POLITICA E FILOSOFIA NEL PARADISO DANTESCO

Loredana Fabbri

“Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, /

tutta tua vision fa manifesta; /

e lascia pur grattar dov’è la rogna.”

(Dante Alighieri, Paradiso, XVII, vv. 127/129.)

A don Franco, amico fraterno.

Angelo Pietrasanta, Ritratto di Dante, Veneranda Biblioteca/Pinacoteca Ambrosiana, Milano

PREMESSA

Questo modesto contributo nasce in prospettiva del Settecentenario della morte di Dante, ma vogliamo precisare che quello che abbiamo scritto è in qualità di lettore appassionato della materia, che non può vantarsi di essere specialista di studi danteschi e, tantomeno, della filosofia del Sommo Poeta, con il quale abbiamo solo l’onore di essere corregionali.

Trattare l’ideologia politica e il pensiero filosofico di Dante Alighieri comporta la necessità di una pur rapida carrellata su un periodo più ampio sia da un punto di vista storico sia da un punto di vista filosofico, per arrivare al tempo in cui operò il Sommo Poeta: una stagione speculativa molto ricca, che diede motivo di grande apertura dialogica su stimolanti temi intorno alle verità di fede e all’uso della ragione e ad affascinati argomenti sull’esistenza umana.

<<Due fine, adun que, cui tendere l’ineffabile Provvidenza pose innanzi all’uomo: vale a dire la beatitudine di questa vita, consistente nell’esplicazione delle proprie facoltà e raffigurata nel paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, consistente nel godimento della visione di Dio, cui la virtù propria dell’uomo non può giungere senza il soccorso del lume divino, e adombrata nel paradiso celeste. A queste [due] beatitudini, come a [due] conclusioni diverse, conviene arrivare con procedimenti diversi. Alla prima invero noi perveniamo per mezzo delle dottrine filosofiche, purché le sieguiamo praticando le virtù morali e quelle intellettuali; alla seconda invece giungiamo per mezzo degl’insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo praticando le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità. […] Per questo fu necessario all’uomo una duplice guida corrispondente al duplice fine: cioè il sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita eterna per mezzo delle dottrine rivelate; e l’Imperatore, il quale indirizzasse il genere umano alla felicità temporale per mezzo degli insegnamenti della filosofia>>.1

Così scrive Dante nel “De Monarchia”, interpretando il pensiero comune dell’uomo medievale. L’opera, in tre libri, è scritta in latino, ciò spiega che trattando un problema universale, era rivolta ad un pubblico di potenti e di filosofi anche non italiani. Il procedimento è quello scolastico, ma nella rigidezza degli argomenti e nella scientificità dell’analisi non è estranea la passione del Poeta, che non può limitarsi ad un’esposizione oggettiva, perché troppo coinvolto moralmente e sentimentalmente dal tema trattato. Nel “De Monarchia” Dante espone la sua teoria sull’ordinamento della società umana, analizzando tre punti basilari: che cosa sia la monarchia e se sia necessaria alla pace del mondo; se a ragione il popolo romano se ne sia assunto l’ufficio; se l’autorità dell’imperatore dipenda direttamente da Dio o da un suo vicario, ossia dal papa.

Dimostrata la necessità dell’Impero e il legittimo diritto dei Romani ad esercitare l’ufficio, nel terzo libro il Maestro fiorentino affronta il problema più importante ed attuale, per i suoi tempi e per il Medioevo, quello del rapporto che deve intercorrere tra l’Imperatore e il Pontefice e della loro diretta dipendenza da Dio. Tali tesi hanno alla base alcune affermazioni molto importanti, come quelle che mettono in evidenza i conflitti dottrinali e morali propri del tempo e tra i quali anche Dante si dibatteva, non riuscendo a conciliare i principi religiosi alle urgenti esigenze di una nuova realtà storica.

L’Alighieri insiste sull’asserzione che due sono le nature dell’uomo, quella corruttibile (corpo) e quella incorruttibile (anima), quindi anche il suo fine è duplice: la felicità terrena e quella celeste, ponendo in tal modo una pericolosa, dal punto di vista della fede, fenditura nei due compiti dell’uomo, pervenendo quasi a postulare un’autonomia dell’attività e della felicità del genere umano nel mondo; chiaramente da questa argomentazione deriva quella dell’assoluta autonomia dell’Impero, cui Dio avrebbe assegnato un compito particolare e indipendente da quello della Chiesa, anche se collegato con esso.

Dante afferma anche l’illegalità della donazione di Costantino, la cui falsità documentaria sarà dimostrata un secolo più tardi, che ha dato inizio al potere temporale dei papi, poiché l’Imperatore non aveva il diritto di alienare ciò che per volontà divina era di sua pertinenza, come un’usurpazione deve essere considerata anche l’incoronazione di Carlo Magno per opera di Leone III, avendo l’Imperatore imposto al Papa una facoltà che non gli spettava.

Dante non accettava le tesi regaliste di Filippo IV di Francia (Filippo il Bello), ma non accettava nemmeno il curialismo teocratico di Bonifacio VIII: sognava un’età, storicamente mai esistita, dove i singoli Stati avrebbero accettato la soggezione all’Impero, nel rispetto della loro autonomia; la Chiesa si sarebbe presa cura solo dello spirituale e l’Imperatore avrebbe governato con saggezza il mondo, mantenendolo nella pace e nella giustizia, consentendo ad ogni uomo il libero esercizio delle proprie facoltà. Una visione nettamente utopistica e irreale, una visione in cui la tesi medievale della “reductio ad unum” e della disposizione piramidale della società erano ormai solo un “rifugio” per uno stato d’animo ed una inquietudine di pensiero, frutto della situazione storica in cui si trovava l’Italia e l’Occidente nei primi anni del secolo XIV.2

Nelle pagine conclusive del trattato, Dante, forse preoccupato delle possibili reazioni dell’autorità papale a una tesi che indeboliva ogni pretesa teocratica, sottolineava il dovere dell’Imperatore di essere riverente nei confronti del Papa, essendo l’autorità spirituale superiore in qualità a quella temporale. Queste tesi procurarono all’opera l’accusa di eresia e nel 1329 fu bruciata pubblicamente per ordine del Cardinale Bertrando del Poggetto, finendo più tardi nell’indice dei libri proibiti, dove rimase fino al 1881.

Nella società medievale, la Chiesa e la vita religiosa erano importantissime, poiché sul Cristianesimo si basavano le teorie politiche ed economiche; le regole della vita quotidiana, scandite dalle ore delle preghiere, dalle feste religiose, dai precetti delle Sacre Scritture. Da un punto di vista culturale, la Chiesa di Roma fu il tramite della cultura greco-romana con quelle del tempo e in cui si fusero le diverse culture della futura Europa, la sua capillare diffusione nella società e nel territorio fece sì che essa potesse esercitare una forte influenza sui poteri laici e una grande autorità morale sulle popolazioni, grazie ad un’enorme potenza politica ed economica.

Fu proprio nel Medioevo che il Cristianesimo occidentale acquisì una propria fisionomia e la Chiesa si organizzò come istituzione unitaria, provvista di una gerarchia facente capo al Vescovo di Roma: il Pontefice. Anche la religione cattolica subì, in tale periodo, una profonda elaborazione, estendendosi approfonditamente in tutti i livelli della popolazione, assumendo conformazioni diverse secondo gli ambienti sociali: tutte queste trasformazioni accadevano nei secoli XI e XII, anche se prima di questo periodo, le donazioni e i lasciti di persone potenti avevano reso le chiese e i monasteri delle grandi proprietà fondiarie; gli intellettuali ecclesiastici, detentori della cultura e del sapere, erano stati insigni consiglieri dei re germanici; l’evangelizzazione dei territori conquistati alla cristianità aveva accordato al clero ampia autorità e grande potenza. In tal modo il mondo ecclesiastico occidentale si era allontanato sempre più dalla dottrina, dalla liturgia e dalla sensibilità religiosa dell’Impero cristiano orientale, dando luogo a molte tensioni, che nei secoli VIII e IX divisero i Cristiani d’Occidente da quelli d’Oriente, in particolar modo sulle questioni del Credo e sul culto delle immagini sacre.3

Nella Chiesa occidentale le carriere ecclesiastiche erano prerogativa di membri dell’aristocrazia fondiaria e guerriera, i laici più potenti fondavano chiese e monasteri, che concedevano ad ecclesiastici loro fedeli. Al tempo degli Ottoni, il Vescovo di Roma, pur rivendicando il primato sulla cristianità, era subordinato all’Imperatore, il quale interveniva direttamente nella scelta dei papi, la cui elezione era condotta dai nobili locali e, nella maggior parte dei casi, frutto di bassi maneggi, che le gerarchie ecclesiastiche condividevano, insieme con la ricchezza, lo stile di vita e gli interessi politici ed economici, con le classi laiche dominanti.4

Il clero, ossia coloro che avrebbero dovuto dare esempio di rettitudine partecipavano con i laici negli interessi terreni, conducendo spesso una vita deplorevole, perdendo prestigio e rispettabilità: a causa di tutto ciò, dall’inizio del secolo XI, si sviluppò un movimento di varie tendenze atto alla trasformazione di tale realtà che fu detta “Riforma gregoriana”, da Gregorio VII, in quanto prevalse l’affermazione del papa relativa al primato della Sede romana e dell’organizzazione della Chiesa attorno a Roma, (nel 1073 moriva Alessandro II, come suo successore fu eletto Ildebrando di Soana, che salì al pontificato col nome di Gregorio VII, uomo dal temperamento intransigente (inflessibile) e profondamente cosciente di possedere un potere soprannaturale, che gli imponeva non solo di essere guida universale della cristianità, ma anche di combattere per la verità e per la giustizia, ciò non escludeva un’azione coordinata dell’Impero e del Papato, ma gli avvenimenti indussero il nuovo papa a mettere in primo piano il diritto divino, concesso da Cristo a Pietro e da Pietro tramandato al pontefice, ossia la giustizia. Ma Gregorio VII capì che la riforma della Chiesa non era possibile in collaborazione con re, principi, signori, anzi il fondamento della corruzione ecclesiastica fu individuato nel rapporto feudale che accostava la Chiesa all’Impero: da questo concetto ebbe avvio la “lotta per le investiture”, concepita come lotta per la libertà della Chiesa. In un Concilio tenuto a Roma, Gregorio VII, oltre a ribadire la condanna della simonia, del concubinato e la proibizione dell’investitura laica dei vescovati e delle abbazie, redasse il “Dictatus Papae”, in cui afferma che la Chiesa romana è stata fondata solo da Dio, che solo il pontefice romano ha diritto al titolo di universale ed ha il potere di nominare, deporre e trasferire i vescovi, di deporre l’imperatore, di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà verso i principi ingiusti, senza bisogno di convocare sinodi; la Chiesa romana è infallibile e chi contraddice questa affermazione non deve essere considerato cattolico.5

Grande importanza, in seno di questa riforma, ebbe l’adesione della potentissima abbazia di Cluny, che fondò un nuovo ordine monastico legato direttamente al Papa e autonomo dal Vescovo. La Pataria, il movimento popolare sorto nell’ambito della Chiesa milanese, che si rivolse contro la simonia, il concubinato del clero e contro le ricchezze e la corruzione morale di coloro che ricoprivano alte cariche ecclesiastiche, soprattutto degli Arcivescovi di Milano, dove la corruzione del clero era molto profonda: esistevano addirittura delle tariffe che stabilivano il prezzo degli ordini sacri;6 a questa lotta sul piano morale, fu accostata anche quella politica per la libertà della Chiesa, soprattutto per l’indipendenza del papa dall’imperatore e dei nobili romani, per i vescovi di gradimento imperiale, per le cariche ecclesiastiche dei potenti laici.

Il papa, in quanto al centro di un’organizzazione che si proclamava universale, si riteneva superiore ad ogni altro potere terreno e la maggiore autorità esistente, dette luogo alla teocrazia orientata verso una vera e propria monarchia papale, che fu la causa del definitivo distacco dalla Chiesa orientale: con la scomunica reciproca dei delegati del Pontefice e del Patriarca di Costantinopoli (1054) si ebbe lo scisma tra i Cristiani occidentali e quelli orientali e una decisa competizione tra le due Chiese per l’evangelizzazione dei popoli slavi.7

Nel secolo XIII, quando la teocrazia raggiunse il suo apogeo, ci fu una ripresa del movimento riformatore, rinvigorito da nuovi movimenti nati nei ceti urbani, influenzati da quelli dei “patarini”, che si ispiravano alla semplicità evangelica, condannando la ricchezza e la potenza della Chiesa: nella vita di Cristo, narrata dai Vangeli, trovavano l’esempio di vita umile e il rifiuto della ricchezza terrena, tutto ciò sfociò nella tendenza a imitare tale modello e alla diffusione della parola evangelica senza la mediazione del clero ufficiale, questi movimenti popolari ebbero ovunque un grande sviluppo con peculiarità più o meno radicali.

La Chiesa, saldamente gerarchizzata, recuperò all’obbedienza alcuni di questi raggruppamenti, come una parte del movimento francescano, che formarono i nuovi ordini conventuali dei mendicanti, così detti perché vivevano della carità dei fedeli e non possedevano niente, come era tradizione dei monaci; altri invece che non accettarono la trasformazione in ordine monastico come un’ala del movimento Francescano, quello di Valdo, di Dolcino, degli Albigesi etc., furono considerati eretici, anche se erano lontani dalle grandi eresie dottrinali della fase iniziale del Cristianesimo, ma si limitavano a condannare la potenza politica ed economica, la gerarchia della Chiesa e la disciplina del clero. I nuovi eretici furono oggetto, insieme con gli Ebrei e i Musulmani, di persecuzioni da parte di una nuova struttura giudiziaria: l’Inquisizione, facente capo direttamente a Roma, con il compito di sorvegliare sull’ortodossia e contro ogni forma di contestazione dell’autorità della Chiesa romana.8

Una prima sistemazione del pensiero politico dantesco è già delineata nel “Convivio”: l’esaltazione dell’Impero, voluto da Dio, per mezzo del quale la società degli uomini amanti della virtù, può pervenire ad una vita terrena ordinata e perfetta. L’opera, è scritta da Dante tra il 1304 e il 1307, ovvero nei primi anni dell’esilio, dopo l’esperienza sconvolgente della lotta politica e di una società lacerata da odio e da passioni. Il “Convivio” doveva essere composto da quindici libri, ma fu interrotto al termine del quarto trattato:il Poeta, mosso da una passione intellettuale e da un grande impegno morale, lo rivolge alla vita di tutti, che con precise proposte, intende mondare e migliorare, contribuendo ad un arricchimento culturale di un pubblico nuovo composto da signori e nobildonne, che non potevano accostarsi alle fonti prime della cultura per l’ignoranza del latino. Un pubblico, quindi, di laici, ma di aristocratici, consono alla natura orgogliosa e altezzosamente restia al volgo di Dante. In quest’opera troviamo anche l’asserzione che il desiderio di sapere è connaturato all’uomo, poiché la perfezione della sua natura consiste nell’esplicazione della capacità razionale che lo rende simile a Dio, facendo di se stesso l’apostolo della verità e della cultura come mezzi per rendere più umana la vita associata.9

Il “De monarchia” è un’opera scritta tra il 1312 e il 1313, la terza cantica della “Commedia”, il Paradiso, fu scritta da Dante tra il 1316 e 1321, quindi tra le due opere c’è un arco temporale che va da un minimo di tre ad un massimo di nove anni, ma l’impressione che ne deriva è quella che il Poeta le abbia scritte in tempi molto lontani l’una dall’altra: la prima con la pari dignità e la reciproca autonomia dei poteri imperiale e papale rispecchia notevolmente il periodo storico in cui fu scritta.

La morte di Beatrice, nel 1290, dà inizio ad un periodo molto travagliato e complesso della vita di Dante e che segnerà il suo inserimento in un contesto culturale più ampio e nella vita politica di Firenze: nel 1289 aveva preso parte nella battaglia di Campaldino e, sempre nello stesso anno, alla resa del castello di Caprona, che l’esercito fiorentino tolse ai Pisani. Ma la sua partecipazione alla vita politica si ebbe nel 1295, con l’emendamento apportato agli “Ordinamenti di Giustizia” di Giano della Bella, che consentì la partecipazione alle cariche pubbliche a tutti coloro che fossero iscritti a una Corporazione d’arte e mestieri, Dante s’iscrisse a quella dei Medici e degli Speziali, dando inizio ad una rapida e brillante carriera politica che, nel 1300, lo portò alla suprema carica di Priore.


Giuseppe Bertini, Vetrata dantesca dettaglio, Pinacoteca Ambrosiana Milano

Alle lotte tumultuose di Firenze, divisa tra la fazione dei Guelfi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi e quella dei Ghibellini, capeggiati dalla famiglia dei Donati, si mischiavano odio, interessi personali e ambizioni private; in questa situazione s’introdusse papa Bonifacio VIII, il quale mirava ad estendere il suo potere, aiutato dai Neri, su tutta la Toscana. Dante si schierò dalla parte dei Bianchi, che intendevano conservare inalterati gli ordinamenti comunali e si oppose con fermezza ai disegni espansionistici del Pontefice. Tra il mese di maggio del 1300 e quello di novembre del 1301, l’Alighieri ebbe un ruolo importante nelle turbolente vicende che videro protagonista la città fiorentina: collaborò al benessere e alla pace di Firenze evitando interessi particolaristici, si oppose ad uno stanziamento in favore di Carlo d’Angiò, sancì la condanna al confino dei capi delle due fazioni politiche, tra cui vi era anche il Cavalcanti, ma soprattutto si oppose con grande fermezza alle richieste di Bonifacio VIII.

Nell’ottobre del 1301, Dante fu inviato a Roma, come membro di un’ambasceria al Pontefice e, sulla via del ritorno, presso Siena (gennaio 1302), apprese la sentenza della sua condanna in contumacia all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, al confino per due anni, ad azioni ostili al Papa e alla pace di Firenze, ad una multa e all’accusa di baratteria, comminando l’esilio anche ai figli appena avessero raggiunto l’età di quattordici anni: mentre l’Alighieri si trovava a Roma, con violenze e saccheggi, Corso Donati e i Neri avevano conquistato il potere del Comune fiorentino. Non essendosi Dante presentato a scolparsi, la pena gli fu commutata in quella capitale: cominciò così un esilio che ebbe fine solo con la morte nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 a Ravenna.10

Particolarmente importanti nella sua vita di esule furono gli anni della discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo, eletto Imperatore nel 1308, la cui volontà sembrava quella di interrompere la vacanza imperiale per affermare la propria autorità in Italia, ciò dette al Poeta la grande speranza di poter attuare il suo ideale (egli scrisse ai principi e ai popoli italiani, ferventi epistole, con le quali cercava di favorire l’impresa dell’Imperatore), di cui parlerà nel “De Monarchia” e di cui sarà permeata tutta la “Commedia”, ma nel 1313 Arrigo VII moriva in Italia senza essere riuscito a restaurare l’autorità imperiale: così crollava anche l’ultima speranza personale di Dante di poter rientrare nella sua città e, più in generale, la restaurazione dell’autorità politica imperiale nella Penisola, che il Poeta considerava indispensabile per la rinascita morale, civile e sociale.

