Il piacere della condivisione e dell’appartenenza ad una comunità

 

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nella foto: il Coro Valtellina nel Museo della Chiesa Parrocchiale di Talamona

 

Da sempre il Coro Valtellina si attiva con successo per realizzare iniziative volte a valorizzare e promuovere il patrimonio musicale e per rispondere con sollecitudine a richieste di partecipazione a eventi culturali e, anche quest’anno, ha dato ampiamente prova di tale costante impegno.

A titolo informativo segnalo, con alcuni flash, le attività che lo hanno coinvolto negli ultimi tempi.

A Piateda, presso il Polifunzionale, sabato 14 novembre ha preso parte, con i Giovani Cantori “G. Fumasoni” di Berbenno ed il Coro Lareit di Bormio, alla 9^ edizione Autunno in Canto organizzata dall’Associazione Culturale L’Ghirù. Una serata all’indomani di una immane tragedia che ha colpito profondamente il mondo intero; una serata particolare in cui si è affermato con vigore il potere unificante della musica, portatrice di intese, pace, dialogo tra le genti e si è lanciato, attraverso il bel canto, l’augurio fiducioso e speranzoso di un futuro migliore.

A Villa di Tirano, nell’ampia chiesa di San Lorenzo, il 26 dicembre, si è tenuto il “Concerto di S. Stefano” promosso dal Coro Bernina con la partecipazione del Coro Valtellina, i quali hanno dato vita ad un coinvolgente spettacolo che ha contribuito a ricreare, grazie alla piacevolezza e all’armonia della musica, l’atmosfera magica del Natale.

Il Natale, un’importantissima ricorrenza religiosa, che via via si è connotata come la festa dei sentimenti, della famiglia, dell’amicizia, degli affetti, dei valori, del ritrovare l’essenza e del ritrovarsi.

I molteplici messaggi emersi dai testi dei brani proposti – appartenenti al classico repertorio natalizio e, al contempo, estremamente attuali – hanno acceso nei presenti il desiderio di un domani intriso di fiducia e serenità.

E proprio nel periodo natalizio, il Coro Valtellina nell’ambito della manifestazione I presepi delle Contrade –  una tradizione che va avanti dal lontano 89 e che, nel corrente anno, con il logo ha meritatamente ottenuto un riconoscimento ufficiale per la creatività, la vivacità, la laboriosità della comunità talamonese, fortemente sostenuta da spirito di squadra e di fraterna collaborazione – ha ulteriormente tradotto la sua disponibilità regalando canti in giro per le vie del paese.

Domenica 27 dicembre è stata la volta del Tempietto Votivo – un luogo sacro, ai piedi della montagna, lontano dai ritmi frenetici e rumorosi del quotidiano quasi a voler preservare le anime delle molte vite spezzate per ideali di patria -, dove Alpini di diverse generazioni, con l’infaticabilità di sempre, hanno realizzato un presepe denso di tristi ricordi. In una fredda sera sotto le stelle, i coristi, con una apprezzata parentesi canora sui temi della grande guerra, hanno levato gradevoli note al cielo per ricordare e non dimenticare! Un doveroso omaggio alla nostra memoria storica.

Lunedì 28 il punto di incontro è stato il presepe del regno dei Puffi, i fantastici omini blu che, anni addietro, tanto hanno divertito moltissimi bambini e continuano ancora a suscitare curiosità ed interesse in grandi e piccini. Anche nel salotto di via Mazzoni, allestito con semplicità ma con tanta fantasia e voglia di ospitalità, il numeroso pubblico ha accolto con gioia i doni offerti dal Coro Valtellina: una serie di pezzi che, con delicatezza e garbo, rievocano paesaggi e personaggi di quella famosa notte santa; narrano di quell’evento misterioso che ha determinato il corso della storia; annunciano gaudio; diffondono fermenti di pace e semi di armonia che pervadono i cuori.

E per finire – su gentile invito del Gruppo del presepe di Cà Giovanni –  mercoledì 30, non poteva certo mancare il consueto appuntamento nella suggestiva chiesetta di San Giorgio, primo nucleo abitativo di Talamona, dove si avverte ancora la forte presenza del passato. In quella sobria cornice, un numeroso gruppo di persone – uomini, donne, bambini, giovani, meno giovani -, dopo una salutare camminata in compagnia dell’amica luna che ha illuminato il cammino, ha avuto la fortuna di gustare prodotti speciali. Infatti, oltre al Coro Valtellina – abilmente diretto dal direttore Mariarosa Rizzi – erano presenti alcuni poeti afferenti al Laboratorio Poetico di Morbegno, a cura della responsabile Paola Mara De Maestri, che hanno generosamente offerto immagini ricordi suggestioni emozioni riflessioni pensieri personali, fissati in bella rima sulla carta.

Un fruttuoso momento di pausa per assaporare musica e poesia: due arti antichissime che, fin dalla loro nascita, furono intimamente e inscindibilmente legate, accomunate da una ritmica ed armoniosa trama di suoni e parole toccanti.

Il ben riuscito sodalizio fra “parole recitate” e “parole cantate” è proseguito domenica 3 gennaio con il Cantico di Natale – sempre organizzato dal Laboratorio Poetico di Morbegno, sotto la guida della capace Paola Mara De Maestri e dall’Assessore alla Cultura Anna Tonelli del Comune di Cosio Valtellino -, a Piagno, nella raccolta ed accogliente chiesetta parrocchiale, a chiusura delle molteplici manifestazioni che hanno vivacizzato e caratterizzato il clima festoso e gioioso del Natale.

Gli influssi positivi emanati dai brani poetici alternati ai componimenti musicali hanno trovato terreno favorevole negli animi ben disposti dell’attento pubblico e sono stati un’utile occasione per un’esplosione di auguri per invitare a costruire relazioni autentiche, a lasciare tracce significative, a continuare ad assumere un atteggiamento di stupore verso le meraviglie del reale. Una ventata di positività, di ottimismo in un periodo caratterizzato da continui eventi tragici, di profondo cambiamento – a livello non solo locale ma nazionale e mondiale – per spingere ciascuna persona a celebrare la speranza e ad impegnarsi per un mondo migliore.

Rifacendomi all’accezione etimologica di Natalerelativo alla nascita – e al correlato significato di ri-nascita riscoperta rinnovamento – personale e collettivo -, formulo a tutti noi l’augurio di onorare il Natale nei nostri cuori  e di cercare di tenerlo stretto tutto l’anno, per poter così dire:- Ogni giorno è Natale!

Grazie a Anna, Cesare, Giuseppina, Giusy, Mariella, Paola, Paolo, Patrizia che hanno recitato con passione le loro belle poesie, frutto di creatività e sensibilità, e grazie a tutto il Coro Valtellina che, proprio nella coralità d’insieme, conferisce espressione e spessore alle singole belle voci.

A questo proposito, ricordo che il Coro Valtellina, fermamente convinto della necessità di investire sul capitale umano, sarebbe ben lieto di vedere aumentare la sua famiglia… perciò chi volesse intraprendere un divertente viaggio nell’avventura canora non ha che da farsi avanti!

E con tale ottimo auspicio, naturalmente do appuntamento all’anno prossimo per rinnovare – nell’incontro con l’altro – la magia del Natale!

In conclusione non posso fare a meno di rivolgere un affettuoso ringraziamento a tutte le persone – e sono davvero tante – che con estro creativo, impegno, sacrifico, buona volontà, dedizione rendono possibili lodevoli iniziative, a testimonianza di una comunità attiva, operosa, appassionata che incarna il valore della condivisione, della solidarietà e del piacere dello stare insieme.

Cinzia Spini, presentatrice del Coro Valtellina

 

IL TALAMONESE

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Torna, dopo un anno di stop, il Talamonese, il periodico di informazione del Comune di Talamona. L’amministrazione ha, infatti, deciso di continuare la tradizione interrotta durante il periodo del Commissariamento. Come in passato, l’obiettivo dell’iniziativa editoriale è quello di avvicinare i cittadini agli amministratori e far conoscere le innumerevoli associazioni e gruppi di persone impegnate nel promuovere attività culturali e sportive in paese. “Voglio ringraziare tutta la redazione e tutti coloro che hanno contribuito alla pubblicazione di questo primo numero – ha sottolineato Elena Pescucci – e invitare i talamonesi a partecipare a questo progetto editoriale che è di tutti. Siamo contenti di aver inaugurato questo nuovo ciclo, siamo già pronti a lavorare sul secondo numero: chi vorrà potrà inviare i propri scritti o le tematiche che vorrebbe fossero approfondite. Insieme alla redazione valuteremo tutte le richieste che arriveranno”.

Duemila e duecento le copie che entreranno nelle case dei talamonesi. Come? Attraverso la consegna porta a porta da parte dei volontari. “Abbiamo chiesto ai talamonesi di darci una mano – ha spiegato Lucica Bianchi – un bel gruppo di persone si è già reso disponibile. Ad ognuno è stata assegnata una via o una contrada. Chiunque volesse aiutare è il benvenuto. Può farlo semplicemente mettendosi in contatto con noi. Verranno comunque istituiti anche dei punti di diffusione: in Comune, in Biblioteca, nella sede della Proloco e nell’ufficio Servizi Sociali e Cultura”.

 

 

IT. ITINERARI TALAMONESI. CASA VALENTI

 

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TALAMONA 25 luglio 2015 una giornata alla scoperta del nostro patrimonio storico

 

LA STORICA DIMORA TALAMONESE APRE OGGI AL PUBBLICO LE SUE PORTE E IL SUO BAGAGLIO DI PERSONAGGI E DI VISSUTI

di Antonella Alemanni

Un itinerario artistico all’insegna della Storia alla scoperta dell’arte, della musica e delle tradizioni enogastronomiche valtellinesi. Così l’assessore per le politiche culturali Lucica Bianchi ha introdotto il nutrito evento che ha avuto luogo oggi a partire dalle ore 17 “e dove se non qui a Palazzo Valenti?” ha proseguito l’assessore, “uno dei notevoli esempi di architettura cinquecentesca valtellinese, rappresentativa per Talamona anche per capire il modo di essere talamonesi, il modo di pensare e di vivere il nostro paese”. Un percorso culturale reso possibile dalle competenze di Giampaolo Angelini e Simona Duca, studiosi appassionati e sensibili di storia locale, dalle esponenti dell’associazione Bradamante Elena Riva e Beatrice Pellegrini e dal maestro assaggiatore Renato Ciaponi per la degustazione finale di prodotti tipici valtellinesi “professionisti che per il loro bagaglio di conoscenza, per il loro vissuto personale, le loro esperienze e la preparazione professionale sono intimamente e profondamente legati a questa dimora” ha sottolineato l’assessore nel presentarli. “…siccome bellezza significa anche armonia” ha proseguito l’assessore “nel corso di questo percorso saremo accompagnati dal quartetto di fiati della filarmonica di Talamona”. Un percorso reso possibile però in primo luogo dalla famiglia Airoldi che detiene la proprietà e abita tuttora il palazzo, dalla disponibilità con cui ha deciso di condividere, almeno per questo giorno questo bene che ha l’inusuale caratteristica di essere un bene comune, ma nello stesso tempo anche privato. Ed è ringraziando le figlie della signora Adriana Airoldi (nipote diretta dell’ingegner Clemente Valenti purtroppo recentemente scomparsa) che l’assessore Lucica Bianchi ha concluso il suo intervento introduttivo cedendo la parola al sindaco Fabrizio Trivella che ha spiegato brevemente la genesi di questa iniziativa “il primo evento culturale organizzato sotto la nostra amministrazione, nato da un suggerimento della famiglia Airoldi desiderosa di porre all’attenzione dei Talamonesi questo patrimonio culturale e architettonico il cui valore, che tutti possiamo apprezzare, è stato in passato riconosciuto anche dalla soprintendenza ai beni culturali. Dietro suggerimento della famiglia Airoldi si è dunque mossa la macchina amministrativa con lo scopo di creare una scenografia e una coreografia che potessero dare un ulteriore valore a quest’opera. È stato così che si è pensato di creare questa giornata con l’obiettivo di promuovere il nostro territorio coinvolgendo tutte le eccellenze di Talamona, le eccellenze culturali radicate sul nostro territorio del quale hanno una profonda conoscenza e soprattutto che si spendono per il paese e per dare un ulteriore contesto abbiamo coinvolto anche la nostra banda che rappresenta già in sé un patrimonio d’eccellenza di Talamona. Il tutto con lo scopo di mettere in atto un primo tentativo di sinergia tra pubblico e privato proprio con l’obiettivo di valorizzare il territorio, perché saper valorizzare le nostre eccellenze e saperle anche promuovere è ciò di cui la nostra comunità ha realmente bisogno”. A questo punto la parola è passata alla signora Paola Airoldi che ha illustrato il profondo legame della sua famiglia con il palazzo “noi raccogliamo un’eredità” ha spiegato “dai nostri genitori e insieme a questa eredità il compito di conservarla sia per mantenerne l’abitabilità senza stravolgerne l’architettura sia esterna che interna, ma anche, come già faceva mia madre circondandosi di studiosi interessati, per portare avanti un’attività di recupero della storia legata a questa casa che è il passato della nostra famiglia, il suo patrimonio immateriale che comprende anche le famiglie che hanno preceduto la nostra nell’abitare questa casa. Quindi per noi c’è il senso di una continuità storica che non è soltanto una questione affettiva personale, ma un qualcosa che riguarda tutta la comunità perché ritengo che, per una comunità, la conoscenza delle proprie radici storiche sia fondamentale per la coscienza della propria identità individuale. Se per esempio un bambino non conosce la propria famiglia, l’identità dei suoi genitori gli risulterà poi molto difficile crescendo determinare la sua stessa identità. Se noi invece ci riappropriamo della nostra cultura e della nostra storia questo ci renderà più forti. In questo senso, osservando la facciata, che oggi appare molto deteriorata, ma che un tempo doveva essere splendida, non si può non pensare ai suoi committenti che sicuramente avranno voluto, tramite questi affreschi, celebrarsi come famiglia, celebrare la loro potenza e la loro ricchezza e che oggettivamente hanno fatto un regalo alla gente nei secoli a venire sino a noi, perché una facciata affrescata di tale fattura è molto difficile da trovare sul nostro territorio. Questa è dunque la sua ricchezza, ma anche il suo limite perché, essendo una facciata è un patrimonio facilmente visibile, ma nello stesso tempo facilmente deteriorabile. Parlando di arte storia e cultura io ho sempre inteso tutto questo non semplicemente come erudizione, ma come la possibilità di utilizzare questa conoscenza per godere della bellezza che l’arte comunica. Nel caso di questi affreschi, passarci vicino, osservarli e sapere quello che raccontano costituisce un valore rispetto ad una non conoscenza” dopo i necessari ringraziamenti a tutti coloro che non solo hanno contribuito a rendere possibile questa giornata (“che sia l’inizio di un percorso che continui e che attraverso lo studio del territorio ci permetta di capire chi siamo” ha ancora sottolineato Paola Airoldi) , ma che nel corso degli anni si sono impegnati nello studio e nella valorizzazione della facciata, ma anche dei documenti che sono stati di volta in volta ritrovati, è venuto il momento di entrare nel vivo di questa giornata.

La facciata ariostesca, immagini e poesia

Il primo intervento è stato quello di Beatrice Pellegrini ed Elena Riva. La prima, autrice di una tesi di laurea sugli affreschi della facciata di palazzo Valenti (che ha avuto modo di presentare nel corso di un passato evento culturale) ha descritto uno per uno gli affreschi della fila superiore della facciata, ciascuno corrispondente ad un canto dell’Orlando Furioso, magistralmente recitato da Elena Riva, che in questo senso già da qualche anno svolge la funzione di lettrice ufficiale dell’associazione Bradamante.

