Loredana Fabbri

<<Amor che ne la mente mi ragiona / cominciò elli
allor sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona>>.
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, II, vv. 112-113)
<<”Né creator né creatura mai”,
cominciò el, “figliuol, fu sanza amore,
o naturale o d’animo; e tu ‘l sai”>>.
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, XVII, vv. 91-93)
PREMESSA
Questo lavoro nasce in seguito ai miei due precedenti sulla “Divina Commedia”, in occasione del Settecentenario dalla morte di Dante Alighieri: “Diavoli e Demoni nell’Inferno dantesco” e “Politica e Filosofia nel Paradiso dantesco”. Ho pensato che il mio lavoro non fosse completo, perché mancante di un articolo relativo alla seconda Cantica, quindi ho cercato di scrivere un argomento sul Purgatorio e quale tematica se non l’Amore? Quell’amore che in tutta la “Commedia” ha un posto di primaria importanza, quell’amore che Dante ci propone in tutte le sue manifestazioni e che è stato il propulsore di tutte le sue opere ma soprattutto della sua “Commedia”, quell’amore poliedrico che ha condizionato tutta la vita del sommo Poeta.

È l’amore che spinge Dante ad intraprendere il suo grandioso viaggio che dall’Inferno lo porterà alla visione di Dio in Paradiso. Tutta la “Divina Commedia” è permeata dall’amore, un amore che dal basso si eleva verso l’alto, che inizia dai sensi e arriva allo spirito, un amore multiforme: terreno e divino, ardente e domestico, tormentato e dolce, peccaminoso e virtuoso, patriottico e talvolta sciovinista.
È l’amore che induce Beatrice a chiedere a Virgilio di soccorrere e guidare Dante nel suo viaggio ultraterreno: il poeta latino rivela all’Alighieri che mentre si trovava nel Limbo, luogo a lui destinato dalla Giustizia divina, Beatrice, mossa da amorosa preoccupazione, lo prega di aiutarlo, poiché il destino e la salvezza del Maestro fiorentino sono stati voluti dalla Vergine Maria e da Santa Lucia, le quali l’avevano convinta a soccorrere Dante che tanto l’aveva amata e che per questo amore si era elevato dalla mediocrità morale ed artistica.1
A cavallo tra il XIII e il XIV secolo, nella lirica d’arte italiana, si sviluppa un nuovo movimento, il cui iniziatore è il bolognese Guido Guinizzelli, seguito da Cino da Pistoia e da un gruppo di poeti fiorentini: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, Gianni Alfani e Dante Alighieri, quest’ultimo chiama “Dolce Stil Novo”, questa innovativa “Scuola”, che, secondo il Sommo poeta, consiste nel fatto che essi seguono l’ispirazione d’Amore e ciò che “ditta dentro”, non intendendo sostenere che la loro poesia fosse più immediata e più spontanea sentimentalmente, ma allude alla capacità di penetrare più a fondo l’essenza dell’esperienza amorosa, sia da un punto di vista psicologico sia da quello intellettuale e di saperlo esprimere poeticamente.
Dante ci fa capire molto bene questo concetto nel canto XXIV del Purgatorio, durante il suo colloquio con il rimatore lucchese Bonaggiunta Orbicciani:2<<Ma dì s’i veggio qui colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / “Donne ch’avete intelletto d’amore” / E io a lui: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a que modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”. / “O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo / che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!>>. Bonaggiunta ha riconosciuto Dante e sa che rappresenta un nuovo modo di poetare e il riferimento alla canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore”, come ad un testo che consapevolmente inizia un modo di nuove rime, una nuova coscienza poetica e un nuovo stile. La canzone è la prima de “La Vita Nuova” (XIX capitolo), in cui il Poeta fiorentino, loda la donna che da oggetto di semplice desiderio si trasforma in un potente strumento d’amore e di perfezione: l’amore si può esprimere anche attraverso la lode, creando corrispondenza basata sul comune sentire tra il rimatore e la donna, la quale diventa capace di produrre un effetto sull’uomo amato, ma anche in tutti quelli che, dotati di gentilezza d’animo, riescono a cogliere il messaggio d’amore emanato dalla donna, messaggio che dalla dimensione contingente arriva a quella metafisica.
Con la sua risposta al poeta lucchese, Dante afferma sia l’importanza dell’ispirazione poetica connessa ad una concezione d’amore trascendente, sia la ricerca di una forma idonea a riprodurre l’ispirazione interiore. Dopo le parole di Dante, Bonaggiunta comprende chiaramente il carattere della nuova poetica, che gli si rivela come una verità religiosa: ora che si trova nel Purgatorio, libero da orgoglio e polemiche terrene e più degno a giudicare secondo il vero, si rende conto dell’importanza di quella poesia che celebra l’Amore inteso come rinnovamento interiore e fondamento di moralità, cogliendo l’ostacolo che ha impedito a lui e agli altri due rimatori (Jacopo da Lentini e Guittone d’Arezzo) di accedere alla poetica del “Dolce Stil Novo”.3
La poesia dello “Stil Novo” rispecchia la Firenze della seconda metà del XIII secolo, dove l’aristocrazia di sangue cede il passo a quella del denaro, una libera repubblica, in cui predomina l’elemento borghese, anche se teoricamente soggetta all’autorità imperiale (non presente per la grande vacanza dell’Impero). Questo genere poetico, di cui Dante si farà maestro, sull’esempio del Guinizzelli, rispecchia un ambiente dove ormai il mito del blasone è tramontato: il “cor gentil” dei rimatori non è tale per nobiltà di sangue, ma per virtù morali indipendenti dalla nascita, riprendendo i motivi della lirica “cortese”.
Il gruppo di poeti che aderisce al nuovo modo di fare poesia, accoglie il tema dell’esaltazione dell’amore come suprema forma di aristocrazia spirituale ed anche la rappresentazione della donna come figura angelica, ispiratrice di un amore che innanzitutto è elevazione morale è tipica degli ultimi provenzali. Si tratta di un gruppo di intellettuali che non coincide più con una corte, come la “Scuola siciliana”, ma vive nella realtà cittadina e fonda il sentimento della propria aristocrazia sulla cultura, che è conquista individuale. Gli stilnovisti vogliono descrivere l’origine e la natura dell’amore, <<cogliendole nel loro fondamentale aspetto psicologico, astraendo dalle manifestazioni contingenti. Gioia e tormento amoroso, contemplazione entusiastica della bellezza e passione conturbante sono ricondotti a quel complesso di rappresentazioni mentali che generano il sentimento. L’analisi coinvolge però tutta la vita della coscienza, perché allora la psicologia non era, come oggi, una scienza sperimentale, ma la dottrina filosofica dell’anima>>.4
Nei poeti stilnovisti si percepisce l’influenza del nuovo aristotelismo e delle correnti mistiche, convergenti nella filosofia di San Bonaventura, ossia della ricerca filosofica del tempo, in cui ha particolare importanza, ai fini dello stilnovismo, quella che fu detta “metafisica della luce”, secondo cui <<la luce è il principio dell’essere, della vita, lo splendore, in tutto il creato, della suprema mente creatrice, riflessa dalle Intelligenze angeliche motrici dei cieli e delle creature umane più elevate, che diventano un vivente incentivo a una partecipazione più piena dell’essere e alla verità>>.5
La bellezza femminile, che viene espressa con metafore di luce e di splendore, è la manifestazione della perfezione dell’essere cui aspira l’anima: la bellezza come rivelazione del bene, l’amore come esaltazione dell’intima nobiltà dello spirito, ma anche tensione spesso tormentosa; il linguaggio ricercato e “dolce”, adeguato ad esprimere la delicatezza dell’amore e le immateriali sottigliezze delle vicissitudini interiori, questo continuo richiamo all’interiorità appariva allora la forma poetica più elevata e destinata ad un pubblico eletto, infatti il “Dolce stil Novo” rimase, volutamente, un’esperienza aristocratica e selettiva nei confronti del pubblico.6
Così si esprime Aurelio Roncaglia: <<La stessa intensificazione dell’elemento visivo, luminoso, così caratteristica degli stilnovisti, con quelle loro donne che fanno “tremar di claritate l’aere”, nasce non da una casuale propensione della sensibilità, ma da presupposti concettuali, filosofici. Dietro le immagini luminose […] c’è l’estetica metafisica della luce, che si annette alla poesia della donna-angelo, così come s’era sposata nella speculazione filosofica al tema dionisiaco dell’illuminazione gerarchica delle intelligenze angeliche. Dio è luce, e quanto più si avvicinano a lui, tanto più le creature sono luminose, come dice San Bonaventura. Attraverso lo splendore della loro luce le creature superiori agiscono sulle inferiori. La contemplazione della luce divina è nelle intelligenze angeliche il principio motore dei cieli>>.7
Dante crede che la protezione della donna sia prodigiosa per l’uomo, infatti il suo viaggio ultramondano ha luogo perché tre “Donne Benedette”, come già accennato prima, l’aiutano quando il Poeta preso dalla paura vuole rinunciare a tale impresa ed incontra Virgilio che gli svela da chi è mandato per aiutarlo e guidarlo: la prima è la Madonna, che però non viene nominata dall’antico Poeta, come anche il nome di Cristo, poiché questi nomi sarebbero contaminati se pronunciati nel regno infernale, ossia del peccato, infatti il Maestro fiorentino usa la locuzione “Donna gentil”, che, essendosi impietosita di lui, lo affida a Santa Lucia, protettrice della vista e che, appunto, lo illuminerà; a sua volta Lucia farà intervenire Beatrice per convincere Virgilio di fare da guida a Dante: <<Il colloquio fra il poeta pagano relegato nel Limbo e la donna di virtù scesa dal cielo è da romanzo cavalleresco. Beatrice supplica con gli occhi lucenti di lacrime, di cui, ancorché santa, sa fare buon uso. Virgilio, ottimo cavaliere, promette di fare quello che lei vorrà>>.8 Ma, prima di arrivare in cima al Purgatorio, Dante incontrerà altre donne benedette, la prima sarà Matelda, poi nel corso della mistica processione incedono tre donne vestite di bianco, di rosso, di verde, seguite da altre quattro vestite di poropora, simboleggiante le virtù teologali e quelle cardinali, infine <<Beatrice in una corona di gentili donne, come a Firenze e nella Vita Nova. Canti, danze, lancio di fiori preparano il suo ingresso in un’atmosfera nunziale, che l’inno Veni sponsa de Libano musicalmente accompagna>>.9
Nel XVII canto del Purgatorio, Dante si fa spiegare da Virgilio l’ordinamento morale di questa seconda cantica, l’antico poeta comincia una lunga digressione sulla teoria dell’amore, causa di bene e di male: sta scendendo la sera e Dante si rende conto che non può più proseguire il cammino, perché sente che la forza nelle gambe sta diminuendo, Virgilio, approfittando della sosta, gli spiega quale peccato si espia in quel luogo e le regole che costituiscono l’ordinamento morale del Purgatorio, cominciando con una lunga digressione sulla teoria dell’amore, principio di ogni virtù e di ogni vizio. Se nel canto precedente (XVI) il tema centrale è quello della necessità e del valore della legge e dello Stato che deve esserne il portatore e il difensore; nel canto XVII troviamo la teoria dell’amore solennemente formulata da Virgilio, il quale dice che all’origine della vita c’è l’amore, Dio è amore ed ama tutte le cose.
