ERETICI, STREGHE E SANTI NELLA VALLE MESOLCINA E DINTORNI

di Loredana Fabbri

“Se i sacerdoti saranno santi, similmente sarà santo il popolo”.

                                                                                    (San Carlo Borromeo)

Alla memoria del Professor Domenico Maselli

 

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La Valle Mesolcina dal Pizzo Uccello

PREMESSA

Il presente lavoro è un tentativo di ricostruzione della storia religiosa-politico-sociale dei territori sottoposti alla Visita Pastorale dell’Arcivescovo di Milano Carlo Borromeo nel 1583, una storia molto conosciuta, che ha riscosso tanti elogi ma anche tante aspre critiche per l’operato di colui che pochi anni dopo la sua morte divenne santo.

 

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Ritratto di san Carlo Borromeo
Giovanni Ambrogio Figino (1548-1608)

Pinacoteca Ambrosiana, Milano

 

L’articolo si basa su documenti per la maggior parte editi da Paolo d’Alessandri e Rinaldo Boldini, i quali hanno pubblicato nelle loro opere i testi di documenti reperiti presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano ed in altri Archivi, che sono stati preziosi ed indicativi per continuare la presente ricerca.

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Antonio Noto, Statuta et capitula vallis Mexolcinae, 1942

Spesso nel testo riportiamo interi passi di documenti, poiché i riassunti con un linguaggio attuale non renderebbero bene certe “sfumature” come il lessico del tempo.

Non tutti i documenti trascritti ed editi da Paolo d’Alessandri sono fedeli agli originali, anche se i concetti restano gli stessi, ci sono molte parole omesse o cambiate e spesso sono riportati solo dei brani, tralasciandone altri, per noi di una certa importanza, anche perché la finalità di questo lavoro, come già accennato, è molto diversa da quella che si erano proposti i due summenzionati studiosi.

Molto interessante, non solo per la situazione religiosa, ma anche per le notizie storiche, geografiche ed economiche, è l’”Instruttione generale del Stato de Grisoni (diviso in tre parti) pertenente ad alcune cose temporali per maggior cognizione dello stato spirituale”, documento reperito presso la Biblioteca Ambrosiana, dove non troviamo né data né firme, ma da cui possiamo evincere che tale documento fu scritto poco prima della Visita Apostolica, con lo scopo, come recita il titolo, di dare una visione unitaria della situazione presente nei territori delle Tre Leghe. Altre notizie molto importanti le possiamo dedurre da una più sintetica relazione sulla Visita di quella edita dai due studiosi D’Alessandri e Boldini, e da altri documenti non riportati nei loro lavori qui citati.

Nei secoli del basso Medioevo, l’attuale territorio svizzero apparteneva al Sacro Romano Impero, cui facevano riferimento le varie città e comunità di valle per espandere la sovranità degli individuali confini ed essere direttamente soggetti alla giurisdizione imperiale, lontana e spesso astratta, era un modo per sfuggire all’invadente autorità dei vescovi e dei signori feudali.

Dopo la metà del secolo XIII, la decadenza delle istituzioni imperiali, con la conseguente  precarietà e incertezza politica, indussero le città e le comunità rurali a stipulare intese difensive che furono anche l’occasione per affermare la propria indipendenza: nel 1291 l’unione dei cantoni montani di Unterwalden, Schwyz e Uri rappresentarono il nucleo della fondazione della Confederazione, anche se città come Zurigo, Berna e Lucerna continuarono ad avere un ruolo importante.[1]

Gli Asburgo, feudatari dell’Alta Valle del Reno, rappresentarono una grave minaccia per i Cantoni, specialmente quando nel 1273 ottennero la corona imperiale, ma agli inizi del secolo successivo, i Cantoni con un’abile mossa politica strinsero alleanza con Ludovico il Bavaro contro Federico d’Asburgo, infliggendo agli Asburgo una grave sconfitta nel 1315 e alla fine dello stesso secolo la Confederazione si attribuì un carattere più saldo e delineato con la Convenzione di Sempach del 1393, cui aderirono Zurigo, Zugo, Lucerna, Glarus e Berna.[2]

Nei primi anni del Quattrocento, la Confederazione, divenuta una potenza considerevole, cerca di estendere il proprio dominio al di là del passo del San Gottardo sui territori dell’attuale Canton Ticino, ma il tentativo rimane incompiuto a causa della vittoria dei Visconti ad Arbedo nel 1422.

A Vazerol nel 1471 venne sottoscritta la Repubblica delle Tre Leghe tra la Lega Caddea, la Lega Grigia e la Lega delle Dieci Giurisdizioni: si trattò di un accordo in cui le tre Leghe, pur restando indipendenti e separate, stipularono un patto per difendersi meglio dagli Asburgo, che continuavano ad asservire questi luoghi per ottenere il controllo sui passi esistenti nella regione. Dopo accordi con la Confederazione svizzera, prima nel 1497 poi l’anno successivo, lo Stato delle Tre Leghe fu considerato associato alla Confederazione elvetica, e dal 1512 anche la Valtellina con Bormio e Chiavenna fecero parte della Repubblica delle Tre Leghe, se pure con livelli diversi di sudditanza.

Continua, nel frattempo, il conflitto con gli Asburgo, ma una nuova minaccia per la Congregazione è costituita dall’espansione dello Stato borgognone, ma le sconfitte che i piccheri svizzeri inflissero ai cavalieri borgognoni nel 1476, diedero fama continentale alle truppe elvetiche che cominciarono ad essere richieste dalle potenze europee per il loro rivoluzionario modo di combattere, segnando il tramonto del cavaliere e della cavalleria medievale, e facendo dei piccheri svizzeri i mercenari più richiesti. Ad accrescere il peso internazionale della Confederazione, oltre le vittorie, ci furono anche le ammissioni a tale Confederazione di Basilea, Sciaffusa, Friburgo, Solothurn e Appenzell, ma le mire espansionistiche furono fermate dalla sconfitta subita a Marignano nel 1515 da parte di Francesco I, i Cantoni misero fine alle loro ambizioni sul Milanese, ma il Canton Ticino rimase sotto il potere della Confederazione svizzera.[3]

La diffusione del pensiero di Lutero inizialmente non causò una distinta contrapposizione nella vita della comunità cristiana, d’altra parte anche durante il Medioevo la disputa teologica e disciplinare era stata spesso irruente e frequente era stata la contestazione circa l’atteggiamento del clero compresa la più alta gerarchia ecclesiastica, ma tutto ciò non aveva causato divisioni insanabili, quindi il clima di rottura che si stava creando non fu percepito, per lungo tempo, in modo traumatico dalla gente comune. Anzi i ceti urbani più umili e la popolazione rurale provavano grandi speranze nei loro confronti proprio in un rinnovamento della Chiesa e della società. Anche la borghesia era favorevole alle novità che l’opera di Lutero avrebbe potuto portare sia dal punto di vista spirituale sia nella libertà da vincoli, soprattutto fiscali, nei confronti della Chiesa. I principi tedeschi intravidero nella contestazione teologica del teologo tedesco la possibilità di affermare la loro esigenza di autonomia politica da Roma e dall’Imperatore, inoltre coloro che aderirono alla Riforma incamerarono i beni ecclesiastici posti nei territori da loro governati, approfittando del disconoscimento delle autorità stabilite dalla Chiesa di Roma (episcopati e monasteri), trasformando in tal modo la disputa religiosa sollevata da Lutero in una rivoluzione politica ed economica, che sollevò una lunga polemica sull’obbedienza dei principi a Roma e all’Imperatore e sul legittimo possesso dei beni appartenenti alla Chiesa di cui si erano impadroniti.

Il movimento riformatore si estese anche fuori dai confini della Germania, per opera di altre personalità, le cui posizioni dottrinali non sempre coincidevano con quelle di Lutero: le idee riformistiche penetrarono nella Svizzera tedesca per mezzo di centinaia di opuscoli e di numerosi fautori ardenti e convinti che le diffusero ovunque, anche se l’impatto che ebbero sull’ambiente fu diverso a seconda che si trattasse di zone rurali o delle città.

A Zurigo il messaggio di Lutero venne recepito dallo svizzero Ulrich Zwingli (1484-1531), che dopo avere compiuto gli studi a Vienna e a Basilea, era stato ordinato sacerdote nel 1506, successivamente cappellano delle truppe svizzere che, vinta la battaglia di Melegnano, si impossessarono dei territori della Valtellina e del Canton Ticino ed imposero la Signoria di Massimiliano Sforza a Milano. Dopo l’esperienza militare Zwingli iniziò a Zurigo nel 1519 la sua attività di predicatore e di politico, dall’anno precedente era arciprete della Cattedrale di questa città e presa la guida della Chiesa la portò subito a posizioni riformate, allontanandosi dal Vescovado e collegandosi al Consiglio Comunale della città.  Inizialmente si schierò con Lutero nella critica alla Chiesa romana e alla pretesa di essere l’unica mediatrice della parola di Dio, ma presto il suo pensiero divenne più radicale rispetto a quello del riformatore di Eisleben, soprattutto sui sacramenti e sulla liturgia: considerò inaccettabile ogni dottrina che ritenesse possibile un cambiamento di sostanza, quindi negò il valore sacramentale dell’Eucarestia e di tutti i sacramenti, attribuendo loro un valore puramente simbolico. Ridusse la liturgia a una semplice lettura commentata della Bibbia e a una rievocazione dell’Ultima Cena di Cristo. Nel 1522 si dimise dal suo ruolo, restando a Zurigo come predicatore alle dipendenze del Consiglio cittadino, che, successivamente, adeguandosi alle idee zwingliane istituì una nuova riforma ecclesiastica radicale, in cui venne soppresso il Diritto canonico, furono requisiti i beni ecclesiastici a favore della pubblica beneficenza, nelle chiese vennero eliminate le immagini sacre e furono annullate le processioni e la musica sacra, fu imposto l’obbligo di partecipazione alla liturgia e il divieto di assistere a messe cattoliche. Questo modello si estese anche ad altre città come Basilea, Berna e Sciaffusa, invece in altri Cantoni ci fu una forte resistenza, che dette origine ad una serie di scontri armati, che sfociarono, più tardi, in una vera e propria guerra contro i Cantoni cattolici e Zwingli venne sconfitto e cadde nel 1531 nella battaglia di Kappel.[4]

La morte di Zwingli non arrestò lo sviluppo della Riforma, fuorusciti, predicatori itineranti e mercanti portavano di città in città le idee riformistiche basate su linee diverse da quelle di Lutero, soprattutto i <<…mercanti, che, recandosi in zone di fede luterana e soprattutto calvinista, vi trovavano delle idee rispondenti al loro mestiere e ai loro bisogni: infatti secondo Calvino ogni attività lavorativa è benedetta da Dio, la riuscita negli affari è una prova della salvezza, il denaro deve essere considerato un dono di Dio e messo a frutto non solo come aiuto ai poveri e alla Chiesa ma anche come investimento finanziario per servire la Comunità, e l’uomo d’affari deve essere prima di tutto un uomo di fede>>.[5] I protestanti rimasero liberi nei domini francesi, ma cominciarono le persecuzioni in altri territori, tra i perseguitati vi fu Agostino Mainardi (1482-1563), il quale si rifugiò nel territorio dei Grigioni nel 1539 e fu il primo predicatore della Comunità Evangelica di Chiavenna.[6]

Nel 1536 arrivò a Ginevra il francese Jean Cauvin (Noyon 1509.1564), nome italianizzato in Giovanni Calvino, dove svolse la funzione di predicatore e pastore. Dopo varie peregrinazioni, protetto da Renata di Navarra, moglie del duca d’Este, Calvino si rifugiò a Basilea, città molto tollerante, dove ebbe termine la prima stesura della sua opera più importante: la “Institutio Christianae Religionis (1536), in cui spiegava i concetti essenziali della dottrina cristiana e i punti principali della verità evangelica riscoperta da Lutero. D’accordo con il riformatore tedesco sugli elementi fondamentali della Riforma come la salvezza tramite la sola fede, totale debolezza della libertà umana, affermazione del sacerdozio universale, sul modello di Zwingli, diverge da Lutero su diversi punti fondamentali: sul tema della predestinazione, Lutero afferma che Dio, con sovrana libertà, sceglie, indipendentemente dai loro meriti, alcuni uomini per la salvezza; Calvino estremizza il pensiero luterano proponendo la “doppia predestinazione”, secondo cui Dio destina alcuni uomini alla salvezza e altri alla dannazione etrna. Per entrambi i riformatori i Sacramenti sono due: battesimo ed eucarestia, ma Calvino li considera semplici atti simbolici senza significato salvifico, negando la presenza di Cristo nell’eucarestia; per l’organizzazione interna della comunità cristiana, Calvino non si limita a negare il primato del clero sul laicato, ma propone una Chiesa in cui i laici abbiano assoluta prevalenza nel governo, egli non prevede una Chiesa nazionale, come Lutero, ma un’organizzazione della comunità locale, dove ogni centro ha la sua autonoma organizzazione vicina alle esigenze della borghesia cittadina.

Come già accennato, sempre nel 1536 Calvino si trasferì a Ginevra, dove proclamò il suo pensiero politico totalmente radicalmente opposto a quello di Zwingli, che affermava la netta prevalenza della gerarchia religiosa su quella politica e nel 1537 obbligò i cittadini di Ginevra a rispettare gli “Articoli sull’organizzazione della Chiesa”, con gravi sanzioni per gli inadempienti. Nel 1538 Calvino fu costretto a lasciare questa città a causa di un rovesciamento del governo cittadino, ma tre anni dopo fece ritorno a Ginevra, dove fece approvare le “Ordinanze ecclesiatiche “, in cui veniva stabilito la netta subordinazione dello Stato alla Chiesa e il potere deliberante (anche quello civile) venne affidato ad un Concistoro, organo di governo composto da sei pastori ecclesiatici e da dodici anziani eletti dai consigli municipali. In tal modo Ginevra fu trasformata in una vera teocrazia, una città santa, una nuova Roma, opposta alla Roma nepotista e immorale contro cui tutti si avventavano e le divergenze dottrinali stroncate duramente: un caso emblematico fu quello di Michele Serveto, medico spagnolo, fuggito dalla Spagna dove fu considerato eretico, arrivato a Ginevra per poter professare liberamente la propria fede, fu condannato e messo al rogo, incrinando così il mito di libertà proprio del mondo riformato, contrapposto alla tirannia di Roma, nonostante ciò il calvinismo consolidò le proprie posizioni e Ginevra divenne un luogo di perfezione, dove era stato realizzato un nuovo modello di umanità.[7]

Le speranze in una profonda riforma della Chiesa di Roma, che si erano diffuse fin dall’XI secolo, erano state deluse, ma il bisogno di un mutamento era profondamente sentito, poiché la mondanizzazione di essa si era estesa assai anche attraverso l’istituzione dei vescovi-principi e dei vescovi-conti, dotati di ampi poteri politici, oppure con le ricche prebende, che permettevano a cadetti di illustri famiglie, ma senza spirito ecclesiastico, di ritrovare il fasto e la ricchezza che non potevano più avere nella propria famiglia. La mondanizzazione dei papi rinascimentali da Sisto IV a Leone X avevano fatto scadere l’idea spirituale : troppa politica, troppo lusso, troppo fiscalismo minavano il prestigio della Chiesa. D’altra parte il nazionalismo sempre più ascendente, che trovava la sua ragione d’essere nello scadimento del feudalesimo e nella forte ascesa del commercio e del capitalismo, portava a frantumare l’unità dei cristiani.[8]

La Riforma protestante incalzò il pontefice Paolo III a convocare un concilio, richiesto da tempo nel mondo cristiano, ma già prima dell’inizio del Concilio di Trento (1545-1563) le speranze di rappacificamento erano perdute, poiché i protestanti decisero di non parteciparvi. Sul piano dottrinale il Concilio operò una netta chiusura nei confronti del Protestantesimo: la Chiesa di Roma si propose come unica interprete delle Sacre Scritture: fu affermato il principio della salvezza per mezzo non solo della fede ma anche delle opere, condannando la tesi luterana della “sola fide”, venne ribadito il libero arbitrio dell’uomo, fu stabilito il numero dei sacramenti (sette) e la loro efficacia non solo simbolica, venne decretato l’obbligo di residenza per i preti e i vescovi, affidando a quest’ultimi la totale responsabilità sulla propria diocesi, con l’obbligo di visitarla, venne riformata la predicazione, fu proibito il cumulo dei benefici, vennero creati i seminari per la formazione del clero: sull’esempio di grandi vescovi come Carlo Borromeo a Milano e Francesco di Sales a Ginevra, fu rinnovato l’impegno pastorale delle guide della Chiesa. Vennero anche prese delle misure contro il nepotismo, la simonia, il concubinaggio: complessivamente la Chiesa di Roma uscì rafforzata dal Concilio ed ebbe nel catechismo uno strumento molto importante per la diffusione dell’ortodossia tridentina.

A tutto questo si accompagnò un’azione repressiva, che trovò il suo principale strumento nel potenziamento dell’Inquisizione Romana o Congregazione del Sant’Uffizio, tra le vittime più celebri si ricordano: Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei. L’intento di riforma del Cattolicesimo si espresse anche attraverso i nuovi ordini religiosi e in questo la Chiesa ebbe come principale strumento la Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola, su una struttura rigorosamente gerarchica, su una rigida obbedienza e sulla notevole preparazione culturale dei suoi membri, i quali riservarono grande attenzione all’istruzione, di cui presto detennero il monopolio. La divisione in seno alle Chiese cattolica, luterana e calvinista fu profonda e tale da sentire la necessità di sottolineare i loro elementi distintivi, nacque così il “confessionalismo”, ossia quella tendenza a subordinare le scelte e le decisioni politiche, morali e civili ad una determinata confessione religiosa, che trovò la sua realizzazione nel disciplinamento sociale, cioè nel controllo delle Chiese su tutte le manifestazioni della vita di relazione, con lo scopo di uniformare i comportamenti e concepire nei singoli un atteggiamento di obbedienza. L’intolleranza divenne comune a tutte le Chiese non solo nei confronti delle altre confessioni, ma contro chiunque fosse considerato un “diverso”; dilagò così il fenomeno della caccia alle streghe: decine di migliaia di persone furono mandate a morte in tutta Europa, accusate di stregoneria, con confessioni ottenute sotto tortura, la psicosi della stregoneria si diffuse al punto che finì per coinvolgere molti “diversi”, emarginati dalla società che trovavano nella stregoneria un modo di evasione da quella società che li aveva respinti. Oggetto di crudeli persecuzioni furono anche gli Ebrei, i quali vennero confinati in ghetti nei quali erano costretti a risiedere e a portare un segno di riconoscimento; in Spagna, già nel secolo precedente, la riconquista cattolica e l’Inquisizione avevano imposto agli ebrei sefarditi conversioni forzate, dando luogo al fenomeno dei marrani, molti dei quali mantennero le loro tradizioni ancestrali, professandosi pubblicamente cattolici, ma restando fedeli all’ebraismo in privato.

Nel 1565, infine, venne stilata la confessione “Professio fidei tridentina”, in contrapposizione a quella luterana di Augusta. Controllo e repressione delle eresie e rinnovamento della vita ecclesiale furono, dunque, le linee guida della Chiesa Cattolica dopo il Concilio di Trento.[9] Concludiamo questa breve e incompleta panoramica del secolo XVI con le parole di Attilio Agnoletto: << Si può dire che quella che si ama definire la “Riforma cattolica” trovi il suo approdo nel Concilio di Trento, che forse è nella storia della Chiesa Cattolica il più importante tra quelli ecumenici sia per le definizioni dogmatiche sia per i decreti di riforma interna. Occorre infatti arrivare al 1869 perché la Chiesa riconvochi un altro concilio. E anche il Concilio Vaticano II, che si è svolto a circa quattro secoli di distanza, non ha certo intaccato la sostanza di decisioni che appaiono irreformabili […]. Se si vuole comprendere il cattolicesimo del mondo moderno bisogna risalire alle decisioni del Concilio Tridentino, che chiusero la porta alla Riforma protestante, ma realizzarono e diedero l’avvio a una riforma cattolica […]. Esaminando, alla luce attuale, gli effetti delle decisioni tridentine, si deve riconoscere che il Tridentino è la chiave di volta di tutto il cattolicesimo fino ai nostri giorni. La sua importanza non consiste solo nel ripudio dogmatico delle istanze della Riforma, ma anche nell’eliminazione di infiniti abusi e nella costituzione di ordinamenti tuttora vigenti. Si potrebbe dire che il Concilio di Trento ha ridato vigore al cattolicesimo, facendone una rinnovata confessione religiosa che si colloca accanto alle altre rampollate dalla Riforma. Ne è nata una Chiesa poderosa, giuridicamente strutturata, dogmaticamente fissata >>.[10]

L’ultima fase del Concilio di Trento ebbe luogo tra il 1560 e il 1563, da cui cominciò la Riforma cattolica, nello stesso tempo in Italia cominciò a diminuire il protestantesimo per subire un vero e proprio crollo nel 1568 ad eccezione della Valtellina dove le dottrine eretiche proliferavano. “Riforma cattolica” intesa come movimento di riforma interno alla Chiesa di Roma, e “Controriforma”, cioè una reazione alla Riforma protestante che utilizzò l’azione missionaria per riportare al Cattolicesimo le aree geografiche passate alle nuove confessioni religiose e che fecero uso anche di strumenti repressivi come il Tribunale dell’Inquisizione.

Nello Stato di Milano la Chiesa cattolica stava attraversando un periodo di profonda crisi, a causa anche della mancanza di residenza dei Vescovi da oltre un secolo: in passato la città di Milano aveva avuto una lunga tradizione di eminenti prelati e profondo era stato il rapporto tra Chiesa e popolo, ma in questo periodo i rappresentanti dei Vescovi si limitavano a riscuotere i tributi, l’Ordine degli Umiliati era in piena decadenza[11] mentre lo Stato era sempre più forte, i Vescovi e gli alti dignitari ecclesiastici vivevano a Roma, lasciando la Chiesa milanese nelle mani di preti ignoranti che “cianciugliavano”la Messa in un latino stentato o sconosciuto, in città si diffondevano sempre di più i libri di Lutero portati anche dai mercanti: Milano era prossima alla Valtellina e a Ginevra e i collegamenti erano facilitati da questa vicinanza.[12]

Subito dopo la conclusione del Concilio di Trento, Carlo Borromeo (1538-1584) abbandonò la Curia romana e il potente ruolo di Cardinal Nepote di Pio IV per andare a svolgere le funzioni di Vescovo nell’Arcidiocesi di Milano.

Personaggio scomodo e molto discusso, Carlo fu uomo del suo tempo con le sue convinzioni e superstizioni, ricordato sia per la sua attività d’inquisitore sia per quella proficua in Milano, secondo per fama solo a Sant’Ambrogio, il futuro grande Vescovo di Milano era nato il 2 ottobre 1538 nel castello di Arona sul lago Maggiore, terzogenito del conte Gilberto e di Margherita de’Medici, sorella del Marchese di Marignano, Gian Giacomo de’ Medici e del Cardinale Giovan Angelo de’ Medici, la nobiltà e l’antichità della famiglia furono sempre care a Borromeo. La successione del padre, morto prematuramente lasciando i figli in difficili condizioni familiari, nella carica comitale spettava al fratello Federico, Carlo invece scelse la carriera ecclesiastica in quanto cadetto e la fulminante carriera e le dignità ecclesiastiche, dopo gli studi giuridici compiuti a Pavia, le dovette alla famiglia e soprattutto allo zio materno Giovan Angelo che fu eletto papa il 25 dicembre 1559 col nome di Pio IV, solo un mese dopo il Pontefice elevò al titolo cardinalizio il nipote ventiduenne, affidandogli la Segreteria di Stato, l’amministrazione perpetua dell’Arcidiocesi di Milano, la legazione di Bologna, l’Abbazia di Nonantola e la responsabilità degli affari pontifici con il titolo di Cardinal Nepote, ed altre altissime cariche con prebende numerose e ricchissime. A Fedrico assegnò il comando dell’esercito pontificio e poi il principato di Oria. [13] Già il 17 gennaio 1560, infatti, Monsignor Giulio Grandi, ambasciatore della Casa d’Este, così scrive in un suo carteggio: <<Si dice che nel concistoro di venerdì prossimo Sua Santità promuoverà al cardinalato l’abate Borromeo suo nipote, donandogli il suo cappello. Questo giovane è molto amato dal papa e veramente dimostra nelle sue azioni di essere assai meritevole>>.[14]

A Roma Carlo ed il fratello furono coinvolti nella sfarzosa e mondana vita della città,  pur segnalandosi, il primo, per la sua riservatezza e la perseveranza con cui svolgeva i suoi compiti, fondò un’Accademia, che prese il nome di “Notti Vaticane”, inizialmente a carattere umanistico e che divenne poi un luogo di vivaci dibattiti teologici, che servì molto a Carlo per esercitarsi contro la balbuzie e la timidezza che gli impedivano di diventare un ottimo oratore. Sempre a Roma, il Cardinal Nepote ebbe modo di sperimentare le sue spiccate doti diplomatiche, evitando una dannosa interruzione dei lavori durante l’ultima fase del Concilio di Trento, grazie al suo delicato lavoro di rendere agevoli e prudenti i rapporti tra il papa ed i legati, con lettere, istruzioni, ordinanze, redatte dal suo segretario personale Tolomeo Gallio, futuro cardinale di Como, nonostante prevalessero i consigli del Cardinale Hosius e soprattutto del Cardinale Morone, il quale svolse la parte decisiva nella conclusione del Concilio (1562-1565), dopo la morte dei Cardinali Gonzaga e Seripando.[15]

Unito ad un profondo senso del dovere c’era per il Cardinale una grande fedeltà verso i vincoli familiari, nel 1558, alla morte del padre, iniziò ad interessarsi agli affari familiari, che fino all’elezione di Pio IV non erano floridi, impiegando molte energie per sposare le tre sorelle a dei principi, per dotare la nipote e per dare una sistemazione al cugino Federico, rimasto orfano del padre a soli tre anni e futuro Arcivescovo di Milano:[16] la rete delle alleanze familiari costituiva un’unità di potere, una sorta di milizia continuamente mobilitata e l’ascesa della famiglia Borromeo coincise con le numerose cariche e i beni che si accumulavano e la sua fortuna divenne considerevole, le cui rendite erano soprattutto di origine fondiaria, Carlo era un grande proprietario, molto abile nella distribuzione di terre a ottimi fittavoli, a visitarle, controllarle e ad affidarle ad economi scrupolosi. Questa gestione dei beni fondiari restò il modello dell’amministrazione ecclesiastica. [17]

La morte improvvisa del fratello maggiore Federico, il 25 novembre 1562, sconvolse il Cardinale, che dopo poco subì anche la perdita del suo amico Giovanni de’ Medici:  <<La tradizione avrebbe voluto che in assenza di un altro esponente maschile della famiglia, Carlo rinunciasse alla porpora cardinalizia per subentrare al fratello nei suoi titoli nobiliari e forse anche per sposarne la giovanissima vedova. L’avere già pronunciato i voti, in qualità di suddiacono non era un ostacolo insormontabile, perché bastava una dispensa papale che Carlo avrebbe potuto ricevere con grande facilità. Sappiamo invece che l’impressione avuta da queste due sconvolgenti morti, lo indussero a legarsi di più alla scelta religiosa, fino a pensare ad un rutiro in un ordine monastico, da cui forse lo distolse il primate di Portogallo De Martyribus arcivescovo di Braga>>.[18]

Carlo aveva una concezione molto rigorosa della vita cristiana e dopo questi eventi tragici si parla di “conversione”, che lo indusse a farsi ordinare sacerdote il 17 luglio 1563 e vescovo il 7 dicembre dello stesso anno, cioè il giorno di Sant’Ambrogio, come scrisse a Corona, la sorella suora, e le parole di Domenico Maselli sono molto significative per capire lo spirito del Cardinale: <<Credo però che il termine conversione sia qui ben adoperato. Si passa infatti da una religiosità formale, personalizzata, ma concepita come uno tra i doveri della vita, ad una contemplazione di Cristo sofferente, che, impostasi ai suoi occhi mediante l’atroce sofferenza della morte del fratello, diventa l’elemento centrale della sua esistenza. La centralità della passione di Cristo è da questo momento una costante della spiritualità del Borromeo e costituisce, a mio parere, un elemento distintivo della Riforma Cattolica>>.[19] Possiamo comprendere anche alcune caratteristiche del Cardinale: nella vita ascetica e nelle privazioni verso se stesso, nella riduzione drastica del personale di servizio, nell’ordinazione a sacerdote e nella consacrazione episcopale possiamo vedere la trasformazione da Amministratore della Diocesi di Milano in Arcivescovo di questa città. Dopo la morte del fratello, Carlo cambiò atteggiamento e in una lettera del 30 aprile 1564 si dice che il Papa fosse molto contrariato dal nuovo tenore di vita severo, intrasigente di Borromeo, dando alcuni segni di disprezzo del mondo: <<…dicevasi trattare di teatine rie ed eccessi melanconici e fece comunicare ai gisuiti ed altri religiosi che li avrebbe puniti se mettessero più piede nelle case del Cardinale>>.[20]

Per tutta la vita del futuro Santo i “Canones reformationis generalis” di Trento ebbero la virtù di una rivelazione determinante, cioè quella del Vescovo-eroe della riforma tanto attesa dalla cristianità. Carlo si identificò con questa immagine e la rese effettuale ed è con questo spirito che cominciò il ventennio del suo governo episcopale a Milano, destinato a concludersi con la sua prematura morte nel 1584, in una lettera al Cardinale di Como del 4 dicembre 1563, ossia tre giorni prima della sua consacrazione, scrisse: <<…è tanto il desiderio mio che hormai s’attenda ad exequir poi che sarà confirmato questo santo concilio conforme al bisogno che ne ha la cristianità tutta e non più disputare…>>.[21]

Il 12 maggio 1564 Borromeo fu nominato Arcivescovo di Milano, ma inizialmente l’episcopato fu svolto per interposta persona, poiché gli impegni come Segretario di Stato del Papa non gli permisero di lasciare la città eterna, quindi nominò come suo vicario Niccolò Ormaneto,[22]Fu una scelta molto felice: egli provvide immediatamente a convocare un Sinodo Diocesano, milleduecento preti erano presenti il 29 agosto 1564, giorno dell’apertura, pronti ad ascoltare il programma che Carlo aveva mandato da Roma, in cui veniva enunciata l’applicazione dei decreti tridentini e una lunga serie di misure disciplinari come l’obbligo di residenza, la moralità, la riduzione del numero dei benefici, ottenendo, poco dopo, dal papa un breve che autorizzava il Cardinale ad ingiungere tasseai titolari dei benefici, iniziando anche una campagna per convincere coloro che detenevano più benefici ad accontentarsi solo di uno; gli studi ecclesiastici, di cui Carlo aveva già cominciato la creazione di un seminario, presso Porta Orientale,inaugurato il 10 dicembre 1564 per la formazione del clero diocesano, dove i seminaristi avrebbero frequentato i primi tre anni uguali per tutti, in cui prevalevano gli studi umanistici, dopo, i più validi avrebbero approfondito i loro studi presso il Collegio dei Gesuiti di Brera, gli altri avrebbero continuato la formazione in seminario;[23] le pratiche pastorali etc., le proteste dei partecipanti furono vane, insomma questo primo periodo di governo fu caratterizzato dall’esecuzione di tutto il programma tridentino, egregiamente condotto da Ormaneto, coadiuvato da monsignor Goldwell, fu proclamato anche un Concilio Provinciale tenutosi poi nel 1565. Sia il Sinodo Diocesano sia il Concilio Provinciale saranno i primi rispettivamente degli undici e sei convocati nei venti anni di governo della diocesi milanese.[24]

Dopo avere distribuito una parte dei suoi beni e ridotto il suo tenore di vita, Borromeo arrivò a Milano nel mese di settembre 1565, poco prima di essere privato della collaborazione di Ormaneto, il quale, l’anno successivo, fu nominato Vescovo di Padova e poi Nunzio in Spagna. Connesse a tali attività riformatrici furono le visite sistematiche della Diocesi, compiute dai suoi collaboratori ed è da notare che molte opere come la ristrutturazione delle carceri vescovili, l’assistenza alle prostitute pentite erano economicamente a carico di Borromeo, contraddicendo la fama di avaro che gli avevano imputato in quella Roma scandalizzata dalla vita senza sfarzi che conduceva. <<…si deve a lui il ridimensionamento della Corte papale, la diminuzione del lusso cardinalizio, in una parola la fine della fase mecenati zia della Corte pontificia. La condanna dei Carafa da parte di Pio IV con la fine dell’uso di concedere ai nipoti di papi principati su cui esercitare la propria signoria aveva iniziato la trasformazione; l’attività riformatrice e soprattutto l’esempio del cardinale nepote Carlo Borromeo, contribuirono a cambiare la società romana del periodo ed a porre le basi per la riforma che sarà operata sotto Pio V>>.[25]

Il 9 dicembre 1565 muore Pio IV, lo zio papa e con il nome di Pio V gli succede il Domenicano Michele Ghisleri, il quale non era stato certo amico del suo predecessore, ma molto grato a Carlo per l’azione svolta in suo favore durante il Conclave. Borromeo tornerà a Roma solo in rare occasioni: per i conclavi, per l’Anno Santo del 1575, per il conflitto con il Governatore di Milano (1579-82), per le visite pastorali, per i pellegrinaggi a Loreto e alla Sacra Sindone, che fu trasportata da Chambery a Torino nel 1578, il Presule si recò in questa città lo stesso anno ed altre tre volte nel 1581, nel 1582 e nel 1584 poco prima della sua morte.

Borromeo, nel discorso introduttivo pronunciato al primo Concilio Provinciale, delineò chiaramente il suo programma pastorale, vertente principalmente su cinque direzioni: riformare il clero secolare e regolare; creare i seminari per la formazione dei sacerdoti; restaurare la liturgia ambrosiana; coinvolgere il laicato nella vita della chiesa per mezzo di predicazioni e attività educative rituali, al fine di una riforma morale e sociale; la lotta contro le eresie.[26]

Il futuro Santo trovò l’ostilità del Senato alla pubblicazione in Milano della Bolla “In Coena Domini”,[27] emanata da Pio V sulla lotta alle eresie e contro i bestemmiatori, ostilità che venne ribadita in occasione della nuova bolla sull’inquisizione dalle autorità civili, contrarie alla messa in atto senza la loro autorizzazione. Il 20 novembre 1566 il Cardinale fece richiesta per avere degli “sbirri”autonomamente da quelli dei magistrati per eseguire esecuzioni contro il clero disubbidiente ed altri casi a lui spettanti, e, senza attendere la risposta del Senato, fece arrestare da un bargello il Prevosto di Sant’Ambrogio. Immediata la reazione del Senato, che ordinò ai bargelli e ai “birri”, pena la forca, di non attendere agli ordini dell’Arcivescovo senza espressa licenza del Capitano di giustizia, il Papa stesso intervenne in tale disputa asserendo di non essere d’accordo che il Borromeo avesse quanto richiesto, nonostante ciò il Senato deliberò delle misure particolari nel caso in cui il Vicario del Cardinale fosse andato alla processione del “Corpus Domini” con il drappello armato.[28]

Le emanazioni del prelato risultarono però inconciliabili con la legislazione laica. Le disposizioni dell’Arcivescovo, infatti furono giudicate un pericoloso attacco al primato del Re di Spagna, il quale considerava intoccabili i propri privilegi in ambito religioso, giuridico e beneficiario. Nel 1525 con il trattato di Madrid, il Ducato di Milano fu ceduto dalla Francia a Carlo V e dall’anno successivo dipese da Filippo II di Spagna, il quale designava il governatore dello Stato, tra le numerose questioni sorte tra l’Arcivescovo e il potere temporale ci fu anche quella dell’introduzione, nel 1563, dell’Inquisizione spagnola a Milano: da circa trent’anni si stavano infiltrando nella città tendenze luterane, calviniste, zwingliane etc., nel 1547 le autorità milanesi avevano bandito dalla città un cospicuo numero di ecclesiastici, che si erano rifugiati in Svizzera. Filippo II iniziò le trattative con il Papa per mettere in opera l’Inquisizione nella capitale lombarda, ma il Pontefice fece opposizione non tanto all’istituzione, ma alle sue procedure e all’invasione del potere civile in ambito religioso, questa era anche l’opinione di Borromeo, il quale come giurista ricusò i modi inquisitoriali spagnoli che accettavano accuse anonime e come uomo di Chiesa non accettò l’ingerenza dello Stato e condusse la caccia agli eretici avvalendosi di un piccolo corpo di polizia ecclesiastica o “Famiglia Armata”per eseguire le decisioni del Tribunale vescovile ed anche di un’associazione di circa quaranta nobili milanesi detti “crocesegnati”, nata per eliminare l’eresia. Così scriveva a Nicolò Ormaneto a Roma: <<Questi Signori Senatori, oltre li altri contrasti che ci fanno et disturbi che si sforzano di dare in molte maniere, cercano ancho di spogliarmi delli ministri più intimi, cio è delli Vicarij con varij officij sotto mano, et molestie dispiacendo a loro a punto il dissegno ch’io ho di tener in questo Tribunale persone che non sieno di questo Stato, perché non m’habbiano poi ad abbandonare per rispetto temporale, quando vengono così fatte turbolentie di queste contestationi coi Magistrati secolari come hanno fatto questi altri ministri inferiori>>.[29]

Contro le sette, i ribelli, i carnevali, le concussioni, Carlo preferiva la severità della predicazione o della legge ecclesiastica, era sua convinzione nella funzione pastorale del Vescovo fosse implicita anche la piena giurisdizione sul gregge, ma questa invasione in ambito giuridico sembrò pregiudicare i diritti del Senato, che ritenne inaccettabile affidare i colpevoli alla polizia dell’Arcivescovo anziché al braccio secolare, specialmente in questioni di dubbia competenza ecclesiastica. Borromeo colpì con la scomunica il Governatore dello Stato Requesens, il quale fece le sue proteste al Papa che lo sollevò privatamente dalla scomunica, il suo successore, il marchese di Ayamonte, a causa di divergenze nate dalle feste di Quaresima chiese al Papa l’allontanamento dallo Stato del Cardinale, ma Filippo II temeva per la sua immagine di difensore della Chiesa e Pio V aveva bisogno dell’aiuto della Spagna contro i Turchi, quindi si cercò da entrambe le parti di evitare lo scontro frontale che sembrava inevitabile.

Nel 1566 Niccolò Ormaneto fu chiamato a Roma dal Papa, nonostante la lontananza rimase costantemente in contatto epistolare con l’Arcivescovo milanese, tenendolo informato anche sui minimi particolari di ciò che avveniva nella Curia romana e riferendo, nelle sue lettere pressoché giornaliere, le intenzioni del Papa circa i problemi relativi ai rapporti del Borromeo con il Re, il Senato e il Governatore di Milano. Riportiamo due esempi che ci fanno capire il rapporto tra Carlo e Ormaneto e la difficile situazione creatasi tra il Prelato e il Governo spagnolo a Milano.

Carlo a Ormaneto, da Milano 23 luglio 1567: <<Qui alligata sarà copia d’una lettera scrittami dal Re credenziale nel Signor Governatore, il quale m’ha poi mandata la medesima lettera di Sua Maestà, nella quale mostra d’havere havuto informatione da Fiscali et dal Presidente ch’io m’usurpi della giurisdittione sua, onde mi esshorta a cessare da questo almeno fintanto che si veda l’appuntamento preso da Nostro Signore dopo havere udito quel tanto che si è mandato a dire dal Senator Chiesa. Da che si comprende che Sua Maestà sia per stare alla dichiarazione di Sua Beatitudine, la quale però è bene sollecitare che venga quanto prima>>.[30]

Ormaneto a Carlo, da Roma 16 agosto 1567: <<Non ho mancato di far quell’officio che la mi commette con Nostro Signore per la persona del Signor Governatore, qual ha scritto a Nostro Signore due lettere in risposta del breve et della lettera che Sua Santità scrisse a lui, stando pur su questo che Vostra Signoria Illustrissima è quella che innova tutta via cose nove contro la giuridittion Regia, facendo instantia che Sua Beatitudine le scriva che cessi da queste innovazioni dimandando l’assolutione per gli già scomunicati, cosa che Sua Santità non intende di far…>>.[31]

Nuovo motivo di crisi fu il Capitolo di Santa Maria della Scala, ente ecclesiastico di patronato regio, quindi esente dalla visita del Vescovo, che Carlo voleva riformare, e nonostante varie opposizioni, elesse dispoticamente il superiore, controllò le finanze, visitò le case e il 9 agosto 1569 si presentò alla porta della Chiesa e malgrado la presenza di armati da entrambe le parti, scomunicò tutto il Capitolo. Da una copia della lettera scritta il 29 agosto 1569 dal Cardinale al Papa, veniamo a conoscenza del fatto con le sue stesse parole: <<Il bando fatto dal Signor Governatore et Senato pertinente alla Giurisdittione Regia, se bene in apparenza ha il pretesto di detta Giurisdittione,  si vede però per le cause pregnanti che contiene il scoppo suo principale essere di spogliar questo Tribunale ecclesiastico et anche quello di N. S. in queste parti delli ministri suoi et dell’essecutione della sua giurisdittione, come già se n’è visto seguir l’effetto, che tutti li miei Notari civili et criminali, avvocati et servitori publici et ogn’altra persona impaurita da questo bando non ardisce di far rogiti, né pur anche scritture, né portar commandamenti, citationi, né altra cosa, ove si tratti in qual si voglia modo di laici, ancorché per delegatione Apostolica, come ne vedrete qualche cosa per l’informationi che si mandano […] Et nel medesimo tempo è venuto il Vicepresidente a spiegarmi in nome del Duca et del Senato con belle parole a soprasedere anchora due o tre mesi, perché se allora poi non mi mostreranno il consenso, mi lascieranno visitare et mi daranno il braccio, ma ben si può vedere che questa dilatione non è ricercata a buon fine, con tutto questo gli ho risposto che ben sanno essi in iure, che io non devo essere impedito da visitare come ordinario, finché attualmente esshibiscano il consenso espresso, il qual però son certo che non vi è, havendo io tanti atti anche vicini al tempo che fu concesso il privileggio, che arguiscono il contrario et quando l’esshibissero poi in quel caso si trattarebbe della facultà che ho per il concilio di Trento et che gli atti et termini insolenti et indegni usati di quei canonici non meritano dilationi, né ch’io sopporti più oltre l’inhobedientia et temerità loro, havendola per troppo sopportata con  molta indignità del grado, et luoco ch’io tengo. […] questa mattina è venuto da me uno de’ Fiscali regij a dimandare quattro mesi di termine […] Onde io gli ho dato risposta, che poiché non facevano altra risoluzione io havrei continuata la mia possessione facendo la visita, et così mi son risoluto di non lasciar passar hoggi a farla, et essendovi andato questa mattina, oltre l’insolentia et inettione violenta di mano fatta prima al Moneta Sacerdote, ch’io poco prima mandai a notificarli la visita, con dirli molte parole ingiuriose, quali vedere(te) per la sua relatione et testimonij, al mio arrivo anchora vedendo io che li miei, che entravano per la porta del Cimiterio erano da varie persone et con le mani, et con altri modi ributtati, mi risolsi di smontare sulla strada, et presa la Croce in mano entrai un poco dentro dalla detta porta, ancorché con gran difficoltà per le dette persone, et entrato che fui mi furono sfondrate addosso di molte spade, nel mezzo delle quali era l’Economo, et tutti insieme mi vennero incontro con armi et con gride et altri tumulti scandalosi gridando Spagna Spagna, onde mi spinsero fuori di detta porta del Cimiterio, urtandomi con una delle ante di essa porta, dove feci poi la publicatione dell’interditto et scomunica ridetta, come vedrete per la copia autentica che si manda, et Monsignor Castello che restò dentro doppo me attaccò anche la cedula alla porta, se bene fu subito stracciata. Rinovai poi subito l’atto della scommunica in Duomo più esplicitamente leggendo de verbo ad verbum la scrittura che non havevo potuto leggere là per il tumulto>>.[32]

Il 26 ottobre dello stesso anno, Gerolamo Donato, detto il Farina, frate dell’Ordine degli Umiliati, riuscì ad introdursi armato nella cappella dove il Prelato stava pregando e a sparare la celeberrima archibugiata contro il futuro santo, il quale uscì illeso dall’attentato. L’episodio è molto conosciuto: la notizia di tale fatto fece enorme scalpore, sia per la gravità del gesto sia perché lo scampato pericolo fu creduto un vero miracolo, che insieme all’imperturbabilità di Carlo, il quale ordinò di proseguire la celebrazione della liturgia senza interruzioni, incrementò la sua fama di santità e permise al Farina di fuggire. Pio V, Filippo II e il Governatore di Milano pretesero che si facesse luce sull’attentato: il papa dette disposizioni perché l’Ordine fosse abolito e tutti i beni appartenenti agli Umiliati fossero confiscati e utilizzati a favore della Diocesi di Milano, il Re di Spagna costrinse il Capitolo di Santa Maria alla Scala a sottomettersi pubblicamente all’Arcivescovo e convinse il Governatore ad esprimere al presule la loro stima e devozione. Il Farina e i due Prevosti complici, Girolamo di Cristoforo e Lorenzo da Caravaggio, rei confessi sotto tortura, furono condannati a morte.[33]

Passato lo scompiglio suscitato dall’attentato, le controversie tra il Cardinale e il Senato continuarono in modo grave, come le definì Tommaso Zerbinati, Ambasciatore della Casa estense: <<…specialmente a causa della molta autorità che l’arcivescovo si prende sui laici>>, infatti nel 1571, lo stesso Zerbinati in una sua relazione comunica che: <<Un bargello del cardinale abbattè la porta di un gentiluomo de’ Crivelli ritenuto concubinario, il quale difendendosi cadde ucciso>>, l’immediata reazione del Podestà fu quella di procedere contro le guardie del Borromeo.[34]

Ad accrescere la popolarità e la fama di santità contribuì molto anche la carità e la dedizione straordinaria che Carlo dimostrò verso il suo popolo durante la peste del 1576, così lo descrive Giovanni Pietro Giussani riferendosi a tale periodo: <<Ritiratosi poi in se stesso, e considerando come questo era un flagello mandato da Dio per castigo de’ peccatori, pensò saviamente, che il rimedio principale fosse di placare l’ira divina; per il cui fine si diede, con maggior frequenza del solito, alla santa Orazione, pregando in stantemente Sua D. M. che si degnasse aver misericordia del suo popolo, e donasse a lui, & a gli altri, lume di conoscere la sua santissima volontà, e quanto far dovevano in aiuto della povera, & afflitta Cittàe, e grazia afficace per essequirlo; accompagnando le sue orazioni col digiuno cotidiano […] Ordinò di poi tre processioni generali di tutto il Clero, e Popolo, le quali furono celebrate con gran concorso di tutti gli ordini; e nelle Chiese, dove si andava con la processione, egli predicava al Popolo, esortando tutti alla penitenza>>.[35] Borromeo diventa una figura leggendaria, gigantesca, che non viene colto dall’archibugiata del Farina, non viene contagiato dalla peste, nonostante l’assistenza ai malati, che dorme e mangia appena, che attraversa luoghi inaccessibili in ogni stagione per visitare le parrocchie della sua Diocesi. Per il Cardinale di Santa Prassede il Vescovo era il massimo responsabile della condotta morale del popolo, che voleva conformare a criteri molto rigidi, conducendo anche un’impavida guerra contro il teatro e gli spettacoli che considerava abitudini pagane, soppresse balli e superstizioni, sostituendoli con azioni: in pubblico professò la sua devozione verso i santi, egli stesso guidò le processioni delle reliquie, si recò più volte come pellegrino a Torino per visitare la S. Sindone ed in molti santuari intitolati alla Vergine, dando esempio di una religione non astratta e spoglia.