A partire dal 1306 e conclusa verso la fine della sua vita, il Maestro scrisse la “Commedia”, animata dal dolore e, insieme, dalla speranza di un riscatto del mondo: tra il “De Monarchia” e la “Commedia” sembra essere una certa contraddizione nel pensiero politico di Dante, ma gli studiosi sono concordi nel sostenere che non si tratta di un cambiamento del pensiero politico, piuttosto una differenza di punti di vista: ancora pieno di speranza nella prima opera, ma quando tutte le speranze politiche e morali cadono, all’Esule fiorentino non resta che concentrare la sua aspettativa di un riscatto futuro sul piano spirituale, conseguentemente la sua aspettativa si orienta sulla Chiesa, non come istituzione temporale, ma come depositaria della Verità di fede, annunziatrice del Regno di Dio, che comincia su questo mondo per poi completarsi e realizzarsi nell’altro, ossia quello della Città celeste.11

Nel Paradiso, Dante rifiuta il presente ingiustificabile e depravato e mitizza il passato, prima un passato remoto, in cui Giustiniano, il quale rappresenta agli occhi di Dante e del Medioevo il modello perfetto dell’Imperatore cristiano, conferisce al suo Impero lo strumento principale di governo: la giustizia e la legge, <<Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, / a Dio per grazia piacque di ispirami / l’altro lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi; / e al mio Belisar commendai l’armi, / cui la destra del ciel fu sì congiunta, / che segno fu ch’i’ dovessi posarmi>>:12 Giustiniano non appena si avviò per la strada che la Chiesa gli aveva indicato, Dio gli concesse la grazia dell’ispirazione per la grande impresa del “Corpus Iuris”, che riordinò e codificò tutto il diritto pubblico e privato di Roma, dedicandosi completamente a questa impresa e affidando quelle militari al suo generale Bellisario, cui la potenza celeste fu così propizia che lo persuase ad applicarsi esclusivamente ad opere di pace. Quasi tutto il VI canto del Paradiso è dedicato alla rievocazione della storia provvidenziale di Roma, che l’Imperatore Giustiniano descrive partendo dalle sue origini troiane per arrivare a Carlo Magno, per confermarne la sacralità e la provvidenzialità, soffermandosi particolarmente a parlare delle imprese di Cesare e Augusto, per giungere al momento centrale della storia dell’umanità e della redenzione, con la morte di Cristo sotto l’Impero di Tiberio, chiudendo poi l’argomento con l’invettiva rivolta contro i Ghibellini e i Guelfi, colpevoli i primi di traviare il significato del potere imperiale, compiendo ingiustizie motivandole dietro il segno dell’aquila; i secondi ancora più colpevoli, poiché il loro contrapporre all’Impero un’altra forza politica mette in crisi l’intera struttura sociale e culturale del Medioevo: <<Faccian li Ghibellin, faccian lor arte / sott’altro segno, ché mal segue quello / sempre chi la giustizia a lui diperte; / e non l’abbatta esto Carlo novello / coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli / ch’a più alto leon trasse lo vello>>.13

Successivamente, nel canto XV della terza cantica, Dante, tramite il suo trisavolo Cacciaguida, immagina un tempo felice, in cui vi era concordia tra Impero e Chiesa nel guidare l’umanità nel suo duplice destino: la felicità su questa terra e la beatitudine eterna. Le parole appassionate e nostalgiche che il Poeta mette in bocca al trisavolo, alter ego di se stesso, ci raccontano il rimpianto per un mondo che non esiste più (o che, forse, non è mai esistito): l’idilliaca società fiorentina dei suoi tempi, dentro una cerchia di mura ancora ristretta, dove i cittadini vivevano una vita austera, onesta e pacifica, nominando alcuni di essi tra i più insigni e mettendone in risalto la vita morale e la sobrietà dei costumi, sottolineando l’ideologia politica conservatrice e filo imperiale.14 Più forte ed evidente risulta nel confronto il contrasto con la corrotta Firenze dei tempi di Dante: la convinzione che la decadenza della città sia causata dalla crescita, dall’avidità e dalla disonestà dei ceti mercantili e dalle lotte intestine, evidenziando la funzione fondamentale dell’Impero, difensore della pace e delle sopraffazioni della Chiesa; dell’ingiusta condanna subita e della predizione della punizione dei colpevoli. L’enunciazione dei luoghi principali dell’esilio; la forza messianica delle rivelazioni di Dante sul mondo ultraterreno dovranno deprecare i vizi dei potenti per ricondurli sulla giusta via e illuminare e guidare tutta l’umanità.15

Nel canto XVI, Cacciaguida risponde alle domande poste da Dante: sul tempo della sua nascita, sulla sua famiglia, sulla popolazione di Firenze antica e su quali erano le famiglie nobili di allora, l’avo, rispondendo alle prime tre domande, polemizza contro il mischiarsi delle genti, con la conseguente corruzione della razza, garanzia di virtù e tradizione; l’inurbamento (la coniazione del verbo inurbarsi è da attribuire a Dante) di tante famiglie del contado, eventi che danno luogo alla corruzione delle antiche tradizioni fiorentine e all’eccessivo ingrandimento della città. Rispondendo all’ultima domanda di Dante, l’avo premette che nominerà molte “schiatte” che nel Trecento si erano ormai estinte e il ricordo di antiche famiglie virtuose evoca per contrapposizione la disonestà di quelle contemporanee al Poeta. Il canto si chiude con l’immagine di Firenze antica, quando non aveva ancora subito sconfitte e non era lacerata dalle divisioni politiche, che iniziarono nel 1215 con la vendetta degli Amidei con l’uccisione di Buondelmente Buondelmonti, che dette luogo alla divisione della città in Guelfi e Ghibellini.16

Quali siano stati i sentimenti di Dante durante il suo esilio lo possiamo capire dalle parole che si fa dire dal suo trisavolo Cacciaguida nel diciassettesimo canto: <<Tu lascerai ogne cosa diletta / Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale>>.17 In questa terzina, molto intensa, possiamo capire l’angoscia dell’esule, costretto a lasciare la propria patria e le cose più care, il dolore di accettare il pane altrui, ossia quanto sia gravoso mettersi al servizio di vari signori, accettarne gli usi, elemosinare la vita di luogo in luogo.

La “Commedia” e, in particolare, il Paradiso riflettono la dimensione spirituale di Dante, in cui sono venute meno molte speranze: egli non è solo il pellegrino di un viaggio eccezionale, ma il giusto, il prescelto da Dio per ricordare all’uomo le vie del bene, egli può andare per i regni dell’oltretomba come, prima di lui, avevano fatto Enea e San Paolo, a lui è concesso di arrivare a mirare Dio per tornare in terra e raccontare agli uomini la sua straordinaria esperienza.18

E’ ancora nel XVII canto, in cui Dante, titubante per la paura, chiede al progenitore Cacciaguida spiegazioni sulle oscure predizioni che gli sono state fatte durante il suo viaggio nell’Inferno e nel Purgatorio, s’introduce così il tema centrale del canto e di tutta la “Commedia”: il destino del Poeta e il significato di questo suo eccezionale viaggio nell’oltretomba. Cacciaguida premette che gli avvenimenti terreni sono presenti da sempre in Dio, ma dipendono anche dal libero arbitrio, dalla possibilità dell’uomo di scegliere e decidere, di far accadere o no una cosa (riprendendo il concetto dalla “Summa Theologia” di San Tommaso ed anche dalla “Consolatione Philosophia” di Boezio).

Dante ci parla del libero arbitrio, nella terza cornice del Purgatorio (canto XVI), quando tra gli iracondi, incontra Marco Lombardo,19il quale spiega al Poeta che la corruzione dell’umanità dipende dal libero arbitrio di cui ogni uomo è dotato: <<Solea Roma, che ‘l buon mondo feo, / due soli aver, che l’una e l’altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo. / L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada / col pasturale, e l’un con l’altro insieme / per viva forza mal convien che vada>>.20 Il male, quindi, non dipende dall’influsso dei cieli, ma dalla volontà umana: gli uomini sanno distinguere il bene dal male e, per il libero arbitrio, sono liberi di fare le loro scelte.21 Dio aveva dato due guide per condurre gli uomini sulla retta via, le leggi vi sono, ma nessuno le esegue e le fa rispettare, il Papa, usurpando il potere che spetta all’Imperatore, è il primo a dare il cattivo esempio annientando l’autorità imperiale e unendo la spada con il pastorale, con conseguenze nefaste.

Questa affermazione, di Dante-Marco Lombardo, esprime sinteticamente il concetto politico dell’Alighieri, già manifestato nel “Convivio”, elaborato nel “De Monarchia”, nelle Epistole politiche e centrale nel Poema, concetto che Dante non abbandonerà nemmeno negli ultimi anni della sua vita, quando si sente promulgatore e profeta della nuova età e latore della buona novella agli uomini di buona volontà. << Per riportare l’umanità sulla retta strada Iddio ha voluto che il suo Figliuolo s’incarnasse e patisse il supplizio, di modo che l’Agnello di Dio ha potuto liberare il genere umano dal peccato originale […] La liberazione dal peccato originale non ha tuttavia consentito che il genere umano fosse immune dal cadere in colpa, poiché una certa infirmitas lo espone al continuo rischio di peccare; la tentazione di Eva s’è trasmessa a tutti i figli della carne. Ma la clemenza del Signore ha voluto fornire agli uomini, nessuno escluso purché sappia esserne degno, i mezzi per sfuggire alla tentazione, evitare il peccato, praticare la virtù, aspirare al gaudio eterno Gli strumenti creati da Dio furono due autorità, l’Impero e la Chiesa: rimedi contro l’infermità derivata dal peccato>>.22

Antonio Maria Cotti (1879), Dante deriso a Verona

Durante i primi anni dell’esilio, Dante ebbe frequenti rapporti con altri fuorusciti Bianchi per cercare il modo di poter rientrare in Firenze, ma furono rapporti molto difficili e con numerosi dissidi, i quali fecero allontanare il Poeta da quella “compagnia malvagia e scempia” e lo portò a “far parte per se stesso”, Cacciaguida consola Dante sugli aiuti e sulla solidarietà che riceverà durante il suo peregrinare in vari luoghi, soprattutto da Cangrande della Scala, anche se l’opinione del Poeta non fu sempre positiva nei confronti degli Scaligeri e sembra che durante la sua prima visita a Verona non sia stato accolto dalla famiglia come avrebbe desiderato.23 Nei versi 76-84 del canto XVII del Paradiso troviamo l’elogio del giovane Can Francesco della Scala, detto Cangrande, elogio che ha fatto pensare agli studiosi ad una identificazione tra questo personaggio ed il Veltro:24

Dante ebbe molta riconoscenza per la grande ospitalità offertagli dallo Scaligero, ma ebbe anche una profonda stima e un sincero affetto per questo personaggio, tanto che a lui dedicò la cantica del “Paradiso” e inviò la celeberrima epistola, importantissima per la comprensione e gli intenti della “Commedia”. L’epistola XIII fu inviata a Cangrande verso il 1317, preceduta da un “accessus ad autorem”, che, previsto dalla scuola medievale, costituiva l’introduzione, presentava sinteticamente l’argomento, l’autore, la forma di trattazione letteraria, il fine, la filosofia e il titolo. Dante si limita ad indicare come argomento trattato la condizione delle anime dopo la morte da un punto di vista letterale e la giustizia di Dio su quello allegorico, sviluppando però due punti molto importanti: la molteplicità di significati che il suo poema ha in comune con la Bibbia, collocandolo in tal modo nell’ambito della letteratura profetica, poiché afferma l’incombente intervento della giustizia divina nella storia umana e la scelta dello stile “comico”, alternato a quello “tragico”, uscendo dalle rigide posizioni scolastiche, forse per poter esprimere meglio la storia dell’umanità nella sua grandezza e nella sua miseria.25

Importantissima è la risposta finale di Cacciaguida, in cui possiamo cogliere il senso di Dante poeta e profeta e di tutta la sua opera: dovrà raccontare tutto quello che ha visto ed appreso senza preoccuparsi di coloro che si sentiranno coinvolti e offesi dai suoi versi, poiché la forza messianica delle sue rivelazioni avrà funzione redentrice per tutta l’umanità, quindi sarà necessario colpire i potenti responsabili della società decaduta e ricondurli sulla giusta strada di Cristo: <<”Coscïenza fusca / o de la propria o dell’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca. / Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, / tutta tua visïon fa manifesta; / e lascia pur gratta dov’è la rogna. / Che se la voce tua sarà molesta / nel primo giusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta. / Questo tuo grido farà come vento, / che le più alte cime più percuote; / e ciò non fa d’onor poco argomento. / Però ti son mostrate in queste rote, / nel monte e ne la valle dolorosa / pur l’anime che son di fama note, / che l’animo di quel ch’ode, non posa / né ferma fede per essempro ch’aia / la sua radice ingognita e ascosa, / né per altro argomento che no paia”>>.26

Il XVII canto esprime il dolore del Poeta esule, dolore dignitoso, virile, conciliabile con la sua coscienza altera e onesta, che troviamo già ispirata in altri punti del poema: dalla profezia di Brunetto Latini alla vicenda di Romeo di Villanova,27 e che ama ancora la sua patria nonostante sia “disonesta e vile”. Questo canto mostra il ritratto di Dante <<…quale era dopo il bando dalla sua città natale, con que’ suoi lineamenti risentiti, con quel suo sguardo chiaro e fiero, appena temperato dalla malinconia della sventura e della dolcezza degli affetti radicati nell’intimo del cuore. Tutti gli accenni del poema all’esilio, i rimpianti del passato gentile e onesto, gli sdegni contro le malvagità dei grandi mettono capo a questi tre canti (XV, XVI, XVII), e vi si sublimano nel loro accento – più austero, nel loro ritmo – più tranquillo. C’è in essi la fermezza delle convinzioni durature più che lo sdegno dei contrasti più o meno passeggeri con gli uomini. Il Dante di questi canti non è il Dante delle invettive, ma quello dei colloqui con se stesso: è un Dante più intimo, quello che diffonde il calore morale in tutte le vene del suo poema. E’ il Dante “tetragono ai colpi di ventura”, armato solo della sua coscienza e – nella sua coscienza – sicuro. C’è in essi un pathos virile e chiuso>>.28

Di Dante poeta e profeta Bruno Nardi scrive: <<In ogni poeta veramente ispirato, c’è la natura del profeta, e il profeta è a suo modo poeta. Per questo i poeti furon detti vati e interpreti degli dèi, e creduti parlare afflante numine; per questo ancora gli stessi teologi riconobbero quello che d’immaginario e fantastico v’è quasi sempre nelle visioni profetiche.[…] Il profeta, sia esso Mosè o Maometto, Ezechiele o l’abate Gioachino, è l’uomo che, raccogliendosi a meditare sulle condizioni storiche del suo popolo, avverte il travaglio profondo e le aspirazioni d’un’epoca, ne intuisce le forze latenti, ne divina lo sviluppo, presentando il fatale scioglimento del dramma sociale di cui vive la passione. Di questo dramma egli non è solo inerte spettatore, ma spesso attore non secondario, la cui parte è quella d’incitare i volenti, denunciare e sferzare i malvagi, additare la mèta segnata da Dio>>.29

Il linguaggio di Dante profeta non è quello accorto e prudente del politico e nemmeno quello tranquillo del filosofo, ma un linguaggio infervorato e fiammeggiante (infuocato) che sgorga dalla sua interiorità, e i pensieri si manifestano in immagini vive che formano la visione drammatica, che per l’Alighieri non si tratta di un artificio letterario, ma di una vera visione profetica, concessa a lui da Dio, per rivelare all’umanità, una volta tornato tra i vivi, la verità sulle cause della degenerazione del mondo.30

L’esaltazione della giustizia la ritroviamo anche nel canto XX del Paradiso, dove un’aquila sfolgorante, costituita dagli Spiriti del cielo di Giove, sprona Dante a fissare il suo occhio formato dalle anime somme. Il Poeta parla di imperatori e re del passato famosi per la loro integrità morale come David, Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II d’Altavilla e Rifeo: la presenza in Paradiso di Traiano e di Rifeo stupirà Dante, poiché si tratta di pagani, quindi esclusi dalla salvezza, ma, essendo il mistero della predestinazione insondabile per le menti umane, le due anime, per grazia particolare di Dio, ebbero la possibilità di credere in Lui e, nonostante pagani, poterono salire alla beatitudine eterna. L’esule fiorentino non manca di ribadire il trasferimento della capitale dell’Impero romano da Roma a Bisanzio e come la “donazione” di Costantino avesse dato luogo al potere temporale dei Papi, però viene precisato anche che tale donazione fu fatta a fin di bene e il male che ne derivò non nocque alla sue eterna beatitudine: <<L’altro che segue, con le leggi e meco, / sotto buona intenzion che fé mal frutto, / per cedere al pastor si fece greco: / ora conosce come il mal dedutto / del suo bene operar non li è nocivo, / avvegna che sia ‘l mondo indi distrutto>>.31

Durante il Medioevo era famosa la leggenda secondo la quale le preghiere del papa Gregorio Magno, commosso da tanta umanità e giustizia di questo Imperatore, il quale aveva punito gli assassini del figlio dell’umile vedova, lo riportarono in vita per breve tempo, ma sufficiente per ricevere il Battesimo e, quindi, morire da cristiano: <<L’anima glorïosa onde si parla, / tornata ne la carne, in che fu poco, / credette in lui che potëa aiutarla; / e credendo s’accese in tanto foco / di vero amor, ch’a la morte seconda / fu degna di venire a questo gioco>>.32

Il caso del troiano Rifeo è diverso perché non ebbe rivelazioni e visse in una realtà completamente pagana, ma ricevette da Dio il dono di una fede che lo spinse ad agire e a pensare nell’ambito della giustizia e a credere in una futura redenzione; il Poeta prese spunto dall’”Eneide” di Virgilio, dove Rifeo è un personaggio secondario e di cui si parla molto poco, ma è detto “il più giusto dei Troiani e il più rispettoso dell’equità”.33

Contro la corruzione del Papato “esplode” la violenta invettiva che Dante fa dire a San Pietro, nel canto XXVII, che con il pontificato di Bonifacio VIII ha reso Roma, luogo del suo martirio, una fogna: <<Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio, / fatt’ha del cimitero mia cloaca / del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso / che cadde di qua su, là giù si placa>>.34All’invettiva di San Pietro si aggiungerà quella, a fine canto, di Beatrice contro l’umanità corrotta ed entrambe si concludono con delle profezie di speranza.

L’ostilità di Dante verso Bonifacio VIII non nasce solamente da fatti personali, ma anche dalla politica di questo pontefice, ispirata al principio teocratico della superiorità assoluta dell’autorità papale nei confronti di ogni altra autorità, la cui espressione più alta è rappresentata dalla bolla “Unam Sanctam”, del 18 novembre 1302, in cui si sostiene che la Chiesa è detentrice del potere temporale oltre a quello spirituale.

L’invettiva arriva al suo punto culminante con le parole di San Pietro, il quale dichiara che in mezzo alla cristianità, invece dei pastori, si aggirano lupi rapaci: <<In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua sù per tutti i paschi: / o difesa di Dio, perché pur giaci?>>,35quindi l’indignazione si estende a due futuri papi, Clemente V e Giovanni XXII, che nel 300 si preparavano a bere il sangue dei martiri, ovvero sfruttare a loro vantaggio i beni della Chiesa fondata dal sangue dei martiri. Ma oltre che il canto dell’invettiva di San Pietro, questo è anche l’ultimo canto “terreno”, cioè destinato animatamente alla condizione umana dell’umanità ed è anche un canto in cui ritornano quasi tutti i presupposti che contraddistinguono la caratteristica narrativa e la poesia del Paradiso: il biasimo della miseria umana, la descrizione della luce e del moto dei beati, il passaggio di cielo in cielo di Dante e l’alta illuminazione intellettuale, la raffigurazione di Beatrice, la quale nonostante la sua missione celeste e l’illuminante pietà verso Dante, conserva ancora un fascino terreno, oltre a quelli della profezia e dell’invettiva.36

Alla fine del XXX canto, le parole di Beatrice condannano la cupidigia umana e la malvagità dei due principali colpevoli della corruzione che sta dilagando nel mondo: Clemente V e Bonifacio VIII, il primo, che è colpevole di avere avuto un comportamento ambiguo con l’Imperatore e di non avere appoggiato l’impresa di Arrigo VII, raggiungerà all’Inferno Bonifacio VIII nella terza bolgia, dove sono condannati i papi simoniaci, conficcati a capo in giù dentro una buca scavata nella roccia, da dove fuoriescono le piante dei piedi fiammeggianti: quando arriva un nuovo papa simoniaco, spinge dentro la buca il precedente ed è proprio quello che accadrà a Bonfacio VIII quando arriverà in quel luogo infernale Clemente V, che spingerà il suo predecessore nelle viscere della terra. Questa è l’ultima invettiva politica della “Commedia”, in cui Dante coglie l’occasione per tornare sulla polemica contro alcuni papi e il malgoverno della Chiesa, biasimando con durezza l’operato di Clemente V, ma ribadendo anche l’ulteriore condanna verso Bonifacio VIII.37

Lo scopo etico di questa grandiosa opera è definito da Dante, come già accennato precedentemente, nella Lettera (XIII) a Cangrande della Scala, suo protettore, con cui gli comunica il proposito di dedicargli la terza parte del suo poema: il Paradiso, di cui da poco aveva iniziato la composizione, comprensiva di un commento sulla materia e i fini di tutta l’opera. La lettera comprende tre nuclei principali: la “salutatio gratulatoria”, dove il poeta elogia la grandezza e la giustizia politica di Cangrande; l’esposizione dei criteri generali necessari alla comprensione di tutto il poema; un commento dei primi versi del “Paradiso”. La parte centrale segue gli schemi tradizionali dell’esegesi medievale, in cui Dante descrive separatamente sei elementi, il “subiectum”, l’”agens”, la “forma”, il “finis”, il “genus phylosophie” e il “titulus” dell’opera da capire sia secondo il significato letterale che quello allegorico: il “subiectum”o tema della narrazione, che da un punto di vista letterario è la rappresentazione dei tre regni ultramondani percorsi dal Maestro fiorentino, ma allegoricamente rappresenta la condizione dell’uomo, il quale si rende meritevole del castigo o della Grazia divina, in quanto dotato di libero arbitrio. Passa poi all’”agens”, in cui Dante è allo stesso tempo poeta e personaggio, autore e protagonista, quindi garante della verità letterale della sua storia; la “forma” e il “finis” costituiscono rispettivamente la veste stilistico-dottrinale del poema e il tema dell’intero poema, ossia il proposito del Poeta di riscattare il genere umano dalla sua corruzione e degenerazione morale per guidarlo verso la beatitudine eterna. Il “genus phylosophie” è da intendersi come il genere filosofico in cui si inquadra il proposito operativo di dante, ovvero la disciplina filosofica dell’etica che è strumento di riflessione sui fondamenti del retto agire; il “titulus”, è “Comedia Dantis Alagherii, fiorentini natione, non moribus”, che manifesta il significato che il Maestro attribuisce all’argomento della sua opera, conforme al valore che si attribuiva ai termini medievali di tragedia e commedia: egli chiama “Comedia” il suo poema perché la materia, dopo un esordio drammatico e pauroso, si risolverà in un finale positivo e piacevole, ossia la “visione” del “Paradiso”. Proprio per questo, il Poeta ha scelto, nel rispetto della forma e della materia, un linguaggio particolare: quel volgare che è la lingua degli indotti e persino delle donne.38

Il 20 gennaio 1320, Dante si trova a Verona e, davanti a gran parte del clero cittadino e funzionari della corte scaligera, si appresta a dibattere un argomento di filosofia naturale: “Questio de situ et figura, sive forma, duorum elemento rum, atque vide licet et terre” (Questione intorno al luogo e alla figura, o forma, dei due elementi, cioè l’acqua e la terra). La disputa quodlibetale aveva come tema un argomento molto attuale ai tempi e studiato da molti filosofi, astronomi e cosmologi: il problema dell’equilibrio reciproco tra solidi e liquidi, particolarmente tra la terra e il mare, problema già trattato da Aristotele e, più tardi, da scienziati arabi e scolastici.