Ci troviamo di fronte a questo splendido palazzo del XVI secolo ha esordito Beatrice Pellegrini introducendo la sua presentazione appartenuto alla famiglia Spini fino al 1837 anno in cui la proprietà è passata alla famiglia Valenti che la detiene tuttora. La facciata del palazzo si può dividere in due registri di cui quello superiore è il meglio conservato. Vi si possono osservare sei affreschi a monocromo nei toni del bronzo ispirate alle vicende ariostesche. Mentre la lettura tradizionale vedeva e poneva il primo riquadro alla vostra sinistra oggi tenterò di proporvi una mia nuova interpretazione ponendo invece come primo riquadro quello alla vostra destra nonché il primo che si scorge salendo la stretta via che conduce dalla chiesa al palazzo.

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Come possiamo vedere il primo riquadro rappresenta una donna a cavallo che cerca di fuggire da un cavaliere ritratto in secondo piano. La scena è tratta dal primo canto dell’Orlando Furioso nel quale Angelica cerca di fuggire ai propri pretendenti, in questo caso da Rinaldo “che a piè venia verso di lei”

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Nel secondo riquadro una scena di lotta tra due cavalieri e l’interpretazione è stata resa possibile dal fatto che uno è senza elmo e dunque lo si è potuto ricondurre alla figura di Ferraù che nel poema, nel gesto di bere fa cadere il proprio elmo nell’acqua. Sullo sfondo scorgiamo ancora una volta Angelica in fuga

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Nel terzo riquadro ancora una volta vediamo un combattimento, questa volta a cavallo, nel quale, il cavaliere vincitore, come possiamo notare è rappresentato con tratti spiccatamente femminili sicuramente più delicati rispetto a quelli del suo avversario che presenta invece dei folti baffi. Ci troviamo di fronte a Sacripante che disarciona l’avversario Bradamante.

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Gli ultimi tre affreschi della facciata si svolgono nel secondo canto. Come possiamo notare, nel quarto riquadro è rappresentata ancora una scena di lotta nel quale il cavaliere e il suo prode destriero Baiardo scacciano con forza l’avversario mentre sullo sfondo vediamo altre due figure a cavallo che sono Angelica, che incontra l’eremita il quale, per salvarla ancora una volta dai pretendenti invoca un valletto rappresentato tra le fronde degli alberi.

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Il penultimo riquadro è caratterizzato invece da una figura centrale nella quale si riconosce Bradamante che erra trascinando il proprio cavallo. Con un po’ di difficoltà possiamo scorgere tra le fronde degli alberi un cavaliere che incede tacito solerte e pensoso e triste per aver perso la propria amata. Un altro particolare molto interessante è quello dell’alta rupe dalla quale si può scorgere l’Ippogrifo che fugge dalla propria dimora con il mago Atlante.

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Questi due protagonisti li ritroviamo anche nell’ultima scena affrescata dove Pinabello, riconosciuta l’acerrima nemica Bradamante, cerca di spingerla con un grosso ramo all’interno di una grotta. Quel che è interessante e che mi ha permesso di rivalutare l’intero ciclo è un particolare ora difficilmente visibile. Bradamante, in tutte le scene che troviamo in quest’ordine, è affrescata con un particolare molto interessante sullo sbuffo della manica, una testa leonina, un particolare che ha permesso una nuova identificazione e una nuova lettura.

Intervento di Giampaolo Angelini, docente all’università degli studi di Pavia

Il percorso conoscitivo di palazzo Valenti si è spostato a questo punto nel cortile interno che dà sui giardini dove, prima della visita guidata vera e propria all’interno delle varie stanze è stato possibile ascoltare un excursus dei principali personaggi e delle principali vicende legate alla storia di questa dimora, intervallati dagli intermezzi musicali del quartetto di fiati della filarmonica di Talamona. Il primo racconto ascoltato, una volta passati dalla pesante porta di ferro alla sinistra della facciata per chi viene da fuori è stato quello di Giampaolo Angelini, che ha dato inizio alla sua trattazione con una serie di ringraziamenti, in particolar modo alla signora Adriana Valenti-Airoldi “che negli ultimi decenni è stata l’anima di questa casa”.

Ci troviamo di fronte ad una dimora che è legata dal punto di vista storico-artistico in modo particolare al secolo XVI quando è stata decorata la grande facciata che dà sulla via Valenti. Però l’immagine che noi oggi abbiamo di questa dimora è un’immagine prevalentemente ottocentesca e delle vicende dei protagonisti che hanno animato questa casa dall’Ottocento in poi ci dirà meglio Simona Duca nel corso del suo intervento, in particolar modo del rilevante ruolo sociale dell’ingegner Clemente Valenti che ha dato il nome alla via che passa da questa casa. Ora però vorrei parlare brevemente di un aspetto della storia della famiglia Valenti a Talamona. I Valenti arrivano in questa dimora nei primi decenni dell’Ottocento lasciando una casa che ora ancora si trova all’inizio della via Torre che non è stata restaurata, ma che conserva il nome Valenti scritto a sanguigna sull’intonaco sopra il portone che in origine aveva anche un battente bronzeo a serpentello, simile a quello che si vede nel portale di questa casa. I Valenti arrivano in questa dimora perché, in particolar modo Giovanni Battista Valenti, il cui ritratto è esposto in casa, acquisiscono i beni degli Spini, un’antica famiglia originaria di Tartano che si è insediata a Talamona alla fine del Cinquecento e il cui coinvolgimento nella commissione della facciata non è ancora oggi ben chiaro, però la si può identificare come la famiglia legata alla storia di questa casa dal Cinquecento all’Ottocento, quando poi subentrano i Valenti in un momento che per la famiglia è significativo di affermazione sociale ed economica proprio attraverso questo passaggio di proprietà comprensiva di beni fondiari e immobili degli Spini un’importante famiglia esponente dell’aristocrazia locale. Un passaggio di proprietà che per i Valenti significa anche l’assunzione del notabilato di Talamona. Quasi da subito, almeno a partire all’incirca da Ciriaco e da Tommaso Valenti tutti gli esponenti della famiglia sviluppano un forte attaccamento alla memoria collettiva del paese un interessamento per la tutela del patrimonio artistico. Un interesse che ben si esprime attraverso la figura di Clemente Valenti, ingegnere che ha legato il suo nome alla fondazione della latteria e a varie iniziative sociali, ma anche agli scavi archeologici che hanno interessato l’area dell’attuale cimitero che viene costruito in quegli anni proprio su progetto dell’ingegner Valenti che disegna tra l’altro il modello del portale d’ingresso un po’ arcaico e poi si interessa personalmente degli scavi nel momento in cui emergono importanti rinvenimenti archeologici oggi conservati al museo civico di Sondrio perché Clemente Valenti ha segnalato a suo tempo questi ritrovamenti alle autorità provinciali in particolar modo al comitato archeologico e così facendo ne evita la dispersione. Un lavoro di non poca importanza non comune tra i notabili dell’epoca che quando si trovano di fronte a reperti che riemergono dal passato li disperdono oppure li acquisiscono per collezioni private. In questo caso invece Clemente Valenti si adopera affinchè questi reperti, testimonianza più antica della storia talamonese, divengano di pubblico interesse. Lo zio di Clemente, Tommaso, diventa arciprete di Bormio, nel 1842. Fervente patriota, (il patriottismo è un leitmotiv della famiglia Valenti) viene ricordato soprattutto per due motivi. Innanzitutto perché è dalla sua figura che sono cominciati i primi studi relativi alla storia di questa casa e i primi contatti con la signora Adriana, ma anche perché Tommaso è stato autore, nel 1881, degli SCHIZZI ARCHEOLOGICI SUL BORMIESE, il primo studio sistematico del patrimonio artistico della contea di Bormio, un testo ancora oggi di imprescindibile riferimento per la conoscenza di opere e di un territorio che poi il turismo e le successive edificazioni hanno profondamente segnato. Studi che comprendono non soltanto l’archeologia, ma tutto quanto concerne il patrimonio architettonico e artistico di quel territorio risalente all’età medievale. Dopo Tommaso Valenti altri suoi eredi sono consapevoli di essere in qualche modo tutori di un patrimonio collettivo che altrimenti sarebbe andato perso tenendo conto che la comunità talamonese si deve occupare anche di altri problemi, la sopravvivenza, la povertà, il lavoro e questo avrebbe probabilmente fatto dimenticare l’aspetto culturale. Un’altra figura molto importante nella storia della casa e della famiglia è Giovanni Battista che nel 1937-38 pubblica, sull’allora bollettino storico valtellinese, la prima notizia relativa agli statuti cinquecenteschi di Talamona, anche questo un fatto significativo di divulgazione e conservazione del patrimonio. Dopo Giovanni Battista a raccogliere questa eredità è stata la signora Adriana la quale, a partire dai suoi primi articoli sul bollettino storico valtellinese, di cui alcuni dedicati a Francesca Scannagatta, figura singolarissima di donna soldato di età napoleonica, aveva avviato una sorta di scandaglio degli archivi familiari sulla figura dei suoi antenati più importanti che sono stati citati. La sua attività ha ben incarnato questo percorso familiare di memoria collettiva attività lasciata come testimone anche agli attuali discendenti. In quest’opera di tutela delle memorie collettive i Valenti non furono soli perché in connessione con loro ha operato, sul doppio fronte delle attività sociali e della tutela del patrimonio artistico anche Giovanni Gavazzeni, conosciuto soprattutto come pittore ritrattista di soggetti sacri, autore anche della lunetta datata 1907 che si può vedere vicino all’ingresso e che proviene dalla cappella cimiteriale dei Valenti. Una lunetta che testimonia i rapporti tra Gavazzeni e la famiglia Valenti, anche di vicinato perché la casa del Gavazzeni stava nei pressi di quello che oggi è il palazzo Bertolini, ma che allora si chiamava casa Mazzoni e che è un’altra dimora storica importante del rinascimento valtellinese. Giovanni Gavazzeni, negli anni Ottanta-Novanta dell’Ottocento si prodiga su vari fronti, ad esempio quello della tutela dell’acqua potabile a Talamona e poi invita da Milano Vittorio Grubissì, un pittore divisionista mecenate e amico di Segantini, lo invita a visitare il suo studio e Grubissì arriva nel 1891 e di questa visita scriverà un resoconto dettagliato che descrive molto bene com’era Talamona a quei tempi, l’enorme distanza tra la stazione e il centro abitato con praticamente in mezzo il nulla, l’ora tarda, l’accoglienza richiesta nelle locande in attesa che Gavazzeni lo accogliesse nella sua dimora. L’attenzione di Grubissì non si concentra tanto sulle opere pittoriche del collega Gavazzeni, quanto sulla denuncia riguardo allo sfruttamento dell’acqua potabile a Talamona. Pubblica sul bollettino storico valtellinese il ritratto di un povero di Talamona, un ritratto fotografico, importante documento socio-etnografico. Gavazzeni inoltre tramite un suo scritto denuncia l’intenzione del prete di demolire la vecchia chiesa per costruirne una più ampia. Lo scritto, pubblicato nel 1894, si intitola VANDALISMO termine indicativo del carattere di Gavazzeni, una denuncia rimasta lettera morta, perché di li a trent’anni nel 1920 l’ampliamento della chiesa è stato fatto Don Cusini ha dato l’avvio ai lavori e in quell’occasione alcuni dipinti confluirono nella nuova costruzione mentre altri vennero dispersi. Nel 1900 Gavazzeni pubblica una serie di articoli in collaborazione col poeta morbegnese Guglielmo Felice Damiani che parlano dell’arte e della storia della Valtellina. Nove tappe e dunque l’intenzione non era quella di produrre un testo di studio quanto una descrizione della bassa Valtellina indirizzata ad un ampio pubblico perché, LA VALTELLINA, il giornale su cui questi articoli erano pubblicati, era un periodico molto letto all’epoca. Curiosamente in questi articoli non si fa cenno alla facciata di casa Valenti ed è a partire da questo periodo che gli affreschi conoscono un lungo oblio che termina solo nel 2001-2002 quando riprenderanno gli studi sulla facciata e in particolare sarà pubblicato da Adriana Valenti il primo studio a riguardo sul bollettino storico valtellinese. Non è ben chiaro il motivo per cui Gavazzeni non ha citato gli affreschi visto e considerato che inoltre ci passava di fronte tutti i giorni però in compenso cita altri dipinti. Uno si trova tutt’ora in via Coseggio di mezzo all’inizio della via raffigurante la Madonna col bambino e i santi Gerolamo e Giorgio, un dipinto cinquecentesco. L’altro dipinto citato con cui Gavazzeni chiude la sua descrizione di Talamona è una Madonna col bambino e i santi che si trova sempre in contrada Coseggio. Dipinti entrambi ricollegati alla scuola di Gaudenzio Ferrari e alle sue ramificazioni valtellinesi. Un dipinto, il secondo che ora non si può più vedere, perché negli anni Settanta, il proprietario di quel terreno lo privatizzò staccandolo dalla sua sede originaria. Una testimonianza di questo dipinto rimane oggi nella fotografia di Federico Zeri di Bologna una foto che Gavazzeni descrisse permettendoci così di conoscere un tassello del nostro patrimonio di cui si sarebbe altrimenti persa memoria. Tutto questo discorso per fare capire il senso del concetto di valorizzazione che non significa dare un valore, bensì riconoscere il valore che già le cose, i luoghi eccetera recano in sé. Un compito questo che non appartiene solo alle amministrazioni pubbliche e ai privati cittadini, ma al complesso della collettività. Iniziative come queste possono essere occasione di felici collaborazioni tra questi vari aspetti della vita talamonese.

Intervento di Simona Duca ex assessore alla cultura e docente di Storia all’Istituto Comprensivo Giovanni Gavazzeni, nonché esperta di Storia Locale

Simona Duca ha voluto cominciare il suo intervento con un ricordo personale della signora Adriana Valenti che ha conosciuto in tenera età, le ha regalato un libro (che Simona Duca ha mostrato commossa al pubblico) e l’ha spronata ad essere curiosa fino ad arrivare poi alla strettissima collaborazione nell’ambito del recupero delle memorie cui si è avuto già modo di accennare.