Carlo fu inflessibile anche contro l’eresia e ogni forma di superstizione, mandando al rogo numerosi eretici e presunte streghe. <<Le pestifere eresie come loglio e zizzania hanno occupato i campi della Religione Cristiana, e quasi soffocano il frumento. Non s’adora più Dio, anzi con mille obbrobj è bestemmiato ogni giorno: i Luterani, i Calvini e mille altri simili mostri orribili, sono l’Idoli delle misere genti. E che luogo può aver la speranza se non si crede il Paradiso, e se si nega la providenza di Dio? Dove è la carità, dove l’amore e ‘l timor santo? Non s’osservano più i Comandamenti di Dio, non si crede ch’egli abbia a giudicare i vivi e i morti; son reputate favole le pene dell’Inferno. O secolo miserabile! E’ perduta ogni giustizia verso Dio, né si osserva più verso il prossimo>>.[36] Dalle parole, riprese da un discorso dell’Arcivescovo, possiamo capire chiaramente un’accusa di quasi ateismo e di sconvolgimento totale dei fondamenti della religione cristiana nei confronti dei riformatori definiti “mostri orribili”.

La posizione geografica del Ducato di Milano, che si estendeva dai passi alpini fino alla costa ligure, lo rendeva pericolosamente esposto al diffondersi del Protestantesimo, specialmente quei territori transalpini che si inoltravano nei luoghi dove la riforma dominava, inoltre era basilare (indispensabile) per il progetto di restaurazione cattolica in Europa di Filippo II, dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559), che sancì l’uscita della Francia dalla scena politica italiana a favore della Spagna, il cui potere regnava incontrastato.

Durante le cosiddette guerre di predominio, lo Stato di Milano aveva perso la valli del Ticino e la Valtellina, a favore rispettivamente dei Bernesi e dei Grigioni, queste perdite mettevano a repentaglio il territorio milanese a possibili aggressioni dal Nord. Ad Est il Ducato confinava con la Repubblica di Venezia, che aveva una certa fama di tolleranza religiosa e politicamente in opposizione alla supremazia spagnola in Italia. Vari furono i focolai riformistici che si diffusero in Lombardia già dal tempo di Carlo V, il più cospicuo dei quali fu quello della “Ecclesia Cremonensis”, da dove tanti fuggiaschi raggiunsero la città di Ginevra.[37]

La Visita Apostolica che Carlo Borromeo effettuò nella Valle Mesolcina tra il 9 e il 29 novembre 1583 fu l’inizio di un grande progetto per il recupero dei Grigioni e di altre terre svizzere conquistate dalle dottrine della Riforma protestante.

Un documento reperito presso la Biblioteca Ambrosiana ci informa ampiamente sulla situazione temporale e spirituale della Valle Mesolcina prima della Visita Apostolica effettuata dal Cardinale Borromeo, si tratta di una: <<Instruttione generale del Stato de Grisoni >>.[38] La prima parte comprende <<alcune cose temporali per maggior cognizione dello stato spirituale>>. All’inizio del documento troviamo una descrizione della divisione politica del Dominio dei Grisoni, diviso in tre parti chiamate Leghe, la Lega “Grisa”, quella chiamata ”Cadede” e quella detta delle “Dritture”, ma tutte insieme sono denominate “Grisoni”, dal nome della prima Lega, che accettò, nonostante fosse libera, come federate le altre due, che, a differenza della prima non godevano della libertà, <<…perché la Cadede fu già per la maggior parte Iurisditione anco temporale del Vescovato di Coira Citta e capo di detta Lega, la qual ha continuato sempre a giurare la fedeltà a tutti li Vescovi e ricever da essi come Prencipi d’Imperio, la facoltà d’essercitar la giurisdittione da che forse questa lega ha preso il nome di Cadede, come casa e dominio di Dio, sendo sottoposta nell’una e l’altra giurisdittione alla Chiesa>>.[39] La Lega Caddea venne costituita il 29 gennaio 1367 e comprendeva Coira, la regione di Domigliasca, Obervaz, Bergun, la Valle delle Sursette, l’Alta Engadina, Val Brgaglia, Val Monastero e la giurisdizione di Sottoclava in Val Venosta. Poschiavo, sottoposto a Milano, entrò a far parte della Lega nel 1408. Il sigillo era uno stambecco, il quale originariamente era lo stemma vescovile, che compare nella Cattedrale di Coira fin dal 1252, ma viene ripreso dalla Lega Caddea alla sua fondazione.[40]

La Lega delle “Dritture” (Lega delle Dieci Giurisdizioni), fondata l’8 giugno 1436 a Davos,  fu prima sotto la giurisdizione dei baroni di “Vazz”, poi dei conti di “Tocamburg” (von Toggenburg), <<…indi dei Conti d’Amasia, quali finalmente la cambiorno con gli Arciduchi d’Austria, per alcune terre del Dominio loro nella Val di Venusta…>>,[41]la quale famiglia non viene menzionata nella storia della Lega delle Dieci Giurisdizioni, anzi la Lega si forma dopo la morte dell’ultimo conte di Toggemburg avvenuta il 30 aprile 1436.

La più importante delle Leghe è quella Grisa, oltre ad avere dato il nome a tutte tre le Leghe, ha tenuto sempre il ruolo principale nelle “Sessioni” e nei “Consegli” generali, chiamati Diete. Ha come insegna una croce metà bianca e metà grigia. Per importanza la seconda è quella di “Cadede”, infatti alle Diete siede dopo quella Grisa; quella <<…delle Dritture tiene l’ultimo luogo, come quella che ha più picciola giurisdizione e de luoghi alpestri e selvatichi, dove dicono vivere huomini che non hanno mai usato pane per cibo loro, vivendo solamente de frutti della terra et latte, e perciò questa lega porta per insegna un huomo selvatico>>.[42] Le Tre Leghe, continua il documento, hanno le proprie giurisdizioni: la Lega Grisa ne ha tredici, la Caddea undici, quella delle Dieci Giurisdizioni sette, quindi le trentuno giurisdizioni, in circostanze particolari, sarebbero in grado di dare venticinquemila uomini dai diciotto ai sessant’anni validi per fare la guerra, oltre agli ottomila uomini della Valtellina e Val Chiavenna, loro sudditi.

Segue una descrizione geografica del territorio: tutto il “dominio” è di circa centocinquanta miglia italiane, confinanti ad Est con il <<…paese dell’Arciduca d’Austria et il Bergamasco della Signoria di Venetia…>>,[43] a Sud con <<…il Comasco del Stato di Milano e parte de Signori Svizzeri, per le terre ch’hora tengono, ch’erano prima de Duchi di Milano…>>,[44] ad Ovest e a Nord con la Svizzera e parte della Svevia sottoposta all’Arciduca d’Austria, <<…la maggior parte è di la da monti, perche di qua in Italia vi restano solamente la Val Mesolcina e di S. Giacomo della Lega Grisa, Poschiavo in bregaglia della lega di Cadede et le Valli suddite di Chiavenna e Tellina. Sono tre passi ordinarij d’andare oltre i monti nel sudetto dominio de Grisoni, l’uno a Poaschiavo che passa i monti dell’Agnedina della lega di Cadede, l’altro della Val di S. Giacomo, per splucha della lega Grisa, qualè ordinario e frequentato, il 3° di Misocho della Val Mesolcina che passa la montagna di S.to Bernardino e questi ultimi fanno ambidue capo a Splucha di dove seguitando il Rheno sino a Coira si passa per valli e rupi tanto precipitose, che diece homini soli difenderebbero il passo, in maniera che non basterebbe a forza humana di transitare contra la voglia loro >>.[45] Questi territori, per la maggior parte montuosi, sono principalmente pascoli o coltivati a fieno, che viene prodotto in grande quantità, permettendo lo sviluppo dell’allevamento soprattutto bovino, viene descritta mediocre la produzione del grano, a causa del terreno e delle temperature, molto limitati i terreni coltivati a viti, ma il vino viene importato dalla Valtellina ed è di buona qualità.

Gli uomini, continua la descrizione, sono robusti e atti ai lavori faticosi, sono premurosi tra loro ed anche con i forestieri, ma molto sospettosi. Pochi sono i discendenti di nobili famiglie e quei pochi non hanno molta autorità, <<…perché sendo il governo de Grisoni popolare, bisogna che tengano conto d’ogn’uno et per esser quei che sono eletti dal popolo al governo, per la maggior parte poveri e bisognosi fanno le deliberazioni loro con molta passione per l’interesse ch’ogn’uno ne pretende per una via o per l’altra, si che col denaro par che s’ottenerebbero tutte le cose per difficili et importanti che fussero>>.[46]

Le Tre Leghe hanno come entrate economiche i proventi criminali della Valtellina e Chiavenna e quelle del dazio che si riscuote in questi luoghi, però sono obbligati a pagare al Vescovo di Coira mille lire l’anno, come stabilito da una convenzione: sembra che queste Valli con Poschiavo furono donate, nell’anno 1404, da Modestino, figlio di Barnaba Visconte di Milano al Vescovado di Coira, ma nel 1514 furono occupate dai Francesi e le Tre Leghe con il Vescovo pro tempore le recuperarono a spese comuni, <<…si che convennero che le leghe n’havessero le due parti delle tre e l’altra il Vescovo, però al tempo del Vescovo Ziglero, quando cominci orno a germogliare l’heresie in detti paesi, le leghe si usurporno tutto il Dominio di dette Valli. Si che il Vescovo fù forzato contentarsi del sudetto reddito di lire mille l’anno solamente>>.[47] Le Tre Leghe, inoltre, ricevevano ogni anno dall’Arciduca Ferdinado d’Austria seicento fiorini d’oro, in seguito ad un accordo con l’Arciduca Massimiliano per la “guerra” tra loro a causa della giurisdizione della Lega delle Dieci Giurisdizioni. Da oltre settanta anni, altri quindicimila scudi li ricevevano dal Re di Francia per distribuirli a persone che avevano incarichi di governo, quindi alcuni ricevevano di più, altri di meno secondo l’importanza dell’ufficio che svolgevano e questo era causa di malcontento, tanto che era necessaria la presenza di un ambasciatore francese, il quale cercava di accontentare tutti affinché nessuno si lasciasse corrompere da offerte di denaro superiori a quelle percepite. Sono popolazioni molto povere poiché non vi sono commerci e “mercimonij”.

Il documento ci informa che il paese non ha fortezze, né guardie e soldati in nessun luogo, perché protetti dalle Confederazioni svizzere confinanti e dalla difficoltà dei passi montani, dalla parte dell’Italia, che rendono sicuri questi territori come se fossero delle fortezze.

Le Tre Leghe non battono moneta, questa facoltà è data solo al Vescovo di Coira, il quale, dal 1160 circa, si fregia anche del titolo di Principe dell’Impero, conferito da Federico Barbarossa,  nel 1366 Carlo IV concede al Vescovo di batter moneta, facoltà poco sfruttata a causa della povertà sia del Vescovado sia della popolazione: <<…da molti anni in qua da che cominciorno l’heresie…>>.[48]

Il manoscritto prosegue dando un’ampia spiegazione del governo dei Grigioni e del suo funzionamento: essendo un governo popolare, tutti gli abitanti, compiuti i sedici anni, partecipano ed eleggono i loro giudici sia per cause civili sia per quelle penali, i quali stanno in carica per due anni, eleggono anche le sessantatrè persone, che li rappresenteranno alle tre Diete annuali, che si tengono <<…nella festa della conversione di San Paolo, et all’hora s’attende principalmente all’elettione de gli offici alide luoghi et paesi sudditi s tutte tre le leghe, l’altra alla festa del S.mo Corpo di N.ro Sig.re e la 3° a S. Martino>>.[49] Nelle Diete vengono trattati problemi governativi ed altri concernenti i servizi delle Tre Leghe, ma quando occorrono decisioni circa le leggi, nuovi ordini e confederazioni con governanti, allora viene tutto rimesso alle deliberazioni popolari.

Per il governo della Valtellina e la Val Chiavenna, suddite di tutte tre le Leghe, viene eletto un governatore generale che si occupa della sicurezza pubblica di quei luoghi, con la facoltà di conoscere tutte le cause civili e penali<<… che occorrono in Sondria, terra principale di Valtellina, dove detto Governatore fa resistenza>>.[50] Il governatore, inoltre, conosce altre cause di altri luoghi, unitamente ai cinque Pretori, chiamati Podestà. Viene altresì eletto un Vicario generale, con residenza a Sondrio, con il compito di dare consiglio ai Pretori nei procedimenti penali, i quali avevano facoltà di diminuire o condonare la pena indicata, anche per quanto riguarda la pena capitale, eccetto i procedimenti ad istanza della parte offesa. In tali casi i Pretori non possono diminuire la pena né discostarsi dalla forma del consiglio, hanno, inoltre, il potere di vendere o donare i beni dei condannati, con cospicui ricavi. Viene eletto anche un Commissario di Chiavenna con pari autorità dei Pretori, oltre alla facoltà di procedere nelle cause penali senza il consiglio del Vicario.

Le cause civili e penali si definiscono senza bisogno di lunghi processi, in conformità degli ordini e statuti particolari di ciascuna giurisdizione e generali delle Tre Leghe e in conformità <<…ad alcuni loro riti, et usanze, quali osservano inviolabilmente, ne si tiene conto delle leggi Imperiali; per ciò non vi è in tutto il paese Giure Consulto alcuno che faccia l’officio di Giudice o Avocato, eccetto in Valtellina, dove se ne trovano pure alcuni che essercitano l’officio dell’Avocato e Procuratore>>.[51]

Le sentenze rese nei procedimenti penali non venivano appellate, ma subito eseguite, in caso di reati gravi erano definite col voto e il parere, per alzata di mano, di tutto il popolo di ciascuna particolare Giurisdizione, ma se il valore della causa civile superava una certa somma era ammesso l’appello nella Dieta susseguente, in cui si eleggevano giudici particolari per la trattazione dei procedimenti d’appello.

Quando sorgono liti tra due Giurisdizioni particolari della stessa Lega, i messi inviati alla Dieta, eslusi quelli delle Giurisdizioni interessate, eleggono dei Giudici per definire la causa e nel caso di contenzioso tra due Leghe, la terza assume il ruolo di Giudice. Se un soggetto non sottoposto alla loro Giurisdizione avanzasse pretese contro le Tre Leghe vengono eletti Arbitri da entrambe le parti, <<…da quali nel luogo de Valstat Iurisditione de Svizzeri insieme con alcuni deputati da essi Svizzeri si conosce e determina la causa, però nelle differenze tra l’Arciduchi d’Austria et esse tre leghe soleva per il passato esser Giudice il Vescovo di Costanza, all’hora città libera, ma hora che è sottoposta ad essi Arciduchi li Grisoni lo recusano>>.[52] Ciò che è stato detto nel manoscritto, sullo stato temporale, governo e dominio territoriale del paese dei Grigioni, è stato scritto per rendere meglio l’idea dello stato spirituale, che sarà l’argomento della seconda parte.

Tutto il territorio dei Grisoni, continua il documento, si trova sotto la Diocesi di Coira, ad eccezione della Valtellina e della Val Chiavenna, appartenenti alla Diocesi di Como, il Vescovo di Coira è anche il capo, come detto prima, della Lega Caddea, e risiede in un Vescovado molto antico, infatti il primo Vescovo Asimo o Asinio, viene menzionato nel Concilio di Calcedonia, convocato dall’Imperatore Marciano nel 451d’accordo con Papa Leone I, per dirimere la questione monofisita, <<…se ben circa 300 anni prima si trova ch’el paese ricevette la legge di Christo quale gli fu predicata da S.to Lucio martorizzati ivi con S.ta Emerita sua sorella, i corpi de quali sono anco sino al dì d’hoggi conservati nella Cathedrale di Coira>>.[53] La tradizione, infatti, attribuisce la cristianizzazione e la fondazione della Diocesi a San Lucio, patrono della Chiesa curiense, sotto la quale si trovano, al tempo in cui viene scritto il documento, 123 pievi. Una lunga descrizione di ogni pieve e di tutte le istituzioni ecclesiastiche ci informa anche della presenza più o meno numerosa degli eretici che vi si trovavano, sostenendo che in ogni pieve è presente almeno un predicatore, se non due mandati, per la maggior parte, da Zurigo e tutti seguaci di Zwingli, i quali si servono delle Chiese solamente per diffondere la loro dottrina. Non officiano il rito funebre, ma seppelliscono i defunti solo con due o tre suoni di campana, fanno suonare l’Ave Maria, ma non la recitano e in alcune pievi, dove è maggiore la presenza di eretici, la fanno suonare di sera.[54]

La terza parte del manoscritto è <<…pertenente alle cause della ruina spirituale di questi paesi>>.[55]

Nei luoghi dei Grisoni, l’eresia penetrò nel 1525 circa, ad opera di Zwingli e dei suoi proseliti, i quali <<…sparsero ivi questo veleno in persona. Non hebbero questi molta difficoltà a sedurre buona parte del paese in poco tempo, perché il popolo tutto, et massime i capi, all’horaerano mal sodisfatti di Paolo Ziglero, Vescovoo di Coira, quale presero in sospetto, che come familiare e dipendente dall’Arciduca Massimiliano d’Austria, che all’hora guerreggiava con essi Grisoni, per la Giurisdittione delle Dritture, non tenesse la parte dell’Arciduca contro di loro. Sì che fu accettata facilmente la predicata libertà licentiosa, e sottratt.e dall’obedienza di Santa Chiesa, per la quale niuno vi era che facesse, o che ne prendesse la protettione. Non il Vescovo per che dubitando di qualche particolare affronto si ritirò a stare nel Castello di Crostemborgo, sotto il dominio supremo dell’Arciduca sudetto, dove stette continuamente fino alla morte, lasciando le sue pecorelle in preda a lupi: non i Rettori delle Chiese particolari, per che vedendo fuggir il capo, ciascun attese a salvar se medesimo, et alcuno anco d’essi per haver libertà di carne si fece heretico: non i superiori temporali, per che essendo il governo in mano del popolo imprudente e desideroso di libertà, s’appigliò facilmente alla heresia, la quale fu prima introdotta nella Città di Coira, poi s’è andata allargando per tutto il paese, non solo di là, ma anco di qua da Monti, anco nelli sudditi come di sopra s’è discorso>>.[56]

Al Vescovo Paul Ziegler von Ziegelberg successe Licius Iter, con l’approvazione del popolo, che proprio in quei tempi aveva cominciato ad ingerirsi nell’elezione dei Vescovi: Iter non si preoccupò della situazione che si stava determinando, <<…dissimulò di veder le ingiurie e torti che tuttavia da laici si facevano a Santa Chiesa, con l’appropriarsi i beni ecclesiastici, cacciare claustrali et usurpare la giurisdittione del foro ecclestiastico>>.[57] Il successore, secondo il documento, fu Beatus di Porta, ma nella cronotassi dei vescovi di Coira risulta che dopo Iter fu eletto vescovo Thomas Planta (19 marzo 1550-4 maggio 1565), il quale prese parte al Concilio di Trento negli anni 1551-1552, fu un abile amministratore, ma si rifiutò di introdurre riforme ecclesiastiche; fu nel 1565 che venne eletto Beatus di Porta, nato in Tirolo presso Merano, il quale trasferì la sede dell’Episcopato a Castel del Principe e non volle far ritorno a Coira, nel 1580 si dimise e tornò nella parrocchia che gli era stata affidata nel 1576. Il 6 novembre 1581 fu eletto Vescovo Peter von Rascher <<…huomo d’anni 35, il quale prima era alla cura d’una Chiesa parrocchiale di quel paese, poi essendo Canonico della Cathedrale di Coira, fu fatto Vescovo, come quello che di due o tre ne’ quali il popolo consentiva, fu giudicato il più tollerabile all’hora>>.[58] Von Rascher, originario di Zuoz, “Terra eretica”, appartenente alla Lega Caddea, che in passato era suddita dei Vescovi di Coira, mentre attualmente, continua il documento, vuole essere superiore al Vescovato e non tollera che venga eletta una persona che non approva, anzi al Vescovo pro tempore hanno fatto promettere alcune cose considerate contrarie e dannose alla dignità, alla libertà e all’autorità ecclesiastica: non deve rinunziare alla sua carica senza il consenso della Lega; non deve esaminare, indagare su questioni pertinenti alla religione, ma lasciare che ognuno <<viva a suo modo, conforme a gli ordini del paese>>;[59] che non si intrometta nel recupero dei beni ecclesiastici in mano ai laici; obbligo di rendere conto, se richiesto, alla Lega Caddea delle entrate dell’Vescovado. <<Questo ha ben fatto residenza in Coira, cioè nel Vescovato, ma non si può negare che fin qui ha poco atteso a visitar la sua diocesi et fare altri offitij pastorali con le sue anime>>.[60]  Di tutto ciò era già stato informato il Pontefice.

Vengono elencate quattro cause principali come responsabili delle eresie dilagate in questi territori, la prima è che molti dei Signori Grisoni sono corrotti e contrari alla religione cattolica, per cui anche i loro sudditi sono molto esposti <<ad ogni pericolo d’infettione>>, soprattutto in quei luoghi in cui hanno trovato rifugio gli eretici fuggiti dall’Italia, <<…li quali sono molto più arrabbiati contra la fede catolica, e per altro più atti istromenti del Demonio a corrompere gli altri, che non sono i naturali Grisoni et paesani pur corrotti. Onde è quasi meraviglia che queste Valli non sieno molto più corrotte di quello che sono poi che non arriva il numero de gli Eretici in esse, alla decima parte de catolici, o, in circa, con tutto che vi s’aggiunge anco l’abbandono, per dir così, del suo Vescovo, il quale vedendosi maltrattato da Signori Grisoni con l’usurpatione d’alcune raggioni temporali del Vescovato, et anco impedita molta parte dell’auttorità e giurisdittione ecclesiastica…>>.[61] Nel corso di tanti anni queste popolazioni sono state abbandonate dai loro Vescovi, i quali non si sono mai occupati delle loro anime, nonostante che in passato, cioè prima della Riforma, non avessero mai incontrato impedimenti, quindi la causa principale del dilagare delle eresie è l’incuria dei Vescovi verso i loro fedeli.

La seconda motivazione consiste nella mancanza di sacerdoti: le chiese sono vacanti, ma il popolo ha bisogno dei ministri spirituali e tale situazione ha fatto sì che siano stati accettati <<…ciascuno che loro si presenti in habito da prete ancorch’egli non habbia dimissionaria né facultà alcuna dal suo ordinario, anzi ancorch’egli sia sospeso et privato da esso ordinario di poter celebrareo amministrare sacramenti, pur l’accettano eziandio senza consenso ne auttorità dell’Ordinario di essi popoli e paesi Grisoni, overo suoi suditi, si come anco tolerano, et danno ricapito ad apostati, sfratati et fuggitivi, et a sacerdoti che continevano in publico concubinato con donne e figlioli in casa, celebrando cotidianamente, e talvolta hanno anco accettato puri laici, li quali essercitavano tutti gli officij sacerdotali in apparenza…>>.[62] Prima di stare senza ministri spirituali accettano anche gli eretici, questo avviene anche tra i riformati, infatti quando non hanno ministri, accettano anche quelli cattolici, come avviene in Mesocco, i cui abitanti sono per la maggior parte eretici, ma hanno accolto un predicatore Gesuita e sono molto numerosi coloro che vanno ad ascoltarlo, <<…tanto che bisogna che predicando egli dentro la Chiesa, presso la porta, il popolo l’ascolti di fuori per che non cape in Chiesa, et uno di questi giorni vi stavano con patienza, anco mentre nevicava loro addosso. Però essi eretici sono diligentissimi in mandar predicanti in tutti i luoghi, dove n’è bisogno et il Cantone di Zurich in particolare manda in abbondanza predicanti a tutto questo paese de Grisoni, dove si parla tedesco, et per questa via entrano ne luoghi cattolici, come s’è detto e di già hanno guadagnato da cinque o sei anni in qua molte pievi della lega di Cadede>>.[63]

La terza causa consiste nel comportamento deplorevole dei sacerdoti, che con la loro vita dissoluta danno il cattivo esempio al popolo, il quale non rispetta più l’autorità ed ha perso la deferenza dovuta verso il clero, anzi, contagiati da questi modelli <<…hanno abbandonato la vera religione per poter più liberamente caminar per la larga strada>>.[64]

La quarta causa viene definita la più importante di tutte le altre, poiché nonostante che la legge e l’accordo tra le Tre Leghe permetta al popolo di scegliere tra la religione cattolica e quella riformata, nessuno deve permettersi di denigrare le rispettive fedi, specialmente durante le prediche. Un decreto risalente al 1581 esclude tutti i preti e i frati forestieri indistintamente, ad eccezione di quelli di nazionalità svizzera e di coloro che essendo stranieri, fanno giuramento di fedeltà e di residenza ai loro Signori. Non meno grave il fatto che gli eretici parlino dai pulpiti male della Chiesa cattolica e del clero <<…et fanno molte altre insolenze et irrisioni contra la religione catolica senza alcuna punitione>>.[65]  Molto grave ed incisivo è anche dare asilo a tutti i fuggiaschi ed apostati italiani e di altre nazioni, anche perché nella maggior parte dei casi sono sostenuti a spese delle Chiese locali, nonostante la popolazione sia cattolica. Quando un prete cattolico, prosegue il manoscritto, predicando al popolo, sottolinea argomenti pertinenti alla religione, ma che possono evidenziare gli errori delle eresie, viene <<…accusato e punito dai giudici secolari con ogni pretesto, et per questa vi hanno messo tanto timore et rispetti humani nel Vescovo et Canonici della Cathedrale di Coira, che se bene vi si celebra la messa non ardiscono però di predicarvi>>.[66]

La quarta parte del documento contiene i rimedi ad una situazione tanto grave, poiché l’enorme dilagare dell’eresia in questi paesi è un grande pericolo anche per l’Italia <<di qua da monti>> e soprattutto per la vicina città di Milano, dove gli eretici possono trovare rifugio, quindi urge trovare delle soluzioni per evitare un’ulteriore espansione delle eresie: la perdita di migliaia di anime di quei Paesi suscita compassione e afflizione, che deve spronare la carità del Pontefice ad aiutarli come essi desiderano e chiedono. Durante le Diete, i Cattolici si sono lamentati dei torti e delle violenze fatte loro e soprattutto di non poter vivere cattolicamente, ma anche nell’ultima Dieta, tenutasi a Tavau o Tavate, non hanno ottenuto nulla, anzi le ragioni esposte hanno dato luogo ad un tumulto che per poco non sono dovuti ricorrere alle armi, tutto ciò è dovuto al fatto che i Cattolici sono inferiori per numero e per voti, conseguentemente non hanno il coraggio di <<…mostrarsi liberamente quando bisognava per timor di non esser esclusi da gli offitij publici, alli quali, prevalendo sempre di voto gli heretici, non sono facilmente ammessi quelli che si scoprono esser assai Zelanti della Religione cattolica…>>.[67]

Sostanzialmente i rimedi consistono nel cacciare, da tutti quei paesi, gli apostati e i sacerdoti indegni, sostituendo questi ultimi con altri che svolgano i loro compiti conformi alla religione cattolica e parlanti la lingua tedesca, nei luoghi “al di là dei monti”, anche se ciò è ritenuto quasi impossibile, creare nuove scuole e Seminari, che saranno certamente frequentati dai figli dei Signori di quelle terre, come già accade a Milano e a Mesocco, molto importante sarebbe poter fondare un Collegio a Coira, senza il contributo del Vescovo di questa città, in quanto molto gravato dai debiti <<…ma converrà che si faccia sotto nome del Vescovo et la sostentazione che se li darà da Nostro Signore sia secretissima>>.[68] <<La somma dunque di tutti i remedij si riduce a perseverar anco con la visita personale incominciata, in risvegliare, consolare, allettare, animare, et confirmare opportunatamente quei popoli con varij offitij paterni verso di essi…>>.[69]  Maggior numero di sacerdoti italiani invece occorrerebbe nei paesi sudditi ai Grigioni, ossia in Valtellina e Val Chiavenna, ma non sono certamente posti ambiti a causa dei bassissimi redditi dei benefici, che dovrebbero essere integrati con provvisioni annue. <<Et per animar i sacerdoti a questa impresa, come Nostro Signore già nel tempo della peste corporale di Milano diede al Signor Cardinale di Santa Prassede piena facoltà di porsi valere, etiandio doppo la peste estinta dell’opera de sacerdoti regolari d’ogni ordine et anco secolari d’altre diocesi, anco senza consenso ne licenza die superiori, molto più si potrebbe spedire un Breve di simil facoltà amplissima per aiuto di quelli paesi nella peste spirituale dell’anime…>>.[70] I consigli continuano dicendo che sarebbe opportuno concedere indulgenze e grazie spirituali per spronare i sacerdoti ad accettare il governo di queste parrocchie; inoltre, lasciare ai loro posti gli apostati e i fuggitivi italiani meritevoli e che da molti anni hanno cura di quelle anime, anche se illegalmente, poiché conoscono bene la lingua e le usanze di quei popoli e potrebbero fare del bene in futuro se fossero sciolti dalle censure.

Il terzo punto, considerato il più difficile, poiché si tratta di introdursi in questi paesi e, con determinazione, mettere fine ad una situazione non più sostenibile dai Cattolici: emblematiche sono le situazioni in cui si trovano la Val Chiavenna e la Valtellina, dove i Cattolici sono pronti a tutto pur di essere liberi nella loro professione di fede, certamente la visita del Cardinale Borromeo sarebbe un grande incoraggiamento e sia i sudditi che i Signori sono disponibili ad aiutare con ogni mezzo la venuta del Prelato, che anche in questi luoghi avrebbe lo stesso successo avuto in Mesolcina. <<Potrebbesi aiutare anco di fuori quest’offitio con lettere di tutti i Prencipi maggiori del Christianesimo procurate dalli Nuntij di Nostro Signore come dall’Imperatore, Re di Francia, Re Cattolico, et forse Venetiani, ma senza manco delli Svizzari Catt.ci alli quali già ha mandato il Sig.r Card.le e in occasione simile, cioè per le cose di Valle Mesolcina, che quanto a Venetiani non si spera molto in questa materia, per i rispetti di Stato considerabili in loro: ma potrebbe N .S. tentar ogni via […] scrivendo anco per ciò Brevi oportuni, et commettendogli di non dar tutte provisioni che levassero, in mano del medemo Sig.r Card.le per valersene oportunatamente […] non sarebbe di poco aiuto anco l’andata del med.o Sig.r Card.le in così fatta occasione a trattarne ex professo etiam co ‘l nome di N. S. con le tre leghe, et con le comunanze de popoli de Signori. Con la qual occasione d’haver a trattar con loro passarebbe per quelle due Valli de sudditi dando quel calore che bisognasse a catt.ci almeno privatamente, quando gli trovasse impedimento da SS.ri di far offitij spirituali co’ popoliin publico, di che non possiamo ancora accertarci>>.[71] A questi rimedi, continua il documento, si possono aggiungere alcuni aiuti: i sacerdoti dovrebbero avere ampia autorità di assolvere dai casi riservati, specie quelli riguardanti l’usurpazione dei beni ecclesiastici e i contratti usurari, per riavvicinare i responsabili alla Chiesa. Colmare il bisogno di libri spirituali e per il catechismo da distribuire al popolo perché leggendoli si renderebbero conto dei propri errori; il Pontefice dovrebbe dare aiuti economici per ristrutturare le chiese fatiscenti. Di grande utilità sarebbe affiancare al Vescovo di Coira, poco pratico di governo, un Vicario esperto, in tal modo il Prelato avrebbe più tempo per fare visite pastorali ogni anno e assistere ai Capitoli.

Pur essendo evidenziate le cause della rovina spirituale e i mezzi per cercare di rimediare, ma con gli ultimi avvenimenti <<…si è venuto in cognizione, che non è espediente trattar con detti Grisoni per termini amorevoli, et civili, ma che più conviene trattar con maniera grave et risentita valendosi de mezzi che fossino timore o forza di farli condiscendere al giusto conveniente et honesto in favore de Catolici, per che i capi ch’hanno in mano e con i quali bisogna trattare, essendo per la maggior parte eretici, hanno per scopo l’allargar la setta et falsa religione loro, et estinguere et annichilare la religione catolica […] Gli altri poi che non sono al governo, oltre che non s’ha occasione ne commodità di trattar con loro, non hanno communemente tanta capacità di ragione et restano impressi dalli capi del governo e da predicanti… >>.[72] Anche i ministri francesi non hanno il coraggio d’intervenire efficacemente, nonostante i loro rapporti con i Grisoni, per cui non sono di nessun aiuto, quindi restano solo due modi: il primo è quello di trattare con loro con molta autorità, <<…tale ch’habbino occasione di temere che nel paese fra di loro o con Svizzeri confederati nasca discordia e disparere, sapendo essi che tutta la grandezza e potenza loro consiste nella unione e colliganza…>>.[73] Questo modo potrà giovare sia ai cattolici sia ai riformati. <<L’altro mezzo da usare con i Grigioni è la forza, poiché sono coscienti di andare contro le loro leggi e di negare richieste ragionevoli perché hanno perversa e corrotta volontà e, volontariamente, non concederanno mai cose per la conservazione del cattolicesimo…>>.[74]

In una lunga lettera non datata, ma certamente scritta nel 1584, poiché si parla della visita nella Valle Mesolcina effettuata “l’anno passato”, del Borromeo al duca di Terranova, Governatore di Milano,[75] troviamo corrispondenza con quanto descritto nella “Instruttione “ suddetta, nel documento sono ripetute le gravi condizioni in cui versano i Cattolici, in particolar modo quelli della Valtellina e della Valchiavenna, poiché la Visita Apostolica in Mesolcina è già avvenuta e, come scrive il Prelato, con grande successo: in soli quindici giorni <<…essa Valle, con molta facilità, e suavità, si è riformata tutta, e rinovata spiritualmente…>>,[76] gli apostati restituiti alla loro religione, i sacerdoti scandalosi cacciati e sostituiti con altri ligi al loro dovere e stato ecclesiastico, istituite scuole pubbliche cattoliche e una Casa per i Gesuiti, convertiti moltissimi eretici, tra i quali persone importanti e autorevoli, <<…et nell’occasione di disturbi ricevuti per conto della conversione, et del progresso loro spirituale hanno mostrati segni grandi di voler piu tosto perder la vita, che partirsi dalla obbedienza di Santa Chiesa catolica, protestando cio pubblicamente nelle chiese, et nelle piazze sia le donne et i fanciulli piccioli>>.[77] Nessun accenno ai roghi delle donne accusate di stregoneria.

Il Cardinale auspica, poi, che la Santa Sede attui tutti i mezzi possibili per quei popoli, affinché possano fare tutte quelle cose che permettono loro di vivere cattolicamente <<…et pur da poi che l’eresia cominciò a entrare in questi paesi, vi e legge et ordine universale di tutte tre Leghe, che ciascuno possa vivere liberamente nella religione catolica, o nella falsa setta dell’eresia>>.

Tornado all’antefatto della visita, già l’anno precedente, Carlo si era fatto nominare dal successore di Pio V, Gregorio XIII, Visitatore Apostolico di tutte le diocesi svizzere:.[78] Il documento è datato 27 novembre 1582.

Con una lettera del 19 giugno 1583 il Cardinale informa Monsignor Speciano[79] della visita che farà in alcuni luoghi della Svizzera, avendone facoltà per breve del Pontefice, ma gli chiede di poter avere l’autorità pro tempore di dare l’indulgenza plenaria nelle località che saranno oggetto di tale visita.[80] Da buon diplomatico annuncia la Visita Apostolica all’Imperatore, al Re di Francia e a Filippo II, affinché i loro ambasciatori persuadessero i Grigioni a non impedire la visita o a dare fastidio, molto chiara ed esplicita è la richiesta che Borromeo fa al Nunzio di Francia in una sua lettera del 21 luglio 1583: <<Sopra poi quello che le ha scritto il Cardinale di Como della visita mia in paese di Grisoni, nel primo luogo veniva uno officio di procurare da Sua Maestà per efficaci lettere ordine al suo Ambasciatore che tiene presso quei Signori Grisoni, che facci ogni opera con loro et ai signori medesimi lettere conformi perché in quei loro paesi et di loro sudditi, dove mi occorrerà di andare o passare e specialmente nella Valtellina, o in altre valli et parti massimamente di qua dei Monti non mi si impedisca ch’io possa liberamente esercitare tutti quegli officii spirituali et pastorali, che io voglio fare in queste parti et altri luoghi dove vado per ajuto et consolazione delle anime dei fedeli et honor di Dio>>.[81] Chiede la stessa libertà e sicurezza per i suoi collaboratori. <<Di questi officii parlo in questo modo, perché dire a loro che il Papa mi manda là con autorità sua a visitarli, troverebbe incontro più duro ed inespugnabile…>>.[82] Prosegue dicendo che è aspettato con ansia dai cattolici di quei luoghi, i quali hanno fatto supplica ai loro Signori affinché l’Arcivescovo non sia impedito nei suoi offici, ma il dubbio più grave <<…è in quei fuggitivi d’Italia, che fanno là ricorso, et vi hanno ogni lor rifugio, ché sono la fece del mondo, et per la maggior parte non solo heretici, ma apostati, et altrimenti anco criminosi et facinorosi huomini, et disperati, i quali, come si parla di cosa, che tocchi ad aiutare i catolici di quei paesi, et massime come vedessero per qualche principio di buono indirizzo, o riscaldamento spirituale, al che ne va in conseguenza che fra poco tempo essi ne siano affatto scacciati, perché quei paesi sudditi di qua da’ Monti sono delli dieci i nove catolici, arrabbieranno et tumultueranno tanto, et tanto cattivi officii faranno presso quei Signori Grigioni, che gl’indurranno facilmente ad impedire a me il progresso in queste opere, ed ai catolici di là il corso di quel bene che fosse cominciato, et ogni altra occasione di poter essere aiutati spiritualmente>>.[83] Carlo continua la sua lunga lettera dicendo al Nunzio di fare quanto prima ciò che gli ha chiesto per il bene di tutti, <<…ma avverta che sarà più profittevole e fruttuoso, se Sua Maestà lo farà come da sé, senza mostrare che sia stato procurato a Sua Santità, et molto meno da me, oltra che anche non gioverebbe a questo mio governo spirituale di Milano, che si sapesse di questi ministri Regii, che io abbia procurato questo aiuto a quei paesi per questa mia (sic) via forastiera>>.[84] Continua spiegando il fine della Visita Apostolica consistente in due punti principali: lasciare libertà di religione e di culto ai cattolici e non tollerare che gli esuli dall’Italia, soprattutto gli ecclesiastici eretici e condannati, trovino rifugio presso i Grigioni, un esempio di questo lo troviamo in una lettera delle autorità della Mesolcina diretta al Prelato del 17 dicembre 1582, in cui si parla di un certo Fra Benedetto, il quale dopo avere abbandonato il suo Ordine senza licenza dei superiori e si era rifugiato a Soazza, dove aveva continuato a prendersi cura delle anime positivamente. Il Consiglio Generale chiede al Borromeo una dispensa per regolarizzare la posizione del frate e lasciarlo come curato del luogo, come se fosse un prete secolare; ma in una lettera del 9 dicembre 1583, ossia dopo che Carlo ha effettuato la Visita e si è reso conto della situazione, rispondendo che terrà tra i suoi raccomandati anche Fra Benedetto, ma al momento è meglio che esso torni nel suo convento per <<…rimettere quello che ha perso di fuori…>>, perché per aiutare il prossimo è necessario che prima aiuti se stesso.[85]

Galles de Mont, Landrichter, ossia capo della Lega Grigia, scrive al Cardinale una lettera datata 28 agosto 1583, in cui dice che avendo partecipato al “bitag” dello scorso mese tenutosi a Coira, alcuni “predicanti” presenti avevano palesato il dubbio che con l’imminente venuta di Borromeo in quelle Valli temevano dei danni verso la loro religione, quindi pregarono i “Signori” di impedirgli tale passaggio. Galles de Mont, continua dicendo che perorà caldamente la Visita Apostolica, che <<…non solamente gli cattolici, ma ancora gli adversarij non solo s’accontentorno del passaggio ma eziandio ordinarno che gli Sig.ri Ufficiali della Valle gli facessero le debite accoglienze, et cortesie>>.[86] Il mittente continua sostenendo che, avendo parlato con Monsignor Stupano, ha appreso che a quella riunione dovevano essere mandate alcune lettere del Cardinale ai “Signori” presenti e a lui per ottenere il permesso scritto per la suddetta Visita, ma <<Ne essendone presentate alcune ne a detti signori, ne a me, acciò non potessimo provedere, come haveressimo provisto di meglio, et havendo visto l’instigatione delli predicanti, ho pensato, et tengo per securo, che le lettere sue non habbino hauto fedel recapito, ma siano venute alle mani d’essi adversari predicanti, o d’altri loro seguaci>>. Galles de Mont termina dicendo che non avendo ricevuto nessuna lettera non era stato possibile fare alcuna approvazione scritta, ma che sicuramente sarebbe accolto con tutti gli onori, però se l’Arcivescovo volesse la “licenza” scritta, l’avrebbe potuta ottenere nel prossimo “bitag” di San Martino prossimo <<…et con poca spesa si farà con bona espedittione>>.[87]

Nel mese di agosto 1583 giunse a Milano una delegazione svizzera con a capo il Ministeriale della Bassa Mesolcina Giovanni Battista Sacco e il collega Giovanni aMarca, Ministeriale di Mesocco con lo scopo di invitare personalmente l’Arcivesco a compiere la Visita Apostolica, ottenere l’invio di un inquisitore e accordarsi sulla venuta dell’Arcivescovo.[88] Da persona prudente, Carlo inviò prima Francesco Borsatto,[89] Gesuita e avvocato con il compito di preparare quei popoli alla Visita e per informarsi della legislazione della Valle, non volendo operare fuori della legge.[90]Borsatto partì e il giovedì 6 ottobre arrivò nella Valle Mesolcina, dove venne ricevuto dal Ministeriale Sacco, <<…avendo ordinato benissimo le cose del governo della chiesa sua, sotto la cura di Monsignor Audoano Lodovico Inglese suo Vicario Generale, che fù poi Vescovo di Cassano, in modo che non potevano patire detrimento notabile per l’assenza sua, determinò di dar principio alla detta visita, circa il fine di quest’anno 1583>>.[91]

La Valle Mesolcina, italofana, abitata fin dall’età neolitica, deriva il toponimo dal fiume Moesa che la percorre, fa parte del Cantone dei Grigioni (Svizzera), a Nord confina con la valle del Reno, a Est con l’Italia a Ovest con la Riviera e la Val Calanca, a Sud con il Canton Ticino, con cui comunica per mezzo del Passo di San Bernardino; due alte catene montuose ostruiscono la Valle, limitata ad ovest dalla Valle Calanca e ad est dalla Valle del Lirio. La catena montuosa orientale segna il confine tra la Svizzera e l’Italia e si prolunga fino a formare i monti nel luganese, prendendo il nome do Catena Mesolcina. Alle popolazioni originarie si sovrappose la dominazione barbarica e il passo del San Bernardino (Mons Avium) divenne una delle principali vie di comunicazione tra la Pianura Padana e l’altopiano retico.[92]

La Mesolcina fu una delle prime Valli che aderì al Cristianesimo, anche se non siamo a conoscenza dell’evangelizzazione, che senza dubbio proveniva dall’Italia del Nord, prima con l’evangelizzazione romana fino al secolo V, poi con quella merovingia-carolingia, secondo il Vieli ciò fa supporre che il Cristianesimo sia stato accolto privatamente, più tardi professato pubblicamente senza persecuzioni e martiri.[93]

Da tempo remoto la Valle dipese, forse anche politicamente, dal Vescovo di Coira e che da questo viscontato sia derivata la signoria dei Sax (Sacco), proprietari fondiari nella Resia san gallese, durante il secolo IX, divenuti poi visconti in Mesolcina, ma nel XII secolo non compaiono i Sacco della linea primogenita, ma quelli del ramo dei Sax, il cui capostipite fu Alberto deTurre de Sacco, fedele al Barbarossa e fratello di Rainero, Vescovo di Coira. Il figlio di Alberto, Enrico fu l’iniziatore della potenza della casata, quando sotto Fedrico II gli viene confermato il possesso della Mesolcina, della Valle superiore del Reno, quella di Blenio e anche l’avogadria del monastero di Disentis con l’Ursera, affermando in tal modo sotto il diretto controllo imperiale i valichi di San Bernardino, Lucomagno e Gottardo. Tutto ciò indusse i Sacco a mire più vaste: Bellinzona e lo sbocco nella pianura, mettendo però i Signori della Mesolcina in contrasto con il partito guelfo: Enrico di Sacco lascia l’Imperatore e, nel 1242, occupa Bellinzona, che nel 1249 tornerà alle dipendenze di Como, come capo dei guelfi, insieme con Enrico d’Orello di Locarno. Dopo la morte di Enrico, abbiamo il declino della famiglia, a causa della divisione in vari rami.