La redazione scritta di questa dissertazione tenuta da Dante quel giorno a Verona fu l’ultima opera latina del Maestro fiorentino: “Questio de aqua et terra”, composta circa un anno prima della sua morte, che riprese il tema di una discussione tenutasi a Mantova qualche tempo prima, anche se gli studiosi hanno disputato a lungo sulla sua autenticità: egli sostenne la tesi secondo la quale la terra abitata era una protuberanza emergente dalla sfera dell’acqua nell’emisfero boreale ed identificò la causa di tale protuberanza della terra nell’influsso delle stelle, in evidente contrasto con la sua concezione cosmologica esposta nell’Inferno (canto XXXIV), in relazione con la caduta di Satana. Ma Dante non si contraddice (smentisce) anzi quest’apparente contraddizione è la prova che egli è consapevole della differenza tra un’idea fantastica e l’elaborazione di un concetto scientifico; alla fine della “Questio” si definisce “filosofo minimo” e <<restò sempre fedele alla libertà intellettuale ispiratrice del suo lungo amore della sapienza, frutto della mente umana. E fu il raro caso di un eccelso poeta che volle unire la sua sublime capacità d’invenzione alla ricerca della verità del sapere e della libertà della ragione>>.39

La produzione letteraria medievale è caratterizzata da una spiccata tendenza didascalica e ancor più didattica, che si evidenzia soprattutto nelle opere finalizzate alla divulgazione delle conoscenze o all’educazione di principi morali e religiosi: sia la letteratura sacra sia quella più profana presenta scarsa invenzione e fantasia, facendo dell’arte lo strumento per dispensare monotoni avvertimenti morali, consoni alla visione cristiana medievale che concepisce la vita terrena come una preparazione a quella eterna. Anche la filosofia scolastica influenza ed ispira la letteratura con motivi di meditazione spirituale e morale, fino a quando, dopo la prima metà del Duecento, nella Facoltà delle Arti di Parigi, compaiono le opere allora conosciute di Aristotele, dando luogo a orientamenti diversi di pensiero, che si fronteggiano sul piano dialettico tra coloro che propendono per un atteggiamento “naturalista” e coloro che tendono verso una forma “razionalista”.

Dal IV secolo si va affermando il pensiero cristiano con la Patristica, la cui fonte basilare è il platonismo elaborato nella versione cristiana da Sant’Agostino, questa forma filosofica influenzerà la cultura occidentale fino al X secolo circa, ma dopo il Mille, in seguito ai profondi cambiamenti storici, nascono nuove esigenze culturali, meno dogmatiche e più pratiche, insieme alla necessità di scolarizzare: nasce la Scolastica che elaborerà gradualmente il sistema aristotelico e sarà la filosofia dei secoli XII-XIII e parte del XIV.

Tra la Patristica e la Scolastica vi fu una differenza fondamentale: la fede, la Patristica, sentiva la necessità di darsi un corpo dottrinale, commisurandosi alla ragione e individuando nella filosofia le formule a tutto ciò; la Scolastica, che aveva trovato le formule dogmatiche già determinate, si pone il problema di come la ragione possa arrivare alle verità di fede, ossia dà alla ragione il modo di commisurarsi alla fede. Durante il secolo XII abbiamo il periodo della maturità della Scolastica, con la scoperta del sistema aristotelico e con le correnti del pensiero arabo che s’infiltrano in quello del mondo latino, accrescendone notevolmente il patrimonio della ragione.40

Nelle Università, tra le tante discussioni dialettiche, fu di particolare importanza il problema degli “universali”, che dette luogo a orientamenti contrastanti (“realismo” trascendente (universalia ante rem), “realismo” immanente (universalia in re), e concettualismo (universalia post rem)con orientamento nominalistico), ma l’importanza storica di questo problema fu che, sorto come semplice questione logico-grammaticale, presto venne applicato alla teologia, permettendo la critica razionale nel campo della fede, scatenando la reazione dei teologi più intransigenti (San Pier Damiani), che non concordano con l’attività dialettica della ragione, applicata alla fede ed esaltano l’onnipotenza di Dio contro i principi razionali fondamentali. All’opposto si trova il razionalismo cristiano, con Sant’Anselmo d’Aosta, che è il maggiore esponente di questo pensiero e che fa del motto agostiniano “Credo ut intelligam”il suo emblema.41

Il fervente risveglio di pensiero, che si ha nel secolo XII, mette in luce un centro importantissimo e molto prolifico: la Scuola di Chartres, dove era vivo il senso della continuità storica col passato classico, l’amore per la dialettica, la scoperta di libri fino ad allora sconosciuti, gli studi naturalistici con il contributo della cultura araba, in metafisica alcuni studiosi svilupparono motivi platonici in senso panteistico, grazie alla loro arditezza, emblematica la celeberrima frase attribuita da Giovanni di Salisbury al suo maestro Bernardo di Chartres: <<Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique propriis visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea>>. (Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti).42

Ma la figura che meglio incarna lo spirito del tempo è Pietro Abelardo (1079-1142), acceso sostenitore dei diritti della ragione anche nelle indagini sugli oggetti di fede, è considerato, con Anselmo d’Aosta, come uno degli iniziatori del metodo scolastico; Bernardo di Chiaravalle (1091-1153), esaltatore dello spirito mistico nella forma antidialettica, fu il suo più inesorabile antagonista.

Nel secolo XIII ci fu un grande rinnovamento culturale, dovuto principalmente alla diffusione del pensiero aristotelico nel mondo latino, sia con le opere originali sia con le rielaborazioni degli Arabi; all’organizzazione delle Università (Parigi 1090 circa, Oxford 1096 circa, Bologna 1088, studi giuridici) e all’istituzione dei due grandi ordini religiosi: i Domenicani e i Francescani. Il mondo arabo aveva già assimilato precedentemente la filosofia e la scienza greche, ancora in gran parte ignote alla cultura occidentale: anche la filosofia araba si proponeva il tentativo di trovare una via d’accesso razionale alla verità rivelata e stabilita nel “Corano”, inoltre la filosofia araba di questo periodo pone le basi in quella greca, specialmente del neoplatonismo e dell’aristotelismo, evidenziando in tal modo molti caratteri di somiglianza con quella cristiana e ciò spiega l’influenza profonda che il pensiero arabo ha esercitato nella Scolastica nei secoli XIII e XIV, pur tuttavia rivelandosi in alcuni punti inconciliabili.43

Il sistema aristotelico dominava il pensiero greco, anche se con infiltrazioni neoplatoniche e la spinta alla speculazione di tale sistema era dato agli Arabi dalla necessità di stabilire se la dottrina razionale aristotelica poteva conciliarsi con quella rivelata dal Corano: più tardi il problema si sarebbe presentato analogamente nella Scolastica cristiana. I più grandi interpreti arabi di Aristotele, che influirono maggiormente nel pensiero occidentale furono Avicenna (attivo in Oriente nel sec. XI; fu anche grande cultore di medicina, con orientamento generale conforme alla dottrina di Galeno), e Averroé (attivo in Spagna nel sec. XII, il grande commentatore di Aristotele che sosteneva l’indipendenza delle verità di ragione da quelle di fede).44

Ibn-Sina, che in Occidente fu noto col nome di Avicenna, fu un famoso medico persiano, oltre che filosofo e massimo rappresentante del neoplatonismo (morì a 57 anni nel 1037), egli elabora una metafisica sull’affermazione della necessità dell’essere, ossia l’affermazione che tutto ciò che è o accade, è o accade necessariamente e non potrebbe essere o accadere in modo diverso, in altre parole: <<Le cose naturali, in quanto esistono, sono necessarie perché derivano necessariamente da Dio, essere necessario. Perciò la creazione non è un atto libero, ma un processo che ha la sua prima origine in Dio e che si svolge necessariamente. Tutto quello che esiste nel mondo naturale è quindi necessitato ad esistere. A. giustifica la predizione astronomica: l’azione di Dio sulle cose naturali si verifica attraverso il tramite degli astri e dalla conoscenza degli astri si può quindi desumere quella di ciò che accade sulla terra. Se l’uomo conoscesse perfettamente i movimenti degli astri, la sua predizione del futuro sarebbe infallibile; ma poiché la conoscenza non è completa, le sue predizioni sono spesso incerte o fallaci>>.45

Averroè (Ibn-Rashid), nacque a Cordova nel 1126 e morì nel 1198. Averroè fu il commentatore di Aristotele, il quale rappresenta “la regola e l’esemplare che la natura creò per dimostrare l’ultima perfezione umana”, il pensiero aristotelico è, quindi, la verità e Averroè si propone di esporla e chiarirla, inoltre sostiene che sia in pieno (fondamentale) accordo con la religione musulmana, anzi serve ad estrinsecare meglio la verità che tale religione contiene. Ma, secondo Averroè, l’insegnamento fondamentale del pensiero di Aristotele è la “necessità” di tutto ciò che esiste: il mondo è eterno, in quanto necessaria manifestazione di Dio stesso, quindi deriva dalla stessa natura di Dio, il quale è eterno. L’origine del mondo è tale che non può essere modificato dall’uomo, ma dirige l’azione dell’uomo, che non ha alcuna capacità di libertà di iniziativa. Tutto questo, ossia la necessità dell’ordine del mondo, fu molto importante per l’indagine scientifica, che, nel Rinascimento, sarà animata dalla fiducia di poter scoprire nei fatti naturali un ordine necessario. La conoscenza umana nasce dalla partecipazione dell’uomo all’intelletto divino e da questa partecipazione scaturisce una “disposizione” capace di astrarre le forme intelligibili dalle cose, formando i concetti: riprendendo e modificando il concetto di luce e dei colori aristotelico, afferma che come il sole illumina l’aria portando all’atto i colori delle cose, allo stesso modo l’intelletto attivo illumina quello potenziale e dispone l’anima umana, che fa partecipa di quest’ultimo, ad astrarre i concetti e le verità universali dalle rappresentazioni sensibili, ne consegue che l’intelletto è unico per tutti gli uomini ed è separato dalla loro anima. Da notare che sia la dottrina dell’eternità del mondo, che nega la creazione libera, sia quella della separazione dell’intelletto dall’anima, che nega l’immortalità dell’anima, erano in netto contrasto con il credo musulmano e con quello cristiano.46 Averroè sosteneva, inoltre, che l’attività razionale era la fede religiosa del filosofo e che le credenze religiose rappresentavano un’alternativa a tale attività: gli scolastici cristiani interpretarono questo pensiero come teoria della “doppia verità”, ossia una verità di ragione cui l’uomo arriva per mezzo della filosofia e una verità di fede rivelata e imposta dalle autorità religiose; a tale dottrina si appellarono molti filosofi durante il Medioevo e nel Rinascimento.47

Fino a tutto il XII secolo, per i filosofi conoscere e spiegare una cosa significava rappresentare tale cosa come simbolo e non ciò che appare nelle sue modalità di manifestazioni, perché mancava la concezione di una natura che avesse una struttura in sé e una intelligibilità per sé; ma nel secolo successivo, questo concetto si forma con la scoperta della fisica di Aristotele: l’impatto della filosofia aristotelica con le Sacre Scritture e la tradizione cristiana dà origine ad un aristotelismo cristianizzato, che conduce alla teologia scolastica.

Con le Crociate e gli scambi commerciali sempre più frequenti, poi con la conquista araba della Spagna si erano stabiliti stretti rapporti intellettuali tra l’Occidente cristiano e l’Oriente islamico, che arricchirono il pensiero latino con il ricco patrimonio filosofico e scientifico conquistato dagli Arabi, assimilando ed elaborando la cultura ellenica.48

Agli inizi del sec. XIII le scuole di Parigi si organizzarono in Università, differenziando quattro Facoltà: di medicina, di diritto, delle arti (comprendente matematica, lettere e filosofia) e di teologia. Alla nuova Università furono concessi dai pontefici larghi privilegi, la presero sotto la propria protezione con l’obiettivo di farne la roccaforte della fede e dell’ortodossia cattolica, sorvegliando il suo funzionamento e subordinando alla Facoltà di teologia tutte le altre, assicurandosi in tal modo che nel mondo della cultura rimanesse sempre lo spirito ecclesiastico cattolico, nonostante le agitazioni che avevano portato le correnti di pensiero arabe. I Domenicani e i Francescani furono il mezzo per attuare questo piano di teocrazia intellettuale, che, con l’aiuto dei pontefici, riuscirono ad abbattere l’accesa resistenza dei maestri secolari dell’Università di Parigi e ad ottenere alcune cattedre: fu proprio la rivalità sorta tra i due Ordini che dette luogo a una tradizione filosofica propria, che, a sua volta, dette un impulso fruttuoso allo sviluppo del pensiero scolastico.

Nei secoli XII e XIII, le numerose traduzioni latine delle opere di Aristotele e dei suoi commentatori, cominciarono a circolare nella cultura occidentale, che si pose l’esigenza di prendere posizione davanti ad una nuova visione dell’universo contenuta in esse, considerando che lo Stagirita divenne ben presto la personificazione della ragione umana a prescindere dalla rivelazione. I concetti aristotelici, ovviamente, erano in contrasto con il Cristianesimo, soprattutto in tre punti principali: l’universo è eterno o aveva avuto un principio? Dio agisce direttamente sul mondo per mezzo della Provvidenza o indirettamente tramite le Intelligenze celesti da Lui emanate? L’anima individuale è immortale o perisce col corpo? Tutto ciò generò accanite discussioni e insormontabili contrasti, con la conseguente condanna che inizialmente diede la Chiesa alle dottrine aristoteliche.

Un primo indirizzo di pensiero scolastico fu quello del francescano San Bonaventura da Bagnoregio (Giovanni Fidanza. 1221-1274), nel XIII secolo, il quale ha un rifiuto dello spirito dell’aristotelismo e riafferma il principio indissolubile dell’unità di fede e ragione proclamato da Sant’Agostino precedentemente al periodo scolastico, in quanto sostiene che solo la fede dà il nutrimento vitale alla ragione, conferendo valore alle indagini particolari, in tal modo Bonaventura coglie l’aspetto centrale della filosofia francescana: la presenza di Dio nel mondo, le cose della natura come segni di una realtà soprannaturale, una filosofia che prende in considerazione l’aspetto più superficiale delle cose, in quanto derivante dai sensi, l’anima conosce Dio e se stessa senza l’aiuto dei sensi esterni, trascurando la realtà più profonda che si può apprendere solo dalla rivelazione. Per il filosofo francescano la mente deve seguire un “Itinerario”che la guiderà a Dio: le considerazioni delle cose sensibili come “vestigia” o tracce di Dio, la riflessione dell’animo in se stesso come “imagine” di Dio, e la penetrazione mistica nella realtà eterna e trascendente, nel mondo ideale che è “similitudine” di Dio.49

Alberto dei conti di Bollstädt, meglio conosciuto come Alberto Magno, nacque a Lavingen (Svevia) nel 1193; fu maestro di teologia a Parigi e a Colonia, morì nel 1280. Egli fu il primo a rendersi conto che il processo di identificazione della ricerca filosofica con lo studio del pensiero aristotelico era inevitabile: la sua vastissima opera è un rifacimento personale di tutta l’enciclopedie di Aristotele, utilizzando anche gli interpreti arabi e giudaici. La sua pretesa consiste nel voler esporre le opinioni dello Stagirita e dei Paripatetici, con la convinzione che la filosofia di Aristotele sia l’opera più perfetta cui può arrivare la ragione umana. Alberto Magno separa nettamente la ricerca filosofica dalla teologia, in quanto la prima deve servirsi esclusivamente della ragione e procedere per via di dimostrazioni necessarie; la seconda si serve di principi ammessi per fede, stabilendo in tal modo una netta separazione tra la filosofia e la teologia.50 (NOTA Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1991, Vol. I, pp. 349-350.)

Completamente opposto l’indirizzo del domenicano Tommaso d’Aquino (1225-1274), destinato a trionfare nella Chiesa e che ritiene superabile il contrasto tra aristotelismo e Cristianesimo, dando una nuova svolta al pensiero cristiano con una profonda rielaborazione della filosofia aristotelica: secondo Tommaso, la ragione è autonoma rispetto alla fede, quindi indipendente dalla rivelazione, la filosofia o conoscenza razionale ha una sua competenza, distinta dalla teologia, le cui verità non sono dimostrabili in quanto soprarazionali, Dio non può essere intuito direttamente, perché la sua esistenza deve essere dimostrata con argomenti provenienti dall’esperienza sensoriale, ne consegue che l’impossibilità della visione diretta di Dio spinge alla necessità di dimostrarne l’esistenza a posteriori e Tommaso lo fa attraverso le “cinque vie”.51

Secondo Tommaso, il mondo è stato creato da Dio con un atto di libera volontà, ciò significa che l’esistenza del mondo non è necessariamente connessa all’essenza divina: Aristotele fa una distinzione tra potenza e atto per tutti gli esseri finiti, e tra materia e forma per tutti gli esseri corporei, la forma è comune a tutti gli individui della stessa specie, invece la “materia segnata” è ciò che differenzia un individuo da un altro della stessa specie (principio d’individuazione). L’uomo è un organismo corporeo, in quanto essere animale e, sia per l’Aquinate sia per lo Stagirita, il suo principio informativo è dato da un’anima vegetativa e sensitiva, ma essendo un essere ragionevole è sostanza spirituale, fornita di intelletto individuale, connesso e fuso con l’anima sensitiva e con quella vegetativa che informa il corpo, creato direttamente da Dio. La funzione fondamentale della conoscenza è l’astrazione: non esistono idee innate, quindi il processo della conoscenza razionale deve muovere dalla sensazione: “nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensu”. Nella sensazione il soggetto accoglie in sé la “forma sensibile” dell’oggetto; nell’intellezione separa dall’immagine sensibile la forma intelligibile (essenza concettuale). La verità è corrispondenza tra il concetto attuato nel nostro intelletto (universale post rem) e l’intelligibile che è nella cosa (universale in re), che, a sua volta, è il riflesso dell’idea della Mente divina (universale ante rem).52

L’opera di Tommaso segna una tappa decisiva nella Scolastica, il lavoro iniziato da Alberto Magno, suo maestro, viene da lui continuato e portato a compimento: l’aristotelismo diventa, attraverso la speculazione tomistica, accomodante e malleabile alle esigenze della spiegazione cristiana. Per Tommaso il pensiero di Aristotele appare come il termine ultimo della ricerca filosofica, arriva dove la ragione umana poteva giungere, al di là non c’è che la verità soprannaturale della fede e il compito che Tommaso si assume è quello di integrare e conciliare la filosofia con la fede, l’opera dello Stagirita con la verità rivelata all’uomo da Dio e di cui è depositaria la Chiesa.

Nell’Università di Oxford, molto importanti furono i francescani Giovanni Duns Scoto (1308) e Guglielmo D’Occam (1350): il primo accentuò la separazione tra fede e ragione e la natura soprarazionale delle verità rivelate; il secondo sostenne che il sapere intuitivo ha maggiore valore conoscitivo di quello concettuale (empirismo), e, avendo la ragione potere solo nel campo dell’esperienza, gli oggetti di fede sono per definizione trascendenti l’esperienza, quindi la fede e la ragione sono separate tra loro. Nei secoli XIV e XV la filosofia di Occam ebbe grande fortuna, ma allo stesso tempo fu l’elemento fondamentale del declino della Scolastica, il cui compito era stato quello di razionalizzare la fede, che ora viene dichiarata del tutto soprarazionale; la ragione umana si limita alla fisica e alla critica logica di se stessa e afferma gradualmente la sua libertà e la sua autonomia da ogni autorità divina e umana, sostituendo alla cosmologia aristotelica nuovi concetti anticipatori della scienza moderna.53 L’influenza di questa ricca e vivace atmosfera culturale, che animava le dispute filosofiche, teologiche, scientifiche e politiche della fine del secolo XIII e l’inizio del XIV, trova grande raffronto nelle opere poetiche e dottrinali di Dante, ma soprattutto nell’imponente sistema poetico-religioso-filosofico della “Commedia”.

Dante, come già detto, scrisse il “Convivio” tra il 1304 e il 1307, un’opera, composta da quindici trattati, come egli stesso definisce “sì d’amore come di virtù materiate”, ossia di contenuto filosofico, ma fu interrotta al termine del quarto trattato, nel primo egli esprime i caratteri dell’opera: il suo intento è quello di bandire un banchetto di sapienza per coloro che per vari motivi non hanno potuto compiere gli studi e sono stati sviati dalla sapienza e dalla filosofia, che sono i presupposti per il raggiungimento della perfezione dell’uomo, quindi Dante non ha intenzione di scrivere un’astratta enciclopedia filosofica, ma un’opera rivolta ad illuminare coloro che devono guidare i popoli, alle donne ispiratrici delle virtù negli uomini, e in grado di suscitare i buoni costumi perduti. Il secondo trattato, di commento alla canzone “Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete”, parla di come Dante si sia accostato agli studi della filosofia, in cui ha trovato l’amore, dopo il grande dolore per la morte di Beatrice.

