sull’esempio della riserva indiana, fino alla scomparsa per carenza di risorse.

Una delle ultime ipotesi, difficilmente dimostrabile ma non impossibile, consiste nell’idea che gli accoppiamenti incrociati fra Neander ed Homo Sapiens Sapiens avessero generato una prole ibrida e sterile, incapace di riprodursi, come accade in natura al mulo ed al bardotto, figli sterili dell’asino e del cavallo. La soluzione più logica del mistero sta nella probabilità che tutte queste situazioni negative si siano contemporaneamente verificate e sommate con esiti letali per il povero Neander.

C’è anche un’ultima congettura, a cui però non voglio dar credito, la quale sottintende che il nuovo arrivato si sia cucinato il povero Neander, trovandolo non difficile da catturare, facile da pulire e pure gradevole al palato, una sorte di cannibalismo fraterno e neppure tanto rituale.

Ma il Neander fu un vero uomo con tutte le caratteristiche di intelligenza e umanità? Tutti sanno che l’uomo è tale in quanto in possesso dell’autocoscienza, ovvero del senso di sé, del proprio esistere e della propria collocazione nella storia. In poche parole l’uomo è l’unico animale che sa chi è, che si ricorda di suo nonno e che sa di dover morire.

Nel Neander probabilmente tutte queste categorie erano presenti, egli sapeva e forse sapeva anche di sapere, ne fa fede il senso artistico ed il culto dei morti, che sta a dimostrare chiaramente come il Neander concepisse l’idea straordinariamente umana della possibilità di una nuova vita oltre la morte.

Ammettiamo pure che esistano animali dotati di una vaga autocoscienza, ma nessun animale ricorda di suo nonno, nessuna fiera sa di dover morire e nessun animale seppellisce i propri morti.

Non si sa se Neander possedesse una coscienza morale, se distinguesse cioè fra il bene e il male, questione del resto ancora irrisolta anche per la nostra specie cosi sapiente ed evoluta, anche se Qualcuno ad un certo punto della nostra storia ci ha regalato i Dieci Comandamenti, dono brutalmente snobbato dagli uomini sia del passato che del presente per via del libero arbitrio.

A volte penso al nostro primo incontro con loro. i Neander, così diversi e così uguali a noi, immagino lo stupore, la meraviglia, lo spavento o il terrore degli uni e degli altri, la repulsione ed il timoroso desiderio di contatto e di conoscenza. Un incontro straordinario e inconsueto di 30.000 anni fa, non registrato da alcuno, né dalla storia, né dalla leggenda, un fatto così lontano da essere precedente perfino al diluvio universale, ma vero e reale. Qui non parla né pietra, né carta, né papiro, né pergamena, qui sono le ossa che cantano antiche e misteriose melopee.

AFORISMA. Tutte le nostre conoscenze, capacità,abilità e qualità un giorno andranno disperse e perdute, come lacrime nella pioggia.

G.ABRAM, “Il Trionfo di Kaino”, ediz. El Tiburòn, 2004.

Pubblicato online dal giornale “I tesori alla fine dell’arcobaleno”, per gentile concessione dell’autore.

ARISTOTELE

Se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si deve filosofare; in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l’origine della filosofia.”

Aristotele, Protrettico, fr.424, in Opere, a c. di G. Giannantoni, Roma-Bari , Laterza, 1973

Immagine

Aristotele (384 a.C.-322 a.C.), filosofo greco antico

Aristotele fu il più famoso fra gli allievi dell’Accademia Platonica. Nato a Stagira, in Tracia, nel 384 a.C., nel 366 andò ad Atene, ove rimase fino alla morte di Platone. Divenne poi precettore del giovane Alessandro di Macedonia e, quando questi salì al trono, fondo in Atene il Liceo e vi insegnò. Morto Alessandro Magno nel 323, Aristotele si ritirò a Calcide di Eubea (Grecia Centrale), ove si spense l’anno successivo.

Anche se, quale membro dell’Accademia, Aristotele fu a conoscenza della matematica dell’epoca, il suo interesse scientifico era rivolto alla biologia, una materia che richiede che si affrontino in modo diverso molte questioni di metodo (lo schema aristotelico di classificazione degli animali, la “scala di natura” faceva ancora testo nel Medioevo). D’altra parte Aristotele andò totalmente fuori strada nel campo delle scienze fisiche-ove gli Ionici( una delle stirpi dell’antica Grecia) e Platone si erano avvicinati di lui più alla verità- perché egli applicò anche alla fisica e all’astronomia il cosiddetto principio teleologico.

In base a tale principio noi dovremmo cercare non l’origine delle cose ma i fini cui esse tendono (télos in greco significa “scopo”). Ora, se questo modo di pensare va benissimo nelle cose umane, dove possiamo effettivamente spiegarci il comportamento di una persona dal fine che essa si prefigge di raggiungere, nel campo delle scienze questo porta a false conclusioni, anche se fornite da una certa apparenza di plausibilità. Infatti Aristotele lo usò per spiegare lo sviluppo degli animali e delle piante-concependo tale sviluppo come il perseguimento di un fine-, e per spiegare le leggi fisiche: ma sostenere che una pietra cade perché essa cerca il centro delle cose, non spiega assolutamente nulla. Le dottrine di Aristotele esercitarono una tale influenza nel corso dei secoli tanto che ancor oggi se ne trovano tracce nel nostro linguaggio quotidiano, anche se il comportamento o i fatti che ne derivano sono ben lontani dal pensiero originale aristotelico.

Immagine

August Rodin, La Mano di Dio, 1896, Parigi, Museo Rodin

La teoria aristotelica di forma e materia ha influenzato il mondo occidentale per secoli. La materia era la “sostanza” (letteralmente “ciò che sta sotto”), cioè il materiale base di cui ogni cosa è fatta; la “forma” dava invece identità alla materia in quanto cosa particolare. August Rodin (1840-1917) usò questa concezione quando rappresentò “La Mano di Dio” che forgia l’uomo: la forma- l’uomo- è potenziale nella creta, e nell’atto della creazione Dio la rende attuale.

Uno dei concetti filosofici fondamentali di Aristotele è che le cose sono quello che sono in virtù della loro potenzialità, cioè per il fatto di poter passare dalla semplice potenzialità alla realtà. Così, una ghianda è potenzialmente una quercia, poiché nelle condizioni adatte può svilupparsi in una quercia: ciò che la ghianda porta dentro di sé è la forma della quercia.

Infatti per lui ogni cosa consiste di materia, che è la “sostanza” informe e indifferenziata, alla quale la “forma” dà un’identità che fa sì che la cosa sia quello che è. La “forma” aristotelica deriva dall’Idea platonica, ma mentre in Platone le idee sono trascendenti, cioè al di sopra e al di là degli oggetti dei sensi, la forma di Aristotele è immanente, cioè insita negli oggetti stessi.

Aristotele è il primo filosofo a darci un compiuto sistema di logica. Accenni e tentativi in questo senso li troviamo anche prima di lui, ma non come una trattazione sistematica. Ed egli stesso non dà a questa parte della sua opera il nome di logica, un termine che verrà impiegato molto più tardi. Già Socrate aveva fatto rilevare che quello che noi dobbiamo fare è, nel parlare delle cose-cioè nelle nostre affermazioni-, cercare la Verità. La logica riguarda appunto il modo con cui noi parliamo, il linguaggio. Aristotele però, nello sforzo continuo di analizzare il linguaggio, fa spesso della pura e semplice linguistica.Cominciamo con l’enumerazione aristotelica delle categorie, questi vari possibili predicati della sostanza, che Aristotele definisce come termini che hanno un significato di per sé e che contrappone a quelle parole che hanno invece un significato solo nel contesto di una proposizione. Aristotele elenca dieci categorie: sostanza, qualità, quantità, relazione, spazio, tempo, azione, passione, e accanto a queste, il giacere e l‘avere, cioè la posizione e lo stato. Questi sono i predicati più generali possibili delle cose. La sostanza (ciò che è alla base, la forma immanente) è ciò di cui si parla, mentre le altre categorie esprimono in genere come di essa si parla. La logica aristotelica influenzò talmente i grammatici posteriori che noi parliamo anche oggi di sostantivi, le parole che funzionano in genere da soggetto in una proposizione. Per spiegare meglio la teoria delle categorie, prendiamo come esempio un libro (sostanza). Esso ha un peso (quantità), è interessante (qualità), appartiene a qualcuno (relazione), giace (posizione), è aperto (stato), sul tavolo (spazio), in questo momento (tempo), e, letto (passione), fornisce informazioni (azione). E’ un esempio che lascia vedere come Aristotele analizzava il linguaggio, il quale non è un fenomeno casuale, ma serve agli uomini per affrontare la realtà. E Aristotele conclude che il linguaggio riflette il mondo reale.

L’aristotelismo fu ripreso e sviluppato nelle diverse epoche da diversi movimenti dottrinali. I successori continuarono l’opera del filosofo greco soprattutto nel campo delle ricerche scientifiche e storiche. Tra questi ricordiamo Teofrasto di Eresso che coltivò la Botanica, Eudemio di Rodi, per la Storia delle Scienze, Stratone di Lamprasco in campo della Fisica..

Intorno al III secolo d.C. l’aristotelismo incomincia a perdere la sua autonomia speculativa, trovando i continuatori nelle scuole del Neoplatonismo, rifondendo in esse il pensiero e il messaggio di Aristotele. Altri illustri esponenti nel campo filosofico e scientifico, quali Galilei e Copernico rivisitarono il Cosmo aristotelico, inducendo l’uomo a cercare in sè stesso il proprio centro, e nella storia umana il suo effettivo mondo.