Nel 1480 Giovanni Pietro de Sacco, oppresso dai debiti e detestato dal suo popolo, vendette la Signoria con tutti i suoi possessi e diritti al conte Gian Giacomo Trivulzio per la somma di sedicimila fiorini, il nobile milanese divenne il nuovo Signore della Mesolcina  e nel 1496 strinse un’alleanza con le Tre Leghe, sancendo in tal modo l’appartenenza della Mesolcina ai Grigioni. Tre anni più tardi Trivulzio soccorse i Grigioni minacciati dall’esercito imperiale di Massimiliano d’Austria, contribuendo alla vittoria della Lega. Gian Giacomo morì nel 1518 e a lui successe il nipote Gian Francesco, giovanissimo e debole di carattere, che col tempo fu privato dell’autorità e nel 1256 le Tre Leghe fecero demolire il castello di Mesocco, obbligando il giovane a ritirare le sue milizie, la Signoria dei Trivulzio finì nel 1549 quando Gian Francesco firmò un trattato con i rappresentanti della Mesolcina e della Calanca, per il quale rinunciava a tutti i suoi diritti feudali in cambio di ventiquattromilacinquecento scudi d’oro, che dopo una prima somma, il resto venne pagato a rate da tutti i comuni del Moesano: fu la fine del regime feudale e l’inizio di una libertà ottenuta senza violenze: il governo fu assunto dalle autorità locali e il potere legislativo esercitato dalla Centena,[94] quello esecutivo dal Consiglio generale di valle e quello giudiziario dal Tribunale dei Trenta Uomini che si radunavano a Roveredo o a Mesocco.[95]

Soazza e Mesocco con “motu proprio” entrarono a far parte della Lega Grigia nel 1480, successivamente (1496) anche il resto della Mesolcina con la Val Calanca si unirono alla suddetta Lega. Già dalla Signoria dei de Sacco la Valle era divisa in due Vicariti quello di Mesocco e quello di Roveredo, mentre amministrativamente era formata da tre squadre o circoli: quella di Mesocco, la squadra di Mezzo, che comprendeva Soazza, Lostallo, Cama, Verdabbio e Leggia e la squadra di Rovereto con Grono, Roveredo e San Vittore. La Valle Mesolcina non aveva il vincolo di sudditanza politica, in quanto Comungrande, ossia una comunità delle valli, entrate a far parte come componente paritario nella Federazione delle Leghe, quindi libera nelle proprie decisioni, come la Valle di Poschiavo, che al tempo faceva parte della Diocesi di Como e quella di Bregaglia che insieme alla Mesolcina appartenevano a quella di Coira, ma,  diversamente dalle altre, la Mesolcina era ed è anche oggi quasi totalmente cattolica.[96]

Nel 1555 veniva stipulata la Pace di Augusta tra cattolici e protestanti, in cui fu sanzionato il principio del “cuius regio eius religio”, riconoscendo in tal modo la libertà religiosa solo al principe, non al popolo. Se la maggior parte della Diocesi milanese era sottoposta a Filippo II, il cattolicissimo Re di Spagna, molte pievi delle valli svizzere erano terre di confine e quando oltre il San Bernardino scoppiò la Riforma queste vennero a contatto con i protestanti delle varie dottrine, che si diffusero rapidamente. Le autorità dei Cantoni protestanti e di quelli cattolici erano fermamente decisi a mantenere la loro tradizione di autonomia stabilita nelle Diete di Ilanz del 1524 e del 1526, dove era stata proclamata la libertà di culto nella Repubblica delle Tre Leghe. Anche la Mesolcina risentì delle condizioni civili, religiose e morali di questo periodo storico: <<…i delitti di sangue e i reati contro il buoin costume erano diventati tanto frequenti e tanto gravi che durante la dominazione dei Trivulzio il principe e la centena s’illusero di mettervi argine, emanado spesso capitoli criminali minaccianti pene severissime contro chi portava armi, cercava liti, assaliva e feriva il prossimo o dava scandalo fornicando persino – ciò che era più ripugnante – “in gradi bus prohibitis cum parenti bus”…>>.[97]

Il clero era ignorante, molti preti sapevano a stento leggere e scrivere, gli aspiranti al sacerdozio, rari, tutti appartenenti a famiglie facoltose, avevano una formazione molto superficiale, anche per la mancanza di seminari, la disciplina e la moralità lasciavano a desiderare e troppo scarsi erano i contatti col Vescovo diocesano di Coira, il quale non aveva l’obbligo delle Visite pastorali. Viste le condizioni generali di vita, la Riforma fu vista come un rinnovamento sociale, un’illusione in un futuro migliore e forse per questi motivi fu abbracciata da molti abitanti della Valle.[98]  Vieli sostiene che nonostante tutto in Mesolcina non ci furono né polemiche né esiti pubblici sulle nuove dottrine, nessun ecclesistico si proclamò palesemente favorevole alla Riforma, ad eccezione del comune di Mesocco, più esposto geograficamente alle infiltrazioni provenienti dalla Valle del Reno, dove fu creata una comunità evangelica.[99]

Nel 1549 arrivò a Mesocco il locarnese Giovanni Beccaria, cacciato dalla sua città per apostasia, nato nel 1510 circa, dopo gli studi di teologia, aveva aderito alla fede riformata, istituì una scuola dove insegnava ai figli delle famiglie riformate, più tardi il Sinodo retico lo accettò tra i propri ministri e fu nominato parroco riformato di Mesocco.[100] Questo fu solo un episodio, ovviamente dopo Giovanni Beccaria arrivarono in questi territori altri protestanti e non mancarono i neofiti tra le famiglie del posto. Nel 1556 una numerosa comunità riformata di Locarno avrebbe voluto stabilirsi in Mesolcina, ma i cinque Cantoni cattolici d’accordo con la Lega Grigia vietarono il loro stanziamento, la comunità si diresse a Zurigo, facendo tappa a Roveredo a causa dei rigori invernali.[101]

A causa delle pressioni che la Lega dei Grigioni aveva esercitato contro i riformati in Mesolcina ci furono grandi attriti con i protestanti della Valle del Reno e poco mancò che ne scaturisse una vera lotta armata: era il 1560. Con la Dieta di Coira venne stabilito che la Lega Grigia tollerasse la Riforma nella Valle e furono assegnate due chiese di Mesocco ai riformati perché potessero celebrare il loro culto.[102]

<<Sebbene la Mesolcina non avesse abbracciata la riforma, come si ha veduto nel Capitolo precedente, i suoi parti tanti non mancavano però di mantenere con segretezza negli animi quello spirito d’innovazione, che dai pergami veniva con artificio inculcata anche da quei pochi preti vallerani, i quali bramavano di vicere nella licenza. In simili disordino di religione, la popolazione era divenuta per lo più superstiziosa e di corrotti costumi, per cui necessitò più volte che la Regenza di Valle si riunisse espressamente per cercar di provvedere a tali inconvenienti; ma tutte le misure che si adottavano, riuscivano sempre infruttuose, anzi la demoralizzazione di più in più andava crescendo.

La fama di S, Carlo Borromeo allora Arcivescovo di Milano eccitò il Consiglio di Valle a spedir a quel Cardinale una deputazione per consultarlo e supplicarlo del suo aiuto sullo stato deplorabile in cui si trovava la Mesolcina.

Nel 1583 in agosto fu tenuto un apposito consiglio che nominò alcuni principali del paese per far l’ambasciata, i quali arrivati in Milano, furono dal venerabile Prelato accolti colla massima amorevolezza, e promise loro con benignità che entro quell’istess’anno si sarebbe portato in persona nella Mesolcina per ajutarli e provvedere a quanto desideravano; tanto più ch’egli era benissimo informato della demoralizzazione e del desiderio di riforma religiosa che esisteva nella Mesolcina come in tutte le vallate contigue alla sua Diocesi, per cui impiegava l’instancabile suo zelo per impedire l’avanzamento degli scismi ed eresie nel suo dominio spirituale, col portarsi in persona ove il bisogno l’esigeva…>>[103]

Da una lettera di Giovan Battista Sacco al Cardinale, datata 29 luglio 1583, veniamo a conoscenza che il Ministrale chiede che sia inviato anche un inquisitore per procedere contro i sospettati di stregoneria: <<…fargli memoria a proteggere d’un Inquisitore di queste malefice, quale esperto et idoneo, accioche quando s’appresenterà l’occasione, sappiamo dove raccorsi à torlo…>>,[104] ossia dove rivolgersi per averlo in caso di bisogno. In una lettera del 4 ottobre 1583 che Carlo scrive a Roma al Cardinale Savelli,[105] in cui dice che manderà Francesco Borsatto a Rogoredo: <<Quanto alle cose di Rogoredo, et parte contorno hora si comincerà darle qualche buon principio, havendo io fatta risolutione di mandare là di presenteil Dottore Borsato, che già alcuni dì sono si trovava qui meco: la quale andata è stat da me incaminata in occasione della istanza fattami novamente a nome di quelle Communità da uno Ambasciatore et altri principali, tutti catolici, et di auttorità di quei paesi, che si ritrovano qui a Milano, perché io le dessi uno Inquisitore a processare molte persone per conto di streghe.La quale andata è stata risolta da me in occasione della instanza fattami nuovamente a nome di quella comunità da uno ambasciatore et altri principali tutti catholici et di autorità di quei paesi, che si ritrovano qui a Milano perché colà dessi uno inquisitore a processare per conto di Streghe. L’ho dunque deputato con soddelegatione ampla delle altre mie facoltà in quei paesi, et sono partiti insieme questa mattina. Essi mostrano buona volontà, et desiderio dell’aiuto di quelle parti, et di dare ogni possibile favore, et calore per promovere le fatiche, et diligenze, che piglierà il detto Monsignor Borsato per il servizio, et bene spirituale del publico>>.[106] Francesco Borsato fu giudicato, dal Borromeo, l’uomo giusto per svolgere l’attività d’inquisitore, poiché occorreva, come riferisce in una lettera sempre al Savelli del 18 agosto dello stesso anno, una persona prudente e moderata, perché la giustizia secolare era molto più spietata di quella ecclesiastica,specialmente in casi di “stregherie”, Borsatto era considerato dal Borromeo anche come “precursore” della sua visita nella Valle Mesolcina, ma appena libero da un impegno molto importante,[107] lo avrebbe raggiunto con un predicatore e altre persone, <<Si manda là con pretesto dell’officio della Santa Inquisizione contra quelle streghe et nel medesimo tempo comincerà a poco a poco fare qualche officij spirituali>>,[108] da quanto scrive, le sue intenzioni non sembrano quelle di sterminare le streghe e gli eretici, ma piuttosto riportare queste persone sulla giusta via con esercizi spirituali. Il Cardinale viene assicurato dagli ambasciatori che non avrà nessun impedimento nell’attuare tutto ciò che si è prefissato, anzi propongono e fanno <<…instanza, che si eriga là un Collegio, o Seminario, assignandovi N. S.re reddito sufficiente, et per questo afferiscono essi di dare una buona casa, commoda, et conveniente, io che vedo quanto fondamento, et commodità spirituale ne risultaria universalmente; mi sono grandemente consolato di questa prattica, massime che mi dano speranza, che anco dà Padri heretici di tutte le Leghe si mandaranno molti figlioli allenarsi in quel Collegio […] In tutto il paese di Grisoni, parlo di SS.ri, come questo, non de’ sudditi, come Chiavenna e Valtellina, non vi è si può dire Maestro di Lettere>>.[109]

Da questi e da altri documenti studiati, sembrerebbe non chiara la distinzione tra eresia e stregoneria, in quanto i due termini vengono usati per indicare sia gli eretici che le streghe,sembra che i confini tra magia e stregoneria non siano molto delineati, come ad esempio nel seguente passo che troviamo nell’opera del Possevino, in cui dice che Carlo <<…scoprì quasi tutto quel paese infettato di streghe e stregoni, e ne ridusse a penitenza più di cento, ma da dieci, o in circa donne, vecchie per lo più le quali havevano commessi homicidije notabilmente danneggiato il paese, et erano quelle che seco conducevano le pute quasi fanciulle, cō terrore delle altre, al braccio secolare>>.[110] Mentre in passo successivo troviamo che il Cardinale: <<…non si sdegnava di mettere molte hore in ragionare alle volte con semplicissime, mà ostinatissime, et ignorantissime donnicciole heretiche, ricevendo anco alle volte da esse risposte assai indegne…>>.[111] Ancora nella relazione, relativa al 16 novembre 1583, del Gesuita Achille Gagliardi, al seguito del Borromeo durante la Visita: <<Questa misera Provincia tutta ora in mano di Apostati sfratati che servivano da Pastori, et seminavano alcuni mala dotrina, altri col male esempio di vita, et con la larghezza della continenza sua, e con gli altri fabbricavano la perdizione loro et di tutto il paese, nel quale (ben occultamente) già cominciava a entrare in molti la heresia. Il Proposito capo della Chiesa ora capo delle Streghe che vi son qui molte et in più luoghi ogni settimana con gran gente havevano, con quelle solite abominazioni del loro ballo, comercio col diavolo con uccisioni d’animali, d’huomini, et massime fanciulli per mezzo di certa polve fatta di rospi, et ossa di morti et altri orrendi peccati>>.[112] Questa relazione che sembra riprendere molto dalle antiche pratiche contadine, ci rende l’idea della fervorosa fantasia del Gagliardi, ma anche di una mentalità che non era diffusa solo nel popolo, nelle persone semplici ma anche in persone di cultura e di ceti sociali più elevati.

L’Autorità romana fin dal secolo XII cercò di travisare la natura essenzialmente benefico, positivo della “Società di Diana”, <<…infatti la credenza nelle streghe malefiche, operatrici di atti criminali che danneggiavano uomini, animali e beni materiali, si sovrappone a quella delle seguaci di Diana, dea appunto dei parti e della fertilità. Successivamente i demonologi del XV secolo si adoperarono a dimostrare la reale presenza diabolica nell’antico rito “e la consapevole complicità delle donne che vi partecipavano, conferendo a tali credenze quell’unità e quell’organicità che avevano perduto nel corso del tempo” (M. R. Lazzati)>>.[113]

Nel 1326 circa, Giovanni XXII emanò la bolla “Super illius specula” ponendo le basi per la relazione strega uguale eretica, che si allontanava sempre di più dal “Canon Episcopi” del secolo IX, in cui la vera superstizione consisteva nella credenza del volo notturno. Con la bolla di Innocenzo VIII “Summis desiderantes affectibus” del 1484 avviene la fusione della stregoneria con la “pravitas haeretica”, dando il via alla caccia alle streghe, che per quasi tre secoli fu associata alla storia occidentale.[114] <<Forse la stregoneria serviva bene a dare un volto locale alla paventata intrusione forestiera degli eretici, la cui estensione era bruciante. Comunque il principio era codificato. In questo contesto va esaminato il Borromeo […] Non è possibile un’analisi della posizione dell’Arcivescovo Carlo riguardo alle manifestazioni di religiosità popolare o alle abusive espressioni magico.religiose senza tener conto del Decretum tridentino De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum, et de sacris imaginibus. E’ indiscussa la fedeltà di Carlo Borromeo alle disposizioni tridentine; del resto ciò rientrava nella struttura mentale essenzialmente giuridica del Borromeo: senza la quale non ne comprenderemmo la personalità>>.[115] Da un attento esame degli editti, delle Visite pastorali, dell’epistolario e degli “Acta Ecclesiae Mediolanensis” riusciamo ad “entrare” un poco nella mentalità del Presule, ma che si tratti di culto o di magia e di abusi, va considerato che chi studia oggi il periodo in cui opera Carlo possiede un’ottica completamente diversa da quel tempo, <<…attenta non solo  ai dati storico-religiosi, ma anche a quelli folkloristici, antropologici, etnologici>>.[116] Ma forse la vera eresia non comincia dove c’è superstizione?

Borromeo, comunque, fu molto rigoroso verso gli abusi di devozione popolare e in una lettera inviata all’Arciprete di Monza del 22 aprile 1567 troviamo un esempio di tale rigore: sembra che molta gente accorresse in un luogo tra Milano e Monza perché alcuni sostenevano di avere visto la Madonna apparsa sopra gli alberi del posto, quindi il Prelato incarica l’Arciprete di fare un sopralluogo e con “diligenza” far tagliare quegli alberi e demolire eventuali costruzioni fabbricate per questa circostanza, perché non voleva che il popolo fosse ingannato con simili illusioni.[117] Durante la peste del 1576, detta peste di San Carlo, l’Arcivescovo da una parte proibisce varie cose per evitare il contagio, vieta di toccare le reliquie, esorta cautela verso le immagini e le donazioni, ma poi tollera le immagini sacre, anzi esorta che tali immagini, nel caso in cui venissero rimosse, dovrebbero essere sepolte sotto i pavimenti delle chiese o nei cimiteri: ciò fa pensare che esse abbiano acquistato un carattere sacro da ostacolarne la distruzione.[118] In conclusione si può dire che le frontiere tra la pietà popolare, la superstizione e la magia siano spesso molto precarie.

Munito di una subdelega, Borsatto partì quella stessa mattina e il 6 ottobre arrivò in Mesolcina, ricevuto dal Ministrale Sacco, l’inquisitore Gesuita fece convocare la Centena per il giorno 9 a Lostallo, per dare pubblicamente l’autorizzazione ai suoi procedimenti giudiziari, alla venuta del Cardinale ed agli eventuali provvedimenti che sarebbero stati presi. Questo fa capire quanto il Borromeo si muovesse con i “piedi di piombo” e nella più stretta legalità. Il 10 ottobre l’inquisitore spedisce una relazione al Presule, in cui lo mette al corrente delle decisioni prese dalla Centena e gli illustra la situazione religiosa della Mesolcina: <<Cominciarò hora ad attender à questi processi che riescono cumolo grande di persone et cause>>,[119] certamente i processi si riferiscono alle persone accusate di stregoneria; poi dice che la prossima domenica avrebbe cominciato a comunicare il popolo e dopo pranzo avrebbe cominciato <<…a introdurre la Dottrina cristiana, havendone in estremo tutti bisogno, non sapendo per la maggior parte quasi forse il segno della santissima Croce>>.[120] I messali erano vecchi e gli arredi sacri erano tanto sporchi da non potersi vedere, per cui dispose che fosse provveduto subito a tutto ciò che era necessario per l’altare e per officiare <<…poi che nella visita non si avrà da far riforma, ma crederò una forma nuova, tanto ogni cosa si trova in malo stato, et senza preti et chi le pasca, che poi sarà cura di V. S. Ill.ma, be si dirò che in questa valle non vi sono molti heretici scoperti, ma si ben disordine, et diffetti assai importanti, per quel ch’io scopro>>.[121]

In un documento scritto di pugno da Francesco Borsatto, troviamo una specie di promemoria comprensivo di dodici punti, sulle facoltà del Crdinale da chiedere al Pontefice ed all’Inquisizione a Roma in vista della visita nella Valle Mesolcina, tale documento non è datato e vi sono presenti alcune cancellature che noi riportiamo, ciò farebbe supporre che si tratti della la minuta della lettera che poi verrà spedita alla Santa Sede.

Le facoltà che Carlo vuole ottenere dal Papa servono per metterle in atto durante la Visita in Mesolcina: andando a visitare questi luoghi dei Grigioni può trovare eretici che negano la Trinità, la verginità di Maria, la morte per la Redenzione, i quali non potranno essere ammessi all’abiura, ma condannati alla pena di cui alla Costituzione Apostolica di Paolo IV dell’anno 1555.[122] Il Borsatto, quindi, chiede ampie facoltà per il Cardinale e per altri da lui designati e le specifica, come detto, in dodici punti: <<Andando l’Ill.mo et R.mo S.r Car.le S.ta Prassede ne paesi de svizzeri et Grigioni, tra quali vi possono esser heretici, che negano la Santiss.ma Trinità, divinità di Christo, la conceptione de Spirito Santo, e la morte per la redenzione, over la virginità di Maria, quali per Constitutione Apostolica di Paolo IIII sotto l’anno 1555 non potranno esser admessi all’abiura la prima volta, ma condannati nella pena di detta Constitutione. Et per il più se vi ricorrana sacramentarij, et oriondi d’Italia, et anco de forastieri, et che vi stanno, et che vi vanno alle volte, et forsi che hanno una et più volte abiurato, et quasi potriano venir al premio della Chiesa, essendo semplicemente admessi senza abiura publica, o privata formale, et quali ancor per il più sono quelli che sollevanoi terrieri per poter vivere. Si mette in consideratione a Nostro Signore che quei S. Ill.mi del supremo tribunal della S.ma Inquisitione in Roma, che non saria farsi male a dar per breve particolar facoltà a detto Ill.mo S. Cardinale S.ta Prassede, che potesse per se o altri da lui elletti, in….endo alle altre facoltà, et oltre quelle, per le cose infrascritte.

Prima potesse admetter a suo arbitrio al premio di S.ta Chiesa ogni heretico anco sacramentale et de sudetti di qual si voglia sorte benche meritasse la pena dell’ultimo supplicio la prima volta, et li oriondi d’Italia et apostati si de religiosi, come pretti, et secolari,

Secondo potesse admetterli, et reconciliarli alla S.ta Chiesa Romana benche havessero una et più volte abiurato, et fosse stato longissimo tempo in heresia.

Terzo se ben fossero stati predicatori, et instruttori d’altri, stampatori, et authori o compositori d’heresie, o libri heretici.

Quarto potesse reconciliarli o con abiuratione publica, o privata, et anco parendoli spediente senza abiuratione formale, mentre però si facesse rogito per il notaro della reconciliatione, absolutione, abiuratione, d’ogni heresia ch’havesse tenuto, et penitenza salutare in presenza de due testimonij, col descriver però il nome, cognome, patria, stato, et qualità dell’heretico penitente, acciò per ciascuna non s’havesse a far longo processo, scritture et abiuratione formale, che fossi in questo modo molti potriano ritornar, et dimandar misericordia et aiuto.

Quinto facoltà d’assolver liberamente in foro fori da ogni irregularità et combatta per qual si voglia causa et heresia come di S˜. senza sospenderli o tenerli sospesi a tempo ad arbitrio  di S.S. Ill.me secondo li parerà spediente, o almeno authorità di assolver quei ch’hora vivono cattolicamente, mentre però tra tempo da esser limitato da S.S.Ill.me vengino all’obedienza de suoi superiori, et che ha tanto possino celebrar, et trattar i suoi negotij per ritornar in Italia et paesi catolici.

Sesto che le gratie concesse da N. S. con lettere delli Ill.mi S.ri Cardinali Savello, Maffeo et Como, fossero tutte distese nell’istesso breve prevalessene bisognando, et mostrar a quelle genti cosa ordinaria et autentica secondo il popolo ricerca: primo di poter sudelegar ad ogni persona perita sacerdote et ecclesiastica le medeme facoltà o tutte o perte secondo le parerà conveniente. Secondo che si possa trattar per S.S.Ill.ma et altri da lei haver a esser nominati, o che la compa gnargno (non capibile) liberamente ogni cosa publicamente et  privatamente con ogni heretico et persona di quei paesi senza incorso di pena alcuna, cercando però di scansar più che si potrà la loro conversatione.

Settimo che ritrovandosi qualche religioso apostata, pentito de suoi errori, et ritornato con sincerità di cuore, potesse assolversi in foro fori, et foro poli, et per l’irregularità et heresie, con restituirgli anco alla religion sua et suoi monasteri, non ostando qual si voglia cosa in contrario con quel modo però penitenze o pene tempo et conditioni, che giudicarà bene S.S.Ill.mo considerata ogni circostanza et qualità del penitente.

Ottavo trovandosi alcuna persona che volesse solamente in foro poli confessare i suoi errori et heresie, possa assolversi et admettersi massime s’allegharà causa o timor del confessare le heresie et errori in foro fori, dovendo star et habitar in quei paesi, et purche sia oriundo di quelle terre. (a sinistra a piè di pagina, ossia c. 257r., : “Questa facoltà mi par che sia già concessa per Breve apportato con l’alterationi? In foro fori per giuramento)

Nono auttorità d’assolver ogni officiale S.r o Magistrato di quei paesi ch’havesse tolto o usurpato beni, denari, o frutti, o mobili della Chiesa, ovvero ingeritosi in cause ecclesiastice, et di quelle cavatene pene et utilità, rimettendo a S.S. Ill.ma il far restituire il mal tolto, o commutarlo o dargli altra pena o penitenza considerato il stato et conditione di quel tale.

Decimo possi terminar ogni sorte di lite di qual si voglia cosa o persona di Chiesa o mossa o da moversi a qual giudice ecclesiastico possa appartenere anchor che prendesse lite nanti tribunali ordinarij o altri giudici, et senza il consenso di qual si voglia persona.

Undecimo non saria male che S.S. Ill.ma havesse facoltà a consolatione delli Catho.ci che vi si trovano nelle Città, Castella e luochi principali, di conceder in qualche Chiesa, a qualche altare Indulgentia plenaria ogn’anno in un certo giorno, a quelle persone d’ogni sesso che contrite e confesse comunicassero et pregassero per l’unione de principi, essaltationi di S.ta Chiesa et estirpatione d’heresie.

Duodecimo facoltà di ordinare estra tempora et diebus continuus etiam non festivis in quelle terre però, et di quei preti che S.S. Ill.ma giudicarà ispediente convertirsi per il bisogno delle Chiese et contento delli catolici che vi sono con auttorità di dispensare super statem  (a sinistra in basso: “Questo poco sarà bisogno, ma non può nocere>>.[123]

Carlo Borromeo partì per la Mesolcina il 9 novembre 1583, del suo seguito facevano parte anche il Gesuita Achille Gagliardi,[124] il Francescano Francesco Panigarola,[125] entrambi molto validi nella predicazione: Panigarola particolarmente esperto anche nella confutazione delle tesi di Calvino, il Canonico Arciprete Ottavio Albiati (Ottavio Abbiate Forerio) e il suo Segretario Bernardino Morra.[126] La visita non si presentava come un’impresa facile a causa di problemi religiosi e politici, da non sottovalutare poi il periodo invernale molto rigido, che, in quei paesi, rendeva gli spostamenti difficili ed anche pericolosi, in una lettera da Roma, del 5 novembre, del Cardinale Speciano a Carlo si legge: <<Questa sarà in risposta della lettera di Vostra Signoria delli 28 del passato, et credo che la ritroverà occupata assai nelle faccende de Grigioni, nelle quali qui si ha grande opinione che Vostra Signoria Illustrissima sia per fare, con l’aiuto del Signore, del frutto assai; sebbene alcuni di questi Illustrissimi dubitavano che non sia sicuro il fidarsi intieramente di andar così alla libera in quei paesi, et al pur Cardinali che vi sono stati hanno paura grande ch’ella non patisca notabilmente per la neve et freddi, nelli quali molti ogni anno pericolano. Ma io spero ch’Iddio benedetto le assisterà in ogni cosa, et a questo fino qui se ne faranno orationi da persone di molto spirito>>.[127]

Da una dettagliata relazione di Gagliardi del 16 novembre 1583, veniamo a conoscenza che durante la Visita a Tessarete, lui stesso resta stupito dall’affluenza del popolo accorso per le confessioni, le comunioni e per la Cresima, ma soprattutto per come le persone erano bene istruite nella dottrina e per la loro onestà di vita. Il Prelato, la sera dell’undici novembre, fu ospitato nella casa di Bernardino Ruscone <<…alle Taverne, ove oprò un miracolo…>>[128] : chiese al padrone di casa di conoscere i suoi sette figli, ma al cospetto dell’Arcivescovo ne vennero solo sei, mancava la figlia maggiore di circa tredici anni, la quale era andata a cercare un vestito adeguato per comparire davanti a un personaggio così importante, ma nel momento in cui fece l’atto di prendere il vestito da una grossa cassa, il coperchio <<…fatto d’un assone grandissimo di noce con cornice ferrea all’intorno qual era sufficiente per il sol peso spezzare una pietra, e colse sotto tutt’e due le braccia e tramortì. La servente che era andata a chiamarla corse al padrone scapigliata piangendo che la figlia era morta>>.[129] Il padre accorse nel luogo dell’incidente, prese la figlia in braccio e questa aprì gli occhi e sorridente disse: <<Pà, non mi sono fatta nessun male, quel gentiluomo vestito di rosso qual è in stufa mi ha tenuta lui et mi ha salvata>>.[130]

Borromeo proseguì la sua visita facendo tappa nel monastero degli Zoccolanti a Bellinzona, per proseguire poi nella Valle Mesolcina, fu a Rogoredo il 12 novembre, dove rimase fino al 17, ispezionando anche i luoghi circonvicini. Dalla relazione di Padre Gagliardi veniamo a conoscenza della povertà di questi luoghi soggetti ad apostati che fungevano da Pastori, predicando dottrine eretiche e dando cattivi esempi di vita, trascinando gli abitanti di Rogoredo e dintorni: <<Il Proposito capo della Chiesa ora capo delle streghe che vi sono qui molte et in più luoghi ogni settimana con gran gente havevano, con quelle solite abominazioni del loro ballo, comercio col diavolo con uccisione d’animali, d’huomini, et massime fanciulli per mezzo di certa polve fatta di rospi, et ossa di morti et altri orrendi peccati. Tutto il paese era pieno d’usure, vi sono moltissimi matrimonij illeciti per essere in gradi prohibiti, vi sono nemicitie tra principali, per le quali ne sono seguiti grandi homicidij, vi è estrema ignoranza, per non essere chi insegni né costumi, Né dottrina Christiana, né pure un poco di grammatica, si atende à crapula et buon tempo. In questo stato habbiamo ritrovato questo paese, al quale è piaciuto a Dio dare la gratia di questa visita con molta benedizione>>.[131] Il quadro dipinto dal Gagliardi non era certamente roseo, quindi per rimediare a tante miserie, Carlo iniziò a digiunare e a mangiare solo pane ed acqua e impose al suo seguito di nutrirsi solo con pesce; le giornate erano molto laboriose e poco il tempo per riposare: la mattina presto, prima il Panigarola poi anche il Cardinale cominciavano a predicare, e dopo la Messa c’erano le confessioni fino alle diciannove, dopo la cena <<…s’attende a negotij per due hore […] Alle 22 hore di casa il Sig.or Cardinale va in Chiesa et si cantano le litanie et si fa la dottrina cristiana, insegnando, et domandando ai fanciulli il Sig.or Cardinale stesso, il Panigarola, et io le cose necessarie alla salute…>>,[132] senza, tuttavia, fare riferimento alle eresie, perché era stato ritenuto opportuno agire in tal modo per ristabilire il popolo nella fede, infatti Gagliardi dice nella relazione che la Chiesa era sempre piena di persone attentissime. <<La sera sino a 3 hore e più di notte il Sig. Cardinale ci tiene in consulta, ne si può cenare d’ordinario per l’altre occupazioni sino alle 5 hore di notte>>.[133]

Il primo giorno vennero comunicate 500 persone, il secondo 500 su una popolazione di poco più di 1500 anime. Una parte degli usurai fecero promessa di restituzione, l’altra parte si impegnò di seguire gli ordini del Prelato: <<…per ricevere, et usare nell’avvenire contratto lecito de censi, o simili. Dei censi ne resterà forma autentica per uso di tutto il paese […] Quanto all’heresia si sono riconciliati non pochi alla S.ta Chiesa, tra quali i principali di tutta la Valle che molt’anni erano stati in errore sedotti in Germania l’uno dal Vergeri, l’altro da Pietro Martini. […] Quanto alle streghe il prevosto con 15 o 16 di queste male donne sono state poste in prigione et sene farà una severa giustitia di fuoco, et tutte l’altre che segretamente erano macchiate di questo vitio, senza enorme successo criminale, ch’erano molte si sono ridotte a penitenza, con segno di quella>>.[134] Nella sua relazione, Gagliardi non parla molto delle “streghe” si limita a quanto riportato. Ma in una lettera dell’8 dicembre al Cardinale, Padre Carlo, gesuita al seguito di Carlo Borromeo durante la visita in Mesolcina, dopo avere espresso il successo della visita, così scrive: <<Lunedì passato, come quella haverà inteso, furono condotte alla morte quattro di quelle donne incarcerate. La qual fu di questa maniera. Fu fatta una grande catasta di legne, fascine et paglia; et havendo il carnefice strettamente legata ciascuna di loro sopra una tavola da per sé con fune, la buttò sopra della catasta con la bocca in giù, et subito si diede il fuoco intorno intorno, onde si vidde una fiamma horribile, che tutte le loro ossa et membra ridusse in cenere.Prima io riconcilia ciascuna stando già sopra le tavole distese, et ligate, et Monsignor Stoppano et altri due Reverendi insieme le aiutammo nel Signore con li debiti conforti. Né potrei abbastanza esplicarle con quanta contrizione, et prontezza han preso questo supplicio, rassegnate in Dio con profondo riconoscimento, et pentimento dei lor peccati, essendosi confessate et comunicate con gran devotione, facendo intiera oblatione delle anime, et della vita loro al Creatore Dio. Era quella campagna piena di gran popolo, et tutti con altissima voce gradavano Gesù, et si sentivano ancor esse gridare, et invocare quel santissimo nome in mezzo delle ardenti fiamme, tenendo ciascuna al collo le lor corone con l’ave Maria benedetta. Io ho gran speranza della salute di tutte per li chiari segni, che si son visti in loro, di buona contrizione>>.[135] Il Cardinale risponde da Bellinzona, esprimendo la sua consolazione per la conversione in extremis delle condannate, vedendo nel loro comportamento una speranza per la loro salvezza eterna. Nella lettera datata 18 dicembre dello stesso anno, il Gesuita annuncia al Prelato che sono state giustiziate altre tre donne <<…nomate Caterine delle altre incarcerate, che restavano come all’altre passate […] Le abiurate non son mai comparse et io non ho potuto far quella diligenza che tuttavia desidero…>>[136]

Un processo per stregoneria poteva essere indetto solo se almeno tre persone avevano denunciato l’uomo o la donna indiziati o accusati da altra persona stimata strega o stregone, quindi venivano incarcerati e successivamente portati davanti all’Inquisitore per essere interrogati la prima volta liberamente, poi sotto tortura. Il processo, che poteva dilungarsi anche per molti giorni, veniva definito con la sentenza emanata dal braccio secolare, composto da trenta uomini del Tribunale di Valle. Il verdetto veniva letto in pubblico, senza, tuttavia, rendere noti i nomi delle altre persone implicate. La pena poteva spaziare dal bando dalla Valle al supplizio del fuoco, in alcuni casi erano considerati la grazia e il perdono, a patto che i condannati abiurassero.[137] “Ecclesia non novit sanguinem”, quindi l’esecuzione della condanna non competeva alla Chiesa, ma al braccio secolare: lo Stato riconosceva ed eseguiva le sentenze dei tribunali ecclesiastici. Quando gli accusati venivano portati davanti all’Inquisitore, non ammettevano la loro colpa, anzi la facevano ricadere su altre persone, dando luogo ad una serie di nomi, dettati anche dalla vendetta personale, allora si doveva ricorrere alla tortura per estorcere la confessione, che, al tempo, diventava strumento fondamentale perché le prove non erano sufficienti se non c’era la confessione dell’imputato. Il giudice era obbligato ad applicare la tortura per constatare se anche subendo atroci sofferenze l’accusato insisteva nel proclamare la sua innocenza; la tortura, nella Valle, consisteva nel legare la persona per le braccia o per la vita, appendere dei pesi ai piedi e tirarla in alto con una ruota. Chi non confessava veniva torturato più volte, tanto da preferire la condanna a morte alla tortura.