La filosofia è detta da Dante “Donna gentile” che dà salute e felicità allo spirito; la “Donna gentile era stata già menzionata nella “Vita Nova”, ma con un significato molto diverso: rappresentava un’infedeltà alla memoria di Beatrice, mentre nel “Convivio” simboleggiala perfezione morale e l’ascesa verso la verità.54 Nel terzo trattato, elogio della sapienza e commento alla canzone “Amor che ne la mente mi ragiona”, l’ardore (passione) per la filosofia diventa un vero inno e l’amore per la verità è, insieme con la giustizia, l’ideale più alto. Nel quarto trattato Dante si distacca dai problemi filosofico-teologici per parlare della moralità e dove appare una prima sistemazione del suo pensiero politico.55

Sia nel “Convivio” sia nel “De Monarchia” Dante adotta il procedimento scolastico della “questio” posta e poi discussa nei suoi “articula” che la compongono, usufruendo anche del supporto delle “auctoritates” (la Bibbia, i classici, i filosofi), per arrivare al “responso”, l’esito conclusivo che chiude la discussione. Il ragionamento parte dall’universale per arrivare al particolare, usando gli strumenti della deduzione e del sillogismo, soffermandosi a discutere le obiezioni alle sue tesi. In questo schema rigoroso, Dante crea degli spazi con digressioni, che animano gli argomenti filosofici permeati dal suo ardore morale per la verità.56 Nel “Convivio”, Dante per spiegare cosa sia la filosofia si avvale della celeberrima affermazione con cui Aristotele inizia la “Metafisica”: il desiderio di sapere è connaturato in tutti gli uomini, poiché la scienza è l’ultima perfezione dell’anima umana <<Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che in ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti>>.57 Dante conosceva Aristotele solo indirettamente, soprattutto grazie ai “Commentaria” di Tommaso d’Aquino; per il Poeta Aristotele era il filosofo per antonomasia, nell’Inferno lo definirà <<’l maestro di color che sanno>>.58 Per Dante la filosofia è l’amore disinteressato della verità, la ricerca di quella sapienza nella quale gli uomini possono trovare la perfezione e la felicità.

Rifacendosi ai contenuti della Scuola peripatetica, il Maestro fiorentino sosteneva che solo in Dio, somma sapienza, si trova la fonte del sapere, principio unitario di molte scienze e forma di un’unica verità, infatti sia nel “Convivio” sia nel “De Monarchia”, egli rimane fermo nelle sue opinioni etiche e politiche. In vari passi del “Convivio” Dante insiste sul carattere divino della filosofia, avvicinandosi alle dottrine di Alberto Magno e ad inclinazioni (orientamenti) platoniche, considerando tale disciplina la più degna di studio per l’inscindibile unione tra l’anima e la verità.59

Ricostruire la formazione filosofica di Dante sarebbe estremamente complicato, in primo luogo l’incertezza dei dati a disposizione degli studiosi, in secondo luogo l’impossibilità di conoscere la derivazione del suo pensiero, criticamente ricco anche delle teorie di illustri insegnanti conosciuti a Firenze durante la sua gioventù: chiara è l’influenza di Brunetto Latini per la conoscenza dei classici e della letteratura francese e, soprattutto, con un’opera come il “Tresor”.

A proposito della possibilità di studio che Dante poteva avere avuto, specialmente durante l’esilio, il Petrocchi scrive: <<La biblioteca dell’Alighieri non fu certo molto ricca. La povertà del soggetto non lo consentiva, e così i continui traslochi da un luogo all’altro. Tuttavia si può opinare che possedesse una dozzina di auctores, tra classici e cristiani, un’epitome (magari una sola)storica e una geografica, o storico-geografica assieme, una piccolissima raccolta di poeti provenzali, francesi e italiani, forse le Razos de trobar di R. Vidal e la Summa di Guido Faba. Avrà consultato qualche biblioteca? Sarà andato, a Verona, nella Capitolare? Se lo avrà fatto, non avvenne certamente per scoprire classici sepolti nella polvere, per frugare nelle carte di codici dimenticati, ma per verificare luoghi ed espressioni di auctores che già conosceva>>.60

Su questo argomento le interpretazioni degli studiosi sono spesso in disaccordo: alcuni hanno sostenuto che la filosofia dantesca è prettamente scolastica e tomistica, altri hanno interpretato la filosofia di Dante basata su posizioni razionaliste di ispirazione aristotelica e tendenti all’averroismo, che proclamando l’autonomia della ragione avrebbe aperto la strada all’Umanesimo. Aristotele è sicuramente uno dei principali ispiratori del pensiero dell’Alighieri, come egli stesso riconosce in numerose citazioni, ma che volge lo sguardo all’aristotelismo cristiano di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, non tralasciando l’averroismo, tanto che il Poeta colloca in Paradiso Sigieri di Brabante; non mancano certamente impostazioni e concetti derivanti dall’agostinismo e dal platonismo.

La presenza di Sigieri nella prima corona del cielo dei sapienti da luogo a due problemi: il primo è che il pensatore averroista si trova in Paradiso presentato da T. d’Aquino, che fu suo avversario nelle dispute e contro di lui scrisse il “De unitate intellectus”; il secondo è che la morte invocata da S. , costretto a vivere sotto dura vigilanza della Curia, pare arrivare in ritardo e fu violenta. <<Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel Vico deli Strami, / silogizzò invidïosi veri>>.61 Questa è la breve presentazione che San Tommaso fa a Dante di Sigieri di Brabante, cioè la dodicesima e ultima delle luci che compongono la corona dei sapienti: Dante si trova nel quarto cielo, quello del Sole, dove gli Spiriti sapienti sono disposti in tre corone concentriche, che danzano e cantano intorno al Poeta e a Beatrice.62 Qui si trova anche Tommaso d’Aquino, il quale inizia l’elenco delle anime che formano questa prima cerchia di anime sapienti, ossia coloro che seppero essere saggi della sapienza richiesta dalle loro funzioni, partendo dalla sua destra dove si trava Alberto Magno, fino all’ultimo che si trova alla sua sinistra: Sigieri di Brabante.

Tra il 1260 e il 1265 a Parigi si diffonde l’Averroismo latino, che, come già accennato, non aveva bisogno di conciliare la fede con la ragione, poiché per Averroè la filosofia aristotelica è sapere dimostrativo e la verità è solo quella filosofica. Nel 1270 Stefano Tempier, Arcivescovo di Parigi, condannò l’Averroismo e alcune tesi tomiste, dividendo il pensiero cristiano tra i Domenicani, i quali difendevano le teorie di Tommaso d’Aquino e i Francescani che si rifacevano alle dottrine platoniche-agostiniane. Sigieri di Brabante era maestro presso la facoltà delle Arti, il quale fu sostenitore dell’interpretazione averroistica di Aristotele. Sigieri, noncurante dei contrasti tra i risultati della filosofia e gli articoli di fede, professava la dottrina della “doppia verità”, per la quale se le proposizioni di ragione sono in contrasto con quelle della fede, sono similmente accettabili per fede. Se Tommaso cercava di conciliare fede e ragione, Sigieri, invece, separa i due ambiti, non ritenendo vitali le contraddizioni tra questi.63 Nonostante la condanna del Vescovo di Parigi del 1270, Sigieri continua nel suo insegnamento, fino a quando, nel 1277 lo stesso Stefano Tempier condanna 219 proposizioni e con esse l’Averroismo e l’Aristotelismo; Sigieri venne citato dal Tribunale dell’Inquisizione con l’accusa di eresia, egli fece appello al Papa e fu costretto a restare presso la corte papale, che in quel periodo si trovava ad Orvieto, dove, tra il 1291 e il 1284, fu assassinato da un chierico che era al suo servizio.64

Fino a che punto Dante conoscesse la filosofia e le opere di Sigieri è argomento discusso tra i dantisti, comunque, come sostiene il Gilson, <<Dante, dunque, ha saputo di Sigieri almeno questo, che egli era uno dei rarissimi maestri contemporanei che si potessero scegliere per simboleggiare la filosofia pura, cioè un aristotelismo estraneo a ogni preoccupazione teologica>>, ossia una forma filosofica che il teologo-filosofo Tommaso d’Aquino non poteva rappresentare.65 <<Il minimo che Dante abbia potuto sapere di Sigieri è dunque che questo maestro aveva mantenuto una distinzione rigorosa tra ordine filosofico e ordine teologico […]almeno ci teneva a glorificarlo per aver sostenuto questa distinzione radicale tra i due ordini, ed è per questo che introduce Sigieri nel Paradiso>>.66

L’aristotelismo cristiano, di cui San Tommaso era il maggiore esponente, resta l’impronta più profonda che permea tutta la “Commedia”: <<l’amor che muove il sole e l’altre stelle>> questo è il verso che emblematicamente esprime l’aristotelismo cristiano palesato da Dante, dove aristotelicamente Dio è motore immobile del mondo, ma cristianamente è amore.

Teologia e cosmologia si collegano nella rappresentazione scolastica medievale che Dante ci fa dell’universo fisico: la struttura è quella aristotelica-tolemaica, al centro dell’universo si trova la terra sferica e immobile, circondata dalle sfere dell’aria e del fuoco, intorno alla terra ruotano , concentrici, i nove cieli materiali, oltre a questi si trova l’Empireo, il decimo cielo, immobile, immateriale, infinito, quindi non corpo ma luce intellettuale, che irradia da Dio e in cui Dio ha la sua sede nella vera e propria essenza. <<E di fronte all’angustia terrestre dei primi due regni, il Paradiso si dispone nella prospettiva delle sfere celesti, occupando l’intero sistema planetario […]Il Paradiso s’identifica con il firmamento, si converte nell’universo, partecipa dell’infinita presenza di Dio nel cosmo.E, pertanto, il viaggio di Dante si sviluppa nella successione ascensionale dello zodiaco, dal cielo della luna fino all’Empireo, dove fiorisce la candida rosa dei beati […] Forse questa di Dante è la concezione più austera della divinità unica e incommensurabile, universa e inestimabile. Il Poeta l’ha resa nella sua più sgomenta profondità, nel suo mistero insondabile. Il Dio di Dante è la categoria mentale dell’inconoscibile>>.67

L’elogio che Dante fa di Sigieri di Brabante, ponendolo accanto a San Tommaso in Paradiso, è stato causa di infinite congetture e di fiumi d’inchiostro da parte degli studiosi, proprio per le ambigue parole con cui il Poeta lo descrive e per la sua collocazione nel cielo del Sole, dove si trovano gli spiriti sapienti, dando adito ad incertezze sulla teologia e sul rapporto con la filosofia del Maestro fiorentino, soprattutto in questa terza cantica.

Maria Corti, insigne filologa, storica e dantista, propone una sua opinione per la lettura delle due terzine oggetto di tante discussioni: nel 1266 Sigieri era già conosciuto come rappresentante dell’aristotelismo radicale; nel 1270 San Tommaso scrive il “De unitate intellectus”, con cui confuta il monopsichismo,68 Sigieri risponde con due suoi scritti, ma tre anni più tardi, progressivamente il filosofo si avvicina alle posizioni dell’Aquinate, di cui fanno riscontro le ultime due opere che egli scrive (“De anima intellectiva” e “Quaestiones super librum De causis”), dove sembra, specialmente nella seconda, che ci sia un distacco dal monopsichismo. Se San Tommaso affranca Sigieri dal monopsichismo, Sigieri condiziona la formazione di San Tommaso col suo razionalismo: è così, secondo la Corti, che queste due grandi menti si influenzano a vicenda. La morte dell’Aquinate avviene nel 1274, quella del Brabantino nel 1283, Dante scrive il Paradiso circa trent’anni dopo, quando, anche nell’ambiente filosofico di Parigi, il filosofo era divenuto l’emblema dell’autonomia del pensiero filosofico laico e Dante ha seguito i suoi spostamenti quando nel 1276 fuggì da Parigi e venne in Italia, dove fu assassinato ad Orvieto. Sigieri, continua la Corti, merita di trovarsi in Paradiso ed è giusto che sia proprio San Tommaso a presentarlo al Poeta, poiché fu lui che lo guidò verso l’ortodossia e da lui comprese il concetto di filosofia separata dalla teologia.69 La Corti prende in esame anche la frase “a morir li parve venir tardo”, sostenendo che la vita del filosofo fu talmente dura che gli faceva desiderare la morte vera a quella civile. <<…prima i pensieri gravi, cioè pesanti psicologicamente che portano Sigieri a desiderare di morire del tutto; poi per antitesi la luce etterna, alquanto polisemica nella densità dei suoi richiami sia alla salvezza eterna sia all’eternità dei “veri” su cui la mente di Sigierio operò nei corsi parigini. Nelle sue sventure Sigieri ebbe dalla sorte un grande dono, l’omaggio intellettuale dei due uomini più grandi del secolo, S. Tommaso e Dante>>.70

Grandi conoscitori del pensiero medievale come Pierre Mandonnet, la cui opera diede grande impulso alle ricerche sulla filosofia del XIII secolo e, particolarmente, sui rapporti tra l’aristotelismo latino, l’averroismo e il tomismo, giungendo alla conclusione che Dante, tomista, probabilmente vide in Sigieri di Brabante un rappresentante della pura filosofia aristotelica, davanti alla quale anche un teologo come l’Aquinate poteva inchinarsi, in tal modo giustifica la presenza in Paradiso di Sigieri, di cui forse il Poeta fiorentino non conosceva con precisione la dottrina.71 Anche Giovanni Busnelli, Gesuita e studioso di Dante, fu un sostenitore autorevole della dipendenza del Maestro fiorentino da San Tommaso: per arrivare alla comprensione completa dell’arte e del pensiero danteschi, bisognerebbe avere una profonda conoscenza della filosofia e della teologia del Poeta, il quale, secondo Busnelli, aveva ripreso innanzitutto da San Tommaso e poi, tramite questo, da Aristotele e da tutti gli autori che poteva avere conosciuto: sostanzialmente fu un sostenitore di Dante tomista.72

Étienne Gilson, dopo avere confutato il tomismo dantesco di Pierre Mandonnet, nelle conclusioni della sua celebre opera “Dante et la philosophie” afferma che la presenza di Sigieri tra i beati del Paradiso è compreso nel problema più generale del rapporto tra lo spirituale e il temporale; che il Brabantino non si trova tra i sapienti come rappresentante del pensiero averroista, ma per la separazione tra filosofia e teologia avvenuta nell’averroismo latino e che tale separatismo filosofico rappresentò per Dante solo un corollario della separazione tra temporale e spirituale, ossia tra Impero e Chiesa come il Poeta idealizzava; se fosse veramente così, continua Gilson, sarebbe ugualmente sbagliato ipotizzare <<un Dante tomista per desumere da qui il suo atteggiamento verso la filosofia, o un Dante averroista per desumere da qui il suo atteggiamento verso la teologia>>.73

La “Commedia” evidenzia un Dante moralista e riformatore: egli fin dall’inizio dell’opera annuncia la venuta del “Veltro”, anche se non è chiaro chi sia, ma la sua missione è quella di giustiziere, che stabilirà l’ordine umano, rendendo il temporale all’Impero e lo spirituale alla Chiesa, sconfiggendo la Lupa, causa della cupidigia, principio dell’ingiustizia. Il trionfo della giustizia è assicurato dalla figura dell’aquila imperiale, simbolo dell’Impero e il rappresentante della Giustizia divina sulla terra è l’Imperatore. << E da questa ardente passione per la giustizia temporale ottenuta tramite l’Impero che bisogna senza dubbio risalire all’uso che D ha fatto della filosofia e della teologia. L’avversario cui pensa in modo assillante è il chierico che tradisce la sua missione sacra per usurpare quella dell’Imperatore: “Ahi, gente che dovresti esser devota / e lasciar seder Cesare in la sella, / se bene intendi ciò che Dio ti nota!” (Purgatorio, VI, 91-93)>>.74 La “Commedia”, continua Gilson, è l’opera di un poeta e come tale più vasta e più ricca delle passioni politiche del suo autore, in cui troviamo lì esaltazione di tutti i diritti divini: di quello dell’Imperatore, ma nello stesso tempo anche quello del Papa e quello del Filosofo, tutti i diritti sono partecipi come manifestazione della Giustizia divina. <<La Divina Commedia appare allora come la proiezione sul piano dell’arte, della visione di quel mondo ideale sognato da Dante, dove tutte le maestà sarebbero onorate secondo il loro rango e tutti i tradimenti puniti come meritano. E’ insomma il giudizio ultimo del mondo medievale da parte di un Dio che si informerebbe presso Dante prima di emettere i suoi ordini di cattura>>.75

Nella “Commedia” Dante ci fa vedere la Giustizia divina operante, beatificando i giusti nell’amore e annientando gli ingiusti nella sua indignazione, anche se non sempre appare oggettiva nei suoi giudizi, ma dobbiamo considerare che tale Giustizia non è altro che quella di Dante stesso, quindi si tratta di comprendere quest’uomo e la sua opera e non di giudicarli. La funzione del Poeta non è quella di favorire la filosofia o insegnare la teologia, tantomeno di addestrare l’Impero, ma quella di richiamare queste autorità al rispetto reciproco conferito dalla loro derivazione divina: quando una di queste autorità varca i limiti imposti da Dio, commette un deleterio crimine contro la Giustizia, ossia contro la più umana delle virtù, la virtù della Giustizia appare a Dante come la fedeltà verso alle suddette autorità, rese sacre dalla loro origine divina.76 <<E’ inutile pretendere di scoprire il maestro unico di cui sarebbe stato discepolo. Dante non può averne meno di tre alla volta. In realtà, in un dato ordine, egli ha sempre per capo colui che governa in quest’ordine: Virgilio in poesia, Tolomeo in astronomia, Aristotele in filosofia, san Domenico in teologia speculativa, san Francesco in teologia affettiva e san Bernardo in teologia mistica. E gli si troveranno molte altre guide. Poco gli importa l’uomo, purché in ogni caso sia certo di seguire il più grande. Questo è il terreno d’elezioni su cui sembra essersi sempre mantenuto il solo Dante veramente autentico. Se esiste, come viene assicurato, una “visione unificante”della sua opera, essa non si identifica né con una determinata filosofia, né con una causa politica, né con una teologia. La si troverà piuttosto nel sentimento così personale che egli ebbe della virtù della giustizia e delle fedeltà che essa impone. L’opera di Dante non è un sistema, ma l’espressione dialettica e lirica di tutte le sue lealtà>>.77 Nell’interpretazione di Gilson, Dante mette all’apice della piramide scientifica, non la metafisica, quale scienza divina, ma la morale, come la più umana di tutte.

Di parere completamente diverso è Bruno Nardi, il quale sostiene che Dante condivide il primato della metafisica su tutte le altre scienze come vuole la tradizione, inoltre Nardi evidenzia il motivo per cui Dante pone la morale più in alto delle altre scienze: perché la morale “ordina” le altre scienze, <<Dante dunque non contradice a quello che comunemente si pensava sul primato della Metafisica; e nel porre la Morale sopra tutte le altre scienze umane fu indotto da un motivo perfettamente aristotelico, giacché l’Etica addita all’uomo qual è il sommo bene e gl’indica la via per conseguirlo. La speculazione del vero è la più alta e più nobile operazione umana: ma il muovere l’intelletto ad apprendere le scienze speculative è proprio dell’Etica, anzi di quella parte dell’Etica che è la Politica o Etica sociale. Perciò l’Etica in generale e la Politica in particolare hanno un primato su tutte le scienze e le arti, sì pratiche che speculative, in quanto tutte coordinano e indirizzano al fine cui tutte tendono>>.78 In realtà, continua Nardi, questa non è un’idea straordinaria del pensiero medievale, poiché è sostenuta anche da altri autori come ad esempio Al-Farabi,79nel suo “Liber de scientiis”, tradotto da Gerardo da Cremona, ma anche da Alberto Magno, per cui se Dante pone l’Etica sopra la Morale non è così insolito come sembra al Gilson, il quale ritiene che nel “Convivio” la filosofia sia scolasticamente separata dalla teologia, senza essere subordinata a quest’ultima come per San Tommaso e quindi che distingua la filosofia umana da quella divina: <<Sicchè quello che il Gilson scrive, per spiegare come mai Dante, dopo aver posta la Morale sopra la Metafisica, insiste ancora sul primato della vita contemplativa, mi pare inutile sforzo di risolvere un’aporia inesistente>>.80

Anche se Dante, sostiene Nardi, non avesse avuto modo di conoscere direttamente il “Gran commento”di Averroè, che però cita molto spesso, anche se non avesse avuto la possibilità di studiare gli scritti degli averroisti, basterebbe la sua amicizia e le lunghe e abituali discussioni con Guido Cavalcanti per spiegare la sua conoscenza del pensiero averroistico: Dante conosceva molto bene la canzone del Cavalcanti “Donna mi prega”, in cui il pensiero aristotelico-averroista è evidente.81 “Donna mi prega” è una canzone dottrinale, che rappresenta il manifesto filosofico-letterario di Guido Cavalcanti, in cui egli si fa portavoce della teoria aristotelica-averroista: per il Cavalcanti il binomio amore-ragione è assolutamente fallace, perché l’amore non ha niente di salvifico, ma è un’esperienza drammatica che non rivela conoscenze e che si può vivere solamente con i sensi; un’ideologia amorosa in netto contrasto con quella che Dante esprime nella “Vita Nova”.82

<<Il Gilson, per quello che concerne Sigieri, ritiene che questi stia a rappresentare, nella Commedia, la Filosofia pura, la scienza profana separata dalla Teologia. E appunto per questa funzione rappresentativa e simbolica attribuita a Sigieri, Dante non può avere ignorato la netta distinzione che v’è, nella dottrina del brabantino, tra Filosofia e Teologia>>.83

La presenza di Sigieri di Brabante in Paradiso, Nardi la spiega dicendo che Dante valuta dal punto di vista di Beatrice, la cui figura sovrasta il quadro poetico e <<sa molto di più di quanto ne sapesse San Tommaso in terra>>, quindi l’Aquinate riconosce in Sigieri un’anima meritevole di stare insieme con lui nella corona degli spiriti sapienti. Secondo Nardi, in conclusione, San Tommaso e Sigieri di Brabante, antagonisti sulla terra, sotto la visione divina sono in una condizione di armonia e di accordo.