Ci sono due tipi di amore, uno innato e uno volontario, elettivo, in cui intervengono ragione e volontà e Dante conosceva molto bene la dottrina aristotelica e tomistica riguardante tali distinzioni. L’amore naturale è quello che il Creatore ha infuso in ognuno di noi e tende al proprio fine, cioè amare Dio, questo amore non può mai errare perché parte della creazione.10
L’amore elettivo o volontario è stato dato a tutti coloro dotati di libero arbitrio (uomini e angeli), in quanto comporta una scelta dell’intelletto e una libera decisione della volontà, è l’amore che tende verso qualcosa, che ha la possibilità di scelta e di commettere il peccato quando si rivolge al male, ossia tende ai beni terreni con molta più cura di quanto dovrebbe o al sommo bene con minor cura del giusto. In altre parole: l’amore che è in ogni creatura si distingue in amore naturale e amore d’elezione, il primo è istintivo e non può sbagliare; il secondo invece, nel quale agiscono l’intelligenza e la volontà di colui che agisce, può errare in tre modi immorali, il primo è “per malo obietto”, ossia desidera il male del prossimo e di questo fanno parte la superbia, l’invidia e l’ira; il secondo “per poco di vigore”, consistente in scarso fervore, indolenza nell’amore del vero bene (Dio), l’accidia è il risultato di questo errore; il terzo “per troppo di vigore”, in quanto si tratta di un amore senza misura e ne fanno parte l’avarizia, la gola e la lussuria, che sarà punito negli ultimi tre gironi di questo regno, ma Virgilio lascia a Dante il compito di capirlo con le sue sole forze intellettuali, di come esso sia distinto in tre specie. 11
La prima forma dell’amore, cioè quella innata, non è oggetto della disquisizione del poeta latino, perché in quello la responsabilità è della natura e non dell’uomo, della natura che opera in conformità del volere e del disegno divino. L’amore dell’intelletto invece è consapevole, poiché è sostenuto dalla ragione e dal consenso del libero arbitrio: <<”Né creator né creatura mai”, / cominciò el, “figliuol, fu sanza amore, / o naturale o d’animo; e tu ‘l sai. / Lo naturale è sempre sanza errore, / ma l’altro puote errar per malo obietto / o per troppo o per poco di vigore. / Mentre ch’elli è nel primo ben diretto, / e ne’ secondi sé stesso misura, / esser non può cagion di mal diletto; / ma quando al mal si torce, o con più cura / o con men che non dee correr nel bene, / contra ‘l fattore adovra sua fattura. […] “L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona, / di sovr’a noi si piange per tre cerchi; / ma come tripartito si ragiona, / tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi”>>.12
La lunga spiegazione sull’origine e la natura di Amore continua anche nel canto successivo (XVIII) e sottolinea l’importanza che esso assume nella seconda cantica, Virgilio, esortato da Dante, chiarisce che l’animo umano, predisposto all’amore, si volge sempre verso qualsiasi oggetto piacevole: inizialmente le facoltà conoscitive captano l’immagine esterna della realtà, in seguito l’animo rielabora l’immagine e se ammirandola prova attrazione ha origine l’amore, che avvolge sempre più l’animo, che, soggiogato da Amore, è preso dal desiderio dell’oggetto amato e si protende verso esso fino a raggiungere la gioia dell’unione. Se la disposizione all’amore è buona, non sempre lo è l’oggetto dell’amore, ma l’uomo essendo dotato di ragione, che gli permette di distinguere il bene dal male, lo guida alla conquista delle virtù.
I filosofi riconobbero questa facoltà, quindi elaborarono e lasciarono in retaggio agli uomini una dottrina morale, e questa nobile virtù Beatrice la chiamerà libero arbitrio. <<Color che ragionado andaro al fondo, / s’accorser d’esta innata libertate; / però moralità lasciaro al mondo […] La nobile virtù Beatrice intende / per lo libero arbitrio, e però guarda / che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende>>.13 Beatrice vi accennerà, brevemente, come al dono più grande che Dio ha elargito agli angeli e agli uomini, nel V canto del Paradiso (vv. 19-24). Ma già nel XVI canto del Purgatorio, Dante si farà spiegare da Marco Lombardo, personaggio di cui mancano notizie precise, concetto di libero arbitrio, Marco parla con l’esperienza e la saggezza dell’uomo di corte, vissuto in tempi migliori; l’Alighieri affida a questo personaggio dignitoso e pensoso, virile e amaro, che commosso e nostalgico condanna il male presente, additandone le cause e ricordando l’età in cui i costumi erano improntati sul valore e la cortesia. In tutta la “Divina Commedia il tema del libero arbitrio, cioè della responsabilità e della libertà dell’agire umano, è ripetuto e ribadito con grande energia da Dante, il quale esalta gli uomini di forte volontà, disprezzando coloro che si rifugiano nell’inerzia comoda e vantaggiosa.
Per Dante, quindi, l’Amore è moto, è principio di vita, è forza fisica ed è energia spirituale, che investe tutto l’universo ed è anche l’origine di tutte le azioni divine e umane, cattive o buone e la disposizione morale del Purgatorio è regolata dal concetto di amore, fondamento di quel regno del perdono e della penitenza e fonte negli uomini di tutto il bene come di tutto il male, secondo la distinzione della filosofia scolastica.
Nella “Divina Commedia” la collocazione del Purgatorio è antitetica a quella dell’Inferno: l’Inferno è una cavità sotterranea mentre il Purgatorio è simile ad un’immensa montagna a forma di tronco di cono, nella cui sommità, pianeggiante, si trova il Paradiso terrestre, situata nell’emisfero opposto a quello di Gerusalemme, l’isola è circondata dall’Oceano, le cui acque coprono tutta la superficie dell’emisfero australe come vuole la dottrina antica. La spiaggia tra il mare e il monte non è molto vasta e i due poeti giungono in un punto dove attracca la navicella con le anime che devono espiare il loro peccato, provenienti dalla foce del Tevere, che simboleggia la salvezza, come l’Acheronte rappresenta la dannazione.14
Il cambiamento d’ambiente e d’atmosfera dall’Inferno al Purgatorio, serve a dare l’idea del mutato clima spirituale: alle tenebre del doloroso regno si contrappone la cristallina purezza di un’alba sul mare; al fetore dell’aria infernale la fragranza della salsedine e dell’erba bagnata dalla rugiada; alle grida e alle bestemmie dei dannati, il mormorio del mare e il fruscio del vento. I sentimenti dei purganti s’intonano al paesaggio e le memorie terrene hanno perduto la loro asprezza e il motivo più coerente è quello della solidarietà spirituale, che unisce le anime tra loro e con gli esseri amati rimasti sulla terra, questo grande movimento d’amore e solidarietà è il collegamento tra i morti e i vivi, ciò spiega le continue domande di suffragi e i messaggi per i vivi che Dante riceve dalle anime che incontra percorrendo il Purgatorio.15 <<E’ per essa che Forese Donati, morto da solo cinque anni all’epoca del viaggio dantesco, si trova già quasi a sommo del monte, vicino alla liberazione; le preghiere della buona moglie Nella, tanto trascurata in vita, l’hanno condotto fin là. Questo spiega anche le continue domande di suffragi e i messaggi per i vivi che Dante riceve: Manfredi vuol essere ricordato dalla sua bella figlia, Costanza; Nino Visconti si raccomanda alle preghiere di Giovanna, la sua piccola orfana; Adriano V spera nei suffragi di sua nipote Alagia. E’ questo uno dei motivi conduttori del Purgatorio, luogo d’espiazione, sì, ma anche e soprattutto d’emendazione. Le pene medesime consistono in una sofferenza anche grave ma sempre dolce perché ha nome speranza>>.16
Dante e Virgilio, reduci dall’Inferno, giungono nell’antipurgatorio, dove il Poeta fiorentino, coperto dalla caligine infernale, compie i riti di purificazione su invito di Catone, in uno scenario di un’alba radiosa che annuncia il regno della luce e del sole.
Intorno alla montagna del Purgatorio girano sette balze o cornici, in ciascuna di esse è punito uno dei peccati capitali e le anime dei purganti vi sosteranno per un tempo proporzionato alla gravità del peccato commesso, ma le anime che tardarono a pentirsi fino alla loro morte resteranno un periodo di tempo (per una specie di quarantena) presso la spiaggia, dove approdano i defunti trasportati sul vascello di un angelo nocchiero. In un luogo a parte, sono raggruppate le anime di coloro che furono scomunicati, morti penitenti ma in “contumacia di Santa Chiesa”, per questi la permanenza sarà ancora più lunga prima di poter accedere alla salita del monte e potrà essere abbreviato solo con le preghiere dei vivi: <<Vero è che quale in contumacia more / di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta, / star li convien da questa ripa in fore, / per ogni tempo ch’elli è stato, trenta, / in sua presunzion, se tal decreto / più corto per buon prieghi non diventa>>. 17
Terminato il percorso delle sette cornici, Dante è abbandonato da Virgilio, il quale non può procedere oltre, quindi viene accompagnato da Stazio,18che ha finito di scontare la sua pena e può salire al regno dei beati e nell’Eden incontra Beatrice e le confessa i suoi peccati. E’ il XXX canto ed è l’unica volta in tutta la “Commedia” in cui venga pronunciato il nome di Dante e a pronunciarlo sarà proprio Beatrice, la donna amata e cantata in giovinezza, che lo costringerà a pentirsi, con dolore e vergogna, della propria vita giovanile, del passato in cui “la diritta via era smarrita”, la donna attraverso la quale il protagonista del viaggio ultramondano ha acquisito piena consapevolezza di sé. <<Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada>>.19
Beatrice si trova sulla sponda opposta, rispetto a Dante, del fiume Leté, il fiume dell’oblio, che anche nell’Eneide marcava il confine tra la vita e la morte, ma a differenza dell’Acheronte, il fiume infernale, che dalla vita immetteva nella plaga dei morti, il Leté dalla morte, per metampsicosi, riportava alla vita: una metampsincosi di un uomo rigenerato, rinnovato, che perviene ad una nuova vita, quella dell’anima in Dio e la sua donna è ambasciatrice di questa “vita nuova”.20
<<Ed ecco Dante in uno dei momenti di maggior coinvolgimento emotivo del suo itinerario di redenzione. È l’incontro, con Beatrice nell’Eden (XXX Purg.). Una pioggia di bianchi gigli vela l’apparizione della donna, che d. aveva amato in gioventù ed era morta nel 1290. Quella che adesso ci appare è un’immagine trasfigurata in un complesso di simboli, ma d. sente la potenza dell’amore. La forza dell’antica fiamma, la stessa che sentiva in gioventù quando la dolcezza di lei, attraverso i suoi occhi, gli raggiungeva il cuore. Adesso l’arcana e misteriosa forza di quell’amore si fa sentire anche prima che Dante riesca a vederla. È una potenza, dunque, che non ha niente a che vedere con la realtà percettiva, e Dante sottolinea questo dato “senza che de li occhi aver più conoscenza” (v. 37), senza cioè percepire la sua immagine attraverso i sensi, sente la traccia, il segno dell’antico amore. L’episodio ha un’alta densità drammatica e sottopone il poeta a continui mutamenti di stati d’animo: si alternano il dolore per la perdita di Virgilio, che sparisce dopo aver accompagnato Dante attraverso l’Inferno e il Purgatorio, e l’intensa emozione per l’incontro con Beatrice , che lo guiderà in Paradiso alla contemplazione di Dio>>.21 Nell’Alighieri è rimasta profonda la traccia dell’amore giovanile e a quel ricordo è scosso da un tremore fanciullesco e da una sensazione di impotenza che ancora prova di fronte alla donna, quasi fosse una sensazione trascendentale: ciò che è impresso nella coscienza di Dante è l’impronta di Dio e Beatrice diventa, in tal modo, l’incarnazione della “verità rivelata”.22
Il XXX canto si può definire il luogo della riconciliazione, dell’incontro in cui il Poeta ritrova il suo Amore. Dante rivede Beatrice dopo tanto tempo e si volta verso Virgilio, che però non c’è più, dicendo che nemmeno una goccia di sangue gli è rimasto che non tremi, conosce i segni dell’antica fiamma: <<Men che dramma / di sangue m’è rimaso che non tremi: / conosco i segni de l’antica fiamma>>.23 Beatrice, simbolo della Teologia e della rivelazione cristiana, sarà la nuova guida di Dante, ma Beatrice fu ed è la donna amata, la donna cantata in gioventù nella “Vita Nova” e ritrovata negli anni della maturità nella “Commedia”, tra i due amanti non c’è un abbraccio, ma un solenne rimprovero da parte della donna, la quale esprime delle accuse ben precise, che lasciano sconvolto il Poeta, già addolorato dalla scomparsa di Virgilio, tuttavia il comportamento di Beatrice è dettato da un profondo amore, poiché non esiste amore più grande di quello che porta la persona amata alla conquista della totale felicità.