La superstizione e la stregoneria era talmente radicata in questi luoghi, come del resto in tutta l’Europa, che molti indiziati erano convinti di essere streghe e stregoni, per altri era un vanto ed un modo per essere al centro dell’attenzione pubblica. Molto diffusa era la propensionea riunirsi in congreghe e in ogni villaggio vi erano dei punti in cui di notte si riunivano i seguaci di queste combrincole e, credendosi realmente in rapporti con Satana, commettevano atti gravemente offensivi alla religione e offesa, violazione ai suoi simboli, oltre che a balli e atti osceni e peccaminosi.[138]

Il Prevosto citato era Domenico Quattrino, il quale fu denunciato e subito destituito, al suo posto fu designato Pietro Stoppani, Oblato milanese, il quale ebbe l’incarico di curato di Roveredo e di Santa Maria in Calanca.[139] Consegnato al Braccio secolare, sotto tortura confessò molti dei delitti commessi, tanto che correva voce della sua condanna a morte, condanna che non ebbe mai luogo: <<In ciò furono tratti in inganno parecchi autori, dagli accenni delle relazione, ove è detto che il Quattrino fu condannato, senza avvertire che questa parola significa sentenziato e giudicato reo del delitto. Ma non si parla mai della pena>>,[140] che, secondo il D’Alessandri consistette nella perdita della cura e ridotto allo stato secolare, inoltre lo studioso riporta alcune frasi di due documenti in cui compare Domenico Quattrino, relativi al 1587, cioè quattro anni dopo la visita di Borromeo.[141]

Mentre la visita in Mesolcina procedeva tra roghi e pentimenti, tra grandi accoglienze e non pochi timori, il Ministrale Giovanni aMarca, uno dei più accaniti sostenitore della necessità di tale visita, si trovava a Milano in missione diplomatica presso i delegati del Re di Spagna, nello stesso tempo un’altra delegazione delle Tre Leghe si trovava nella stessa città, di cui faceva parte anche Pietro Mazzio di Roveredo, il quale fu denunciato come eretico da un cerusico di Milano. Ludovico Audoano, Vicario Generale di Carlo, avvisò subito il Prelato di questo grave inconveniente con una sua lettera del 21 novembre 1583: <<Questi giorni passati mi fu fatta notificazione contro un messer Pietro Masso Grisione del loco di Roveredo, qual si trovava qui, che fosse heretico marcio, contro il quale, si per le capitolazioni, si anche per haverne fatta parola con quelli de’ la Congregazione del s……. di casa, mi risolsi di non far altro tanto più che essendo da poi statto da me l’Ambasciatore dei Sig.ri Grisoni, mi disse che V. S. Ill.ma era alogiata in casa di esso m.e Pietro. Il notificante vedendo che cossì presto comme forse haveria voluto, non si essequì, fece l’istessa notificazione al Padre Inquisitore, il quale relassò la cattura contra di d,o dinunciato, essendo poi statto detto Ambasciatore dal d.o Imp.re gli scoperse ch’il dinonciante se ben non heretico, fosse un gran furbo e nemicissimo del d.o m.r Pietro, per causa de homicidij erano seguiti tra tra di loro et che d,o denunciato anche andava a messa a Coira>>,[142] quindi manda al Borromeo la copia della notifica e gli chiede di informarsi, se lo ritiene opportuno, su questo fatto, in quanto a lui è venuto il sospetto che il querelante non abbia agito <<…con mala intentionedi offendere con uno stesso colpo il dinonciato, e causare con quella gente qualche disgusto…>>.[143] Cominciò la caccia al presunto eretico da parte dell’Inquisizione, tutto ciò creò una grande preoccupazione in Giovanni aMarca, la cui missione probabilmente mirava ad ottenere appoggi e vantaggi al Borromeo per la sua visita, ma questo fatto rappresentava un grande affronto verso Mazzio, la cui reazione poteva essere quella di istigare disagi al Cardinale,[144] visto le sue importanti relazioni politiche che intratteneva e forse i timori di aMarca non erano infondati perché in una lettera del 26 novembre 1583, Bernardino Morra, scrive che, in un primo tempo, a Coira, per quello che era stato fatto a Milano ad uno di loro, si pensava addirittura di arrestare il Borromeo, poi le acque si calmarono dopo che Morra presentò le scuse a Mazzio, il quale restò soddisfatto.[145]Dalla lettera successiva, del 19 novembre, che Giovanni aMarca scrive a Carlo, dopo le giustificazioni per il suo dilungarsi a Milano a causa dei suddetti motivi, apprendiamo che in sua assenza il Cardinale può valersi di suo fratello Nicolao per la riunione “Beitag” che si terrà a Coira, durante la quale il Prelato avrebbe dovuto ottenere un invito o almeno un permesso ufficiale per una sua visita a Coira e per un’azione più vasta in Valtellina.[146]

Il 22 novembre Borromeo si trovava a Mesocco e sperava di poter varcare il passo del San Bernardino, per continuare la visita nel restante Grigione cattolico e in Valtellina, quando fu comunicato il divieto della Dieta adunata a Coira, con grande soddisfazione del Vescovo della città, Peter de Raschèr, il quale non vedeva di buon occhio la visita.[147] Il Cardinale mandò subito dal Vescovo di Coira il suo segretario Bernardino Morra per rendersi conto di quale fosse stata realmente la situazione. Morra ragguaglia il Prelato sul difficoltoso viaggio attraverso la montagna coperta di neve e nella tormenta: <<…giunsi qui a Sancto Bernardino a mezza montagna con salute, però a notte perché trovai la strada piena di neve che non si poteva cavalcare in ogni luogo, ne prima d’hieri l’haverei potuta fare perché la strada era stoppa affatto nel basso, dove li venti delli giorni passati hanno condutta la neve molto alta>>.[148]  Questo nella lettera del 20 di novembre, in quella relativa al 21 le condizioni atmosferiche sono ulteriormente peggiorate: <<Hieri subito che giunsemo in cima alla montagna nel calare le notti un vento che ci sono li vestiggi della stradda ci riempì in modo le basse, che dopo haver cavato i cavalli in tre o quattro luoghi con grandissima difficoltà dalla neve nella quale erano quasi sepolti, fossemo forzati lasciarli dietro con le robbe…>>;[149]  il vento era fortissimo e la neve ghiacciata sugli occhi, impediva loro la vista, quindi Bernardino Morra procedeva dietro al Todeschino, ossia Ambrogio Fornerio, servitore di Borromeo andando alla cieca, poiché la neve aveva coperto ogni traccia di sentieri; ma scrive anche della generosa ospitalità ed aiuto che riceveva da popolazioni che, ormai, professavano altra fede, addirittura descrive l’interesse che in alcuni luoghi mostrano per la venuta di Carlo Borromeo: <<…dove trovassimo tanta amorevolezza con prontezza in aiutarci massime per recuperare i cavalli, che non si potrebbe dir maggiore. Così andarono quattro o sei huomini (i) qualli a notte gli condussero con grandi difficoltà, sì che Mons.r Ill.mo mio riconosco l’aiuta da singolare gratia n’ha voluto far Iddio, che invero non potrei esprimere i pericoli grandi che habbiam passati, tanto che mi par un sogno […]L’exhibitor del presente è fratello del S.r Ministralle de questi paesi de Valle di Rheno et bene principale in questa terra, qual ci ha alloggiato con tanta amorevolezza ch’io sono restato confuso, e’ m’ha detto (che) anche loro fecero consiglio sopra la venuta di V. S. Ill.ma quale aspetano con grande desiderio con bona volontà di riceverlo et alloggiarlo, et che farano accomodare la stradda della montagna sì che potrà passare facilmente…>>.[150] Il fratello del Ministrale, ossia la persona che ha dato aiuto, affiderà al Borromeo un suo figlio quindicenne per farlo studiare nel Collegio di Roveredo.[151]

Da Coira, dove era arrivato il 22 novembre, Morra scriveva che il Vescovo <<spiritualia negligit, temporalia dilapidat>>, cioè si occupava molto di più delle cose temporali che non di quelle spirituali, facendo una vita lussuosa e dissoluta,[152] ma il compito di Morra era quello di verificare gli ordinamenti del Vescovo nei confronti del Cardinale, il quale stava agendo in luoghi a lui sottoposti, inoltre doveva appurare se fosse stata gradita una sua sosta a Coira, poiché sarebbe passato da quei luoghi per andare al Castello di Hohenems ospite di suo cognato Annibale Altemps, marito sella sorellastra Ortensia. In realtà a Borromeo non interessava tanto di poter predicare nella Cattedrale di Coira, cosa che gli sarà sconsigliata dal Vescovo, ma di persuadere lo stesso Vescovo a revocare il divieto della sua visita in Valtellina: <<Hieri matina giunsi qua in Coira a bonhora, fui raccolto da Monsignor Reverendissimo lietamente, mostrò gran sodisfatione e contento dell’officio che feci seco insieme di Vostra Signoria Illustrissima in darli conto della causa della venuta sua costì, e delle cose ivi seguite. Non haveva inteso prima dell’arrivo di Vostra Signoria Illustrissima costì, perché suo fratello il Conte non è sin’hora ritornato da Milano, ma ben haveva havuto aviso che la voleva venirci per passar poi in Altemps. […] et mi disse che se havesse saputo dell’arrivo suo nella valle Mesolcina sarebbe lui venutoo almen mandato personea basciar le mani aVostra Signoria Illustrissima et invitarla a venir sin qui, come mostra haverne desiderio grande, per farle vedere le miserie di questa sua Chiesa rispetto al governo et ererethij spirituali…>>.[153] Nonostante la diplomazia che Morra usa nella sua lettera, ci sembra poco probabile che il Vescovo di Coira non fosse al corrente che Borromeo si trovava in Mesolcina già da dodici giorni circa e che lo venisse a sapere proprio dal Segretario del Cardinale, anche se in un’altra lettera di Morra al Cardinale datata 26 novembre troviamo: <<Questa mattina solamente Monsignor Vescovo ha ricevuto la lettera del Ministrale de Roveredo con la quale gli dava aviso dell’arrivo di Vostra Signoria Illustrissima in cotesta Valle, così che non era meraviglia se non mandava persona o lettere per compimento et debito suo>>.[154] Il compito del Segretario di Borromeo non si presentava certamente facile: avrebbe dovuto affrontare l’aperta avversione di molti e, soprattutto, le incognite delle soluzioni dell’imminente Dieta: <<…et in conclusione il parere commune sì di Monsignor Reverendissimo, come d’un suo fratello ch’è qua, d’un suo Castellano, del Proposito, et anco del Signor ladrito Galles,[155] col quale ho ragionato questa sera ch’è giunto qua di Borgogna, è che Vostra Signoria Illustrissima sia per ottenere poco o forse niente col passaggio suo di qui, et che più tosto fosse per aportar qualche sospetto nell’animo de popolari che si ritroverano qua alla Dieta, quelli non sono soliti regersi nelle deliberationi con la ragione, ma più tosto con passione et affetto troppo grandi che hanno all’augumento della religione nova, della quale sono le doi parti delle voci>>.[156] Si deduce che, in definitiva, la presenza del futuro Santo avrebbe sortito più guai che vantaggi, anche per quanto riguarda il proseguo della vista in Valtellina, non vi sono speranze di avere il permesso: <<…si crede che gl’officiali di collà non permetteranno che Vostra Signoria Illustrissima faccia atione alcuna spirituale…>>.[157] Nel frattempo, Bernardino Morra cerca parlare a lungo con l’Ambasciatore di Francia, il quale è arrivato da pochi giorni con molto denaro, destinato, probabilmente, a pensioni e spese militari, ma anche molto vantaggioso nell’influenzare le disposizioni.[158] Durante la sua permanenza in Coira, Morra capisce chiaramente che la minoranza cattolica è paralizzata dalla paura, quindi, secondo le decisioni che saranno prese dalla Dieta, il Segretario non sa se è opportuno continuare ad insistere sulle proposte o abbandonarle se non dovessero dare risultati positivi, tutto ciò si può fare, continua Morra, senza mettere a repentaglio la posizione del Borromeo se è lontano, mentre se si trovasse a Coira sarebbe una sconfitta clamorosa. Tra le righe possiamo capire che, diplomaticamente, il Segretario consiglia al Cardinale di abbandonare l’idea del viaggio oltre San Bernardino, come poi avvenne,[159] portando anche l’esempio del Vescovo di Como, il quale: <<…à procurato d’otenere da questi Signoridi poter andare a visitare Valtellina come sua diocesi, et intendo che ha usato diversi mezi anco di quelli che piaciono et trastullano qua, però che mai ha potuto otener cosa alcuna […] l’istesso Ambasciatore di Francia va molto ritenuto et con segretezza nel trattare cose pertinenti la nostra Religione per non dare sospetto a questi popoli quali maggiormente non s’appagano di ragioni, et fra le altre cose mi disse hieri che tre ò quattro giorni passati nel elettione del borgomastro giurarono tutti questi cittadini di non venire alla chiesa per sentir messa, d’indi nasce che sono puniti poi quei che vi vengono >>.[160] Queste due lettere di Morra sono datate 23 e 24 novembre, ma al 23 dello stesso mese risale anche la lettera latina di Pietro Rascher,  Vescovo di Coira, il quale dopo avere parlato con il Segretario del Cardinale scrive chiaramente che una venuta del Borromeo in questa città dovrebbe necessariamente limitarsi ad una mera visita privata: se il Cardinale vuole passare per Coira per recarsi dal cognato, i cittadini lo accoglieranno con i più alti onori e non impediranno una visita alla Cattedrale, ma non vorranno che tenga un discorso al popolo e anche se lo volessero, verrebbe dissuaso dallo stesso Vescovo, perché, in momenti così delicati, sarebbe fuori luogo e sedizioso.[161] La lettera è datata agli idi di novembre che cadevano il 13 del mese del vecchio calendario, quindi rapportata al computo del nuovo calendario risulta scritta il 24 di novembre.[162]

In un’altra lettera del 2 dicembre, Pietro Rascher insiste sulla difficoltà suscitate da parte dei riformati sopra un’eventuale intromissione del Borromeo negli affari della Diocesi: al “bitag” delle Leghe, i Cattolici ribadivano che il Cardinale doveva essere ricevuto senza riserve, la parte opposta si opponeva con forza e il Vescovo venne a trovarsi tra l’incudine e il martello, ovviamente ebbero la meglio gli scismatici molto più numerosi degli altri: <<E contra novum Scisma Sectantes in nos fulgurabant. Sic inter malle(u)m et incudem constitutus, tandem maior pars in deliberando meliorem vincit>>.[163]

Viene decretata la concessione del libero passaggio, attraverso quei luoghi, al Borromeo e al suo seguito, con ordine di accoglierlo con il degno omaggio. Questa lettera deve essere stata scritta dal Vescovo prima di ricevere quella che il Cardinale gli scrive il 28 novembre, dove gli comunica la sua rinuncia al proseguimento del viaggio, essendosi prolungati più del previsto i tempi della visita in Mesolcina, e a Milano lo aspettano i suoi doveri di Arcivescovo, essendo vicino il Natale, oltre ad altri improrogabili impegni: il consiglio di Bernardino Morra è stato ascoltato e la dignità del futuro Santo è salva.[164]

La Valtellina e la Valchiavenna furono sempre ecclesiasticamente dipendenti dai vescovi di Como, civilmente appartenevano al Ducato di Milano dal 1335, ma quando i Francesi, nel 1499, occuparono il detto Ducato, invasero anche queste Valli, usando soprusi ed esigendo tasse non sempre legali fino al 1512, quando i Francesi furono costretti ad abbandonare Milano, sconfitti dalla Lega Santa, che improvvisamente si era alleata con Venezia, con i Savoia e la Svizzera per frenare l’esagerato potere della Francia. Come da accordi con gli alleati, i Grigioni entrarono nelle Valli il 27 giugno 1512 e con il giuramento di Teglio vennero annesse alle Tre Leghe, il cui dominio durò fino al 1797. L’importanza della Valtellina come crocrocevia europeo e la proclamazione della libertà di culto favorirono l’immigrazione di riformati italiani. La situazione non era molto diversa da quella della Mesolcina: gli stessi problemi religiosi e morali dividevano i Cattolici dai Riformati e i primi, visto l’esito positivo della visita in Mesolcina, aspettavano la venuta del Borromeo nelle loro Valli, tutto questo lo possiamo apprendere da una lunga lettera che il Prelato scrive senza specificare il destinatario, ma all’inizio troviamo “Per Franza”: <<Dall’essempio del bene seguito nella Valle Mesolcina, il S. Cardinale prese ferma speranza di far gran frutto nella Valtellina, et così determinò d’andarvi come havea anco designato prima…>>,[165] ma tutto ciò fu impedito durante la Dieta di Coira, come già detto, <<…et perché non haveano ragione alcuna , si valsero dell’occasione di certa voce quale allora si era cominciata a spargere, che si trattasse nuova lega fra i Grisoni et il Re di Spagna, con dire che il S. Cardinale non voleva andare in quei paesi loro per fine spirituale, ma per detta nuova lega et negotij di stato…>>. L’Ambasciatore di Francia, col quale Bernardino Morra trattò particolarmente l’argomento della visita in Valtellina, si mostrò favorevole all’inizio, <<…ma poi entrato anco esso in sospetto, et gelosia del sudetto trattato di nuova lega, si raffredò, et forse fece qualchi ufficij contrarij…>>. Successivamente i Grigioni mandarono in Valtellina e Valchiavenna quindici commissari <<…la maggior parte heretici dove hanno tormentato aspramente l’Arciprete di Sondrio, quale si trovava già detenuto sotto pretesto c’havesse tenuto mano a certi rumori, et risse che poco avanti occorsero in Sondrio fra catolici, et heretici..>>, nonostante sia poi stato dichiarato innocente fu condannato a pagare più di 200 scudi per delle inesistenti spese, peggio ancora fu costretto a promettere, sotto giuramento, diverse cose non specificate.[166] Furono incaricati trenta uomini della Valtellina e dei luoghi vicini per andare a Coira a recriminare per i tanti soprusi patiti dagli abitanti cattolici, ma da un documento senza data e senza destinatario troviamo: <<Quelli c’havranno la cura del maneggio della negotatione della Lega co’l Re Catolico, si risolsero ultimamente d’andarsene a Coira, con disegno di trattar la apertamente, con una buona somma di danaro, et vi andarono, ma il Capo della Lega delle Dritture, non vi comparve, et eglino quando hebbero aspettato sette giorni, forse parendogli troppa indignitàdel loro Re si risolsero di partire senza parlare di questo negotio, et così è restato estinto affatto per adesso>>. [167] Bernardino Morra, in una lettera del 10 agosto 1584 riferirà al Cardinale di avere appreso dal Todeschini, che a sua volta aveva avuto la notizia da persona sicura, che i Gigioni vivevano nella paura di perdere la Valtellina e i loro commerci con Milano, tanto che hanno avuto un incontro segreto con i Cantoni “eretici” e sembra che “habbin fatto lega particolare”, ma alla Dieta che si terrà a Bada il 26 dello stesso mese parteciperanno sia i Cantoni cattolici sia quelli riformati, per cui, suggerisce il Segretario, è necessario mandare uomini bene informati sulla situazione per dimostrare le ragioni dei Cantoni cattolici. Da notare la capillarità della rete di informazioni che il Borromeo aveva costituita non solo nei luoghi sottoposti alla sua giurisdizione, ma in tutta l’Italia.[168]

L’Arciprete di Sondrio, Giovanni Giacomo Pusterla scrive alcune lettere al Cardinale durante la sua detenzione, da cui apprendiamo che il 19 aprile1584 si trovava in prigione per le accuse suddette, in realtà perché si oppose all’istituzione di un collegio, ufficialmente pluriconfessionale, ma chiaramente di ispirazione riformata. I cattolici si ribellarono a tale iniziativa, per timore che la scuola avrebbe favorito la religione riformata ed avrebbe portato dei gravi frutti morali, presto scoppiò un tumulto che si trasformò in un caso politico quando le Tre Leghe inviarono dei commissari per fare indagini sulla sommossa, furono arrestati alcuni uomini per sospetto di avere fomentato tale sommossa, tra questi vi era l’Arciprete di Sondrio e dalla prigionia scrive al Borromeo: <<Hoggi è il quinto giorno, ch’io con mio fratello, et doi altri buoni catholici ci troviamo prigioni del S.r Gov.ori nostro per difensione di S.ta chiesa, per la quale si sollevò tutto il nostro popolo contra heretici, come credo ceh V.S. Ill.ma haverá inteso da diversi predicatori di questa Valle […] Ha puochi giorni, ch’io ricevei altre sue mandatemi da Mons.r R.mo nostro di Como, alle quali non so che altro respondere per non esser presso di me. Uscito che sarò di prigione, attendero ad esequir fedelmente quanto ella me haverà commesso, come anche farò circa le Commissioni matrimoniali mandatemi, et ogni cosa, ch’ella si degnerà di commandarmi.Di Sondrio il 19 di Aprile 1584. Devotissomo Servitore. L’Arciprete di Sondrio carcerato per S.ta fede>>.[169] Un’altra lettera, del 28 maggio dello stesso anno, ci informa che <<Qui in prigione, dove io sono ancora per la gratia di Dio, ho ricevuta la consolatoria lettera di Vostra signoria Illustrissima la quale m’ha portato abundante spirito per tollerare le gran persequtioni, che habbiamo da nemici di Santa Chiesa […]La nostra detentione si va allongando, et dubbito che la causa si porti nel prossimo Pithac del Corpus Domini, nel qual haveremo maggior contrasto che non habbiamo qui, perche allora li Predicanti Luterani si ritrovano tutti in Coyra al loro Synodo che fanno…>>.[170]

In una lettera, dell’11giugno, scritta dal nipote dell’Arciprete di Sondrio, Nicolò Pusterla al Cardinale, possiamo capire che la situazione era molto grave: <<Come servo obedientissimo di Vostra Signoria Illustrissima l’aviso di tutto quel che qui è bisogno per il servitio di Dio. Ho trovato nella mia aggionta, mio zio l’Arciprete di Sondrio anco priggione, et la cosa assai piu pericolosa di quel che io credevo havendo egli oltre la priggionia datta securtà di domila scudi per esser stato accusato di rebelle et di seduttore. Et in vero, come ho inteso qua, l’anticolleggio si sarebbe piantato, se l’armi non fossero state interposte, et ancora che dal esser state pigliate l’arme nati questi puochi travagli pur molti beni ne sono nati…>>,[171]ossia i Riformati si sono ritirati e la sommossa ha accentuato il fervore dei Cattolici. Nicolò continua dicendo che lo zio non è in grado di pagare una tale somma, quindi supplica il Borromeo d’intercedere presso la Santa Sede, affinché arrivi da Roma qualche aiuto economico. Nicolò Pusterla era Canonico di Coira e dall’inizio della lettera possiamo notare che faceva parte degli “informatori” che l’Arcivescovo aveva ovunque. Nel 1590 fu nominato dal popolo Arciprete di Sondrio, essendo lo zio stato costretto a fuggire a Roma, ma anche lui fu vittima dei Protestanti e sembra sia morto in prigione, avvelenato dal Governatore della Valle.[172]

Il 13 di giugno, Giovanni Giacomo Pusterla scrive a Carlo che finalmente lui e gli altri carcerati sono stati tutti rilasciati, ma egli ha dovuto pagare duemila scudi, gli altri mille a testa, con l’obbligo di essere a disposizione del Governatore e di non lasciare la città di Sondrio, ma i Giudici tardano a spedire la causa, forse, suppone il mittente, per poterla presentare al prossimo <<…Pithac per darci forse o maggior travaglio, o qualche castigo a lor modo tanta e’ la persequtione che habbiamo da questi indemoniati heretici>>.[173] Il Pusterla, comunque, non demorde, infatti così scrive il 22 giugno: <<Dapoi ch’io son uscito di prigione con segurtà però di representarmi, non ho mancato di far tutti quei offici gagliardi, che mi siano stati possibili, per unire questi popoli, accio facessero li suoi messi speciali per la causa di religione da mandarsi al prossimo Pithac, con persuaderli che il Signore con suoi potenti instromenti è per aiutarci adesso, quando da se stessi non si manchino. Tuttavia io veggo che questa Valle, contra ogni mia dissuasione fattagli, vuole preferire la causa de’ Signori Commissarij, che s’habbino da levare, alla causa spirituale della religione, cosa che è contra il vero ordine, et che poi secondo l’occasione che ne haveranno, attenderanno ancora alla causa spirituale secondariamente. […] Credevo, et desideravo andar io stesso al prossimo Pithac, ma per la segurtà data, non posso partirmi di Sondrio>>.[174] In un documento senza data e senza firma troviamo i <<Rapporti di alcuni particolari in materia della fede agitatai nella presente Dieta de Sig.ri Grisoni fatta in Coyra>>, dal quale apprendiamo, dal primo punto, che i Signori dei cinque Cantoni svizzeri hanno riferito, durante la Dieta, di avere ricevuto delle lettere dal Pontefice, dal Re e dai Signori veneziani, in cui affermano di avere sentito dire che i Grisoni non lasciano libertà di culto ai loro sudditi cattolici e di voler istituire un Collegio luterano in Valtellina, che, per essere ai confini degli stati dei suddetti mittenti, <<…porta pericolo certo alle anime de loro popoli…>>, quindi è desiderio che l’Istituto non venga eretto, <<accio si possa continovar nella passata buona vicinanza, che altrimenti per essere inovatione contra le conventioniloro, se sarebbono tenuti per conservazione de loro stati farli altra provvigione…>>, pertanto, considerando gli inconvenienti che potrebbero verificarsi, esortano  a non  <<aggravar gli loro sudditi nelle cose della fede>>.[175] Il Cardinale Savelli viene informato dell’istituzione del collegio dal Borromeo, in una sua lettera del 18 agosto 1583, quindi quasi un anno prima dei suddetti fatti: <<Ho havuto la certezza della fondazione do quel Colleggio d’heretici in Sondrio, al quale quei Signori Grigioni haveano applicata l’entrata della prevostura di Tir (Tirano) ma i Cattolici si sono in modo adroprati, che hanno attenuta la metà di quell’entrata, per poter, ancor essi, fondar una scuola Cattolica. Il che è di men male, in cosa pessima com’è quella…>>.[176]

Il secondo punto tratta dei predicanti eretici …<<che ressidono in quello paese che si trovano in Coijra al n° de 65 inc.a in al sinodo che facevano, hanno decretato che nelli loro paesi de sudditi non sia accettato ne admesso alcun prete ne frate forastiero, et di più che tutti quelli che ci soni siano espulsi…>>.[177]

Dal terzo punto veniamo a conoscenza che sono stati incaricati quindici “Sindicatori”con ampia autorità, per inquisire e processare nel territorio della Valtellina e Valchiavenna e punire tutti quelli che hanno <<…parlato contra gli hereticio fatto qualche movimento de Zelanti et buoni cat.ci nella osservazione della quadragesima et feste secondo il calindario novo, et de altre cose al tempo che furono scacciati gli R.di Padri Predicatori da Chiavenna a da Valtellina, et in altri tempi, de quali persone ne hanno in nota in quantità, et detti sindicatori hanno autorità di piantar sudetto collegio et di lasciar, ma si dubita per instigatione de predicanti et altri maligni spiriti havrà pur troppo effetto, massime per esserne tra detti 15 solo 3 inc.a de catolici. Hanno ancora autorità di reformar et aggravar il processo del R.do Arciprete di Sondrio non contentandosi del formato perché gli parerà leggiero da non poter satiar lìingorda voglia dell’avaritia>>.[178]

Il 27 giugno 1584 “Li Amb.ri della generale libera Lega Grisa, di presente in Coijra congregati”in una lettera dichiarano la loro non contrarietà all’erezione di un Istituto, anzi esprimono la loro ammirazione per questo cristiano proposito.[179]

Molto interessante è la lettera che Scipione Calandrini,[180] noto eretico lucchese trasferitosi in questi luoghi, scrive, a sua discolpa, al Governatore e al suo Vicario, circa una presunta disputa che il Borromeo avrebbe fatto in Chiavenna per far capire le differenze tra la religione cattolica e quella protestante, ma soprattutto per mettere in evidenza gli errori di quest’ultima, ma, secondo alcune persone, tra questi fra Francesco da Balerna predicatore francescano, che i riformati avrebbero impedito tale discussione. Data l’importanza del documento, riportiamo il testo integralmente: <<Ill. Signore Governatore e voi Mag. co S.r Vic. Ro Essendomi statto detto da piú persone degne di fede che Fra Francesco da Balerna franciscano al presente predicatore in S. Gervasio habbia detto et affirmato ch ‘l Cardinal Borromeo habbia voluto piantar una disputa in Chiavenna sopra le differenze della Religione per far conoscere i nostri errori, e che noi non l’habbiamo voluto consentire, e che se li nostri Illustrissimi Signori permettessero che egli venisse in Valtellina con li suoi Theologi che disputariano con noi e ci convincariano, ma che noi l’impediamo. E di più essendo certificato ch’egli va tentando hor questo hor quello de li nostri, e che non havendo dal principio ricusato di confrontarsi con meco sopra gli articoli discrepanti tra noi, anzi essendosi offerto di mettere ancora le cose in scritto, poi quando si è voluto venire all’effetto, dandogli solamente tre conclusioni, non ne ha voluto far nulla, dicendo essergli prohibito da gli suoi superiori di disputar con noi e che io doverei andare a Como o a Milano, dove sarei convinto, e che si constituerà qui prigione se medesimo, facendo ancora venire tre o quattro gentil huomini Principali di Como che staranno qui per hostaggi fino che io con quelli fussero meco ritornassimo a casa, e simili altre cose. Per tanto havendo fatto consideratione sopra le dette cose mosso dal debito dell’officio mio e della mia vocatione che è di difender la verità con ogni debito modo, e resistere alle oppugnationi di essa, e stabilire gli infermi contra le tentationi che sono lor fatte e dare occasione agli alieni di aprire gli occhi alla verità, e accostarsi alla dottrina sincera, ma non ho voluto ne potuto mancar di presentarmi dinanzi alle SS. VV. con supplicarle di far domandare il detto frate Francesco, e fargli intendere la mia risposta, e la mia protesta quale io faccio alle proposte sue, la qual risposta e protesta è la seguente. Prima che non si troverà mai esser vero, che il Cardinale Borromeo habbia procurato che si facesse una disputa in Chiavenna sopra le differentie della Religione, molto meno è vero, che da noi tal disputa sia stata impedita.

Di più che non si trovava mai esser vero, che da noi sia statto impedito, che il medesimo non si facesse in Valtellina, quando il Cardinal Borromeo havesse ricercato tal cosa da nostri Ill.mi S.ri cioè che fusse ordinata da loro Ill.me Sig.re ma publica con li suoi debiti ordini e regali, quali si usano nelle dispute publiche, nella quale si confrontassero i Theologi dell’una e dell’altra parte, per discutere con argomenti e ragioni vere e farne le differentie della Religione, come è statto fatto più volte in Germania, in Inghilterra, in Francia, e nella helvetia.

Di più che basta l’animo di fare che il detto Cardinale ricerchi tal cosa da nostri Ill.mi S.ri si come ho detto, io prometto fare ogni opera possibile con li miei compagni, e Hon.di fratelli Ministri della parola di Dio appresse de nostri Ill.mi S.ri che gli sia concessa la sua domanda, protestando dinanzi a Dio e a tutto il mondo che noi non ci ritireremo mai indietro da simile confronto, anzi che lo desideriamo sommamente si per sapere che è desiderato da molti dell’una e dell’altra Religione, come ancora per essere questa una delle vie principali da far venire molti in cognitione della verità.

Quanto poi al mio particolare ch’egli dice, ch’io vada a Como, o a Milano, per disputar là essendo prohibito a lui di disputare qui. Rispondo. Prima che questa sua fuga, perché si sto arrivando da ogni uno con quanta pena sia prohibito a qualunque persona si sia in Como, Milano, e in qualunque altro luogo la Chiesa Romana ha imperio assoluto di disputare delle cose della Religione, non meno di quello sia prohibito alli suoi seguaci di disputarne altrove.

Di poi la vocation mia e di miei compagni non è d’andar quà o là senza legittima vocatione  a predicare o disputare, ma solamente dove siamo chiamati con li modi prescritti dalla parola di Dio. Ma esso e li suoi simili andando qua e là, e potendo venire a disputare con noi in questi paesi liberi senza alcuno periculo, dove sono tutte  due le Religioni, e dove si dee cercar di disinganare quelli ch’essi affermano esser in errore, doveriano venire quà a simili confronti con noi, e non invitare noi là dove non habbiamo ne possiamo andare senza esser notati di poco prudenti.

Ma perché dice di dare sofficiente sicurta e 5 ostaggi per me e per quei compagni che fussero meco, per mostrargli quanto io mi confidi, non nella sofficientia mia, ma nella buona conscientia e nella buona causa nostra, se egli operera che in Como o in Milano si faccia una disputa che sia publica, e che io con due compagni siamo domandati alli nostri Ill.mi S.ri dando il salvo condotto come va dato, con le sicurta e hostaggi ch’egli dice: io prometto fin hora dinanzi a Dio e a tutto il mondo di andare, e disputare con ogni sincerita secondo la gratia, che Iddio mi dara: Con questo pero che tutti li atti e gli argomenti con le risposte loro siano messi in scritto, accioche possiamo render conto a li nostri Ill.mi S.ri e alle nostre Chiese di tutto quello sara seguito, e acciché ogni persona pia et d’intelletto possa vedere chi habbia torto o ragione.

E quando tal cosa non posso ottenere dalli suoi superiori da basso e che si contentino che senza fare altre andate ne di noi in là ne di essi in qua ( per mostrare che siamo pronti di venire in tutti modi a ogni legittimo confronto) si contentino dico che si disputi per via di scritture, le quali senza pericolo alcuno e senza spesa si possono andare inanzi e in dietro, io offerisco loro ancora questo mezzo. E così si potra cominciare dalle tre conclusioni presentate al detto frate Francesco, che trattano della autorita, sofficentia, e sola Regola della Santa Scrittura in tutte le cose appartenenti alla fede, alla vita, e al governo della Chiesa Christiana e vera Catholica e Apostolica.

Questa è la risposta e la protesta mia, la quale fo a voce dinanzi alle S.re V.te e la do in scritto, sotto scritta di mia propria mano, accioche la facciano intendere al detto frate Francesco e ne ricerchino la risposta. Di che ne supplico le SS. VV. Con ogni desiderio maggiore che per me farsi possa, pregando la Divina Maesta per ogni loro perpetua felicita.

In Sondrio alli X di marzo 1584

Scipione Calandrius Ministro della parola di Dio, in Sondrio, manu propria>>.[181]

Il Cardinale aveva capito che la situazione presente in Valtellina era legata più ad interessi temporali ed economici che non a quelli religiosi e si era reso conto che non poteva avere successo la sua visita se non fosse appoggiata dall’azione politica. Il suo desiderio non era quello che le due Valli fossero tolte ai Grigioni per darle alla Spagna, voleva che le condizioni dei Cattolici fossero meno dure. In una sua lettera il Cardinale Speciano non nasconde a Carlo che a Roma c’era preoccupazione per le conseguenze che si sarebbero riscontrate se la Spagna avesse conquistato la Valtellina; l’Arcivescovo rispondeva che non credeva che la Spagna mirasse a quella conquista, ma se mai accadesse egli sarebbe riuscito a convincere il Re ad un compromesso pacifico con i Grigioni, limitando l’azione solo a fini religiosi. Questo fa capire la consapevolezza del Borromeo di padroneggiare la situazione politica dello Stato di Milano e di poter rivolgere la politica monarchica spagnola ai fini dei suoi disegni di restaurazione spirituale e religiosa.[182]

L’Arcivescovo non perde tempo a far valere la propria autorità e in una lunga lettera al Governatore di Milano, Duca di Terranova, descrive la situazione di queste due Valli e quello che urge fare, data l’importanza del documento riteniamo opportuno trascrivere i passi più significativi: dopo avere con precedenti missive informato il Governatore della Visita in Mesolcina e spiegato i gravi disagi cui sono sottoposti i cattolici della Valtellina e Valchiavenna, tanto da chiedere aiuti, sarebbe una buona occasione fare di tutto sollevare questi popoli da tante oppressioni, con grande vantaggio della religione Cattolica.  <<Hora perché dalla lettera che mi ha scritto S. M.tà per questa causa, vedo quanto essa desidera ch’io continui gli officij che incominciai l’anno passato in beneficio spirituale di quei paesi, e promette d’aiutare e favorire dal suo canto in tutto quello che si conoscerà esser spediente, et a questo effetto mi dice S. M.tà ch’io posso andar comunicando con V. Ecc.za quello che occorre, in ch e lei possa aiutar questo servitio del Sig.re tanto importante>>. Continua parlando delle cause che hanno portato alla situazione attuale e che non si discostano molto da quelle della Mesolcina; i rimedi consistono nel visitare quei popoli, provvederli di validi religiosi, esortarli con ogni mezzo per farli tornare nel culto di Dio, impedire agli eretici <<…finché non si ha braccio ne forza di levar la libertà loro diabolica, di vivere nell’eresie, almeno procurando di andar disingannando molti sedutti, istruendo gli ignoranti, come sono per lo più quelle genti  […] Il che tutto si è veduto con effetto manifestamente nella Valle Mesolcina deve la visita solamente di quindici giorni, e sue conseguenze, essa Valle, con molta facilità, e suavità, si è riformata tutta, e rinovata spiritualmente>>. I provvedimenti che il Borromeo vorrebbe prendere sono gli stessi attuati in Mesolcina, <<Ne basterebbe l’impedir l’erettione di quella scuola eretica, che disegnano i Grigioni di piantare in Sondrio terra principale della Valtellina, perché sebbene questa e cosa d’imporetanza, per il danno che risulterebbe da essa scuola alla religione cat.ca in quei paesi, et altrove massimamente a questo Stato di Milano, per la vicinità sua, e Commercio, nondimeno restando tuttavia privi li cat.ci delli aiuti spirituali […] Vi sarebbe un’ altro capo da dimandarsi, cioe che nelle terre del sud.to paese loro non fossero più accettati e tollerati e fuggitivi d’Italia, S. M.tà può pretendere questo, anco per ragione di Stato, et di buona vicinanza…>>, infatti i Grigioni sostengono, continua il documento, di voler essere in buoni rapporti con il Re di Spagna, soprattutto per il commercio con l’Italia e lo Stato di Milano, ma è proprio con questi contatti che le eresie si propagano anche per mezzo di libri proibiti, quindi il Prelato suggerisce al Governatore un certo comportamento: <<Quanto al modo co’l qual s’ha procedere, per ottener da Grigioni, che diano alli catolici del paese loro queste ragionevoli sodisfationi V. Ecc.za vede che non è spediente trattar con loro, per i termini amorevoli, e civili, perché essendo eretica la maggior parte de capi, li quali hanno il governo in mano, conosciamo, ch’ogni libertà, che si dia a Cat.ci e contraria allo scopo e fine loro, che e d’allargar l’eresia et annichilar la relig.ne cat.ca. […] E’ necessario dunque trattar con loro risentitamente, dimandando che devano lasciar i paesi, e popoli loro e dei suoi sudditi, mass.e di Valtellina, e Valle di Chiavenna e contorni di qua da monti nella libertà di vicere cattolicamente, nel modo, che si e esplicato di sopra, con protestargli che altrimente S. M.tà non potrà di meno, che non porga ogni aiuto e soccorso a catt.ci, acciò possino havere la sudetta intera libertà>>. Certamente, prosegue il Cardinale, la richiesta del Re deve essere molto risoluta per ottenere lo scopo, un altro mezzo che può essere molto convincente <<…è la proibizione totale del commercio de popoli di quel paese, con questo stato di Milano, perché V. Ecc.za ha a sapere, ch’l governo loro è in mano d’alcuni capi li quali per esser la maggior parte eretici […] Et perché intendo che V. Ecc.za da pochi giorni in qua ha serrata la tratta de’ grani di questo Stato, crederei fosse espediente tenerla serrata particolarmente per essi Grigioni, et ch’ella, presentandosi occasione, si lasciasse intendere, che non la vuole concedere, per gli aggravij, et oppressioni fatte a cattolici del paese loro, mass.e della Valtellina e contorni, che sono di qua da Monti, affinche questo penetrasse alle orecchie de popoli di la da monti, li quali forse potrebbero far motivi tali, contra i sud.ti capi eretici del governo>>. Quasi alla fine della lettera, il futuro Santo mette da parte la diplomazia ed esplicitamente scrive che se il Re non dà rapidamente il suo aiuto, i Grigioni potrebbero allearsi con gli Svizzeri cattolici, alleanza che sarà discussa nella prossima Dieta, e allora tutti gli aiuti saranno vani, in quanto le loro forze saranno maggiori. Il Governatore, quindi, cominci subito con la proibizione della tratta dei grani e pubblichi la causa di tale divieto, ottenga quanto prima il permesso del Re per chiedere ai Grigioni di ristabilire la libertà per i cattolici, facendo leva sulla giustificazione di aiutare i cattolici,   avvertendoli di impedire il loro commercio e di prendere sotto la sua protezione gli stessi cattolici. <<…tenendo per fermo che in occasione di tanta importanza, quanto e l’aiuto di tante anime, l’aprir la porta di far progresso fin oltre di la dà monti, alla conversione di quei popoli; et la sicurezza di questo suo Stati di Milano non mancherà di dar subito a V. Ecc.za quelli ordini e risoluzioni, che sono necessarie, et che convengono alla pietà, e zelo Christiano, col quale S. M.tà ha sempre havuta particolar protettione dalla religione catolica>>.[183]  

In un documento, relativo al primo dicembre 1583, giorno della Dieta, Bernardino Morra così scrive: <<1583 il dì primo Decembre o sia pitacho de Signori Grigioni, Io Bernardino Morra comparvi doppo haver presentata la lettera (spazio vuoto) dissi alli Signori ivi congregati che potevano essere circa 70, che haveva havuto commissione da Monsignor Cardinale Santa Prassede mio padrone di venir qua a Coyra a dar conto a Monsignor Reverendissimo delle cose occorse e successe nella valle Mesolcina pertinenti al spiritual, come a pastore t ordinario, accioche potesse dare quelli ordini et far quelle provvigioni che fossero necessarie per aiuto dell’anime di quella Valle, et di qui ringratiar le signorie loro dell’amorevol offerta che haveano fatto a Sua Signoria Illustrissima di raccoglierlo et honorarlo volendo venir a transitar per il loro paese e dominio…>>,[184] quindi il Segretario dice di trovarsi li per salutare e ringraziare tutti a nome dell’Arcivescovo, il quale essendo indisposto non avrebbe potuto passare per quei luoghi e per questo porgeva le sue scuse. Fu detto al Morra di ritirarsi che subito gli avrebbero dato la risposta, poco dopo fu chiamato da Galles de Mont, Landrichter della Lega Grigia, che a nome di tutti disse che erano sempre stati favorevoli al Borromeo nel servirlo ed onerarlo quando a lui sembrerà opportuno “transitar” per il loro paesi non mancheranno di mostrare questa loro buona volontà. Morra risponde che al momento non ha disposizioni per programmare tale visita,  <<…ma ben credeva che Monsignor Illustrissimo non hebbe ne pensiero di transitar per quei paesi per far visita formale ne cercar giurisdittione, ma solo per far li suoi cercoli spirituali nelli luoghi cattolici per giovar a prossimi come ogn’anno è obligato di far e così mi partei con intentione che mi dessero risposta in scritto>>.[185] Il documento riporta la firma di due testimoni. La risposta la conosciamo.