Comunque sia la presenza di Sigieri in Paradiso resta insolubile, ma una cosa è certa: che Sigieri di Brabante esercitò un fascino polemico sui suoi contemporanei e, con il suo razionalismo, influenzò la formazione di Tommaso d’Aquino; per Dante rappresentò colui che rivendicò l’autonomia del pensiero laico.84

Nella “Commedia”, Dante approfondisce ed estende l’idea del rinnovamento, che già è presente nelle precedenti opere, coinvolgendo in se stesso e nel suo destino individuale il rinnovamento di tutto il mondo che lo circonda: dalla religione all’arte, dalla Chiesa allo Stato. Anche se apparentemente questa grande opera è la visione profetica del viaggio del Poeta attraverso i tre regni ultramondani, viaggio che dopo aver conosciuto l’abisso del peccato, sale per la montagna del Purgatorio fino al Paradiso terrestre, dove, obliando i peccati e purificandosi nelle acque del Lete e dell’Eunoè, ha un rinnovamento completo della sua anima, che lo fa degno di portare a termine il suo viaggio attraverso le sfere celesti, fino al limitare del mistero divino. Dante non si propone di descrivere la preparazione della sua anima alla vita eterna, ma favorire il rinnovamento del mondo cui egli appartiene: nella lettera a Cangrande della Scala, afferma chiaramente che il fine del suo poema è quello di condurre alla felicità coloro che in questa vita vivono in uno stato di “miseria”, quindi il viaggio ultraterreno è quello di un uomo vivo che deve tornare tra i vivi per rendere manifesta tutta la sua esperienza, dalla quale il Poeta attende la rinascita del mondo a lui contemporaneo.85 Un ritorno alle origini <<Lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato è lo ritornare a lo suo principio>>.86

La Chiesa, secondo l’ammonimento e l’esempio di San Domenico e San Francesco, dovrà tornare all’austerità primitiva; lo Stato, rinnovandosi nell’idea imperiale di Roma, dovrà tornare alla giustizia, alla libertà, alla pace, come nell’età augustea, ed è proprio per questo che la “Commedia” è ricca di una realtà umana, perché determinata dall’intento di rinnovamento, di cui egli stesso si considera strumento insieme con la sua arte, che deve spronare stimolare gli uomini dalla loro miseria e condurli alla rinascita in un mondo rinnovato: <<Sul tramonto del Medio Evo Dante afferma, con tutta la potenza della sua arte, l’esigenza di quel rinnovamento che doveva essere la parola della rinascita>>.87

Per uno scrittore come Dante, che ha saputo sintetizzare tutto il mondo culturale cui appartenne, è ovvio che gli studiosi abbiano voluto indagare sull’origine di una cultura così vasta, che considerando la difficile esistenza che egli ebbe per molti anni della sua vita e per le precarie condizioni economiche che ebbe durante l’esilio, appare addirittura straordinaria. Tra i maggiori filologi e studiosi danteschi, Giorgio Petrocchi occupa un posto di grande rilievo e per ciò che concerne la formazione culturale del Poeta distingue tre fasi: la prima retorico-grammaticale è caratterizzata dall’insegnamento di Brunetto Latini, che non fu solo maestro di “ars dictandi” ma anche tramite della cultura francese; il secondo periodo filosofico-letterale è contraddistinto dai poeti fiorentini dell’epoca come Dante da Maiano e Guido Cavalcanti, dal nascente stilnovismo e da Guido Guinizzelli. Molto importante fu anche la frequentazione di Dante della Scuola francescana e di quella domenicana che si riunivano in Santa Croce e in Santa Maria Novella, il cui riscontro filosofico sarà evidente soprattutto nel “Convivio”. Con l’elaborazione della “Commedia”, specialmente della terza cantica, crebbe in Dante l’esigenza di una maggiore riflessione filosofico-teologica che distinse la terza fase.

Riportiamo una stupenda “pagina” del Petrocchi: <<Il viaggio d’uno spirito vivente nell’aldilà non era estraneo alla cultura medievale, e probabilmente Dante nel tracciare le linee generali del suo poema si rendeva conto che non poteva evitare il confronto con la Visio sancti Pauli, con la Navigatio sancti Brandani, con la Visio Alberici ovvero con la Visio Tungdali, col Purgatorio di san Patrizio o con i poemi di Giacomino Veronese e di Bovesin de la Riva o col Libro dé Vizi e delle Virtudi, se si vuole anche con un opera musulmana, il Libro della Scala, tradotto dall’arabo in castigliano per ordine di re Alfonso.Dato e non concesso che l’Alighieri conoscesse tutta questa letteratura escatologica (ritengo che ne avesse letto soltanto qualche campione, ma molti anni prima, sì che gliene era rimasta un’impressione piuttosto generica), certo si è che egli ha voluto fare un’opera totalmente nuova, e per ampiezza di costruzione e soprattutto per completezza, giacché tutti i luoghi di tutti i regni dell’oltretomba cristiano dovevano essere oggetto della visita del personaggio-viator, dello studio analitico del poeta-profeta della rigenerazione dell’umanità. Tutta questa letteratura escatologica, comunque sia, andava riordinata secondo schemi più organici e sicuri, staccando il rapporto terra-aldilà, supponendo sin dall’inizio, che il protagonista fosse immerso in una visio in somniis, deducendo gli scomparti della tradizione filosofica dell’aristotelismo diretto o mediato attraverso la Scuola, scoprendo un rapporto immediato tra i segmenti della struttura e i personaggi da far emergere dalla propria memoria. Le affinità, quelle poche che ci sono, con i poemi duecenteschi, integrate dalla conoscenza di rappresentazioni delle arti figurative, arricchite da un confronto diretto coi classici, possono al massimo aver dato qualche porzione d’immagine o fatto emergere qualche cosa letta; non di più. Le due vere “fonti” del poema sono l’Eneide, quale costante ricordo d’una grande esperienza letteraria di descrizione di una discesa agli Inferi, e la Bibbia, come somma di visioni profetiche annunciate nel Vecchio, vissute nel Nuovo Testamento, e come grande costruzione mistico-visionaria. Un Sacrum commercium s’instaura tra Virgilio e san Giovanni Evangelista, tra altri autore classici e san Paolo o i Padri o i mistici della tradizione benedettina o di quella francescana. Questi grandi libri erano del tutto ignoti agli indotti autori di poemi o poemetti duecenteschi, o ne avevano una pallidissima idea, e così per la Etica nicomachea e la Retorica di Aristotele, per il De officiis di Cicerone, per tutto il patrimonio morale insito in Virgilio e in Stazio, in Agostino e Bernardo, in Alberto Magno o Bonaventura o Tommaso. Pare opportuno far ritornare alla nostra memoria qualche esempio: l’idea di collocare il Paradiso terrestre sopra la cima d’un altro monte era già presente in scritti di Padri della Chiesa orientale, e così san Bonaventura aveva situato il Paradiso in un’atmosfera pura, e la struttura dell’oltretomba risponde ai tre gradi conoscitivi elaborati da san Tommaso, questo per ciò che riguarda situazione della seconda e terza cantica; il sito dell’Inferno appare più vicino, invece, alla concezione classica, secondo lo schema aristotelico-tolemaico delle colpe. Tuttavia si tratta di elementi accessori, ché tutta la topografia e geografia morale dell’oltretomba è sottoposta ad una profonda revisione, sia per quel che concerne il vario paesaggio, sia per l’animazione d’esso attraverso simboli e figure di trapassati. Insomma il discorso sulle “fonti” della Commedia finisce per tornare alla potenza creativa del suo autore, il quale utilizza episodi della mitologia classica in forma estremamente libera, situandoli nell’aldilà (così come la selva popolata dalle Arpie, la diversa collocazione dei fiumi infernali, l’utilizzazione ad esempio dell’Ete e dell’Eunoè). >>.88

Dal Trecento al Cinquecento i numerosi manoscritti delle opere di Dante, ma soprattutto della “Commedia”, testimoniano la subitanea fama dantesca e del secolo XIV sono i commenti molto accurati del poema dei figli dello stesso Poeta: Jacopo, il terzogenito, nel 1322 circa scrisse in volgare le “Chiose alla cantica dell’Inferno”, privilegiando l’aspetto allegorico; Pietro, il secondogenito, lavorò a lungo all’esegesi delle opere del padre e il suo “Commentarium”, in latino, alle tre cantiche della “Commedia” resta l’interpretazione più importante del Trecento, grazie alla profonda conoscenza del pensiero dantesco, alle frequentazioni delle dottrine scolastiche e della letteratura classica (i due figli avevano seguito il padre nel suo esilio). Molto importante il commento di Jacopo della Lana, sia per la completezza sia per l’interesse agli aspetti dottrinali, filosofici e teologici. L’anonimo “Ottimo Commento”, scritto a Firenze tra il 1330 e il 1340, è da considerare una delle più importanti esegesi del poema dantesco: questo commento occupa un posto di primo piano, poiché l’anonimo scrittore frequentava Dante e conosceva bene le sue opere, con particolare attenzione, oltre al dato linguistico, anche a quello storico e cronachistico, che questo scrittore aveva appreso, nella maggior parte dei casi, da fonti dirette. Giovanni Boccaccio ebbe un vero e proprio culto per Dante: nel 1373 tenne numerosi incontri con il pubblico, cui leggeva il testo della “Commedia”, poi intraprese un lavoro di commento, lasciato incompleto al canto XVII dell’Inferno per la sopraggiunta morte nel 1375. Curioso è l’episodio raccontato da Boccaccio quando Dante si trovava a Verona e sentendo alcune donne che lo credevano veramente ritornato da un viaggio all’Inferno, il Maestro sorrideva compiaciuto e non si preoccupava di smentirle.89

Durante l’età umanistica la fortuna di Dante è decisamente in declino: viene privilegiato il latino sul volgare e rifiutato l’allegorismo medievale, i primi umanisti fiorentini come Leonardo Bruni e Coluccio Salutati rendono omaggio all’Alighieri, perché rappresenta l’ideale del poeta civilmente impegnato; nel Cinquecento, Pietro Bembo, petrarchista intransigente, rifiutò il modello dantesco, linguisticamente troppo rozzo per i nuovi gusti dell’epoca; non mancarono, tuttavia, in questo secolo le difese a favore di Dante, come quella di Galileo Galilei.90

Tra il XVI e il XVIII secolo, con la nascita del Barocco, l’opera di Dante quasi scompare: la cultura seicentesca condanna la letteratura del passato e a maggior ragione la “Commedia”, espressione di un mondo remoto e zeppa di volgari difetti espressivi. Nel Settecento, quando si affermano gli orientamenti del razionalismo illuministico volte alla semplicità della costruzione e dell’espressione letteraria, l’opera dantesca, ricca di invenzioni espressive e intensamente strutturata, viene definita da Melchiorre Cesarotti un “mostruoso guazzabuglio”; Vittorio Alfieri, difese e subì il fascino della poesia di Dante, ricca di spiriti libertari e indipendenti e ammirò il personaggio che accettò la sofferenza e l’esilio per la difesa dei propri ideali; anche per Giambattista Vico, difese Dante e lo considerò ”toscano Omero”, per avere rappresentato un’età ricca di fantasia e di immaginazione, primitiva ma appassionata. Non è però un caso che si tratti di due grandi anticipatori del Romanticismo, che durante l’Ottocento, in Europa e poi in Italia segnò un’eccezionale rifioritura di tutte le opere di Dante, principalmente della “Commedia”, che divenne il capolavoro assoluto della cultura romanza e il fondamento di tutta la tradizione occidentale.91

Il primo sostenitore della grandezza di Dante in Italia fu Ugo Foscolo, i cui scritti diedero l’inizio alla moderna critica dantesca: l’opera di Dante è valorizzata anche in relazione agli spiriti patriottici dell’Ottocento e all’esilio che tanta importanza ebbe agli inizi del nostro Risorgimento. Con Francesco De Sanctis, che, inserisce l’Alighieri nel suo disegno storico-ideale, come portavoce di una poesia fortemente passionale, che in nome dei concreti valori umani riesce a superare il misticismo e il neologismo del suo tempo, inizia tutto quell’immenso lavoro di critica sulla “Divina Commedia” e le altre opere del Sommo Poeta.

Dante è molto presente anche nel Decadentismo e Simbolismo di fine Ottocento, per riversarsi poi, in varie forme, nella letteratura del Novecento.92

Concludiamo con le parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II la sera del 31 agosto 1997, dopo la lettura e il commento di Vittorio Sermonti dell’ultimo canto del “Paradiso”: <<A distanza di quasi sette secoli, l’arte di Dante, evocando sublimi emozioni e supreme certezze, si rivela ancora capace di infondere coraggio e speranza, orientando la difficile ricerca esistenziale dell’uomo del nostro tempo, verso la Verità che non tramonta […] Stasera siamo stati invitati anche noi a farci pellegrini dello spirito e a lasciarci condurre dalla poesia di Dante a contemplar “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”, fine supremo della storia della vita umana […] l’approdo definitivo dell’esistenza, dove le passioni si placano e dove l’uomo scopre il suo limite e la sua singolare vocazione di chiamato alla contemplazione del Mistero divino>>.93

1 Dante Alighieri, De Monarchia, III, cap. XV. L’opera è stata scritta nell’ultimo decennio di vita del Poeta.

2 Cfr. G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Milano 1972, p. 100 e segg.

3 Cfr. A. Prosperi-P. Viola, Corso di Storia, Dal secolo XIV al secolo XVII, Milano 2004, pp. 40-41.

4 Ibid.

5 Cfr. F. Gaeta-P. Villani, Corso di Storia, Milano 1979, p 161.

6 Cfr. anche F. Gaeta-P. Villani, Corso di Storia, Milano 1979, p 157.

7 Ibid.

8 Cfr. A. Prosperi-P. Viola, Corso di Storia… cit., pp. 40-41.

9 “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere.” Dante Alighieri, Convivio (inizio).

10 Per la vita di Dante si veda l’ampia ed esaustiva biografia di Giorgio Petrocchi.

11 Cfr. F. Lamendola, Vi è contraddizione fra il Dante della “Monarchia” e quello della “Commedia”?, in

http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/cultura-e-filosofia/filosofia/4500-sul-pensiero-politico.di-dante

12 Paradiso, VI, vv. 22-27.

13 Paradiso, VI, vv. 103-108.

14 <<Fiorenza dentro de la cerchia antica, / ond’ella toglie ancora terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica… >>. Inizia qui la celeberrima rievocazione dell’antica e virtuosa Fierenze, in cui si raccoglie l’utopia politica e morale di Dante rivolta al passato, che suona a condanna della corrotta realtà contemporanea. Paradiso, XV, vv. 97-99.

15Cfr. B. Maier, I canti di Cacciaguida, in “Lectura Dantis”, Modena 1986, pp. 126-128.

16Cfr. Paradiso, XVI.

17 Paradiso, XVII, vv. 58-60.

18 Cfr. G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Milano 1972, p. 116.

19 Poche e incerte le notizie su questo personaggio, molte le ipotesi dei commentatori antichi e moderni, ma nessuna attendibile. Marco Lombardo è, con probabilità, semplicemente un espediente narrativo, un portavoce delle idee dantesche circa un argomento che ha una grande centralità nella concezione etico-politica e nell’esperienza umana dell’Alighieri.

20 Purgatorio, canto XVI, vv. 106-111.

21 Nel pensiero scolastico medievale la teoria dell’influsso degli astri sull’indole umana aveva carattere di verità scientifica: i nove cieli, ruotanti intorno alla terra, avrebbero trasmesso agli uomini e a tutta la natura, per mezzo delle intelligenze angeliche, i Decreti della Provvidenza divina.

22 G.Petrocchi,VitadiDante,in https://www.liberliber.it/mediateca/libri/p/petrocchi/vita_di_dante/html/testo.htm )

23 Cfr. Purg. XVIII, vv. 121-126; Conv. IV, 16,6.

24 Inf. I, vv. 101-111.

25 Cfr. Epistola XIII, sulla cui autenticità gli studiosi hanno molto discusso.

26 Paradiso. XVII, vv: 126-142.

27 Romeo di Villanova storicamente fu ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario IV, alla cui morte amministrò la contea e fu tutore della figlia Beatrice, che sposò Carlo I d’Angiò. Morì in Provenza nel 1250. Secondo la leggenda seguita da Dante, Romeo fu un pellegrino che, reduce da Roma, si fermò alla corte del conte di Provenza Raimondo Berengario, che lo nominò siniscalco (ministro), guadagnando la riconoscenza del conte per lo scrupoloso adempimento dei suoi doveri. Ma l’invidia mosse gli altri funzionari di corte ad accusarlo di disonestà presso il conte, il quale credette a quelle voci e lo invitò a rendere conto della sua amministrazione. Romeo dimostrò di aver accresciuto il patrimonio del conte di ben il venti per cento, sbugiardando così i suoi accusatori. Tuttavia offeso dalla diffidenza del suo signore, abbandonò la corte e, povero e vecchio, andò ramingo per il mondo. Certamente il significato è autobiografico. Giustiniano dice che se gli uomini sapessero il grande dolore e insieme la fierezza di Romeo nell’andare errante, povero e vecchio, mendicando il pezzo di pane, benché lo lodino assai, lo loderebbe ancora di più. Non è difficile immaginare che il primo tra gli uomini a capire il significato delle parole di Giustiniano-Dante, perché mentre scriveva questi versi, il Maestro fiorentino aveva già provato e forse provava ancora “come sa di sale lo pane altrui e come è duro lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”.

28 A. Momigliano, Dante, Manzoni, Verga, Messina-Firenze 1955, pp. 40-59.

29 B. Nardi, Dante profeta, in “Dante e la cultura medievale, Bari 1942, pp. 293-297.

30 Ibid.

31 Paradiso, XX, vv. 55-60.

32 Paradiso XX, vv. 112-117.

33 Publio Virgilio Marone, Eneide, II, 425-427.

34 Paradiso, XXVII, vv. 22-27.

35 Paradiso, canto XXVII, vv. 55-57.

36 Cfr. M. Sansone, Canto XXVII, in “Lectura Dantis Scaligera, III, a cura di M. Marcazzan, Firenze 1967, pp. 963-969.

37 Cfr. Paradiso, XXX, vv. 130-148.

38 Cfr. E. Gioanola, Letteratura Italiana, Milano 2001, I, p. 301.

39C. Vasoli, , Il contributo italiano alla storia del pensiero, in https://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:Filosofia%29/

40Cfr. E. P. Lamanna, Il problema della scienza nella storia del pensiero, Firenze 1951, p.182-188; Appunti presi durante vari eventi e lezioni.

41 Ibid.

42 Ibid.

43 Ibid.

44 Ibid.

45 N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1991, Vol. I, p. 342.

46 Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1991, Vol. I, p. 343.

47 Ibid., p. 344.

48 Nel campo della matematica gli Arabi avevano effettuato studi approfonditi di trigonometria applicata all’astronomia e studi di algebra applicata alla geometria. Nel campo dell’astronomia avevano compiuto ricerche, basandosi sullo studio dell’”Almagesto” di Tolomeo, fondando osservatori con grandi risultati. Nel campo della fisica avevano fatto ricerche di ottica ed esperimenti alchimistici. Per l’ottica si veda anche: L. Fabbri, Nell’ottica dell’”Homo sanza lettere”, in https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2019/11/18/nellottica-dell-homo-sanza-lettere/

49 Cfr. E. P. Lamanna, Il problema della scienza nella storia del pensiero, Firenze 1951, p.182-188; Appunti personali elaborati in occasione di vari eventi e lezioni.

50 Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie…cit., pp. 349-350.

51 La prima via (passaggio dalla potenza all’atto) parte dall’osservazione del movimento delle cose naturali: se tutto ciò che si muove è mosso da altro, affinché questo procedere non vada all’infinito è necessario arrivare ad un motore primo non mosso da altro. La seconda via tratta della reciprocità delle realtà naturali tra loro: l’una agisce sull’atra producendo effetti, ma secondo Aristotele nessuna cosa può essere causa di se stessa, quindi per ogni evento bisogna ripercorrere indietro la catena delle cause e degli effetti, fino ad arrivare alla prima causa efficiente, ossia Dio (altrimenti il processo sarebbe infinito). La terza via parte dalla contingenza della realtà che ci circonda: dal nulla non si crea nulla, quindi è necessario postulare l’esistenza di un primo principio originario di tutte le cose, cioè Dio. La quarta via ha origine dall’osservazione che non tutte le cose hanno lo stesso grado di validità, infatti una cosa è più o meno buona e nobile di un’altra, ma per fare tale paragone è necessario un termine di riferimento in cui tutte le proprietà sono al massimo grado, e questo è solo Dio. La quinta via sostiene che gli eventi, anche se realizzati da corpi ed enti naturali privi di intelligenza, sono orientati verso un fine di perfezione (ordine e bellezza), ma ciò che è privo d’intelligenza non può tendere al fine se non è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, ne consegue che ci sia un essere intelligente dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine, cioè Dio. Cfr. Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, Firenze 1964, pp. 180-186.