Questo palazzo è in primo luogo un’abitazione. Se prendiamo i documenti, a partire dal 1822, la descrizione di questa casa inizia con “abitazione civile in via Pianteina n°54”. Sottolineo in particolar modo la dicitura abitazione civile, questo perché, lo abbiamo visto dalla facciata rinascimentale, qui diventa ottocentesca e da questi dettagli capiamo come la storia di questa casa abbia percorso il tempo. Non c’è un elemento caratteristico unico. Ci sono invece tanti piccoli particolari che ci fanno capire che questa abitazione è stata vissuta. Questa casa ha visto la Storia, ha fatto la Storia, ma chi ha vissuto qua dentro prima di essere un personaggio è stato una persona. Tanti sono diventati personaggi storici sia fra gli Spini che tra i Valenti, ma tutti qua dentro per prima cosa sono state delle persone che hanno voluto condividere con tutti, in particolare con il territorio di Talamona, le bellezze e le ricchezze di questa casa e la spinta a migliorare, sicuramente dal punto di vista culturale, ma poi anche dal punto di vista sociale ed economico. Il primo personaggio che incontriamo e che ha probabilmente anch’egli calpestato questi luoghi, diversi all’epoca rispetto a come li vediamo adesso è Giovanbattista Spini che si può considerare un po’ il primo proprietario, il quale ha voluto lasciare la sua firma, che troviamo addirittura sui ferri da stiro, un segno che attesta come questa abitazione sia rappresentativa di cultura, ma anche di vita quotidiana. Facendo un salto temporale verso la fine del Settecento incontriamo don Celestino Spini che sposerà donna Francesca Scannagatta un po’ la Lady Oscar valtellinese. Persone che hanno vissuto la loro vita, l’hanno trasformata in Storia e ora ce la regalano. Dal 1822 fino alla metà del secolo la famiglia Valenti andrà a soppiantare la famiglia Spini. In particolare iniziando ad acquisire i beni degli Spini da Cosio fino ad arrivare a Tartano perché così vasti erano i possedimenti di questa ricca e nobile famiglia. Ecco dunque come nel nostro percorso storico si passa poi a Ciriaco Valenti e infine a Clemente. A questo proposito per dimostrare come questa casa parli da sola e come sia intrisa di sentimenti e di forti legami familiari intercorsi tra i suoi abitanti anche col territorio che li circondava ho qui una lettera di Ciriaco al figlio Clemente scritta quando quest’ultimo, negli anni Sessanta dell’Ottocento, periodo in cui era studente di ingegneria, ma anche periodo del Risorgimento e dei suoi fermenti, seguendo le orme dell’amico Giovanni Gavazzeni molla gli studi e va a combattere. Gavazzeni era partito nel 1859, Clemente Valenti parte nel 1866. Ed è proprio a questo periodo che risale questa lettera. Clemente Valenti era partito per la guerra senza avvisare nessuno a casa. i suoi familiari lo scopriranno dopo. Il padre manderà la missiva seguente (ne riporto ora il testo ndr)

 

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 Qui c’è tutto l’amore di un padre che sa che il figlio è in pericolo però lo sostiene. Tra le persone che sapevano che fine avesse fatto Clemente, c’era zio Tommaso, arciprete, ma un po’ sopra le righe, anziché trattenere il nipote a casa gli aveva detto “vai e fai fuori tutti gli austriaci”. La famiglia Valenti ci teneva davvero molto affinchè l’aspetto risorgimentale emergesse in una vita nuova per Talamona e per l’Italia che potesse davvero iniziare. Una volta tornato da soldato e terminati gli studi Clemente Valenti si è dedicato anima e corpo alla sua comunità, affinchè Talamona cambi volto. Talamona in questo momento storico è un paese rurale, un paese che da pochi anni è entrato a far parte dell’Italia unita, del Regno d’Italia, ma, così come tutto il resto dell’Italia, ha bisogno di unirsi e di creare davvero la nazione. Clemente Valenti si è prodigato in questo senso in tutti i modi possibili. Ha svolto la funzione di sindaco di Talamona, è stato vicepresidente del comizio agrario di Sondrio, si è interessato praticamente di tutto, in particolare insieme a personaggi come Luigi Torelli ha capito che questa casa poteva essere il trampolino di lancio per il miglioramento di tutta la società valtellinese. Ora qui noi vediamo questo luogo come abitazione, ma bisogna tener presente che questa abitazione ha attorno tutta una serie di strutture. Oltre la casa c’era in questa zona dei giardini, quella che per molti anni è stata la filanda. Questa casa era dunque già aperta alla realtà di Talamona, si interessava alla vita della comunità. Dare la possibilità alla gente di lavorare e commerciare i propri prodotti col comasco era già un passo in avanti, ma la carta vincente sarà nel 1879-1880 l’apertura della prima latteria sociale fortemente voluta da Clemente Valenti che ne ha allestito la prima sede nella zona delle cantine del palazzo e poi dai primi anni Novanta al pianterreno di quella che allora era casa Gavazzeni dove sorge tutt’ora. Una latteria dove non ci si limitava a far stare tutti insieme contadini e allevatori per produrre i loro formaggi. Clemente Valenti prendendo contatti anche con scuole di Lodi e Reggio Emilia ne volle fare un luogo d’eccellenza che divenne un punto di riferimento per tutte le latterie valtellinesi e in un certo senso anche di tutta Italia. Basti pensare che il regolamento scritto da Clemente Valenti è stato utilizzato anche a Eboli. Nel 1883 la latteria diventa anche scuola-regio osservatorio di caseificio da cui sono passati i migliori produttori di formaggio e burro per quelli che noi oggi chiameremmo stage o tirocini da cui poi i più bravi passavano in Svizzera per terminare gli studi. Dunque questa casa è stata il punto di partenza di un miglioramento sociale, economico e anche in un certo senso culturale perché, per diventare casari, gli aspiranti dovevano innanzitutto saper leggere e scrivere per tenere i registri, per apprendere tecniche più moderne che andavano studiate eccetera. Non per niente la sede della latteria è stata anche una delle prime sedi della scuola di Talamona, punto di riferimento nazionale anche per l’istruzione, aperta anche alle ragazze dal 1884. Clemente Valenti si rendeva conto dell’importanza dell’istruzione per le donne, che poi diventavano madri e trasmettevano ai figli cio che avevano appreso. Questa casa diventa in qualche modo anche la casa di tutte queste fanciulle studentesse (mentre i maschi trovavano alloggio nei dintorni), perché bisogna considerare che gli apprendisti provenivano da ogni parte d’Italia, qualcuno anche dalla Sardegna e dunque qui studiavano e anche vivevano per tutto il periodo dei loro studi. Una casa aperta a tutti dunque, fondata su legami d’affetto perché tutti coloro che l’hanno abitata, hanno voluto regalare a tutti quelli che sono passati di qua una parte della bellezza della casa, ma soprattutto l’invito a migliorare per far migliorare la vita di tutti e l’intero territorio.

Visita guidata e degustazione

Dopo il suo discorso all’esterno della casa Simona Duca ne ha proseguito alcuni aspetti durante la visita che ha guidato nelle stanze all’interno dove non è stato possibile effettuare riprese o scattare foto. Il seguente resoconto della visita guidata è un mio racconto personale basato nella prima parte su appunti presi con lo smartphone e poi su riprese audio annerite coprendo gli strumenti di ripresa con la mano. Sarà un racconto che contrariamente alle mie intenzioni risulterà scarno di descrizioni.

Essendo proibite infatti le riprese o le fotografie all’interno ne ho ragionevolmente dedotto che lo sia anche la divulgazione di descrizioni degli interni della casa. Mi limiterò dunque all’essenziale ricalcando, in questo senso, le parole di Simona Duca.

Dal cortile interno che dà sui giardini si entra in una cucina piccola, ma riccamente arredata attraverso una porta ottocentesca molto piccola in quanto probabilmente risalente all’epoca medievale, quando la casa era una struttura fortificata. In quei secoli Talamona veniva chiamato il paese delle torri. Pare che ce ne fossero moltissime, tutte torri di avvistamento, delle quali ora sopravvive solo quella che dà il nome alla via. Gli ambienti sono molto bui al loro interno, perlomeno in questa stanza, nonostante un’ampia finestra che sta alla sinistra della porta d’ingresso per chi viene da fuori e accanto alla quale troneggia un ampio camino che occupa gran parte dello spazio. Simona ha raccontato che la posizione del camino è stata voluta apposta in questo modo, perché d’inverno l’angolo camino finestra diventava angolo lettura. Le porte interne, tramite le quali si accede alle stanze attigue, sono di fattura rinascimentale, sia le porte che le ante della cucina. Il modello, racconta ancora Simona è fiorentino che fu oggetto di contesa tra due grandi artisti di quella città Brunelleschi (famoso per il cupolone) e Ghiberti (che pare, insistesse a operare seguendo ancora criteri medievali non apprezzando le novità introdotte per l’appunto da Brunelleschi e altri). Il discorso che faceva Simona sulla casa come scrigno di storia, ma nel contempo anche di vita quotidiana è ben espresso in questa stanza dove si trovano oggetti di uso quotidiano (come stoviglie da cucina in rame che occupano quasi tutta una parete, la parete sinistra per chi viene da fuori) ma anche collezioni di famiglia che sono dei veri brandelli di Storia. Berretti dell’epoca garibaldina e della Grande  Guerra nonché sciabole appartenute a Celestino Spini che fu combattente tra le file di Napoleone, dove si distinse per la grande umanità dimostrata in un contesto sostanzialmente di crudeltà dimostrato dalle truppe francesi e fu proprio in quell’occasione che conobbe la sua futura moglie, Francesca Scannagatta, combattente tra le file austriache. Una storia davvero molto interessante che Simona ha raccontato brevemente lasciando intendere che c’è molto più da sapere e che lei sa perché ha letto tutti i dettagli della faccenda negli archivi. In poche parole Francesca Scannagatta apparteneva ad una famiglia nobile di Milano, capitale del Lombardo-Veneto a quel tempo territorio austriaco cosa che faceva di lei un’antinapoleonica convinta. Era una personalità sopra le righe, mi pare d’aver capito, lontanissima dallo stereotipo della classica dama da salotto, amante delle armi e dell’equitazione, si faceva chiamare con un nome maschile Franz (se volessimo trovare un paragone storico più famoso, questo potrebbe essere la scrittrice francese George Sand il cui vero nome completo ora mi sfugge, ricordo solo Aurore, se non sbaglio). Franz aveva un fratello che invece delle armi e soprattutto di essere chiamato alle armi pare non fosse entusiasta e così quando arriva il momento di combattere Napoleone che fa il bello e il cattivo tempo in tutta Europa chi parte? Ovviamente Franz che, tenendo ben nascosta la sua identità di donna e dimostrando non poco valore sul campo di battaglia arriva a fregiarsi del grado di tenente. Qui il racconto di Simona diventa più vago. A un certo punto, non si capisce bene perché, Franz Scannagatta deve essere visitata da un medico che così scopre il suo piccolo segreto. Viene congedata dall’esercito, mantenendo tutti i suoi gradi e ricevendo persino una pensione. Come incontra Celestino Spini e come accade che un napoleonico e un’austriaca si innamorino si sposino e poi lei venga a vivere qui non si sa, Simona non ha raccontato dettagliatamente questa parte (o può essere che mi sia sfuggita?) e soprattutto come l’hanno presa le famiglie? Su questa storia ci si potrebbe scrivere un romanzo sopra, fare un film una telenovela… non nascondo quanto la cosa mi intrighi e come ad un certo punto mi sono messa ad osservare la casa con l’occhio di chi vorrebbe allestirvi un set cinematografico. Un film sulla casa Valenti sulla sua storia e i suoi abitanti girato nei suoi interni ancora così densi di storia sarebbe un film alla Luchino Visconti e non ci potrebbe essere modo migliore per valorizzare questo patrimonio. Ma ora torniamo al nostro racconto, a questa stanza che grazie a tutti questi cimeli riesce ad attraversare un arco di tempo piuttosto lungo dal Cinquecento alla Grande Guerra più o meno, cimeli tra cui ci sono anche cartine per avvolgere i proiettili, un ritratto di Garibaldi non autentico che però riporta una firma autentica del medesimo e ricordi del pittore Giovanni Gavazzeni. Lui e Clemente Valenti furono molto amici, dopotutto avevano un anno di differenza (Gavazzeni è nato nel 1841, Valenti nel 1842). I ricordi di Gavazzeni (sostanzialmente suoi dipinti autentici) più che qui si trovano in un’altra stanza, un piccolo salottino. Ogni villa o palazzo nobiliare che si rispetti ha la sua sala degli intrattenimenti. Per Casa Valenti questo salottino è la stanza degli intrattenimenti dove tra l’altro si faceva della musica come in ogni salotto nobiliare che si rispetti. E giusto per onorare la tradizione, è qui che il quartetto di fiati della filarmonica ha onorato gli astanti con un altro intermezzo musicale che va ad aggiungersi a quelli già eseguiti sotto la facciata e nel cortile interno che dà sui giardini “vorrei far notare che stanno suonando di fianco a un forte piano” ha detto Simona la quale, mentre si era appena entrati nel cucinino e stavano entrando anche i suonatori per preparare l’esibizione ha osservato “parlando del Valenti mi è sfuggita una cosa importante. È stato anche il fondatore della filarmonica”. Nel salottino si trova inoltre un’ulteriore testimonianza dei forti legami intercorsi tra gli abitanti della casa e l’intera comunità: in una vetrinetta si trovano statuine di un presepe (con particolare e giustificato orgoglio Simona ha indicato in particolar modo la Madonna restaurata da suo padre) che i Valenti avevano l’abitudine di allestire all’aperto in modo che tutti lo potessero visitare. Chissà che non sia nata così in questa casa la tradizione dei presepi di Talamona che ancora oggi ci caratterizza (come ha osservato Simona). In un angolo di questo salotto fa sentire la sua presenza anche lo zio Tommaso essendoci li posizionati oggetti di sua proprietà. “non si può non notare l’odore di questa casa, l’odore della Storia” ha fatto notare Simona. Io però non avrei avuto bisogno in realtà di questo appunto. In ogni dimora specie di una certa età l’odore è sempre la prima cosa che mi colpisce anche inconsciamente. Dal salottino degli intrattenimenti attraverso un piccolo corridoio si passa alla sala soggiorno con elementi della nostra epoca moderna incastonati tra mobili in stile forse impero o forse Luigi XVI, non che mi intenda di mobili in realtà. Bisogna ricordare che questa casa è tutt’oggi un’abitazione, non è una casa museo e questa zona soggiorno è la prima che si incontra salendo dal piano di sotto, sovrastata dallo stemma della famiglia Valenti, una stanza rappresentativa di tutta la casa l’ha definita Simona “con elementi religiosi e artistici di diverse epoche che però in una casa abitata dove sono stati voluti appositamente assumono oltre al valore artistico, quello affettivo dei ricordi, degli oggetti quotidiani che raccontano il vissuto”. Particolarmente interessanti si sono rivelati i manici degli ombrelli dalle forme fantasiose indicative proprio dello status nobiliare, segno di distinzione di una famiglia che ha segnato la storia di Talamona, ma ha lasciato la sua impronta anche nella grande Storia, ma che non si è mai distaccata emotivamente dalla popolazione. Questo non era un luogo dove si intrattenevano tra loro dei nobili, ma era un luogo per la gente ed è una cifra stilistica che non tutte le abitazioni nobiliari possono vantare. Essendo poi che Clemente Valenti ha fondato la filarmonica c’era la tradizione che ogni anno nei giardini si tenesse un piccolo concerto ad uso e consumo della famiglia e che i casari regalassero i loro prodotti a ricordo dell’operato di Clemente Valenti. Un altro particolare interessante di questa stanza sono le decorazioni alle pareti e la soffittatura a cassettoni sui quali si possono ancora osservare residui di dipinti a motivo floreale e frutti. Per l’ultima parte della visita guidata è stato necessario fare il percorso a ritroso, ritornare fuori nel cortile interno che dà sui giardini passando da una porta sovrastata dalla lunetta dipinta da Giovanni Gavazzeni e dalla porta che da sulle cantine purtroppo chiuse. “il portone che dà sull’ingresso non è originale” ha raccontato Simona “quello originale doveva essere molto più spesso perché aveva funzioni difensive. L’apertura originale era a ponte levatoio. Da questo ingresso si passava coi cavalli e le carrozze, i carri dei rifornimenti, la porta di servizio in un certo senso”. A questo punto la visita è tornata al punto di partenza, la facciata “della facciata mi piace ricordare un dettaglio” ha detto Simona. Il dettaglio da notare è osservabile mettendosi agli estremi della facciata e ha a che fare con la sua particolare prospettiva che rende merito agli affreschi, costruiti come una scenografia teatrale. “In qualsiasi punto ci si posiziona gli affreschi appaiono come delle cartoline” ha spiegato Simona “e sono un dettaglio talmente spiccato da impedire a occhio di farsi un’idea sulla reale prospettiva della casa, come se fosse un enorme telone dietro cui non c’è niente. Un gioco di prospettiva che non permette di comprendere la profondità e che esalta quella che dovrebbe essere la parte migliore della casa e che sicuramente lo era nelle intenzioni di chi questa facciata l’ha voluta. Un effetto creato perché la parete che sembra piatta e invece è leggermente concava (un po’ come le colonne del Partenone ad Atene, costruite leggermente storte di modo che da lontano sembrassero dritte ndr)”. Sotto la facciata c’è una porta che sembrerebbe esattamente al centro, ma in realtà non lo è, un effetto che deve dare un’illusione di perfetta simmetria a chi giunge dalla strada. Ed è nella stanza su cui dà quella porta che si è concluso il giro turistico. Una porta su cui spicca uno splendido batacchio originale di altri tempi a forma di serpente. Questa stanza in realtà è la prima che accoglie il visitatore e si caratterizza per la frescura nei mesi estivi. È in questa stanza e nella cantina attigua che è stata creata la prima sede della latteria. Ora qui spiccano delle foto degli affreschi e di scorci di Talamona con la villa com’è ora e com’era negli anni Venti, una foto che permette di notare la casa vecchia dei Valenti nei pressi della Torre. Su un’altra parete spicca una foto di Giuseppe Piazzi il mitico astronomo scopritore dell’asteroide Cerere, imparentato con la famiglia Valenti tramite una cugina entrata diventata Valenti per matrimonio. La cantina attigua purtroppo è rimasta chiusa al pubblico, ma Simona ha raccontato che vi si può trovare un testo del CINQUE MAGGIO trascritto a mano da Clemente Valenti, accanto ad un ritratto di Napoleone. Da questa visita emerge il ritratto di una dimora capace di parlare a chi sa ascoltarla, una dimora pervasa da un’atmosfera intima che ha saputo però anche aprirsi all’esterno. Una dimostrazione di questa apertura sta nella stanza che si trova proprio di fronte entrando in questa sorta di anticamera. Li è stato allestito lo spazio per la degustazione. Bresaola, bisciola, ricotta e due tipi di formaggio, bitto e semigrasso, un classico di tutti i rinfreschi legati ad eventi del genere. Non resta solo che farsi un ultimo giro. Ora l’atmosfera è quella di un ricevimento. Tutti sono ansiosi di scambiarsi impressioni riguardo a cio che hanno visto e sentito. Nei giardini i bambini giocano a rincorrersi e io mi immagino scene di altri tempi, dame fasciate in bustini stretti e gonne ampie che passeggiano scambiandosi confidenze riparandosi con ventagli e ombrellini, amori clandestini, baci nascosti tra il verde e magari anche qualche dramma chissà. Mi viene in mente che questi luoghi sono lo scenario perfetto per un romanzo sospeso tra lo stile deleddiano e quello dei cosiddetti feulietton. Ci dovrei passare un po’ di tempo e magari trovo qualche ispirazione più dettagliata. Infondo al vialetto dei giardini c’è pure una porta chiusa in stile giardino segreto sopra tre gradini che chissà quanti e quali misteri custodisce.  Per ora questa casa e le sue storie non mi sono ancora pienamente accessibili, chissà se avrò mai modo di approfondire tutto quel che ho ascoltato oggi. Di certo non accadrà ora e dunque mi avvio verso l’uscita, mentre il quartetto di fiati ancora suona. Lo sentirò ancora a una certa distanza sulla via di casa.