In una lettera del 3 dicembre, scritta da Roma e indirizzata a Carlo Borromeo, il Cardinale Speciano si congratula per l’esito positivo della visita in Mesolcina, ma non riesce a credere come possa fare visite formali, non perché non le debba essere permesso, ma essendo il paese tanto povero e “malavezzo”, come fanno ad eseguire poi quello che viene ordinato, specialmente se ciò comporta delle spese, come è solito avvenire in queste visite formali della Chiesa. <<Et quanto alla correttione di costumi, spero che ella sarà obedita, massime se lo si lasciarà intendere di voler tornare , o mandar Monsignor Borsato, di cui non voglio lasciar di dar conto a Nostro Signore et della sodisfattione che egli da in queste visite, et poiché Vostra Signoria Illustrissima ha paura che il Vescovo di Coira dia più fastidio che aiuto, s’ella vorrà si farà officio qui che gli sia scritto caldamente in questa materia, perché è troppo gran Travaglio et insoportabile l’haver paura che il Vescovo a cui per officio proprio tocca d’aiutare, di sfavorisca simil impresa>>.[186]  Altre lettere del Cardinale Speciano ci informano di come il Papa e la Corte pontificia si rallegrino e preghino per l’esito della visita, che non deve essere abbandonata visto i frutti dati, le lettere sono datate 10, 17, 24, 31 dicembre 1583:[187] questo ci fa capire che Carlo ha tutto l’appoggio della Santa Sede e la rinuncia nel proseguire la visita non sembra essere bene accolta dal Cardinale Savello: <<Ho dato al Signor Cardinale Savello la scrittura de’ Grigioni, la quale ha letto non già con la solita consolazione, et veggo quanto saria stata più espediente se si fosse andato a dar il primo assalto al luogo più principale per ogni cosa potrò resultare a maggior servitio et honor di Dio, ma bisogna, credo io, risolversi d’andar una volta a Coira all’improviso, acciò si levi la commodità et tempo alli predicanti d’opporsi, così come hanno fatto questa volta che sono stati creduti perché quei populi simplici non sapevano il procedere di lei…>>.[188]

Carlo Borromeo tornò a Milano gli ultimi giorni di novembre, numerose furono le disposizioni ordinate per tutti gli affari ecclesiastici, che dovevano garantire i frutti della visita, che il futuro Santo scrive in una lettera inviata all’amico Cardinale Gabriele Paleotti, quando ancora si trovava a Bellinzona il 9 dicembre, in cui dice di avere trovato <<…le cose del culto divino sordide et inculte et come deserte trovato affatto: colpa et negligenza dei sacerdoti vecchi…>>,[189] i quali una parte erano di quei luoghi e non seguivano nessuna riforma, erano senza disciplina e conducevano una vita dissoluta; l’altra parte erano forestieri, vagabondi, fuggitivi ed apostati. Si può immaginare quanto gli abitanti di questi paesi siano bisognosi di aiuto spirituale visto gli esempi che hanno avuto da coloro che dovevano guidarli al bene. Il Cardinale, continua dicendo che ha lasciato nelle parrocchie solo quei sacerdoti che gli sembravano “tollerabili”, gli altri sono stati rimandati ai loro ordini religiosi oppure rimossi dalle loro cariche, assicurandosi che tutti siano aiutati, ad eccezione di <<…uno più importante et principale dei contorni sono stato sforzato dare in potere de braccio secolare, convenendo così per la gravezza et enormità de’ suoi delitti et per leggi de’ sacri canoni…>>.[190] Si tratta di Domenico Quattrino, Prevosto di San Vittore, di cui abbiamo parlato prima. Per quanto riguarda il popolo, l’Arcivescovo ha visto grande attitudine e desiderio di essere aiutato, quindi non sono mancate le pratiche religiose, seguite da gran numero di persone e con molta devozione, che hanno riportato molti alla religione cattolica in tutti i luoghi visitati, anche se qualcuno è rimasto “ostinato”. La lettera si conclude con un riferimento alle presunte streghe: <<Si è atteso anco a purgare la Valle dalle streghe la quale era quasi tutta infettata di questa peste con perditione di molte anime, tra le quali molte si sono ricevute misericordiosamentea penitenza colla abiurazione, alcuni dati alla corte secolare come impenitenti, con publica exetutione della Justitia>>.[191]

Borromeo prese anche provvedimenti per i matrimoni, poiché molte erano le unioni illegali, per l’esecuzione dei testamenti e contro l’usura. Data la situazione generale, anche l’istruzione pubblica si trovava in uno stato deplorevole, tanto che Carlo provvide immediatamente a far mandare due maestri da Milano a Roveredo; decretò la fondazione di un collegio in cui avrebbero insegnato quattro Padri Gesuiti, fu subito allestita la prima sede provvisoria in casa del Ministrale Giovan Battista Sacco, ossia Palazzo Mazzio, poi quella definitiva a Palazzo Trivulzio, che nel 1549 era stato riscattato dalla Valle che ne divenne proprietaria, nel 1552 fu venduto dalla Valle, per la somma di 1700 scudi d’oro, al Capitano Marchino aMarca, ma riscattato di nuovo dalla Valle in occasione dell’istituzione del collegio. Gli ultimi giorni di dicembre erano già arrivati due maestri Gesuiti e tutto era stato disposto per accogliere 10 o 12 alunni, infatti in una lettera datata 8 gennaio 1584 di Padre Carlo a Borromeo troviamo: <<…sappia, che già facciamo la schuola nella stanze del Palazzo, ove andremo ad abitare la settimana che verra, havendo fatto acconciare tre buone stanze, et la cucina; et mi risolvo di fare anco accomodare due altre camere, et una stanza da basso molto capace et apropriata per le scole, però che queste non sono bastevole per si copiosa moltitudine, che concorre; perciò sarà ben sollecitare la provvisione assegnata da Nostro Signore>>.[192]  Il 23 gennaio Padre Carlo suggerisce, in una sua lettera, al Cardinale di sollecitare il Pontefice per l’acquisto del palazzo prima che qualcuno metta i bastoni tra le ruote, evidentemente aveva reso adatte altre stanze perché gli alunni erano più di cento.[193]

Per l’apertura dell’Istituto occorreva il permesso delle Tre Leghe, ma i Protestanti, che erano in maggioranza, scatenarono la loro offensiva a causa della presenza dei Gesuiti, che si rifugiarono nella prima sede e il Collegio dovette essere chiuso nel 1585.[194]

Nicola aMarca, fratello del Ministrale Giovanni, va a Coira il 10 gennaio 1584 e trova grandi tumulti nella città a causa della visita de Cardinale nella Valle Mesolcina, dell’istituzione del Collegio di Gesuiti e soprattutto contro il Ministrale, considerato fautore della visita, motivo di tante conversioni: <<Et questo tumulto veneva dal Imbasciatore di Francia, che si dubitava che li nostri populi volessino fare lega con il Re Catholico di Spagna, et co’ il Duca (di Savoia) per respetto di Geneva, come si dubitava>>.[195]

Le ragioni del divieto posto a Borromeo dalla Dieta e di tutti gli altri disordini, non sono solo di origine religiosa ma anche politico. Non meno preoccupante è il tenore della lettera che Galles de Mont scrive all’Arcivescovo il 13 gennaio, dove dice che non ha potuto rispondere subito ad una sua lettera per la grande confusione creata dai ministri Luterani sempre per le stesse cause, e lui è accusato di avere sostenuto la venuta del Cardinale in Mesolcina, di essere cattolico e in buoni rapporti con Borromeo. Parla brevemente delle vessazioni che i Luterani fanno ai Cattolici, ma anche se dovesse costargli la vita rimarrà sempre Cattolico, conclude dicendo che vorrebbe scrivergli più spesso, ma <<…non havendo messi fiddati non ho sapetto che fare per li grandi rumori et tumulti che erano nelle bande nostre. […] Post Scriptum la Liga nostra Grisa è in grande confussione co’ le altre du Lighe et una parte della Liga nostra quali sono Luterani aiutano favorire le altre due Lighe per questa causa>>.[196]  Un’altra testimonianza della prepotenza degli scismatici e delle insurrezioni le troviamo in due lettere di Giovan Battista Sacco al Cardinale datate 9 e 21 gennaio 1584, in cui dice di essere stato detenuto per nove giorni in prigione ad Ilanz ed essere stato liberato dopo avere pagato mille Ducati di cauzione, che spera poter recuperare, tutto ciò ad opera de Protestanti e dell’Ambasciatore di Francia.[197] Tutto ciò è ribadito anche in un’altra lettera di Giovanni Marca del 30 gennaio.[198]

Tutto ciò si può riscontrare in un documento non datato, in cui viene fatta una breve relazione della Visita: il Cardinale era desiderato ed aspettato anche dagli eretici di là dei Monti, ma da Coira, dove egli sperava di poter fare opere più grandi di quelle fatte nella Valle Mesolcina, arrivò il divieto di effettuare una visita formale: <<Ma il Demonio commosse i predicanti heretici di tutto il paese alla religione catolica, et così convennero a Coira nel medesimo tempo della Dieta in gran numero facendo consiglio et prattiche non solo per impedir l’ondata del Signor Cardinale nelle sudette valli, ma per sovertir le cose fatte nella valle mesolcina con dir ch’era contra le legi, et confederationi delle tre Leghe l’haver chiamato un inquisitor d’heresie, et l’haver accettato il Signor Cardinale, et gl’aiuti suoi, e principalmente insistevano sopra l’essibitione ch’el popolo fece al Signor Cardinale d’una casa loro per habitat ione de Secolari figlioli suoi, et de’ Maestri ch’havevano da insegnar a essi figliuoli, con dir ch’era un castello, et fortezza, in modo che se bene in generale gli fosse buona disposizione et inclinazione a ricever per bene l’ondata del S. Car.le ne paesi loro nondimeno sedutti dalli predicanti cominciorno i Signori a mostrar mala sodisfattione delle opere del S.r Car.le nella valle Mesolcina, et quantoche l’Auditore mostrasse ad alcuni di loro come l’inquisitore non era stato mandato per causa d’heresie formali, ma solo per stregarie, com’era in effetto, et che la venuta, et ricevimento del Sig.r Car.le et le attioni sue non erano contra, anzi conformi alla lege loro, quali concedono ch’ogn’uno possa viver cattolicamente o nella setta Zuingliana o heretica come a ciscuno pare…>>.[199]

Il documento prosegue dicendo che la casa offerta per abitazione per i maestri dei figli non era né un castello né una fortezza, ma solo una casa che sarebbe servita a beneficio pubblico, tuttavia prevalse l’autorità dei “predicanti”, tanto più che l’Ambasciatore di Francia, il quale, in un primo tempo, si era mostrato favorevole verso il Cattolicesimo e con Bernardino Morra, fece poi marcia indietro ritirandosi da quei compiti che si era offerto di fare, anzi si schierò dalla parte dei “predicanti”, avvalorando le loro ragioni. Durante la Dieta furono eletti dei giudici particolari appartenenti a tutte tre le Leghe, <<ma in maggioranza heretici, quali havessero da ricognoscer le cose seguite per opera del S.r Car.le nella valle Mesolcina>>.[200]

Alla fine di novembre, come sappiamo, Borromeo tornò a Milano e alcuni “de’ principali” di questi luoghi furono citati a comparire davanti ai suddetti giudici delle Tre Leghe, vennero incarcerati con vari pretesti, ma furono poi rilasciati e prima di Natale rimandati alle loro case, uno di loro, “Hieronimo Borgo” di Bellinzona, fu condannato alla pena capitale per avere detto “alcune cose”, ma poi graziato, è probabile che Gerolamo Borgo,[201] sotto tortura, abbia rivelato i tentativi per procurarsi l’aiuto del Re di Spagna e del Ducato di Savoia a favore dei Cattolici: <<…forse perché dicesse ciò che s’à inteso haver deposto ch’el Padre Achille Gagliardo giesuita, qual era col S.r Car.le nella valle Mesolcina una volta ragunaste seco del trattato della nova lega con Savoia, il che afferma esso Padre non esser vero, onde si crede che gli heretici, quali hanno più in odio la congregatione d’essi Padri Giesuiti che tutte l’altre de religiosi, et claustrali habbino fatto gratia al sudetto borgo acciò dicesse questa bugia, della quale dissegnano valersene per far che tutto il paese universalmente abborrisca detta cong.ne, et a ciocché, sì come non permessero che continuasse il collegio d’essi Padri, che si cominciò nella terra de ponti della val Tellina, così non sia permesso quello che de’ medesimi Padri ha pensato il S.r Car.le di piantar nella val mesolcina si per insegnar a figlioli, come per gl’altri essercitij spirituali al qual già s’è dato principio con gran contento, et sodisfattione del popolo d’essa valle>>.[202]

L’Ambasciatore di Francia, il quale aveva cambiato opinione, come già detto, stette dalla parte degli scismatici durante il processo e rifiutò di dare al popolo e ad altri i soliti “stipendi” che era solito dare ogni anno, in tal modo si era reso odioso non solo agli uomini della Valle, ma anche ai capi della Lega Grigia, composta nella maggior parte da cattolici.[203]

Il documento prosegue spiegando le grandi vessazioni che subiscono i cattolici nei paesi dei Grigioni, soprattutto nella Valchiavenna e in Valtellina, in quanto suddite delle Tre Leghe, nonostante che per legge ognuno possa seguire la religione che vuole. (V. documento)

Da una lettera firmata Giovanni Battista Franciosi, Cancelliere di Locarno, del 12 febbraio, spedita da Varese, veniamo a conoscenza che: <<L’Ambasciator di Francia, havendo visto suscitar qualche rumori contra lui, non solo ha haiuto in Bada, ma etiandio ha richiesto alle tre Leghe littere di ben servito, dando motto di fare partenza, però le lettere gli sono state negate, anzi d’alchuni particulari è stata assalita la Casa con animo di trattarlo male, ma esso non ardì dargli orecchia ne risposta, anzi si serrò in casa. La Lega Grisa deve havere intimato guerra all’altre due leghe, non volendo cessare de suoi humori et capritij di volersi impedire di castigare li suoi per errori puossino haver fatto>>.[204] La missiva continua dicendo che stanno facendo una Dieta a Coira, dove sono aspettati i Messi del Cardinale, che tratteranno “i fatti” con molta diplomazia. Sempre dallo stesso mittente, ma in data 5 marzo 1584 e spedita da Mesocco, si può apprendere che alcuni “Jusdicenti”della Valle che avevano partecipato alla Dieta, indetta per la Lega Grigia, in Jant avevano sporto due querele verso i “Regenti” della Valle: la prima per avere accettato Borromeo in questi luoghi e <<…et seco haver fatto lega, et capitolatione segreta, seconda di haver accetatto et seguito la nuova riforma dil Calendario, con grave lamenta che ciò fuossi da essi fatto in pregiuditio della Lega lor et senza farne saputa…>>.[205]  Franciosi prosegue con una lista di sanzioni date: ai “Regenti” di Rogoredo novanta scudi, come a quelli di Mesocco, a quelli di Calanca venticinque, e a tutta la Valle centoventi scudi. Hanno poi condannato a pagare venticinque scudi il Ministrale Battista Sacco e altra spesa non ancora specificata nel momento in cui è stata scritta la lettera, al medico di Soazza, Giovanni Pietro Antognini fu comminata la sanzione di venti scudi e altra somma non ancora specificata. Ancora da definire restava la causa del Podestà di Mesocco. Venne anche stabilito per tutti i religiosi abitanti nella Valle l’obbligo di presentarsi al Vescovo di Coira, senza la cui licenza non avrebbero potuto officiare, tale ordine lascia stupito il suddetto clero, che, come scrive il mittente, spera che il Borromeo scriva al Vescovo di Coira per provvedere <<destramente a questo fatto>>. Tutto questo è stato riferito dal Ministrale Giovanni Carletto di Calanca. Non manca una lettera del Dottor Antognini, il quale oltre ribadire gli stessi fatti, aggiunge che a lui <<…hanno ordinato che dobbiamo vivere all’anno vecchio fino a tanto che le lighe non accettarano il nuovo anno […] hanno poi fatto instanza assai in voler sapere si havevamo fatto qualche Capitoli (alleanze)>>.[206] Tutto ciò è confermato anche da Giovanni Battista Sacco in una sua missiva del 12 marzo 1584, da dove apprendiamo anche che <<…la scolla de nostri padri Jesuitti sia suspesa sina atanto che ditti padri se presentino da Mons.r. nostro di Cuojra hovero se meglio piacerà a sua Ill.ma Sig.ria di scrivere a nostro Mons.r Episcopo voglia venir luij in persona a vesetar la diocesi sua per debito et confirmare questi nostri padri per non  descomodar quelli signori>>.[207] Seguono alcune lettere datate marzo 1584, in cui si parla delle attività pastorali e delle richieste di nuovi preti per le varie chiese della Valle.[208]

La partenza dei Gesuiti per Coira, per l’approvazione vescovile secondo le decisioni della Dieta, è del 2 aprile, padre Costanzo e padre Giovanni Battista si mettono in cammino con un cavallo avuto in prestito da padre Gentile Besozzo, mittente della lettera al Cardinale.[209] Arrivati in città <<Con più meraviglia in Coira ci guardavano et molti putti insieme cominciarono a fare romore con cridare il che mi causò un poco di paura pur mi raccomandavo al Sig.re, et sia qui eterno. Si conosse che sopra la porta della citta erano pitture de santi ma sono levate, resta solo da una banda parte della santa Judit con il capo d’Holoferne piaccia al Sig.re che per mezzo della beatissima Vergine si trochi il capo al Heresia, poi che al vedere quella citta è causa di piangere>>.[210] Svolte le loro incombenze, dubitando che la loro presenza in città fosse gradita, si rimisero subito sulla via di ritorno e durante una sosta in un’osteria videro un quadro raffigurante i Santi Pietro e Paolo, gli uomini presenti chiesero chi fossero i due alla guida, la quale disse che erano due gentiluomini milanesi, dando adito di pensare che si trovassero in questi luoghi per “il negozio di Spagna”, ma chiarita la loro identità, approfittarono dell’occasione del dipinto per parlare ai presenti <<…delli grandi travagli che hebbero li Apostoli per matenere la loro fedde massime di quello che a s. Paulo fu detto in Roma dalli Judei: De secta hac notum est nobis quia ubique et contradicitur et a questo proposito dissi loro quatro parole che vedevo le gustavano, mi pregorno stassi con loro quella sera mi scusai non potere ma quando ritornasse per quelle bande lo faria…>>.[211] Questo fatto fu di grande consolazione per i due Gesuiti, perché constatarono il bisogno di molte persone di parlare di fatti religiosi. La lettera fu spedita da Roveredo da padre Costanzo Gamma a Borromeo, il 14 aprile 1584, quindi al ritorno del viaggio a Coira.

Padre Carlo ragguaglia l’Arcivescovo con una sua lettera del 15 aprile 1584, in cui dice che dopo la visita la situazione è molto migliorata nei paesi della Bassa Mesolcina, dove gli abitanti <<…cominciano a detestare le usure, et altri peccati […] Io non potrei dire quanto tutti ci amano, et riveriscono… >>.[212] Non può dire le stesse cose Ambrogio Moresio, parroco di Mesocco, che nello stesso giorno scrive al Borromeo un resoconto sulle condizioni degli abitanti di Mesocco: i Luterani vanno ad ascoltare le prediche, ma <<…non vogliono accettar se non quel che lor quadra come fanno heretici>>, continuando con i loro riti e condannando i modi di amministrare i sacramenti della Chiesa cattolica. Nonostante ciò alcuni di loro hanno consegnato i libri luterani scritti in lingua tedesca. I Cattolici, per la maggior parte, si sono confessati e comunicati, ma sono ancora molti quelli che non hanno aderito a questi sacramenti, perché hanno promesso alla Lega di continuare a seguire il vecchio calendario che non coincide con la Pasqua di quello gregoriano,[213] ma, dice il mittente che sono tanto rozzi ed ignoranti che bisogna prenderli come sono. Ci sono ancora degli usurai pubblici molto ostinati. Sono state eliminate alcuni eccessi, come quello di suonare le campane per tutta la durata della Messa e le donne non piangono più in chiesa durante la celebrazione dell’ufficio per i defunti, tali lamentazioni impedivano di ascoltare le funzioni. Moresio continua dicendo che non viene più importunato come prima per seppellire i morti subito dopo il decesso. Sono stati celebrati alcuni matrimoni secondo la forma del Concilio tridentino. Sono stati fatti solo piccoli progressi, infatti il parroco inizia la sua lettera con queste parole:<<Di quel poco frutto che Nostro Signore si è degnato di operar in questa piccola vigna di Mesocco dopo la partita di V. S. Ill.ma…>>.[214] Il 23 maggio, padre Carlo, in una sua lettera al Cardinale, conferma le numerose difficoltà incontrate a Mesocco: <<Ma se Musoch si espugnerà con la divina et infallibil verità, gran vittoria si acquisterà; in quei giorni in cui sono stato, ho conosciuto che l’inimico lì tiene il suo castello, et si bene vi sono alcune anime timorate, nondimeno i contrapesi sono molto potenti>>.[215]

Nonostante la ferrea volontà del Borromeo di rigenerare completamente e secondo i decreti del Concilio di Trento l’istituzione della cura pastorale di questi luoghi della Valle Mesolcina, furono rieletti i sacerdoti che erano stati sospesi con il pretesto che erano originari della Valle, anche se al loro posto il Cardinale aveva mandato altri religiosi. Molte furono le dispute per l’accettazione del nuovo calendario e numerosi i documenti in cui se ne parla, il Prelato invia lettere a Galles de Mont, al Preposito di Coira, al Ministrale di Roveredo, alla Lega Grigia, ai Ministrali e al Consiglio della Valle Mesolcina, in cui dice che non si può tornare a quello vecchio, perché incorrerebbero nelle censure di cui nella Bolla pontificia, inoltre la non osservanza creerebbe grossi disguidi.[216] Alla fine ci fu un compromesso: sarebbe stato osservato il nuovo calendario solo per le feste liturgiche, ma, rispetto al resto del Cantone verrebbe seguito quello vecchio: <<Circha al calendario siamo stati travagliati pur troppo. Et fra noij dilla valle era gran confusione, hora Iddio laudatto habbiamo riduto e fatto a bono fine, che che nel scriver litere holtra li Monti scriver alla vechia, nel resto si sottoponiamo in tutto alla obedientia de nostri sacerdotti et fare le feste quando da lor ne sara comandatti>>.[217] Ma da una lettera del 25 agosto veniamo a conoscenza che il parroco di Santa Maria di Calanca ha celebrato la festa dell’Assunzione e tutte quelle precedeti secondo il vecchio calendario, andando conttro gli ordini ricevuti e suscitando “grande mormorazione” in tutta la Valle.[218]

I problemi da risolvere e le difficoltà erano ancora moltissime ed a tutto questo si aggiungeva la mancanza di possibilità economiche delle parrocchie, i morti seppellita dai civili per la scarsità del clero, specialmente quello “habile”, la confusione negli officianti e nel popolo causata dal contrastato passaggio al nuovo calendario, che essendo decretato dal Papa veniva rifiutato dai riformati e da alcuni preti cattolici per timore dei Signori delle Leghe, infine in molti luoghi della Valle stavano progredendo i casi di peste. Numerose sono le lettere del Cardinale in risposta a tante richieste e lamentele, il quale era, come sempre, molto informato dai suoi “uomini”, soprattutto da Sacco e da Giovanni Pietro Stoppani, nominato Vicario della Valle Mesolcina dal futuro Santo, di tutto ciò che accadeva in quei luoghi e dintorni.

Tra la miriade dei documenti esistenti riguardanti la Visita Apostolica del 1583, certamente il più importante è costituito dalla relazione inviata dal Cardinale Borromeo a Roma al Cardinale Paleotti, essa è divisa in tre parti: la prima è spedita da Roveredo il 15 di novembre; la seconda è la “Relatione sumaria del successo della visita della valle Mesolcina doppo l’altra relatione, del 29 novembre; la terza si tratta di un’aggiunta spedita successivamente da Bellinzona il 9 dicembre . Le tre relazioni sono state pubblicate frammentariamente da Paolo d’Alessandri nel 1909 e integralmente da Rinaldo Boldini nel 1962. Noi riporteremo i passi più significativi, rimandando per una lettura completa alle opere dei suddetti autori.

La prima relazione si apre con una spiegazione della Lega Grigia, che è divisa in otto parti, quattro delle quali cattoliche e quattro “eretiche”, la Visita Apostolica viene effettuata in una delle otto parti, divisa in due “governi principali”, Roveredo e Mesocco, i cui abitanti sono circa undicimila: <<…’l popolo minuto è comunemente catholico assai semplice, et atto alla obbedienza se non che corre senza ritegno alcuno à mangiar cibi prohibiti in ogni giorno, quando si trova in paesi eretici, ma alcuni massime de principali sono heretici ne è meraviglia, sì per il continuo commercio et collegatione c’hanno con gli altri Grigioni convicini eretici, come anco perché sono qui vissuti molti anni quei due famosi eretici il Trontano, et il Canessa, et vi morì anco gli anni passati quel Lodovico Besozzo… […] Hora essendosi fatti varij officij privati non si è trovata alcuna dispositione ad abiuratione nel foro esteriore ancorchè secreta, né pur via da far processi in questo genere fuori della cosa delle strghe sì perche queste genti sono assai sospettose di natura, et inimici ad ogni cosa che paia à loro di legame come per la convetione che hanno insieme le tre leghe, che ciascuno possa viver a suo modo, ne si incolpi alcuno per questo conto>>.[219] In questa prima relazione, quindi, Borromeo dà una valutazione abbastanza positiva della popolazione, che è ancora osservante e rispettoso, ma molto ignorante e confuso dal pessimo esempio del clero eretico e corrotto e da quello delle persone autorevoli.

Molto comuni e profondamente radicate erano le superstizioni e la credenza ai malefici, tanto che eresia e perversità sono accomunate, non dimentichiamo che Borromeo durante il suo primo Concilio Provinciale ordinava che maghi, malefici, incantatori e chiunque avesse fatto patto col Diavolo venisse severamente punito ed escluso dalla congregazione dei fedeli;[220] il Borsatto, che, come scrive il Possevino, aveva <<…prattica grandissima di queste materie di heretici e di streghe…>>,[221] accostando i termini “stregheria-eresia”, doveva essere veramente molto pratico della materia, poiché in poco tempo <<…ne sono in processo circa 40 e processate più di 100…>>,[222] un numero molto elevato se pensiamo che la popolazione globale di tutta la Valle Mesolcina ammontava a undicimila anime, addirittura come possiamo apprendere anche da una testimonianza di Monsignor Ottaviano Forerio, Arciprete di Milano, <<Il Si.r Cardinale fece abiurare in una sala circa 150 (involti in stregamenti)>>.[223]

Le streghe erano “governate” da apostati, fuggitivi, scomunicati e irregolari. In questo primo ragguaglio si parla anche della creazione di un collegio di padri Gesuiti a Roveredo, degli usurai e dei matrimoni irregolari, cioè con parentela proibita o per divorzio.

“La Relatione sumaria del successo…”, ossia la seconda, inizia parlando dell’altra parte della Mesolcina, il cui centro è Mesocco. Questa parte <<…si è trovata nelle cose della fede molto più infetta che l’altra>>, perché adiacente alla Valle del Reno, quindi più soggetta all’eresia calvinista, dilagata maggiormente nell’alta Valle confinante col nord: <<…è per la maggior parte heretica; è vero che pochi huomini sono a casa stando fuori per mercantia, le cui donne pure sono heretiche, et i figliuoli allevati nella medesima perditione>>. L’Arcivescovo parla dell’abbandono in cui versano le chiese, del culto che non viene officiato, a causa della condotta e del concubinato dei preti; della pratica dell’usura, ancora dei matrimoni irregolari e dei libri eretici da eliminare. Una causa molto importante per la diffusione delle eresie, continua il Borromeo, <<…è l’habitatione qui che n’hanno havuto quei tre nomati nell’altra relatione, cioè il Canossa, Trontano, et poi il Besozzo, et prima di loro tutti, un frate Aurelio Apostata dell’ordine franciscano Zocolante, che fù primo seminatore di questa Zizania, oltre che ve ne habitano adesso ancora alcuni arrabbiati, et ostinati grandemente nell’heresie, et spetialmente un Franceso Socino da trent’anni in qua, et doi, o tre altri del paese qua, tra i quali è il figlio del Trontano con le famiglie loro, et alcun’altre donne diaboliche à fatto, ma sopra tutti quel Socino è il sostegno qui di questa peste…>>.[224] Anche in questa relazione troviamo, come nella prima, la stessa forma degli esrcizi spirituali proposti alla popolazione che, anche in questi luoghi, ha partecipato numerosa e con grande interesse.

Il futuro Santo torna a Roveredo, dove si occupa della spedizione delle cause delle streghe, le cui sentenze sono state emesse parte il 28 e parte il 29 novembre <<…con le abiurationi di quelle, che si ricevono à penitenza, intorno alle quali abiurationi non s’è anchora fatta intiera risolutione del luogho, et modo più o meno publico, per la varietà de li humori, et fattioni, che sono ne gli huomini di questa valle […]di non condannare mai a morte alcuno se non confessa formalmente il delitto, quantunque fusse convitto per mille testimonij…>>.

La terza relazione comprende tutti i nomi e i cognomi delle presunte streghe e degli eretici: quattro (4) streghe impenitenti, condannate per la loro confessione e consegnate al braccio secolare; altre sei (6) sempre impenitenti e “convinte” seguirono la sorte delle prime quattro. Le presunte streghe bruciate vive furono, dunque, dieci e non undici o dodici come riportano vari articoli.  Il Prevosto Domenico Quattrino, di cui abbiamo parlato prima, fu condannato, oltre che per avere confessato di essere uno stregone e capo delle streghe, anche per altri delitti, quindi fu degradato dal Borromeo e dato al braccio secolare. [225]

Sedici (16) furono le persone, imputate e sospettate di “stregharie”, sottoposte a tortura furono assolte dopo l’abiura e le penitenze: <<…et alcune per altre ragioni hanno purgato gli indicij, sì che tutti questi sono stati assoluti>>.[226]

La lista dei sospettati, non sottoposti a tortura, ma dopo aver <<…fatta purgazione canonica sono stati assoluti, e liberati con penitenze salutari>> è composta da cinquantasei persone tra uomini e donne e, dai loro cognomi, sembrerebbero coinvolte intere famiglie.[227]

Quattordici (14) sono le presunte streghe confesse, ma penitenti, che hanno abiurato privatamente, ma alla presenza di molti testimoni, dopodiché sono state liberate con “penitenze salutari”, quindi non sottoposte a giudizio formale.[228]

Cinque donne e due uomini confessarono di essere streghe e stregoni, ma a causa dell’età ( non sappiamo se troppo giovani o troppo vecchie) furono liberate senza l’abiurazione, facendo solamente la penitenza.[229]

In contumacia, con il termine di sei mesi a comparire per essere ascoltati, in quanto sospettati, furono condannate cinque persone.[230]

Nel Ms. F 166 inf., a c. 524v. e 532v. troviamo un indice di eretici di vari luoghi della Valle Mesolcina e di coloro che si sono convertiti, tra questi figura anche Samuele Viscardi, detto Trontano, figlio dell’eretico Giovanni Antonio.[231] I convertiti sono diciotto più un certo Todesco che ha promesso di convertirsi; viene poi precisato che non sono descritti minuziosamente gli eretici di Mesocco, confinanti con la Valle del Reno, perché troppo numerosi, mentre la lista con i nomi delle streghe, <<…che sono venute à penitenza sono al numero de 22 in circa, ma si manderà col primo ordinario>>. Da evidenziare che molti degli eretici descritti appartengono a ceti elevati: <<gente di molto seguito, et auttorità per podestarile et officij di governo essercitati>>. Troviamo ministrali, podestà, cancellieri, notai con le loro mogli e figli.[232]

La terza relazione continua dicendo che sono cominciati i lavori per il Collegio, e prima di Natale potranno abitarci i padri Gesuiti per poi cominciare le lezioni agli allievi che sono già un centinaio circa. Per ciò che riguarda le streghe: <<Hanno a Roveredo fatto abbruggia vive le quattro streghe condennate per la confessione, l’altre che furono condennate come convinte, le hano fatto confessar tutte ecctt’una, sì che fra pocchi dì potrebero forse anco far la medesima essecutione contra esse, se bene alcuni dicano che una o doi otteranno gratia della vita dal popolo>>. Il Prevosto Quattrino ha confessato, sotto tortura, i suoi “enormi delitti”, <<…sì che dicevano di volerlo far morir anch’esso, vero è che sin’hora non hanno fatto essecutione alcuna>>. Esecuzione che, come abbiamo già detto, non fu mai fatta.

Il rapporto termina dicendo che alcuni sacerdoti e frati dal comportamento indegno e corrotto sono stati sollevati dal loro incarico e cacciati da questi luoghi.

Questa Visita Pastorale così travagliata ebbe anche grandi successi, poiché, essendo compito generale del Borromeo di ristabilire le condizioni religiose, morali e di purificare la Valle dalle streghe, in molti luoghi raggiunse i suoi scopi, ma certamente non ritenne completata la sua opera, non potendo proseguire la visita in Valtellina e Valchiavenna, dove il bisogno di risanare le condizioni religiose sarebbe stato altrettanto necessario.

Carlo Borromeo, personaggio scomodo, pieno di contraddizioni e tanto discusso, ma nonostante la sua presunta misoginia, aiutò moltissime ragazze povere, si prese cura sempre delle sorelle e combinò loro matrimoni con i partiti appartenenti alle famiglie più importanti d’Italia: i Colonna di Roma, i Medici di Firenze, i Della Rovere di Urbino, i Gonzaga di Mantova, dal folto epistolario trattenuto con esse si può capire l’attaccamento che avevano con il fratello, anche se Carlo preferiva il rapporto epistolare a quello personale. Molti lo hanno criticato per il suo modo di vivere, per quanto molto ricco improntò la sua vita all’insegna dell’estrema sobrietà: pane e acqua, vesti logore dall’usura; poche ore di sonno in un letto di tavole. Effettuava le Visite pastorali nella sua diocesi senza preoccuparsi della stagione, quando altri Vescovi aspettavano la stagione mite per non soffrire il caldo e il freddo.

Quando arrivò come Arcivescovo a Milano, in quella città retta dal Re di Spagna tramite Governatori assistiti dal Senato, che vivevano nel lusso sfrenato in palazzi fastosi, con numerosa servitù, ma dietro la pomposità delle feste, balli e spettacoli c’era l’inizio della decadenza di Milano e della Lombardia, depredate continuamente dal fisco spagnolo e la mentalità di questo Governo arretrato, rimasto agli ideali cavallereschi medievali, sfrontato, che spadroneggiava in casa d’altri, come ben ce lo descrive Manzoni all’inizio del suo romanzo “I Promessi Sposi”, dando un’idea molto chiara della Lombardia e di Milano sotto l’egemonia ispanica, gravemente decaduta sia nella sfera morale che religiosa: da più di un secolo i suoi predecessori non risiedevano nella città, questa è la Milano che trovò Borromeo, la cui severità di vita non poteva andare bene a molti abituati a tali costumi, per questo ci furono scontri tra il Prelato e il Governo, che certamente gli resero la vita tormentata e burrascosa sia dal punto di vista ecclesiastico sia da quello civile. Malgrado le controversie giurisdizionali, molte riforme caroline furono attuate, trasformando profondamente la struttura della sua Diocesi, che risultò infine composta da 6 regioni e 65 pievi, in cui vi erano 2220 chiese secolari, 46 collegiate, 753 parrocchiali, 783 benefici semplici, 631 oratori, 7 collegi per chierici, 136 conventi di vari ordini religiosi, 740 scuole di dottrina cristiana, 886 confraternite, 24 congregazioni e 40 istituti di assistenza.[233]

Tra tanti casi di esecuzioni di streghe, quello della Mesolcina è molto e bene documentato: bisogna ricordare che sia la letteratura sia la scienza guiridica del secolo XVI presentava la stregoneria come una realtà. Le leggi della maggior parte dei Paesi europei, il codice criminale “Nemesis carolina”, emanato da Carlo V nel 1532, gli statuti civili della Mesolcina stabilivano il rogo per i condannati per stregoneria e tra i centocinquanta circa accusati di tale reato solo dieci furono le persone condannate, infatti il Borromeo in una lettera al Vescovo di Bergamo, in cui parla dei successi avuti durante la visita in Mesolcina, così si esprime: <<Si è anco atteso a purgare con essatta diligenza il piu che si è potuto la Valle dalle peste delle strghe, che possedeva tante anime di quel paese>>.[234]  In tale contesto storico, Carlo Borromeo, come Arcivescovo della Diocesi più importante del mondo cristiano e Delegato pontificio, soprattutto indefesso paladino della Chiesa di Roma e tenace fautore della Controriforma, doveva rispondere alle attese della società civile, che pretendeva una condotta perentoria per coloro che diramavano le eresie, le superstizioni e la stregoneria, ma tutto questo non significa che fosse un uomo senza difetti.

Non possiamo certo non considerare che Carlo era anche un uomo del suo tempo, e ricoprendo una carica così alta non possiamo biasimarlo se il suo sogno era quello di riportare la Chiesa ai valori e alla moralità primitiva, attuando i decreti emanati durante il Concilio di Trento, avviando un grande lavoro di riforma della sua Diocesi, contro l’abusivismo, la corruzione e l’arbitrio di coloro che occupavano alte cariche, non sempre ci riuscì, ma conseguì molte “vittorie” e creò numerose e valide istituzioni in gran parte con spese personali.

Durante la peste del 1576, vista come un castigo divino necessario per liberare Milano dal peccato, si prodigò sfidando il contagio e aiutando la popolazione; cercò di arginare l’espansione della Riforma con sistemi di sorveglianza sui forestieri provenienti dal Nord, sempre a tale scopo esercitò un forte controllo sulla stampa, scomunicò uomini importanti e come tutti i grandi uomini fu molto amato e molto odiato.

La sua credenza nella stregoneria è veramente sconcertante e condivisa da molti uomini anche di elevata cultura e altolocati del suo tempo, ma bisogna anche considerare che, all’epoca, non erano ben chiari i limiti tra magia ed eresia, anche se questo non scusa la morte sul rogo di varie persone, le cui condanne, tuttavia, secondo le approfondite ricerche fatte da Rinaldo Boldini risulta che in nessun resoconto delle visite pastorali effettuate dal Borromeo, al di fuori della Mesolcina, vengano indicati processi di stregoneria istruiti dal Cardinale: <<Si fa colpa da taluno al Borromeo di aver crudelmente fatto colpire gente incolpata di stregoneria, e di aver perseguitato sotto il pretesto di stregoneria e fatto mandar al rogo gente colpevole solo di persistere nel protestantesimo. Nessuno ne ha però finora addotto la prova. Io ho consultato un abbondante materiale, letti parecchi dei processi di stregoneria svoltisi a quell’epoca a Roveredo, ho fatto con viva curiosità scientifica le maggiori possibili ricerche ma non ho trovato neppure indizi sicuri  carico di lui per una persecuzione religiosa di questo genere>>.[235] L’inquisitore Borsatto, che, come detto, fu in Mesolcina circa un mese prima del Prelato, processò oltre cento persone sospette di stregoneria, tra queste anche il Prevosto Domenico Quattrino, di cui quaranta furono riconosciute colpevoli di questo reato, ma molte di loro si pentirono pubblicamente e quindi furono graziate. Nel 1909, Paolo d’Alessandri scrive che tali condanne si ridussero a circa una dozzina di persone. In ogni caso, nel diritto del Grigione, spettava al braccio secolare, costituito da giudici laici vallerani, il diritto di emettere una sentenza di morte, di eseguirla oppure di graziare il condannato e tale diritto non ammetteva la condanna a morte se non c’era anche il riconoscimento del reato, senza pentimento, dell’imputato. Come nel resto dell’Europa, anche in Svizzera i processi per stregoneria aumentarono intensamente sia nei Cantoni riformati sia in quelli cattolici dopo la metà del XVI secolo per diminuire solo verso la metà del secolo successivo, anche se nei Grigioni moltissimi processi documentati risalgono alla seconda metà del secolo XVII, (dal 1580 al 1655 si contano almeno 1000 processi), l’elevato numero fu probabilmente causato anche ad una forte frammentazione dell’amministrazione dell’alta giustizia.

Tipico dei processi per stregoneria in questi luoghi fu il poco rispetto per le norme dell’ordinamento del Tribunale Criminale Imperiale, emanato da Carlo V durante la Dieta di Augusta del 1530 e entrato in vigore nel 1532: la “Constitutio criminalis Carolina” aveva la funzione di unificare il diritto nell’Impero e impedire l’arbitrio in abito di giustizia penale; infatti, da molto tempo, era sufficiente una sola testimonianza attendibile per la condanna per malificio: in Svizzera, prima di procedere alla tortura non veniva rispettata la prassi di inviare il fascicolo ad un’autorità preposta, come disposto nella “Constitutio criminalis Carolina”, secondo cui solo il maleficio era condannabile. Molti processi per stregoneria erano originati da conflitti tra vicini e parenti, i capri espiatori erano spesso persone con difetti fisici, donne vedove e sole o che si comportavano in modo non conforme, i periodi di carestie vedevano un aumento di queste accuse e questo spiega, anche se in parte, perché questi processi abbero il loro culmine negli anni che vanno tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, periodo noto per gravi problemi di ordine sociale, economico, politico e religioso.

Lo stretto legame tra eresia e stregoneria fu anche il retaggio di un’ortodossia confessionale, che spesso cercava delle certezze nella demonizzazione di credenze non autorizzate. La diminuzione e poi la cessazione di questi processi alla fine del secolo XVII, sembra sia stata determinata anche dalla stabilizzazione delle Chiese confessionali, che rafforzarono la loro presenza tramite la disciplina ecclesiastica, il catechismo e le visite, molto importante fu il potere della filosofia razionalista sulla dogmatica del diritto, particolarmente sulla produzione delle prove giudiziarie.[236]

Alla fine del secolo XVI, la morte di dieci donne presunte streghe non fece grande scalpore presso l’opinione pubblica, anche perché non erano state uccise, ma purificate.

Questa non fu l’unica Visita pastorale che il Prelato fece in questi luoghi, poiché durante il suo episcopato andò personalmente per ben cinque volte nelle Tre Valli svizzere, raggiungendo a dorso di mulo o a piedi le zone di alta montagna e le parrocchie più isolate.

L’attività pastorale era ritenuta dall’Arcivescovo fondamentale per capire le necessità dei fedeli e i mezzi con cui attuare i suoi disegni di restaurazione religiosa, egli percepiva come un suo profondo dovere di ecclesiastico portare uno stimolo vitale nella logora impostazione della Chiesa di Roma con i decreti del Concilio di Trento, e, allo stesso tempo, attuare una barriera efficace al dilagare delle dottrine riformate, che dal nord si diffondevano nella sua Diocesi e in tutta l’Italia.

Ma non può non essere ricordato come il motivo fondamentale dell’abbandono della fede cattolica venga, dal Borromeo, fatto ricadere sui sacerdoti, sulla loro negligenza della predicazione evangelica, sulla loro vita peccaminosa e l’apostasia come conseguenza estrema del non bene operare. Per L’Arcivesco Borromeo: <<Se i sacerdoti saranno santi, similmente sarà santo il popolo>>.

Nella relazione finale della causa di canonizzazione di Carlo Borromeo, un intero capitolo viene dedicato all’impegno che il futuro santo ha impiegato nella difesa della fede e nella lotta contro le eresie: la Congregazione Romana dei Riti doveva dimostrare che il Cardinale aveva ottemperato in modo esemplare a  quello che il Concilio tridentino indicava come primo dovere del vescovo, ossia la difesa della fede.

L’azione dell’Arcivescovo di Milano nella repressione dell’eresia nella sua Diocesi e dintorni aveva assunto notevole importanza, tanto che in un’ode del 1610, scritta da Agrippa d’Aubigné, calvinista francese, troviamo scritto in modo molto sarcastico: <<S’il falloit par la perfidie/ Faire la guerre à l’hérésie/ Dispenser d’un serment formé/ Et faire tomber dans un piège/ Ceux qui n’adoroient pas le Sainct-Siège/ On employait Sainct Boromé.[237] (Se occorreva, con la perfidia/ Fare la guerra all’eresia/ Dispensare da un giuramento pronunciato/ E fare cadere nella trappola/ Coloro che non adoravano la Santa Sede/ Si faceva ricorso a San Borromeo). Questi versi sferzanti, ma molto emblematici, ci fanno capire la centralità della lotta contro l’eresia nel programma di Carlo dal 1566, anno del suo trasferimento definitivo a Milano, fino alla sua morte, d’altra parte fin dagli inizi del suo episcopato aveva chiaramente palesato di fare dei decreti del Concilio di Trento la base tenace( coerente perseverante pertinace) della sua azione pastorale e se la difesa della fede rappresentava per lui il primo dovere di un vescovo, certamente si rese conto dei pericoli ai quali era esposta la Diocesi di Milano, geograficamente inserita in una regione a stretto contatto con i territori protestanti e che ne aveva subito presto le conseguenze, tanto che già nel 1563 Filippo II aveva chiesto al Pontefice (Poi IV) di introdurre l’Inquisizione spagnola nello Stato di Milano. Progetto fallito prima di entrare in vigore a causa del malcontento del Collegio cardinalizio e, soprattutto, delle proteste dei cittadini milanesi, intimoriti che fosse reso operante un tribunale con procedure molto più severe di quelle vigenti, comunque quando nel 1566 circolava la voce che il Re di Spagna tentasse di nuovo di far introdurre la suddetta Inquisizione, Borromeo espresse la sua decisa opposizione.

Prima di stabilirsi definitivamente a Milano, il Cardinale, nel settembre 1565, presiedette il primo Concilio provinciale, facendo pronunciare a tutti i presenti la professione di fede tridentina, ossia quella norma che Pio IV aveva resa obbligatoria già nel 1564, per tutti coloro che erano investiti di benefici ecclesiastici, consistente in una solenne dichiarazione di adesione alle fondamentali verità della fede cattolica, all’accettazione dei provvedimenti tridentini e delle condanne contro le eresie in essi enunciate, tutto ciò fu ribadito nel III Concilio provinciale del 1573 e in quello del 1579 (V Concilio), in cui Borromeo stabilì che la professione di fede fosse obbligatoria per il clero secolare e regolare, i cui appartenenti avevano licenza di confessare o predicare, ma anche ai laici che, per la loro professione, avessero ascendenza particolare su altri, quindi l’obbligo, che già valeva per i docenti, fu diffuso anche per i medici e nel 1582, durante il VI Concilio provinciale tale obbligo fu esteso anche ai librai e agli stampatori.

Teoricamente l’obbligo della professione di fede rappresentava una garanzia all’ortodossia, con la conseguenza di una serie di rigorosi controlli, di un sistema di sorveglianza e di una rete di informazioni molto stretto, che sconvolse coloro che erano vissuti nell’incuria e nella negligenza dei decenni precedenti. Non bastava esercitare una stretta sorveglianza sulla popolazione milanese e in quella delle diocesi vicine per prevenire l’eresia, ma occorrevano anche misure di controllo sugli stranieri provenienti dai paesi protestanti, data l’intensità dei traffici commerciali con la Svizzera, i Grigioni  e la Germania. Nel 1573, durante il III Concilio provinciale, Borromeo aveva emanato disposizioni per cui chi doveva andare in paesi protestanti, doveva chiedere prima una permesso al parroco o al delegato diocesano se si fosse trattenuto per piú di un anno, gli interessati dovevano essere muniti di un attestato, firmato dal proprio vescovo o da chi ne faceva le veci, in cui era dichiarato che l’intestatario era e viveva da buon cattolico e fin dalla partenza veniva strettamente sorvegliato, in tal modo il Borromeo aveva precorso le norme emanate poi nel 1580 da Gregorio XIII. Tutte queste misure cautelative erano però insufficienti, in quanto non potevano controllare coloro che arrivavano a Milano provenienti da paesi che avevano aderito alle nuove dottrine, poichè i trattati commerciali conclusi tra lo Stato di Milano, la Svizzera e le Leghe Grigie permettevano anche ai mercanti non cattolici di praticare i loro scambi nel Ducato milanese e il fatto che tali accordi fossero garantiti da istituzioni laiche, limitavano il potere ecclesiastico, che non poteva impedire ai mercanti di passare al di qua delle Alpi. La sorveglianza dei forestieri era quindi demandata ai parroci, i quali imponevano ai cattolici il divieto di ogni rapporto con tali persone. Le pressioni del Cardinale sulle autorità laiche per ridurre la circolazione degli eretici, non sempre veniva accolta, anche perché i vari governatori, oltre non avere sempre buoni rapporti con il Borromeo, erano combattuti tra la politica controriformistica di Filippo II e la tutela degli interessi commerciali e dei rapporti di vicinato con la Svizzera ed i Grigioni. Carlo, con l’aiuto della Santa Sede, riuscì ad ottenere che tutti quelli che a causa di una condanna per eresia erano fuggiti dallo Stato, fossero impediti (interdetti) della libertà di commercio.