Il grande merito di Aristotele è comunque quello di aver divulgato una concezione che crede nei limiti dell’umano, riponendo la saggezza nella fedeltà all’Essere.

Immagine

Aristotele. Dettaglio della Scuola di Atene di Raffaello Sanzio, 1509, Musei Vaticani, Città del Vaticano

Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. E’ evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa”.

Aristotele, Metafisica (I,2,982b)

                                                                                    Lucica Bianchi

LA CAPPELLA BRANCACCI

Gli affreschi della Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria Del Carmine a Firenze sono considerati “incunaboli” della pittura rinascimentale, e questo perché la loro forza innovativa è sempre stata fonte di ispirazione artistica per oltre un secolo.

Immagine

Masaccio, Riscossione del tributo per il Tempio, 1425 ca. affresco, Firenze, Santa Maria Del Carmine, Cappella Brancacci

Immagine

Masolino, Guarigione dello storpio e Resurrezione di Tabita, 1425 ca. affresco,Firenze, Santa Maria Del Carmine, Cappella Brancacci

Immagine

 Masolino, La predica di San Pietro, 1425 ca. affresco, Firenze, Santa Maria Del Carmine, Cappella Brancacci

Immagine

Masaccio, San Pietro battezza i neofiti, 1425 ca. affresco, Firenze, Santa Maria Del Carmine, Cappella Brancacci

La decorazione della cappella, con scene della vita di San Pietro, fu cominciata nel 1424 da Masolino da Panicale (1383-1440ca.), artista il cui metodo figurativo era ancora completamente radicato nel gotico internazionale, ma che, per la sua abilità nel conferire un acuto senso della prospettiva va annoverato tra i precursori della pittura rinascimentale. Come d’abitudine a quei tempi, l’artista dipinse dapprima il soffitto e le lunette, che sono stati distrutti nel corso di successive opere di rinnovamento della cappella. Masaccio affiancò Masolino nel 1425, e insieme dipinsero le superfici superiori delle pareti. Masolino lasciò Firenze nell’estate del 1425, mentre Masaccio continuò i lavori, occupandosi da solo delle porzioni inferiori delle pareti, ma le lasciò incompiute nel 1428, quando si trasferì a Roma, ove-nello stesso anno-morì all’età di ventisei anni. Gli affreschi della cappella furono completati solo una sessantina d’anni più tardi, tra il 1481 e il 1485, per opera di Filippino Lippi.

Immagine

Filippino Lippi, La disputa dei Santi Pietro e Paolo con Simon Mago e la Crocifissione di San Pietro, affresco, Firenze, Santa Maria Del Carmine, Cappella Brancacci

Immagine

Filippino Lippi, San Pietro liberato dal carcere, affresco, Firenze, Santa Maria Del Carmine, Cappella Brancacci

Il lavoro di affresco della cappella fu commissionato dal ricco mercante di seta Felice Brancacci, caduto in disgrazia pressi i Medici proprio mentre questi erano prossimi all’ascesa al potere, e da essi esiliato nel 1436. Ciò spiega i ritardi nel completamento dell’opera, che fu probabilmente ripresa solo in seguito alla riabilitazione degli eredi di Brancacci.

Immagine

Cappella Brancacci, immagine panoramica, affresco, Firenze, Santa Maria Del Carmine

Masolino e Masaccio lavorarono separatamente a scene diverse, pianificando accuratamente i loro interventi in modo da poter operare contemporaneamente. Essi usarono un solo ponteggio dipingendo scene contigue, in modo da evitare una netta separazione tra le loro opere, che avrebbe creato maggior squilibrio rispetto a una divisione “a scacchiera” come si vede oggi. Sul ponteggio di forma rettangolare l’uno dipingeva la scena sulla parete laterale, l’altro su quella frontale, per poi scambiarsi i compiti sul lato opposto. Con questo metodo venne sicuramente eseguito il registro superiore e la parte delle lunette, mentre l’interruzione dei lavori comportò la mancata applicazione nel registro inferiore.

Una questione molto dibattuta è quella degli aiuti che i due pittori si offrirono reciprocamente in scene destinate all’uno o all’altro. Alcuni studiosi tendono ad escludere che ciò sia avvenuto, altri, basandosi su confronti stilistici, sono invece convinti del contrario. Per esempio si attribuiva in genere a Masaccio lo schema prospettico della Guarigione dello storpio e Resurrezione di Tabita perchè identico a quello del Tributo(affresco esclusivo di Masaccio), ma, invece, pare venne elaborato da entrambi. A Masaccio sono attribuite le montagne realistiche nella Predica di San Pietro  mai più  dipinte in lavori successivi, mentre a Masolino è attribuita la testa del Cristo nel Pagamento del Tributo, dolcemente sfumata come quella dell’Adamo nella Tentazione di Adamo ed Eva.

Il tema della decorazione ad affresco è quello della historia salutis, cioè la storia della salvezza dell’uomo, dal peccato originale all’intervento di Pietro, quale diretto erede di Cristo e fondatore della Chiesa romana. Le fonti del complesso sono la Genesi, i Vangeli, gli Atti degli Apostoli e la Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze. Pietro è sempre riconoscibile negli affreschi di ciascuna mano, per via dell’abito verde scuro con il mantello arancione e per la tipica capigliatura corta e bianca, corredata da barba.

La cappella era originariamente organizzata su tre registri, coperti da volta a crociera dove nelle vele si trovavano i quattro Evangelisti di Masolino, oggi sostituiti dalla cupola con gli affreschi di Vincenzo Meucci.

Immagine

Vincenzo Meucci, La cupola della cappella Brancacci, Firenze, Santa Maria Del Carmine

Pietro Apostolo, primo papa, era il protettore di Pietro Brancacci, il fondatore della cappella, e della famiglia Brancacci in generale. Pietro era anche l’apostolo fondatore della Chiesa Romana, dal cui potere discendeva quello del papa, per cui celebrandolo si celebrava il papato stesso, in linea con la politica filo pontificia rivolta al papa Martino V e condivisa dalla maggior parte dei fiorentini dell’epoca, e dai Carmelitani, patroni della chiesa del Carmine. La presenza di scene della Genesi (Peccato originale e Cacciata dal Paradiso Terrestre) si collegano infatti al tema della salvezza dell’umanità operata dal Signore proprio attraverso Pietro. L’accostamento delle storie di Pietro a quelle della Genesi inoltre, potevano essere lette come un parallelo tra  la Creazione di Dio e la fondazione della Chiesa da parte di Pietro, e la ri-creazione, voluta da Martino V della sede romana dopo il lungo scisma d’Occidente. 

Alcune scene, rare in altri cicli pittorici, sembra che furono scelte per esprimere una posizione riguardo all’istituzione del catasto fiorentino, all’epoca già nell’aria (venne avviato nel 1427), con il quale si introduceva, per la prima volta in Italia, un sistema di tassazione proporzionale basato sul reddito, che attingeva in maniera maggiore dalle ricchissime famiglie della borghesia di mercanti e banchieri. In questo senso, scene come il Pagamento del Tributo e la Distribuzione delle elemosine e la Morte di Anania, sembrano dipinte proprio per ribadire la necessità civile e religiosa di pagare le tasse per il bene dell’intera comunità.

Il realismo con cui i tre artisti, Masolino, Masaccio e Lippi hanno rappresentato le figure divine, la notevole emotività ed espressività conferita loro, dimostra  che i pensieri dei pittori fossero naturalmente legati alle vicende del mondo. La pittura tardo gotica con la sua dimensione spazio-temporale tanto astratta, è stata dissolta. Gli eventi celesti vengono umanizzati e aggiornati in modo da essere di facile comprensione per tutti i fedeli.

Giorgio Vasari (1511-1574) sosteneva che sono stati i pittori del primo Quattrocento, come Masaccio, a fare il primo passo verso un’arte pervasa sì, dalla tensione, ma anche carica di realismo e verità. Tale rinascita, comunque, non fu tanto una resurrezione delle forme “all’antica”, quanto piuttosto un nuovo senso della dignità dell’essere umano quale oggetto della raffigurazione artistica.

                                                                        Lucica Bianchi

IL TRIONFO DI KAINO – Fatti, misfatti e personaggi in forma casuale, non premeditata

 

G. A B R A M –  C O R N E R 

Immagine

G.Abram è un artista scultore in bronzo. vive e lavora a Delebio (Sondrio), dove ha studio e laboratorio. Egli è da sempre un appassionato cultore delle cose del passato, di cui saltuariamente e senza premeditazione, fornisce resoconti e rapidissimi ritratti di personaggi senza particolare riguardo alla loro notorietà e senza la pretesa della scientificità, bensì col chiaro intento della divulgazione attraverso una comunicazione semplice e divertente alla portata di tutti. Corre voce che chi scrive in modo oscuro o è un somaro o un ciarlatano, G.ABRAM ha ottenuto coi suoi scritti di essere il meno possibile l’uno e l’altro, essendo consapevole che la condanna senza redenzione di chi scrive è la noia di chi legge. Certo l’autore non è un comunicatore asettico e imparziale, egli ha le sue simpatie, le sue ripugnanze, le sue tenerezze e i suoi rancori, che però mai inficiano la pagina o sporcano il giudizio a volte compassionevole e a volte tagliente. Ovviamente tutto è opinabile, discutibile, accettabile o rifiutabile secondo le proprie convinzioni, sensibilità e inclinazioni, importante però è non far assurgere la propria esperienza, cultura o giudizio a fattori insindacabili, altrimenti la caduta nel fanatismo diventa inevitabile. Questa piccola opera non è rivolta “all’Intellighenzia” né ai magnati della cultura ufficiale e ufficiosa, bensì alla gente comune che desidera avere un’opinione chiara sui fatti, luoghi e personaggi dei tempi che furono, senza eccessive implicazioni ideologiche.