52 Cfr. E. P. Lamanna, Il problema della scienza nella storia del pensiero, Firenze 1951, p.182-188; Appunti elaborati in occasione di vari eventi e lezioni.

53Cfr.Ibid.; Appunti presi durante vari eventi e lezioni.

54 Cfr. M. Pazzaglia, p. 202-203.

55 Ibid.

56 Cfr. C. Vasoli, Il contributo italiano alla storia del pensiero, in https://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:Filosofia%29/

57 Dante Alighieri, Convivio, libro I, cap. I

58 Inferno, canto IV, v. 131.

59Cfr. C. Vasoli, Il contributo italiano alla storia del pensiero, in https://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:Filosofia%29/

60 G. Petrocchi, Vita di Dante, in https://www.liberliber.it/mediateca/libri/p/petrocchi/vita_di_dante/html/testo.htm

61 Paradiso, X, vv. 133-138. Dante usa il verbo leggendo, infatti le lezioni universitarie consistevano principalmente nella lettura dei testi; il Vico de li Strami era la “rue de Fouarre di Parigi, dove era venduta la paglia per i cavalli, dove si trovavano le scuole di filosofia, via che era detta anche “della paglia” per la consuetudine degli studenti di sedersi nella paglia per seguire le lezioni.

62 Gli altri spiriti sapienti sono, oltre San Tommaso, Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi l’Areopagita, Paolo Orosio, Boezio, Isidoro di Siviglia, Beda, Riccardo di San Vittore, Sigieri di Brabante.

63 Cfr. G. Reale – G. Antiseri, Storia della filosofia, Brescia 1997, vol. I, pp. 653-654.

64 Ibid.

65 È. Gilson, La filosofia nella Divina Commedia, in “Dante e la filosofia”, trad. di S. Cristaldi, Milano 1996, p. 17.

66 Ibid.

67 S. Battaglia, Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Napoli 1975, pp.44-46.

68 Il monopsichismo è una dottrina che afferma l’esistenza di un’unica anima universale, di cui le singole anime individuali sono manifestazioni, tale dottrina è alla base dell’averroismo e condannata più volte dalla Chiesa.

69 Cfr. M. Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze 1982, pp. 98-101.

70 Cfr. Ibid..

71Cfr.P. Mandonnet, Siger de Brabant et l’averroisme lati au XIII siècle, Luovain 1908-11.; https://www.treccani.it/enciclopedia/pierre/mandonnet_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

72 Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni/busnelli_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

73 É. Gilson, Dante e la filosofia, Traduzione di S. Cristaldi, Milano 1996, p. 21-23.

74 Ibid.

75 Ibid

76 Ibid.

77 Ibid.

78 B. Nardi, Dante e la filosofia, in “Studi danteschi, diretti da M. Barbi, vol XXV, Firenze 1940, p. 212.

79 Cfr. Ibid., p. 214. Al-Farabi (870-950) fu un filosofo di origine turca, nacque in Transoxiana e ricevette la sua formazione a Baghdad, dove studiò logica, grammatica, scienze, diritto, esegesi, filosofia, musica, matematica. Una parte cospicua degli scritti di Al-Farabi è dedicata al commento delle opere di Aristotele, dando un grosso contributo di trasmissione della filosofia greca, arricchita da due testi che presentano oltre alla filosofia aristotelica anche quella di Platone. Non a caso gli fu attribuito il soprannome di “Maestro secondo”, ossia dopo Aristotele. Cfr. http://www3.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-online/autori/htm/

80 B. Nardi, Dante e la filosofia.., cit., p. 221.

81 Ibid. . Ibid., pp. 234-235.

82 Molto utile per questo argomento è il lavoro di Maria Corti: “La felicità mentale, Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino 1983.

83 B. Nardi, Dante e la filosofia.., cit., p. 243.

84 Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e Filosofie nella Storia, Torino 1991, vol. I, pp. 339-400.)

85 Ibid.

86 Dante Alighieri, Convivio, VI, 12, 14

87 N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e Filosofie…cit., vol. I, p. 400.

88 G. Petrocchi, Vita di Dante, in https://www.liberliber.it/mediateca/libri/p/petrocchi/vita_di_dante/html/testo.htm

89 Appunti personali presi in occasione di vari eventi e lezioni; Cfr. E. Gioanola, Letteratura italiana, vol. I, Milano 2001, 305-308.

90 Ibid.

91 Ibid.

92 Ibid.

93 M. Muolo, da “Avvenire”, 2 settembre 1997.

La Mu‘tazila e il suo impatto sul pensiero riformista moderno

Il caso di Mu|hammad ‘Abduh.

Estratto della tesi di dottorato in Missiologia di p. Paolo Nicelli, PIME. Titolo: “La riforma islamica a confronto con la modernità: dialogo tra lslâm e Occidente”, pp. 60-66; 104. 120-125.

Autore:

Dr. Padre Paolo Nicelli, PIME
Dottore della Biblioteca Ambrosiana 
Segretario della Classe di Studi Africani 
Professore di Teologia Dogmatica, Missiologia, Studi Arabi e Islamistica.

1- La scuola teologica della Mu‘tazila e l’utilizzo delle discipline razionali

Considerata la prima scuola di teologia musulmana (‘ilm al-kalâm),(1) organicamente strutturata, la scuola della Mu‘tazila(2 )fu fondata a Ba¡ra all’inizio del II secolo (H.) da Wâ¡il ibn ‘A¥â’ e ‘Amr ibn ‘Obayd, conoscendo il suo periodo di maggior splendore durante il III secolo (H.), con i grandi pensatori quali, Abû Hodhayl al-‘Allâf e Nazzâm. In poco tempo, grazie all’insegnamento dei mu‘taziliti, la teologia della Mu‘tazila raggiunse quasi tutte le regioni dell’Impero ‘abbâsside. Questa scuola si distinse per l’audacia della sua dottrina e per il coraggio dei suoi discepoli nel confrontarsi con l’influenza delle culture dei popoli conquistati e nel cercare di ridurre la frammentazione tra le sette musulmane.(3) Proprio per questo motivo, i mu‘taziliti cercarono l’appoggio dell’autorità costituita, i califfi, al fine di imporre il loro metodo d’interpretazione della tradizione, ottenendo però la forte opposizione del popolo e dei tradizionalisti che li costrinse, dopo un breve periodo di splendore, ad essere condannati da quegli stessi califfi da cui essi cercavano il sostegno. Paladina delle tesi tradizionaliste fu la scuola teologica aš‘arita,(4) che, rivale della Mu‘tazila, rifiutò le tesi di quest’ultima dichiarandole innovazioni (bid‘a), e discreditando la sua dottrina fino al punto di considerarla una vera e propria eresia, contraria alla tradizione islamica.

 

il link per la lettura dell’intero articolo : 11-La Mu’atazila e la riforma islamica (2)

UMANESIMO. FILOSOFIA E CULTURA

 

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Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, 1509-1511, Musei Vaticani, Città del Vaticano 

Nel Medioevo la filosofia era un’attività svolta soprattutto nelle università e nelle scuole cattedrali. Dalla seconda metà del Trecento, lentamente, le cose cominciano a cambiare: i filosofi non sono più necessariamente professori o appartenenti a ordini monastici o comunque persone legate al mondo ecclesiastico. Si viene formando, innanzi tutto in Italia, una nuova classe intellettuale: funzionari politici, cancellieri, segretari, burocrati, amministratori. Alla vita contemplativa e allo studio nelle università molti di loro preferiscono l’impegno nell’attività pubblica. Allo studio assegnano compiti civili, pedagogici, politici, anche di critica della società. È un grande cambiamento culturale. Il ritrovamento di testi del pensiero antico andati perduti durante il Medioevo, la diffusione della conoscenza del greco, la nascita della filologia, un nuovo senso della storia, l’amore per la cultura classica (i cosiddetti studia humanitatis, cioè gli studi letterari, storici e filosofici) consentono dopo secoli di leggere Platone e Aristotele nella lingua originale e danno nuovo impulso al pensiero. La lettura degli antichi alimenta negli umanisti una rivalutazione delle possibilità dell’uomo e delle sue opere: gli eroi e gli autori del mondo greco e romano diventano esempi di virtù da imitare. Sarà soprattutto Platone, praticamente sconosciuto di prima mano nel Medioevo, a segnare la filosofia dalla seconda metà del Quattrocento alla fine del Cinquecento, anche se l’aristotelismo continua a essere dominante nelle università. È un Platone letto alla luce del neoplatonismo e riconciliato con il cristianesimo nella convinzione che le verità della filosofia, compresa quella pagana, facciano parte di una sapienza originaria, in cui erano anticipati o adombrati i contenuti, se non la lettera, della Rivelazione. Di questa sapienza fanno parte anche gli scritti cosiddetti “magico-ermetici”, perché allora attribuiti al mitico Ermete Trismegisto. Il Rinascimento sarà infatti anche il “tempo dei maghi”. Si comprende poco di questa straordinaria e complessa epoca se si dimentica che, per quanto strano possa sembrare oggi, allora il mondo della magia non era ai margini, ma al centro della grande cultura europea. Il Rinascimento è un’epoca di grandi contrasti: dibattiti sull’anima ma anche sull’astrologia, esaltazioni delle capacità e della «dignità» dell’uomo ma anche forme di scetticismo radicale, ricerca del vero nella contemplazione filosofica ma anche rivalutazione delle arti meccaniche e delle tecniche, della ricerca empirica e dell’osservazione diretta delle cose. Tutti aspetti decisivi e gravidi di conseguenze.

L’Umanesimo nasce in Italia. Le ragioni sono molte. Innanzitutto, in Italia si era sviluppata la civiltà dei comuni, la cui vita politica, culturale ed economica era vivacissima. Erano sorte scuole cittadine per la formazione di personale burocratico e politico, in cui si studiavano i classici come modelli per scrivere lettere, discorsi e altri documenti amministrativi. In seguito, con la nascita delle signorie, le corti attrassero gli intellettuali; spesso i signori svolsero un ruolo importante nel promuovere l’arte, la cultura, lo studio. Inoltre, in Italia erano molte le testimonianze dell’antico impero romano: monumenti, opere d’arte, manoscritti, codici. Per la posizione strategica nel Mediterraneo, infine, l’Italia deteneva il monopolio dei rapporti con i paesi del Medio Oriente, e quindi era un facile approdo per gli intellettuali dell’impero bizantino. Intellettuali e funzionari politici Gli umanisti furono spesso funzionari al servizio di un signore: davano consulenza legale, scrivevano lettere ufficiali e compivano ambasciate. Alcuni furono al servizio della Repubblica di Firenze, come Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1374-1444); altri operarono presso la curia pontificia: lo stesso Bruni, ma anche Pietro Paolo Vergerio (1370-1444), Poggio Bracciolini (1380-1459), Leon Battista Alberti (1404-1472). Altri centri della cultura umanistica furono Napoli e le principali città delle signorie padane: Milano, Pavia, Verona, Mantova, Bologna, Venezia, Ferrara.

 

 

Durante il Medioevo erano stati pochi gli intellettuali in grado di comprendere e tradurre la lingua di Platone e Aristotele. In Italia tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento giunsero a più riprese intellettuali bizantini che insegnarono il greco, alcuni su invito degli umanisti, altri al seguito dell’imperatore Giovanni Paleologo durante il concilio di Ferrara nel 1438 (che proseguì il concilio iniziato a Basilea nel 1431) e quello di Firenze nel 1439 (in cui si tentò la riconciliazione tra la Chiesa occidentale e la Chiesa greca, divise da secoli), altri ancora dopo la presa di Costantinopoli (1453) da parte dei turchi. Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento arrivò in Italia Manuele Crisolora che insegnò a Firenze e a Pavia. Negli anni successivi arrivarono Giorgio Gemisto (1355-1452), detto Pletone (parola dallo stesso significato di Gemisto, cioè “pieno”, ma dal suono simile a quello di “Platone”); Giorgio Trapezunzio (1395-1484), traduttore dal greco; Giorgio Scholaris (1405-post 1472), detto Gennadio; Teodoro Gaza (1411-1475), giunto in Italia per il concilio di Ferrara e rimastovi come insegnante e traduttore; Giorgio Argiropulo (1410-1491), insegnante di greco e traduttore; Giovanni Bessarione (1403-1472), che fu vescovo di Nicea e poi cardinale. Grazie all’insegnamento di questi intellettuali si cominciarono a leggere le opere di Platone e Aristotele nella lingua originale. Vi furono nuove versioni dal greco: Bruni tradusse l’Etica e la Politica di Aristotele, il monaco camaldolese Ambrogio Traversari (1386-1439) le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio e i testi dei Padri della Chiesa d’Oriente. La riscoperta di Platone era destinata ad avere una importanza decisiva soprattutto nella cultura del Rinascimento. Nel Medioevo l’opera completa di Aristotele fu conosciuta tardi – risulta in circolazione soltanto tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo – ma Platone era noto solo attraverso un frammento del Timeo tradotto e commentato nel IV secolo dal neoplatonico cristiano Calcidio, o grazie a fonti di seconda mano. Traduzioni latine del Menone e del Fedone compiute intorno alla metà del XII secolo avevano avuto scarsa circolazione. Nell’impero bizantino, invece, la conoscenza di Platone non era venuta meno. Gli intellettuali bizantini diedero anche vita a una polemica sul primato di Platone o Aristotele, e su quale dei due sostenesse tesi vicine alle dottrine cristiane riguardanti la trascendenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la Trinità. Gli umanisti cercarono di ricostruire il testo originale delle opere antiche, di capire il significato di parole che nel tempo erano state usate in modo diverso. Ma la filologia non fu solo espressione di erudizione e di amore del passato: nella battaglia culturale in cui gli umanisti si impegnarono, la filologia divenne uno strumento di studio della verità delle tesi esposte nelle opere. Per fare questo, occorreva tenere conto che un testo era stato scritto in un determinato periodo storico, quando vigevano certi usi linguistici e non altri, quando erano circolanti alcune tesi filosofiche e non altre. Per gli umanisti la comprensione della verità del testo presupponeva insomma la comprensione del contesto intellettuale e della lingua utilizzata; in caso contrario, la comprensione era falsata. Bruni ad esempio sostenne che Aristotele era stato tradito dalle traduzioni latine e reso estraneo a se stesso. La filologia umanistica porto le prove inconfutabili in un caso molto importante. Lorenzo Valla (1405-1457) dimostrò nel 1440 che la cosiddetta Donazione di Costantino era un falso.

 

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Donazione di Costantino, Oratorio di San Silvestro, Roma 

Secondo questo documento, quell’imperatore aveva donato al Papa l’intero Impero romano d’Occidente. Per secoli la Chiesa aveva fatto valere questo scritto come giustificazione del suo primato sul potere temporale dei sovrani. Valla dimostrò che non poteva risalire all’epoca di Costantino, perché vi comparivano termini burocratici che non potevano essere in uso allora. Inoltre il testo dava per scontata la supremazia di Roma sulle altre Chiese, che a quel tempo non si era ancora affermata. Anche il Codice giuridico giustinianeo, che continuava a essere preso come riferimento per la legislazione, fu oggetto di indagine. Filologia e Sacre scritture Non rimasero immuni dallo studio dei filologi nemmeno le Sacre scritture. Vi fu chi trattò l’Antico Testamento come una cronaca di eventi storici, suscettibile di analisi, correzioni e integrazioni. Sulla base dell’originale greco, Valla corresse il testo allora circolante del Nuovo Testamento. Tutto ciò non poteva non avere importanti conseguenze sulle questioni dottrinali, nelle quali molti umanisti, in primo luogo lo stesso Valla, furono quindi impegnati.

Lorenzo Valla

Lorenzo Valla

 

Anche se molti umanisti insegnarono nelle università discipline come grammatica, retorica e filosofia morale, la polemica fra la nuova cultura umanistica e la vecchia cultura universitaria fu forte. Bersaglio degli umanisti fu Aristotele, ma soprattutto l’aristotelismo: ai loro occhi era assurdo l’ossequio verso un filosofo che, come scrisse Petrarca, era solo un uomo, per quanto grande, quindi non aveva potuto capire certe verità. Aristotele, disse Valla, non si era impegnato nelle opere civili che rendono grandi gli uomini. Per molti versi Lorenzo Valla, diviso tra l’insegnamento di retorica ed eloquenza e l’impiego di segretario, prima presso Alfonso d’Aragona di Napoli e poi a Roma come segretario apostolico, è il modello dell’intellettuale umanista, in cui si uniscono attività politica, ricerca filologica, culto degli antichi e valorizzazione dell’uomo. Valla esprime una netta condanna della filosofia del tempo e lancia un progetto di riforma. La filosofia, sostiene, ha perduto l’originario amore per la sapienza e si è trasformata in una sorta di professione, degenerata nel mero commento dei testi altrui e nell’uso di un linguaggio barbaro e rozzo, il cui tecnicismo serve solo a celare il vuoto del pensiero e a creare confusione. Perché non usare invece un linguaggio più vicino a quello corrente e nello stesso tempo più chiaro ed elegante? Occorre volgersi ad altri modelli, come Platone e Cicerone, che coltivarono sia l’amore per il sapere sia quello per lo stile letterario. L’attacco al linguaggio della Scolastica Valla sottopone a una critica serrata e a una vera e propria “potatura” il linguaggio tecnico della logica e della metafisica, sulla base di criteri grammaticali e di correttezza linguistica: termini come ens (“ente”) o haecceitas gli sembrano “oscuri e barbari”, anzi “in gran parte sciocchi”. Dall’uso incolto della lingua erano sorti termini a cui non corrispondeva nulla. Ad esempio, al termine ens, che giudica troppo astratto e privo di vero significato, Valla preferisce il più concreto res (cosa). Neppure la teologia viene risparmiata dalla critica. Valla rifiuta le dispute teologiche tipiche delle università e propugna una teologia che esponga la Bibbia secondo i nuovi metodi filologici. Rimprovera ad Agostino e Tommaso di aver commesso errori per ignoranza del greco, lingua dell’Antico e Nuovo Testamento. Rimprovera a Severino Boezio e Giovanni Damasceno di aver parlato da filosofi in teologia, introducendo la metafisica e la dialettica in un ambito dal quale dovevano restare fuori e fornendo così un pessimo esempio agli autori successivi. Per Valla, lo studio della Bibbia deve essere condotto senza l’ausilio della filosofia aristotelica e delle sue interpretazioni universitarie. La teologia, come forma di sapere superiore, non ha bisogno della filosofia. Questo uso indebito non ha fatto altro che generare eresie. La filosofia non può pretendere di sostituirsi alla visione cristiana del mondo, la quale garantisce la vera felicità anche in questa vita.

La contrapposizione tra la virtù degli uomini e i beffardi disegni della sorte è un tema ricorrente nella cultura umanistica. Era ereditata dalla cultura romana, nella quale Fortuna era una divinità incostante, pronta a portare gli uomini in un attimo dal successo alla miseria e viceversa. Per gli antichi romani, però, Fortuna poteva essere domata dall’uomo virtoso, una tesi che gran parte degli umanisti fece propria. Il termine “fortuna”, dunque, non aveva il significato positivo che ha oggi, ma indicava gli eventi imprevisti che potevano opporsi ai progetti umani. La lotta contro la sorte era ritenuta una caratteristica dei grandi uomini. Solo grazie alla virtù l’uomo può avere la meglio sulla Fortuna e sperare di raggiungere l’eccellenza.

La ruota della fortuna in De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio

La ruota della fortuna in De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio

Per Leon Battista Alberti la virtù trionfa sulla sorte avversa e fa approdare alla gloria. Gli uomini sono pienamente responsabili dei loro beni e dei loro mali. “Tiene giogo (cioè rende servi) la fortuna solo a chi se gli sottomette”, scrive Alberti: è la mancanza di virtù a rendere forte il fato e mandare in rovina gli uomini. Per compensare la loro fragilità, gli uomini devono sviluppare le migliori tendenze della loro natura, facendo leva sulla forza d’animo. La virtù, secondo Alberti, consiste nell’azione morale e politica nella città e nelle relazioni umane. A essa si accompagna la ragione, che distingue gli uomini dagli animali. La virtù crea un mondo costituito da volontà giuste e opere oneste. La dimensione dell’uomo è l’impegno, perché l’uomo non è nato per “marcire giacendo”. È in questo modo, e non nell’isolamento, che l’uomo obbedisce veramente alla volontà di Dio e raggiunge la felicità. È evidente a questo punto che la virtù a cui pensano gli umanisti non è una virtù ascetica. Ad esempio, nei Libri della famiglia (1443) di Alberti la riflessione etica si intreccia con l’aspetto economico. Alberti esalta l’importanza della cura della “masserizia”, cioè della proprietà terriera e della casa padronale, come un ambito in cui si sviluppa la virtù della moderazione. Nello spiegare come vadano gestite le ricchezze della casa, ripropone il tema stoico della “indifferenza” dei beni materiali: non conta il possesso, ma l’uso che se ne fa. Perciò sia l’avarizia sia lo sperpero vanno condannati. La ricerca del profitto è invece lodata, purché sia condotta con prudenza e onestà. Virtù e razionalità devono essere componenti dell’agire umano in ogni ambito, anche in quello economico.

Attraverso riflessioni come queste si fanno largo nell’Umanesimo temi in contrasto con quelli tradizionali della cultura cristiana: il motivo della fortuna e della responsabilità umana, che relegano in secondo piano quello della Provvidenza; la considerazione positiva della ricerca degli onori e della virtù civica, condannata dalla Chiesa come forma di vanità; la fiducia nelle capacità dell’uomo e la valorizzazione delle opere, in contrasto con l’immagine dell’uomo debole, fragile, incapace che emergeva spesso dalla letteratura religiosa e con il pessimismo che pervadeva larga parte della cultura medievale. L’uomo è chiamato a realizzare la propria natura, le proprie capacità, prendendo esempio dai grandi personaggi dell’antichità.