Prima dell’incontro con Beatrice, Dante assiste ad una processione allegorica, simboleggiante la storia della Chiesa,24 Successivamente Dante viene purificato da Matelda nelle acque dei fiumi Leté (della dimenticanza o oblio) ed Eunoé (memoria del bene compiuto), che lo rendono degno di seguire la sua donna nel regno dei beati.
Matelda è una creatura attraente e misteriosa che sembra fluttuare tra il sogno e la realtà, la sua apparizione in uno scenario melodico ed incantato ne esalta la bellezza, l’armonia della voce e la delicatezza dei movimenti, ma ecco che allora la donna assume la sua funzione, quella di guida, di colei che svela i misteri al Poeta: anello di congiunzione tra Virgilio (ragione umana) e Beatrice (verità rivelata), ma è anche la figura centrale del canto XXVIII, che unisce la prima parte più armoniosa con la seconda più tecnica. Matelda, ridente e amorosa, può simboleggiare la condizione di felicità dell’uomo preesistente al peccato originale, come quella della riconquistata felicità dopo il peccato originale attraverso il pentimento e la purificazione.25<<Poeticamente, è una ripresa del tema di Lia, nel canto precedente (vv. 94-108), con uno svolgimento più minuto, ma anche più adorno, con similitudini di una squisitezza da miniatura (vv. 52-54) e frequenti ricorsi mitologici e dotti (vv. 49-51, 64-66, 70-75); tutto animato e percorso ad ogni modo da un così fresco e irrompente moto di letizia, che quasi non s’avverte la presenza assidua e magari il soverchio dell’arte. Cresciuta sulla traccia di delicate immagini libresche (soprattutto ovidiane), ma rivissute nel clima fervido e raffinato di un sentimento stilnovistico, questa fantasia dantesca si è offerta a sua volta a guisa di stimolo e suggerimento a tutta una serie di variazioni letterarie…>>,26 che da Boccaccio vanno fino a Leopardi.
Il nome della “bella donna” verrà enunciato solo nel canto XXXIII, dando adito a varie supposizione da parte degli studiosi.27
Nell’Inferno i dannati sono puniti per i peccati commessi, mentre nel Purgatorio la punizione è per le inclinazioni peccaminose, ossia se un omicida muore senza essersi pentito è destinato all’Inferno nel cerchio dove è punito il peccato compiuto, ma se un omicida si pente, la sua destinazione sarà il Purgatorio tra gli avari, se questo vizio capitale è stato il movente del suo delitto. Nell’Inferno i dannati restano in eterno nel luogo assegnato, non provano pentimento del male commesso e rimpiangono la vita terrena, nel Purgatorio le anime salgono man mano verso l’alto per le varie cornici per arrivare al regno dei beati, odiano il peccato commesso e hanno pochi rimpianti per la vita terrena e sono tutti protesi verso quella beatitudine che li attende. Anche in questo regno vale la legge del contrappasso e nelle cornici sono presenti esempi del peccato punito e dell’opposta virtù premiata.28
Molti studiosi dell’Alighieri hanno sostenuto che una diversità di tono renda le tre cantiche stilisticamente diverse, ossia che lo stile del Poeta, dall’Inferno, al Purgatorio e al Paradiso sia via via più immateriale, ma, secondo Momigliano nel Paradiso troviamo spesso un fervore spirituale che ci riporta alla mente l’atteggiamento determinato di alcune figure, di diverse azioni e di vari scenari dell’Inferno, che rendono il protagonista Dante più simile al Dante protagonista dell’Inferno che al Dante protagonista del Purgatorio.29
Nell’Inferno il Poeta rappresenta l’elemento negativo, ossia il peccato, il male, che suscita repulsione, ma rappresenta anche il bene, il divino che Dante vede come aiuto, come conforto, come speranza per il suo viaggio verso la salvezza. Nel Paradiso, l’Alighieri rappresenta il divino, la perfezione dei beati, cioè l’elemento positivo che attrae l’anima cristiana e come necessario contrapposto il male che troviamo nelle moltissime invettive e polemiche di cui sono permeati i canti narrativi, biografici e dottrinali: <<In queste due cantiche cioè il contrasto è trasferito nella realtà, nelle cose, ed è dal poeta oggettivamente rappresentato. Nel Purgatorio invece esso è soprattutto interiorizzato, è trasportato all’interno della coscienza di Dante, e la poesia si fa più soggettiva>>.30
Per Dante l’evento più importante è quello di se stesso che, attraversando momenti contrastanti e drammatici, prende coscienza di sé e approda alla conclusione della sua ascesa spirituale: gli incontri con i vari personaggi diventano fasi progressive del suo processo di emancipazione e nel Purgatorio le presentazioni dei personaggi sono finalizzate alla sua purgazione più che a se stesse. Nell’Inferno, Dante è protagonista passivo e statico: parla e disputa con i dannati, ma in lui non avvengono mutazioni e quando esce da questo regno “a riveder le stelle” egli è quello che era prima, poiché nella prima cantica, come anche nel Paradiso l’anima ha concluso la sua storia ricevendo la soluzione finale di pena o di beatitudine, mentre nel Purgatorio le vicende dell’anima sono ben lontane dall’essere concluse, anche se la soluzione sarà la salita al Paradiso, i penitenti, quindi, procedono verso una compensazione tra peccato ed espiazione che non è ancora avvenuta, tendono verso quell’equilibrio che non si è ancora attuato. Il viaggio di Dante attraverso il Purgatorio si può invece definire un itinerario spirituale, interiore, fino alla completa purificazione nelle acque dei fiumi divini che lo rendono “puro e disposto a salire alle stelle”.31
Il Purgatorio è, per il Poeta, la montagna della felicità che l’uomo ha perduto a causa del suo peccato e dall’uomo riacquistata per il sacrificio di Cristo, è la via per risalire alla luce e al bene, ma la scalata ad essa non si fa con la superbia e la violenza ma con l’umiltà e la dolcezza.
Quando Dante e Virgilio arrivano sulla spiaggia dell’antipurgatorio, dopo l’incontro con Catone e i riti di purificazione, sono osservati da un gruppo di anime, appena scese dalla navicella guidata dall’angelo nocchiero, una di queste si fa avanti per abbracciare il Maestro fiorentino e il gesto è fatto con tanto amore che induce Dante a ricambiare, ma l’abbraccio ripetuto tre volte fallisce, perché le anime hanno un aspetto umano, ma sono inconsistenti e ad un nuovo tentativo una voce lo prega di desistere, proprio dalla voce il Poeta riconosce l’amico Casella e lo prega di fermarsi per un breve colloquio: <<Io vidi una di lor trarresi avante / per abbracciarmi, con sì grande affetto, / che mosse me a far lo somigliante. / Ohi ombre vane, fuor che nell’aspetto! / tre vole dietro a lei le mani avvinsi, / e tante mi tornai con esse al petto. […] Soavemente disse ch’io posasse; / allor conobbi chi era, e pregai / che, per parlarmi un poco s’arrestasse>>.32 Segue il breve dialogo affettuoso dei due amici e Dante gli dice che se la legge del Purgatorio non vieta il ricordo dell’”amoroso canto”, che era solito quietare ogni sua passione, di consolare con esso la sua anima affranta dal viaggio infernale. Casella comincia a cantare “Amor che ne la mente mi ragiona” con una dolcezza tale che tutte le altre anime e Virgilio ascoltano rapite, ma il rimprovero di Catone, che le incita ad affrettarsi verso la purificazione, interrompe l’incanto e tutti riprendono sollecitamente il loro dovere; tale rimprovero evidenzia che si tratta ancora di amore terreno, l’altra forma di amore, più alta, cui tendono le anime purganti, non consente soste.
Un episodio questo che ci mostra i temi delicati dell’amicizia, della confidenza affettuosa, amorosa, della dolcezza consolatrice della musica e della fiducia in Dio. Anche l’incontro di Dante con l’amico Nino Visconti è un incontro di un’amicizia molto affettuosa, ma che si svolge nel clima intimamente religioso del Purgatorio, dove i pensieri della purificazione e l’amore umano si manifestano in un’atmosfera distaccata, il sentimento che lega i due personaggi pervade la scena ma è contenuto e pacato. Siamo ancora nell’antipurgatorio, nel secondo balzo, dove si trovano le anime dei principi negligenti, che devono restare fuori del Purgatorio tanto tempo quanto vissero e ogni giorno sono sottoposti alla tentazione del serpente che striscia tra le erbe ed i fiori, simbolo del Demonio tentatore carico di apparenze piacevoli e di lusinghe per l’uomo sulla terra, ma, probabilmente, rievocazione delle tentazioni terrene che per le anime di questo luogo diventano mezzo di purificazione.
Nino Visconti,33 chiede a Dante di ricordarlo alla figlia Giovanna perché preghi per lui, dal momento che la moglie Beatrice d’Este non lo ama più,34 avendo abbandonato le bende vedovili e convolato a nuove nozze e, da questo esempio, continua Nino, si può facilmente dedurre quanto sia fragile l’amore in una donna se non è alimentato dalla vicinanza dell’amato: <<dì a Giovanna mia che per me chiami / là dove alli ‘nnocenti si risponde. / Non credo che la sua madre più m’ami/ poscia che trasmutò le bianche bende / le quai convie che, misera!, ancor brami. / Per lei assai di lieve si comprende / quanto in femmina foco d’amor dura, / se l’occhio o ‘l tatto spesso non s’accende>>.35
Nel canto XXIII, Dante descrive l’affettuoso e amorevole incontro con Forese Donati, il quale, diversamente da Nino Visconti, ricorda la moglie con amore, tenerezza e gratitudine e condanna l’impudicizia delle donne fiorentine. L’incontro avviene nella VI cornice del Purgatorio, dove si stanno purgando i golosi, che procedono in fretta, orribilmente magri per la fame e la sete provocate dal profumo degli alberi e dell’acqua. Il volto di Forese è irriconoscibile, infatti Dante lo riconosce dalla voce e si commuove fino alle lacrime nel vedere l’amico che aveva pianto alla sua morte così sfigurato; Forese, altrettanto commosso, spiega che i golosi si purificano soffrendo la fame e la sete, stimolate dalla fragranza che esce dagli alberi e dal getto dell’acqua che si sparge sulle fronde, dalle quali le anime sono attratte da questa sofferenza come Gesù fu condotto a morire sulla croce. Dante si meraviglia che l’amico, morto nemmeno da cinque anni, si trovi già in quel luogo e non nell’antipurgatorio, Forese risponde che lo hanno condotto nella zona in cui si trova le lacrime e le preghiere della moglie Nella, cara a Dio per le sue virtù morali: <<Ond’elli a me: “Sì tosto m’ha condotto / a ber lo dolce assenzo d’i martiri / la Nella Mia con suo piagner dirotto. / Con suoi prieghi devoti e con sospiri / tratto m’ha de la costa ove s’aspetta, / e liberato m’ha de li altri giri. / Tanto è a Dio più cara e più diletta / la vedovella mia, che molto amai, / quanto in bene operare è più soletta; / ché la Barbagia di Sardigna assai / ne le femmine sue è più pudica / che la Barbagia dov’io la lasciai>>.36
Forese Donati, detto “Malefami”, è il compagno di baldorie, del periodo della vita dissoluta di Dante e nonostante l’amicizia non si risparmiano certo le frecciate e le insinuazioni maligne, come possiamo vedere nella celeberrima “Tenzone” composta da tre sonetti dall’Alighieri e dalle rispettive risposte di Donati, dove i due poeti si scambiano insulti e ingiurie in tono comico conforme al genere mediolatino dell’”improperium”e della “tenso”. Non conosciamo la data di nascita di Forese Donati, il quale visse nella seconda metà del secolo XIII, morì a Firenze nel 1296 e venne sepolto nella chiesa di Santa Reparata, fu figlio di Simone, fratello di Corso, capo di parte Nera e di Piccarda, che l’Alighieri destinerà nel Paradiso (Paradiso, III), fu lontano parente di Gemma Donati, moglie di Dante. Appartenne, quindi, a una delle famiglie più importanti di Firenze, ma non sappiamo se ebbe cariche amministrative e politiche. Sconosciuta è anche la data del suo matrimonio con Nella, di cui niente sappiamo, però dovette anche lei appartenere a buona famiglia, perché Dante nel primo sonetto della Tenzone ci mostra la madre della ragazza pentita di averla data in moglie a Forese anziché ad un membro della notevole famiglia dei conti Guidi, di cui non avrebbe potuto farne parte una ragazza qualunque. La vita morale di Nella è un esempio di onestà e di pudicizia per tutte le donne fiorentine tanto sfacciate, corrotte e viziose, che andavano col petto scoperto ancor più delle donne della Barbagia, che era abitata da popolazioni semibarbare, che anche ai tempi di Dante conservavano usanze rozze e selvatiche: <<A fare di Firenze una nuova Barbagia, il nostro può essere stato indotto dall’idea di <<barbarie>>che il nome stesso di quel paese avocava alla sua mente; con sentimento non dissimile da quello per cui altrove rappresenta i fiorentini come un popolo che tiene <<ancor del monte e del macigno>> (Inf., XV, 61-63)>>.37
La moglie Nella, la quale piange e prega per la scomparsa del marito, è il ritratto ideale della sposa cristiana, raro esempio di virtù, purezza, e pietà in un mondo corrotto.