(Tratto dal prologo del libro “Il Trionfo di Kaino”, di G.ABRAM; ediz. El Tiburon, 2004)

Pubblicato online dal giornale “I Tesori alla fine dell’arcobaleno”, per gentile concessione dell’autore.

Immagine

L’artista G.ABRAM

RITUALE E MAGIA

E’ difficile per noi mettere in rapporto con le creazioni dei nostri artisti, le attività dell’uomo preistorico se ce lo immaginiamo intento a eseguire rituali mentre dipinge sulle pareti delle caverne. In realtà, la connessione è più stretta di quanto immaginiamo. Abbiamo visto che due degli elementi principali dell’arte preistorica sono la magia e il rituale; ora, tutti e due questi elementi, in una forma o nell’altra, esistono nelle arti del nostro secolo.

Immagine

Incisione rupestre di Alta, Norvegia, risalenti alla fine dell’età della pietra.

Immagine

Incisione rupestre di  Tadrart Acacus, Libia, età della pietra

Immagine

Incisione rupestre nella regione libica di Tadrart Acacus

Queste figure, e tante altre ancora, risentono della credenza degli uomini primitivi , secondo cui riproducendo pittoricamente un animale si acquista su di lui un potere magico di vita o di morte, nonché le abilità fisiche di quell’animale.

Anche se ha pochi legami con le arti delle nostre società altamente industrializzate, la magia svolge ancora una funzione di primo piano nelle arti dei popoli primitivi esistenti oggi. I Sepik della Nuova Guinea, i Bacuba del Congo, le molte tribù delle foreste dell’Amazzonia, gli aborigeni australiani sono solo alcuni fra le centinaia di popoli primitivi che praticano l’arte-magia nei loro canti, danze, drammi, sculture o pitture.

Consideriamo per esempio gli aborigeni australiani, molti dei quali hanno ancora pochi contatti col mondo esterno. Uno dei temi comuni della pittura aborigena sono i cosiddetti wondjina (visi dalla forma vagamente umana, con macchie al posto degli occhi e del naso ma senza mai un accenno di bocca) che troviamo dipinti e ridipinti infinite volte.

Immagine

Esempio di dipinto aborigeno con l’immagini di “wondjina”

Perché questi dipinti? “Per provocare la pioggia” dicono gli aborigeni, i quali credono che il solo atto di dipingere i wondjina possa assicurare le piogge, la benedizione più sospirata nelle aride regioni australiane. E’ perché i wondjina non hanno bocca? Perché, se l’avessero, la pioggia scorrerebbe a torrenti e provocherebbe inondazioni.

Immagine

Una copia di wondjina, senza la bocca, e con 2 macchie al posto dei occhi.

Dunque la magia, in quanto motivo di creazione di oggetti artistici, sopravvive nell’arte dell’XX secolo soprattutto presso i popoli primitivi; ma l’altro elemento dell’arte preistorica, il rituale, è insito in tutte le arti in ogni tipo di società. Prendiamo un esempio: in Grecia i rituali dionisiaci portarono al sorgere del teatro greco, con Aristofane e Eupoli (commediografi attivi ad Atene nella metà del V secolo a.C.) e Filemone e Menandro (attivi ad Atene nel IV-III secolo a.C.).

Immagine

Dionisio e Arianna a banchetto, in una brocca attica a figure nere

Le loro opere di questi commediografi si rifanno ad una serie di rituali ed eventi di diverso genere.

Immagine

Vaso etrusco raffigurante una scena di battaglia tra opliti e cavalieri greci.

Anche in tempi moderni il rituale ha avuto una parte enorme nella vita dei popoli e nella loro arte: pratiche religiose, processioni solenni e cerimonie, parate tradizionali, adunate politiche, incontri sportivi, carnevali implicano ognuno un tipo di rituale e ognuno di essi, a sua volta, richiede un genere d’arte. Per i carnevali e le adunate si preparano maschere e cartelli; per le assemblee politiche o d’altro genere si decorano le sale con bandiere, nastri colorati, palloni, eccetera; per molte cerimonie solenni, infine, compositori, pittori, scultori e altri artisti sono incaricati dell’esecuzione di opere che ricordino l’avvenimento.

Citiamo alcuni esempi: il kedivè d’Egitto celebrò l’apertura del Canale di Suez facendo costruire al Cairo un nuovo teatro dell’opera e commissionando a Giuseppe Verdi un’opera d’ambiente egiziano, l’Aida, rappresentata per la prima volta nel 1871. Nel 1950 Pablo Picasso disegno una colomba simbolica che fu riprodotta in molti parti del mondo su bandiere e manifesti in occasione di adunate per la pace.

Immagine

 Pablo Picasso, La colomba per la pace

Poco prima di morire, nel 1954, un contemporaneo di Picasso, Henry Matisse, disegnò decorazioni e paramenti a colori vivaci e a soggetto prevalentemente astratto per la cappella di un convegno a Vence, in Francia.

Immagine

Immagine

Le decorazioni realizzate da H.Matisse per la Cappella del Rosario a Vence, Francia

Perciò il rituale è oggi uno stimolo all’arte tanto importante quanto lo è stato per i nostri antenati delle caverne, ma è spesso uno stimolo esterno: infatti, i rituali possono richiedere opere le cui ragioni sociali o religiose non rispecchiano le convinzioni personali dell’artista. Quello stimolo interno che viene dall’intimo dell’artista lo chiamiamo facoltà creatrice. Spesso ci si domanda se questa abilità, questa facoltà creatrice sia innata o acquisita: naturalmente, nessuno nasce con tali doti artistiche da poter fare a meno dell’educazione delle proprie capacità, ma è altrettanto ovvio che il solo addestramento non basta a fare di un uomo un artista. In conclusione, per tutti gli artisti l’istruzione professionale e l’abilità innata sono condizioni essenziali.

                                                              Lucica Bianchi

INCONTRIAMO DANTE E PARLIAMO D’AMORE .TALAMONA 5 aprile 2013, serata culturale all’Auditorium delle scuole medie “G.Gavazzeni”

Immagine

INCONTRO DANTE: DI DANTE E DELL’AMORE

UNA SERATA NATA DALLA COLLABORAZIONE TRA LA BIBLIOTECA DI ARDENNO E QUELLA DI TALAMONA PER DISCUTERE DEL TEMA DELL’AMORE NEL CAPOLAVORO DI DANTE. L’AMORE, PRINCIPALE MOTORE DELLE VICENDE UMANE.” L’AMOR CHE MOVE IL SOL E LE ALTRE STELLE.” 

Immagine

Foto: Incipit della Divina Commedia

Una serata da antologia quella che ha avuto luogo questa sera all’Auditorium delle scuole medie di Talamona alle ore 20.30. Una serata che mesi fa era stata proposta ad Ardenno e che è stata riproposta qui grazie alla passione e alla sollecitudine della signora Lucica Bianchi, talamonese di adozione, ma divenuta in breve tempo un motore indispensabile della vita culturale del nostro piccolo angolo di mondo. Una serata che, come ha detto uno dei lettori dei brani di Dante, il signor Martino, in una sorta di introduzione al tutto “nasce da una constatazione tanto semplice quanto chiara: la grande poesia, i grandi autori, affinchè diventino ciò che sono devono uscire dalle biblioteche ed entrare nelle piazze. È stato questo pensiero insieme al coraggio e alla consapevolezza di portare sul palcoscenico il più grande per eccellenza senza stravolgerne le parole con rischiosi adattamenti, a portare alla realizzazione di tutto questo. INCONTRO DANTE, un titolo che riassume in sé tutto il significato profondo dell’iniziativa. Un incontro col poeta, il suo mondo e la sua poesia, un viaggio attraverso i più famosi e caratteristici personaggi danteschi, un viaggio da fare col cuore e con la testa foriero di emozioni e di riflessioni”. Un viaggio articolato principalmente in tre tappe, tre canti, magistralmente letti, contestualizzati storicamente e infine commentati dalla professoressa Valentina Alessandrini, curatrice dell’evento. Un viaggio durante il quale l’opera e il suo autore sono stati perfettamente inquadrati nel loro contesto storico-culturale.

Dante, il suo tempo, critiche successive e temi conduttori

Nella seconda metà del Duecento Firenze è un vivace centro culturale che raccoglie gli stimoli provenienti dai maggiori centri culturali italiani come Bologna, Arezzo, Lucca, Siena. Significativa la circolazione degli studi di retorica di Brunetto Latini, maestro di Dante, lo stilnovismo di Guido Cavalcanti, IL NOVELLINO. Firenze è anche uno dei comuni più attivi dell’Italia centrosettentrionale. In questo periodo la struttura sociale del comune è stata trasformata dall’incremento delle manifatture e dei commerci che hanno danneggiato le piccole famiglie nobili escluse così dall’esercizio degli uffici politici se non iscritte ad un’arte. A ciò contribuì anche un ordinamento corporativo di Giomma della Bella. Dal punto di vista politico, Firenze è lacerata da una lotta politica tra i guelfi, sostenitori del Papa, e i ghibellini, sostenitori dell’imperatore. I guelfi a loro volta si dividono in due fazioni. I bianchi, capitanati dalla famiglia Cerchi, sono l’ala più moderata costituita prevalentemente dal popolo. I neri, capitanati dalla famiglia Donati, sono invece l’ala più estremista, audace e violenta, apertamente disposta  a sovvertire gli ordini costituiti.