 

a cura di Lucica Bianchi

“COGITO ERGO SUM”

“Tutto ciò che pensa esiste” , “Io penso” “Dunque sono” . Il cogito non sarebbe dunque la conoscenza “prima e certissima” su cui tutto il resto si deve fondare , ma dipenderebbe da una premessa non sottoposta a dubbio, e quindi non dimostrata. Cartesio avrebbe così in qualche modo introdotto quella logica sillogistica di matrice aristotelica che tanto aborriva . Ma Cartesio stesso risponde all’obiezione , precisando che il cogito ergo sum non è un ragionamento discorsivo , ma un’ intuizione immediata , con la quale colui che dubita o che pensa – il che è lo stesso – percepisce la propria esistenza come un’ evidenza certissima e inconfutabile . Cogitare ed essere non sono i due momenti distinti di una successione logica – malgrado l’ergo che li connette – ma i due aspetti di un’ unica evidenza.

Descartes

René Descartes, conosciuto anche con il nome latinizzato di Renatus Cartesius e in italiano come Cartesio,nacque il 31 Marzo 1596 a La Haye nella Touraine. Fu educato nel collegio dei gesuiti a La Flèche dove entrò nel 1604 e rimase fino al 1612. Gli studi che egli fece in questo periodo furono da lui stesso sottoposti a profonde critiche nella prima parte del Discorso sul metodo: essi non bastarono a dargli un orientamento sicuro e alla ricerca di quest’orientamento Cartesio dedicò i suoi sforzi. Nel 1619 gli parve di aver trovato la sua vita in modo miracoloso: in una notte, come egli stesso narra, ebbe tre sogni successivi; obbedì all’ingiunzione dei sogni e fece il voto di andare in pellegrinaggio al santuario della Madonna di Loreto.
La prima intuizione del suo metodo Cartesio l’ebbe nel 1619; la prima opera nella quale essa trovò espressione furono le “Regole per dirigere l’ingegno” composte tra il 1619 e il 1630.In questo periodo fu nella milizia e partecipò alla guerra dei Trent’anni; ma il costume militare del tempo lasciava ai nobili ampia libertà e Cartesio poté viaggiare a suo talento per tutta l’Europa e dedicarsi agli studi di matematica e fisica, continuando a elaborare la sua dottrina del metodo. Nel 1628 si stabilì in Olanda: sia per godervi di quella libertà filosofica e religiosa che era propria di quel Paese, sia per poter lavorare a suo agio senza essere distratto dagli obblighi di società che a Parigi e in Provincia gli rubavano molto tempo.La condanna di Galilei del 22 giugno 1633 lo sconsigliò dal pubblicare l’opera Mondo, nella quale sosteneva la dottrina copernicana. In seguito pensò di divulgare almeno alcuni risultati che aveva raggiunto; e così nacquero i tre saggi la Diottrica, le Meteore e la Geometria ai quali premise una prefazione intitolata Discorso sul metodo, e che pubblicò nel 1637. Nel 1644 cedette ai ripetuti inviti della regina Cristina di Svezia di andare a stabilirsi presso la sua corte. Nell’ottobre egli giunse a Stoccolma; ma nel rigido inverno nordico si ammalò di polmonite e l’11 febbraio 1650 morì.

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nell’immagine: la regina Cristina (seduta al tavolo sulla sinistra) discute col filosofo francese Cartesio (particolare di un dipinto allegorico del XIX secolo).

Lucica Bianchi

Arthur Schopenhauer – Il mondo come volontà e rappresentazione

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Il mondo è mia rappresentazione»: — questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l’uomo soltanto sia capace d’accoglierla nella riflessa, astratta coscienza: e s’egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch’egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; che il mondo da cui è circondato non esistesse non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso.

Opera principale del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860), pubblicata a Lipsia nel 1819. Riallacciandosi al criticismo kantiano e ad alcune tesi già svolte o accennate in una sua prima opera La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, il filosofo vuole svolgere una metafisica a suo parere assai più vicina e consona ai princìpi della filosofia critica di quanto non fosse quella dei grandi maestri dell’idealismo, in particolare di Fichte e di Hegel. Mentre infatti l’idealismo prende le mosse dalla critica al concetto kantiano di “cosa in sé”, considerato dagli idealisti come un concetto dogmatico, Schopenhauer pone al centro della sua metafisica proprio un’interpretazione originale di quel concetto.

L’opera è divisa in quattro libri: il primo tratta del mondo come rappresentazione (fenomeno); il secondo espone i gradi e le forme di manifestazione della volontà nella natura; il terzo è dedicato alla teoria dell’arte e il quarto, che riprende i temi dei precedenti, svolge i problemi della morale e della filosofia della religione. Nella seconda edizione (1844) fu aggiunto un secondo volume, nel quale, in paragrafi corrispondenti a quelli del primo, l’autore completa e svolge in molti punti il suo pensiero.

Nel primo libro l’autore afferma: il mondo e la mia rappresentazione; esso consta unicamente di sensazioni, modificazioni del soggetto corporeo senziente, alle quali l’intelletto aggiunge immediatamente, cioè nell’atto stesso della sensazione, le forme di tempo, spazio e causalità che esistono preformate nella nostra facoltà conoscitiva e non hanno il loro fondamento nell’esperienza sensibile cui vengono unite con un atto incosciente della mente. Il mondo che così sorge è fenomeno, è rappresentazione; se da esso vogliamo risalire a ciò di cui esso è fenomeno, alla cosa in sé, ci troviamo nell’impossibilità di giungervi con le categorie dell’intelletto (tempo, spazio, causalità), che valgono solo per l’ordine fenomenico. Ma, ripetendo ciò che da altri punti di vista avevano già detto gli idealisti, anche Schopenhauer afferma che la cosa in sé non va ricercata fuori di noi: bensì in noi, in ciò che di noi vi è di più intimo, di più profondo, ciò che troviamo alle radici della nostra esistenza e della nostra persona: la volontà (“Wille”), intesa non come un valore razionale (“Wollen”), ma come una tendenza cieca, impulsiva, incosciente, mossa dal desiderio e dal bisogno. Essa è identica in noi e nelle cose, e, mentre in noi si agita come volontà dando origine alla coscienza e alla scienza come suoi strumenti, nella natura essa si agita come forza causale. Essa è “volontà di vivere”, tendenza all’autoconservazione; la sua identità è la base dell’identità personale. Questa volontà si manifesta esteriormente nella natura: a questa indagine è dedicato il secondo libro. Essa si manifesta in noi obiettivamente come corpo, nelle cose come materia e causalità; ma corpo, materia e causalità non sono che fenomeno: alla radice di essi, come vera e prima manifestazione della volontà, stanno le idee, platonicamente concepite come modelli della realtà.

Secondo Schopenhauer, infatti, il senso profondo della dottrina kantiana della cosa in sé e quello della teoria platonica delle idee coincidono: entrambi affermano che il mondo sensibile è in sé una realtà fittizia, che vale solo in quanto esprime un essere vero al quale sono estranee tutte le forme di esperienza fenomenica; tuttavia la cosa in sé e le idee non sono identiche: l’idea è la manifestazione immediata e quindi adeguata della cosa in sé obiettivata, divenuta rappresentazione – ma la cosa in sé e la volontà, per opera della quale, e della cui inquietudine, l’immobilità e unità delle idee si rompe nella molteplicità delle rappresentazioni fenomeniche secondo le categorie di spazio, tempo e causalità. Così è l’inquietudine della volontà che tende a creare il mondo delle cose apparenti, in cui alla pace delle idee si contrappone la lotta di tutto contro tutto, l’irrazionalità, il dolore, il male: perciò il pessimismo è la vera concezione del mondo, quale si è rivelata ai grandi geni dell’arte e ai grandi fondatori di religioni vere, come Cristo e il Buddha. Il male nasce dalla lotta, frutto della perenne inquietudine della volontà, fra le idee e le cose, la ragione e gli istinti: perciò esso non si potrà estirpare che estirpandone la radice: la volontà.

All’indagine della catarsi umana dalla schiavitù del volere sono dedicati il terzo e il quarto libro dell’opera. L’autore nega qualsiasi carattere progressivo alla storia: la volontà che sottostà ai fenomeni storici è sempre la stessa, per quanto varie possano esserne le illusorie forme fenomeniche.

Perciò la liberazione non può essere conseguita dalla specie umana, ma dall’individuo. È questo uno dei tratti di più forte opposizione fra il pensiero dello Schopenhauer e quello degli idealisti: ché mentre per questi ultimi il “progresso” o sviluppo della storia è fatto consistere proprio nel risolversi graduale dell’individuo nell’universale umanità la quale realizza concretamente l’Assoluto, per Schopenhauer la storia è solo un succedersi di apparenze illusorie, né esiste alcun divenire nei riguardi dell’Assoluto (costituito dalla volontà e dalle idee); e d’altra parte un reale progresso è ottenuto solo dall’individuo mediante un’azione antistorica, tale cioè che miri a disseccare la storia nelle sue radici. Tale azione si esplica in primo luogo con un’inversione dell’ordine volontà-conoscenza: la conoscenza fa prevalere il suo interesse su quello della volontà, si stacca da ogni bisogno pratico e diviene pura contemplazione; e questa è l'”arte”.

Alla liberazione per mezzo dell’arte è dedicato appunto il libro terzo dell’opera. Il modo ordinario di considerare le cose, proprie dell’intelletto, secondo le categorie di spazio tempo e causalità è sempre in relazione con la volontà: esso non dà una conoscenza pura, una conoscenza delle idee, ma una conoscenza fenomenica al servizio del tumulto e dei bisogni della volontà. Ma se questa, riuscendo a invertire se stessa, in un individuo dotato di eccezionale forza spirituale (“genio”), lascia sussistere solo l’intuizione, la pura conoscenza senza volontà, il puro rapporto con l’oggetto come tale, allora lo spirito coglie la pura obiettività dell’idea fuori del travaglio del divenire e della molteplicità. L’oggetto dell’arte è l’idea, non la cosa singola (fenomenica), e neppure il concetto intellettuale. Quest’ultimo infatti è astratto e discorsivo, e determinato solo nei suoi limiti: l’idea invece è adeguata, intuitiva, e, sebbene universale, determinata; essa è inaccessibile all’individuo nella sua individualità, come volontà (esistenza), ma accessibile solo a colui che, superando in sé ogni individualità e ogni volere, si sia identificato col puro soggetto del conoscere: un tale uomo non è più razionale, è geniale: la scienza è prodotta dalla ragione, l’arte dal genio. L’arte è dunque l’autocoscienza pura della volontà, e quindi un primo passo verso la catarsi; essa si esprime nel linguaggio più puro e più libero da schemi intellettuali, e pertanto la forma più elevata di essa, la più piena autocoscienza della volontà, è la musica: essa “sta alla generosità dei concetti come questi stanno alle singole cose”. Perciò, avendo in comune con essa la più chiara manifestazione intuitiva del concetto di volontà, la musica è filosofia e la filosofia è musica.

La forma suprema di liberazione è costituita dall’etica, cui è dedicato il libro quarto. Schopenhauer respinge il tipo classico di morale, la morale precettistica; la filosofia è sempre teoretica, il suo compito è sempre quello di indagare e scoprire la realtà ché questa non si lascia dare leggi; ma è pure avverso all’etica kantiana, fondata sul “dovere incondizionato” che è legge della volontà, poiché per lui la volontà è prima di ogni legge: essa “determina se stessa e in uno stesso atto determina l’agire e il mondo; fuori di essa non c’è nulla, e quei due prodotti sono essa stessa”. Pure respinge l’impostazione storicistica del problema etico cara agli idealisti: la storia, essendo concepita nel tempo, è fenomenica – essa è illusione, mentre la realtà della volontà è fuori del tempo, prima di ogni temporalità, è un “nunc stans”, un eterno presente. Questa storicità o atemporalità del volere si manifesta nella vita, che è la principale attualità obiettiva del volere stesso: essa non ha né passato né futuro, ma è sempre un presente; non solo, ma essa non si svolge propriamente negli individui, destinati a perire, ma nella specie; muoiono gli individui ma la vita non muore: “la terra, è vero, si rovescia dal giorno alla notte, e così l’individuo precipita veramente nella morte; ma il sole (la vita in se stessa) arde senza interruzione in un eterno meriggio… La forma della vita è un presente senza fine”.

La vita di milioni di uomini che mi hanno preceduto è la stessa vita che ora si agita in me, e che io stesso sento come estranea al tempo, e per così dire “gettata nel tempo” (è questo forse il più importante dei molti spunti offerti da Schopenhauer all’Esistenzialismo, contemporaneo). Ma la volontà è essenzialmente libera: solo i fenomeni obbediscono al principio di ragione (di cui il principio di causa è un aspetto), non la cosa in sé, cioè la volontà; non solo, ma la volontà è l’atto fondamentale da cui dipende il conoscere, e non viceversa. La libertà essenziale del volere si determina però nel fenomeno in maniera necessaria; anche nell’individuo il problema del libero arbitrio è risolto da Schopenhauer, riaccostandosi a Platone e a san Paolo, come libera scelta originaria del proprio essere, scelta che precede la conoscenza e la stessa esistenza fenomenica che ne rimane determinata. Ma questa volontà si determina ovunque, nella natura, nelle specie, negli individui, come bisogno, sofferenza, dolore: il dolore è la legge universale del mondo fenomenico, e il piacere non è che una momentanea soddisfazione, ossia cessazione di pena. Ciò posto, la vita morale consiste appunto nel fatto che la volontà, rendendosi nell’uomo cosciente di sé e del suo destino, e approfittando della sua libertà radicale (per cui essa non è vincolata neppure alla sua stessa esistenza), sceglie fra l’affermarsi di nuovo, sapendo che cosa ciò significhi, o il negarsi. Il bene, la liberazione, la catarsi è appunto costituita dalla negazione di sé. Questa può essere relativa, cioè limitazione della volontà dell’individuo di sopraffare gli altri e di vivere ai danni dell’altrui vita: e questa è la “giustizia”. Oppure come partecipazione dell’individuo alla vita di tutti gli altri, come puro amore, altruismo: ma siccome la vita è dolore, la partecipazione alla vita altrui è partecipazione al dolore, ossia “benevolenza” o “pietà”. Finalmente, questa negazione della volontà di vivere può essere totale, radicale: estinzione in sé di ogni volontà per mezzo della “santità”.

Questa estinzione ha un valore cosmico: nell’uomo tutta la natura acquista coscienza di sé, con l’estinzione della volontà di vivere nell’uomo si estingue tutta la volontà nella natura. Perciò non con il suicidio, che è atto vitale non meno del desiderio di vita, ma con l’ascesi si ottiene tale liberazione, predicata da tutte le grandi religioni, e in particolare dal buddismo che l’autore ritiene la più alta e la più perfetta delle religioni, e da cui prende molti concetti, fra cui quello culminante di “nirvana” (estinzione del volere). Ma con il “nirvana” la vita e l’essere non dileguano nel nulla e Schopenhauer osserva che si tratta di un nulla relativo: il nulla del mondo, il quale però è pura apparenza, non-essere; perciò il “nirvana” può avere anche un significato positivo, sebbene indicibile, perché completamente fuori di tutte le categorie con cui il pensiero costituisce il mondo fenomenico.

Tale è l’opera del grande pessimista, che già il De Sanctis aveva messo a raffronto con il Leopardi. Comunque si giudichino gli arbitrii e le incoerenze della sua metafisica, il suo grande valore sta nell’avere impostato, insieme a Schelling e a Kierkegaard, il problema della personalità individuale, il problema della natura propria dell’individuo spirituale, e di avere scorte chiaramente le deficienze dell’idealismo classico e dello storicismo relativamente a questo problema. Da Schopenhauer, come da Kierkegaard e da Feuerbach, nascerà una nuova corrente di pensiero che avvierà la filosofia europea contemporanea a quella duttilità, a quell’aderenza alla complessità della vita individuale che costituiscono la sua peculiarità e forse il suo unico valore nei confronti dei grandi sistemi del passato.

a cura di Lucica Bianchi

LA VIRTU’ COME MISURA

“Chi semina virtù fama raccoglie”

Leonardo da Vinci

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Agesandros, Athenodoros e Polydoros, Laocoonte, II sec. a.C., copia romana, marmo, alt m. 2,42, Musei Vaticani, Roma

Oggi per noi il termine virtù vuole indicare una qualità di eccellenza morale e si riferisce ad una parte caratteriale che è comunemente intesa in modo positivo. Questo significato specificamente etico gli è stato attribuito nel corso degli anni, originariamente infatti virtù deriva dal latino “virtus” e dal greco “aretè” che indicano la capacità di una persona di eccellere in qualcosa. Nel tempo ci si è sempre interrogati sul vero valore della virtù, essa è davvero in grado di portare l’uomo al raggiungimento dell’equilibrio, rifiutando gli eccessi e riuscendo così a condurre un’esistenza serena e tranquilla? Nell’epoca rinascimentale si è sviluppato il concetto di virtù come una qualità in grado di far individuare all’uomo la giusta via di mezzo. Questo tipo di concezione ha così un grande successo in questo periodo grazie alla presenza di una mentalità antropocentrica basata sull’esaltazione della virtù umana,ritenendola capace di far rifiutare all’uomo ogni tipo di eccesso e condurre così una vita felice e soddisfacente, Uno dei più celebri pensatori greci ad appoggiare questa teoria e a parlare di virtù come concezione dell’equilibrio fu Aristotele. Costui riteneva che le passioni umane erano esperienze caratterizzate dall’eccesso e dal difetto ed era quindi importante imparare a viverle “quel tanto che basta”, ciò era possibile solo grazie alla virtù che avrebbe permesso di provare le emozioni in modo equilibrato. Questa concezione aristotelica viene poi ripresa successivamente da un filologo tedesco M. Pohlenz, il quale sosteneva che “il meglio è sempre ciò che sta nel mezzo”. Il giusto “mezzo” consiste perciò in un comportamento virtuoso in grado di controllare gli impulsi,oltre a sottolineare l’importanza in ambito etico, Pohlenz lo fa anche in ambito politico individuando nella virtù l’unico mezzo per ottenere “un’intelligenza propriamente politica”.

La funzione della virtù era quindi quella di portare l’uomo all’individuazione del giusto mezzo proprio come sosteneva il poeta Orazio. Lui riteneva che soltanto un “animo temperato” potesse porsi in modo adeguato davanti alla sorte e fosse in grado di rifiutare ogni tipo di dismisura, dato che il vero equilibrio risiede nella moderazione. In sostanza, il concetto di virtù tra classicità e rinascimento ha una certa continuità, data la ripresa della cultura classica nel Cinquecento. Prima di questa data però, la virtù non aveva una tale importanza, a causa della presenza di una mentalità teocentrica, sostenuta dalla Chiesa, la quale affermava che il mondo fosse governato da una legge divina. Con ciò si vuole sottolineare che l’ideale di virtù ha subito molteplici variazioni nel corso del tempo per i cambiamenti avvenuti in ambito storico e sociale.

Oggi la virtù non è più un concetto denominato e definito in determinati canoni, ma viene comunemente intesa come quella qualità che rispecchia in qualche modo i nostri valori, le nostre idee e ci spinge a superare i nostri problemi. E’ quella capacità in grado di distinguere i “grandi uomini” da quelli comuni.

 

Micol Bianchi, studentessa 4^,Scienze Umane,

 Liceo G.Piazzi – C.Lena Perpenti, Sondrio

I SOFISTI

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Pianta della Pnice, ( in greco antico Πνύξ, traslitterato in Pnýx; in greco Πνύκα‎) è una collina di Atene, situata a ovest dell’Acropoli) ove si radunava l’Assemblea ateniese, e particolare con la tribuna dell’oratore.Buon cittadino, dicevano i sofisti, è chi sa influenzare l’Assemblea; e buon cittadino equivale a uomo buono; perciò, insegnando a parlare in pubblico, essi insegnavano la “bontà”- concezione negata da Socrate.

Di fronte a idee e concezioni contrastanti fra loro, si possono adottare due atteggiamenti: o cercare di vedere quanto di verità si trovi eventualmente nelle varie asserzioni onde arrivare alla fine a una concezione più esatta e completa, oppure tralasciare ogni ricerca della verità, affermando che è impossibile trovarla, da qualsiasi parte si cerchi, e che nel migliore dei casi possiamo semmai giungere a formarci opinioni personali valide per il disbrigo dei nostri affari.

La speculazione presocratica aveva, con le sue divergenti concezioni, prodotto esattamente questa situazione. Alcuni avevano infatti affermato che il mondo doveva essere fatto di un’unica sostanze base, altri, di molte.Qualcuno aveva sostenuto che nulla si muove, altri che tutto era in movimento. Quale allora la via da seguire?

I sofisti (dal greco sophòs, “sapiente”) non costituiscono una vera e propria scuola, né ebbero in tal senso vincoli che li unissero fra loro. Ciò che ne fa un gruppo ben distinto è la loro comune attività, in quanto esercitavano la professione di precettori che si spostavano qua e là insegnando dietro ricompensa. Il sapere che essi dispensavano era di un genere di tutto pratico: come riuscire nella vita e in particolare nella vita politica delle città-stato, la forma di organizzazione allora dominante in Grecia. Un cittadino doveva essere in grado di “trascinare” la folla durante le elezioni e di difendersi in tribunale.