In tutta la Commedia, Dante manifesta un grande amore verso la sua patria e verso tutta l’Italia, anche se lo esprime, nella maggior parte dei casi, con parole dure, con terzine che esplodono di disappunto per il comportamento dei papi, degli imperatori e dei cittadini, con invettive iperboliche che rivelano tanta amarezza, ma anche tanto amore, soprattutto per “Fiorenza”, la sua patria, in cui non farà più ritorno.
I due poeti si trovano ancora nel II balzo dell’antipurgatorio (canto VI), dove si stanno purgando le anime di coloro i quali morirono di morte violenta e stanno camminando lentamente, cantando il “Miserere”, quando notano un’anima in disparte e con un atteggiamento superbo che guarda verso di loro, Virgilio si avvicina per chiederle quale sia il cammino più rapido, ma non risponde e chiede da dove essi vengano e quando inizia a pronunciare il nome della sua città natale, Mantova, l’ombra altera e solitaria balza in piedi e abbraccia Virgilio pronunciando parole di caldo affetto e quel gesto improvviso, di profondo significato simbolico, si condensa la drammaticità della situazione, preparando il lettore allo sfogo carico di deplorazioni, riflessioni, rimproveri, sarcasmi, ira, pietà per le misere sorti della patria a causa delle colpe e degli errori umani: <<Pur Virgilio si trasse a lei, pregando / che ne mostrasse la miglior salita; / e quella non rispuose al suo dimando, / ma di nostro paese e della vita / c’inchiese; e ‘l dolce duca incominciava / “Mantua…”, e l’ombra, tutta in sé romita, / surse ver lui del loco ove pria stava, / dicendo “O Mantovano, io son Sordello / della tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava>>.38
Le terzine che seguono sono tra le più famose di tutta la “Commedia”, quelle in cui Dante apostrofa l’Italia, che non è più signora dei popoli, ma schiava delle lotte e delle tirannie locali, Sordello, continua Dante, pur nella sua altezzosità, accoglie festosamente un suo concittadino, mentre in terra gli Italiani si straziano a vicenda, poiché a nulla valgono le leggi se manca chi le faccia rispettare. Il clero, invece di dare a Cesare quel che è di Cesare, ostacola l’autorità imperiale, usurpandone il potere; Dante invoca la punizione divina su Alberto d’Asburgo, che ha abbandonato l’Italia e non ascolta i lamenti della vedova Roma e si chiede se Dio abbia abbandonato l’Italia o stia preparando per essa un bene futuro? E con sarcasmo aggiunge che Firenze è beata poiché è piena di giustizia e di senno politico, ma la similitudine dell’inferma evidenzia i continui mutamenti dei cittadini fiorentini e insieme al dolore possiamo capire l’amore per questa città di Dante esule: accanto all’invettiva politica sentiamo tutto il compianto, il lamento e una forte nota elegiaca.39
Dante, Virgilio e Stazio arrivano alla VII cornice della montagna del Purgatorio, dove espiano le loro colpe i lussuriosi, i quali camminano tra le fiamme divisi in due schiere e si baciano fraternamente in silenzio, ricordano il peccato commesso piangendo e cantando un inno a Dio, poi manifestano il loro pentimento gridando esempi di lussuria punita. Tra i lussuriosi si trovano anche i sodomiti che non hanno più, come nell’Inferno, un girone particolare.
Il sole sta tramontando e le anime dei lussuriosi si accorgono che al passaggio di Dante l’ombra che proietta rende più acceso il colore della fiamma, una di queste attratta dal fenomeno si avvicina stupita al Maestro fiorentino e chiede come mai, ancora vivo, si trovi in quel luogo, ma, sul punto di rispondere, l’attenzione di Dante è catturata da un gruppo di purganti che avanza in direzione opposta a quella di coloro che si sono fermati e incontrandosi si baciano e proseguono il loro cammino, nell’atto di separarsi la nuova schiera grida: <<Sodoma e Gomorra>> e l’altra: <<Pasife entra nella vacca perché il toro soddisfi la sua lussuria>>. I primi sono i lussuriosi che peccarono contro natura e ora gridano i nomi delle due città bibliche distrutte dal fuoco per punire il peccato di sodomia praticato dai loro abitanti: <<Il signore disse: “siccome il grido che sale da Sodoma e Gomorra è grande e siccome il loro peccato è molto grave, io scenderò e vedrò se hanno veramente agito secondo il grido che è giunto fino a me […] Allora il Signore fece piovere dal cielo, su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco, da parte del Signore; egli distrusse quelle città, tutta la pianura, tutti gli abitanti delle città e quanto cresceva sul suolo>>.40
L’altra schiera sono i lussuriosi secondo natura, ossia gli eterosessuali che usarono il sesso al di fuori di ogni razionalità e misura, come Pasifae, personaggio della mitologia greca, figlia di Elio e della ninfa Perseide. Moglie di Minosse, re di Creta, da cui ebbe numerosi figli (tra i quali Androgeo, Fedro e Arianna) e, secondo il mito, Minosse ebbe in dono da Poseidone un bellissimo toro bianco perché venisse sacrificato in suo onore. Minosse non obbedì al dio, tenendo per sé quell’animale troppo bello e al suo posto ne sacrificò un altro, ma Poseidone, saputo della sostituzione, si vendicò inducendo Pasifae ad innamorarsi follemente del toro e questa passione la fece desiderare di congiungersi carnalmente con esso. Accecata da questo desiderio, Pasifae chiese aiuto a Dedalo, che si trovava a Creta per sfuggire ad una condanna per omicidio, egli costruì per la donna una vacca di legno cava, rivestita della pelle dell’esemplare di femmina più amata dal toro, dove poteva entrare per poter consumare un rapporto fisico: il toro, montando la finta vacca, fecondò Pasifae che diede alla luce il Minotauro.
La presenza di numerose anime di lussuriosi si trovano quindi anche in Purgatorio oltre che nell’Inferno, ma in quest’ultimo regno Dante distingue i lussuriosi dai sodomiti: i primi li troviamo nel II cerchio (canto V) e sono coloro che hanno cercato le soddisfazioni dei sensi contro tutte le regole e si sono lasciati prendere dalle passioni più smodate, tanto da sottomettere la ragione al piacere: <<Intesi ch’a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali, / che la ragion sottomettono al talento>>.41Essi si trovano in una landa priva di luce e sono colpiti da una bufera furiosa che li travolge trascinandoli per tutto il girone, che simboleggia la furia travolgente delle passioni non controllate dalla ragione (contrappasso).
Questo canto è forse uno dei più noti ed amati dai lettori di tutti i tempi, è il canto dove Dante parla d’amore e fa rivivere questo sentimento con la vicenda di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, gli sfortunati amanti di cui raccontano le cronache del XIII secolo. Tanto è stato scritto sulle terzine dei due amanti, ma l’interpretazione romantica di Francesco De Sanctis è molto intensa e vissuta, anche se i tempi sono cambiati, vale la pena di riportare alcuni brani: <<Ciò che importa è questo: che Francesca, come Dante l’ha concepita, è viva e vera assai più che non ce la possa dare la storia […] Francesca è donna e non altro che donna ed è una compiuta persona poetica, di una chiarezza omerica. […] I suoi lineamenti si trovano già in tutti i concetti della donna prevalenti nelle poesie di quel tempo: amore, gentilezza, purità, verecondia, leggiadrìa […] Francesca non è il divino, ma l’umano e il terrestre, essere fragile, appassionato, capace di colpa e colpevole, e perciò in tale situazione che tutte le sue facoltà sono messe in movimento, con profondi contrasti che generano irresistibili emozioni. E questo è la vita. Non ha Francesca alcuna qualità volgare o malvagia, come odio, o rancore, o dispetto, e neppure alcuna speciale qualità buona; sembra che nel suo animo non possa farsi adito altro sentimento che l’amore. “Amore, Amore, Amore!”. Qui è la sua felicità e qui è la sua miseria. Né ella se ne scusa , adducendo l’inganno in cui fu tratta o altre circostanze. La sua parola è di una semplicità formidabile. “Mi amò, ed io l’amai” ecco tutto. Nella sua mente ci sta che è impossibile che la cosa andasse altrimenti, e che l’amore è una forza a cui non si può resistere. […] Tale è Francesca: e chi è Paolo? Non l’uomo, il maschile che faccia antitesi e costituisca un dualismo: Francesca empie di sé tutta la scena. Paolo è l’espressione muta di Francesca… >>.42
Dante riesce a cogliere l’energia e il potenziale dell’amore, che può mutare l’uomo in un essere appagato e felice o distruggerlo totalmente; egli è affascinato dall’amore trasgressivo, ma sa riconoscerne i limiti etici: l’amore passionale dei lussuriosi è, per il Fiorentino, solamente un aspetto dell’Amore, il più istintivo, ma anche il più fragile, poiché non è sottoposto al controllo della ragione.