 

 PIERA MILIVINTI “LA MAMMA DEGLI ALPINI”

 

“Una persona umile che ha fatto grandi cose”

A cura di Guido Combi

 

Nel mese di Gennaio 2003, Piera Milivinti “va avanti”, come dicono gli alpini, con una formula che lascia spazio alla speranza di poterci rivedere un domani in un mondo migliore.

Nel mese di Luglio 2012, sulla sua casa di via Coseggio alla presenza delle autorità comunali, militari e religiose, viene posta una targa in bronzo con “l’affettuoso ricordo di quanti hanno apprezzato e mai dimenticato l’opera, silenziosa ma efficace, di Piera Milivinti, Madrina degli Alpini”.

 

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Ma chi era la Piera tanto amata dagli alpini?

Penso valga la pena richiamare la sua figura, cercando di delinearla attraverso varie testimonianze, per dare un quadro più completo della sua personalità e di quello che ha fatto per guadagnarsi, nella sua semplicità e umiltà, tanta stima e tanto affetto.

Ecco la prima testimonianza della giornalista Marialuisa Bendinelli in un suo articolo  pubblicato nel 1987, che contiene anche una interessante intervista .

 

La mamma degli Alpini

Si chiama Piera Milivinti, ha settantadue anni, non si è mai sposata, ma in migliaia la chiamano mamma.

Sono gli alpini dei quali si è occupata per tutta la sua vita e per i quali lei è ormai una leggenda vivente.

di Marialuisa Bendinelli

 

Quando una sua lettera arriva nelle caserme viene subito messa in bacheca perché tutti possano leggerla e sentirsi confortati.

Ma come è cominciata questa storia?

“E’ cominciata quando io avevo quindici anni – racconta adesso Piera – e i ragazzi del mio paese partivano per il servizio militare.

Erano belli nella loro divisa e mi pareva che fossero fortunati ad andare lontano a vivere nuove esperienze, a farsi uomini.

Ma quando tornavano raccontavano di solitudine, di malinconia, di magoni grossi così… e allora io ho cominciato a scrivere a qualcuno, per tirarlo su, per fargli pesare meno la lontananza.”

Ma erano così belle, quelle lettere, contenevano tanta speranza e tanto calore che i ragazzi cominciarono a leggerle ad alta voce, nelle camerate.

Chi aveva una pena in cuore cominciò a scriverle e ben presto lei si trovò a dover rispondere a decine di soldati che non conosceva ma che aspettavano ansiosamente la sua lettera.

Lei lavorava in una ferriera e lo stipendio in casa serviva tutto; erano tempi duri, così per procurarsi  i soldi per la carta e i francobolli la ragazza va sui monti la domenica a far carichi di legna che poi rivende.

«Può sembrare una pazzia – commenta oggi – ma quei ragazzi avevano bisogno di amicizia più che del pane e io come potevo abbandonarli?»

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 Piera nella sua casa.

 

Abitava a Talamona, in provincia di Sondrio, ma cominciò, appena poteva, a spostarsi per raggiungere ospedali e sanatori nei quali i suoi alpini venivano ricoverati, per rendere cosi più concreta la sua solidarietà.

«Piccola amica…» le scrivevano e lei non aveva cuore di lasciare inascoltati i loro appelli.

Ha risolto casi umani e problemi d’ogni genere.

Di fronte al dolore di uno di quei ragazzi che non sapeva come venir fuori dal cruccio che lo assillava lei si metteva in moto.

Scriveva e bussava a tutte le porte, finché non le veniva aperto, parlava con le autorità, «muoveva le montagne» finché non otteneva l’aiuto richiesto, e subito ricominciava con un altro caso.

Scoppia la seconda guerra mondiale e le sue lettere partono per il fronte a consolare chi non sa darsi pace di tanto orrore e piange di nostalgia.

Alcuni dei ragazzi che ricevevano le sue lettere in Russia hanno raggiunto alti gradi nell’esercito, due sono diventati generali e, in ricordo di quei giorni bui rischiarati però dalle lettere piene di speranza che ricevevano dalla loro «piccola amica», lei ancora oggi viene considerata «una di casa».

Conosce le loro mogli, è stata al battesimo dei loro figli per i quali è zia Piera.

I suoi viaggi, con la guerra si fecero più lunghi, pieni di disagi e la sofferenza che incontrava le sembrava a volte intollerabile.

Ma come poteva abbandonare chi era certo di una sua visita?

Eccola allora da un ospedale all’altro, non più e solo alle prese con la TBC ma con mutilazioni e piaghe sconvolgenti, ed anime ferite ed esacerbate.

Piange ricordando le sofferenze dei suoi alpini in quei giorni di follia.

Ormai la conoscevano tutti, non solo i soldati ma anche il personale medico, i cappellani militari, gli ufficiali e tutti avevano imparato a rispettare ed amare quella donna che portava amicizia e conforto e nulla chiedeva in cambio, come una mamma.

Nacque in quei giorni l’appellativo mamma degli alpini, che la accompagna ancor oggi.

Finita la guerra cominciò regolarmente a spostarsi da una caserma all’altra per far visita ai ragazzi.

Utilizzando così tutte le sue vacanze, tutto il suo tempo libero.

Ora erano gli alpini che venivano a prenderla e la portavano a far visita ai commilitoni.

Le chiedo di raccontare qualche episodio che più di altri l’ha commossa e lei snocciola racconti su racconti, tanti da poterne scrivere un libro, ma uno in particolare merita d’essere ricordato.

Erano i tempi del terrorismo altoatesino, nella settimana tra il Natale e Capodanno; in compagnia di un capitano e del cappellano militare va al Passo del Brennero.

L’intenzione è di portare qualche stecca di cioccolata, sigarette, un po’di grappa ai ragazzi che stanno nei posti di vigilanza a Malga Sasso, Malga Longo, Pian dei Morti, Pian dei Mughi.

Nonostante la tensione e il freddo polare i visi dei ragazzi si illuminano quando riconoscono i visitatori.

“In tutti i posti di vigilanza, tutti – ricorda lei adesso – i ragazzi avevano allestito un alberello e, portando da casa ognuno una statuina, avevano messo insieme un presepe minimo.

Sono i più bei presepi che ho visto.

Quanta serenità,  quanta voglia di pace e di calore nei loro cuori!”.

Dice che i ragazzi di oggi non sono diversi da quelli di allora, mai come in questo caso è vero che l’abito non fa il monaco!

Hanno in cuore le stesse angosce, le stesse ansie, le stesse speranze, gli stessi sogni.

Difficile che cambi il cuore dell’uomo, commenta.

Continua a scrivere le sue lettere con inchiostro e pennino, come una volta, e siccome i pennini sono difficilissimi da trovare è una gara riuscire a procurarglieli, fare in modo che non ne rimanga sprovvista.

Lavoratrice e parsimoniosa avrebbe potuto costruirsi una vecchiaia agiata e serena ma ha speso tutto in quest’insolito e utilissimo servizio, generosa e incurante del futuro, come tutte le anime buone.

Vive nella casa più modesta del paese, due stanze senza riscaldamento, l’una al di qua l’altra al di là della strada; da una parte la cucina, dall’altra la camera da letto, con una pensione minima.

La casa però ha il telefono, sottolinea con orgoglio, dono dei suoi alpini per poterle parlare in qualsiasi momento. «Saranno bravi!» commenta, fiera dei suoi figli, come tutte le mamme.

 

 

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Piera con le autorità militari.

 

Su  “Il Giorno-Valtellina” Annalisa Acquistapace il  28 gennaio 2003, in occasione della sua morte, scriveva:

 

 LA “MADRINA” DI TALAMONA

Per tutti era “la Piera” una vita dedicata agli Alpini

 

TALAMONA

“L’attaccamento agli Alpini era la vocazione a cui ha dedicato tutta la vita”.

Così chi l’ha conosciuta racconta Piera Milivinti, la “madrina degli Alpini” di Talamona, morta nel giorni scorsi a 88 anni.

A dare l’addio a Piera è arrivato da Vipiteno un picchetto d’onore degli Alpini, per rendere omaggio a una donna che si è sempre impegnata per questo corpo militare e per tutti i giovani che ne hanno fatto parte.

La sua storia parte da lontano, quando i giovani valtellinesi partirono per la seconda guerra mondiale.

“A quell’epoca – ricorda Mario Berini, 83enne reduce di Russia e per 30 anni presidente dell’Associazione combattenti reduci di Talamona – Piera apparteneva al  gruppo di donne che sostenevano i giovani al fronte con lettere in cui si riconoscevano il suo patriottismo, la capacità di incoraggiare e di alleviare le  sofferenze di quegli anni difficili e dolorosi.

La sua vocazione verso gli Alpini è nata in quegli anni ed è continuata grazie alla sua capacità di adeguarsi al cambiamento delle esigenze dei giovani in servizio di leva”.

Mario Berini ricorda il carisma di Piera: “Da giovanissima aveva perso il padre – racconta- e qualche anno dopo anche la madre,  rimanendo sola nella sua casa che con gli anni si è riempita di ricordi, incontri, persone.

Viste le difficili condizioni di quel tempo, Piera non aveva nemmeno il diploma di quinta elementare, ma tale era la convinzione che metteva nelle sue lettere che è riuscita ad avere contatto con le più alte cariche militari e dello Stato.

Basti pensare che nella sua piccola casa di Talamona non c’è, uno spazio sui muri che non sia coperto di fotografie  con comandanti e generali, e di lettere firmate ad esempio da Giulio Andreotti”.

Se durante la guerra il suo impegno era per alleviare le sofferenze e le paure dei soldati al fronte, in seguito Piera Milivinti si è prodigata per i ragazzi che avevano difficoltà durante il servizio di leva.

“Capitava spesso che qualche giovane partito per il militare avesse alla spalle una storia di povertà o di difficoltà familiari – ricorda ancora Berini – e Piera in quei casi si prodigava per trovargli la collocazione migliore e più agevole.

In altre occasioni, quando sapeva che la famiglia aveva bisogno del ragazzo a casa, faceva di tutto per sorpassare i regolamenti, e spesso riusciva ad ottenere che il giovane tornasse a casa”.

A ricordare con affetto la “madrina” non sono solo i numerosissimi Alpini e non che da lei hanno ricevuto lettere o aiuti, ma anche gli ufficiali del corpo militare che l’hanno conosciuta.

“Riceveva spesso inviti da molte caserme – dice ancora Berini – ed è stata ospite a Torino, Belluno, Merano, Malles, Pordenone. In una di queste caserme era stata addirittura preparata per lei una camera da letto che poteva utilizzare quando  veniva  invitata”.

Una figura forte: “Era un personaggio particolare, impetuosa e molto decisa – conclude Berini – e chiunque avesse una conversazione con Piera ne usciva convinto che avesse ragione lei.

La speranza, ora che non c’è più, è che la sua morte riporti in alto i valori per cui ha vissuto.”

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 Piera coi suoi alpini in caserma.

 

 

La testimonianza del nipote

“Era conosciuta in tutte le Alpi”

 

TALAMONA

“Di giorno lavorava chiodi e reti in ferro nella fabbrica morbegnese Martinelli, e la sera correva a casa tra francobolli e lettere”.

A ricordare Piera è il nipote Giovanni Milivinti, anche lui Alpino e da sempre sostenuto dal forte carattere della zia.

“Scriveva ogni giorno a persone di ogni parte dell’arco alpino – ricorda – e in più occasione sono arrivati a casa sua dei personaggi anche molto in vista fra i militari, per salutarla e ricordare i vecchi incontri.

Era molto conosciuta fra gli alpini di diverse regioni d’Italia, e ricordo un episodio che mi dimostrò il rispetto che tutti

avevano per lei.

Svolgevo il servizio militare a Cuneo, e un giorno ho sentito squillare la tromba, come per l’arrivo di un’autorità militare.

Poco dopo – conclude Giovanni – ho scoperto che quell’autorità era mia zia, che era venuta a farmi visita”.

Alcuni a Talamona la ricordano ancora quando Piera scendeva a piedi fino a San Carlo per prendere la corriera che la portava al lavoro.

“Li chiamava “i miei alpini” e parlava sempre di loro – ricorda chi la incontrava la mattina andando al lavoro – per lei era quasi una ragione di vita, una vera passione che portava avanti con tutte le sue possibilità, anche economiche”.

E ancora negli ultimi anni, anche se l’età aveva diminuito la sua attività.

Piera riceveva la visita di gente che aveva aiutato, la stessa gente che domenica non – ha voluto mancare all’ultimo saluto alla “madrina degli Alpini”.

 

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Ettore Leali, allora presidente dell’ ANA Valtellinese, su “Valtellina Alpina”, l’ha ricordata così:

“Il  24 gennaio scorso si e` spenta a Talamona “la Piera”, nota anche come “la sorella degli Alpini”, la “zia Piera”, la “madrina degli Alpini”e, nel secondo dopo-guerra, “la mamma degli Alpini”.

Quando vanno a trovarla a Talamona qualcuno resta sconcertato dalla semplicità della sua casa: due locali (una piccola cucina che fa anche da tinello e una camera da letto) uno di qua e l’altro al di là della strada. Nella cucina-tinello un telefono rosso: linea diretta con gli Alti Comandi, con i Capitani, con i Cappellani, con semplicissimi alpini e con le famiglie dei casi più difficili. Tante conoscenze e gli infiniti biglietti di ricambio degli Auguri dai più umili ai “Dalla Chiesa”, agli “Andreotti”, ai “Federici” ecc. ecc. Punto di riferimento del “mondo alpino” ben al di là della Valle lascia un ricordo indelebile in tantissimi per aver risolto con semplicità casi umani e situazioni altrimenti irrisolvibili. In tanti gli erano riconoscenti quasi come ad un genitore.

Lascia un vuoto profondo in coloro che l’ hanno conosciuta ed apprezzata per la semplicità con la quale ha sempre saputo testimoniare un grande cuore, altissimi valori ed un amore sviscerato per il cappello con la penna nera ma soprattutto per tutti coloro che in quel simbolo hanno riconosciuto la bandiera di una vera Umanità.