In questo clima nasce Dante Alighieri nel 1265. Trascorre una vita intensa da un punto di vista letterario e politico, prende parte attivamente alla vita della sua città come guelfo bianco e vive l’esperienza dolorosa dell’esilio peregrinando tra varie città italiane. Muore a Ravenna, dove tutt’ora è sepolto, nel 1321.

Dante intitola il suo capolavoro COMINCIA LA COMMEDIA DI DANTE ALIGHIERI FIORENTINO DI NASCITA NON DI  COSTUMI. Com’è scritto nell’epistola inviata da Dante nel 1317 a Cangrande della Scala in riconoscenza dell’ospitalità offertagli durante l’esilio.

Immagine

Foto: La Divina Commedia in un’edizione del 1593, Firenze

Poema composto da 100 canti scritti in terzine di versi endecasillabi, narra di un viaggio nei tre regni dell’oltretomba: Inferno, Purgatorio e Paradiso, un viaggio che ha tutte le caratteristiche di una redenzione personale ed universale. Ci si inabissa nel male poi si risale seguendo sempre una traiettoria verticale dal basso verso l’alto.

I TRE REGNI DI DANTE

Immagine

L’INFERNO

Immagine

PURGATORIO

Immagine

PARADISO

Nei tre regni Dante colloca prevalentemente i suoi contemporanei e molti personaggi storici, politici e religiosi.Gli incontri con le anime sono ricchi di umanità, di commozione e di pietà ed indicano la grande passione di Dante verso l’umanità corrotta e peccatrice. Il viaggio inizia l’8 aprile del 1300, il venerdì santo dell’anno di indizione del primo giubileo della Storia da parte di papa Bonifacio VIII che durò una settimana. Entriamo nell’ottica dei pellegrinaggi di oggi, che altro non sono se non un mettersi in movimento per un percorso di purificazione e conversione, e scopriremo dunque la dinamica del poema, la fatica e la bellezza di questo pellegrino che ha messo in atto tutti i mezzi a sua disposizione per raggiungere la felicità.

Molti anni più tardi Boccaccio, un altro grande della letteratura italiana, disegna il ritratto fisico e morale di Dante utilizzando le testimonianze di chi lo aveva conosciuto negli ultimi anni.

Fu il nostro poeta di mediocre statura ed ebbe il volto lungo ed il naso aquilino, le mascelle grandi ed il labbro inferiore proteso in avanti che di tanto rispetto a quello superiore avanzava. Nelle spalle alquanto curvo e gli occhi grandi di colore bruno, i capelli e la barba spessi e crespi e neri. Sempre malinconico e pensoso. I suoi vestimenti sempre onestissimi furono e l’abito conveniente alla maturità. Il suo andare era greve e mansueto e nei domestici costumi e nei pubblici fu composto e civile. Rare volte non domandato parlava quantunque eloquentissimo fosse. Sobrio fu molto e di pochi domestico e negli studi, quel tempo che lor potevano concedere, fu assiduo. Grandissimo fu d’amore e di pompa e di animo alto e disdegnoso molto.

Eugenio Montale, poeta del Novecento afferma che Dante non può essere ripetuto, esempio massimo,egli resta estraneo ai nostri tempi, ad una civiltà fondamentalmente irrazionale. Poeta concentrico, Dante non può fornir modelli ad un Mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione perciò la Commedia è e resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale.

Questa sera si parlerà del tema dell’amore nel capolavoro dantesco, di tutte le sfumature dell’amore che Dante ha approfondito: l’amore lussurioso nel canto V dell’Inferno, l’amore tra padre e figli nel canto XXXIII dell’Inferno ed infine l’amore inteso come salvezza ultima espresso dalla Vergine Maria nel canto XXXIII del Paradiso. L’amore approfondito attraverso due chiavi di lettura particolarmente care alla professoressa Alessandrini, ch’ella considera indispensabili fili conduttori per questo viaggio di conoscenza.

La prima chiave di lettura riguarda i concetti del peccato e del male che attraversano tutto il poema così come attraversano interamente la storia dell’uomo attraverso i secoli, due concetti legati indissolubilmente tra loro, in quanto il peccato può essere inteso come il male che lascia un alone, il male inquadrato nel suo contesto in termini di conseguenze e stati d’animo tra i quali smarrimento e confusione dei referenti che pilotano la nostra vita nel bene e nel male. Stati d’animo che Dante palesa sin dall’incipit del suo capolavoro che prende per l’appunto il via in una situazione di peccato e di male che Dante non comprende come sia giunto. Del resto il peccato non è un qualcosa che può essere delineato, inquadrato in specifici e sporadici episodi, in gesti e cattive azioni precise e circostanziate. Il peccato è insito nella natura stessa dell’uomo, è la pratica radicata del male che si ritrova in tutte le anime che Dante incontrerà (Paradiso escluso).

La seconda chiave di lettura ruota tutta intorno al fatto che dal male non se ne esce da soli perché vizi e fragilità impediscono all’uomo di uscire dalla sua crisi, di respirare, di guardare in alto. un concetto che Dante esprime attraverso un’immagine nelle prime strofe del suo poema, l’immagine di tre vizi che assumono la forma di tre animali: la superbia (una lontra), la lussuria (un leone) la cupidigia (la lupa), un’immagine che denota per Dante una situazione di pericolo reale nel poema che sta a significare nella realtà una profonda crisi spirituale. Per uscire da questa situazione Dante ha bisogno di aiuto che gli giungerà di volta in volta sotto forma di varie figure che si  alterneranno come guide nel corso del suo lungo viaggio. Per prima cosa Virgilio che lo accompagnerà fino al Paradiso dove sarà sostituito da Beatrice a sua volta sostituita da san Bernardo che accompagnerà Dante a cospetto di Dio, cosa che solo un santo può fare. Con questi aiuti Dante può compiere il suo viaggio alla fine del quale egli reca un messaggio per tutta l’umanità. Lo scopo della vita è raggiungere la felicità, ma essa si può raggiungere solo perseguendo costantemente la conoscenza del bene supremo come mezzo di salvezza attraverso Dio. Un viaggio che è il risultato di una macchina provvidenziale affidata alle delicate mani delle donne tanto amate da Dante. Un viaggio che può compiersi in primo luogo grazie alla Vergine Maria che dal Paradiso scorge Dante in difficoltà e dunque intercede per lui presso Dio poi chiama in aiuto santa Lucia (la vergine martire cui vennero strappati gli occhi cui Dante era particolarmente devoto anche a causa di problemi alla vista cui fa cenno in un’altra sua opera IL CONVIVIO) la quale a sua volta si rivolge a Beatrice, la donna amata da Dante (che sta in contemplazione accanto a Rachele, la moglie di Giacobbe) che a sua volta scende nel limbo da Virgilio, il grande poeta latino, per mandarlo in aiuto di Dante alle prese con le fiere. Tre donne dunque che prendono a cuore il destino di Dante e che rispondono a delle analogie ben precise. Maria simboleggia la grazia che agisce d’anticipo. Lucia simboleggia la grazia illuminante, che rischiara. Beatrice invece viene da Dante assurta a simbolo della teologia, della fede, di colei che coopera alla salvezza. Tre donne belle e sapienti simili a quelle cui Dante si raccomanda in un’altra sua opera LA VITA NUOVA che si apre con una poesia che inneggia alle donne che possiedono intelletto d’amore, che hanno in consegna l’amore, che possiedono una sensibilità che le rende non solo generatrici di vita, ma anche capaci di gestire il gran potenziale dell’amore sotto ogni aspetto.

Canto V Inferno: Paolo e Francesca

Immagine

   