Sempre nello stesso canto, Virgilio indica a Dante le anime di coloro che furono protagonisti di grandi storie d’amore come Semiramide, Didone, Cleopatra,, Elena, Achille, Paride, Tristano, suscitando nell’Alighieri più pietà che paura: <<Poscia ch’io ebbi ‘l mio dottore udito / nomar le donne antiche e’ cavalieri, / pietà mi giunse, e fui quasi smarrito>>.43 Una pietà che nasce, probabilmente, dalla riflessione sulla drammatica conclusione che la passione irrazionale della lussuria ha guidato questi dannati.44
I sodomiti, nel regno infernale, li troviamo nel cerchio VII (canto XV), costretti a camminare senza sosta, mentre una pioggia di fuoco cade su di loro ininterrotta e inesorabile, dalla quale cercano invano di schermirsi con le mani. Tra questi dannati si trova Brunetto Latini,45 il quale poi, mentre l’incontro sta per terminare, sottolinea che tra i sodomiti ci sono molti letterati e ed ecclesiastici di grande fama: <<Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono; / de li altri fia laudabile tacerci, / ché ‘l tempo saria corto a tanto suono. / Insomma sappi che tutti fuor cherci / e litterati grandi e di gran fama, d’un peccato medesmo al mondo lerci>>.46 Tra questi si trovano Prisciano,47 Francesco d’Accursio,48 Andrea de’ Mozzi.49
L’episodio evidenzia un personaggio stimato ed onorato, Brunetto Latini, anche se l’appellativo di mondano (dissoluto) fa pensare immediatamente alla condanna dantesca per sodomia, che a quei tempi aveva una diversa accezione, ma dell’omosessualità di Brunetto Latini ne parla solo Dante nel XV canto dell’Inferno, perché non c’erano testimonianze che confermassero ciò, in quanto le numerose ricerche per trovare una testimonianza attendibile che potesse legittimare la condanna di Brunetto tra i sodomiti sono state senza risultato, per questo alcuni dantisti hanno “accettato” l’ipotesi di André Pézard, il quale sostiene che la sodomia del Latini non si deve intendere come peccato carnale, ma come peccato “letterario”, avendo Brunetto preferito nella sua opera il “Tresor”, dove peraltro condanna la sodomia, il volgare francese al volgare italiano.50 Pèzard sostiene anche che Brunetto, Prisciano, Francesco d’Accorso, Andrea de’ Mozzi non siano stati condannati dal Poeta come sodomiti, ma come bestemmiatori: il primo per aver scritto in lingua francese e non nella lingua materna la sua opera più famosa; il secondo per aver favorito l’eccellenza dei grammatici e retori greci sui latini, il terzo per aver messo sullo stesso piano la funzione del giudice e quella sacerdotale, il quarto per la corruzione della sua loquela dal pulpito. Tesi, questa, su cui i dantisti, anche francesi, hanno espresso molte riserve e perplessità di fondo.51In altre parole, secondo Pèzard si tratterebbe di una forma di “sodomia spirituale, culturale e linguistica” e la colpa di Brunetto consisterebbe nell’avere usato il francese anziché la lingua materna per scrivere le sue opere.
La formazione culturale di Dante avvenne nel secolo XIII, secolo che costituì un periodo di transizione nell’atteggiamento verso l’omosessualità: ciò che fino alla prima metà di questo secolo era stato un crimine condannato dalla religione, ma visto con una certa clemenza dalla morale quotidiana, assunse, con l’ascesa della borghesia, una progressiva complessità agli occhi dei laici, che reclamavano dal mondo ecclesiastico una rinnovata e maggiore disciplina morale, quindi la predicazione di un maggiore rigore morale, della povertà e della carità fu affidata ai nuovi Ordini dei Domenicani e dei Francescani e il cambiato atteggiamento nei confronti dell’omosessualità avvenne nella seconda metà del Duecento circa.52
La sodomia era piuttosto frequente a Firenze nel XIII secolo, soprattutto nelle classi sociali più erudite, infatti Dante cita gli ecclesiastici e i letterati, essa veniva praticata come contraccettivo naturale e come piacere fisico e tale pratica ebbe grande risonanza a livello europeo, tanto da indicare persone dedite a questa tendenza col termine di “Florenzen” e dai Francesi venne chiamata “Vizio fiorentino”; questo tipo di rapporto era anche frequente tra maestro e allievo: nelle botteghe degli artisti era normale per i giovani apprendisti essere sodomizzati dai loro maestri, principalmente per non incorrere, in caso di rifiuto, di essere cacciati, perdendo l’occasione di avere un futuro. Questo comportamento della società fiorentina era forse dovuto anche al ritorno della classicità greca, che, con la Signoria nel XV secolo di Lorenzo de’ Medici, tornerà con il suo splendore e con le sue “debolezze”. La sodomia, dunque, non era ritenuta un reato particolarmente grave e i Comuni italiani avevano cominciato ad approvare delle leggi che punivano con la morte tale infrazione, ma solo nei primi decenni del XIV secolo, quindi negli ultimi anni della vita del Poeta.53
E’ noto come uomini di chiesa condannassero il meretricio, ma era tollerato perché ritenuto deterrente e inevitabile contro la sfrenata lussuria e la sodomia: Sant’Agostino (354-430) paragonava le meretrici ad una cloaca, ripugnante ma necessaria, ritenendo la prostituzione una pratica inevitabile, tanto da costituire un antidoto contro la sodomia, fornendo una valvola di sfogo nell’ambito di una realtà sociale profondamente sessuofobica: << quod hoc facit feretri in mundo, quod sentina in mari, vel cloaca in palatio: “Tolle cloacam, et replebis foetore palatium”: et similiter de sentina: “Tolle meretrices de mundo, et replebis ipsum sodomia”, (la meretrice fa nel mondo ciò che la sentina fa del mare o la cloaca nell’edificio, e similmente ad una sentina “leva la sentina dal mondo e vedrai pullulare in esso la sodomia”)54Anche Tommaso d’Aquino (1225-1274), riprendendo da Agostino, scrive: <<La donna pubblica è nella società ciò che la cloaca è nel palazzo: togli la cloaca e l’intero palazzo ne sarà infettato>>.55
Perché Dante mette nell’Inferno tra i violenti contro natura Brunetto Latini, suo maestro e parla di lui come di un’immagine molto cara e paterna? E perché parlandogli tiene il capo chino in segno di grande riverenza? Non solo, ma il prestigio del Latini viene confermato anche dalla posizione centrale che occupa nella cantica, come nel Purgatorio tale posizione verrà occupata da Marco Lombardo e nel Paradiso da Cacciaguida, ossia da personaggi di grande importanza, che hanno indirizzando alcuni studiosi a delle supposizioni singolari come quello sostenute da Pèzard. Dante, infine, è proprio a questo personaggio che affida il compito di rivelare una profezia molto importante circa il proprio futuro: la gloria futura, se l’allievo avesse provato disprezzo per il suo maestro in quanto sodomita, probabilmente non gli avrebbe affidato una predizione così brillante: <<Ed elli a me: “Se tu segu tua stella, / non puoi fallire a glorioso porto, / se ben m’accorsi ne la vita bella; / e s’io non fossisì per tempo morto, / veggendo il cielo e te così benigno, / dato t’avrei all’opera conforto. /Ma quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno, / ti si farà, per tuo ben far, nimico; / ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi / si disconvien fruttare al dolce fico. / Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; / gent’è avara, invidiosa e superba: / dai lor costumi fa che tu ti forbi. / La tua fortuna tanto onor ti serba, / che l’una parte e l’altra avranno fame / di te; ma lungi fia dal becco l’erba>>.56
Tante sono state le supposizioni dei dantisti, ma nessuno è approdato ad una spiegazione, anzi ad una giustificazione del comportamento di Dante con il suo Maestro, dannato nell’Inferno per sodomia, mentre altre anime, ree dello stesso peccato, si trovano in Purgatorio, tra i tanti commenti molto interessante appare quello di Giuseppe Petronio: <<A molti critici è parso impossibile ammettere che Dante non solo abbia collocato nell’Inferno un uomo per il quale mostra rispetto ed affetto, ma lo abbia bollato di una colpa che a noi oggi pare particolarmente infamante […]C’è in questa posizione una incapacità sostanziale di guardare le cose dal punto di vista di Dante, con i suoi occhi di uomo del medioevo; ed ecco, allora, il solito ricorso al conflitto – tutto inventato dai critici – fra “struttura” e “poesia”, secondo il quale Dante condannerebbe per le leggi ferree impostegli dalla struttura teologale del poema, ma intanto, in quanto “poeta”, comprenderebbe e assolverebbe>>.57 Dante ammira, stima gli spiriti grandi, ma molti li situa nell’Inferno perché ciò suscita nel lettore la commozione e il terrore, che permette al poema di arrivare allo scopo morale prefissato: <<immaginare perciò un conflitto tra l’atteggiamento di Dante di fronte a quegli uomini e la loro condanna all’Inferno da parte dello stesso Dante, significa porsi fuori del mondo morale e culturale del poeta, il quale ragionava secondo una rigida logica di cattolico, convinto che i valori terreni, per alti che siano, non possono aiutare al momento del giudizio divino, e aspirava a farsi interprete lui di quel giudizio, senza trovare alcun contrasto fra l’ammirazione o l’affetto che egli poteva nutrire per un uomo, e il giudizio che ne doveva dare quando si fosse posto dal punto di vista di Dio e avesse giudicato non secondo gli affetti terreni ma secondo la legge. […] Brunetto assolve un duplice compito: da una parte è un monito probante – probante proprio per la sua grandezza e la sua fama – a distogliere dal peccato di sodomia, dall’altro è un mezzo per permettere a Dante di cominciare a sbozzare quel monumento a se stesso che egli si costruisce in tutta la Divina Commedia>>.58
Alcuni anni più tardi, il filologo e critico letterario D’Arco Silvio Avalle, in un suo libro dal titolo “Ai luoghi di delizia pieni, Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo”, edito a Napoli nel 1977, sostiene che la “prova” dell’omosessualità di Brunetto Latini va cercata nelle sue stesse opere, soprattutto nella canzone “S’eo son distretto jnamoratamente”, che il critico ha messo in connessione con la canzone “Amore, quando mi membra” di Bondie Dietaiuti, scrittore fiorentino facente parte della cerchia degli amici del Latini, di cui nulla sappiamo. Le due canzoni erano conosciute, ma sconosciuti erano i destinatari, Avalle ha individuato in queste composizioni i due poeti fiorentini, chiarendone anche l’interpretazione, ossia l’amore omosessuale tra Brunetto Latini e Bondie Dietaiuti, sostenendo che: <<La fonte del XV dell’Inferno è da questo momento alla portata di tutti: essa si trova nello scambio con Bondie, unico esempio del genere nella poesia del Duecento, monumento drammatico di una realtà mentale più forte di qualsiasi documento o testimonianza diretta>>.59 Evidenziando poi come <<La grande poesia di Dante si nutre pur sempre oltre che delle passioni più nobili, degli exempla ricavati non solo dal pettegolezzo quotidiano, ma anche dai fatti più clamorosi della cronaca nera>>.60
Il canto succesivo, il XVI, è ancora rivolto ai sodominti, tra i quali Dante incontra tre nobili fiorentini: Guido Guerra,61 Tegghiaio Aldobrandi,62 Jacopo Rusticucci,63 è proprio quest’ultimo che prende l’iniziativa di parlare con l’Alighieri, il quale udendo questi nomi si entusiasma e a stento si trattiene dall’abbracciarli, poi pieno di dolore per le loro pene, esprime grande ammirazione per quello che hanno realizzato a Firenze, patria comune: <<S’i’ fossi statodal foco coperto, / gittato mi sarei tra lor di sotto, / e credo che ‘l dottor l’avria sofferto; / ma perch’io mi sarei brusciato e cotto, / vinse paura la mia buona voglia / che di loro abbracciar mi facea ghiotto>>.64 L’onore e il rispetto che Dante prova per i tre illustri concittadini, rappresentanti di una generazione che aveva il culto della cortesia e del valore, contrasta con la compassione per la loro dolorosa pena eterna e l’abbraccio ideale fa capire chiaramente come il giudizio divino per la colpa di sodomia non corrisponda con quello umano del Poeta.