Ettore Leali

 

 

Il MIO RICORDO DI  PIERA MILIVINTI “LA MAMMA DEGLI ALPINI”

Per gli alpini che hanno conosciuto bene la Piera, non credo che di lei questo mio scritto possa dire qualcosa di nuovo. Per chi non l’ha conosciuta, data l’età, “la mamma degli alpini” potrebbe rappresentare una figura del passato da considerare un po’ anacronistica proiettata nella realtà virtuale odierna, ma che  se esplorata a fondo, magari attraverso i ricordi di noi vecchi e gli scritti che hanno preceduto questo mio, potrebbe riservare un esempio che richiama alla memoria virtù e pregi che oggi potrebbero essere (e lo sono per molti?)  ritenuti superati. Se poi qualcuno ha  potuto consultare i suoi scritti e quelli che ha ricevuto dalle personalità militari e politiche di primo piano con cui ha avuto rapporti cordiali, l’impressione di una personalità complessa e forte che si è elevata sulla maggioranza delle donne del suo ambiente sociale e del suo tempo, è netta e indiscutibile.

Ad esempio, il dedicarsi ad un ideale di altruismo nei confronti di persone sconosciute,  ideale legato all’amor patrio, che oggi spesso è bistrattato in nome di settarismi di varia natura, pur a oltre 150 dall’unità d’Italia, è stato appannaggio di pochi e di poche. Ancora, il sacrificare le proprie aspirazioni personali, che oggi sono giudicate prioritarie, come il costituirsi una propria famiglia, il dotarsi di una casa comoda e di una serie di sicurezze che si ritengono irrinunciabili sul piano economico, in nome di un ideale, da qualcuno potrebbe essere giudicato fuori del tempo.

La “Piera degli alpini”, come veniva chiamata a Talamona, tutto questo l’ha praticato con grande convinzione e con entusiasmo, nonostante i sacrifici che le imponeva.

Abitava in via Coseggio inferiore, più precisamente nel gruppo di case chiamate “di Mälvain”, e lei stessa era una Mälvaìna, appartenente alla dinastia dei Milivinti, che abitavano e abitano quella contrada. I miei rapporti con lei risalgono al periodo della mia gioventù, durante le scuole superiori. Abitavo poco sopra, in via Civo, e, si può dire che l’ho conosciuta da sempre, in quanto anche da ragazzo lei mi ha visto crescere e ha seguito, anche se da lontano, la mia crescita e i miei studi. Verso i 16 anni ho incominciato, con alcuni amici, a frequentare la sua casa, almeno due o tre sere al mese. Spesso andavamo a trovarla dopo la prova di musica (suonavamo nella banda di Talamona) e lei ci accoglieva sempre con entusiasmo, ci offriva il caffè fatto con la  famosa napoletana e pian piano ci parlava dei suoi amici alpini. Ci mostrava la sua corrispondenza e le fotografie, parte delle quali erano in bella mostra e la maggior parte raccolte in un album di ricordi che era la ricostruzione di una parte di storia della guerra e del corpo degli alpini al quale la sua vita era stata ed era legata.

Per noi è stata la scoperta di un mondo che avevamo appena immaginato qualche volta e che ora ci si presentava nella sua realtà con una semplicità che  all’inizio ci sconcertava, ma che poi abbiamo accettato con altrettanta ovvietà, così come lei, con semplicità e senza trionfalismi, ce lo presentava.

Ricordo il cucinotto-tinello, allora era chiamato semplicemente la casa, arredato con l’ essenziale, dove si faceva fatica a starci tutti, perchè era molto piccolo. Dall’unica finestra riceveva la luce e dando su un cortile adiacente alla strada, da lì si vedevano tutti i passanti. In inverno una stufa economica riscaldava il localino e i pasti frugali. Ricordo che, pian pianino, man mano che ci introduceva in questo nuovo mondo, ho scoperto la sua personalità senza che lei si sia mai vantata del rapporto privilegiato che aveva con le personalità militari e politiche con cui corrispondeva. Ci presentava i personaggi per mezzo di foto, dove spesso era ritratta con loro nelle varie caserme e in mezzo ai suoi alpini, e degli scritti che ci presentava con molta semplicità e naturalezza come si presentano degli amici che si vogliono far conoscere, ai quali si tiene molto. Uno lo ricordo particolarmente per la sua figura imponente, dotata di baffi, e per l’ espressione del suo viso simile a quella di un padre severo, ma comprensivo: era il generale Rasero.

 

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Piera a una cerimonia ufficiale

 

Un ricordo particolare è legato alla mia mancata ammissione al corso allievi ufficiali di complemento (AUC) che credo le abbia dato una grande delusione. Terminate le scuole superiori e fatta la visita di leva, essendo a casa in attesa di preparare il concorso magistrale, ho deciso che forse la naja sarebbe stato meglio farla possibilmente da ufficiale, visto che ero ancora a completo carico dei miei genitori che dovevano provvedere anche al altri sei figli. Inoltrai perciò la domanda e lo comunicai alla Piera. Ricordo ancora la sua contentezza, nella speranza che poi una volta superato il corso sarei stato assegnato al corpo degli alpini; credo che lei si preparasse a fare di tutto per farmi arrivare a Malles, a Merano o in qualche altra caserma degli alpini, magari al “Morbegno”, e mi diceva che mi vedeva già sottotenente. Gli avvenimenti però sono andati diversamente da quanto desideravamo entrambi. Non fui ammesso al corso per R.A.M. e poi non feci nemmeno la naja. La sua delusione fu grande, perchè avrei potuto essere allora uno dei pochi talamonesi, ufficiale dei suoi alpini. Ciononostante, la sua amicizia è rimasta intatta perchè mi diceva:

“Puoi far bene anche in altri campi”.

Credo che per la Piera la sua vita sia stata molto ricca di soddisfazioni, anche se a volte ha sofferto per le incomprensioni di cui era oggetto nell’ ambiente che la circondava, che non sempre era in grado di capire gli ideali che riempivano la sua vita e perchè cercasse soddisfazioni al di fuori del suo paese.

Quante persone ha aiutato? Molte e anche, a volte, sconosciute.

Rimasta senza genitori a 15 anni, avrebbe potuto pensare solo a se stessa. Ha iniziato subito, invece a pensare a quei giovani ragazzi che in divisa andavano a combattere nelle varie guerre, lontano da casa, e si metteva in contatto con loro epistolarmente facendoli sentire vicino a casa e al loro paese. Poi altri, spesso sconosciuti, sono entrati in corrispondenza con lei e per tutti aveva parole di sostegno e di conforto. Aveva frequentato solo le scuole elementari e non era riuscita a finirle come avrebbe voluto, come è capitato a parecchi in quei tempi per esigenze familiari. Lavorava come operaia alla Martinelli di Morbegno e si recava al lavoro in bicicletta, spingendola in salita, al ritorno, per oltre un chilometro, tutti i giorni, fino a casa. Tutto quello che risparmiava andava in spese postali e non ha mai chiesto nulla a nessuno. Anche con noi giovani, non si è mai lamentata delle sue condizioni economiche difficili, e noi allora non le avvertivamo, perchè si accontentava di una vita frugale. Quanti giovani soldati si sono sentiti rincuorati dalle sue lettere, che, nonostante avesse frequentato solo la quinta elementare, avevano raggiunto un bello stile sciolto ed erano scritte con una grafia chiara che tutti potevano leggere e capire, tanto che spesso venivano lette nelle camerate o nelle tende dell’ accampamento, perchè servivano a tutti, rincuoravano tutti e nessuno si sentiva dimenticato, tutti le ascoltavano volentieri e le sentivano come proprie. Quante volte si è fatta carico dei problemi delle famiglie dei suoi alpini, non solo talamonesi, in difficoltà vuoi per i lavori della campagna a cui mancavano forti giovani braccia, vuoi per situazioni familiari disagiate che richiedevano la presenza  a casa dei giovani in servizio di leva, che magari erano in caserme lontane.

Ecco allora che la “sorella degli alpini”, “la mamma degli alpini”, “la madrina degli alpini”, ”la Piera degli alpini”, questi i vari appellativi con cui veniva chiamata, si metteva in moto. Scriveva ai vari comandi rivolgendosi agli alti ufficiali dai quali era stimata e ascoltata; più tardi alzava il famoso telefono rosso di cui l’avevano dotata i suoi amici alpini, e si metteva in contatto, ottenendo licenze agricole e straordinarie, e trasferimenti in sedi più comode per poter raggiungere la famiglia nel più breve tempo possibile. Quante madri si sono rivolte a lei? Eppure la Piera non ha mai chiesto nulla a nessuno e neppure si è mai fatta vanto di quanto otteneva, nè delle sue conoscenze. Agiva a favore degli altri e basta. Questa è carità? Penso proprio di si. Possiamo anche chiamarla “carità alpina”? O altruismo come virtù tipica degli alpini che, terminata la naja, si impegnano in tante opere di volontariato: dalla protezione civile, all’ intervento in caso di calamità, senza pesare su nessuno: Friuli e Irpinia possono esserere citati come due casi simbolo.

I momenti che più la riempivano di soddisfazione  erano quelli delle sue ferie che in parte passava in qualche caserma degli alpini del Trentino o dell’ Alto Adige, in mezzo ai suoi ragazzi in divisa: i suoi Alpini. Infatti, in estate, era regolarmente invitata dagli alti comandi sia alle cerimonie del giuramento, sia a trascorrere le ferie con loro. Era alloggiata in caserma, in appositi locali preparati per lei; le veniva messo a disposizione un alpino che l’accompagnava ovunque volesse andare e colonnelli e generali la trattavano da loro pari, con un rispetto pari alla stima che di lei avevano, e la portavano nelle loro famiglie, invitandola ai vari avvenimenti come battesimi e matrimoni, trattandola appunto come una di famiglia. Tutto questo traspariva nelle serate passate a casa sua quando, come dicevo prima, ci presentava, attraverso le foto e gli scritti, gli ufficiali di tutti i gradi, dal sottotenente al generale,  che erano onorati della sua amicizia, e le erano sinceramente affezionati. Tutto questo la appagava delle difficoltà di ogni giorno a cui comunque si era adattata.

La “Piera degli alpini”, credo sia stata una persona, unica nel suo genere, che con le  sole proprie forze si è elevata ad di sopra degli  altri, mettendo in evidenza, con un grande coraggio personale, aspetti della sua personalità che altri avrebbero potuto anche non condividere. Io mi chiedo: quante donne sono state capaci di fare scelte coraggiose come le sue e di dedicarsi agli altri senza pensare a se stessa?  Forse non le conosciamo tutte. Ricordiamo che i tempi in cui ha operato erano molto diversi da quelli di oggi.

Cara Piera, spero di non averti deluso ancora una volta. Ma forse sì? Forse non avrei dovuto mettere in evidenza gli aspetti migliori del tuo grande carattere che io ho visto in te. Ma credimi, non potevo farne ameno di cercare di farli conoscere anche a chi ti ha conosciuto magari in modo casuale. Se ti ho deluso, scusami ancora una volta. Una cosa però penso ti abbia fatto piacere. Che questi scritti possano portare i giovani che non ti hanno conosciuto, a conoscere ed apprezzare il tuo mondo “il mondo alpino” e ciò che tu hai fatto per i tuoi “ragazzi”, come li chiamavi con tanto affetto.

 

                                                                     Guido Combi

 

STEFANO TIRINZONI.Una vita per la montagna e per l’ambiente.

 

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Questo è il titolo del volume che ho curato e in parte scritto e che la Fondazione Luigi Bombardieri di Sondrio ha presentato  all’ auditorium Torelli il 3 ottobre 2014.

La Fondazione ha voluto così ricordare il suo presidente prematuramente scomparso nel 2011.

Stefano Tirinzoni, nato a Sondrio nel 1949 e ivi deceduto nel 2011, aveva 62 anni e discendeva da una famiglia talamonese, di cui esistono ancora numerosi parenti.

Il nonno Eugenio fu direttore della Banca Piccolo Credito Valtellinese dal 1925 al 1963  e il prozio, fratello del nonno, Mons. Giovanni, fu arciprete di Sondrio dal 1929 al 1961.

Stefano, appena laureato in Architettura al Politecnico di Milano, nel 1972,  si trovò sulle spalle il peso dello studio tecnico del papà Enrico, ingegnere, anche lui prematuramente mancato.

Lo studio proseguì la sua attività,  per merito di Stefano, con la presenza importante del geometra Bruno De Dosso, che divenne suo stretto collaboratore come lo era stato del padre, e anche suo grande amico.

Da allora la sua vita è trascorsa tra lo svolgimento dell’attività professionale di architetto e l’impegno in varie associazioni con un ritmo intenso. Ovunque si è distinto per intelligenza, capacità organizzativa e per le proposte innovative che ha portato e condotto a termine. Per avere un quadro completo della sua vita abbiamo richiesto le testimonianze dei familiari, della moglie e della figlia, e di amici e collaboratori che lo hanno accompagnato e che con lui hanno lavorato nelle sue molteplici e varie esperienze a livello locale, nazionale e internazionale.

Perchè il lettore possa avere un quadro più preciso della sua personalità, che potrà essere più completo con la lettura del volume a lui dedicato, che si può richiedere gratuitamente alla Fondazione Bombardieri, qui mi limiterò ad alcuni accenni ai campi nei quali è stato presente con la sua intelligenza, la sua capacità propositiva, nei quali ha lasciato una impronta indelebile della sua personalità eclettica e poliedrica.

La mia può essere considerata una testimonianza diretta in quanto, per circa trent’anni, ho lavorato a stretto contatto con lui, prima nel Club Alpino Italiano, Sezione Valtellinese di Sondrio, e poi nella Fondazione Luigi Bombardieri.

Scorrendo l’indice del volume si individuano subito le associazioni  cui ha dedicato la sua passione e i temi importanti che ha affrontato e  sviluppato con intensa opera di divulgazione.

Una caratteristica che voglio subito mettere in evidenza, e che traspare dal titolo della pubblicazione, è il suo grande amore per la montagna, la sua e la nostra montagna valtellinese, per il suo ambiente, la sua gente, e in particolare per il paesaggio  alla cui protezione ha dedicato tante fatiche e che, in qualità di presidente della Fondazione Luigi Bombardieri, ha cercato di far conoscere con convegni e corsi di formazione rivolti in particolare agli insegnanti e agli studenti. Era convinto infatti che la conoscenza del paesaggio e l’amore per il nostro ambiente montano dovesse partire necessariamente dalla scuola, dovendo il messaggio essere rivolto alle generazione future che ora si stanno formando. Questo deriva dalla concezione  che l’ambiente è un bene affidato a noi  temporaneamente con l’obbligo di trasmetterlo, nel miglior stato possibile, a chi dopo di noi lo riceverà in custodia, così come hanno fatto i nostri padri con noi.

Stefano, alla fine della sua vita, ha espresso il suo grande amore per la montagna  affidando, con le sue ultime volontà, gli alpi Madrera, Baita Eterna e Pedroria,  di sua proprietà, al FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) di cui era stato fondatore in Valtellina.

La sua personalità eclettica lo ha portato a esprimere i suoi talenti anche in ambienti diversi da quello professionale come: la Fondazione Luigi Bombardieri, il Club Alpino Italiano, il FAI, il Lions Club, il Parco Regionale delle Orobie Valtellinesi, il Parco Nazionale dello Stelvio.

Il volume, introdotto da due epigrafi, dopo le prefazioni, inizia, si può dire, in termini poetici, con il ricordo in versi di cari amici  ed entra nel vivo con quelli della figlia Susanna e della moglie Tiziana Bonomi, che tratteggiano la sua personalità da un punto affettivo unico e ci fanno conoscere aspetti che Stefano, molto riservato per natura, non svelava facilmente.

E’ poi la volta della sua attività nella Fondazione Bombardieri di cui era presidente, presentata dal suo successore l’avv. Angelo Schena, che era anche cugino e grande amico, avendo condiviso con lui molti interessi: dalla montagna al volo, ai viaggi e che è stato suo successore in varie cariche nelle associazioni che Stefano ha presieduto.