Accanto a queste figure femminili di immensa statura morale, nel capolavoro di Dante trovano posto anche molteplici figure di donne molto più semplicemente umane. Un esempio significativo è dato proprio dal primo dei tre canti presi in esame questa sera: il canto V dell’inferno ambientato nel secondo cerchio infernale il primo dei settori dedicati ai peccatori incontinenti, il girone dei lussuriosi che Dante identifica come coloro che hanno sottomesso la ragione alle necessità e ai desideri del corpo e che sono stati condannati per questo a vivere la loro eternità nell’oltretomba alla mercé di tremende tempeste che non si esauriscono mai. Dante giunge in questo luogo dopo aver visitato il girone degli ignavi e le anime del Limbo ed è la prima volta che si trova di fronte ad un peccato grave corrispondente ad altrettanto tremende sofferenze. Da tutto ciò che vede dunque Dante si sente molto turbato, impressionato, vulnerabile. In questo punto l’Inferno (immaginato da Dante con la forma di un imbuto che si restringe verso il basso in proporzione all’aumento della gravità dei peccati commessi e di conseguenza dei castighi inflitti) comincia a restringersi e Dante si trova a cospetto di un tremendo guardiano, uno dei non pochi custodi infernali dalle fattezze mostruose che Dante incontrerà più volte durante il cammino (a cominciare da Caronte all’ingresso). In questo caso si tratta di Minosse che Dante descrive di fattezze orribili, ringhioso con una lunga coda e con il compito di esaminare le anime che gli giungono a cospetto per poi condurle, in base ai peccati commessi, al girone corrispondente. Dante recupera questo personaggio dalla mitologia classica e da due poemi precedenti dove fa la sua comparsa sempre in veste di guardiano dell’oltretomba: l’ODISSEA di Omero e l’ENEIDE di Virgilio, proprio colui che accompagna Dante.  In realtà Minosse era in origine il re di Creta, uno spietato giudice che Dante trasfigura come mostro perché come mostri figurano tutti i guardiani infernali. Mentre esamina le anime che giungono, Minosse ad un certo punto si rivolge a Dante con l’intento di metterlo in guardia circa i pericoli che potrebbe incontrare nel luogo che sta visitando, ma viene prontamente zittito da Virgilio il quale afferma che questo viaggio è voluto da Dio. Nonostante ciò a Dante non sarà risparmiato nulla, egli si troverà totalmente immerso nel dolore che percepisce attorno a se, che trasuda ovunque da quel luogo, totalmente avvinto dai vortici e dalle bufere che tormentano i dannati perennemente sbattuti dai venti che disperdono i loro lamenti. Ad un certo punto Dante nota queste ombre, queste anime, che si mettono in fila e si presentano a lui. Virgilio lo aiuta a comprendere la loro identità e le loro storie, tutte caratterizzate da amori difficili, se non addirittura proibiti, e da morte violenta. Semiramide, che per unirsi al figlio legalizzò l’incesto, Cleopatra che sedusse Cesare e Marco Antonio, Didone, abbandonata da Enea, Elena, sedotta da Paride e considerata la causa scatenante della guerra di Troia. Una galleria di figure femminili che, come già precedentemente accennato, sono ben lungi da avere la statura morale delle donne che Dante elegge come sue guide, ma comunque anime da cui Dante si lascia coinvolgere. Accanto a queste donne si trova anche una nutrita schiera di eroi come appunto Paride accecato dal desiderio per Elena e Achille che per amore subì l’inganno della figlia del re Priamo di Troia. Donne e cavalieri (da questa espressione dantesca Ariosto trarrà in seguito spunto per l’incipit del suo ORLANDO FURIOSO) come pure ad esempio Tristano e Isotta la cui vicenda ne ricalca un’altra simile più vicina nel tempo rispetto a Dante che costituisce il fulcro di questo canto. Un nutrito elenco di storie e personaggi di fronte ai quali Dante proverà un senso di smarrimento e di pietà, un sentimento che continuerà ad accompagnarlo nel corso dell’intera esperienza.

A proposito dei personaggi danteschi, un grande letterato del Novecento G.L. Borges ha affermato una volta che un romanzo contemporaneo richiede centinaia di pagine per farci conoscere qualcuno sempre ammesso che lo si conosca mentre a Dante basta un solo momento e in quel momento il personaggio è definito per sempre. 

Tra tutte le anime che sfilano dinnanzi a lui in questo secondo cerchio dell’inferno, Dante ad un certo punto nota quelle di due giovani che camminano uniti. Dante chiede a Virgilio di poter parlare con loro ed egli risponde che ciò sarà possibile non appena la bufera infernale si sarà attenuata, cosa che puntualmente accade. È così che comincia una delle storie più famose contenute nel poema di Dante, la storia che rende il V canto dell’Inferno uno dei più famosi ed apprezzati: la storia di Paolo e Francesca (la quale può essere definita quasi un’antesignana di tutte le eroine romantiche che avrebbero caratterizzato, molti secoli dopo, un certo tipo di letteratura ndr) che si rifà in parte alla storia precedentemente accennata di Tristano e Isotta. Una volta che Dante può parlare con le anime di Paolo e Francesca chiede loro di raccontare la loro storia e dal canto suo li descrive con una serie di incisive metafore paragonandoli a due colombe che volano insieme desiderando il loro nido, un’immagine che ben introduce l’atmosfera sentimentale che farà da sfondo alla narrazione. Per tutto il tempo sarà solo Francesca a parlare e non si riferirà mai a Paolo chiamandolo per nome. Dal canto suo Paolo resterà in disparte piangendo, afflitto dal ricordo dei peccati commessi. Per prima cosa Francesca, facendo appello alla cortesia di Dante, comincia a raccontare partendo dalla sua tragica morte, senza accennare a nessun peccato ancora. Ella vorrebbe pregare per la pace di Dante che ha avuto pietà per loro, una pietà che a Dante deriva dalla consapevolezza che il male è insito in ogni uomo, ma non stravolge, non abolisce la personalità di un individuo. Francesca è sì, peccatrice ma resta comunque una nobildonna dalle gentili maniere.

Il sentimento di pietà nella COMMEDIA svolge un’importante funzione educativa. Dante si lascia coinvolgere emotivamente dalle situazioni che incontra e in questo modo comprende come tutti quei peccati avrebbero potuto essere anche suoi e quanto fragile e pericoloso sia l’itinerario dell’uomo verso la salvezza. La pietà è una componente fondamentale del processo di purificazione e di catarsi interiore. Boccaccio una volta ha detto che il sentimento di pietà nasce dalla constatazione che la fragilità di Francesca è la fragilità di tutti. In questo senso pietà significa compartecipazione, vivere le emozioni degli altri come proprie, percepire esperienze raccontate come vissute, in questo caso il racconto di Francesca che prosegue con la rievocazione nostalgica dei luoghi natali.

La storia di Paolo e Francesca si rifà ad un autentico fatto di cronaca che ha avuto luogo nel 1293 quando Dante aveva vent’anni. In qualche modo Dante ne venne a conoscenza e ne rimase colpito tanto da costruirci attorno quello che, come già accennato, è considerato forse il più bel canto del poema. Questa cronaca ha per protagoniste quelle che sono tra le due più rinomate e potenti famiglie della Romagna di quell’epoca: i Lapolenta di Ravenna e i Malatesta di Rimini. Dopo una serie di vicende caratterizzate da scontri esterni e instabilità politiche interne, queste due famiglie decisero di allearsi unendo in matrimonio una figlia dei Lapolenta, Francesca, con il maggiore dei figli dei Malatesta, Gianciotto, zoppo e rozzo. Per guadagnare l’approvazione della giovane a quel matrimonio, la tradizione, che risale a Giovanni Boccaccio, dice che sia avvenuto per procura dove procuratore fu il più giovane e aitante fratello di Gianciotto, Paolo, del quale Francesca si invaghì a causa di un malinteso, avendolo creduto, in un primo momento, il vero sposo, pur sapendo benissimo che Paolo era gia sposato. Al quadro narrativo tradizionale si aggiungono le figure del brutto e crudele Gianciotto e del maligno servo che spiava i due amanti (un ulteriore aggiunta romantica non citata da Dante) e poi il tragico e noto finale del duplice omicidio dei due amanti da parte del marito e fratello tradito.

Francesca racconta tutto questo a cospetto di Dante e poi pone l’accento sul sentimento che l’ha portata a peccare. Nel poema questo punto è reso con tre famose terzine di grande bellezza caratterizzate da un’anafora, l’esser tutte e tre introdotte dalla parola amor, cioè l’amore che ha legato i due giovani che, seppur sbagliato, fu comunque tanto grande. L’amore che può attecchire solo in un cuore gentile, sensibile (un concetto tipico dello stilnovismo) e che in Paolo fu ispirato dalla bellezza fisica di Francesca ed è proprio qui che sta la chiave del peccato, il fatto di aver dato maggiore accento alla sfumatura più prettamente carnale dell’amore, avere in primo luogo desiderato il corpo della persona amata più che la persona nella sua interezza, nel suo insieme, un sentimento del quale Francesca si dichiarerà a Dante profondamente offesa anche per come poi sono andate le cose, un sentimento dal quale tuttavia Francesca non ha saputo fuggire, un amore che, nonostante sia stato soprattutto carnale, chiedeva a tutti i costi di essere corrisposto (questo concetto viene invece preso dalla mistica religiosa dell’epoca e in particolare da un’esponente di spicco Santa Caterina di Siena la quale disse una volta che l’anima è portata naturalmente ad amare un’altra anima da cui si sente naturalmente amata, un sentimento religioso prima che umano) un sentimento che impedisce all’altro di non riamare e che dunque si impossessa di Francesca a sua volta attratta dalla bellezza e dalla passione. Questo dunque è stato il peccato che ha unito i due giovani e che continua ad unirli nella morte e che le tre terzine, che si aprono con la stessa parola e che chiudono con lo stesso verbo, sanno raccontare efficacemente, in una perfetta rappresentazione della concezione mistica e stilnovistica dell’amore secondo cui esso risponde a leggi inoppugnabili e indiscutibili, come se fossero leggi fisiche o meccanismi automatici dai quali è impossibile sottrarsi. Un meccanismo che separa la colpa da chi l’ha commessa perché non poteva agire in altro modo, un meccanismo recuperato dagli enunciati dell’ARS AMANDI un testo latino cui si rifanno gli scrittori dell’epoca di Dante. Un meccanismo che Dante dunque ben conosce e da cui mai prescinde mentre ascolta il racconto di Francesca e la sua fragilità (che la porta anche a nutrire sentimenti di odio verso Gianciotto da lei atteso in quello stesso Inferno nel girone dei traditori dei propri congiunti) interrogandosi su come sia potuto accadere che i due siano passati dall’innamoramento alla colpevole consumazione. Francesca risponderà a questo interrogativo di Dante e la sua risposta sarà assurta da quest’ultimo a monito. Francesca racconta come tutto nacque da un libro che ella leggeva insieme con Paolo, un libro che narrava la storia di un altro amore colpevole: quello tra Lancillotto, cavaliere della Tavola Rotonda e Ginevra, la moglie di Re Artù, un libro facente parte del ciclo dei romanzi cortesi. Durante la lettura a Paolo e Francesca capitava di guardarsi spesso negli occhi e provarne imbarazzo (gli occhi fanno parte della simbologia stilnovista considerati il mezzo attraverso cui l’amore colpisce al cuore) perché in qualche modo era come se con gli occhi gia si comunicassero la loro passione, finchè ad un certo punto Lancillotto e Ginevra nel libro si scambiano un bacio cosa che porterà Paolo e Francesca ad imitarli. È a questo punto che nel poema si legge la famosa frase galeotto fu il libro e chi lo scrisse (Galeotto era il servo di Ginevra che fece da intermediario nella sua relazione con Lancillotto). Paolo e Francesca sono caduti nella trappola dell’amor cortese e sensuale, non hanno saputo resistere al contagio del romanzo che stavano leggendo hanno scambiato, come sempre più spesso accade ai giorni nostri, la finzione con la vita reale. Ad un certo punto Dante comprende che egli stesso è andato molto vicino dal commettere questo stesso peccato quando si è innamorato di Beatrice. Anche Dante ha provato desiderio che avrebbe voluto consumare. Dall’amor cortese però Dante è riuscito a virare all’amore virtù che non produce peccato ne in cielo ne in terra. Nonostante ciò lo sgomento causato da questa storia e da questi suoi pensieri lo fanno svenire.