La frequenza degli interventi legislativi evidenziano la priorità che il Cardinale assegnava alla lotta contro l’eresia nel suo programma episcopale: l’azione preventiva doveva essere finalizzata ad una azione repressiva che si sarebbe concretizzata in un’eventuale condanna di coloro che fossero risultati rei dell’accusa di eresia, quindi l’attività dei vescovi non poteva limitarsi all’emanazione di norme preventive contro l’infiltrazione e diffusione dell’eresia. Nella Diocesi di Milano, come anche in altre diocesi italiane, i tribunali competenti per i reati in materia di fede erano il Tribunale vescovile e quello dell’inquisitore, i cui rapporti erano regolati da una Costituzione papale emanata nel 1317 ed ancora in vigore ai tempi del Borromeo, la quale stabiliva che sia il vescovo che l’inquisitore potevano istruire le cause indipendentemente l’uno dall’altro, mentre non potevano procedere nelle fasi principali del processo separatamente, soprattutto nel momento della sentenza, che doveva essere pronunciata da ognuno dei due giudici obbligatoriamente presenti e con il voto favorevole di ambo le parti.

Dopo la prima istituzione della Congregazione dell’Inquisizione del 1542, il papato aveva iniziato ad esercitare un’azione sempre più capillare e con ampie facoltà sull’attività svolta dal Santo Uffizio e dai tribunali episcopali, segnando in tal modo l’inizio di un processo di accentramento dei poteri nella lotta contro l’eresia.

Borromeo tiene una stretta corrispondenza con il Cardinale Scipione Rebiba[238] prima e con il Cardinale Giacomo Savelli,[239] dopo la morte del primo, entrambi Grandi Inquisitori della Congregazione della Romana e Universale inquisizione, e, da questo scambio epistolare possiamo evincere che la lotta contro l’eresia si svolgesse ormai sotto l’attenta vigilanza di Roma, infatti la Congregazione non si limitava a spedire a Carlo istruzioni e direttive per i processi, ma ne verificava anche l’esito facendosi mandare le copie delle sentenze e spesso anche l’intero fascicolo processuale. Nonostante ciò il Cardinale di Milano, nel 1582, quando fu nominato Visitatore Apostolico in Svizzera e nei Grigioni, ottenne facoltà amplissime, come assolvere e riconciliare eretici, avvalersi della collaborazione di religiosi senza chiedere permessi ai loro superiori e poter subdelegare tali facoltà. Tutto questo era dovuto all’alta considerazione che la Santa Sede aveva nei confronti di Carlo Borromeo sia sotto il pontificato di Pio V che sotto quello di Gregorio XIII, affidandogli incarichi e missioni molto importanti anche fuori dello Stato di Milano, tutto questo non implicava un’esautorazione del Tribunale dell’Inquisizione milanese, anzi, sembra, dalla scarsissima documentazione rimasta, che i due tribunali operassero osservando le proprie regolamentazioni, anche se l’Arcivescovo aveva un certo controllo sulle attività del Santo Uffizio in materia di repressione anticlericale, e, spesso ci fu reciproca collaborazione ad eccezione di alcuni occasionali conflitti.

Il Borromeo conosceva la situazione della Valle Mesolcina ed era cosciente che la lotta contro l’eresia che si era propagata in quei luoghi non poteva essere combattuta come chiara (autentica)repressione, quindi cercò di darle un’impronta missionaria che sfociò in un numero considerevole di conversioni, di cui, oltre al fervore del Cardinale e dei suoi collaboratori, non fu estranea l’attività dei predicatori Francesco Panigarola e Achille Gagliardi, riuscendo a mantenere nella maggior parte del popolo della Valle la fede cattolica. Il futuro Santo si preoccupò molto anche per ottenere il supporto economico dalla Santa Sede per il mantenimento del Collegio fondato a Roveredo, e, dopo il divieto di recarsi in Valtellina, si avvalse anche delle autorità civili milanesi per ottenere una più ampia libertà di culto per i cattolici della Valtellina e Valchiavenna.

Abbiamo visto che la richiesta di procedere contro le streghe e stregoni della Valle era stata fatta dalle autorità civili della Mesolcina, richiesta che il Cardinale accolse mandando l’inquisitore Borsatto a Roveredo prima ancora della propria partenza verso questi luoghi e in una lettera, già menzionata, al Cardinale Savello del 18 agosto 1583 troviamo: <<Intanto mando a V. S. Ill.ma la copia d’una lettera scrittami dal Ministrale di Roveredo, principal persona della Lega Grigia, dove ella vedrà la richiesta che quelle genti mi fanno d’un inquisitore. La persona che si dimande, è necessario che sia molto circospetta e moderata, perché quelle genti procedono terribilmente alla cieca contro ogni persona, di cui sospettino un poco, in questo particolare, per l’estremo odio ch’eglino hanno alle stregherie>>.[240] Sembra, quindi, che il Borromeo abbia agito di conseguenza, convinto che la giustizia ecclesiastica sarebbe stata più moderata di quella secolare.

La prevenzione e la repressione delle eresie rapprentarono per Borromeo un obiettivo molto importante nella sua attività episcopale, e, se, in molti casi, riuscì nel suo intento di difensore della fede cattolica, fu dovuto anche ad una più approfondita preparazione e responsabilizzazione del clero, attraverso varie iniziative mirate a favorire la rinascita della vita religiosa.[241]

 

 

 

 

 

 

 

[1] Cfr. A. Prosperi-P.Viola, Corso di Storia.  Dal secolo XIV al secolo XVII, Einaudi Scuola, Milano 2004, p. 266 e segg.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Cfr. D. Maselli, Alla ricerca delle radici della Riforma Protestante e della Riforma Cattolica, Firenze 1994, p. 18 e segg.

[5] D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit., p. 22.

[6] Ibid.

[7] Cfr. A. Agnoletto, Storia del Cristianesimo, Milano 1978, pp. 257-259; Si veda anche A. Prosperi,I tribunali della Coscienza: inquisitori, confessori, missionari, Einaudi 1996)

 

[8] Cfr. L. Fabbri, La Visita Apostolica di Monsignor Giovan Battista Castelli nella Diocesi di Volterra nel 1576, in “Tra Riforma e Controriforma. Note biografiche e Storiche a cura di D. Maselli, Firenze 1996, p. 143 e segg.

 

[9] In questo brevissimo e non esaustivo escursus della storia del secolo XVI, abbiamo evidenziato solo i fatti più rilevanti e finalizzati al presente articolo

[10]A. Agnoletto, Storia del Cristianesiomo cit…, pp. 269-272.

[11] L’Ordine degli Umiliati nacque nel XII secolo come aggregazione di laici desiderosi di vivere in comunità simile a quella apostolica e seguendo in modo rigoroso i dettami del Vangelo, in contrasto con i costumi rilassati e con la ricchezza ostentata del clero, nel 1201 furono riconosciuti ufficialmente da papa Innocenzo II i tre ordini composti da religiosi appartenenti all’”Ordo canonicus”, da laici che vivevano in comunità con “formula et regula vitae” e da laici che avevano scelto la vita coniugale. La loro diffusione in Lombardia fu capillare anche grazie alle autorità ecclesiastiche milanesi che ebbero un atteggiamento favorevole nei loro confronti e già nel 1216 erano circa 150 le comunità regolari e considerevole il numero dei laici rimasti con le proprie famiglie impegnati in attività commerciali ed artigianali, occupandosi principalmente della lavorazione della lana e creando fiorenti manifatture tessili, che permettevano ingenti disponibilità economiche che davano adito ad attività di prestito o di assistenza economica esercitata anche dalla casa di Brera, la più importante di Milano. La crisi, iniziata già alla fine del XIII secolo a causa dell’influenza politica del governo signorile prima e di quello ducale dopo, ma anche ai forti contrasti nati in seno dell’Ordine, toccò il culmine dopo il Concilio tridentino, e quando Carlo Borromeo, nominato protettore dell’Ordine nel 1560 da Pio IV, cercò con polso di riportare gli Umiliati all’osservanza delle norme tridentine, sospettati di posizioni eretiche, soprattutto di calvinismo, nacque una grande opposizione all’interno dello stesso Ordine, che portò al celeberrimo attentato alla vita di Borromeo da parte di Gerolamo Donato detto il Farina. Gli Umiliati vennero soppressi nel 1571 con una bolla di Pio V, il Farina e i due Prevosti complici Girolamo di Cristoforo e Lorenzo da Caravaggio, rei confessi sotto tortura, condannati a morte.. Cfr. M.P.Alberzoni, Gli Umiliati e San Bernardo, in “Storia Illustrata di Milano”, a cura di F. Della Peruta, vol. II, Milano 1992, p521 e segg.; M. Lunari, Appunti per una storiografia sugli Umiliati tra Quattro e Cinquecento, in “Sulle tracce degli Umiliati in Lombardia”, a cura di M.P. Alberoni, A. Lucioni, Milano 1997, p. 45 e segg.

[12] Cfr. D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit., p. 26 e segg.

[13] Le notizie, non certamente esaustive, sulla vita di San Carlo Borromeo, sono state tratte da: C. Bescapè, De vita et rebus gestis Caroli S. Rom. Ecclesiae Cardinalis tit. S. Praxsedis et archiepiscopi Mediolani, Ingolstadt 1592, ed. italiana con testo latino a fronte, a cura di Angelo Majo, traduzione di Giuseppe Fassi, note di Enrico Cattaneo, Nuove Edizioni Duomo, Veneranda Fabbrica del Duomo, Milano 1983; G. P. Giussani, Vita di san Carlo Borromeo, Roma 1610, ristampa Firenze 1858; G. B. Possevino, Discorsi della vita et attioni di Carlo Borromeo, Roma MDLXXXXI; C. Orsenigo, Vita di san Carlo Borromeo, vol. I e II, Milano 1929. Si veda anche D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit.

[14] E. Rotelli, La figura e l’opera di S. Carlo Borromeo nel carteggio degli ambasciatori estensi, in “Studia Borromaica, n. 4, Accademia San Carlo, Milano 1990, pp. 133-145.

[15] D. Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., pp. 30-32.

[16] Carlo organizzò I matrimoni delle sue sorelle: Camilla con Cesare Gonzaga, Geronima con Fabrizio Gesualdo principe di Venosa, Anna con Fabrizio Colonna, la sorellastra Ortensia con Annibale Von Hohenems. La sorella Isabella divenne suora con il nome di Corona.

[17]Cfr. Ibid.; Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., p. 30-31; http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-carlo-borromeo_%28Dizionario-Biografico%29/

[18] Ibid.

[19] Ibid., p. 32.

[20] L. Pastor, Storia dei Papi della fine del Medio Evo, Roma 1950, Vol. VII, pp.91-92. Nel 1524 il Cardinale Gian Pietro Carafa, Vescovo di Chieti, creò, con Gaetano da Thiene, una comunità religiosa di chierici regolari chiamati teatini dal nome latino di Chieti: Theate; si trattava di preti che vivevano in comunità e in povertà, preparandosi rigorosamente alla cura delle anime, essi volevano essere d’esempio al clero ignorante e detentore di benefici ecclesiastici che non dimoravano nelle proprie sedi. Cfr. A. Prosperi-P.Viola, Corso di Storia.  Dal secolo XIV al secolo XVII, Einaudi Scuola, Milano 2004, p. 291. L’Ordine religioso dei Teatini era noto anche per le sue tendenze religiose e mistiche.

[21] H. Jedin, Carlo Borromeo, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1971, p. 14. Jedin vede il Borromeo come il modello del Vescovo post-tridentino, altri studiosi come l’incarnazione dello “Stimulus pastorum” ed in tal modo assunto come modello di vita pastorale.

[22] Niccolò Ormaneto nacque a Verona nel 1515, fin da giovanissimo frequentò il circolo del Vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, nel 1538 si addottorò in “utroque iure” presso lo Studio di Padova. Il Vescovo Giberti lo mandò a Roma nel 1541 per presentare al papa Paolo III le “Costitutiones” della diocesi e nella città eterna fece parte del circolo del cardinale Reginald Pole, nello stesso anno fu nominato dal Giberti Arciprete di Bovolone. Nel 1549 partecipò al conclave del Cardinale Ercole Gonzaga e nel 1553 fu tra gli assistenti del Cardinale Pole e designato legato in Inghilterra da Giulio III, dove svolse importanti missioni. Dopo la morte del Cardinale Pole tornò nella sua parrocchia di Bovolone, ma nel 1563 fu assistente del Cardinale Bernardo Navagero al Concilio di Trento, l’anno successivo Borromeo lo nominò suo vicario nell’Arcivescovado di Milano. Nel 1566 papa Pio V lo chiamò a Roma e nel 1570 lo nominò Vescovo di Padova. Dal 1572 al 1577 fu Nunzio in Spagna, morì a Madrid (1577). Cfr. C. Marcora, Niccolò Ormaneto, vicario di San Carlo (giugno 1564-1566), in “Memorie storiche della diocesi di Milano, VIII (1961), pp. 209-590.

[23] Cfr. F. Buzzi, Religione, cultura e scienza a Milano. Secoli XVI-XVIII, Milano 2016, 317 e segg.

[24]Oltre alle biografie precedentemente citate Cfr. D. Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., p. 34.; http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-carlo-borromeo%28Dizionario-Biografico%29/

 

[25] D. Maselli, Alle ricerca delle radici… cit., pp.34-35.

[26]“San Carlo nel primo suo concilio provinciale ordinava che maghi, malefici, incantatori, e chiunque fa patto tacito o espresso col diavolo sia punito severamente dal vescovo, ed escluso dalla congregazione dei fedeli. Nel suo rituale stabilisce le penitenze che devono applicarsi a maghi, per 5 anni, a chi getta tempeste, anni 7 in pane e acqua, a chi canta fascinazioni, tre quaresime; a chi fa le legature e malie, due anni. Egli aveva vietato che nessuno in predica dicesse il giorno della fine del mondo” C. Cantù, Gli eretici d’Italia. Discorsi storici di Cesare Cantù, Torino 1866, vol. III, p. 387.

[27] Con la pubblicazione della bolla “In Coena Domini” del 1568 i rapporti tra gli Stati italiani ed europei ed il Papato divennero molto tesi: in essa si vietava ai principi di accogliere persone di religione non cattolica nei loro Stati e di avere con esse rapporti e corrispondenze. I sovrani non potevano imporre gabelle, pedaggi, prestiti, decime sui beni dei chierici senza l’autorizzazione della Curia romana; si vietava di punire per colpe civili i cardinali, i prelati e i giudici ecclesiastici, i loro agenti, procuratori e congiunti; si vietava, inoltre, di ricorrere al Concilio ecumenico contro le sentenze papali ritenute ingiuste. Le rendite delle chiese, monasteri e i benefici ecclesiastici non potevano essere confiscati dalle autorità laiche; tutte le cause concernenti questioni del genere dovevano essere di competenza del foro ecclesiastico e non di quello temporale. Viene proibito al principe l’esercizio dell’”exequatur” sulle concessioni e i decreti pontifici. Il principe che occupasse le terre di proprietà della Chiesa o le muovesse guerra era scomunicato. La reazione degli Stati europei e di quelli italiani fu, naturalmente, molto vivace di fronte a questa forma di teocrazia di carattere medievale.

[28] Cfr. E. Rotelli, La figura e l’opera… cit., p. 135.

[29] Biblioteca  Ambrosiana, Ms. F 42 inf., c. 392r. D’ora in poi B. A.

[30] B.A. F 39 inf., c. 42.

[31] B.A., F. 39 inf., cc. 101-102.

 

[32] B.A., F 42 inf., cc. 226-234.

[33] Cfr. Ibid., pp.38-39. Tra le tele dipinte da Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, presenti nel Duomo di Milano, ce n’è una rappresentante la scena dell’attentato a Carlo Borromeo, dove si può vedere il Farina in piedi con in testa un cappello ornato da una grande piuma, che imbraccia l’archibugio, da cui esce un lampo vermiglio diretto verso la schiena dell’Arcivescovo raffigurato inginocchiato in preghiera.

[34] Cfr. E. Rotelli, La figura e l’opera… cit., p. 137.

[35] G. P. Giussani, Vita di San Carlo Borromeo Prete Cardinale del titolo di Santa Prassede, Arcivescovo di Milano, Brescia MDCXIII, Libro IV, p. 185.

[36] B. Ulianich, Carlo Borromeo e i Protestanti, in “San Carlo e il suo tempo”, Atti del Convegno Internazionale…..Milano 1984, vol I, p. 137.

[37] Cfr. D. Maselli, Alla ricerca delle radici… cit., p. 39 e segg.

[38] B. A., Ms. F 166 inf., cc. 496r-508v. Nel descrivere il documento riportiamo le informazioni nella stessa successione in cui sono esposte, e spesso trascrivendo le stesse parole, poiché cambiandole in termini attuali non avrebbero una resa linguistica come le originali.

[39] Ibid., c. 496r. La Repubblica delle Tre Leghe venne siglata, come già detto, nel 1471 a Vazerol tra le tre Leghe Grigioni: Lega Caddea, Lega Grigia e Lega delle Dieci Giurisdizioni. La Lega Caddea o Lega della Ca’ di Dio, deriva io suo nome, come ci spiega il documento, dalla sua sottomissione alla totale giurisdizione della Chiesa, in tedesco Gotteshausbund, in romacio Lia da la Chadé; il Cantone dei Grigioni, il cui capoluogo è Coira, è l’unico in cui le lingue ufficiali sono tre: italiano, romancio e tedesco.

[40] Cfr. Dizionario storico della Svizzera (DSS), Locarno 2002. Nel documento troviamo: “porta per insegna un Camorso forse per che  sotto la sua giurisd.ne sono monti altissimi dell’Engadina superiore et inferiore”. B. A., Ms. F 166 inf., c. 496v.

[41] Antica famiglia originaria di Valvenosta nel Trentino, di cui un discendente fu Vescovo di Coira nel 1213, ma dal Dizionario  (DSS) risulta che dal 1209 al 1221 fu Vescovo Arnold von Mätsch.

[42] B. A., Ms. F 166 inf., c. 496v.

[43] Ibid.

[44] Ibid.

[45] Ibid., 496v e497r.

[46] Ibid., c. 497r.

[47] Ibid. Forse si tratta di Paul Ziegler von Ziegelberg, il quale fu Vescovo di Coira nella prima metà del Cinquecento.

[48] Ibid., c. 498r.

[49] Ibid.

[50] Ibid., 498v.

[51] Ibid.

[52] Ibid., 499r.

[53] Ibid.

[54] Ibid., cc. 499r-500r.

[55] Ibid., c. 500v.

[56] Ibid., c. 5001r.

[57] Ibid.

[58] Ibid.

[59] Ibid., c. 501v.

[60] Ibid.

[61] Ibid.

[62] Ibid., c. 502r.

[63] Ibid., cc. 502r-502v.

[64] Ibid., c. 502v.

[65] Ibid.

[66] Ibid., c. 503r.

[67] Ibid., c. 503v.

[68] Ibid., c. 504v.

[69] Ibid., c. 504r.

[70] Ibid., c. 504v.

[71] Ibid., c. 505v.

[72] Ibid., c. 507r. E’ probabile che questo documento sia stato scritto dopo I divieti posti dalla Dieta di Coira al Cardinale di proseguire nella sua visita in Valtellina e Chiavenna , come era di suo proposito.

[73] Ibid.

[74] Ibid., c. 507v.

[75] Carlo d’Aragona Tagliavia, principe di Castelvetrano nacque a Palermo il 25 dicembre 1521, primogenito di Giovanni, marchese di Terranova e Antonia Concessa d’Aragona Alliata dei baroni di Avola, da cui ereditò le baronie di Avola e Terranova, elevate poi a marchesati nel 1543; dal padre ricevette il possesso del Marchesato di Terranova, della Contea di Castelvetrano e delle Baronie di Pietra Belice e Burgio Milluso. Fin da bambino seguì il padre al servizio dell’esercito imperiale spagnolo, nel 1539 e nel 1543 fu Governatore della Compagnia della carità di Palermo, dove, nel 1545 circa, iniziò la sua carriera politica come Capitano di giustizia, designato “Magnus Siculus” fu per 40 giorni reggente del trono di Spagna in attesa della maggiore età di Filippo, dopo il 1557, anno dell’abdicazione di Carlo V. Tra i numerosi titoli poteva fregiarsi anche di quello di Capitano generale e Presidente del Regno di Sicilia, Filippo II lo investì dei titoli di Duca di Terranova e di Principe di Castelvetrano. Ammiraglio e gra Conestabile del Regno, nel 1571 prese parte alla battaglia di Lepanto, in seguito ricoprì nuovamente l’incarico di Presidente del Regno di Sicilia dal 1571 al 1577, dove fu molto coscienzioso nel governare i suoi feudi, in particolare quello di Castelvetrano, dove fondò un convento, istituì un Monte di Pietà e la Compagnia dei Bianchei dediti alla cura dei malati e all’assistenza dei condannati a morte, ingrandì e fece decorare la chiesa di San Domenico, costruita dai suoi avi e avviò la riqualificazione urbanistica di Palermo. Dalla monarchia spagnola ebbe importanti incarichi anche fuori dalla Sicilia e il 18 ottobre 1582 fu nominato Governatore di Milano e come tale fu inviato, nel 1588, per stipulare la pace con i Cantoni svizzeri, ricoprì il governatorato fino al 1592, dopo la morte di Filippo II, il suo successore, Filippo III, lo nominò Presedente del Supremo Consiglio d’Italia. Morì a Madrid il 23 settembre 1599 e fu seppellito nella chiesa di San Domenico di Castelvetrano come da sua disposizione testamentaria. Fu citato dal Manzoni nel suo romanzo “I Promessi Sposi” come autore di due gride che riguardavano i bravi: “ Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per spegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità. Fin dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustruissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitano Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro essi”. A. Manzoni, I promessi Sposi, Cap. I. Stabilì che i governatori venissero appellati col titolo di Magnifici o Spectabiles, e il Senato Potentissime rex, a quest’ultimo tolse il potere di avocare a sé le cause di spettanza dei giudici inferiori. Per una più ampia e dettagliata storia di questo personaggio si vedano le due opere di R. Canosa, Storia di Milano nell’età di Filippo II, Roma 1996; La vita quotidiana a Milano in età spagnola, Milano 1996.

[76] B. A., Ms. F 166 inf., c. 536r.-540v.

[77] Ibid.

[78] P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo riguardanti la Svizzera e i suoi territori, Tipografia Artistica, Locarno 1909, p.321. Riportiamo parte del documento: “Cupentes pro nostro pastorali officio ut Helvetiorum et Rethorum popolorumque eis subiectorum provinciae, quae superioribus saeculis sincerae fidei christianaeque religionis culto eminere solebant nunc vero aliqua in parte, istigante humani generis hoste, deformatae existunt, quas paterna et singulari quadam protectione prosequimur, Visitationum apostolica rum remedio, adjuvante Domino, restituantur, atque divino culti et animarum saluti quantum cun Deo possumus consolamus, circumspectionem tuam quam alias de eximia integritate, prudentia ac religionis catholicae zelo plurimum in Domino confissi nostrum et apostolicae Sedis generalem et specialem Visitatorem, Reformatorem et Delegatum in Cremonensi, Bergomensi ac Brixiensi et aliis tunc espressi civitatibus et diocesibus “Motu-proprio” deputavimus, facultatesquae ad id opportunas etiam quasqumque ecclesia set sacristias quarumcumque persona rum regularium tam vivo rum, quam mulierum quorum vis ordinum et Congregationum, visitandi et reformandi tibi tribuimus prout in nostris diversis litteris tibi directis plenius continetur: in Costantiensi, Lausanensi, Sedunensi, Curiensi, Basiliensi, Consensi aliiaque Helvetiorum et Rethorum praedicatorum dominio quomodocumque subjectis Civitatibus, diaecesibus et locis universis Visitatorem Reformatorem ac nostrum et apostolicae sedis generalem et specialem Delegatum in omnibus et singulis authoritatibus et facultatibus in predictis literis espressi, aucthoritate apostolica tenore praesentium “Motu-simili”ad nostrum et Sedis Apostolicae beneplacitum constituimus et constitutionibus…”

[79] Cesare Speciano nacque a Cremona nel 1539 da Giovanni Battista, capitano di giustizia, consigliere e senatore nella Milano di Francesco II Sforza. Fu ordinato presbitero per l’Arcidiocesi di Milano nel 1567 e come appartenente ad una nobile famiglia ebbe una rendita fissa con l’Abbazia commendataria di San Pietro all’Olmo, Borromeo lo nominò Canonico ordinario del Duomo di Milano e Prefetto della Casa vescovile. Fu a Roma come Referendario e Segretario della Congregazione dei Vescovi e Regolari nel 1577 e nel 1584 fu nominato Vescovo di Novara. Fu Nunzio apostolico alla corte di Filippo II in Spagna dal 1586 al 1588. Impegnato nella promozione delle riforme del Concilio tridentino, cercò di attuarle anche nella sua diocesi, interessandosi principalmente della disciplina, della moralità e dell’istruzione del clero affinché fosse meglio preparato nella cura delle anime; lottò per sradicarle superstizioni e nel 1590 emanò l’editto “De superstitionis evitandis”, in cui descrisse molte credenze e miti diffusi a quel tempo. Nel 1590 tenne un Sinodo per rafforzare la riforma nel clero e l’anno successivo fece ampliare il palazzo vescovile e il coro della cattedrale di Novara. Dal 1591 fu Vescovo di Cremona e dal 1592 al 1598 fu Nunzio apostolico a Praga alla corte di Rodolfo II. Nel 1600 fondò a Cremona il Collegio dei Gesuiti a cui lasciò in eredità tutti i suoi beni. Nel 1602 fu impegnato in un difficile caso diplomatico di mediazione per conto dell’Imperatore Rodolfo II. Morì a Cremona nel 1607. Cfr. http:77it.cathopedia.org/wiki/Cesare_Speciano

[80] Cfr. B.A., F 69 inf., c. 176r.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 324.

[81] B.A., F 69 inf., c. 219r.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 325-327.

[82] Ibid.

[83] Ibid.

[84] Ibid.

[85] Cfr. B. A., F. 69 inf., c. 346r.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 359; R. Boldini, Documenti intorno alla visita di San Carlo Borromeo in Mesolcina, Poschiavo 1962, p. 5.

[86] B. A., Ms. 164, c. 441r.

[87] Ibid

[88] Cfr. G. A. aMarca, Compendio storico della Valle Mesolcina, Lugano 1838, p.131 e segg.

[89] Monsignor Francesco Borsatto, mantovano, Protonotaro Apostolico,”Dottore nell’una e l’altra legge degno di essere annoverato trà più famosi che da molti centinara d’anni infin’ora siano stati […] havevaquesto Prelato in particolare prattica grandissima di queste materie di heretici e di streghe per haverci posto studio grande, et essere stato molti anni Advocato della Santa Inquisizione in Mantova>>. Cfr. G. B. Possevino, Discorsi…cit., p. 177; A. Agnoletto, Religione popolare, Folklore e magia nei documenti borromaici, in “San Carlo e il suo tempo”, Atti del Convegno Internazionale nel IV centenario della morte, (Milano, 21-26 maggio 1984), Roma 1986, p. 885.

[90] Cfr. F. D. Vieli, Storia della Mesolcina scritta sulla scorta dei documenti, Ed. Grassi & Co., Bellinzona 1930, p. 150.

[91] Cfr. G. P. Giussano, Vita di San Carlo… cit., p. 382.

[92] Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/valle-mesolcina_%28Enciclopedia-Italiana%29/; Molte notizie che seguono sono state riprese anche da G. A. aMarca, Compendio Storico della Valle Mesolcina, Lugano 1838, pp.131-132.

[93] Cfr.F.D. Vieli, Storia… cit., pp. 22-26.

[94]La Centena è una divisione amministrativa usata storicamente nei paesi nordici e germanici per dividere una regione più grande in unità geografiche più piccole. Il nome è derivato dal numero cento. Era un sistema usato tradizionalmente dai popoli germanici, descritto fin dal 98 da Tacito

[95] Cfr. F. D. Vieli, Storia… cit, p. 105 e segg.

[96] Cfr. C. Donati a cura di, Alle frontiere della Lombardia: politica, Guerra e religione nell’età moderna, Milano 2006, p. 44 e segg.; http://mobile.hls-dhs-dss.ch/m.php?article=18033.php

[97] F. D. Vieli, Storia… cit, pp. 135-137.

[98] Ibid.

[99] Ibid., p. 140.

[100] Giovanni Beccaria, nato a Locarno nel 1510 circa, dopo gli studi di teologia abbracciò la fede riformata ed esercitò con successo l’insegnamento. Cacciato dalla sua città, si rifugiò a Mesocco, dove aprì una scuola frequentata dai figli delle famiglie riformate di Locarno. In seguito venne nominato parroco riformato di Mesocco. Nelle sue lettere a Heinrich Bullinger, teologo, riformatore e Antistes (Vescovo) della Chiesa riformata di Zurigo, Beccaria scriveva che a Mesocco nessuno andava più alla messa , che molti erano pronti ad abbandonare la religione cattolica per essere liberi da vincoli finanziari ecclesiastici e da doveri spirituali, ma rifiutavano di provvedere al mantenimento della nuova chiesa, non erano interessati alle funzioni religiose ed erano immorali. Nel 1556 Beccaria partì al seguito di una comunità protestante per Zurigo, nel 1559 riprese il suo posto di parroco riformato a Mesocco, ma non essendo tollerato dai Cantoni cattolici, il comune della città lo allontanò ed egli si rifugiò a Chiavenna, per fare tornare l’anno successivo a Mesocco, dopo il ricorso fatto dai riformati grigioni contro l’espulsione del Beccaria, in quanto non colpevole di delitti comuni, ma la situazione era cambiata e molte persone autorevoli avevano voltato le spalle alla Riforma: osteggiato, deluso e stanco Beccaria si riparò a Bondo, dove morì nel 1580. Cfr. F. D. Vieli, Storia… cit, p.140 e segg.

 

[101] Ibid. p. 144.

[102] Ibid.

[103] G. A. aMarca, Compendio Storico… cit., pp.131-132.

[104] B. A., Ms. P 23 inf., c. 228r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 7-8.

[105] Giacomo Savelli, discendente dall’antica e nobile famiglia romana che contava tra i suoi discendenti tre papi e alcuni cardinali, nacque a Roma il 28 ottobre 1523, da Giambattista e Costanza Bentivoglio, la nonna paterna, Camilla Farnese, era cugina di Paolo III, il quale lo inviò a Padova, dove si laureò in “utroque iure”, intraprese la carriera ecclesiastica quando aveva solo sedici anni e l’anno successivo fu creato cardinale diacono. Ebbe numerosi e importanti incarichi e fu molto legato alla Marca, dove dal 1551 al 1555 si adoperò per difendere le coste dai Turchi. Nel 1557 fu chiamato da Paolo IV a far parte della Congregazione dell’Inquisizione e nel 1560 fu nominato Vicario di Roma sempre dallo stesso papa, il quale aveva stabilito, nella riforma dei tribunali romani, che la carica fosse affidata ad un cardinale. Savelli prese, fin dall’inizio, una serie di provvedimenti conformi ai principi del Concilio di Trento per moralizzare il clero, disciplinare il culto delle reliquie e soprattutto per ciò che concerneva le funzioni pastorali dei parroci, si adoperò per il controllo e il governo dell’ordine e della morale nella città di Roma. Nel 1560 gli fu assegnata la Diocesi di Benevento, che visitò solo nel 1567 a causa dei numerosi impegni con il Pontefice. Nel 1562 Pio V lo chiamò di nuovo a far parte della Congregazione dell’Inquisizione, dove si occupò principalmente di tenere la corrispondenza con i vicari e inquisitori: un esempio sono le numerosissime missive tra il Savelli e Carlo Borromeo. Dal 1577 al 1583 fu creato Cardinale Vescovo di Sabina, di Tuscolo e di Porto. Alla morte di Scipione Rebiba, nel 1577, divenne Inquisitore Maggiore, occupandosi attivamente nel controllo e repressione delle eresie, superstizioni e stregoneria. Durante il conclave del 1585 fu proposto tra i papabili, ma su di lui gravava una fama negativa diffusa dai suoi opoositori che gli attribuivano diversi figli naturali, in realtà incise la sua politica a favore di Alessandro Farnese e della Spagna, che condizionò negativamente, in seguito, l’atteggiamento di Sisto V nei suoi confronti. Savelli morì a Roma il 5 dicembre 1587 e il Papa, non dimenticando il suo rancore, non tenne conto del suo testamento.

Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/giacomo-savelli_(Dizionario-Biografico)/

 

[106] B. A., F 69 inf., c. 256 r. e v.; P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo…cit., p. 328.

[107] Per la lettera al Savelli Cfr. B. A., Ms. P 23 inf., c. 228r.; A. Borromeo, L’opposizione all’eresia. Apostolo e “genio” pratico della riforma, in “Il grande Borromeo tra storia e fede”, Milano 1984, pp. 223-255. Il “negotio” che il Borromeo stava terminando riguardava il matrimonio della principessa Margherita Farnese, proposto dal Cardinale Alessandro Farnese per un’alleanza antifiorentina dei Farnese con i Gonzaga, la cui rivalità risaliva ai tempi di papa Paolo III (Farnese). Margherita, figlia del principe Alessandro Farnese e Vincenzo Gonzaga, unico figlio di Guglielmo duca di Mantova e futuro duca di Mantova, si erano uniti in matrimonio con una solenne cerimonia officiata nella Cattedrale di Piacenza il 2 marzo 1581, ma dopo poco tempo la principessa, che portava una dote di trecentomila scudi, si rivelò inabile al matrimonio a causa di un impedimento congenito di Margherita, che avrebbe potuto risolvere con un delicato intervento chirurgico, caldamente sconsigliato dalla nonna, Margherita d’Austria, e anche dallo stesso Borromeo. La causa fu demandata da Gregorio XIII al Borromeo, come Delegato Pontificio, il quale, accertata dai medici l’inabilità fisica della donna, dichiarò nulla la loro unione e autorizzò il duca Vincenzo a poter contrarre nuove nozze. La principessa Margherita, il primo ottobre dello stesso anno, entrò nel monastero di San Paolo di Parma, dove fece professione religiosa, prendendo il nome di Maura Lucenia. Cfr. C, Poggiali, Memorie storiche della città di Piacenza. Compilate dal Proposto Cristoforo Poggiali Bibliotecario di S.A.R., Tomo X, Piacenza MDCCLVI, pp. 194-197; E. Costa, Spigolature storiche e letterarie, Parma 1887, p.17 e segg.; http://www.it/enciclopedia/margherita-farnese_(Dizionario-Biografico/)

[108] B. A., F 166 inf. cc. 254r.- 259r-260r.

[109] Ibid.

[110] G. B. Possevino, Discorsi… cit., pp. 177-178.

[111] Ibid. p. 180.

[112] B. A., F 166 inf. C. 492r. e segg.; P. D’Alessandri, Atti di S.Carlo…, cit., p. 335-336.

[113] A. Agnoletto, Religione popolare, Folklore e Magia nei documenti borromaici, in “San Carlo e il suo tempo”, Roma 1986, p. 870 e segg.

[114] Cfr. A. Agnoletto, Religione popolare… cit., p. 871.

[115] Ibid.

[116] Ibid.

[117] Cfr. F. Molinari, San Carlo Borromeo tra mito e storia, in “Quaderni camuni”, 8, 1979, p. 336.

[118] Cfr, A. Agnoletto, Religione popolare… cit., p. 876.

[119] R. Boldini, Documenti… cit., pp. 9-10.

[120] Ibid.

[121] Ibid.

[122] Il 23 maggio 1555, all’età di settantanove anni, il Cardinale Pietro Carafa fu eletto Papa con il nome di Paolo IV, nei suoi quattro anni di pontificato, egli ebbe come obiettivo principale la lotta alle eresie e una seria riforma della Chiesa e tra le molteplici occupazioni sia di carattere spirituale che politico, quella cui si dedicò maggiormente fu il Sant’Uffizio, attuando cambiamenti e, spesso, prendendo personalmente le decisioni più importanti; ampliò le facoltà d’intervento dell’Inquisizione assegnandogli la competenza sulla bestemmia e sulla simonia, intensificò le pene e comminò la pena capitale nel corso del primo processo per chi confutasse la Trinità, la divinità di Cristo e la verginità della Madonna, più tardi anche per chi celebrasse messa, ascoltasse confessioni, approfittasse dell’eucaristia senza avere ricevuto l’ordine sacro. Nel complesso, durante il papato di Paolo IV il Santo Uffizio ampliò notevolmente la sua sfera d’azione e le sue competenze a reati come la bestemmia, l’omosessualità e la simonia, quest’ultima era uno dei cardini su cui si basava la sua lotta per la riforma della Chiesa. Cfr. A. Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Mondadori 2006, p. 398; L. Fabbri, Per fede e per dignità: il caso di Abramo e Agnoluccio ebrei, in “I Tesori alla Fine dell’arcobaleno”, https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2017/07/05/per-fede-e-per-dignita-il-caso-di-abramo-e-agnoluccio-ebrei/?

[123] B. A., Ms. F 69 inf. cc. 256r.-257v.

[124] Achille Gagliardi nacque a Padova nel 1537circa da Girolama Campolongo e da Ludovico, alla prematura scomparsa del padre  fu affidato insieme con i fratelli ad un precettore e dopo la morte della madre si trasferì a Roma per entrare nella Compagnia di Gesù. Nel 1562 ebbe l’incarico di insegnare nel Collegio Romano prima etica, poi logica, fisica e metafisica, nel 1568 fu nominato rettore del Collegio di Torino. Svolgendo nel contempo molte altre attività, che suscitarono gelosie nelle autorità religiose torinesi che lo accusarono di troppa ambizione e inefficienza nella direzione del Collegio, ma egli riuscì ad ottenere di nuovo la fiducia. Nel 1572 ebbe la cattedra di teologia scolastica nel Collegio di Brera  a Milano, ma non assunse tale incarico a causa dell’insistenza del Duca di Savoia, presso il quale ebbe attività diplomatiche e di mediatore con la Santa Sede, tali stretti rapporti finirono quando Gagliardi fu chiamato a Roma, nel 1575, per occupare la cattedra di teologia scolastica, dove trovò un clima molto burrascoso con polemiche dottrinarie ed altre riguardanti la Compagnia di Gesù; le sue prese di posizione furono la causa per cui dovette lasciare Roma nel 1579. Il Borromeo, il quale lo stimava molto, lo chiamò a Milano in occasione della sua visita in Mesolcina, che lo impegnò molto anche come predicatore. Tornato a Milano divenne direttore spirituale di Isabella Cristina Berinzaga, la cui assidua frequenza con la “mistica” destò molte perplessità, inoltre nella sua opera “Breve compendio di perfezione cristiana”, vennero riscontrati gravi errori dottrinari, fu fatta esaminare a Roma e anche i teologi Gesuiti si pronunciarono contro la sua divulgazione. Non era di questa opinione il futuro Santo, il quale manda una copia al Cardinal Savello per avere la licenza di stamparla e scrive queste parole: “…ha composto un catechismo volgare che è come una instruttione piena, breve et chiara della fede per uso et servizio principalmente dei paesi dei Grisoni […]  il qual libro mi è piaciuto grandemente et sarebbe utile in ogni luogo…”  P. D’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 328.  Tornato a Milano nel 1593, fu riconfermato Preposito di San Fedele, ma le riprese frequentazioni con la Berinzaga, che considerava direttamente ispirata dalla parola divina, lo spinsero a rimettere l’incarico. Dopo molte vicissitudini e una vita piuttosto movimentata  (che non spiegheremo in questa sede), fu nominato rettore del Collegio di Bologna nel 1604, in condizioni di salute pessime, morì a Modena il 6 luglio 1607. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/achille-gagliardi_%28Dizionario-Biografico%29/

[125]Girolamo (Francesco) Panigarola nacque a Milano nel 1548 da nobile famiglia, studiò a Pavia, a Bologna e a Pisa, nel 1567 entrò nei frati Minori Conventuali,prendendo il nome di Francesco nel 1571 Pio V lo mandò a Parigi per frequentare le lezioni di teologia della Sorbona. Insegnò a Bologna, Firenze e a Roma, non trascurando il suo compito di predicatore e come tale, tra il 1574 e il 1587 fu in numerose città italiane: tale fu la fama come predicatore, che divenne un punto di riferimento per la predicazione del suo tempo: principi, ecclesiastici e nobili fecero a gara per ottenere la sua presenza, il Borromeo lo volle spesso come predicatore ufficiale nel Duomo di Milano, anche il Papa assisteva alle sue prediche. A Torino tenne le sue conferenze contro Calvino, confutando le tesi contenute nell’”Institutio religionis Christianae”: <<…contro i libertini e gli ateisi trattò di affermare da parte di tutti i credenti, che esiste un solo Dio; contro ebrei e musulmani, si trattò di sostenere, da parte di tutti i cristiani, che Cristo è Dio, ovvero che la rivelazione cristiana è vera; infine, contro i protestanti, si trattò di dimostrare che la vera Chiesa è quella cattolica, in quanto corrispondente alla volontà di Cristo. Rifiutando la definizione che Calvino fornisce di Chiesa, basata sulla predestinazione degli eletti, come pure quella degli anabattisti che fanno coincidere la Chiesa con la comunità dei giusti, Panigarola mette in campo la distinzione intercorrente tra “chiesa militante” e “chiesa trionfante”, distinguendo due modi diversi di essere uniti a Cristo nell’unica Chiesa>>. F. Buzzi, Religione, cultura e scienza a Milano. Secoli XVI-XVIII, Milano 2016, p. 185 e segg. Dal 1582 al 1584, salvo alcune eccezioni, fu a Milano per servire l’Arcivescovo e alla morte di Carlo Borromeo fu incaricato di fare l’aorazione funebre. Nel 1586 fu suffraganeo del Vescovo di Ferrara e nel 1587 fu eletto Vescovo di Asti e nella stessa città morì il 31 maggio 1594.

[126] Bernardino Morra nacque a Casale Monferrato nel 1549 da una famiglia patrizia di Chv asso, dopo gli studi giuridici entrò al servizio dei Gonzaga, che lasciò per seguire la carriera ecclesiastica. Nel 1575 si trovava già presso il Borromeo, il quale l’anno seguente lo nominò Auditore generale della Diocesi di Milano, con funzioni parificate a quelle di vicario. Nello stesso tempo in cui Carlo si trovava in Mesolcina, Morra andò a Coira come suo inviato per svolgere un’importante missione diplomatica con i Grigioni; alla morte del Prelato, Morra continuò a seguirne le orme e nel 1586 fu nominato Vicario generale della Diocesi di Milano, in seguito fu Protonotaro apostolico. Nel 1595 ebbe la nomina di Segretario della Congregazione dei Vescovi e poi, chiamato da Clemente VIII, che lo volle come coadiutore nella riforma disciplinare della Chiesa, Prefetto del Palazzo apostolico. Nel 1598 ottenne la nomina di Vescovo di Aversa, svolgendo il suo governo vescovile sul modello borromaico.Morì ad Aversa il 17 marzo 1605. Cfr. http://WWW.treccani.it/enciclopedia/bernardino-morra_(Dizionario-Biografico)/

[127] B. A., Ms. F 166 inf., c. 11r.

[128] P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo…, cit., pp. 333-334.

[129] Ibid.

[130] Ibid.

[131] Ibid., pp. 335-336.

[132] Ibid.. p.336.

[133] Ibid.