C’è quindi il mio ricordo. Con lui, l’ultimo lavoro portato a termine, intensamente condiviso da tutti e due, è stato il volume “Alpi Orobie Valtellinesi, montagne da conoscere” che abbiamo concluso poco prima della sua dipartita e che ho presentato al pubblico pochi giorni dopo. Poco tempo prima che il male si aggravasse, era riuscito a  scrivere la prefazione del libro, che rappresenta il suo ultimo messaggio in tema di ambiente montano e di paesaggio.

E’ stato consigliere della Fondazione dal 1993, e presidente dal 1998. In qualità di presidente, ha saputo reinterpretare in modo originale e innovativo le finalità codificate dallo statuto del 1957, voluto dal fondatore Luigi Bombardieri, attuando una serie di incontri, convegni, corsi di formazione per le scuole e pubblicazioni sui temi della montagna e del suo ambiente.

Nel CAI Valtellinese è stato presidente dal 1984 al 1991 e anche qui ha operato in modo innovativo, continuando l’azione di rinnovamento iniziata dal suo grande amico Bruno De Dosso che l’aveva preceduto nella carica. E’ stato in questo periodo che è iniziata la nostra collaborazione, essendo stato io eletto vice presidente, e che è poi continuata fino  alla sua morte, per quasi trent’anni. Quando nel 1991, ha lasciato la presidenza per assumere incarichi a livello nazionale, mi ha indicato come suo successore. E così è avvenuto.

Nell’ ambito del Club Alpino Italiano, ha poi ricoperto incarichi importanti a livello nazionale come quello di Vice Segretario Generale e di membro del Comitato Direttivo Centrale.

E’ poi passato a rappresentare il CAI nazionale nell’UIAA (Unione Internazionale delle Associazioni Alpinistiche), prima nella Commissione Accesso e Conservazione e poi nel

Comitato Direttivo, portando contributi di pensiero e operativi importanti e molto apprezzati, come è testimoniato dai ricordi dei colleghi di varie nazioni che hanno lavorato con lui.

Del FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) è stato fondatore a Sondrio nel 1985 e capo della delegazione fino al 2002. In particolare, ha curato il restauro architettonico del Castello Grumello nel comune di Montagna.

Anche nel Lions Club Host Sondrio è stato presidente nel  2005-2006 e ha portato importanti contributi di pensiero.

Il volume tratta poi della sua attività professionale che lo ha visto impegnato in opere di recupero e di restauro di importanti edifici civili e religiosi a Sondrio e a Milano.

Nel campo della pianificazione territoriale ha steso il Piano Territoriale del Parco delle Orobie, nonchè i Piani Regolatori Generali di vari comuni valtellinesi, compreso quello di Talamona.

A Sondrio, tra le varie opere che sono accuratamente elencate nel volume, ha progettato e curato l’attuale sistemazione della Piazza Garibaldi, della Piazza Cavour, della Piazza Campello di Piazzetta Don Viganò; il restauro architettonico di Palazzo Sertoli, della Chiesa Parrocchiale dei Santi Gervasio e Protasio, della Cappella dell’Annunziata, in via Bassi.

Nel campo dei rifugi alpini, ricordo la capanna dedicata a Bruno De Dosso al Painale, il rifugio Donati al Reguzzo e soprattutto la ricostruzione della Capanna Marco e Rosa De Marchi – Agostino Rocca alla Forcola di Cresta Güzza a 3600 metri, appena sotto il Pizzo Bernina, l’unico 4000 delle Alpi Centrali, inaugurata nel 2003. Di quest’opera, vale la pena di leggere la relazione di Stefano e di compararla con quella della prima costruzione nel 1913, di Alfredo Corti. Tutt’e due sono riportate nella pubblicazione.

Dopo due ricordi particolari, ho poi riportato, sotto il titolo “Il pensiero”, una serie di scritti di Stefano e di discorsi pronunciati in particolare in occasione dell’inaugurazione di rifugi alpini, che mettono in luce, per quanto parzialmente, le sue concezioni relative all’ambiente montano e al paesaggio valtellinese in particolare.

Per avere un quadro generale più completo della sua personalità e delle sue opere nei vari campi, è necessaria, però, la lettura della pubblicazione che è distribuita gratuitamente dalla Fondazione L. Bombardieri di Sondrio, alla quale può essere richiesta direttamente o anche tramite la Biblioteca Comunale di Talamona.

(www.fondazionebombardieri.it).

Email: info@fondazionebombardieri.it

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Guido Combi: “ STEFANO TIRINZONI – una vita per la montagna e per l’ambiente”. 2014. Edizione: Fondazione Luigi Bombardieri- Sondrio. Stampa Bettini Sondrio

 

 

IL SENSO DEI TALAMONESI PER IL NATALE

TALAMONA fine dicembre  2014 – 6 gennaio 2015 festività

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DOVE SI SCOPRE COME UNA COMUNITA’ GIA’ DI PER SE’ MOLTO VIVACE CON LE FESTE NATALIZIE SI ANIMA ULTERIORMENTE 

Da circa poco più di una ventina d’anni Natale, per i Talamonesi, significa elevamento a potenza del già molto spiccato senso della comunità. Le associazioni presenti sul territorio e sempre attive in tutti i periodi dell’anno, nel periodo delle feste fanno a gara nel proporre le iniziative più disparate: dai tornei sportivi a scopo benefico (come il torneo rosazzurro organizzato dal Gruppo della Gioia che però quest’anno è stato annullato quasi all’ultimo momento e l’HAPPYFANIA, confermata invece anche per questa edizione, svoltasi sempre un po’ a Talamona e un po’ a Morbegno) alle lotterie a premi organizzate dai vari esercizi commerciali… capofila dell’animazione natalizia è sempre stata la Pro Loco, seppur con una presenza sul territorio un po’ altalenante nel corso di questi anni, ma sempre comunque foriera di iniziative di grande successo che hanno letteralmente vestito a festa Talamona. Come non ricordare il grande impegno profuso nell’allestimento dei presepi delle contrade, che proprio lo scorso anno hanno festeggiato il venticinquesimo anniversario e, almeno fino a qualche anno fa, l’impegno nell’incentivare le vetrine più belle istituendo una gara tra i vari negozi, gara che ha fatto si che le vie di Talamona si vestissero letteralmente a festa, o ancora l’organizzazione dello ZUCCHINO D’ORO non più confermato quest’anno. Non si può non citare anche il grande impegno della filarmonica, coi suoi bellissimi concerti annuali d’inverno, ma anche quelli estemporanei seguendo il percorso dei presepi o quello dei gruppi coristici (di volta in volta il coro Valtellina o la corale Passamonti).

La cosa più bella del Natale talamonese è proprio questa, il fatto che ogni edizione non è mai esattamente uguale ad un’altra. Ogni anno non sono sempre le stesse contrade ad aderire per l’allestimento dei presepi (a parte la presenza fissa di Ca’ Giovanni e via Erbosta che lo scorso anno è valsa loro una menzione speciale) e ogni anno l’allestimento varia, i volontari sanno, di edizione in edizione, riempire di stupore i visitatori per la loro grande fantasia nell’interpretazione dell’evento della natività del Salvatore. Ogni anno non ci sono sempre le stesse iniziative. L’anno scorso ci sono stati i mercatini lungo il centro storico quest’anno invece no, l’evento della gara delle vetrine, come già detto, non viene più proposto da alcuni anni, la lotteria non ha sempre lo stesso regolamento, di edizione in edizione si verificano alcune variazioni.

Quest’anno ci sono state, nel calendario delle iniziative, quattro novità assolute.

La casa di Babbo Natale

Le letterine a Babbo Natale che i bambini potevano consegnare in piazza è sempre stato uno degli eventi cardine delle festività, così come le befane in piazza all’Epifania. In questa edizione però la Pro Loco, con la collaborazione degli esercenti di via Don Cusini, ha voluto superare se stessa allestendo, nel piccolo piazzale di fronte alla biblioteca, una vera e propria casetta di Babbo Natale, molto ben curata nei dettagli. Lettere e disegnini dei bambini sono state consegnate li, ma, grazie a questo nuovo allestimento e sempre grazie alla collaborazione degli esercenti di via Don Cusini, l’evento delle letterine non è stato l’unico rivolto ai bambini in questa edizione, ma hanno fatto seguito anche altri tre pomeriggi di giochi e animazioni per i bambini, ma anche per le loro famiglie.

 

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La casa di Babbo Natale in notturna

 

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La casa di Babbo Natale in diurna

 

Gonfiabilandia

Lo spirito del Natale è soprattutto spirito di generosità e solidarietà e chi meglio dei talamonesi può saperlo, avendo fatto, nel corso del tempo, di questo spirito un arte con tantissime tra associazioni e gruppi di volontariato e assistenza attivi sul territorio. Tra questi gruppi uno dei più recenti è il GFB ONLUS nato con l’intento di sconfiggere una rarissima malattia genetica prima di tutto accendendo i riflettori su di essa per incentivare la ricerca. A questo scopo è andato tutto l’impegno profuso per l’organizzazione di iniziative (mercatini, spettacoli teatrali, concerti, punti spesa dell’IPERAL). Non poteva dunque mancare la presenza di questa associazione anche nel corso del Natale talamonese, con l’organizzazione dell’evento GONFIABILANDIA previsto per domenica 4 gennaio dalle 10 alle 22.30 alla Palestra Comunale. Un evento che ha riscontrato un grandissimo successo, che ha coniugato il divertimento offerto ai bambini con l’impegno per una sempre più massiccia campagna di sensibilizzazione nella lotta contro questa rarissima forma di distrofia muscolare.

 

Alcuni momenti dell’evento GONFIABILANDIA

 

 

Mostra fotografica al museo dei sotterranei della chiesa parrocchiale

Solidarietà, gioia, divertimento. Il Natale è tutto questo, ma c’è spazio anche per la cultura e per l’arte. Arte sacra naturalmente, arte che va a riscoprire i nostri antichi patrimoni. Ed è a questo scopo che la sottoscritta ha fatto un’indagine a tutto campo per le vie di Talamona per andare a scovare e fotografare gli affreschi e le cappellette a tema sacro presenti su tutto il territorio con l’intento di realizzare una mostra permanente da donare al museo etnografico di Talamona gestito dall’Associazione Amici degli Anziani, una mostra che è stata inaugurata nel corso di queste feste, in concomitanza con l’evento dei presepi, ma che rimarrà per alcuni anni finchè non verrà proposto qualcosa di nuovo, così come per molti anni in quegli stessi spazi, prima di questa mostra si è potuta ammirare una mostra fotografica che aveva per tema i vecchi cortili.

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L’unica novità, per quanto riguarda questo evento che va avanti da qualche anno, è il cambio di location, dall’oratorio alla palestra dalle ore 20.30. I fondi raccolti durante la serata sono comunque destinati  al mantenimento dell’oratorio “un luogo di ritrovo per i giovani talamonesi, un luogo di comunità” ha detto il parroco prima di cominciare l’estrazione “un punto di riferimento per loro e le loro famiglie”. Serata di divertimento, condivisione e ricchi premi.

Due parole sui presepi

Il mezzo secolo sembra non farsi sentire per i presepi delle contrade che anche quest’anno ripropongono il tema della natività con rinnovata fantasia. Vorrei ora proporre una piccola carrellata personale di cio che più mi ha colpito nel corso del giro dei presepi.

 

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Il presepe di Ca’ Saracch’ colpisce per la ricchezza di dettagli

 

 

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Un presepe di pasta e riso all’agriturismo Sciaresola. Che sia un richiamo all’Expo dedicato all’alimentazione?

 

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Il Gruppo Alpini ha puntato sul recupero dei valori scrivendoli a chiare lettere sulle magliette dei personaggi. Chissà se simili gesti potranno davvero salvare il Mondo.

http://www.teleunica.tv/frontend.…/content/…/ContentId/15504

 

Ecco come quest’anno ha ancora avuto modo di manifestarsi il senso dei talamonesi per il Natale.

Antonella Alemanni

 

 

SANTUARIO DI TIRANO

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“BENE AVRAI”

Il Santuario di Tirano sorge proprio nel punto dove, il 29 settembre 1504, festa di S. Michele, la Vergine Maria apparve al beato Mario Homodei, salutandolo con le parole: “Bene avrai” e chiedendo espressamente la costruzione di un tempio in suo onore con la promessa di salute spirituale e corporale a chi l’avesse invocata. L’immediato consenso creatosi intorno all’apparizione indusse le autorità di Tirano a chiedere alla Curia di Como l’autorizzazione per la costruzione del santuario. Questa fu subito concessa. Infatti il 10 ottobre 1504, undici giorni dopo l’evento, Guglielmo Cittadini, vicario del vescovo di Como, cardinale Antonio Trivulzio, autorizzava, con il permesso di celebrare la messa, la costruzione di una basilicam seu ecclesiam in onore della Vergine, sul luogo dell’Apparizione, dove già era stata eretta con frenetico zelo una cappella. Neppure sei mesi dopo l’apparizione, esattamente il 25 marzo 1505, fu posta la prima pietra. Presunti architetti i fratelli Rodari, Tommaso, Giacomo, Donato e Bernardino, originari di Maroggia sul lago di Lugano, nel Canton Ticino della Svizzera. Nel 1513 la chiesa era già officiata, anche se incompleta. Numerosi maestri d’arte, nei secoli successivi, gli diedero l’attuale bellezza e ricchezza artistica. La veridicità dell’apparizione, supportata dall’immediato verificarsi di miracoli, indusse la gente a sollecitare l’edificazione del tempio e rappresentò un’occasione per manifestare più apertamente la religiosità e la profonda devozione mariana di quella terra. La gente contadina era per lo più abituata a vivere l’esperienza religiosa anche negli episodi della vita quotidiana: è facile capire come spontaneamente corresse a quel luogo benedetto e poi alla cappella per i problemi di tutti i giorni, e il compiersi dei miracoli non poteva che accrescere questo fenomeno. Il santuario di Tirano è stato un punto di riferimento importante per i valligiani, soprattutto durante l’occupazione e le guerre, e la devozione alla Madonna come protettrice della valle e simbolo della sua libertà si è sicuramente andata consolidando nel tempo. Ora come allora il santuario è meta di numerosi pellegrini e turisti che, come recita la formella in marmo (1534) apposta sopra il portale principale del tempio, affidano alla Vergine Maria con cuore sincero le proprie preghiere. Qui, in questo santuario, ogni giorno accorrono i devoti per deporre ai piedi della Vergine gioie, speranze e sofferenze e per avere salute e consolazione.

VIDEO DEL SANTUARIO

Notizie storiche. Le prime notizie storiche documentate risalgono al secolo XI. Un documento del 1073 parla del castello del Dosso, costruito dalla famiglia Omodei; in seguito Tirano si costituisce in Comune, quindi è sottoposto alla Signoria dei Capitanei, dei Visconti e degli Sforza di Milano. Lodovico il Moro fortifica Tirano con una nuova cerchia di mura, con tre porte e con il nuovo castello di Santa Maria. Proprio in quel periodo, politicamente e religiosamente tanto agitato, avviene l’apparizione prodigiosa della Madonna che, con la costruzione del Santuario, rende celebre la città e l’intera regione.

Don Simone Cabassi, parroco di Tirano, l’8 settembre 1601 ne descrive per primo la storia:

Il giorno di San Michele29 settembre 1504, un contadino “di santa vita e religiosi costumi”, di nome Mario, della nobile famiglia degli Omodei, esce di casa prima dello spuntar del sole, per andare nella vigna a raccogliere alcuni pochi frutti, quando improvvisamente, ha l’impressione che le cime dei monti siano illuminate da una nuova strana luce.

Mentre incerto si domanda da dove provenga tanto chiarore, si sente alzare da terra e trasportare in un piccolo orticello, coltivato in quella zona solitaria. Deposto a terra, gli si presenta davanti agli occhi una fanciulla, dall’apparente età di 14 anni, o poco più, con una veste candidissima, dalla quale Mario comprende provenire la strana luce che lo avvolge. La fanciulla, circondata da una moltitudine di angeli, gli rivolge la parola, chiamandolo per nome «Mario! Mario!». Il buon Mario, rincuorato, risponde «Bene?». «Bene avrai!» riprende la fanciulla.