Nel Purgatorio, Dante non usa esplicitamente il termine “sodomita” ma il nome delle città di Sodoma e Gomorra per il vizio che le accumunava e di queste anime purganti fa breve menzione, mentre ai sodomiti dannati nell’Inferno dedica tutto il canto XV e i primi novanta versi del XVI, nominando singoli personaggi e dando luogo a due episodi rilevanti episodi della prima cantica.65
Nel settimo cerchio dell’Inferno, Dante condanna i violenti, dividendoli in tre gironi, perché la violenza si può rivolgere contro il prossimo (omicidi e predoni), contro se stessi (suicidi e scialacquatori), contro Dio (bestemmiatori), la natura (sodomiti) e l’arte (usurai). Il Nardi sostiene che secondo l’ordine naturale l’amore per il prossimo è meno intenso di quello verso noi stessi, mentre l’amore naturale per Dio è quello più forte , poiché se ogni essere ama per natura se stesso, a maggior ragione amerà quello da cui esso dipende e di cui non può fare a meno,66infatti i violenti contro la natura sono violenti contro Dio, in quanto la natura nasce da Dio, come anche l’arte, che procede dalla natura, quindi sempre da Dio: <<Puossi far forza ne la deïtade, / col cor negando e bestemmiando quella, / e spregiando natura e sua bontade; / e però lo minor giron suggella / del segno suo e Sodoma e Caorsa / e chi spregiando Dio col cor, favella>>.67
L’oltraggio dei sodomiti fu tale da infrangere le leggi naturali che regolano il rapporto sessuale, invece alle anime dei sodomiti del Purgatorio, Dante sembra attribuire loro una colpa non più grave dell’incontinenza, infatti non li distingue dai lussuriosi secondo natura, facendo una schiera ad essi contrapposta, che condivide la stessa pena del fuoco. Anche nell’Inferno il fuoco punisce i sodomiti, ma in modo diverso: <<Sovra tutto ‘l sabbion, d’un cader lento, / piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe sanza vento.>>,68come già detto più avanti, è evidente l’analogia con le due città punite da Dio, forse un’allusione al peccato dei sodomiti la possiamo riscontrare nel fatto innaturale che il fuoco, piova dall’alto verso il basso, mentre per sua natura esso tende verso l’alto.69
Nell’ultima cornice del Purgatorio, Dante e Virgilio incontrano i lussuriosi che espiano le loro colpe in attesa di salire in Paradiso, tra questi, come già detto, si trovano anche i sodomiti, di ciò il Poeta viene informato da un’anima appartenente alla prima schiera, i lussuriosi, che per spiegare che le anime appena arrivate e subito ripartite si stanno purgando del peccato di sodomia, usa una perifrasi, dicendo che tali anime offesero Dio col peccato per cui Cesare fu salutato, mentre celebrava il suo trionfo, col titolo di “regina”, alludendo alla sua intimità con Nicomede, re di Bitinia: <<La gente che non vien con noi, offese / di ciò per che giò Cesar, triunfando, / regina contra sé chiamar s’intese: / però si parton “Sodoma”gridando, / rimproverando a sé, com’hai udito, / ed aiutan l’arsura vergognando>>.70 A parlare dell’omosessualità di Cesare era stato Svetonio (“Vitae Caesarum XLIX”), ma soprattutto Uguccione da Pisa (“Magnae Derivationes”), il quale fu un’importante fonte di Dante.71 Se l’Alighieri scrive ciò che dicono i due scrittori sopraccitati, perché pone Cesare nel Limbo tra gli Spiriti Magni e non all’Inferno con Brunetto Latini? Dante ha una grandissima ammirazione per Cesare come ha una grande stima ed affetto per il suo maestro e, come sostiene Aldo Onorati: << Non gli interessa l’apparteneza dell’uomo, ma l’interno, il merito, la grandezza spirituale. Ma più di questo: Catone Uticense era pagana e per di più suicida, eppure è il gurdiano del più cristiano dei regni? Non ci sono spiegazioni sufficienti a questa trasgressione. Ce n’è solo una forse: l’Alighieri nutre riverenza per la grandezza d’animo e il valore degli uomini, anche se spesso è costretto a punirli secondo la visione canonica dell’escatologia>>.72
Dopo avere spiegato tutto questo a Dante, l’anima dice di essere Guido Guinizzelli e di appartenere alla schiera dei lussuriosi che peccarono senza freni con persone dell’altro sesso.73 Quando il Pellegrino apprende di trovarsi di fronte al padre del Dolce Stil Novo la commozione è tanta e vorrebbe abbracciarlo se il fuoco non glielo impedisse, ma Guido indica a Dante, con grande umiltà, un altro poeta, il provenzale Arnaut Daniel, la cui opera superò quella di tutti i poeti e rimatori del tempo: poi l’ombra di Guinizzelli scompare nel fuoco purificatore: <<”nostro peccato fu ermafrodito; / ma non servammo umana legge, / seguendo come bestie l’appetito,74 […] Farotti ben di me volere scemo: / son Guido Guinizzelli, e già mi purgo / per ben dolermi prima ch’a lo stremo” / Quali ne la tristizia di Licurgo / si fer due figli a riveder la madre, / tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo, / quand’io odo nomar sé stesso il padre / mio e de li altri miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre; / e sanza udire e dir pensoso andai / lunga fiata rimirando lui, / né, per lo foco, in là più m’appressai>>.75
Per Dante l’amore è il principio creatore e l’energia vitale di tutto l’universo e il senso della vita dell’uomo e il suo stesso destino dipendono dal suo modo di amare, questo è il filo conduttore di tutta la “Divina Commedia”. L’amore naturale è presente in ogni creatura, perché è per un atto d’amore che Dio ha creato ogni cosa, anche se assume forma diversa nei diversi gradi dell’essere, infatti Dante già nel “Convivio” scrive che gli elementi fondamentali, ossia la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco tendono verso la loro sede naturale, allo stesso modo le piante, i minerali e gli animali; anche l’uomo detiene tale forza, la quale è naturale ed innata, quindi senza errore, ma l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, ha la capacità di amare per scelta, quindi la libertà di decidere il proprio destino orientandosi verso il bene o verso il male, l’amore che se è ben guidato, tende esclusivamente al sommo bene che è Dio.76 Ma, spiega Virgilio, che non sempre è virtuosa l’attuazione dell’amore: <<Or ti puote apparer quant’è nascosa / la veritate alla gente ch’avvera / ciascun amore in sé laudabil cosa, / però che forse appar la sua matera / sempre esser buona; ma non ciascun segno / è buono, ancor che buona sia la cera>>.77
Secondo Dante cadevano in errore quei maestri che sostenevano la forza irreprimibile della passione d’amore, come ad esempio Andrea Castellano, che nel suo trattato “De amore”, composto negli ultimi anni del XII ei primi del XIII secolo, scriveva, all’inizio della sua opera, che: <<Amor et passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitationeformae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius ampex amoris praecepta compleri>>,78 il “De amore” divenne il punto di riferimento dell’amore cortese, condizionando la letteratura erotica del secolo XIII; il 7 marzo 1277, Étienne Tempier, Vescovo di Parigi, condannò pubblicamente l’opera di Andrea Castellano.79
Ancora più grave per Dante era il concetto che dell’amore aveva il suo più caro amico Guido Cavalcanti: amore come irrazionalità assoluta, come forza distruttrice che offusca la ragione, sottomettendola al desiderio e l’Alighieri lo dimostra con l’episodio di Paolo e Francesca, la quale, pur dannata alle pene infernali, continua ad aggrapparsi a quell’amore che ha condizionato la sua vita terrena e quella eterna.
Sarà Marco Lombardo, come già accennato, nel XVI canto del Purgatorio, che introdurrà l’idea del libero arbitrio, rispondendo alla domanda del Pellegrino sulla causa della corruzione del mondo e criticherà il concetto errato della predestinazione astrale. In tal modo Dante esprime il suo concetto cristiano dell’amore, fondato sul principio dell’anima, come realtà personale, libera da ogni forma di determinismo astrale e psicologico e padrona di sé.80
In Beatrice troviamo la forma più alta e nobile dell’amore, ossia l’amore nella sua profonda natura divina: la “caritas”, quindi per Dante l’amore discende da Dio e a Dio risale attraverso la donna amata. La scena dell’incontro con Beatrice sulla cima della montagna del Purgatorio, molto complessa e ricca di significati simbolici, <<assume dunque connotati ecclesiali e sacramentali, affinché la forza dell’amore personale sia definitivamente trasformata e connotata come caritas. Al rito partecipano l’intera Scrittura e l’acclesia>>.81
Nell’epistola a Cangrande della Scala, Dante spiega come l’amore santo o carità sia la suprema realtà che egli identifica col fuoco stesso dell’Empireo. Anche Guido Guinizzelli aveva scritto poesie in cui lodava la donna, ma si fermava a questa dimensione, senza trascendere, come invece ha fatto Dante, in una dimensione circolare, che ha il suo inizio e il suo fine in Dio e Beatrice rappresenta questa forma d’Amore, poiché è in lei che si palesa totalmente la carità creata.
1 Inferno, II, vv. 43-114.
2 Bonaggiunta Orbicciani degli Overardi di Lucca, morì poco dopo il 1296, figlio di Riccomo di Bonaggiunta Orbicciani degli Averardi, come da tradizione familiare fu come il padre giudice e notaio, fu anche rimatore seguace della Scuola siciliana e provenzaleggiante. Cfr. M. Marti, Enciclopedia Dantesca (1970).
3 Jacopo da Lentini, detto per antonomasia il Notaro, appartenne alla Scuola provenzaleggiante siciliana, fu contemporaneo e cortigiano di Federico II. Ritenuto il caposcuola di questa poetica, la sua fama fu grande.
Guittone d’Arezzo (1230?-1294) nacque a Santa Firmina, vicino ad Arezzo, da famiglia agiata, il padre, Viva di Michele svolgeva l’ufficio di camerlengo. E’ la figura più rappresentativa del momento di trapasso tra la poesia siciliana provenzaleggiante e lo “Stil Novo”, addirittura il caposcuola della generazione anteriore a Dante, ebbe molti seguaci ad Arezzo, Firenze, Pistoia, Lucca e in modo particolare a Pisa. Il suo stile fu oscuro e faticoso: non riuscì mai a liberarsi della maniera provenzale, su di lui pesa il giudizio di Dante, che lo ritiene troppo municipale, addirittura plebeo agli occhi del nuovo aristocratico rimatore: <<Così fer molti antichi di Guittone, / di grido in grido pur lui dando pregio>>, (Purgatorio, XXVI, vv. 124-126.) ossia: la smettano i seguaci dell’ignoranza ad esaltare Guittone e alcuni altri, che nella costr uzione dei vocaboli e dei costrutti non hanno mai cessato di usare modi plebei, ma il giudizio di Dante va inteso come quello di un poeta che era completamente assorbito nella volontà di fondare un nuovo stile. Cfr. L. Russo,Compendio storico delle letteratura italiana, Firenze 1962, p. 28.
4 M. Pazzaglia, Letteratura italiana. Testi e critica con lineamenti di storia letteraria, Milano 1985, vil. I, p. 160.
5 Ibid.
6 Ibid.
7 A. Roncaglia, Da ritorno e rettifiche sui fondamenti filosofici del dolce stil novo, in “Beiträge zur Romanischen Philologie, IV, Berlino 1965, pp. 115-122.
8M. L. Rizzatti, Dante, in “I Grandi di Tutti i Tempi”, vol. 3°, Verona 1965, p. 48.
9 Ibid.
10 Tale distinzione si trova anche in San Tommaso. Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologia, I, q.60, a. 1.
11 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di N. Sapegno, Firenze 1964, Vol. II, canto XVII, p. 194. I passi della seconda Cantica riportati nel testo sono ripresi da questa edizione della Divina Commedia.
12 Purgatorio, canto XVII, vv. 91-139.
13 Purgatorio, canto XVIII, vv. 67-75.
14 Cfr. G. Petrocchi, Il Purgatorio di Dante, Milano 1978, p. 64.
15Cfr. M. L. Rizzatti, Dante, in “I Grandi di Tutti i Tempi”, vol. 3°, Verona 1965, p. 46.
16 Ibid.
17 Ibid. ; Purgatorio, III, vv. 136-140.
18 Dante incontra Stazio nel XXI canto del Purgatorio, dove espiano le loro colpe gli avari e i prodighi, i quali giacciono bocconi con il volto rivolto verso la terra ed hanno le mani e i piedi legati, piangono gridando esempi del loro peccato e della virtù premiata, inoltre ripetono un versetto del Salmo 118. Publio Papinio Stazionacque a Napoli nel 45 e non a Tolosa come dice Dante erroneamente nel v. 89 “che, tolosano, a sé mi trasse Roma”: nel Medioevo fu confuso col retore Lucio Stazio Ursolo di Tolosa (retore della Gallia narbonese, vissuto all’età di Nerone), forse per questo Dante lo dice tolosano. Trascorse gran parte della sua vita a Roma, dove aveva libero accesso alla corte imperiale di Domiziano. Fu uno dei più illustri poeti della letteratura latina, il suo capolavoro fu la “Tebaide”, che dedicò a Domiziano; compose poi l’”Achilleide”, che restò incompiuto a causa della sua morte al II libro: queste opere erano molto diffuse nel Medioevo e, certamente, conosciute da Dante, mentre è improbabile che conoscesse la raccolta lirica intitolata le “Selve”, sconosciuta ai tempi dell’Alighieri, dove Stazio dice di essere nato a Napoli; morì nella stessa città nel 96 circa. Cfr. N. Sapegno, la Divina Commedia. Purgatorio… cit., p. 242 con relative note.