[134] Ibid., pp. 336-337. Pietro Paolo Vergerio nacque a Capodistria nel 1498. Giurista, professore universitario e riformatore religioso, dopo la morte prematura della moglie Diana Contarini, si mise al servizio della Chiesa: fu Nunzio in Germania nel 1533 presso la corte di Ferdinando d’Asburgo, esperienza che lo rese grande conoscitore del mondo tedesco e protestante, tre anni dopo fu consacrato prete e vescovo da Papa Paolo III che gli assegnò prima la diocesi di Modrus in Croazia poi quella di Capodistria. Nel 1540 fu rappresentante ufficiale di Francesco I re di Francia alla dieta di Worms, dove, su ordini della Curia pontificia, si oppose ai propositi conciliativi di Carlo V. Riprese i contatti con i principali riformatori tedeschi e si allontanò dall’ortodossia cattolica tanto da essere denunciato come luterano nel 1544, l’anno successivo fu processato e assolto a Venezia. Nel 1549 fu esule in Svizzera, dopo avere rifiutato l’opportunità di discolparsi presso la Curia romana, dopo un lungo giro di divulgazione del luteranesimo in questa nazione, svolseun’intensa attività propagandistica politico-religiosa in Germania, nei Grigioni e in Valtellina, mostrandosi accanito avversario del papato. Dal 1561 al 1562 fu molte volte nella città di Coira, dove fece propaganda anticonciliare e divulgò numerosi libretti d’ispirazione luterana. La sua copiosa produzione letteraria fu essenzialmente propagandistica. Morì a Tubinga il 4 ottobre 1565. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/vergerio-pietro-paolo-il-giovane_%28Enciclopedia&#8230;

[135] B. A., F 69, c. 349 r.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 358; F. D. Vieli, Storia… cit., pp. 153-154.

[136] B. A., f 166, c. 343 r.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 359; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 28-29.

[137] Cfr. http:// blogs.dotnethell.it/silvanopollena//Il-cardinale-Borromeo-e-le-streghe-della-Mesolcina-e-Calanca_7331.aspx

[138] Cfr. F. D. Vieli, Storia cit…, pp. 162-164.

[139] Ibid., p. 151.

[140] P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 354.

[141] Ibid., in nota.

[142] B. A., Ms. F 166, c. 164r. Ludovico Audoeno (Lewis Owen) nacque in un piccolo villaggio del Galles nel 1532, Studiò prima nel collegio di Wincester e dal 1554 ad Oxoford, che lasciò nel 1561 per proseguire gli studi  di dottorato in diritto e teologia. Fu canonico della Cattedrale di Camrai e arcidiacono a Hainault, successivamente andò a Roma, dove sotto il pontificato di Sisto V e di Gregorio XIII ricoprì le cariche di Referendario di segnatura e Segretario della Congregazione per i Vescovi e i Regolari. Fu uno dei promotori della fondazione dei Collegi inglesi di Douai e Roma e nel 1578 fu nominato Rettore del Morys Clynnong di Roma, ma aspre rivalità tra studenti gallesi e inglesi indussero questi ultimi a chiedere un rettorato guidato dai Gesuiti, poiché sostenevano che i Gallesi erano favoriti rispetto agli Inglesi. Il Papa, forse per allontanarlo da Roma, mandò Ludovico Audoeno a Milano presso il Cardinale Borromeo, dove ricoprì la carica di Vicario dal 1580 al 1584, anno della morte del Borromeo, ma due mesi dopo era di nuovo presso la Corte pontificia e nel 1588 Sisto V lo nominò Vescovo della diocesi di Cassano all’Ionio e nel 1591 fu nominato Nunzio apostolico a Lucerna per la Svizzera, pur continuando a risiedere a Roma, dove morì il 14 ottobre 1591 e fu sepolto nella cappella del Collegio inglese. Cfr. https://it.cathopedia.org/wiki/Lewis-Owen

[143] Ibid.

[144] Cfr. B.A., f 166 inf., c. 107 r. e v.; R. Boldini, Storia… cit., p. 11.

[145] “… ho procurato di parlare col Ministrale Maggio al quale ho dato convenio di sodisfattione, sì che da lui non reusciva alcun male effetto, del successo a Milano, ma già che ne aveva raguardo con alcuni di questa città sì che gli animi erano alterati molto grandemente, in tanto che poco prima che fossero gionte le lettere di V. S. Ill.ma uno ragionando col Todeschino disse che per ricompensa di quel che s’era voluto fare a Milano a uno di loro, bisognava che hora retenesser V. S. Ill.ma veramente che magnifica occasione del negotio che si tratta…”. B. A., F 166 inf., c. 197 r.; R. Boldini, Storia… cit., p. 19.

[146] Cfr. B.A., F 166 inf., c. 107 r. e 122 r.; R. Boldini, Documenti…cit., pp. 11-12.

[147] Peter de Raschèr nacque a Zouz nel 1549, fu educato nella certosa di Buxheim in Svevia e compì gli studi a Ingolstadt. Dopo essere stato eletto Canonico del Capitolo della cattedrale di Coira, fu parroco di Bergün e cantore del Capitolo cattedrale nel 1578, fu eletto Vescovo di Coira nel 1581. Di indole remissiva, delegò ai suoi vicari  i primi tentativi di riforma; dopo la visita di Borromeo in Mesolcina, dette disposizioni al clero sull’amministrazione dei sacramenti e la condotta dei religiosi, fece pubblicare nuove copie del messale e del breviario, nel 1598 promulgò nuovi statuti per il Capitolo cattedrale. Morì a Coira nel 1601.Cfr. http://mobile.hls-dhs-dss.ch/m.php?lg=126318php

[148] B. A., F 166 inf., c. 134 r; R. Boldini, Documenti… cit., p. 13.

[149] Ibid., c. 149 r.; p. 14.

[150] Ibid.

[151] Ibid.

[152] Cfr. F. D. Vieli, Storia… cit., p. 154.

[153] B. A., Ms. F 166 inf. c. 179 r.e v.

[154] B. A., Ms. F 166 inf., c. 197 r.

[155]  Si tratta di Galles de Mont, capo della Lega Grigia.

[156] B. A., Ms. F 166 inf. c. 179r.

[157] Ibid.

[158] Cfr. B. A., Ms. F 166 inf. c. 197 r.

[159] Cfr. R. Boldini, Documenti… cit., pp. 15-16.

[160] B. A., Ms. F 166 inf., c. 184r.; R. Boldini, Documenti…cit., pp. 18-19.

[161] “Cives nostri Curienses omnes C. V. Ill.mam maximo honore excipient accedentem, et non minori prosequentur discendentem, visitationes etiam Ecclesiae meae minime impedient, sermone vero ad populum nullum fieri volent, et si vellent, certe ipse qui statum patriae mentesque nostratum, utcumque iam perspectas habeo, dissuaderem; rem namque hanc, plerique rusticorum in hac  praesertim temporum pernicie, novamet seditioni proximam (licet immerito) suspicarentur tamen, sed de hac re alias”. R. Boldini, Documenti… cit., p. 21.

[162] Papa Gregorio XIII emana il nuovo calendario il 24 febbraio 1582: quello vecchio, che era stato emanato da Giulio Cesare, aveva i giorni di circa undici minuti più lunghi del giorno astronomico, quindi nel secolo XVI risultava che l’anno civile aveva accumulto dieci giorni di ritardo rispetto a quello astronomico. Questa riforma del calendario ebbe luogo proprio nel culmine delle lotte religiose e i Protestanti non vollero riconoscerlo, in quanto promulgato dal Papa. In Svizzera, i Cantoni cattolici decisero di adottare il nuovo calendario dal 10 novembre 1583 mentre quelli Riformati lo adottarono solo dal 1701; nelle terre dei Grigioni il calendario gregoriano non fu accolto in una precisa data, ma fu applicato nel secolo seguente e divenne normativa comune solo nel 1811, a causa delle violente lotte religiose, Cfr. R. Boldini, Documenti… cit.,  p. 22.

[163] B. A., Ms. F 175 inf. c. 166 r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 24-25.

[164] Ibid., c. 156r.

[165] B. A., Ms. 166 inf. c. 555r.-558v. “Per Franza”.

[166] Cfr. Ibid., c. 557v. Gli abitanti delle due Valli erano circa centomila, dei quali “due o tremila” eretici, il documento continua dicendo le vessazioni che vengono fatte ai Cattolici, i quali sostengono di non poter più sopportare una simile situazione. Per la storia della Valtellina e Valchiavenna si veda: G. Romegialli, Storia della Valtellina e delle già Contee di Bormio e Chiavenna, Vol. II, Sondrio 1834.

[167] B. A., Ms. P 24 inf., cc. 592v.-594v.; e c. 666r.

[168] Cfr. B. A., Ms. F 170 inf., c. 342r.

[169] B. A., Ms. F 168 inf., cc. 411r e v.

[170] B. A., Ms. F 169 inf.cc. 217 r. e v.

[171] Ibid., c. 281r.

[172] Cfr. A. Lanfranchi a cura di, Il Libro delle memorie del Canonico Fanti di Sondalo, Parte III, in “Bollettino Storico Alta Valtellina, n. 15, Anno 2012, p. 35.

[173] B. A., Ms. F 169 inf., c. 297r.

[174] Ibid., cc. 365r e v.

[175] B. A., F 166 inf., c. 112r. “…di che si promettevano grata risposta et che altrimenti facendo de non voler consentir a questi loro amichevoli avisi et essortationi et nunc gli protestavanode non darci alcuno aiuto occorrendo gli intervenga qualche fortuna, et che vogliono essere escusati d’haver fatto il debito loro, sopra quale esposizione detti SS.ri Grisoni non gli hanno dato alcuna grata ne buona risposta, ma sono restati sdegnati della protesta fatta da detti SS.ri Amb.ri Svizzeri quali si partirono malissimo sodisfati”.

[176] B. A., Ms. P 23 inf. (II), c. 228r.

[177] B. A., Ms. F 166 inf., c. 112r.

[178] Ibid., c. 512v.

[179] B. A., Mss.P 24 inf., c. 513 e 524, le minute sono datate “fine di luglio 1584” per lo Speciano e 2 agosto dello stesso anno per il Cardinale Savello; F. 166 inf., c. 511r. : “Così poiche per molti degni rispetti questa loro richiesta ci pare molto strana; et particolarmente che altre nostre vicine nationi, non comportarebbano che noi erigessimo uno Seminario o Collegio Evangelico nelli nostri paesi sudetti; pone per cio noi non havemo mai detto contra a quelli, che errette scole di Giesuiti, et altri conventi ne manco ci è mai venuto in pensiere di cercar di volerle obiurare. La onde si persuadiamo totalmente che nessuno ne habbia a contradire ne di volerlo levere con minacie queste ne altre honorate inovationi. Ma particolarmente restiamo sumamente admirativi, et ci pesa, che detti SS.ri Amb.ri in nome de loro SS.ri et supp.ri nella conclusione della loro instruttione per desviarne con minacie, di uno tanto Christiano proposito, ci hanno fatto intendere, che in caso dela loro richiesta, et essortatione, non potesse haver loco presso di noi, che si protestano, occorendo caso che percio ne resultasse qualche fastidij contrarietà, et inquieti, che essi non ci vorranno dar agiuto ne assistenza…”

[180] Scipione Calandrini, figlio illegittimo di Giuliano di Filippo, nacque probabilmente a Lucca nel 1540 circa. Fu affidato alle cure di un precettore, il quale fu poi arrestato a Lucca nel 1556, trasferito a Roma e condannato al rogo, fu spiccato un mandato di cattura anche per Scipione, che, avvertito, riuscì a fuggire, rifugiandosi nei Grigioni e poi a Ginevra, dove ottenne la cittadinanza nel 1559 e prestava servizio come ministro della Chiesa italiana. Fu uno dei primi lucchesi a convertirsi alle dottrine riformistiche, indipendentemente dai contatti con i riformati d’oltrape. Poche le notizie negli anni tra il 1562 e il 1572, nel 1566 si trovava di Nuovo a Ginevra, dove insegnava gratuitamente dialettica e retorica al “Collège”, ma due anni dopo, non avendo ottenuto la cattedra di filosofia, andò ad Heidelberg, dove oltre che studente, fu insegnante di filisofia, teologia e lettere. Fu in Valtellina nel 1570 circa, come pastore di Morbegno e nel 1575 partecipò alla Dieta di Coira, nel 1577 fu a Sondrio, dove continuò la sua attività pastorale, ma anche una massiccia opera di propaganda ed educazione: organizzò un ginnasio, in cui aveva grandissima parte l’educazione umanistica, suscitando la reazione dei cattolici.Scrisse molte opere, di notevole rilievo è il metodo di dibattito da lui proposto, ossia di interventi alternati e non disturbati da interruzioni. Fu al centro, insieme con Nicolò Rusca, delle drammatiche vicende che sfociarono nel tristemente famoso “Sacro Macello della Valtellina” del 1620. Nel 1594 riuscì a sfuggire ad un agguato il cui mandante fu Michele Chiappino, che venne poi arrestato e durante l’interrogatorio confessò di avere agito, a sua volta, per conto del Rusca, che si difese strenuamente dicendo aanche di essere stato in buoni rapporti con Scipione: entrambi furono giustiziati. Calandrini morì, probabilmente, verso gli inizi del XVII secolo. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/scipione-calandrini_(Dizionario-Biografico)/

 

[181] B. A., Ms. F 168 inf. cc. 93 r.-94v.

[182] Cfr. L. Prosdocimi, Riforma borromaica e conservatorismo politico. Dalle controversie di giurisdizione alla convergenza, in “San Carlo e il suo tempo, Atti del Convegno Internazionale nel IV centenario della morte (Milano, 21-26 maggio 1984), Roma 1986, p. 705.

 

[183] B. A., Ms. F 166 inf. cc. 536r-540v.

[184] B. A., Ms. F 166 inf., c. 541r.

[185] Ibid.

[186] Ibid., c. 164r.

[187] Cfr. B. A., Ms. F 166 inf., cc. 324r., 325r., 392r., 467r.

[188] Una lettera è scritta dal Cardinale Savello, il quale comunica a Borromeo di avere data al Pontefice la relazione da lui scritta e il decreto emesso dai rappresentanti delle Leghe durante Dieta, la data risale al 10 dicembre 1583. Cfr. B. A., Ms. F 166 inf., c. 292r.

[189] Cfr. R. Boldini, Documenti… cit., p. 27; B. A., Ms. F 69 inf., c. 331r.

[190] Ibid.

[191] Ibid.

[192] R. Boldini, Documenti… cit., p. 32; B. A., Ms. F. 167 inf. ,c. 58r.

[193] B. A., Ms. F 167 inf., c. 126r. La lettera continua con le spiegazioni delle sue occupazioni giornaliere.

[194] Cfr. Vieli, Storia… cit.,  p. 152; R. Boldini, Documenti… cit., p. 28.

[195] B. A., Ms. F 167 inf., c. 72r; R. Boldini, Documenti… cit., p.35.

[196] B. A., Ms. F 167 inf., c. 85r; R. Boldini, Documenti… cit., p. 35.

[197] Cfr. B. A., Ms. F 167 inf. c. 65r. e 122r., R.Boldini, Documenti… cit., pp. 36-37.

[198] Cfr. B. A., Ms. F 167 inf., c. 182 r.; R. Boldini, Documenti… cit., p. 39.

[199] B. A., Ms. F 166 inf., c. 560r.

[200] Ibid., c. 560v.

[201] La condanna di Gerolamo Borgo viene riportata nella lettera del 30 gennaio 1584, edita da Boldini e in un’altra lettera del 12 febbraio dello stesso anno scritta da Battista Borgo, nipote di Gerolamo, il quale scrive che lo zio è stato accusato di avere avvertito il Cardinale che <<…non li dovesse alhora andare atento che gli erano grandissimi romorri nelle lige, ma che lasase prima fare li pagamenti di Franza;li quali si facevano alhora, sopra la quale querella fu datto al detto mes. Jeronimo mio cio (zio) acrissimi tormenti, atalle cheli fu bisogno confessare il tutto>>. B. A., Ms. 167 inf. c. 270r.; R. Boldini, Documenti…cit., pp.41-42.

[202] B. A., Ms. F 167 inf., c.561r. Pubblicata una parte da P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit.,  pp. 362-363.

[203] B. A., Ms. F 167 inf., cc. 561r e 561v.

[204] Ibid., ms. 167, c. 261r.

[205] B. A., Ms. F 168 inf., c. 37r.

[206] B. A. Ms. F. 168 inf., c. 105r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 43-44.

[207] B. A., Ms. F 168 inf. c. 126r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 44-45.

[208] Cfr. R. Boldini, Documenti… cit., pp. 45-46. In una delle lettere si apprende che Giovan Battista Sacco è stato riconfermato Ministrale.

[209] Ibid. , p. 46.

[210] B. A., Ms. F 168 inf., c. 374r.; R. Boldini, Documenti… cit., pp. 47-48.

[211] Ibid.

[212] B. A., Ms. F 168 inf., c. 380r. e v.; R. Boldini, Documenti intorno… cit., p. 49.

[213] Numerose sono le lettere che parlano dell’applicazione del nuovo calendario, che, come già detto, nel Cantone dei Grigioni non fu adottato unanimamente, infatti Nicolò Venusto, Prevosto di Coira, in una lettera a Pietro Righini, parroco di San Domenico di Calanca scrive che “Essendo informato dal Sig,r Ministrale di Calanca che parte servano il calendario Nuovo, et altri il vecchio, et da questa osservazione ne vengano dispareri grandi […] per tanto essendo noi tutti informati quale sia la mente delli s.ri delle tre lighe di sopra di questo et a parte confermata dalla liga Grisa, per oviare a dissordini che potriano cascare, per la presente vi facciamo intendere che voi serviate detto calendario vecchio, come noi, et questo per modo di provisione, sin’a nuovo ordine di Monsig.r R.mo nostro vescovo di Coira, il medemo farete intender alli altri et di questa risolutione se ne informerà se sara bisogno Mons.r Ill.ma cardinal Borromeo”. In un’altra lettera del29 giugno, Giovan Battista Sacco, Ministrale di Roveredo, scrive al Borromeo che “La Valle Calanca và ostinata sola nell’osservatione di detto Calendario, per timore di detta Ligha nostra…” B. A., Ms. F 169 inf. cc. 220, 221, 279, 382; R. Boldini, Documenti intorno… cit., pp. 55-57.

[214] B. A., Ms. F. 168 inf., c. 385 r. e segg.; R. Boldini, Documenti intorno… cit, pp. 50-52.

[215] B. A., Ms. F. 169, c, 159r.; R. Boldini, Documenti intorno… cit., p. 53.

[216] Cfr. B. A., Ms. P 24 inf. (II), cc. 405r., 406r. e v., 407 r.e v., 409 r. e v.

[217] La lettera è scritta da Giovanni Battista Sacco, il 29 luglio 1584. R. Boldini, Documenti intorno… cit., pp. 57-58.

[218] Cfr. Ibid., pp. 62-63.

[219] B. A. , Ms. F 166 inf., cc. 517 . Un’altra copia la possiamo trovare nel Ms. D 216 inf., c. 70 r e segg., che non si discosta dalla prima se non in qualche termine che non cambia il contenuto;  R. Boldini, Documenti… cit., pp. 65-75. Giovanni Antonio Viscardi, detto Trontano dal luogo d’origine in Val Vigezzo, fu predicatore delle nuove dottrine a Mesocco nel 1554 circa, quando raggiunse il Beccaria (Canessa), il quale si trovava a predicare nello stesso luogo fin dal 1549, quest’ultimo parì da Mesocco nel 1560, il Trontano rimase ancora per dieci anni, lasciando,alla sua partenza, un figlio che figurerà tra gli eretici poi convertiti. Cfr. R. Boldini, Documenti intorno… cit., p. 74 in nota. Lodovico Besozzo, fu discepolo del Trontano, ma all’epoca della Visita era già morto. I tre erano molto noti come eretici.

Fra i rifugiati in Svizzera c’era il prete Giovanni Beccaria, nobile milanese, il quale possedeva dei beni a Locarno, dove aveva la cittadinanza. A Roma aveva frequentato Occhino, Carnesecchi, Vermigli e tornato a Locarno vi diffuse i loro insegnamenti “…sotto il manto di una scuola di letteratura, anzi l’arciprete che nol sospettava l’invitò a fare alcuni sermoni, che piacquero assai”. Il 19 agosto 1549, dopo una lunghissima disputa circa il testo evangelico Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam, sulla confessione auricolare, sul merito delle opere buone, il commissario che presiedeva l’evento fu talmente esasperato dalle risposte equivoche del Beccaria che dette ordine di metterlo in carcere, ma trenta giovani suoi seguaci riuscirono a liberarlo ed egli si rifugiò nella Mesolcina, dove si sposò e fece l’educatore dei figli degli italiani aderenti alla Riforma. “I Zuricani permisero erigesser una chiesa italiana nel tempio di San Pietro, con proprio pastore, che fu Giovanni Beccaria, il quale si conformasse ai riti e ai dogmi del Cantone, giurasse obbedienza al magistrato e al sinodo: provedendolo di cinquanta zecchini, centoquindici brente di vino, diciotto moggia di grano e due di avena”. Ebbe contatti con Heinrich Bullinger, famoso teologo e riformatore svizzero, ma presto i rapporti divennero burrascosi e il Beccaria fu rimosso dall’incarico e sostituito dal senese Ochino, che poco dopo fu anche lui cacciato, Beccaria tornò a Mesocco, dove gli fu permesso di restare e di istruire i giovani, cambiò il suo nome e si fece chiamare Kanesgen. In seguito fu di nuovo cacciato e trovò rifugio in Chiavenna, così scriveva ad un amico:”Dopo una lunga e grave disputa con questi nemici di Cristo, vinse la parte di mandarmi via, a patto però che i fratelli possano avere un altro predicante”. Spesso Beccaria o Kanesgen tornava a Mesocco, fiché fu cacciato con forza in seguito ad un’istanza di Borromeo nel 1571. Poche le notizie su Lodovico Besozzo e Giovanni Antonio Viscardi, detto Trontano. Cfr. C. Cantù, Gli eretici d’Italia… cit., Vol. III, pp. 85-90.

[220] Cfr. la nota n. 26 del presente lavoro.

[221] Ibid.

[222] Ibid.

[223] P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p. 361.

[224] Per alcune notizie su questi personaggi si rimanda alla nota n. 219 del presente lavoro.

[225]B. A. Ms. F 166 inf. c. 520 e segg.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo… cit., p.354 e segg.; R. Boldini, Documenti… cit., p. 72 e segg. Riportiamo i nomi come sono scritti  nel Ms. : le prime quattro sono “Madallena Lorenzona, Madallena Bollasia, Gioanina Garoppa, Caterina de Pravo”. Seguono le altre sei i cui nomi sono: “Caterina Biasela, Domenica Bollasca, Caterina Nasona, Caterina Mascietta, Nisola Pedrazza, Caterina Bolla”. Per il Prevosto Quattrino si veda a p. 22-23 del presente lavoro.

 

[226] I loro nomi: “Antonia Morella, Madallena Belotta, Domenica Pedranda, Caterina et Ursina de Bassoti, Gioanina Nicola, Dominica Tognetta, Madallena Bocheta, Caterina Garleta, Agata Maceta, Nisola Malagigi, Margarita Melita, Ursina et Henrico Pravi, Maffia Gera, Dominica Gasoppa”.

[227] I 56 sospettati erano i seguenti: “Maffia et Nicola de Rivio, Caterina et Gioanina de Tognallo, Caterina de Togni, Gioanina Tina, Ursina Danza, Caterina Tiocha, Hinina et Antonia de Pravo, Pietro et Gioanni de Togni, Gioanni Comascio, Beltramo Travia, Tomaso Pizzona, Domenica Julina, Ursina et Gioani del Truso, Ursina Mascieta, Margarita Simoneta, Giovanni Cabiollo, Gioanina de Togni, Maddalena de Tinti, Ursina et Margarita de Togneti, Pietro et Dominica et Maffia de Togneti, Domenica Tadea, Giulio Buslono, Maffia Stefanona, Maffia Righeta, Ursina Garleta, Petroluno de Beffeno, Domenico Trusso, Gioanina Bassolla, Gioanina Masceta, Simoni de Simoneti, Dominica Margotia, Maffiera de Megno, Caterina di Gianino, Maffia Buscona, Dominia Morellina, Madallena Toppa, Caterina Nottona, Meneghina de Tartaini, Vanina de Pravo, Madallena Barbera, Dominica et Dominico Moreli, Giacomo Trusso, Georgio Trusso, Gioanni Gero, Himina et Agostino de Simoneti, Dominica stolta”.

[228] Riportiamo i loro nomi: “Dominica Guglielmazza, Margarita Villana, Caterina de Scerro, Margarita de Gianello, Stefana Bollasca, Antonio de Pravo, Gioanina Callasia, Margarita Masceta, Gioanina et Ursina de Andrioli, Gioanina et Antonio de Pravo, Maria de Tinti, Caterina Trussa”.

[229] I liberati per l’età erano: “Angela Morina, Caterina Labertalla, Caterina Berlenga, Giacomo Giappino, Domenico Friollo, Madalena et Gioanona de Albertalli”.

[230] “Domenico Pravo, Tadeo et Dominica de Rorré (di Roveredo), Tullio Togneta, Margarita Rigazza”.

[231] In una minuta di lettera del Borromeo datata 4 luglio 1584 e diretta allo Speciano troviamo che: “…mi viene scritto ultimamente dalla Valle Mesolcina che in Musocho…” tra i comvertiti si trova Samuele eretico e figlio del Trontano. B. A., Ms. P 24 inf. (II), c. 449r.

[232] Cfr. B. A., Ms. F 166, c. 524v. e 532v. R. Boldini, Documenti intorno… cit., pp. 73-75.

[233] Cfr. http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/storia/?unita =03.05)>

[234] B. A., Ms. F 69 inf., c. 329r.; P. d’Alessandri, Atti di S. Carlo…cit., p. 357.

[235] F. D. Vieli, Storia… cit., p. 153.

[236] Cfr. http://mobile.hls-dhs-dss.ch/m.php?article=l11450.php ; si veda anche F. D. Vieli, Storia… cit., p. 162.

[237] A. Borromeo, L’opposizione all’eresia… cit., (Sur l’apothéose du cardinal Boromé in A. D’Aubigné, Oeuvres a cura di H. Weber, Paris 1970, ( Collection la Pléiade), p. 343) << Se occorreva, con la perfidia/ Fare la guerra all’eresia/ Dispensare da un giuramento pronunciato/ E fare cadere nella trappola/ Coloro che non adoravano la Santa Sede/ Si faceva ricorso a San Borromeo>>.

 

[238] Scipione Rebiba nacque a San Marco d’Alunzio (Messina) nel 1504, da Francesco e dalla nobildonna Antonia Filingeri dei conti di San Marco. A Palermo compì studi giuridici e si laureò in “utroque iure”; tra il 1536 e il 1537 si recò a Roma, dopo avere preso gli ordini maggiori; la sua carriera ecclesiastica si svolse sotto la protezione di Gian Pietro Carafa, fondatore dei teatini e Cardinale dal 1536. Dopo essere nominato vescovo in più sedi, Rebiba fece ritorno alla Curia, dove fu creato Protonotario apostolico, ad altre prestigiose nomine si affiancò anche quella di Ministro delegato del Santo Uffizio romano a Napoli. In questi anni il Cardinale Carafa era diventato molto potente come cardinale della Congregazione dell’Inquisizione, fondata nel 1542 e nelle sue mani il Santo Uffizio divenne uno straordinario strumento per la repressione dell’eresia e delle posizioni di dissenso interne alla Chiesa. A Napoli Rebiba fece una spietata campagna antiereticale contro i seguaci di Juan de Valdés, che, dopo la sua morte, ci fu una vasta diffusione delle dottrine valdesiane, già condannate dal Santo Uffizio, tra personaggi dell’aristocrazia e dell’alto clero. Nel 1555 il Cardinale Carafa fu eletto papa con il nome di Paolo IV, facendo della politica dell’Inquisizione quella del papato, Rebiba fu subito chiamato a Roma, dove, nello stesso anno, fu nominato Governatore della città; qualche anno prima era stato definito da un agente di Ferrante Gonzaga una “persona temerarie senza alcun rispetto”, che “procede inconsideratamente contra ognuno”. Rebiba diresse il processo contro Giovanfrancesco Lottini, segretario del Cardinale Guido Ascanio Sforza, con lo scopo di dimostrare l’esistenza di una congiura contro il Pontefice, ordita da cardinali, aristocratici italiani, agenti asburgici agevolati da Carlo V e dal figlio Filippo. Sempre nello stesso anno Rebiba fi creato Cardinale e gli fu concesso di abitare nel palazzo apostolico; con la sua formazione giuridica fu collaboratore prezioso nella complessa politica condotta dal Carafa, coinvolgendolo nella politica antiasburgica del Pontefice. Oltre che nella sfera politico-diplomatica, Rebiba ebbe incarichi molto importanti anche dal punto di vista ecclesiastico. Il 13 aprile 1556 fu nominato Arcivescovo di Pisa, anche se Cosimo de’ Medici aspirava a tale carica per il figlio Giovanni, ad eccezione di un breve periodo di residenza il nuovo Arcivescovo governò la Chiesa pisana per mezzo di vicari, lasciò tale governo nel 1560. Nel 1556 ebbe la nomina a Cardinale del Santo Uffizio rafforzando il suo impegno nella lotta contro le eresie, Paolo IV morì nel 1559, suo successore fu Pio IV . Rebiba fu accusato di coinvolgimento nell’assassionio della moglie di Giovanni Carafa, di avere contraffatto dei brevi concernenti l’Arcivescovato di Pisa e di altri crimini che portarono, la notte del 7 febbraio 1561 al suo arresto e al carcere in Castel Sant’Angelo per quasi un anno: di fronte al Tribunale ebbe un contegno reticente e sprezzante senza mai tradire i Carafa, il 31 gennaio 1562 fu scarcerato per non luogo a procedere. Fu reintegrato ed ebbe varie cariche. Con l’elezione a papa dell’inquisitore Ghisleri nel 1566, il quale prese il nome di Poi V, fu ripresa la politica del predecessore e Rebiba tornò ad abitare nel palazzo apostolico e fu riammesso nel Santo Uffizio, dove diresse importanti processi, in cui la repressione anticlericale era accompagnata da torture, roghi e abiure. Anche con il successore di Pio V, Gregorio XIII, Rebiba godette di ampie facoltà nell’ambito del Santo Uffizio e il suo contributo lo possiamo cogliere nelle lettere con le quali guidò l’azione repressiva dei vescovi e dei nunzi. Scipione Rebiba morì a Roma il 23 luglio soffocato da un boccone di cibo durante il pasto, fu sepolto nella chiesa teatina di San Silvestro al Quirinale. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/scipione-rebiba_%28Dizionario-Biografico%29

[239] Per Giacomo Savelli si rimanda alla nota n. 104 del presente lavoro.

[240] B. A., Ms. 23 inf., c. 228r.; A. Borromeo, L’opposizione all’eresia. Apostolo e “genio” pratico della riforma, in “Il grande Borromeo tra storia e fede”, Milano 1984, pp. 223-255.

[241] Cfr. A. Borromeo, L’opposizione all’eresia. Apostolo e “genio” pratico della riforma, in “Il grande Borromeo tra storia e fede”, Milano 1984, pp. 223-255.

 

 

 

 

 

 

STORIA E ORGANIZZAZIONE GERARCHICA DELLE CHIESE CATTOLICHE ORIENTALI(dall’Antichità alla fine del Novecento)

 

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LOREDANA FABBRI

 

A mia figlia

 

PREMESSA

Il presente lavoro è un tentativo di ricostruire la storia dell’organizzazione gerarchica delle Chiese cattoliche orientali “sui iuris” dalle origini fino alla fine del XX secolo, partendo dalla tesi di laurea in Diritto Canonico dell’Avvocato Susanna Fagiolini, la quale ha gentilmente acconsentito alla rielaborazione di quello che fu il lavoro conclusivo dei suoi studi universitari: a Lei vanno i miei più sentiti ringraziamenti. Data l’enorme mole bibliografica esistente su questo argomento, abbiamo cercato di sintetizzare alcuni aspetti principali. Anche nelle parti storiche, questo lavoro non ha certo la pretesa di essere esaustivo, considerando lo spazio temporale che abbraccia molti secoli e gli innumerevoli fatti accaduti.

Il Diritto canonico fa parte di quella “famiglia” chiamata diritto delle religioni, che come il Diritto degli Stati ha all’interno raggruppamenti più piccoli: Diritto ebraico, islamico, indù etc., i quali hanno dei caratteri comuni.

Nell’ordinamento canonico come in quello ebraico ed islamico la validità del diritto dipende dal volere divino e non da quello umano, come invece accade per il Diritto statale, in quanto tutti e tre traggono la loro origine da un complesso di regole rivelate da Dio e raccolte in libri sacri: Bibbia e Corano. Questo Diritto è pressoché immutabile, perché l’uomo non può modificare ciò che è voluto da Dio, diversamente nel Diritto statale, che non presenta un nucleo immutabile, poiché è il diritto stesso che deve adattarsi alle varie società, mentre nel Diritto delle religioni è il diritto che precede la società e questa deve adeguarsi. La funzione di questo Diritto, quindi, non è solo di dare delle regole alla vita terrena dei fedeli, ma anche e soprattutto quella di condurli alla salvezza eterna. Accanto a questi caratteri comuni, ognuna delle religioni presenta poi elementi specifici che non ricorrono nelle altre; nell’ordinamento canonico, ad esempio, abbiamo una fonte normativa privilegiata, in grado di porre norme valide per tutta la Chiesa: il Pontefice.

La Chiesa cristiana, nel corso della storia, si è divisa in una molteplicità di Chiese diverse: cattolica, anglicana, luterana, ortodossa, valdese etc., ognuna di queste Chiese ha un proprio diritto, quindi esiste un Diritto canonico cattolico, anglicano etc. In seno alla Chiesa cattolica, inoltre, c’è un’ulteriore distinzione tra Chiesa cattolica latina e Chiese cattoliche orientali, i cui diritti sono contenuti nel Codice di Diritto Canonico, promulgato nel 1983, per la prima e nel Codice dei Canoni delle Chiese orientali, in vigore dal 1991, per la seconda. E’ di questo ultimo che si occuperà il presente lavoro.

Con l’espressione Diritto Canonico Orientale s’intende il diritto delle Chiese nate dalla prima evangelizzazione degli Apostoli nella parte orientale dell’Impero romano, nella regione oggi denominata Vicino e Medio Oriente. La loro differente formazione ha una giustificazione storica nell’organizzazione gerarchico-territoriale della Chiesa dei primi secoli ed una giustificazione sociale nella diversità di tradizioni proprie e di ciascuna regione o popolo orientale.

Lo scisma d’Oriente, cominciato con Fozio e divenuto definitivo nel 1054 con il Patriarca Michele Cerulario, separa le Chiese orientali dalla Chiesa latina e i Cristiani orientali separati da Roma, a causa del suddetto scisma, gli Ortodossi formano la maggioranza dei fedeli delle Chiese orientali. Ma nel corso dei secoli parte di questi Cristiani si uniscono alla Chiesa cattolica, pur seguendo riti diversi dagli Occidentali e mantenendo alcune particolarità disciplinari. Questi fedeli appartengono alle Chiese cattoliche orientali disciplinate dal “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” (CCEO) del 1990. Il Codice le definisce “Ecclesiae sui iuris”, cioè “Chiese di diritto proprio”, perché si reggono secondo un loro proprio statuto speciale. Fanno parte della Chiesa universale, sono complementari alla Chiesa latina, il loro codice è stato, infatti, posto allo stesso livello giuridico del “Codex Iuris Canonici” (CIC) e definito da Papa Giovanni Paolo II, come il polmone che prima mancava alla Chiesa.

Le Chiese orientali però appartengono ad un mondo molto diverso da quello latino, così come diverse sono le singole Chiese tra loro, tutte con una propria vita, una propria gerarchia, un proprio patrimonio rituale, che sulla base del decreto conciliare “Orientalium Ecclesiarum” e poi naturalmente del nuovo Codice orientale, nessuno pensa, giustamente, che le “particolarità” di tali Chiese debbano scomparire, anzi il Concilio Vaticano II dichiara il necessario rispetto della loro “varietas” e la pari dignità delle Chiese d’Oriente a quella d’Occidente. Si propone, dunque, il problema di una “direzione umana” nella Chiesa, problema comune all’Oriente e all’Occidente, poiché questa particolare istituzione esige un’organizzazione che comporti la subordinazione degli organi inferiori a quelli superiori. Prende allora forma una struttura gerarchica (Papato, Patriarchi in Oriente, Vescovi, Presbiteri etc.) che caratterizza le Chiese cristiane fino alla Riforma protestante, che mette in discussione questa organizzazione, dividendo la Chiesa riformata da quella cattolica che continuava a riconoscere il primato pontificio.

Alle origini la soluzione dei problemi che non riguardavano una sola Chiesa locale, ma l’intera cristianità era demandata ai Concili: organismi decisionali collegiali, che oltre a precisare la dottrina cristiana, dirimendo i conflitti che sorgevano in materia di dogma, esercitavano anche un’attività legislativa e giurisdizionale di primaria importanza.

La dialettica tra esercizio collegiale ed esercizio individuale (Pontefice) dell’autorità è un principio fondamentale della struttura costituzionale della Chiesa cattolica: esistono due soggetti, uno individuale e l’altro collettivo, che esercitano lo stesso potere supremo e universale; il governo della Chiesa deve tradursi in una sintesi tra principio collegiale e principio individuale, l’equilibrio tra questi due principi può collocarsi a diversi livelli e la storia del Diritto canonico testimonia le differenti soluzioni che di volta in volta sono state date al problema.

I primi Concili ecumenici si tengono in Oriente e ad essi partecipano, in prevalenza, Vescovi delle Chiese orientali; il Papa non interviene personalmente, ma è rappresentato da legati, i quali godono di un particolare onore però non  presiedono i Concili; in tal modo l’efficacia delle decisioni conciliari non dipende dall’approvazione del Pontefice. A partire dal V secolo, però, i Papi iniziarono ad affermare che il Concilio non può contraddire una decisione presa da loro stessi ed inoltre si profila l’idea che essi abbiano un generale potere di conferma delle decisioni conciliari. I Vescovi delle Chiese orientali sono riluttanti ad accettare queste tesi e si intravede già, proprio sul terreno del rapporti tra Concilio e Pontefice, il profilarsi della frattura tra Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente, sancita dallo scisma del 1054.

La Chiesa orientale sviluppa una concezione collegiale del governo ecclesiastico, basata sull’idea che la Chiesa universale sia costituita da tante Chiese particolari, in comunione tra loro, ma non subordinate l’una all’altra, con la conseguenza che le decisioni più importanti debbano essere prese dall’organismo rappresentativo di tutte le Chiese, cioè il Concilio. Nella Chiesa d’Occidente si consolida il potere del Papa e s’impone la supremazia della Sede di Roma.

Da un lato, la Chiesa cristiana d’Oriente (comunemente definita Ortodossa), affidata all’azione comune dei Patriarchi delle Chiese ortodosse di maggiore importanza; dall’altro la Chiesa cristiana d’Occidente (Chiesa cattolica), il cui governo è affidato al Pontefice. Dopo questa frattura l’Istituto conciliare assume, nelle regioni orientali rimaste fedeli a Roma, caratteri profondamente diversi.

La pratica sinodale ha sempre avuto ed ha tuttora un posto prioritario e un valore determinante nel governo ecclesiastico delle Chiese orientali cattoliche. Nelle Chiese ad istituzione patriarcale, la prima forma di Chiese “sui iuris”, l’autorità personale del Patriarca è bilanciata dal Sinodo dei Vescovi della sua Chiesa, di cui ha la presidenza, dal Sinodo permanente e dall’Assemblea patriarcale. La potestà legislativa compete al primo di questi organismi, così come quella giudiziaria è molto ridotta nella figura del Patriarca, perché quasi esclusivamente riservata allo stesso Sinodo. “Superiore istanza” della Chiesa patriarcale, afferma il CCEO, è il Patriarca con il suo Sinodo, che mette in pratica il senso collegiale del ministero apostolico. Questa sinodalità si riflette, sebbene con modalità diverse, anche nelle Chiese “sui iuris” non patriarcali (cioè nelle Chiese che hanno le altre tre strutture gerarchiche).

I Sinodi orientali hanno una funzione del tutto diversa da quella dei Sinodi della Chiesa latina, organi prevalentemente consultivi  come il Sinodo dei Vescovi e i Sinodi diocesani. Il principio di sinodalità, così fondamentale per le Chiese orientali cattoliche, che hanno sempre cercato di rispettare le antiche tradizioni, è stato “riscoperto” dal Concilio Vaticano II che ridefinisce il regime della Chiesa in base alla dottrina della collegialità e alla più antica e autentica tradizione che negli ultimi secoli non erano state tenute sufficientemente presenti, dato il “potere assoluto” dei Pontefici.

Capitolo I

IL CODEX CANONUM ECCLESIARUM

La legislazione delle Chiese orientali prima del Concilio Vaticano II

 

Il Concilio Vaticano I fu indetto da Pio IX (Giovanni Mastai Ferretti) con la bolla “Aeterni Patris” del 29 giugno 1868, fu interrotto nel 1870 a causa della guerra franco-prussiana e fu chiuso ufficialmente nel 1960. La convocazione del Concilio si inseriva nella visione del Pontefice di una società cristiana restaurata; a tale scopo vennero invitati a partecipare all’assemblea generale anche i rappresentanti delle altre confessioni cristiane, ma l’invito all’assise fu respinto perché considerato una provocazione dai destinatari. I risultati del Concilio videro l’affermazione dell’ultramontanismo, che sostenne un governo della Chiesa centrale basato sul Vaticano. Nel corso dei lavori furono sanciti il dogma dell’infallibilità del Papa in materia di fede e di morale e quello della conoscenza di Dio con la sola ragione e fu richiesta insistentemente la codificazione del diritto canonico orientale.[1] Il problema più grande era dato dalla difficoltà di conoscenza del diritto orientale stesso, che proveniva da varie fonti, redatte in diversi tempi; emergevano, quindi, difformità, complicanze e confusioni.

Il “corpus iuris” degli orientali cattolici comprendeva: a) canones antiqui; b) collectiones antiquae; c) Acta Apostolicae; d) Synodi approbatae; e) Synodi non approbatae; f) ius consuetudinarium; g) ius patriarchale; h) edicta civilis de re ecclesiastica; i) disciplina religiosorum.[2]

La “Commissione sulle missioni e le Chiese di rito orientale”, preparatoria al Concilio Vaticano I, riconobbe che le Chiese orientali avevano un grandissimo bisogno di un codice di diritto canonico che costituisse la loro disciplina, cioè di un codice di grande autorità, completo e comune a tutte le nazioni e adattato alle circostanze dei tempi. Nel 1862, papa Pio IX aveva costituito una Congregazione speciale di Propaganda Fide per gli affari di Rito orientale finalizzata ad una raccolta di diritto pontificio per gli orientali, ma quando il Concilio Vaticano I venne interrotto, la codificazione non fu tradotta in decisioni formali.[3] Molti anni dopo, il 27 maggio 1917, venne promulgato il “Codex Iuris Canonici” e sempre nello stesso anno, Benedetto XV istituì la Pontificia Commissione per l’interpretazione autentica del suddetto Codice, tale Commissione è stata attiva fino all’erezione della Pontificia Commissione per la revisione del Codice di Diritto Canonico, costituita da Giovanni XXIII, il 28 marzo 1963, la cui finalità era quella di preparare, sulla base dei decreti del Concilio Vaticano II, la riforma del Codice promulgato nel 1917. Benedetto XV, il primo maggio 1917, istituì la “Sacra Congregazione per la Chiesa orientale”, pochi mesi più tardi fondò a Roma la “Sede propria degli studi superiori delle Scienze orientali”, cioè il Pontificio Istituto di Studi orientali.