«Vai a Tirano, e chiedi a quella gente di costruire, in questo luogo, una chiesa per il culto del Signore ed in onore del mio santo Nome».

A Mario, preoccupato per l’incarico ricevuto, che teme di non essere creduto dai compaesani, la fanciulla assicura che, se non crederanno, la pestilenza che al presente affligge il bestiame, si estenderà anche alla popolazione. Come segno dell’autenticità delle sue parole, gli annuncia la guarigione del fratello Benedetto che ha appena lasciato infermo. Terminato il colloquio, la visione scompare lasciando un’intensa fragranza di soavi profumi.  Fattosi giorno, Mario, colmo di meraviglia, si precipita nella chiesa parrocchiale dedicata a San Martino,nella quale i fedeli stanno assistendo alla celebrazione della prima Messa, ed annuncia loro a gran voce quanto la Madonna gli ha comunicato. Dopo un primo iniziale momento di incredulità e di incertezza, i fedeli corrono alla casa di Mario, dove constatano la guarigione del fratello Benedetto che ormai credevano morto, e che invece li accoglie, in piedi, senza febbre, con solo una leggera debolezza dovuta alla lunga malattia.

Il 25 marzo del 1505 vengono gettate le fondamenta del Santuario di Nostra Signora di Tirano, su un terreno appartenente a un capitano degli Sforza. Molte furono le grazie ricevute dalla popolazione, tanto che nella sacrestia è conservato un “libro dei miracoli” che riferisce con minuziosi particolari i prodigi avvenuti nel periodo 1504-1519.

Ma proprio in questo periodo, anche i contrasti religiosi coi Grigioni si vanno acuendo e conducono alla sanguinosa rivolta del 1620, che sfocia, la mattina del 19 luglio, nella strage dei riformati che si estende poi per tutta la Valle. La mattina del 11 settembre gli Svizzeri prendono d’assalto Tirano. Ma i Valtellinesi, sostenuto il primo urto, escono in campo aperto e la battaglia si svolge con sorti alterne; alla fine gli Svizzeri sono sopraffatti e lasciano sul campo numerosi morti, tra i quali gli stessi comandanti. Gli storici riferiscono che in quel giorno la statua di bronzo di San Michele arcangelo, posta sulla cupola del Santuario, fu vista roteare su se stessa e brandire la spada di fuoco contro il campo avversario.

 

 

Lucica Bianchi

W DI WALTER

MORBEGNO 2 ottobre 2014 serata alla memoria

IN OCCASIONE DELLA PROIEZIONE DEL DOCUFILM DI ROSSANA PODESTA’ E PAOLA NESSI PRESENTAZIONE DELL’ASSOCIAZIONE AMICI DI WALTER BONATTI E COMMEMORAZIONE DELLA SUA FIGURA

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Nella splendida cornice dell’auditorium della chiesa sconsacrata di S. Antonio nella piazza omonima di Morbegno, dove ai banchi e all’altare si sono sostituiti poltrone e palco, ma sono rimasti, discretamente conservati, gli affreschi e le cripte originali, questa sera, a partire dalle ore 20.30, un nutrito pubblico ha potuto assistere alla celebrazione di una figura di grande rilievo nazionale e internazionale, ma anche molto importante a livello del nostro territorio: Walter Bonatti, grande alpinista, esploratore, giornalista, scrittore, una leggenda, ma soprattutto un uomo di grandi principi e dalle grandi qualità che nel corso della serata sono state raccontate con molta passione da tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo personalmente.

 

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Introduzione di Giuseppe Ronconi
L’importanza di Walter Bonatti nell’ambito del nostro territorio è ulteriormente dimostrata dal fatto che proprio qui in Valtellina si è costituita un’associazione chiamata proprio GLI AMICI DI WALTER che si propone di portarne avanti il ricordo e il pensiero per dare lustro al nostro territorio e per formare, nello spirito dell’eredità lasciata da Walter, le nuove generazioni, collaborando dunque anche con l’istituzione scolastica. Un’associazione che Giuseppe Ronconi, principale cicerone della serata, ha avuto l’onore di presentare in apertura introducendo a cospetto del pubblico i membri principali.
Il Presidente Onorario Franco Moro
Franco Moro è stato amico personale di Walter Bonatti (hanno fatto tra le altre cose un viaggio insieme nelle remote isole Vanuatu) e questa sera ha voluto introdurre il suo discorso con una citazione del grande alpinista: chi più in alto sale più lontano vede, chi più lontano vede più a lungo sogna. “Walter è stato un atleta e una persona eccezionale che teneva in grande considerazione il valore dell’amicizia” ha raccontato Moro “il suo più grande sogno era che emergesse una volta per tutte la verità sul K2. Con la grande determinazione di cui era dotato, ha lottato per cinquant’anni a tal scopo e poco tempo prima della sua morte è riuscito a vincere questa battaglia passando però attraverso molte traversie cui ha sempre opposto il suo coraggio e i suoi saldi principi. Esemplare da questo punto di vista un episodio. Walter venne convocato a Roma per ricevere una medaglia dall’allora presidente Ciampi. Al momento del ritiro si trovò con Compagnoni e Lacedelli che ricevettero anch’essi delle onorificenze. Al momento Walter ritirò la medaglia, ma poi, una volta a casa, fece un pacco accompagnato da una lettera di rifiuto e lo spedì al presidente. Potrei raccontare anche un altro episodio che testimonia la grande levatura di Walter. Durante il nostro viaggio alle Vanuatu, nel corso di un’immersione, Walter venne senza ossigeno a soccorrere me e un altro membro della spedizione dopo che eravamo rimasti indietro. La personalità di Walter emerge anche nel corso del suo legame con Rossana Podestà, soprattutto i primi tempi”. Rossana Podestà è stata una grande attrice italiana già sposata con un importante regista (Marco Vicario ndr) dal quale ha avuto due figli (Francesco e Stefano a loro volta registi di rilievo una volta cresciuti ndr). “Una volta,” ha raccontato ancora Moro “ospite in tv di Catherine Spaak, dichiarò che se avesse dovuto trascorrere qualche tempo su un isola deserta con qualcuno quel qualcuno sarebbe stato Walter Bonatti. Gli amici di Walter glielo comunicarono così egli volle incontrarla, ma i primi incontri furono molto difficili e burrascosi” “Venivamo da due mondi diversi” ha dichiarato la stessa Rossana Podestà (nella parte finale del film che è stato poi proiettato ndr) “ma ci accomunavano infondo gli stessi obiettivi e questo ci ha poco a poco avvicinato”, un canovaccio molto comune nell’ambito dei grandi amori, quelli destinati ad entrare nella leggenda e a far sognare le generazioni a venire per molto e molto tempo. Un amore in virtù del quale Rossana Podestà ha vissuto momenti difficili come, secondo la testimonianza di Franco Moro “una notte da sola in Patagonia, mentre Walter scalava una parete, dentro una tenda con un puma che si aggirava nei paraggi. Quella di Walter insomma è stata una vita che val la pena far conoscere, soprattutto ai giovani, in quanto lo stesso Walter aveva molto a cuore l’educazione ambientale e culturale”.

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L’intervento di Maria Cristina Bertarelli Presidente dell’Associazione Amici di Walter
A questo punto la parola è passata a Maria Cristina Bertarelli la quale, dopo i ringraziamenti di rito al pubblico in sala, al comune di Morbegno, in particolare al vicesindaco Gabriele Magoni e all’assessore Claudio D’Agata “per il riconoscimento dell’importanza della valorizzazione del territorio” e all’ingegnere Milani “per aver messo a disposizione la sede delle antiche cantine Martinelli” ha raccontato la sua personale esperienza all’interno dell’associazione che in pochi giorni a partire dalla fondazione sta riscontrando parecchie adesioni “un’associazione che raccoglie l’eredità di Walter e ne omaggia la figura di uomo dalla personalità forte, determinata sincera, sicura, leale e molto fedele ai valori in cui credeva. Un uomo che poteva scegliere di vivere in qualunque punto dell’arco alpino, ma scelse la Valtellina (per la precisione Monastero di Dubino ndr) perché ne apprezzava la bellezza. Ed eccoci dunque qui oggi, con grande impegno, a raccogliere la sua eredità e a divulgare i suoi valori: conoscenza e rispetto del patrimonio storico, ambientale, sociale e più in generale culturale di un territorio, in particolare del nostro territorio che Walter amava tanto e che anche noi che ci viviamo dovremmo imparare ad apprezzare. Per questo un ruolo molto importante gioca la formazione dei giovani, un altro valore cui Walter teneva moltissimo”
L’intervento di Plinio Marini dell’Associazione Cancro Primo Aiuto
È stato un tumore a portarsi via Walter Bonatti tre anni fa e questo spiega perché, nel corso della serata a lui dedicata, è intervenuta un’associazione che si occupa della cura di questa malattia ed è stata anche promossa una piccola raccolta fondi ad offerta libera. “il cancro è un male bastardo” ha dichiarato Plinio Marini “un male che lascia dietro di se tanta rabbia e innumerevoli domande insolute, ma anche la voglia di impegnarsi a fare qualcosa. L’associazione è partita in sordina, ma nel corso del tempo ha creato tre nuovi centri Ospis ha finanziato studi e ricerche e ogni anno risponde ad un sempre maggior numero di richieste d’aiuto. Richieste cui tutti possono rispondere donando col cuore”
Presentazione del sentiero Bonatti che sarà inaugurato sabato 4 ottobre alle ore 17

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A questo punto Giuseppe Ronconi ha introdotto il discorso del sentiero Bonatti, uno dei tanti progetti che l’Associazione ha messo in campo per valorizzare il nostro territorio nello spirito dell’eredità e della memoria di Walter. “questo sentiero nasce in particolar modo dall’iniziativa di quattro volontari che hanno percorso i dintorni della casa di Walter, le montagne circostanti fino ad aprire questa via che porterà il suo nome. Queste persone sono Giuseppe Lisciotti, Denis Pellegatta, Andrea della Bitta e Michele Ortelli. Nella realizzazione di questo sentiero l’Associazione Amici di Walter ha trovato un valido sostegno nella Pro Loco di Dubino” ed è stata proprio una rappresentante della Pro Loco di Dubino, Rosa Barri, introdotta da Giuseppe Ronconi e coadiuvata da una presentazione fotografica interattiva, ad illustrare il percorso del sentiero “che partendo da Monastero arriva a più di 2000 metri di altezza passando da San Giuliano, La Piazza, Monte Prusata, Val Bassa, La Forcelletta, Cino, Novate, Verceia per poi ridiscendere, una volta toccato il punto più alto (che corrisponde ai 2750 m del Rifugio Omio) verso i bagni di Masino dove si conclude. In questi giorni è stata posizionata la segnaletica verticale e un sistema di rilevamento GPS a cura della Pro Loco di Chiavenna”.
La parola a Paola Nessi regista del docufilm W di Walter
Paola Nessi insieme a Mirella Polverini (stimata giornalista e scrittrice di montagna) è un membro dell’associazione Amici di Walter. Introducendola Giuseppe Ronconi ha sottolineato il grande impegno, la passione e l’amore profusi in questo progetto fortemente voluto da Rossana Podestà “per raccontare il suo Walter” come ha detto la stessa Paola Nessi nel suo discorso durante il quale ha spiegato brevemente la genesi di questo film frutto di un lavoro di tre mesi interamente girato e montato, anche con materiale di repertorio, nella casa di Rossana e Walter a Monastero di Dubino una casa che oltre ad essere la scenografia principale del film rientra nel racconto perché ad un certo punto Rossana Podestà racconterà di come lei e Walter l’hanno avuta e ristrutturata con pazienza, una casa originale del Seicento che praticamente cadeva a pezzi cui loro hanno ridato nuova vita ristrutturandola in primis, ma anche abitandola e riempiendola dei cimeli di Walter e ora trasformandola in una scenografia. “ho ricevuto un giorno una telefonata di Rossana” ha raccontato Paola Nessi “mi diceva che voleva raccontare la vita di Walter in un film che fosse anche una sorta di documentario e voleva che mi occupassi della regia. Ci siamo trovate un giorno nella casa di Dubino in cui avremmo trascorso molto tempo per scegliere le immagini di repertorio da inserire nel film” “il film è stato presentato per la prima volta a Trento il 13 settembre dello scorso anno in occasione del secondo anniversario della morte di Walter” ha proseguito Giuseppe Ronconi “è un film che racconta la storia della vita di Walter ma anche la storia d’amore tra Rossana e Walter”
W di Walter diario di una visione
A questo punto le luci in sala si sono abbassate lo schermo ha cominciato ad animarsi ed è risuonata la voce di Rossana Podestà inquadrata in apertura mentre tiene in mano una foto di Walter bambino. È questa la prima immagine di un racconto che è insieme un delicato diario intimo, un’appassionante e appassionata testimonianza privata e un documento storico di valore, la biografia di una vita unica e irripetibile all’insegna dell’avventura e della conoscenza partendo dagli anni giovanili di Walter, le sue prime scalate, passando per l’avventura del K2, che nel bene e nel male ha segnato tutta la sua vita, fino ad arrivare ai reportage in giro per il Mondo realizzati per il mensile EPOCA e alla profonda amicizia col suo datore di lavoro, Arnoldo Mondadori, la cui scomparsa lo addolorò profondamente. Un docufilm emotivamente potente in cui la figura di Walter rivive in tutta la sua forza e in cui la sua leggenda viene percorsa passo dopo passo da tutti quelli che ne furono testimoni (le tv e le testate giornalistiche che lo intervistarono, anche straniere) ma in primis dalla sua compagna in tutto e per tutto che ha vissuto nel suo ricordo nella loro casa valtellinese finchè anche lei è purtroppo scomparsa molto recentemente. Un film che è stato vissuto intensamente dal pubblico in sala (il quale, durante una scena che mostrava Walter sulla cima del Cervino dopo una scalata difficile, si è lasciato andare ad un breve ma intenso applauso) e testimonia un grande esempio di coraggio, passione e virtù. Personalmente guardando il film ho avuto modo di conoscere vari aspetti della vita e della figura di Walter Bonatti che non conoscevo come la sua fantasia nel tracciare nuove vie e percorsi di tutti i livelli (nei discorsi di chiusura sono state citate alcune vie della Val Masino e Punta Fiorelli quali vie aperte proprio da Bonatti) che ne fa una specie di visionario, perché visionario dopotutto è colui che sa vedere nuovi mondi e nuove cose laddove i più non vedono. In particolare mi ha colpito la vicenda di una via aperta su un monte molto scosceso che è franata durante i funerali di Walter. In realtà questo è solo uno dei tanti aneddoti straordinari nell’ambito di una vita che ancora si ispirava ai grandi Esploratori Ottocenteschi e ha saputo coglierne l’eredità, una vita che, quello che i più considerano impensabile, lo trasforma in ordinaria amministrazione.
Premio speciale a Paola Nessi e discorsi conclusivi
Dopo la visione del film l’Associazione Amici di Walter ha voluto conferire un premio speciale a Paola Nessi. Durante la premiazione è intervenuto Giampietro Scherini presidente del comitato scientifico che ha voluto dare un suo personale omaggio alla figura di Walter “un autodidatta che si è fatto da se e ha saputo compiere grandi imprese, scrivere grandi libri e grandi reportage con una proprietà di linguaggio degna dei migliori intellettuali e accademici, è riuscito a sognare e a far sognare. È nello spirito del suo esempio e dei suoi insegnamenti che l’associazione nata in sua memoria vuole realizzare a breve, nella cornice di Castel Masegra a Sondrio (già famoso per i cicli di affreschi ariosteschi ndr) un museo della montagna che dedicherà un intero nucleo a Walter esponendo una collezione dei suoi cimeli e di tutto cio che lo riguarda. Sarà un piccolo passo di un grande percorso” “perché Walter rappresenta l’esempio di come la montagna va vissuta” ha dichiarato il vicesindaco Magoni “un uomo libero in tutti i sensi dalle grandi qualità morali che Rossana Podestà definiva senza sovrastrutture per dire che era sempre fedele a se stesso. È fondamentale tenere viva la memoria di un uomo eccezionale, di una autentica leggenda dell’alpinismo”
Conclusioni dell’ing Abbiati presidente SEV
“già da alcuni anni conduco studi ricerche ed incontri per comunicare la montagna e trasmettere la consapevolezza della cultura e dell’ambiente. Ecco perché ho voluto dare il mio sostegno a questo film”
A questo punto la serata si è definitivamente conclusa. Restava solo il buffet a base di bresaola e chat, piatti tipici nostri locali. Io mi sono trattenuta un po’ di più solo per guardare alcune foto disposte tutt’intorno al perimetro della platea. Istantanee dei viaggi avventurosi di Walter Bonatti soprattutto i deserti con le lunghe distese di sabbia dalle curve morbide che disegnano drappeggi come di seta. In alcune compare anche Walter. In una in particolare è ritratto come un puntino in mezzo al vasto nulla del deserto. Si può dire che sia l’immagine simbolo dell’esistenza umana in generale.