19 Purgatorio, XXX, vv. 55-56.
20 Cfr. P. Di Sacco-G. Cervi-F. Fioretti-M. Serio, Scritture. Letteratura italiana, Milano 1998,vol. I, p. 236.
21 P. Di Sacco-G. Cervi-F. Fioretti-M. Serio, Scritture. Letteratura italiana, Milano 1998,vol. I, p. 237.
22 Cfr. P. Di Sacco-G. Cervi-F. Fioretti-M. Serio, Scritture. Letteratura italiana, Milano 1998,vol. I, p. 236.
23 Purgatorio, XXX, vv. 46-48.
24Dante e Virgilio si trovano nel Paradiso terrestre, lungo le sponde del fiume Letè: è il canto XXIX e in quello precedente è apparsa improvvisamente la “bella donna”, ossia Matelda, che rappresenta la felicità perfetta anteriore al peccato originale e ancora raggiungibile per l’umanità che operi secondo le virtù morali e intellettuali. La donna invita Dante a Guardare la luce che lampeggia nella foresta e ad ascoltare la melodia che si diffonde nell’aria luminosa, il Poeta è rapito da tutto ciò e per evidenziare l’importanza e la complessità di quanto descriverà, rivolge un’invocazione alle Muse, particolarmente a Urania, Musa dell’astronomia, che dovranno assisterlo per mettere in versi cose difficili da pensare: l’invocazione alle muse ha il compito di preparare il lettore ad una rappresentazione particolarmente importante. Davanti agli occhi del Poeta sfilano sette candelabri ardenti che formano sette liste luminose di vari colori, lasciando una scia iridescente nell’aria, simboleggianti i doni dello Spirito Santo (sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio); seguono “ventiquattro seniori” vestiti di bianco e coronati di gigli, i quali rappresentano i libri del Vecchio Testamento, essi avanzano cantando lodi a Maria. Dopo di loro, Dante vede quattro animali coronati di fronde verdi e ciascuno munito di sei ali piene di occhi, simboleggianti i quattro Evangelisti, raffigurati secondo l’iconografia tradizionale (Matteo era un angelo, Marco un leone, Luca un bue, Giovanni un’aquila) e con particolari che rimandano alla visione di Ezechiele (Ezechiele, I, 4-14) e alla descrizione dell’Apocalisse (Apocalisse, IV, 6-8), le fronde verdi con cui sono decorati forse alludono alla speranza che è annunciata dai Vangeli; in mezzo ai quattro animali avanza il carro trionfale della Chiesa con due ruote, significanti, per la maggior parte degli studiosi, le due Leggi o i due Testamenti, per altri la vita attiva e la contemplativa, trainato da un grifone con la testa e le ali di aquila e il corpo di leone, che rappresenta Gesù nella sua natura divina (la parte dell’aquila che è d’oro) e umana (la parte del leone che è bianca e rossa). Presso la ruota destra del carro Dante vede tre donne danzanti, che raffigurano le virtù teologali: carità (rossa), speranza (verde), fede (bianca), il ritmo della loro danza è regolato dal canto della carità; mentre le donne danzanti vicino alla ruota sinistra, vestite di porpora, personificano le virtù cardinali (prudenza, fortezza, temperanza, giustizia), la loro danza è da quella di esse che ha tre occhi, ossia la prudenza, che ricorda il passato, conosce il presente e prevede il futuro. Il carro, al centro della processione poiché la fondazione della Chiesa distingue la storia dell’umanità, è seguito da altri personaggi simboleggianti le vicende successive alla venuta di Cristo e i libri del Nuovo Testamento: due vecchi vestiti con abiti diversi, uno in abiti da medico, rappresentante San Luca, autore degli “Atti degli Apostoli”, l’atro armato di spada è San Paolo, autore delle “Epistole paoline”e che diffuse con energia combattiva la parola di Cristo; dietro loro ci sono quattro vecchi uomini di aspetto umile, i quali raffigurano le “Epistole” di Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, seguiti da un vecchio solo che dorme nonostante la sua espressione sia acuta e penetrante: si tratta di San Giovanni, autore dell’”Apocalisse”, libro profetico che rivela il futuro. Gli ultimi sette personaggi sono vestiti di bianco come i primi ventiquattro, ma sono incoronati di rose rosse ed altri fiori dello stesso colore, tali fiori sono il simbolo della carità. Quando il carro arriva davanti al Poeta si ode il rombo di un tuono e tutta la processione si arresta; più brevemente la “mistica processione” rappresenta il costituirsi della Chiesa per mezzo dell’ispirazione divina e fondata sulle Sacre Scritture, il carro, simbolo della Chiesa, è trainato da Cristo, ai lati è accompagnato dalle virtù teologali e cardinali ed è scortato dai Vangeli, lo precede il Vecchio Testamento ed è seguito dal Nuovo Testamento, tutto ciò sotto la protezione dei doni dello Spirito Santo. Le notizie sono state ricavate da lezioni e appunti personali)
25Cfr. N. Sapegno, La Divina Commedia… cit., Purgatorio, XXVIII.
26 Ibid., p. 314-315, nota 40.
27“ Gli antichi eran tutti d’accordo nel riconoscervi la contessa Matilde di Canossa (1046-1115, grande sostenitrice della parte papale durante la lotta delle investiture. Senochè è sembrato strano che Dante ponesse nell’Eden, attribuendole così alto ufficio, una donna che in vita era stata così fieramente ostile all’Impero. Perciò altri nomi sono stati proposti, come quello della monaca tedesca Matilde di Hackeborn […]; e qualcuno ha pensato che si dovesse identificare con una delle donne della Vita Nova , ovvero che il nome foggiato su due radici greche si potesse spiegare “amore di sapienza”, o ancora che occorresse leggerlo anagrammaticamente ad letam (la donna che conduce Dante alla Beatrice, e via discorrendo. Che l’interpretazione degli antiche non sia senz’altro da scartare ha dimostrato il Nardi, osservando che al tempo dell’Alighieri ben poco si doveva sapere dell’attività politica di Matilde di Toscana […] alla donna Dante attribuisce un nome, per cui siamo indotti a pensare a una figura storica ; dall’altro le assegna un ufficio che si prolunga nel passato tanto lontano da escludere ogni possibile identificazione con un personaggio storico più o meno recente”. N. Sapegno, La Divina Commedia… cit., Purgatorio, XXXIII, p. 378, nota 119.
28 Cfr. E. Gioanola, letteratura italiana, Milano 1998, vol. I, pp. 244-245.
29 Cfr. A Momigliano nel commento alla Divina Commedia, Firenze 1947, vol. III, p. 125. Io l’ho preso da Porcelli p. 14.
30B. Porcelli, Studi sulla “Divina Commedia”, Bologna 1970, pp. 14-17.
31Cfr. B. Porcelli, Studi… cit., pp. 14-17.
32 Purgatorio, II, vv. 76-87. Di Casella nulla si conosce, dai versi di Dante si può dedurre che sia morto non molto tempo prima del 1300.
33 Ugolino o Nino Visconti, discendente da una nobile famiglia guelfa pisana, nacque a Pisa nel 1265 circa e in gioventù fu esule con tutta la parte guelfa, ritornò in patria solo nel 1276, dal padre Giovanni ereditò il giudicato di Gallura in Sardegna e nel 1285 tenne, insieme con il nonno, la signoria di Pisa, divenne podestà e capitano del popolo. Dopo il trionfo dell’Arcivescovo Ruggeri e dei Ghibellini, andò in esilio, dove si unì ai Guelfi fuoriusciti e divenne uno dei principali promotori della lega dei comuni guelfi contro Pisa e nel 1293 fu capitano generale della Taglia guelfa. Tra il 1288e il 1293 fu spesso a Firenze, dove, probabilmente, ebbe occasione di conoscere Dante. Morì in Sardegna nel 1296, non riconciliato con la sua città natale, volle che il suo cuore fosse portato nella chiesa dei frati Minori di San Francesco della guelfa Lucca, a testimonianza della sua tenace fedeltà alla sua parte politica. Cfr. N. Sapegno, La Divina Commedia… cit., Purgatorio, VIII, p. 86, nota 53. )
34 Beatrice d’Este, figlia di Obizzo II, era nata nel 1268 circa a Ferrara e quando rimase vedova di Nino Visconti si trasferì a Ferrara con la figlia; intorno al 1300 sposò Galeazzo, figlio di Matteo Visconti, signore di Milano, ma nel 1302 fu cacciato da questa città per il prevalere dei Torriani, quindi Beatrice seguì il nuovo marito nel suo esilio. Di nuovo vedova nel 1328, Beatrice ritornò a Milano quando il figlio Azzo riprese la Signoria. Beatrice morì nel 1334. Cfr. Ibid., p. 88, nota 73.
35 Purgatorio, canto VIII, vv. 71-78. Giovanna, unica figlia di Nino Visconti, nel 1300 aveva circa nove anni e alla morte del padre fu spogliata di tutti i suoi beni, seguì la madre Beatrice prima a Ferrara e poi a Milano, successivamente, ancora adolescente, andò sposa a Rizzo da Camino, di cui rimase vedova nel 1312, visse a Firenze nella miseria più squallida, tanto che il Comune le diede soccorso con una sovvenzione in memoria dei meriti del padre. Cfr. Ibid., p. 88, nota 71.
36Purgatorio, XXIII, vv. 85-96.
37N. Sapegno, La Divina Commedia… cit., p. 264, nota 94.
38Purgatorio, VI, vv. 67-75.
39Cfr. Purgatorio, VI, vv. 76-151.
40 Genesi, 18, 20-21 e 19, 24-25.
41 Inferno, V, vv. 37-39.
42F. De Sanctis, Saggi critici, Laterza, Bari 1960.
43 Inferno, V, vv. 70-72.
44 Semiramide fu famosa per la sua corruzione e dissoluzione, che la portò, secondo la leggenda, a volersi unire in matrimonio con il figlio, dal quale venne uccisa; Didone, che dopo la morte del marito, venedo meno al giuramento fatto, si innamorò di Enea; Cleopatra fu amante di Cesare e di Antonio e si suicidò dopo la sconfitta di quest’ultimo; Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, fu rapita da Paride, che con questo rapimento causò la guerra di Troia; Achille (non si capisce bene se Achille viene condannato per essersi innamorato di Deidamia o di Polisenna o della schiava Briseide); Paride (secondo vari studiosi non si tratta del personaggio dell’”Iliade”, ma del cavaliere dei romanzi medievali che si innamorò di Vienna, rimanendone vittima; Tristano, famoso cavaliere del ciclo di re Artù, il quale si innamorò di Isotta, moglie del re.