In quanto fornirono un sistema educativo ai cittadini benestanti della Grecia, i sofisti fecero opera indubbiamente utile. Meno certo è invece il valore del contributo che essi diedero alla speculazione filosofica. Il loro atteggiamento circa la possibilità di giungere alla verità compare già nei poeti dell’epoca: Pindaro (522 circa-443 a.C.) aveva detto che le usanze sono quelle che hanno il sopravvento su tutto. E data la varietà di queste, la validità e l’utilità di ognuna di esse nel proprio ambiente, era facile giungere a negare l’esistenza di verità universali e a legare il valore di ogni cosa all’individuo.  Immagine

Busto di Pindaro

Il più noto fra i sofisti fu Protagora, nato ad Abdera (antica città della Grecia situata sulla costa della Tracia) verso il 481 a.C., per il quale “L’uomo è la misura di tutte le cose.Di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono.” (Protagora, fr.1, in PlatoneTeeteto, 152a)

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 Protagora. Influenzato dal pensiero di Eraclito e amico riconosciuto di Euripide e Pericle, Protagora (481 cca-415 a.C.) fu maestro in molte città. Ad Atene si scontrò con la tradizione religiosa, pagando con l’esilio dalla città per empietà.(la trascuratezza del culto di una religione, ovverosia della totalità della pratica religiosa esteriore). Scrisse “Ragionamenti demolitori” e “Antilogie.

La filosofia di Protagora voleva dire che per ciascuno è vera la concezione del mondo che ha; non c’è davvero alcun motivo per mettersi a cercare una verità universale e indipendente dal singolo. Ci piaccia o no, noi siamo immersi negli affari della vita quotidiana, e ciò che conta è se le nostre concezioni sono utili o no. Dunque, non ha alcun senso dire che le idee di uno sono più vere di quelle di un altro, mentre ha un significato ben preciso dire che esse sono migliori.

Un esempio tipico del modo di ragionare dei sofisti si ha nel primo libro della Repubblica, il dialogo di Platone in cui Socrate cerca di giungere a una definizione della giustizia. Nel corso della discussione il sofista Trasimaco afferma che la giustizia è ciò che fa comodo al più forte: tale è, almeno, il comportamento dei governanti. Socrate questo lo sa benissimo, ma ciò che egli chiede è la definizione della natura della giustizia, non ciò che gli uomini possono o non possono praticare.

La Sofistica, come detto, fu un movimento disomogeneo, e ogni sofista differiva dagli altri per interessi e posizioni personali. Tuttavia, è possibile riconoscere in questi autori alcuni caratteri comuni.

  • Centralità dell’uomo. I sofisti si interessarono prevalentemente di problematiche umane ed antropologiche, tanto che gli studiosi parlano di antropocentrismo sofistico. Essi approfondirono i temi legati alla vita dell’uomo, che venne analizzata soprattutto dal punto di vista gnoseologico (ciò che l’uomo può conoscere e ciò che non può conoscere),etico (ciò che è bene e ciò che è male) e politico (il problema dello Stato e della giustizia). L’essere umano veniva considerato a partire dalla sua condizione di individuo posto all’interno di una comunità, caratterizzata da determinati valori culturali, morali, religiosi e via dicendo. Essi insegnavano pertanto a osservare formalmente le leggi e le tradizioni della polis, così da diventare cittadini rispettati e di successo – quindi virtuosi.
  • Rottura con la “fisiologia” presocratica. Come conseguenza del punto precedente, i sofisti in genere trascurarono le discipline naturalistiche e scientifiche, che invece erano state tenute in grande considerazione dai filosofi precedenti. Per questa ragione alcuni studiosi hanno definito “cosmologica” la filosofia precedente ed “umanistico” o “antropologico” il pensiero sofistico. In realtà, va precisato che tale generalizzazione è per certi versi limitativa, poiché ad essa fanno eccezione i casi di Ippia di Elide (che, mirando ad un sapere enciclopedico, coltivò studi inerenti a vari campi scientifici, tra cui  matematica, geometria e astronomia) e Antifonte (il quale, studioso dei testi ipocratici, fu esperto di anatomia umana ed embriologia.
  • Relativismo ed empirismo. I sofisti concepivano la verità come una forma di conoscenza sempre e comunque relativa al soggetto che la produce e al suo rapporto con l’esperienza. Non esiste un’unica verità, poiché essa si frantuma in una miriade di opinioni soggettive, le quali, proprio in quanto relative, finiscono per essere considerate comunque valide ed equivalenti: si parla pertanto di relativismo gnoseologico. Questo relativismo investe tutti gli ambiti della conoscenza, dall’etica alla politica, dalla religione alle scienze della natura.
  • Dialettica e retorica. Le tecniche dialettiche dell’argomentare (cioè dimostrare, attraverso passaggi logici rigorosi, la verità di una tesi) e del confutare (cioè dimostrare logicamente la falsità dell’antitesi, l’affermazione contraria alla tesi) erano già state utilizzate da Zenone all’interno della scuola eleatica, ma fu soprattutto con i sofisti che esse si affermarono e si affinarono. La dialettica divenne una disciplina filosofica essenziale e influenzò profondamente la retorica, ponendo l’accento sull’aspetto persuasivo dei discorsi, fino a scadere nell’eristica. (l’arte del disputare attraverso schermaglie dialettiche volte a far prevalere la propria tesi, indipendentemente dal suo contenuto di verità). 

Alla luce di tutto ciò, alcuni studiosi hanno voluto vedere nel movimento sofistico una sorta di “illuminismo greco” ante litteram: in altre parole la Sofistica avrebbe in un certo senso anticipato alcuni motivi tipici di quel movimento culturale sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, l’Illuminismo appunto.

I sofisti volsero in genere la propria attenzione più ai problemi pratici che a quelli teoretici; pur tuttavia contribuirono anch’essi a imprimere una nuova direzione al pensiero greco: i primi filosofi si erano interessati soprattutto di cosmologia e di matematica, i sofisti, al pari dei grandi tragici del V secolo a.C.- Eschilo(525-456), Sofocle (496-406) ed Euripide (480-406)-, pongono invece l’uomo al centro della loro attività speculativa. Si affacciano così alla ribalta problemi etici e sociali, e anche Socrate condivise in parte gli interessi dei sofisti. Come lui, anch’essi gettarono il dubbio sulle convenzioni stabilite, il che valse loro la censura dei conservatori e dei tradizionalisti. Minando credenze e principi ormai affermati, i sofisti adombrarono in parte quello che diventerà più tardi il pensiero degli scettici.

                                                                                                        Lucica

Bibliografia

La storiografia moderna considera comunemente i sofisti come filosofi. Si veda a proposito: M. Untersteiner, Le origini sociali della sofistica, appendice a: I sofisti, Milano 2008, pp. 537-585; W.K.C. Guthrie, The Sophists, Cambridge 1969, p. 176-181; G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna 1988, pp. 15-25; G. Reale, Il pensiero antico, Milano 2001.

M. Vegetti, Introduzione a Platone, La Repubblica, BUR, Milano 2007

Dal punto di vista del contenuto, nella” Repubblica” si possono individuare due blocchi connessi tra di loro: i Libri I-V e i Libri VIII-IX sono di carattere etico-politico e trattano il tema della giustizia, mentre il blocco che va dalla seconda metà del Libro V ai Libri VI-VII tratta di argomenti più squisitamente filosofici. Il Libro X, infine, che riprende i temi dell’educazione e dell’arte, e narra il celebre mito di Er, sembrerebbe avere una funzione di appendice.

F. de Luise, G. Farinetti, L’infelicità del giusto e la crisi del socratismo platonico, in Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Bibliopolis, Napoli 1998-2007.

I PITAGORICI – I NUMERI

Pitagora, dettaglio della Scuola d'Atene, (1511) di Raffaello Sanzio

Pitagora, dettaglio della Scuola d’Atene, (1511) di Raffaello Sanzio

Verso la fine del VI secolo a.C.,una corrente di pensiero filosofico ci viene dalle teorie matematiche dei pitagorici. Partendo dalla scoperta delle leggi matematiche determinanti i fenomeni musicali, cioè dalla scoperta che l’armonia si fonda su semplici rapporti numerici di lunghezza delle corde (ottava, terza, quarta), i pitagorici pervennero a considerare il mondo come un’immensa struttura matematica. Se si vuole conoscere a fondo il mondo, si devono ricercare i numeri nelle cose.

Euclide e Pitagora, ovvero la Geometria e l'Aritmetica, formella del Campanile di Giotto, Luca della Robbia, 1437-1439, Firenze.

Euclide e Pitagora, ovvero la Geometria e l’Aritmetica, formella del Campanile di Giotto, Luca della Robbia, 1437-1439, Firenze.

Una tale concezione influenzò fortemente Platone e la sua Accademia. Nella nostra era, la grande rinascita della scienza, verificatasi nei secoli XVI e XVII, si rifece deliberatamente alla dottrina pitagorica per la quale il cosmo è intelligibile solo se viene considerato come una struttura retta da leggi matematiche.

Platone discorre con i suoi discepoli nell'Accademia

Platone discorre con i suoi discepoli nell’Accademia

Mappa dell'Antica Atene. L'Accademia è a nord della città.

Mappa dell’Antica Atene. L’Accademia è a nord della città.

  Non solo, ma anche la fisica matematica odierna segue in un certo senso lo stesso cammino dei pitagorici. La scuola pitagorica fu la prima a fare della ricerca scientifica disinteressata- “pura“, come diremmo oggi- un sistema di vita, sistema che dai suoi aderenti fu considerato superiore a qualsiasi altro. Noi dobbiamo ad essi il concetto di “teoria“, termine che in greco significa “osservazione”. Il viaggiare e l’osservare fu sempre tenuto in grande considerazione dai Greci (come del resto dimostrano anche gli antichi miti), ma con i pitagorici l’osservazione” diventa ricerca pura e disinteressata della conoscenza.

Attraverso l’indagine matematica i pitagorici si resero conto che le entità matematiche erano qualcosa di più perfetto che non le corrispondenti realtà del mondo sensibile. Un cerchio tracciato sulla sabbia non è perfettamente circolare, presentando gibbosità, rientranze e difformità di vario genere. Ma il cerchio matematico sul quale si dimostrano determinanti principi geometrici non è tanto il cerchio sensibile, tracciato materialmente, quanto un’immagine nella nostra mente. E’ da qui che nasce la “teoria delle forme o idee” (idea in greco significa immagine) elaborata da Socrate.

testa di Socrate, scultura di epoca romana, conservata al Museo del Louvre, Francia. Socrate fu il primo filosofo ad essere ritratto. Tutte le altre immagini dei filosofi presocratici sono frutto dell'immaginazione dei artisti che le hanno eseguite, senza un vero riscontro.

Testa di Socrate, scultura di epoca romana, conservata al Museo del Louvre, Francia. Socrate fu il primo filosofo ad essere ritratto. Tutte le altre immagini dei filosofi presocratici sono frutto dell’immaginazione degli artisti che le hanno eseguite, senza un vero riscontro.

I pitagorici consideravano i numeri come unità di misura aventi determinate dimensioni spaziali. Non solo, ma essi ritenevano tali unità indivisibili ed eterne, il che portava a conseguenze imbarazzanti. Se infatti applichiamo il famoso teorema di Pitagora al triangolo formato da due lati e dalla diagonale di un quadrato, troviamo che il rapporto tra i lati e l’ipotenusa non può essere espresso con nessuna unità di misura. Pitagora chiamò per questo tali numeri “incommensurabili”- termine che fu poi reso con “irrazionali”.

La sezione aurea fu studiata dai Pitagorici i quali scoprirono che il lato del decagono regolare inscritto in una circonferenza di raggio r è la sezione aurea del raggio e costruirono anche il pentagono regolare intrecciato o stellato, o stella a 5 punte che i Pitagorici chiamarono pentagramma e considerarono simbolo dell’armonia ed assunsero come loro segno di riconoscimento , ottenuto dal decagono regolare congiungendo un vertice si e uno no . A questa figura è stata attribuita per millenni à un’importanza misteriosa probabilmente per la sua proprietà di generare la sezione aurea , da cui è nata .

La sezione aurea fu studiata dai Pitagorici i quali scoprirono che il lato del decagono regolare inscritto in una circonferenza di raggio r è la sezione aurea del raggio e costruirono anche il pentagono regolare intrecciato o stellato, o stella a 5 punte che i Pitagorici chiamarono pentagramma e considerarono simbolo dell’armonia ed assunsero come loro segno di riconoscimento , ottenuto dal decagono regolare congiungendo un vertice si e uno no . A questa figura è stata attribuita per millenni un’importanza misteriosa probabilmente per la sua proprietà di generare la sezione aurea , da cui è nata .

I primi pitagorici concepivano i numeri come gnomoni (parola greca il cui tema è legato al verbo gignosko- “conosco”.

I numeri venivano costruiti con punti (detti alfa) e riconosciuti dalle loro forme geometriche, e cioè: triangolare T, quadrata S e rettangolare. Pertanto, 9 è un numero "quadrato", 3 è un numero "triangolare" ecc.

I numeri venivano costruiti con punti (detti alfa) e riconosciuti dalle loro forme geometriche, e cioè: triangolare T, quadrata S e rettangolare. Pertanto, 9 è un numero “quadrato“, 3 è un numero “triangolare” ecc.

La tradizione matematica dei pitagorici venne portata avanti dall’Accademia di Platone, e il suo grande erede  fu Euclide di Alessandria, vissuto intorno al 300 a.C., il quale nel suo capolavoro, gli “Elementi”, raccolse in forma deduttiva, oltre ai suoi stessi contributi, anche tutte le scoperte che fino allora erano state fatte dai matematici greci.

Euclide di Alessandria

Euclide di Alessandria

Un famoso teorema di Euclide dimostra che esiste una serie indefinita di numeri primi, cioè numeri che non hanno fattori. Euclide adopera un tipo di argomentazione detto reductio ad absurdum (riduzione all’assurdo, o dimostrazione per assurdo), in cui una proposizione viene dimostrata provando come il suo contrario porti a una conclusione che è del tutto assurda.

Un frammento di papiro contenente alcuni elementi della geometria di Euclide

Un frammento di papiro contenente alcuni elementi della geometria di Euclide

Euclide, Elementi, edizione del 1570

Euclide, Elementi, edizione del 1570

                                                                                                                                           Lucica

I PRESOCRATICI

I primi scienziati-filosofi furono di Mileto, il fiorente centro ionico sulla costa dell’Egeo.

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Il teatro di Mileto

Essi cercarono di dare una spiegazione generale del mondo, di come è fatto e del modo in cui si trasforma. Talete, il fondatore della scuola di Milete, è ricordato soprattutto per aver affermato che tutte le cose sono fatte di acqua (si può osservare come dalla superficie del mare il calore solare faccia evaporare l’acqua che poi ricade in forma di pioggia). Che questa concezione si sia in seguito rivelata erronea non è rilevante nel nostro caso. Anzi, si può quasi dire che costituisca un vantaggio, in quanto non avendo più queste teorie un interesse scientifico, è più facile studiare il meccanismo logico con cui sono state costruite.

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Talete di Mileto

Quello che a noi preme è infatti il metodo seguito per formulare il principio generale, il procedimento adottato per elaborare l’ipotesi, procedimento che è sempre rimasto lo stesso.

Eraclito di Efeso, vissuto intorno al 500 a.C., non era un filosofo particolarmente interessato alla ricerca scientifica, ma partendo dalla teoria della lotta dei contrari avanzata dal successore di Talete, Anassimandro, e dalla nozione di armonia elaborata da Pitagora, escogitò una nuova teoria per dimostrare che cosa fa andare avanti il mondo; la ragione cioè, per cui il mondo non soccombe di fronte alla lotta, ai contrasti e al caos.

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Eraclito, olio su tavola di Hendrick Brugghen, 1628, Rajksmuseum, Amsterdam

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Anassimandro

                                                                                                                                                                                                                    Pitagora

 La risposta a tutto questo è che i numerosi e continui cambiamenti che si verificano nel mondo accadono in base a determinati rapporti o proporzioni. Ciò che a prima vista ci sembra lotta e contrasto, nasconde invece una profonda armonia, un ordine. Mantenendosi entro tali rapporti, il mondo continua ad andare avanti. Esso è cioè un processo, per il quale, la lotta o il cambiamento sono essenziali. Questo voleva dire Eraclito quando affermò:” la lotta è la genitrice di tutto.” Tutto cambia continuamente, così come quando uno scende nello stesso fiume per la seconda volta, ma l’acqua è diversa, e il fiume non è più esattamente lo stesso. Per Eraclito la sostanza base è il fuoco; nel guizzar della fiamma e nei cambiamenti che accompagnano il processo della combustione egli vede impersonato il suo principio di eterno divenire.

Una concezione del tutto opposta fu affermata da Parmenide di Elea, città della Magna Grecia. Secondo lui, nulla si muove. Scrivendo intorno al 470 a.C., Parmenide afferma: “l’essere è, il non essere non è”. In altre parole, se tutte le cose sono fatte di una qualche sostanza base,  non può esistere una cosa che si chiami spazio vuoto, o non ente.

Parmenide di Elea

Parmenide di Elea

Il filosofo di Elea conclude perciò che il mondo è un solido uniforme- egli lo chiama l’Uno- e di forma sferica, dato che esso deve essere in un qualsiasi luogo come in un’altro, uguale. Questa è la conclusione logica della teoria della sostanza base. Una teoria, che cerca di spiegare tutto in termini di una sola sostanza, viene detta monista.

La critica di Parmenide suggerisce per la prima volta che abbiamo bisogno di una qualche nozione di spazio vuoto in cui possa avvenire il moto. Diversi furono i tentativi fatti per controbattere la critica eleatica. In Sicilia, Empedocle (490 circa-430 a.C.) affermò che l’acqua, l’aria il fuoco e la terra erano tutte sostanze base. Queste quattro radici delle cose si combinano e si separano in base ai principi dell’amore e dell’odio. Ma anche una semplice moltiplicazione di sostanze non aiuta in realtà a risolvere il problema. Anassagora, uno ionico stabilitosi ad Atene (500 circa-428 a.C.), si avvicinò di più al nocciolo del problema, parlando di una divisibilità all’infinito, che però è solo una proprietà della spazio.

Anaxagoras

Anaxagoras

L’ultimo passo lo fecero gli atomisti, i quali, adottata la sostanza base di Parmenide, spezzarono il suo solido mondo sferico in tante piccole particelle, o atomi di varie forme e tali da non poter essere ulteriormente divisi. Atomo significa infatti qualcosa che non può essere cambiato. Prendendo poi a prestito da Eraclito la teoria del perpetuo divenire, gli atomisti spiegarono il cambiamento come dovuto al moto, nello spazio, di atomi immutabili. In essenza, il mondo cambia col mutare della disposizione dei atomi.

Il primo ad avanzare la teoria atomista fu Leucippo di Mileto, vissuto, sembra, verso la metà del V secolo. Ma il vero rappresentante dell’atomismo fu Democrito. Tale dottrina doveva diventare, circa un secolo più tardi, il fulcro della filosofia di Epicuro e trovare nel I secolo a.C., la più completa elaborazione col filosofo romano Lucrezio.

Leucippe

Leucippe

Democrito, olio su tela, Peter Paul Rubens, Museo del Prado, Madrid, Spagna

Democrito, olio su tela, Peter Paul Rubens, Museo del Prado, Madrid, Spagna

Tito Lucrezio Caro

Tito Lucrezio Caro

LA FILOSOFIA GRECA

I Greci affrontarono il problema della conoscenza del mondo in modo diverso da tutti gli altri popoli dell’antichità: essi riconobbero che il ragionamento, per essere davvero tale, deve procedere sulla base di principi generali, ed è per questo che vengono unanimemente considerati i fondatori della filosofia. Diversamente dalla speculazione egizia e mesopotamica, la filosofia greca si accompagnò infatti ai primi passi della scienza.

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In una miniatura araba, Dioscoride mentre insegna ad un allievo. Epigono della scuola alessandrina, nel primo secolo d.C. la sua opera” De materia medica” (Sulla materia medica) fu tra le ultime di carattere veramente scientifico della civiltà greco-romana.

E’ vero che alcune nozioni sulle stelle, sulle piante, sui metalli, et cetera i Greci le avevano ereditate dalle precedenti culture orientali, ma si trattava di nozioni essenzialmente empiriche e frammentarie, capaci di mettere l’uomo in grado di affrontare situazioni particolari senza però offrirgli una visione generale del mondo. I costruttori egizi sapevano, ad esempio, che facendo nodi in una corda in modo da dividerla in 12 lunghezze uguali e formando poi con la medesima un triangolo rispettivamente di 3, 4 e 5 lunghezze, si aveva un triangolo rettangolo. Ma doveva essere un greco, Pitagora, a dimostrare il teorema sui triangoli rettangoli.

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Il filosofo greco Pitagora

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Il teorema di Pitagora sui triangoli rettangoli

Il concetto di prova, di dimostrazione universalmente valida, è un’invenzione peculiarmente greca, ed è ciò che segna l’inizio della scienza e della filosofia in contrapposizione ai brancolamenti delle civiltà precedenti.

Non solo, ma i pensatori greci furono gli unici che intrapresero ricerche senza proporsi come fine primo l’utilità pratica, giacché cercavano di comprendere il mondo per il puro amore della conoscenza. La nostra tradizione filosofica risale direttamente al pensiero greco, pensiero che è tuttora importantissimo per noi, tanto che ad esso bisogna rifarsi per comprendere come sono sorti i grandi problemi della filosofia e della scienza.

                                                                                                                                                                                         Lucica