Fino all’ Ottocento, cioè l’epoca romantica, la critica tendeva a fare di Francesca un’eroina tragica di una storia d’amore, divinizzandola quasi. Ma ella è ben lungi dall’essere divina, è una donna terrena che con le sue passioni rappresenta l’essere umano colpevole e debole. Oggi si tende ad assimilare Francesca ad una dama di corte inquieta e insoddisfatta, ma raffinata che trova una giustificazione della sua colpa, del suo essere stata travolta dalla passione senza avere nessuna difesa. Per Dante che raccoglie questa testimonianza conta soprattutto la sua componente amorosa. Per Dante Francesca rappresenta solo una tappa spirituale che dovrà condurlo alla visione di Dio.

Canto XXXIII Inferno: il conte Ugolino

Immagine

Questo canto è ambientato nel nono girone infernale dove si trovano i traditori degli ospiti. Qui Dante incontra il conte Ugolino, un personaggio tra i più in vista della politica toscana del quale Dante in gioventù ha udito parlare. Quando Dante lo incontra all’inferno egli è intento  a consumare il fiero pasto cioè a mangiare con molta soddisfazione un cranio umano. Questa scena si ricollega a quella che chiude il canto XXXII e che vede come protagonisti due figuri dei quali uno è immerso nel ghiaccio mentre l’altro sta sulle spalle del primo e lo divora. Dante, come ha fatto con tutte le anime incontrate fino a questo momento, cerca di parlare con il conte Ugolino, gli chiede di raccontargli la sua storia promettendo che ne farà una testimonianza per i vivi. Così dicendo cattura l’attenzione del conte Ugolino il quale smette di mangiare, si pulisce la bocca coi capelli di colui che sta mangiando (l’arcivescovo Ruggeri di Pisa) e solleva il capo. Dapprima chiede a Dante se è davvero sicuro di voler sentire la sua storia e se davvero la diffonderà consegnandola all’eternità. Se così farà allora Ugolino gli racconterà la storia seppur tra le lacrime perché ancora intenso è il dolore causato dagli accadimenti. Ugolino è una delle poche anime che non mostra interesse per Dante, che non gli chiede chi egli sia o che cosa ci faccia li a girovagare per l’oltretomba nonostante sia ancora vivo. Intuisce solo che Dante è fiorentino è gli dice che in virtù di questo dovrebbe gia conoscere la sua storia almeno in parte.

Come molte vicende presenti nel poema anche quella del conte Ugolino deriva da fatti reali. Ugolino nacque a Pisa da una famiglia di origine longobarda, i Della Gherardesca, che, grazie a conoscenze e speciali connessioni con la casata degli Hohenstaufen,  aveva possedimenti e titoli in quelle regioni, allora territorio della Repubblica di Pisa. Ugolino difende dapprima la posizione dei ghibellini in Italia per poi passare alla fazione guelfa dopo una serie di frequentazioni e un’amicizia profonda col ramo pisano dei Visconti (darà addirittura una sua figlia in sposa a Giovanni Visconti proprio in virtù di questa amicizia). Ugolino fu nominato dapprima podestà e poi capitano del popolo. Egli ricopriva questa carica in un momento difficilissimo per la Repubblica. Approfittando infatti della semi distruzione della flotta pisana Firenze e Lucca, tradizionalmente guelfe, attaccarono la città. Ugolino prese per prima cosa contatti con Firenze che pacificò corrompendo, per mezzo delle sue cospicue amicizie, le più alte cariche della città. In qualità di uomo più influente di Pisa prese poi contatto con i Lucchesi che desideravano la cessione dei castelli di Asciano, Vali, Ripafratta e Viareggio. Pur sapendo che per Pisa si sarebbe trattato di una concessione troppo ampia, essendo queste piazzeforti fondamentali per il sistema difensivo cittadino, egli accettò. In definitiva nel corso di queste trattative Ugolino riuscì ad accontentare tutti meno che Pisa e i Pisani. I ghibellini cominciarono a guardarlo come un traditore in battaglia come in politica, mentre i guelfi lo consideravano ambiguo, privo di una vera affidabilità per via delle sue origini ghibelline e della concessione facile ai nemici, nonché troppo avido di ricchezza e potere per costituire una guida sicura per la città. Le tensioni che si crearono tra le grandi famiglie pisane causarono  una serie di rivolte e scontri nei quali le famiglie della maggioranza ghibellina appoggiata da Ruggeri degli Ubaldini si oppose alla minoranza guelfa appoggiata da Ugolino. Dopo un’accanita resistenza, sopraffatto coi suoi dai ghibellini Ugolino si chiuse verso mezzogiorno coi suoi familiari nel palazzo del comune e ci restò fino a sera uscendone solo quando venne appiccato fuoco all’edificio per poi essere rinchiuso coi figli nella torre della Muda, una torre adibita alla custodia dei falconi da caccia di proprietà della famiglia Guarandi alleata di Ruggeri e dunque, di conseguenza, nemica di Ugolino.

Una storia, quella di Ugolino caratterizzata da tradimenti, da fiducie tradite soprattutto. Ugolino aveva tradito i ghibellini ed è stato a sua volta tradito dall’arcivescovo Ruggeri di Pisa. È proprio così che si esprime Ugolino parlando con Dante fidandomi del vescovo ne venni tradito e sarà l’unico frangente in cui userà la parola “fidandomi”. Il vero racconto di Ugolino a Dante, il vero dramma che egli vuol confessare, ha a che fare con ciò che accadde dopo che egli si ritrovò rinchiuso nella torre. Nella sua prigione per molti mesi gli era rimasta come unico contatto col mondo esterno una piccolissima feritoia. Una notte fece un sogno terribile in cui vide l’arcivescovo Ruggeri dirigere una partita di caccia contro un lupo e i suoi piccoli, un sogno che egli presenta a Dante come profetico in relazione agli avvenimenti che sarebbero accaduti in seguito. Nel sogno comparivano anche delle cagne magre e i membri delle famiglie alleate di Ruggeri (non solo i Guarandi, proprietari della torre-prigione, ma anche i Colafranchi e i Cosismondi). Ad un certo punto le cagne magre stanno per assalire il lupo e i suoi piccoli ed è a quel punto che Ugolino si sveglia sentendo i suoi figli lamentarsi nel sonno per la fame. Essi sognavano di mangiare e si rivelerà anche questo un sogno anticipatore di cio che poi sarebbe accaduto. Una situazione per la quale non si può fare a meno di piangere, una situazione drammatica sulla quale egli cerca di attirare l’attenzione di Dante il quale, da par suo, ascolta attentamente e tace. Dopo il padre si svegliano i figli e tutti attendono il cibo che viene portato loro ogni giorno. In virtù dei loro inquietanti sogni cominciano a sospettare che il cibo non arriverà. Proprio nel momento in cui dovrebbe essere portato il cibo si sente chiudere l’uscio di sotto, l’ingresso della torre. I figli cominciano a piangere, Ugolino rimane impietrito, sul suo volto si dipinge un’espressione che non sfugge al più piccolo dei suoi figli, i quali sono sempre più provati dalla fame. Vedendo questo e sempre più attanagliato dalla disperazione Ugolino si morde le mani. I figli credono che questo gesto del padre sia dettato dalla fame così si offrono in sacrificio chiedendo di essere mangiati da lui. Poiché il loro padre ha fatto loro dono del corpo egli può ora riprenderselo in questo momento di necessità. Un sacrificio, quello dei figli di Ugolino, che tutti i critici di Dante hanno paragonato a quello di Cristo verso Dio, il sacrificio estremo della croce. Un sacrificio che Ugolino si rifiuta naturalmente di accettare mettendo in atto, a partire da questo momento, la strategia del silenzio; padre e figli non si parleranno più ognuno se ne starà solo col proprio dolore piangendo in silenzio così come silenzioso fu il pianto di Cristo sulla croce. Tutto ciò va avanti per quattro giorni di totale digiuno finchè di nuovo i figli supplicano il padre di accettare il sacrificio che gli stanno offrendo così come ad un certo punto Cristo dalla croce si rivolse a Dio. Tra il quinto e il sesto giorno poi Ugolino vede morire tutti i suoi figli. Si fa largo la disperazione sulla quale però la fame prende il sopravvento. Nel poema questo momento è rappresentato da un verso sulla cui interpretazione non c’è accordo. Poscia più che il dolor poté il digiuno. Secondo alcuni critici questa è la prova inconfutabile che alla fine Ugolino ha commesso cannibalismo sui corpi dei figli tanto più che il canto che introduce Ugolino nella commedia si apre proprio con una scena di cannibalismo. Ugolino all’Inferno divora il teschio dell’arcivescovo Ruggeri a eterna memoria degli atti compiuti in vita. Secondo altre interpretazioni invece Ugolino non mangiò i figli perché questo atto poco si confà con la sua natura di padre amorevole che sarebbe morto lui stesso per i suoi figli e che dunque di fronte alla loro morte semplicemente si lascia morire anch’esso di dolore. Le più moderne interpretazioni si limitano a porre l’accento più sul dolore che pregna l’intera vicenda che sull’atto in se. Ugolino una volta terminato il suo racconto riprende a mangiare il cranio ormai ridotto all’osso mentre Dante di lascia invadere dalla commozione per ciò che ha appena sentito e si lancia in un’invettiva contro la città di Pisa augurandosi che essa venga sommersa dall’Arno insieme con tutti i suoi abitanti considerandola, in virtù della vicenda del conte Ugolino, la vergogna del Bel Paese dove il si suona (intendendo onorare con questo verso e col riferimento al si, la musicalità di quella che sarebbe presto diventata la lingua italiana originariamente chiamata anche lingua del si) e questo perché, insieme ad Ugolino sono stati puniti anche i suoi figli innocenti e tutti in giovane età. Pisa viene paragonata ad una novella Tebe, una città sulla quale, secondo la mitologia classica, si abbatté una moltitudine di sventure (secondo alcuni invece questo paragone farebbe riferimento a presunte lontane origini tebane di Pisa).