45Brunetto Latini nacque probabilmente a Firenze tra il 1220 e il 1230 da ser Bonaccorso Latini della Lastra “iudex et notarius”, appartenente ad una nobile famiglia toscana, avviato alla carriera notarile, nel 1254 ebbe la carica di scriba degli Anziani del Comune di Firenze. Fu attivo in politica militando nel partito Guelfo; nel 1260, stava tornando in Patria reduce da un’ambasceria presso Alfonso X, re di Castiglia, ebbe la notizia della vittoria dei Ghibellini nella battaglia di Montaperti, quindi Brunetto si trasferì in Francia, dove esrcitò la professione di notaio e compose la sua opera più famosa: il “Trésor”( vasta enciclopedia in lingua d’oil) la “Rettorica” e il “Tesoretto”. Tornò a Firenze nel 1266, dopo la battaglia di Benevento, quando i guelfi di Carlo d’Angiò sconfissero i ghibellini di Manfredi di Svevia. Nel 1273 dal Comune fiorentino ebbe il titolo di Segretario del Consiglio della Repubblica, cui seguirono molte funzioni politiche importanti, che lo resero stimato e onorato dai suoi cittadini; fu anche retore, poeta e filosofo. Nel 1280 ebbe grande peso nella riconciliazione temporanea tra Guelfi e Ghibellini e successivamente fu membro del Consiglio del Podestà con Guido Cavalcanti e Dino Compagni; presiedette il Consiglio dei Sindaci, dove firmò la costituzione di una lega con Genova e Lucca contro Pisa, la cui flotta era stata distrutta dai Genovesi nella battaglia della Meloria. Ebbe l’alta carica di Priore nel 1287, favorì la guerra contro Arezzo (1289), da cui Firenze uscì vittoriosa e alla battaglia di Campaldino presero parte anche Dante e Cecco Angiolieri. Brunetto morì nel 1294 e fu sepolto nella chiesa di Santa Maria Maggiore in Firenze. Si conoscono i nomi di quattro figli: Biancia, Perso, Bechus o Bonaccorso e Cresta. Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/brunetto-latini_Dizionario -Biografico)/
46Inferno, XV, vv. 103-108.
47 Prisciano, nato a Cesarea, fu un noto grammatico latino del VI secolo, il quale insegnò a Costantinopoli. Non esistono fonti testimonianti la sodomia di questo personaggio e tale colpa è ancora argomento di discussione: alcuni sostengono che Dante abbia appreso la notizia da una fonte medievale oggi sconosciuta; altri che il Poeta abbia confuso Prisciano con Priscilliano di Avila, ( secolo IV) vescovo ed eretico, accusato anche di sodomia. Cfr. G. Brugnoli, in https://www.treccani.itenciclopedia/prisciano_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
48 Francesco d’Accorso nacque a Bologna nel 1225, fu professore di diritto romano con grande successo e grazie alla sua fama tenne lezioni anche all’Università di Oxford, dove sembra però che svolgesse più dell’opera del docente, assistenza al re Edoardo I d’Inghilterra per la riorganizzazione dell’ordinamento giudiziario, per le ambascerie alla corte francese e presso il papa Niccolò III, percependo ricchissimi emolumenti ed una pensione annua. Nel 1282 tornò a Bologna, ma nel frattempo la sua famiglia era stata bandita dalla città per motivi politici, quindi Francesco, per riprendere ad esercitare la sua professione, fece atto di omaggio e sottomissione alla nuova fazione dei Geremei, Guelfa, e al papa Martino IV. Pienamente reintegrato nei suoi diritti, ebbe grandissima fama. Nel suo testamento dispose numerosi legati a favore di amici e parenti, di chiese, monasteri ed opere pie, a riparazione di ricchezze mal accumulate, poiché come il padre aveva praticato l’usura. Anche per questo personaggio, l’accusa di sodomia non trova riscontro in precise notizie biografiche. M Cfr. F. Cancelli, in https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-d-accorso_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
49 Andrea de’ Mozzi, discendente della ricchissima famiglia guelfa de’ Mozzi, compì i suoi studi giuridici a Bologna e fu a lungo in Inghilterra; fu Vescovo di Firenze dal 1287 fino all’anno 1295, quando venne poi trasferito a Vicenza da papa Bonifacio VIII con un breve di evidente carattere punitivo, a causa del malgoverno che Andrea esercitò e creò una serie di attriti e di contese anziché dare lustro alla città. Morì nel 1296, fu sepolto nella chiesa di San Gregorio eretta a spese della sua famiglia. Anche per questo personaggio, come già per Prisciano e Brunetto Latini, l’accusa di sodomia non è riscontrabile in nessuna fonte, forse Dante, a torto o a ragione, accolse le voci che probabilmente circolavano per Firenze Cfr. E. Chiarini, in https://www.it/enciclopedia/andrea-de-mozzi_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
50 Cfr. A. Pèzard, Dante sous la pluie de feu, Parigi 1950.
51 Cfr. N. Mineo, in https://www.treccani.it/enciclopedia/andre-pezard_(Enciclopedia-Dantesca)/
52 Le notizie sono ricavate da lezioni e appunti personali.
53 Le notizie sono ricavate da lezioni e appunti personali.
54 Agostino d’Ippona, De Ordine, II, cap. IV, 12.
55 Tommaso d’Aquino, De Regimine Principum, IV, 14.
56 Cfr. Inferno, XV, vv. 55-72. Brunetto dice a Dante che se quando era in vita non si è ingannato, raggiungerà la gloria e se fosse vissuto più a lungo lo avrebbe aiutato e incitato, ma gli ingrati Fiorentini, che ancora conservano la natura aspra e selvaggia delle loro origini fiesolane, gli si volgeranno contro a causa della sua rettitudine; essi sono avari, invidiosi e superbi, e raccomanda al suo allievo di starsene lontano da loro e dalla loro corruzione. La sorte che attende il Poeta, continua Brunetto, è così onorevole che sia i Bianchi che i Neri vorranno vendicarsi di lui, ma non riusciranno a saziare la loro brama.
57 G. Petronio, Il canto XV dell’Inferno, in Nuove Letture dantesche, Firenze 1966-1978, vol. II 1968, pp. 76-85.
58 Ibid.
59 D’A. S. Avalle, Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli 1977.
60 Ibid.
61 Guido Guerra, figlio del conte Marcovaldo e di Beatrice degli Alberti di Capraia, nacque nel 1220 circa
discendente della nobile casata dei conti Guidi di Casentino, nipote della virtuosa Gualdrata, moglie di Guido il vecchio, donna dell’alta borghesia fiorentina che fu capace di ridare vigore alla vecchia famiglia comitale . Nel 1245 fece parte della scorta che Innocenzo IV al Concilio di Lione. Fu capo militare e politico di parte Guelfa e si distinse nella battaglia di Benevento del 1266, rientrato a Firenze da trionfatore, gli venne affidato il capitanato della città: fu il primo caso di assegnazione di tale caricaad un cittadino non fiorentino morì 1272. Cfr. M. Marrocchi, in https://www.treccani.it/enciclopedia/guido-guerra-guidi_%28Dizionario-Biografico%29/
62 Tegghiaio Aldobrandi appartenne alla nobile e potente famiglia degli Adimari, fu cavaliere di parte Guelfa e fu capo militare: cercò di convincere i Fiorentini a non intraprendere la guerra contro Siena, conclusasi con la sconfitta dei Guelfi. Fin dal 1236 godette di autorità e prestigio, infatti gli fu affidata la custodia degli ostaggi di San Gimignano; nel 1256 fu Podestà di Arezzo. Morì prima del 1266. Cfr. G. Varanini, in https://www.treccani.it/enciclopedia/tegghiaio-aldobrandi_%28Enciclopedia-Dantesca%297
63 Jacopo Rusticucci nacque probabilmente a Firenze nel 1200 circa da una famiglia non conosciuta; ebbe stretti contatti con la famiglia degli Adimari; nel 1237 fu più volte testimone durante i consigli del Comune di San Gimignano, di cui era Podestà Gerardo di Aldobrando Adimari, fratello di Tegghiaio; fu attivo politicamente nel suddetto Comune. Nel 1254 fu nominato (insieme con Ugo degli Spini) ambasciatore del Comune di Firenze per concludere paci e alleanze, l’anno successivo ricoprì la carica di capitano del Popolo nel Comune di Arezzo. Era ancora in vita alla fine degli anni Sessanta, si ignora la data di morte. Le allusioni che Dante fa a proposito della moglie e delle sventure coniugali di Jacopo sembrano giustificare la scelta di Rusticucci per la pratica della sodomia, come conseguenza della ripugnanza suscitata dalla moglie, capace di indurre l’avversione nei confronti di tutto il genere femminile: “E io, che posto son con coloro in croce, / Iacopo Rusticucci fui, e certo / la fiera moglie più ch’altro mi nuoce”. Cfr. S. Diacciati, in https://www.treccani.it/enciclopedia/iacopo-rusticucci_%28Dizionario-Biografico%29/
64 Inferno, XVI, vv. 46-51.
65Cfr. G. Varanini, Sodomiti ,in https://www.treccani.it/enciclopedia/sodomiti_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
66Cfr. B. Nardi, Il Canto XI dell’Inferno, in “Lectura Dantis”, Roma 1951, p. 199.
67Inferno, XI, vv. 46-51. Sodoma e Gomorra , le due città incenerite da Dio perché gli abitanti erano dediti al peccato contro natura. Caorsa, attuale Cahors, città della Francia famosa durante il Medievo per i suoi mercanti che praticavano alti tassi di sconto e spesso anche l’usura.
68Inferno, XIV, vv. 28-30.
69Cfr. G. Varanini, Sodomia… cit.
70 Purgatorio, XXVI, vv. 76-81.
71 Cfr. N. Sapegno, La Divina Commedia. Purgatorio… cit., p. 295, nota 77.
72 www.anaso.it/2018/06/25/intervista-a-aldo-onorati-dante-egli-omosessuali-nella-commedia/
73 L’identificazione delle origini di Guido Guinizzelli fu molto dibattuta dagli studiosi, ma pare riconoscibile come Guido di Guinizzello di Magnano, famiglia appartenente alla piccola nobiltà bolognese. La sua nascita si può collocare nel 1240 circa e la sua morte nel 1276, ma poco si conosce della sua biografia, probabilmente fu un uomo di legge e giudice; sposò Beatrice, figlia di Gruamonte della Fratta, potente esponente dell’aristocrazia di Bologna; fu attivo alla vita politica per la parte Ghibellina dei Lambertazzi, avversaria dei Guelfi Geremai e quando quest’ultimi ebbero la meglio sui Lambertazzi, Guinizzelli venne condannato all’esilio, dove probabilmente morì. Anche per la sua produzione letteraria non si hanno notizie certe: oltre a due frammenti di canzoni, gli vengono attribuiti quindici sonetti e cinque canzoni. Inizialmente la sua produzione poetica risulta ancora legata a moduli siciliani e guittoniani, riconoscendo in Guittone d’Arezzo il suo maestro, successivamente Guinizzelli si indirizza verso uno stile “dolce”, anche se ricco di tensione intellettuale, che lo fa considerare l’iniziatore del “Dolce Stil Novo”, Dante lo considera suo Maestro e lo celebra come tale nel suddetto canto XXVI del Purgatorio. Nella canzone “Al cor gentil rempaira sempre amore”, che rappresenta il “manifesto” del nuovo stile, Guinizzelli descrive le linee essenziali di questa nuova poetica, esprimendo la più alta espressione dell’amore attraverso la lode della donna amata. Cfr. G. Inglese, in https://www.itenciclopedia/guido-guinizzelli_(Dizionario-Biografico)/
74 Purgatorio, XXVI, vv. 82-84.
75 Ibid., vv. 91-102.
76 Dante Alighieri, Convivio, III, 3 3.
77 Purgatorio, XVIII, vv. 34-39. “Ora puoi vedere chiaramente quanto si allontanino dalla verità coloro che asseriscono che ogni amore è pre sé cosa buona; costoro, gli epicurei, si basano forse sul fatto che la materia d’amore, e cioè la naturale disposizione ad amare, è sempre buona, in quanto non può tendere se non al bene (o a ciò che appare tale); ma l’amore in atto è buono o cattivo, secondo l’oggetto a cui si rivolge e il modo in cui si determina: quand’anche la cera sia buona, non sempre son talile imprente che essa riceve”. N. Sapegno, La Divina Commedia. Purgatorio… cit., p. 200, nota 34.
78 “L’amore è una passione innata che procede dalla visione e per eccessivo pensiero di persona dell’altro sesso, per cui si desidera soprattutto godere l’amplesso dell’altro e nell’amplesso realizzare completamente tutti i precetti d’amore”
79 Cfr. D. Pirovano, Dante e il vero Amore, in https://laprofonline.wordpress.com/letteratura-italiana/dante-alighieri-vita-e-opere/dante-e-il-vero-amore/
80 Ibid.
81 Ibid.