Antonella Alemanni

TALAMONA E IL SUO DIALETTO

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Foto panoramica di Talamona

CONSIDERAZIONI SEMISERIE SUL NOSTRO DIALETTO: “UL TALAMUN”
Guido Combi (GISM)

Questo titolo non vuol significare che il dialetto nostro non sia serio. Tutt’altro. Del dialetto bisogna parlare seriamente e soprattutto scrivere, per il solito detto latino verba volant, scripta manent, che tradotto in parole povere significa che noi possiamo parlarne finchè vogliamo, ma se vogliamo che rimanga traccia del nostro dire dobbiamo scrivere, perchè altri possano leggere, commentare, criticare, discutere anche a distanza di tempo e dopo di noi.
Allora voglio iniziare con alcune considerazioni che sentiamo spesso.
Prima considerazione, fondamentale: ul nos dialèt n’è numò lüu, da per lüu, ghè n’è mingo n’otru cumpàgn, l’è ünèc.
Seconda considerazione: apèno nün en se bun da parlàl asèn. Impusibèl per tücc i otri.
Terza considerazione: a scrìvel l’è ‘n prublémo.
Quarta considerazione: la giängio en gu l’àa apeno (numò) nun.
Quinta considerazione: ‘n de la noso “linguo” ghè del parol nosi, e apeno nosi, che i otri i capìss mingo.
Sesta considerazione: l’è da tegnì present ch’el parol ch’el se riferìs a tüt quel che l’è femno, el fenìss per o e mingo per a, cume ‘n di otri dialèt.
Ci sono altre considerazioni, ma le farò poi, qui di seguito, dentro il discorso.
E’ appena uscito “Ul Talamùn”, 2a edizione, vocabolario del dialetto talamonese, scritto da Padre Abramo M. Bulanti. Anche lui, emerito studioso e traduttore degli Statuti della Magnifica Comunità di Talamona, iniziati nel 1525, la cui ultima stesura è del 1560, con altre parole, sostiene l’unicità del nostro dialetto a causa di parole e modi di dire originali; della nostra pronuncia di alcune lettere che è una caratteristica solo nostra e della tipica e unica inflessione che noi talamonesi diamo alla nostra parlata, la giängio, che trasportiamo anche nel nostro parlare in italiano, tanto da farci distinguere come talamùn in mezzo a tutti, non appena apriamo bocca, pure parlando la lingua di Dante.
Tutto questo fa sì che solo chi è nato e cresciuto a Talamona, sia in grado di parlare ul talamùn correttamente, con tutte le caratteristiche tipiche, soprattutto per chi ha conservato modi di dire e parole come quelli della parlata originale. Pensiamo, ad esempio, ai nostri emigranti in varie parti del mondo, che hanno conservato inalterata la parlata, perchè in famiglia hanno sempre parlato in dialetto e non hanno subito influssi esterni che lo hanno modificato, come invece è avvenuto qui da noi. Ma se si può parlare di dialetto originale per gli emigranti, cioè di quando hanno lasciato, spesso definitivamente la patria, si può usare l’appellativo “parlata originale” qui da noi? Di quale originalità si può parlare? A che periodo della nostra storia si può attribuire? Tutto questi quesiti, probabilmente, sono destinati a non avere una risposta precisa. Se qualcuno la sa dare, è caldamente invitato a farcela conoscere.
Visto che il dialetto, nel tempo, si è evoluto, sotto l’influsso della lingua italiana e degli altri dialetti valtellinesi e di fuori provincia, è difficile sostenere l’affermazione che in un certo periodo ci sia stata una fase originale che ha generato le successive. Se poi siamo attenti alle parlate delle varie contrade, dobbiamo constatare che a Cà di Giuàn si parla con inflessioni e accenti diversi rispetto a la Pciazzo, u a Cà di Bar, tanto per citare tre poli diversi. Alcune parole sono pronunciate con accenti o anche con vocali diverse come garlöos a Cà di Giuàn e garlüus in Ränscigo, e altre.
Tra l’altro, c’è da tenere presente che il dialetto, nelle scuole soprattutto nelle elementari e anche dopo, fino agli anni attorno al 1970, è stato combattuto come negativo in quanto rendeva difficile l’apprendimento della lingua italiana, la lingua di tutti, e quindi anche l’acquisizione delle nozioni scolastiche.
Infatti per noi non era facile scrivere in un italiano corretto, in quanto avevamo difficoltà ad esprimerci con proprietà di linguaggio. Inoltre il nostro scrivere, sempre molto stringato, era infarcito di quei termini chiamati in italiano barbarismi, che sono poi parole e modi di dire dialettali, che noi trasportavamo alla lettera nel nostro parlare e nel nostro scrivere, assieme a modi di dire. E questo con la lingua italiana non andava d’accordo. Evidentemente il dialetto era considerato come un linguaggio a sè, semplicemente come un’espressione fonetica che ostacolava l’apprendimento della grammatica e della sintassi italiane, creando una reale inferiorità a scuola rispetto ai compagni che avevano sempre parlato in italiano fin dalla più tenera età. Personalmente, a scuola ho sperimentato direttamente queste difficoltà, infatti ho sempre avuto problemi, sia con l’italiano scritto, sia con l’orale, che poi, con l’età e lo studio ho superato.
Dopo il 1960/70, i linguisti, pian piano, hanno capito che il dialetto, i vari dialetti, erano qualcosa di più di un modo di parlare, erano una ricchezza che aveva dei contenuti importanti.
Rappresentavano, come ogni linguaggio umano, dietro e sotto l’espressione vocale , una realtà molto complessa, cioè la cultura di una popolazione, le sue radici, le sue tradizioni di vita, di lavoro, di usanze, di concezioni morali, di progonda religiosità ecc. cioè una grande ricchezza.
Per capire tutto questo basta scorrere i vari Statuti delle Magnifiche Comunità: il nostro, quello di Fusine, di Grosotto, di Bormio, solo per citarne alcuni. Ma anche pensare a quello che ci hanno insegnato i nostri regiùur, alla realtà contadina profondamente religiosa, in cui sono cresciuti, realtà di lavoro e di sacrificio, ma anche di grande saggezza e serenità, che ha formato uomini e donne delle generazioni che ci hanno preceduto.
Ecco il grande patrimonio che abbiamo alle spalle e che non possiamo dimenticare.
Ho parlato di espressione vocale, perchè, con la mentalità imperante cui ho accennato prima, in un atteggiamento generale e una considerazione negativi nei confronti del dialetto, nessuno provava a scriverlo. Non ci pensava proprio, magari ricercando grafie adatte a mettere per iscritto certi suoni unici nel loro genere. Solo la lingua italiana era degna di essere scritta. E ci si riferiva ai grandi della nostra letteratura: Manzoni, Leopardi, Carducci ecc. Nessuno, o pochissimi studiosi, mettevano per iscritto lemmi, cioè vocaboli, modi di dire, preghiere, tradizioni, usi, racconti, credenze, storie di uomini e donne, avvenimenti, magari semplici composizioni poetiche, descrizioni di persone e di luoghi, in termini brevi, la storia di una popolazione cioè la sua cultura. Ecco quindi cosa dobbiamo intendere per “cultura” degli abitanti di un paese e quindi anche del nostro. Riprendendo il concetto di dialetto originale dobbiamo quindi riferirci solo a quello che noi abbiamo ricevuto dai nostri padri? Il nostro ricordo non può portarci più lontano nel tempo. Dobbiamo parlare solo di tradizione orale, come è avvenuto per molti popoli, che noi chiamiamo selvaggi, i quali di padre in figlio, con un grande esercizio della memoria, si trasmettono storia, miti, leggende, principi e comportamenti religiosi dei loro antenati. Quasi come eccezioni, ricordiamo i grandi poeti e gli scrittori dialettali come Carlo Porta che ha scritto nel dialetto milanese, Trilussa in quello romanesco romanesco, i poeti napoletani e pochi altri.
Dobbiamo ricordare che abbiamo anche noi un poeta che ha scritto poesie in dialetto chiavennasco: il Cantore delle Alpi Giovanni Bertacchi: Un violìn de carne sèca, oppure, Un momént de nustalgìa, dedicata a Chiavenna, sono due della quindicina di altre poesie che ha scritto.
Se ricordo bene, anche Don Vincenzo scriveva componimenti scherzosi in poesia in dialetto, che recitava dopo le rappresentazioni teatrali che presentavamo nel teatro dell’oratorio, negli anni 50 del 900. Chissà dove sono finiti i suoi scritti dialettali.
Non è che non esistano documenti della storia della nostra comunità di Talamona. Gli statuti ne sono il massimo esempio, gli archivi comunali e quelli parrocchiali rappresentano un altro grande patrimonio di documenti. Non esistono invece documenti scritti in dialetto che ci possano dire come era il parlare in talamùn in una certa epoca della nostra storia.
Negli anni settanta del secolo scorso si è iniziato anche a scuola, a rivalutare il dialetto come un’altra lingua rispetto alla lingua nazionale, che rappresenta, come dicevamo, una diversa cultura, quindi una ricchezza.
Non è che allora è scoppiata la mania del dialetto, semplicemente si è iniziato a studiare il dialetto nelle sue diverse realtà, con scritti e iniziative di varia natura, perchè si è capita la sua importanza nella formazione dei giovani. A partire da quel periodo, in Valtellina e in Valchiavenna, molti studiosi si sono messi all’opera e hanno scritto libri sui toponimi di molti paesi come Livigno, Grosio, Chiuro, la Val Masino e altri; vocabolari ponderosi come quello della Val Tartano di Giovanni Bianchini, dove sono riportate tradizioni civili e religiose, usanze, testimonianze di vita e di lavoro. E’ sorto, a coordinare tante iniziative, l’Istituto di Diallettologia con sede a Bormio formato da emeriti studiosi come Remo Bracchi, Gabriele Antonioli, che stanno svolgendo una gran mole di lavoro che già costituisce una importante patrimonio della cultura delle varie realtà comunali e vallive della nostra provincia. Se ricordo bene, anche da noi, negli anni 50 del 900, la maestra Palmira Gusmeroli, aveva scritto un volumetto sui toponimi, le filastrocche e le preghiere in dialetto. Ma anche questo, non l’ho più visto in circolazione. Spero che ci sia nella biblioteca comunale.
A questo punto possiamo quindi affermare che il dialetto costituisce una grande ricchezza per conoscere l’identità originale di una comunità. E anche della nostra.
Padre Abramo, in relazione alla scoperta, o riscoperta, della nostra identità e delle nostre tradizioni, ha accumulato grandi meriti con i suoi studi e le sue ricerche sul dialetto e la storia talamonesi. Ci ha indicato la strada. Sta a noi e, in primis, alla Casa della cultura, incentivare e portare avanti approfondimenti e nuove iniziative sul nostro dialetto e su tutto quello che rappresenta per la nostra comunità.
Credo che anche la Pro Loco potrebbe trovare un suo spazio specifico nella valorizzazione del nostro dialetto.
E il Gustavo Petrelli, il menestrello, dove lo mettiamo? E’ stato il primo a creare le canzoni in dialetto talamonese e soprattutto a registrarle, che poi è un altro modo di scriverle e tramandarle. Sono poi seguiti altri cantautori che, in modo altrettanto originale, hanno composto e musicato testi in talamùn e anche loro si esibiscono in pubblico e diffondono le nostre tradizioni.
In questi ultimi mesi c’è poi stato un altro fenomeno, diciamo, on line: facebook.
Prima Emanuelel Milivinti in “Sei di Talamona se…” ha lanciato il censimento dei soprannomi e sulla sua scia è iniziata la raccolta di detti, piccole sentenze, modi di dire, proverbi ecc., che hanno avuto moltissime adesioni. Ma, ancora una volta, tutto questo, se lo lasciamo così episodico e in modo frammentario, solo sparso nella varie schermate del computer, finirà per passar via e scomparire anche dalla memoria. Perciò con un paio di appassionati, meglio, appassionate, stiamo accogliendo il tutto e poi lo pubblicheremo prossimamente su questo nostro giornale on line, della biblioteca, che spero leggano in tanti. Cercheremo cioè di dare un ordine agli interventi appassionati dei talamonesi e una stesura che tutti possano leggere.

Come si scrive
Su questo argomento il discorso si fa più difficile, perchè si tratta di stabilire delle regole relative alla grafia che possano essere condivise e capite nelle loro motivazioni, da tutti.
Anche in questo settore ritengo che Padre Abramo abbia indicato la strada.
All’inizio del vocabolario, ha indicato delle regole che condivido e possono costituire il punto di riferimento per chi intende scrivere in dialetto. Ciò serve a capirci meglio e a uniformale il modo di scrivere ul Talamùn. Personalmente avevo qualche dubbio sul come scrivere quella che lui chiama la “sesta vocale” che abbiamo solo noi, cioè la a nasale di mämo (mamma) o di päa (pane), che ha un suono, appunto, nasale tra la a e la o.
Io, finora preferivo scriverla sottolineata a per distinguerla da quella normale.
A pensarci bene però, sono arrivato alla conclusione che l’autorevolezza di Padre Abramo in materia di dialetto non si può mettere in dubbio e quindi la nostra sesta vocale si scrive così: ä, come lui ha indicato. Anche per la consonante n che io scrivevo sottolineata n, quando è nasale, visto che ciò avviene sempre quando è finale di parola, concordo con lui che è inutile mettere segni particolari. Per il resto delle regole grafiche, vale quanto è scritto nella prefazione del vocabolario “ul Talamùn” , 2a edizione, che, mi risulta, è stato distribuito a tutte le famiglie talamonesi, come a suo tempo gli Statuti.
Ci sono poi le elisioni di vocali all’inizio di articoli e sostantivi che secondo me, per sentirle, prima di scriverle, bisogna pronunciarle come nel parlare normale. Es.: el in el m’äa ciamäa , diventa ‘l in lüu ‘l mäa ciamäa. Cioè si da precedere un apostrofo all’articolo o al nome.
Come si vede anche nelle due frasi scritte, nel nostro parlare, spesso le vocali finali si allungano, strascicando leggermente la voce e allora, a mio giudizio, vanno scritte doppie. Quando hanno una grafia speciale come la ä, la seconda a si può scrivere normalmente.
Comunque, penso che, quando si scrive, bisogna sempre, prima, pensare in talamùn la frase che si vuole riportare scritta.
Ci sono poi gli accenti tonici, cioè quegli accenti che ci fanno capire dove cade la voce nella pronuncia di una parola. In certi casi, è opportuno metterli, perchè la nostra pronuncia è diversa da altri dialetti. Un esempio è la e di curtél, ciapél, fradél…, che noi pronunciamo stretta, quindi con l’accento acuto, mentre negli altri dialetti, di solito, è aperta e si scrive con l’accento grave: curtèl, ciapèl, fradèl…
Abbiamo poi gli articoli che sono diversi da altre parlate: ul (il), el (le), ii (i e gli).
Ora non voglio dilungarmi in una esposizione che, capisco, può sembrare e diventare noiosa e quindi chiudo ritenendo di aver detto abbastanza nella speranza di suscitare un interesse sempre maggiore per la nostra parlata unica e, per noi, così bella.
Ovviamente si accettano altri interventi sul tema, che possano arricchire il discorso.

 

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La chiesa parrocchiale di Talamona

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