Dante riporta la cronaca storica originale del conte Ugolino con alcune modifiche. Egli scrive ad esempio che Ugolino si ritrovò chiuso nella torre con quattro figli in età molto giovane mentre in realtà si trattava di due figli e due nipoti dei quali solo il minore era quasi un bambino. Inoltre per quanto riguarda i castelli pisani essi furono ceduti per tentare di spezzare l’alleanza anti pisana tra le città di Firenze e Lucca e non venne inteso mai da Ugolino come un gesto di tradimento. Le modifiche che Dante compie trasponendo la cronaca nel canto, hanno lo scopo di creare un maggiore pathos di sottolineare il dramma ed evidenziare la crudeltà dei pisani. Dante vuole si presentare Ugolino con tutte le sue colpe di politico sporco e fraudolento, ma vuole anche ritagliargli uno spazio di umanità genuina nel suo ruolo di padre devoto verso i figli. Dante vuole dipingere una tragedia di cui comunque Ugolino è corresponsabile avendo contribuito con le sue azioni alla decadenza di Pisa.

I personaggi di Dante rappresentano sempre degli esempi, una sorta di figure attraverso le quali Dante vuole trasmettere un messaggio di fiducia e speranza. Nel caso di questo canto, Dante vuole rappresentare la tragedia in agguato quando sono in atto odi civili, scontri politici e gesti scellerati. Emerge l’orrore di Dante verso la lotta politica peraltro a lui contemporanea e il rifiuto del coinvolgimento dei figli nelle questioni dei padri, anche se la legge della sua epoca andava in senso contrario contemplando la corresponsabilità familiare. Una legge che Dante ha sperimentato di persona durante il periodo dell’esilio quando ha dovuto provvedere a spostare dalla città di Firenze anche la sua famiglia, un aspetto della sua vita che lo fa sentire particolarmente partecipe alla vicenda del conte Ugolino del quale chiude il corrispondente canto con due possibili finali che raccontano due diversi dolori e così facendo lo consegna all’eternità.

Canto XXXIII Paradiso: la preghiera di San Bernardo alla Vergine Maria

Immagine

Foto: Philipp Veit (1793-1887), San Bernardo di Chiaravalle

Con un volo pindarico si passa dal canto XXXIII dell’Inferno al XXXIII del Purgatorio dopo che Dante ne ha viste di tutti i colori, ha incontrato molti altri personaggi e situazioni.

Immagine

Dante e Virgilio

A Virgilio come guida è subentrata Beatrice sulla sommità del Purgatorio dove si trova il Paradiso terrestre (quello da cui furono cacciati Adamo ed Eva tanto per intenderci ndr) e da li Beatrice lo accompagnerà per il resto del tragitto fino all’Empireo.

Immagine

Dante e Beatrice

Questo è uno degli ultimi cerchi del Paradiso dove Dante si trova sempre più vicino alla visione di Dio, affidandosi, per questa sua esperienza umanamente impossibile, alla guida di San Bernardo che fu, in vita, un grande teologo mariano e che qui per aiutare Dante si rivolge alla Vergine con una preghiera ricca di contrapposizioni e aggettivi che mettono in evidenza il paradosso della grande potenza e magnanimità di Dio.Contraddizioni come quelle che riguardano ad esempio proprio Maria, vergine e madre, figlia del suo figlio contrarie ad ogni logica umana che solo l’onnipotenza divina rendono possibili, come viene riportato anche nel MAGNIFICAT dove si assiste ad un totale rovesciamento di ogni regola dell’uomo: si rovesciano i potenti si innalzano gli umili si colmano di beni gli affamati. Come il MAGNIFICAT, anche questa preghiera di San Bernardo alla Vergine inserita da Dante nel poema è costruita sul ribaltamento di ogni parametro umano, ma anche sull’amore di Dio per l’uomo e sulla carità della Vergine Maria, tra cielo e terra una fonte autentica di amore, speranza, di tutto ciò che è bontà, il nome con cui si appellano le grandi signore e dame, attributo di nobiltà, vergine dispensatrice di grazia che anticipa sempre ogni richiesta degli uomini, colei che reca in sé misericordia, pietà e magnificenza, l’esempio più grande di amore. In virtù di tutto ciò questo canto è considerato un vero e proprio canto di lode che si trasfigura in un Dante lirico per eccellenza nel momento della visione di Dio. Il tempo delle spiegazioni e delle narrazioni è terminato, Dante sta per giungere al vero e proprio incontro con Dio, scopo ultimo del suo viaggio, riassunto negli ultimi quattro versi che chiudono il poema ed esprimono il suo desiderio di conoscenza e la volontà di comprendere. Due aspetti, conoscenza e volontà, che lo hanno portato a compiere questo lungo viaggio, sostenendolo nel corso delle peregrinazioni e che ora si trovano fusi in totale armonia come i raggi di una ruota che gira, un’armonia che da senso ed energia infinita all’uomo e al suo esistere, alla Storia, al Cosmo, alla Natura, all’Universo, un’armonia il cui motore è l’amore, motore di tutto ciò che esiste e che accade dal minimale al massimale, forza travolgente, il sunto di tutto il cristianesimo (come ben ha espresso il Papa emerito Ratzinger con la sua espressione deus Caritas est cioè Dio è amore), l’amore che dunque da senso al Mondo, l’amor che move il sole e le altre stelle, verso che conclude il poema sull’orlo di una pagina bianca che sta a significare l’impossibilità di una vera e propria manifestazione di Dio che rimane al di là dell’amore che Egli rappresenta, un amore insito in ognuno di noi, ciascuno nel proprio mistero, nel suo rapporto personale con Dio e l’Amore stesso. Una concezione che Dante esprime in modo sublime, lui che ha studiato a memoria Aristotele e San Tommaso nutrendosi di teologia e filosofia ad un livello talmente alto che facilmente potrebbe tener testa a molti intellettuali di oggi.

Immagine

Foto: La statua di Dante, posta al di fuori del Museo degli Ufizzi

Immagine

Foto: Domenico di Michelino, 1465,  “Dante e il suo poema”, affresco nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze

Per la prima volta il qualificatore “Divina”( riprendendo Boccaccio) è stato inserito al titolo “Commedia” in questa edizione del 1555, prodotta da una delle stampanti più illustre del periodo- quella di Gabriele Giolito de’ Ferrari.

Immagine

Foto: La Divina Commedia, L’inferno, Stampa del 1555, Venezia

Immagine

Foto: La Divina Commedia, Purgatorio,  Stampa del 1555, Venezia

Immagine

Foto: La Divina Commedia, Paradiso, Stampa del 1555, Venezia

Conclusioni

Siamo ora giunti (dopo anche i ringraziamenti di rito a tutti coloro che hanno reso possibile questo evento dai volontari della biblioteca, ai responsabili in comune, alle scuole medie e ai loro omologhi del comune di Ardenno) alla fine di questo viaggio. Un viaggio che, come già anticipato nell’introduzione, è un viaggio attraverso l’amore, attraverso le sue sfumature dalle più carnali alle più auliche, quel ’amore che come ha detto Lucica Bianchi introducendo la serata “si può considerare la forza che da sempre governa ogni aspetto della vita dell’uomo, ogni singola azione e ogni singolo pensiero, una forza che nella Divina Commedia è il movimento naturale verso la perfezione, una tensione spontanea dell’intero genere umano verso quel completamento che porta al raggiungimento dell’armonia e che nella persona di Dante si concretizza in una scalata verso Dio che è il senso stesso di tutto questo viaggio così come del viaggio della vita che si rispecchia in modo diverso in ciascuna delle anime con cui Dante si confronta”.  Un viaggio attraverso un grande capolavoro, forse il più grande della nostra letteratura e tra i maggiori di ogni tempo e Paese che è anche un viaggio attraverso la Storia, attraverso, come abbiamo potuto vedere, cronache reali coeve e precedenti a Dante che vengono da lui sapientemente amalgamate nei suoi inarrivabili versi e rese una sorta di paradigma dell’esistenza umana, delle umane debolezze, di quel cammino costantemente in bilico tra tensione verso il miglioramento e l’elevazione spirituale e la rovinosa caduta nel baratro di vizi e peccati. Un viaggio che non è soltanto la vicenda letteraria di un grande uomo e poeta, ma è un qualcosa che riguarda tutti noi. Un viaggio che in un certo senso attraversa l’intera storia umana a partire dal suo inizio fino al momento in cui giungerà alla fine.

Antonella Alemanni

IL TEMPIO DI ARTEMIDE

OGNI COSA FLUISCE E NULLA E’ ETERNO

                                                                     (Eraclito, 535 a.C.-475 a.C, filosofo greco antico, uno dei maggiori pensatori presocratici)

Immagine

Foto: Ricostruzione Tempio di Artemide

Il Tempio di Artemide (in greco antico Artemision, in latino Artemisium), era un tempio ionico dedicato alla dea Artemide, situato nella città di Efeso, nell’attuale Turchia.

Immagine

Foto: La posizione geografica della città di Efeso, luogo del tempio di Artemide

La collocazione del Tempio di Artemide fra le 7 meraviglie del mondo è dovuta alla stupenda architettura e alle dimensioni eccezionali del suo complesso. L’edificio, denominato “D“dagli archeologi, fu costruito per l’ordine di Creso; di ciò abbiamo come testimonianze delle iscrizioni che sono state trovate sulle rovine del Tempio.

Ma cos’era il Tempio di Artemide? Era un’immensa struttura dedicata alla dea della caccia, della fertilità e della guerra, Artemide (chiamata Diana dai Romani). Era una dea vendicativa, molto bella ed assai forte, e si narra che, intorno al 550 a.C., sotto la dinastia achemenide dell’Impero persiano, il Re Creso della Lidia (Asia Minore) per placare la sua furia  fece costruire un tempio a lei dedicato . Al suo interno venne posta la statua della dea, alta oltre 2 metri, realizzata in legno di vite e ricoperta di oro ed argento. Il tempio era in marmo, lungo 131 metri, largo 79,  con 120 colonne di marmo bianco alte 20 metri, in stile ionico, con decorazioni di animali reali e mitologici come cervi, grifoni e sfingi. Nel 356 a.C. il tempio venne distrutto da un incendio doloso. Ad appiccarlo fu Erostrato, un pastore che gli diede fuoco solo per diventare famoso e passare alla storia. Secondo la leggenda, nella notte dell’incendio la dea Artemide non poté proteggere il suo tempio in quanto era impegnata a sorvegliare la nascita di Alessandro Magno. Gli abitanti di Efeso ritrovarono poi la statua di Artemide quasi intatta sotto le rovine. Alcuni anni più tardi, visitando la città, Alessandro Magno decise di ricostruire il tempio nello stesso luogo di quello andato distrutto, un tempio ancora più grande e più bello grazie al progetto dell’architetto Chersifrone di Efeso.

Immagine

Foto: Ricostruzione del Tempio di Artemide

Ma la malasorte non era ancora finita: nel 262 d.C., il tempio venne nuovamente distrutto e saccheggiato dai Goti, sotto l’imperatore Gallieno.

Nel 401 per ordine dell’arcivescovo di Costantinopoli, Giovanni Crisostomo, il tempio di Artemide fu completamente raso al suolo.

Immagine

Foto: Le rovine del Tempio di Artemide ad Efeso

Immagine

Foto: Le rovine della città di Efeso

Immagine

Foto: Le rovine della città di Efeso

Immagine

Foto: Facciata della Biblioteca di Celso a Efeso, Turchia

Immagine

 Foto: Arcivescovo Giovanni Crisostomo, (344/354  Antiochia-407 Comana,Pontica), bassorilievo bizantino del XI secolo, Museo Louvre di Parigi

La dea Artemide nell’arte

Immagine

Foto: Antica rappresentazione della dea Artemide come dea della fertilità

La molteplicità dei culti e degli attributi divini della dea si riflette nella sua iconografia. Nel periodo orientalizzante e arcaico l’arte ne dette varie figurazioni sia come signora delle belve, spesso alata, circondata da animali e mostri, sia come dea della fecondità, rappresentata con molte mammelle. Fra queste forme arcaiche si affermò e predominò quella della vergine dea cacciatrice, effigiata con una corta tunica e alti calzari, caratterizzata dal cervo e dal cane che la affiancano, dall’arco che ha in mano e dalla faretra sul dorso. Nelle scene mitiche spesso va a caccia con le ninfe o si bagna nelle acque dei fiumi e dei laghi.

Immagine

Foto: La Diana di Versailles, copia Romana di una statua di Leocare, Museo Louvre, Parigi

Immagine

 Foto:  Una classica rappresentazione della dea Artemide, la vendicativa cacciatrice, pronta a scoccare le proprie frecce contro chiunque le manchi di rispetto.

La Fondazione “Artemis Culture, Arts and Education Foundation” di Selcuk (Turchia), sta promuovendo un ambizioso progetto per la ricostruzione dell’edificio, al quale parteciperà in prima linea Atilay Ileri, l’ideatore della Fondazione, il quale insieme a ricercatori austriaci e svizzeri sta studiando da 10 anni questo progetto. Lui afferma:” Quando il tempio sarà ricostruito non sarà una copia o un’imitazione del tempio di Artemide originale, ma sarà il Tempio stesso” Né è molto soddisfato l’archeologo italiano Luciano Canfora, intervistato da Cristina Nadotti per il quotidiano “La Repubblica”(che aveva dedicato un articolo all’argomento venerdì 14 novembre 2008). Secondo lui, considerato che finora il governo turco non aveva mai mostrato particolare interesse per il recupero di quest’opera, probabilmente ora, questo nuovo progetto potrebbe dare lustro e visibilità alla cultura greca in terra asiatica. E, direi, all’arte in generale.

                                                                                               Lucica Bianchi

“C” COME CURIOSITA’

Immagine

L’aspetto più curioso della parola “curiosità” è il fatto che essa derivi dal latino cura, intesa come premura, sollecitudine. Il curioso è innanzitutto chi si cura di qualcosa; solo dopo questa definizione di base, il significato si spinge a “chi vuol sapere”, “indagare”, “conoscere”, curiosità dunque, è la qualità di chi o di ciò che è curioso.

“C” come curiosità! Un’emozione profonda che, secondo gli psicologi è un elemento importante per la nostra vita.

Ne è convinto Paul Silvia, docente di psicologia alla University of North Carolina a Greensboro (Stati Uniti), secondo il quale ” la curiosità è fondamentale per la specie umana perché motiva la gente a imparare.” Il bello, spiega Silvia, “sta nella gratuità di questo sentimento; al giorno d’oggi, le persone desiderano accrescere le loro conoscenze anche senza un movente specifico. Non lo fanno per soldi, per superare un esame o per salvarsi la vita: lo fanno semplicemente per il gusto di sapere e l’interesse verso il mondo”

CURIOSITA’ DA RACCONTARE AGLI AMICI

Lo sapevate che le lontre quando si addormentano in acqua si tengono per mano per non perdersi?

Immagine

Proprio così: la maggior parte delle volte queste galleggiano in gruppo, sia mentre mangiano che mentre riposano o dormono, e così si tengono per mano per restare insieme!

Lo sapevate che i doppiatori di Topolino e Minnie sono realmente sposati?

Immagine

Lui è nato nel 1947, lei nel 1944: rispettivamente si chiamano Wayne Allwine e Russi Taylor. Si sono incontrati nel 1988 e si sono sposati nel 1997. Purtroppo, Wayne è morto nel 2009 a causa di complicazione di un diabete.

Lo sapevate che, Eugene Cernan l’ultimo uomo ad aver messo il piede sulla Luna, ha inciso sulla superficie del nostro satellite naturale le iniziali di sua moglie?

Immagine

Glielo aveva promesso, e alla fine Eugene “Gene” Cernan, l’ha fatto davvero: ha inciso le iniziali di sua moglie, TDC, sulla Luna, e molto probabilmente vi resteranno per migliaia di anni. Cernan è l’11esimo ad aver messo piede sul nostro satellite, nonché l’ultimo fino ad oggi.

Lo sapevate che un abbraccio al giorno migliora la nostra salute?

Immagine

Quando ci si abbraccia, il nostro corpo rilascia una sostanza chiamata “ossitocina”, capace di guarire le ferite fisiche! Oltre ad aumentare il senso di benessere, e un vero e proprio toccasana contro lo stress, e come se non bastasse, l’ossitocina è in grado di rafforzare il sistema immunitario. Lo studio è stato condotto da due svedesi e pubblicato sulla rivista scientifica Comprehensive Psichology.

Lo sapevate che i Beatles hanno usato la parola “Amore” 613 volte nelle loro canzoni?

Immagine

Sembra impossibile contarlo, invece secondo quanto riportato da una recente analisi, ne hanno fatto uso oltre 600 volte nella loro carriera musicale!

                                                                                                                                  Lucica Bianchi