A poco a poco in tutte le Chiese prevalse l’opinione che le leggi comuni a tutte le Chiese orientali, o che si ritenevano dover essere comuni, fossero raccolte in un solo “corpo di leggi” organico promulgate dal Papa e composto a cura della Sede Apostolica. A questo proposito Pio XI, nel 1929, istituì “La Commissione Cardinalizia per gli studi preparatori alla codificazione orientale”. Lo stesso Pontefice costituì, nel giugno del 1935, con un cambio nominativo, la “Pontificia Commissione per la redazione del Codice di diritto canonico orientale”, con lo scopo di dirigere la redazione del testo dei canoni. Il testo del Codice, più volte ritrascritto ed emendato, fu presentato al Papa nel 1948 e venne presa la decisione di presentarlo per parti: per primi vennero stampati i canoni sul sacramento del matrimonio,[4] in quanto ritenuti più urgenti, poi quelli per l’amministrazione della giustizia, infine i canoni sui giudizi.[5] Nel 1952 furono pubblicati i canoni sui “Religiosi”, sui “Beni temporali”, e sul “Significato delle parole”;[6] infine nel 1957, con la Lettera apostolica “Cleri Sanctitati” venne pubblicato il diritto relativo ai Riti orientali e la normativa relativa alle persone fisiche e giuridiche.[7] L’opera di redazione si interruppe con la celebrazione del Concilio Vaticano II, poiché anche tale legislazione avrebbe dovuto recepire i principi e le indicazioni del Concilio.[8]

Prima del Concilio Vaticano II non era chiaro in che modo le Chiese d’Oriente, unite alla Santa Sede, dovessero adottare la disciplina occidentale e potessero essere libere di mantenere la loro normativa. Tutti i Pontefici avevano dichiarato che tali Chiese dovevano salvaguardare il loro patrimonio spirituale, ammettendo una diversità liturgica ma altra cosa era ammettere concretamente una diversità disciplinare. I Papi intervennero frequentemente nella vita di tali Chiese, non con un diritto orientale, ma con il diritto romano ad uso degli Orientali.[9]

 

La legislazione delle Chiese orientali dopo il Concilio Vaticano II

E’ nel Concilio Vaticano II che troviamo il fondamento della disciplina propria degli Orientali, in cui è riconosciuta l’esistenza, in seno alla Chiesa universale, di Chiese particolari e viene affermato che l’unità non significa uniformità in tutto: <<In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescano per uno scambio mutuo e universale e per uno sforzo comune verso la pienezza dell’unità […] Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della Cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia perché ciò che è particolare, non solo nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva>>.[10] Questo significa che tra le diverse parti della Chiesa esistono vincoli che accomunano i tesori spirituali, l’operato apostolico e le risorse materiali: i membri del popolo di Dio sono chiamati ad amministrare bene e a condividere i beni spirituali e materiali ricevuti. Il decreto “Orientalium Ecclesiarum”, poiché tratta molti campi disciplinari, si può considerare un primo tentativo di riforma conciliare delle Chiese orientali.[11] Si tratta del primo decreto a carattere disciplinare promulgato tra quelli che furono discussi nel terzo periodo del Vaticano II. Esso contiene soltanto alcuni criteri, ma questo non significa mancanza d’interessamento né di superficialità verso gli Orientali cattolici, ma apprezzamento dei loro Sinodi patriarcali, cui spetta il compito di completare le norme disciplinari per le loro Chiese.[12]

Il 10 giugno 1972, Paolo VI istituì la “Pontificia Commissio Codicis Iuris Canonum Ecclesiarum Orientalium” (PCCICOR) e nello stesso tempo stabilì che la precedente Commissione, eretta nel 1935 “per la redazione” del Codex Iuris Canonici Orientalis (CICO), fosse soppressa. La nuova Commissione, costituita da Patriarchi orientali e da Cardinali che avevano esperienza sulle Chiese orientali, ebbe come presidente Monsignor Giuseppe Parecattil, che papa Paolo VI elevò al rango di cardinale nel concistoro del 28 aprile 1969, già Arcieparca metropolita di Ernakulam-Angamaly dei Siro-Malabaresi, il quale aveva il compito di revisionare i canoni già promulgati, accogliere i consigli del Vaticano II, codificare le parti che mancavano con particolare attenzione ai tempi mutati e alle circostanze del tempo, cercando di <<…ottenere un codice comune veramente corrispondente al bene dei fedeli delle Chiese cattoliche orientali, che vivono in diversi ambienti, lasciando a ciascuna la codificazione del suo particolare “ad normam iuris”>>.[13] Terminato il lavoro della PCCICOR, e promulgato, il 18 ottobre 1990, il “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium”, Giovanni Paolo II ha soppresso la suddetta Commissione, attribuendo, a norma della Costituzione Apostolica “Pastor Bonus”, art. 155, al Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi il compito di interpretare il medesimo Codice e tutte le leggi comuni delle Chiese Orientali Cattoliche.[14]   Spetta al Consiglio di proporre l’interpretazione autentica, confermata dall’autorità pontificia, delle leggi universali della Chiesa, dopo aver sentito nelle questioni di maggiore importanza i dicasteri competenti circa la materia presa in esame.[15]

La Commissione inizia i lavori nel marzo del 1974: tutte le sedute sono dedicate all’esame delle norme da seguire per la messa a punto del Codice orientale. Il progetto di tali norme era stato elaborato dal “Coetus Centralis”, basandosi su un testo preparato dalla Facoltà di Diritto Canonico Orientale del Pontificio Istituto Orientale, contenente i “Principi direttivi” per il controllo del codice.[16] Il risultato di questo lavoro sono gli otto schemi del Codice, di cui i primi sono inviati (giugno 1980) agli Organi di consultazione: Patriarchi, Episcopato orientale, Dicasteri della Curia Romana. Nel mese di ottobre del 1984, lo schema “De Constitutione Hierarchica Ecclesiarum Orientalium” è inviato per ultimo e due anni più tardi, si giunge ad un unico schema del Codice (giugno 1986).

Il 28 gennaio 1989 il testo del nuovo “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” (CCEO) fu consegnato al Pontefice ed emanato il 18 ottobre del 1990 da parte del legislatore Giovanni Paolo II per entrare in vigore il primo ottobre 1991.[17] Dopo quasi diciotto anni di lavoro, quest’atto rappresentava l’apogeo dell’attività della PCCICOR, che alla sua istituzione, l’allora Segretario di Stato, Cardinale Jean Villot, specificava il compito nella lettera di costituzione, consistente nel preparare, in base soprattutto dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II, la riforma del Codex Iuris Canonici Orientalis sia nelle parti che erano già state pubblicate, sia in quelle parti già ultimate ma non ancora pubblicate.[18] Quasi tutto l’iter del lavoro affrontato dalla PCCICOR è stato riportato dall’organo ufficiale della Commissione: la rivista “Nuntia”, da cui si può desumere che i vari membri costituenti tale Commissione erano divisi in dieci gruppi di consultori, ognuno dei quali compilava uno schema di canoni riguardante un argomento particolare che sarebbe stato trattato nel nuovo Codice; il lavoro della Commissione era coordinato dal “Coetus Centralis”.[19] Nell’ultimo anno prima della sua promulgazione furono fatte le ultime modifiche ai canoni del Codice: alcune di natura linguistica, altre di maggiore importanza, ma l’ultimo numero della rivista “Nuntia” evidenzia queste modifiche, senza però darne spiegazioni.[20] Con la Costituzione apostolica “Sacri Canones” (18 ottobre 1990) per la prima volta nella storia della Chiesa è pubblicato un corpo di norme canoniche completo e comune a tutte le Chiese orientali cattoliche.

A causa delle profonde diversità storico-culturali esistenti tra le Chiese orientali è stato fondamentale che la normativa del Codice enunciasse quelle disposizioni ritenute necessarie al bene comune, per il resto è stato lasciato ampio spazio ai legislatori particolari, perché, sulla base degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, provvedessero in conformità alle tradizioni delle loro Chiese.[21] Il CCEO diventa parte integrante della legislazione ecclesiastica allo stesso modo del “Codex Iuris Canonici” (CIC), promulgato nel 1983 e avente valore di legge per la Chiesa latina, insieme alla Costituzione apostolica “Pastor Bonus” del 28 giugno 1988 riferita alla Chiesa universale.[22]

Papa Giovanni Paolo II ha posto il CCEO allo stesso livello giuridico del CIC, esprimendo il desiderio che entrambi i Codici venissero studiati come parti di un tutto. La loro uguaglianza e complementarità sono ben illustrate dalla metafora, nella costituzione “Sacri Canones”, dei due polmoni della Chiesa, quello orientale e quello occidentale: <<Ipsa inde ab exordiis codificationis canonicae orientalium Ecclesiarum costans Romanorum Pontificum voluta duos Codices, alterum pro latina Ecclesia alterum pro Ecclesiis orientali bus catholicis, promulgandi, admodum manifesto ostendit velle eosdem servare id quod in Ecclesia, Deo providente, evenit, ut ipsa unico Spirutu congregata quasi duo bus pulmonibus Orienti set Occidentis respiret atque uno corde quasi duos ventriculos habente in caritate Christi ardeat>>.[23]

I motivi del nuovo Codice sono illustrati dalla costituzione apostolica “Sacri Canones”: il primo verte sulla più grande fedeltà che deve porsi in atto da parte di tutti nella Chiesa, perché venga conservata la ricchezza delle Chiese orientali, costituita da una notevole varietà di riti liturgici, di contenuti teologici e spirituali, di norme disciplinari. L’unità di questa diversità si rivela nel riferimento comune ai sacri canoni, cioè alle tradizioni apostoliche, alle disposizioni conciliari ed ai decreti dei Pontefici. Il secondo motivo è di carattere ecumenico: nella costituzione “Sacri Canones” è messo in evidenza il fatto che le Chiese orientali, non ancora in piena comunione con la Chiesa Cattolica, sono rette dal medesimo patrimonio disciplinare, costituito dai Sacri Canoni dei primi secoli della Chiesa. Il Codice rappresenta un mezzo specifico ed efficace di promozione dell’unità della Chiesa.[24]

Con la promulgazione del CCEO si può considerare arrivato alla fase conclusiva il rinnovamento delle leggi della Chiesa, voluto da Giovanni XXIII, da Paolo VI e dal Concilio Vaticano II.

Il nuovo Codice presenta una struttura molto diversa dal CIC della Chiesa latina: è diviso in “titoli”anziché in “libri” con poche suddivisioni in capitoli ed articoli.[25] Per il titolo generale, anziché “Codice di Diritto Canonico Orientale”, con il quale è stato designato fino al 1972, è stata preferita la denominazione “Codice dei Canoni delle Chiese Orientali” che indica il contenuto del Codice in modo positivo e oggettivo, con esplicito riferimento all’oggetto (canoni) e al suo concreto soggetto (le Chiese orientali).[26] Il cambio del titolo è stato considerato da alcuni come una scelta poco giustificata, anzi l’aggiunta “orientalium” pone le Chiese orientali in una situazione d’inferiorità o perlomeno di diversità nei confronti della Chiesa latina, forse l’aggiunta  del termine “catholicarum” avrebbe distinto il Codice dalla legislazione delle Chiese ortodosse.[27]

Il CCEO è stato redatto in lingua latina, anche se una lingua come il greco poteva essere ritenuta una possibilità per un codice orientale, ma non fu giudicata funzionale, poiché la lingua greca è compresa solo in alcune Chiese orientali. Utilizzando il latino per la stesura del Codice furono, ovviamente, incrementati i timori di una latinizzazione di questo diritto; la lingua latina, però, sembrò essere la più adatta per la sua universalità, solo nel marzo 1992 è stata pubblicata la prima traduzione in una lingua moderna: l’inglese.[28]

Ma, sostanzialmente, quali sono state le novità del CCEO? E’ difficile stabilirlo, perché non si tratta di elencare una serie di novità contenute in questo Codice, ma si tratta di saper cogliere lo spirito, l’anima orientale della Chiesa cattolica attraverso queste novità. Il Codice del 1917 ricalcava lo schema derivato dal diritto romano che prevedeva la trattazione di “Personae, Res, Actiones”, ossia persone, beni e rimedi giudiziali; quello del 1983 poco si discosta dal primo, inserendo nel suo schema il triplice “Munus” di santificare, insegnare e reggere, anche in modo incompleto; il CCEO va oltre, va verso il futuro, perché diretto a Chiese che nella maggior parte dei casi vivono in contesti difficili se non addirittura drammatici. In alcuni casi rappresenta un palese progresso rispetto ad alcune soluzioni giuridiche vigenti nel Codice latino (1983); evidenzia come le Chiese orientali possono vedere che la comunione con Roma non reprime le antiche e ricche tradizioni orientali; infine si può notare come la varietà di queste Chiese non danneggia la Chiesa universale, anzi la rivela.

Il termine Ekklesia significa assemblea convocata, convocazione, in tal caso la Chiesa non è che una chiamata di Dio alla comunione e la sua unità è originata e si realizza con la risposta degli uomini disposti alla partecipazione della stessa vita, stessi beni spirituali, stessa fede, stesso Vangelo, stessi sacramenti, ma tutto questo significa che la Chiesa è comunione tra fratelli, espressa però in un ordinamento sociale, comprendente la comunione ecclesiale e quella gerarchica, che si implicano a vicenda, poiché i Vescovi sono in comunione con il Collegio, le Chiese particolari lo sono tra di loro e con la Chiesa di Roma, il cui Pontefice è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità della fede e della santa comunione, ma anche dell’unità sia dei Vescovi sia dei fedeli. I singoli vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro chiese particolari, formate ad immagine della Chiesa universale, quindi i singoli vescovi rappresentano la propria Chiesa e tutti insieme col Papa rappresentano quella universale ( Lumen Gentium. LG, 23); in tale contesto ecclesiologico va inserita l’istituzione del Patriarca, il quale presiede ad un’intera Chiesa come Padre e Capo. Il CCEO vuole adempiere le aspirazioni della rinnovata ecclesiologia durante il Concilio Vaticano II, riferendosi soprattutto al concetto di Chiesa come mistero di comunione, ossia “Ecclesia universalis” e”varietas Ecclesiarum”.[29]

Il CCEO cita (in nota) come fonti principali dell’istituzione delle antiche Chiese patriarcali i canoni 6 e 7 del Concilio ecumenico di Nicea (325), il cui testo non attribuisce alla volontà di Cristo la loro origine, quindi non fa parte della divina costituzione della Chiesa, ma ad una disposizione della Provvidenza divina per essere al servizio della comunione ecclesiatica e mantenerla in Oriente come in Occidente, appoggiandosi alle sedi episcopali fondate dagli apostoli, come vuole la tradizione, tenendo conto che le divisioni territoriali nulla tolgono all’unità della fede ed alla costituzione divina della Chiesa universale.[30]

Durante i quasi venti anni di lavoro per il CCEO, sono state sollevate molte problematiche, soprattutto di ordine ecclesiologico, indubbiamente nella normativa del Codice le Chiese orientali “sui iuris” non sono equiparate a quelle autocefale ortodosse, che si amministrano in modo completamente autonomo, in base alla loro ecclesiologia prevalentemente conciliare e concepita diversamente da quella cattolica; l’autonomia delle Chiese cattoliche orientali è relativa, in quanto il CCEO riconosce l’autorità dei Patriarchi nelle loro Chiese, ma la suprema autorità resta quella riconosciuta nel Pontefice di Roma e nel Concilio ecumenico, infatti sono chiese “sui iuris”, cioè riconosciute come tali e governate a norma del diritto approvato dalla suprema autorità della Chiesa: è vasto il numero dei canoni in cui si richiede l’intervento o il consenso della Sede Apostolica, che deve essere informata su varie materie. La stessa promulgazione del CCEO, come già detto, è un atto legislativo esclusivo del Pontefice, i Patriarchi sono stati membri della Commissione Pontificia per la revisione del Codice e questo fa vedere i limiti e il senso dell’autonomia delle Chiese orientali. Il Pontefice romano, allora, si può considerare come Patriarca d’Occidente? Il CCEO non parla di questo argomento e i pareri degli studiosi sono discordi. Il Patriarcato è un’istituzione della Chiesa universale, quindi non esclusivamente orientale e la sua origine risale al tempo della Chiesa indivisa. Il Papa, in quanto Patriarca, è il capo supremo della Chiesa latina, ma non è condizionato da organi sinodali come lo sono i Patriarchi delle Chiese orientali, infatti l’esercizio del primato della Chiesa latina è molto diverso da quello verso le Chiese orientali, ciò è avvalorato dalla duplice codificazione e dal principio conciliare, per cui i Patriarchi rappresentano la superiore istanza per tutte le questioni del loro patriarcato, salvo restando l’inalienabile diritto di intervenire nei singoli casi da parte del Pontefice romano.

L’origine dell’istituzione patriarcale nei testi precedenti (Cleri Sanctitati) il CCEO era data e riconosciuta dal Pontefice di Roma (data seu agnita), ma durante la redazione del Codice veniva modificato il suddetto canone “Cleri Sanctitati” in questo modo: <<Secondo una antichissima tradizione della Chiesa, già riconosciuta nei primi Concili ecumenici o dal Romano Pontefice, è riservato uno speciale onore ai Patriarchi delle Chiese orientali, dato che ognuno presiede alla sua Chiesa patriarcale come padre e capo>>.[31] Nel decreto conciliare “Orientalium Ecclesiarum (7 e 8) viene ripresa questa descrizione, omettendo “o dal Romano Pontefice (riconosciuta)”, che non appare nel testo conciliare, poiché, come si può evincere dagli atti della PCCICOR (Pontificia Commissio Codicis Iuris Canonici Orientalis Recognoscendo) , il riferimento al Romano Pontefice è stato aggiunto <<…per sottolineare che una tradizione sebbene antica non può essere valida nella Chiesa , senza il consenso almeno implicito del Romano Pontefice, consenso che da se stesso è sufficiente>>.[32] In conclusione essendo l’istituzione patriarcale antichissima, creata quando la Chiesa era ancora indivisa, non è un’istituzione data per esplicita concessione del Papa, come invece pretende il “Cleri Sanctitati” (CS) can. 216 §1, ma un’istituzione sancita dagli antichi Concili ecumenici e tacitamente riconosciuta dai Pontefici e i diritti e i privilegi goduti dai singoli Patriarchi furono concessi dagli antichi Concili, celebrati insieme dall’Oriente e dall’Occidente. Secondo il CCEO (can. 63) il Patriarca non viene eletto dal Pontefice, ma dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, per al validità dell’elezione canonica non occorre un atto di conferma da parte del Papa, bensì la comunione ecclesiastica con lo stesso, comunione richiesta e concessa. Le relazioni tra il Pontefice e i Patriarchi sono intrattenute anche da un procuratore che ogni Patriarca può avere presso la Santa Sede, nominato personalmente con il previo assenso del Papa, come vedremo in modo più dettagliato, più avanti nel presente lavoro.

Concludiamo il capitolo con le parole di Dimitri Salachas: <<Certamente il CCEO non è il modello nella prospettiva nella ricerca dell’unità con l’Oriente cristiano; l’ecclesiologia del Codice è più ristretta di quella del Concilio, comunque, malgrado le sue lacune, la nuova codificazione orientale apre delle prospettive con dei limiti imposti dal contesto storico  in cui è stata formata. La codificazione cattolica orientale non è finita, ma sarà completata quando tutte le Chiese orientali sui iuris avranno emanato il loro diritto particolare, che potrebbe colmare le lacune del Codice comune>>.[33]

Capitolo II

LO SCISMA TRA ORIENTE ED OCCIDENTE FINO ALLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI

Il Cesaropapismo nel IV e V secolo

        Fattori politici, culturali e teologici sono le cause principali che hanno determinato lo scisma tra le Chiese d’Oriente e quella d’Occidente: in primo luogo il trasferimento della capitale dell’Impero da Roma a Costantinopoli, poi la notevole identificazione delle Chiese orientali con “l’imperium” bizantino, che sotto il basileus, signore e legislatore, anche se non assoluto della Chiesa, particolarmente dopo Giustiniano, dà luogo a quel sistema di relazioni tra potere politico e religioso chiamato “cesaropapismo”.[34]

Dopo tre secoli di cruenti persecuzioni e repressioni contro i Cristiani, l’ultima e la più grave era stata quella di Diocleziano (303), la situazione cambia durante il IV secolo: essi sono diventati ormai troppo numerosi e le autorità romane si rendono conto che la repressione è inutile, quindi abbiamo un rapido capovolgimento della politica romana, che ora preferisce riconoscere la legittimità del Cristianesimo, vedendo in tutto questo un elemento di unità e rafforzamento dell’Impero.

L’editto di Costantino e di Licinio (313) prima, che colloca la religione cristiana sullo stesso piano delle altre religioni e l’editto di Tessalonica (380) dopo, che impone tale religione, mettendo fuori legge tutte le altre, pone il Cristianesimo come religione dell’Impero e i perseguitati divengono persecutori: vengono proibiti i sacrifici agli dei pagani, l’ingresso ai templi, la venerazione pubblica degli dei e, infine, anche il culto privato degli dei. In tal modo il Cristianesimo passa, in meno di un secolo, da religione perseguitata a religione ufficiale dell’Impero, aprendo la strada alla completa integrazione dei Cristiani nell’ambito dell’Impero romano che si evolverà in Impero romano-cristiano. Le leggi e le usanze si trasformeranno in modo da renderli più accettabili dai Cristiani e per favorire la loro integrazione, inoltre, dopo le invasioni barbariche, è l’Impero che dà sicurezza e ordine di cui la Chiesa ha bisogno per il proprio incremento e carattere provvidenziale: Dio ha permesso che le conquiste romane raggiungessero i confini del mondo conosciuto per portare l’evangelizzazione presso i popoli. Si crea un’interdipendenza tra la tradizione cristiana e quella romana, le cui usanze e consuetudini penetrano ampiamente nei costumi cristiani, specialmente nel campo del diritto: a differenza dei primi tre secoli, ora il diritto canonico acquista una forza che non aveva avuto in precedenza, le disposizioni canoniche sono progressivamente accolte nel diritto dello Stato e acquisiscono forza di legge a tutti gli effetti.

Tutto questo modifica e limita il principio dualistico affermato dal Cristianesimo: ora Dio e Cesare sono sullo stesso orizzonte ideologico e Cesare ha il compito di far rispettare il volere di Dio, con la conseguenza che cambia la posizione e il ruolo dell’imperatore, il cui potere non è soltanto quello di assicurare un ordinato sviluppo della società, ma anche quello della difesa e prosperità della Chiesa. All’imperatore viene spesso richiesto di interporsi nelle vicende interne della Chiesa (convocare Concili, far valere decisioni, punire gli eretici etc.), ma spesso tutto questo dà luogo a contestazioni all’interno della Chiesa e le parti contrastanti si rivolgevano all’imperatore per ottenere il sostegno, poiché il pontefice non godeva ancora di un’autorità inconfutabile, quindi non era in grado di risolvere i problemi con decisioni proprie; conseguentemente l’imperatore diviene colui che mantiene l’ordine e risulta decisivo in una disamina e finisce con l’esercitare un enorme potere su tutta la Chiesa. Da qui l’origine del cesaropapismo, un insieme di rapporti tra Stato e Chiesa, dove il sovrano esercita anche rilevanti poteri in materia religiosa, fungendo anche da Papa. Questo sistema s’impone dal IV secolo, per tre ragioni principali: in primo luogo esso trova corrispondenza con la tradizione romana: Augusto era anche pontifex maximus, cioè la più alta autorità religiosa e questa tradizione, pur ridimensionata, non scomparve con l’avvento del Cristianesimo. In secondo luogo, nel IV e V secolo il potere del Pontefice è ancora piuttosto debole, per cui la comunità cristiana manca di un’autorità universalmente riconosciuta, questo vuoto di potere è riempito dall’imperatore, l’unico soggetto che possiede i mezzi materiali necessari per assicurare l’esecuzione e il rispetto dei propri ordini. L’ingerenza dell’imperatore nella Chiesa è anche favorita dalla persuasione che su di esso gravino incombenze non solo politiche ma anche religiose e che abbia il compito di fronte a Dio di prendere parte intensamente nella vita della Chiesa per assicurarne la prosperità.[35]

Per garantire, con sanzioni civili, il rispetto dei dogmi della Chiesa, l’imperatore si arroga il compito di legiferare su materie strettamente religiose, ma questa convinzione porta presto all’esercizio dei poteri ecclesiastici da parte dell’autorità statale: L’imperatore convoca, presiede i concili e ne conferma le decisioni; interviene nella definizione di questioni dogmatiche, esilia, come nel caso dell’imperatore Costanzo II, che esiliò Papa Liberio perché di fronte al favore accordato dall’imperatore all’arianesimo, Liberio difese la dottrina di Atanasio, relegandolo a Berea in Tracia, da dove poté ritornare a Roma solo dopo essersi piegato a sconfessare Atanasio.[36] L’imperatore aveva anche la facoltà di deporre, ne è un esempio il caso di Papa Silverio: l’imperatore Giustiniano avrebbe scritto a Silverio chiedendogli di raggiungere Costantinopoli per restaurare Antimo nella sua sede, ma il papa avrebbe risposto che mai si sarebbe reso colpevole di tale crimini, cioè di richiamare un eretico condannato per la sua perfidia. L’imperatrice Teodora decise la rovina di Silverio, inviando a Roma una lettera per il generale Belisario, in cui gli intimava di deporre il Papa e sostituirlo con il diacono Vigilio.[37] L’imperatore giudica in grado di appello le sentenze dei tribunali vescovili. A queste pretese si oppongono le autorità ecclesiastiche e i Pontefici stessi, ma questa opposizione ha risultati diversi: deboli in Oriente, dove l’impero, resistendo alle invasioni dei barbari, è in grado di garantire un’effettiva continuità di governo e dove il potere dell’imperatore, che risiede a Costantinopoli è più forte di quello del Pontefice che sta a Roma; più considerevoli in Occidente, dove l’organizzazione imperiale crolla nel 476 (caduta dell’Impero romano d’Occidente) e l’autorità dell’imperatore d’Oriente si fa sempre più fragile e nella progressiva disgregazione delle istituzioni civili, la sola organizzazione in grado di assicurare un minimo di ordine e di pace appare la Chiesa.[38] Nel 448 papa Gelasio scrive che Dio ha affidato ai vescovi e non al potere secolare il compito di dirigere la Chiesa e che i provvedimenti degli imperatori siano sottomessi alle autorità ecclesiastiche, non il contrario.[39]

Se in Oriente il cesaropapismo si rafforza e si stabilizza in un sistema che caratterizzerà per lungo tempo questi paesi, in Occidente, contemporaneamente, abbiamo la fondazione di un sistema ecclesiastico organizzato uniformemente sotto il primato del vescovo di Roma (papalismo), la cui Chiesa si appoggia molto sui re e sui popoli barbari convertiti al Cristianesimo, ma l’idea che il Pontefice dipenda dall’imperatore non riuscirà ad affermarsi, nemmeno nei momenti di maggiore debolezza della Chiesa.[40]

In seguito due fatti importanti: il noto falso storico della “donatio Costantini” ai Papi e l’incoronazione di Carlo Magno dell’800 a imperatore romano, nonostante germanico, accanto all’autentico imperatore romano (bizantino): è per questo motivo che gli orientali si sentirono traditi dai latini; l’appellativo stesso di “ecumenico” attribuito al patriarca di Costantinopoli e la sua crescente potenza sono da connettersi a questo evento. Anche le conquiste islamiche favorirono in Oriente i particolarismi delle singole Chiese nazionali, rendendo più difficile il collegamento tra Chiesa occidentale e Chiesa orientale rendendo intransigente Bisanzio sia sotto il profilo politico sia ecclesiastico.[41]

Le crociate, infine, che, nel 1204, condussero alla conquista di Costantinopoli da parte degli occidentali con il conseguente insediamento di un imperatore latino, di un patriarca latino e di arcivescovi latini, quindi ad una vasta latinizzazione dei territori conquistati seguì il giuramento di obbedienza degli ecclesiastici greci alla Chiesa di Roma. Le prospettive di un ripristino della comunione ecclesiale furono praticamente distrutte.[42]

Un particolare problema per i Cristiani d’Oriente fu a causa della loro relazione con l’Italia, l’Africa settentrionale e la Gallia, che riconoscevano come proprio vescovo il Papa di Roma. Dopo la riconciliazione tra Chiesa e Impero, verso la metà del V secolo, cinque metropoliti furono investiti di poteri maggiori e assunsero il titolo di Patriarchi: il primo era il Papa di Roma, la cui giurisdizione si estendeva sulla metà occidentale dell’impero e su una vasta parte dei Balcani; al secondo posto c’era il Patriarca di Costantinopoli, il quale aveva sotto di sé trentanove metropoliti e circa quattrocento vescovi diocesani, le province del Ponto, della Tracia e dell’Asia erano sotto il suo controllo. Il terzo era il Papa di Alessandria, che reggeva l’Egitto coadiuvato da quattordici metropoliti e centoquattordici vescovi; il quarto gerarca era il Patriarca di Antiochia, il quale con tredici metropoliti e centoquaranta vescovi esercitava il suo potere in Siria e in Arabia; il quinto, infine, assistito da cinque metropoliti e da cinquantanove vescovi aveva giurisdizione sulla Palestina ed era il Patriarca di Gerusalemme.[43]

Teoricamente i cinque Patriarchi erano uguali, in realtà, però, l’importanza dei vari patriarcati variava notevolmente, ciò divenne, nel corso dei secoli V e VI, uno dei maggiori problemi per la vita della Chiesa latina.[44]

La caduta dell’Impero d’Occidente svincolò i papi dal controllo imperiale e Leone I (440-461) aumentò il prestigio della sua sede intraprendendo negoziati con i barbari come portavoce autorizzato e protettore dell’intera popolazione cristiana. Queste rivendicazioni trovarono appoggio nella fittizia “donazione di Costantino” e in mezzo al caos che seguì alle invasioni barbariche, i Papi acquistarono stabilità e potenza: erano gli unici custodi di una civiltà superiore e quindi riconosciuti capi di tutta la Chiesa d’Occidente. Questa evoluzione, così importante per il Papato, non si estese all’Oriente, dove rispetti agli altri metropoliti il Papa era considerato solo come “primus inter pares”.[45]

Fino al movimento iconoclastico del VI secolo, tuttavia, non si ebbero dispute di rilievo tra i patriarchi orientali e il capo della Chiesa Occidentale, ma già in questo periodo vediamo chiaramente che i destini della Chiesa d’Oriente e di quella d’Occidente iniziavano a separarsi.

Un fattore molto importante, responsabile del disgregamento dell’unità della Chiesa, fu anche la nascita del monachesimo, che non fu una peculiarità del mondo cristiano, in quanto si trova ampiamente rappresentata nelle civiltà religiose dell’Asia secoli e secoli prima dell’era volgare.[46]

La vita monastica aveva motivazioni religiose e morali molto complesse, nate profonde crisi di asocialità, come reazione a rapporti sentiti come oppressivi: nasce come organizzazione di una secessione fisica dai normali rapporti con la società umana, con l’intento di creare condizioni più propizie a chi ricercasse nella profondità del proprio essere la catarsi ascetica e penitenziale, attraverso una purificazione metodica.[47]

Le prime manifestazioni monastiche cristiane nascono in Egitto, tra il III e IV secolo e sono di forma eremitica; hanno una caratteristica eterogenea: da un lato rappresenta l’accentuazione di motivi penitenziali di origine ebraica, ripresentati con continuità nelle comunità cristiane, mano a mano che procedeva l’evangelizzazione; dall’altro lato rappresenta la ripresa di motivi ascetici propri della filosofia di tradizione greca (come sviluppo del concetto paolino della lotta tra spirito e carne). In seguito, l’evoluzione del movimento monastico prese l’avvio per opera di Pacomio, il quale, avendo riconosciuto i pericoli dell’isolamento, escogitò per gli asceti un sistema di vita in comune.[48] Dall’Egitto il monachesimo si estese rapidamente alla Palestina, Siria, Asia Minore, Grecia,e Mesopotamia, acquistando, nei vari paesi, caratteristiche particolari, ma conservando il suo scopo originale.[49]

Le controversie cristologiche dibattute nel Concilio di Calcedonia operarono una frattura nel monachesimo d’Oriente pur non impedendone l’espansione; l’atteggiamento intransigente dei monaci contribuì ad accrescere l’atmosfera di passionalità che circondava le dispute teologiche. Nel frattempo il monachesimo orientale aveva vivificato il culto delle immagini, contrapponendosi alla tradizione ebraica e veterotestamentaria, che raccomandava di non fare raffigurazioni delle divinità, per evitare la tendenza, innata nell’uomo, dell’idolatria.[50]

 

L’Iconoclastia

Nel corso di una grande riforma l’Imperatore Leone III (717-741) cercò di eliminare la venerazione delle icone, questo proposito era giustificato da abusi ed esagerazioni verificatisi in vari luoghi.[51] Il primo editto che ordinava la rimozione delle icone dalle Chiese fu emanato nel 725 ed incontrò forti resistenze in Grecia ed in Italia, ma venne accettato in Asia; si ebbero energiche proteste da parte del Patriarca di Costantinopoli Germano, dal grande teologo della Chiesa orientale del tempo Giovanni Damasceno e da Papa Gregorio II, il primo venne espulso dalla città, il secondo non poté essere toccato in quanto viveva nei territori occupati dai maomettani, il terzo, ancora nominalmente suddito dell’Impero, era troppo distante per essere detronizzato, ma Leone III lo punì confiscando i possedimenti della Curia romana in Sicilia e nell’Italia meridionale e trasferendo le diocesi illiriche da Roma a Costantinopoli.[52] Questi provvedimenti ebbero gravi conseguenze per il Cristianesimo, in quanto crearono un antagonismo tra le due città e costrinsero i Papi a cercare amici e protettori nei Franchi, con la conseguenza che gli Imperatori iconoclasti, che senza successo avevano cercato di imporre la loro politica all’Occidente, furono coloro che prepararono la rinascita dell’Impero occidentale.[53]

Costantino V (741-775) continuò la politica iconoclasta del padre e per conferirle autorità convocò, nel 754, un Concilio a Hieria, in cui fu condannato il culto delle immagini. Nonostante fosse organizzato come Concilio ecumenico formalmente inappuntabile, questo Concilio non fu recepito come tale né dalla Chiesa orientale né da quella occidentale.[54] Le icone furono rimosse ed anche distrutte; il culto di Maria, dei santi, delle reliquie vietato; i monaci perseguitati perché avversari dell’Imperatore. A Costantino V successe il figlio Leone IV, molto più moderato del padre, il quale non revocò i decreti, ma non perseguitò gli iconofili e i monaci, forse influenzato dalla moglie Irene, la quale si propose di metter fine all’iconoclastia, quando alla morte del marito (780) assunse la reggenza, convocando quel Concilio riconosciuto come VII ecumenico e che rappresenta tutt’oggi l’ultimo della Chiesa ortodossa.[55] Ma la vittoria definitiva sull’iconoclastia fu ottenuta dall’Imperatrice Teodora con la convocazione del Sinodo dell’843.[56] Si assiste così a un trionfo della fede cattolica, ma nel corso di queste controversie la parte orientale del Cristianesimo si distaccò e la conseguenza fu l’solamento della Chiesa d’Oriente da Roma e da Costantinopoli.

 

La controversia sul Filioque e la questione foziana

Nel 792 Carlo Magno inviò al papa i “libri carolini”, che si schieravano contro il Concilio di Nicea, ampliando la controversia e inaugurando il dibattito sul “Filioque”;[57] la divisione politica divenne totale in seguito all’incoronazione del re franco, nel Natale dell’800, a Imperatore romano, nonostante germanico, accanto all’autentico imperatore romano (bizantino): gli orientali si sentirono traditi dai latini, l’appellativo stesso di “ecumenico” attribuito al Patriarca di Costantinopoli e la sua crescente potenza sono da connettersi a questo evento.

Nella seconda metà del secolo IX si ebbero altri conflitti tra Oriente ed Occidente, tra cui la fondazione della chiesa di lingua slava in Bulgaria,[58] causò un grave peggioramento delle relazioni tra cristiani orientali e quelli occidentali. Protagonista di ciò che possiamo definire svolta storica è Fozio, nato a Costantinopoli nella prima metà del secolo IX da illustre famiglia, entrò dopo un periodo di insegnamento a far parte della corte imperiale. La sua nomina a Patriarca, per volontà politica di Michele III, fu un tipico aspetto del cesaropapismo, che comportò un lungo scontro con Roma ed ebbe fasi alterne, ma che si caratterizzò per il Sinodo di Costantinopoli dell’867, che giunse al punto di scomunicare e deporre come eretico papa Niccolò I.[59]

La questione foziana è caratterizzata in gran parte da due problemi di basilare importanza, che fin da quest’epoca erano destinati a dominare le dispute tra la Chiesa bizantina e la Chiesa romana: la ”supremazia pontificia e il Filioque”. La Chiesa d’Oriente riconobbe che la Sede romana deteneva il primato su tutte le altre Chiese e che il Papa era il primo Vescovo della cristianità. Fin dal IV secolo, questo primato di Roma fu espressamente riconosciuto dalla maggior parte degli ecclesiastici bizantini, anche se non venne mai definita con precisione la natura di questo primato che i Bizantini attribuivano non tanto all’origine apostolica della Sede di Roma quanto al fatto che si trovava nell’antica capitale dell’Impero romano e in pratica aveva preservato intatta l’ortodossia dottrinale. Si trattava di qualcosa di più di un primato d’onore, che in certe circostanze implicava il riconoscimento, ad ogni chierico condannato dalla propria autorità ecclesiastica particolare, del diritto di appellarsi a Roma, in virtù del canone III del Concilio di Sardica (343).[60] Ma i Bizantini non accettarono mai il privilegio rivendicato da Nicolò I, secondo il quale il Papa poteva convocare qualsiasi chierico alla Corte pontificia e giudicare di nuovo i casi riguardanti gli interessi vitali della sua Chiesa particolare. Essi respinsero, sia in quest’epoca sia più tardi, la concezione romana del primato che conferiva al Papa il potere supremo sulla Chiesa cristiana e si offesero gravemente per i tentativi fatti da Nicolò I di imporre la propria legge tra Fozio e Ignazio, considerando questo modo di agire come un intervento non canonico del titolare di un particolare Patriarcato negli affari interni di un altro. Questo atteggiamento era caratteristico dei membri importanti della Chiesa bizantina, i quali si esprimevano con chiarezza in un’epoca in cui le divisioni tra Oriente ed Occidente non si erano ancora cristallizzate in scisma definitivo: il riconoscimento del primato pontificio si associava alla convinzione che il governo monarchico della Chiesa universale fosse contrario ai canoni e alla tradizione. Il rispetto per la Sede romana e per il suo titolare si associava alla certezza che la dottrina infallibile della Chiesa non potesse essere espressa da un solo Vescovo, per alta che potesse essere la sua carica, ma dalla Chiesa intera, rappresentata dai suoi Vescovi riuniti in Concilio ecumenico.[61] Nonostante convinti che il diritto canonico e la tradizione patristica giustificassero il loro rifiuto alle pretese dei vescovi di Roma di esercitare una diretta giurisdizione sulle Chiese orientali, i Bizantini si sentivano in un terreno meno solido quando tentavano di definire la natura del primato pontificio e il rapporto tra le Chiese orientali e la Sede di Roma, anche le pretese pontificie a molti di loro sembravano porre un problema più politico che ecclesiologico. Fino al XIII secolo circa, infatti, sembra che i Bizantini non abbiano compreso la vera natura delle tesi pontificie e le abbiano attribuite al desiderio dei Papi di accrescere il loro potere personale, quindi cercarono di controbattere queste pretese con la teoria della Pentarchia, esistente già nel V secolo, sviluppata nel IX e completamente formulata nell’XI, secondo cui il governo della Chiesa compete congiuntamente ai cinque Patriarcati: quelli di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme; ma questa teoria è contrassegnata dalla stessa confusione tra primato e potere che i teologi orientali rimproveravano a Roma.

Per quanto riguarda il secondo problema fondamentale della controversia foziana, cioè il Filioque, i Bizantini si espressero senza equivoco e senza incoerenza: la Chiesa orientale si opponeva al Filioque su due piani, innanzitutto i Concili ecumenici avevano espressamente vietato di cambiare qualcosa al Simbolo e solo un altro Concilio poteva annullare questa interdizione; secondariamente, il Filioque, secondo Bisanzio, era teologicamente falso.[62]

La Chiesa latina insisteva sul fatto che l’essenza (substantia) è l’unico principio di unità nella Trinità e i rapporti tra le tre persone venivano esaminati alla luce dell’essenza; mentre la Chiesa orientale preferiva partire dalla distinzione delle tre persone (hipostases) e poi passare all’esame dell’unità essenziale. Per i teologi orientali, entrambi i punti di vista erano corretti, purché la corrispondenza tra l’essenza comune e le persone distinte non venisse perduta, sopravvalutando l’una  a sfavore delle altre; sostenevano anche che questa dottrina, che afferma che lo Spirito Santo procede tanto dal Figlio che dal Padre, consisteva in una deduzione ingiustificata dal dogma della consustanzialità del Padre e del Figlio, indeboliva la monarchia del Padre, tendeva a sacrificare la distinzione tra ipostasi alla semplicità divina dell’essenza comune e implicava una teologia in cui la realtà mistica del Dio trino veniva, in un certo senso, offuscata da una filosofia dell’essenza.[63]

Prima del Concilio di Nicea era consuetudine che l’adepto dichiarasse la sua fede recitando le parole di un Credo che dichiarava la sua credenza nel Dio Uno e Trino e nell’Incarnazione, il Credo poteva essere diverso linguisticamente da una Chiesa ad un’altra, ma la sostanza non cambiava ed era uguale per tutte. Nel IV secolo la formula di questi Credi venne unificata e il testo fu adottato nel Concilio ecumenico di Costantinopoli del 381, divenendo il Credo della Chiesa cattolica, con il divieto di qualsiasi alterazione o aggiunta, tale decisione fu accettata da tutte le Chiese e quando i Vescovi bizantini furono accusati dai prelati occidentali di avere alterato il Credo nacque una grande controversia che colpì gravemente gli Ortodossi. La causa della contestazione era la frase che espone la relazione tra lo Spirito Santo e le altre Persone della Trinità: i prelati occidentali sostenevano che le parole giuste dovevano essere: <<Credo nello Spirito Santo,… che procede dal Padre e dal Figlio (…in Spiritum Sanctum…qui ex Patre Filioque procedit), i Vescovi orientali invece affermavano questa versione: <<Credo nello Spirito Santo…che procede dal Padre>>.[64]

Da un punto di vista storico, gli Ortodossi erano nel giusto, perché il Credo sancito a Costantinopoli ed approvato sia in Oriente sia in Occidente si basava sul testo del Vangelo di Giovanni (capitolo XV, 26), in cui si legge che lo Spirito Santo procede dal Padre, i prelati occidentali erano convinti di essere nel giusto, pur non avendo idea di come, dove e quando fosse stata fatta tale aggiunta. Questo dissenso fu accolto con molta contrarietà da Papa Leone III (795-816), il quale, più erudito in materia, si rese conto che tutto questo non era certo, come si suol dire, un fiore all’occhiello per la cultura occidentale, quindi cercò di mettere fine alla questione facendo incidere il testo del Credo su tavole d’argento esposte nella cattedrale, senza esito positivo. Solo nel 1014, dopo che gli Imperatori occidentali fornirono il loro appoggio a Papa Benedetto VIII (1012-1024), il quale decretò a Roma, durante l’incoronazione dell’Imperatore Enrico II, la recitazione del Credo modificato, che da allora, con l’aggiunta del “Filioque” divenne la confessione di fede ufficialmente accolta da tutti i Cristiani occidentali.[65]

 

La frattura del 1054

Durante i decenni successivi, la brevità dei pontificati e poi l’eclissi morale del Papato resero i rapporti tra la Chiesa latina e quella d’Oriente inconsistenti. All’inizio del X secolo, materia per una nuova controversia fu il quarto matrimonio dell’imperatore Leone VI, ma alla fine le relazioni ripresero, anche se questo episodio aveva contribuito a sottolineare le differenze esistenti tra l’Oriente e l’Occidente e aveva dato conferma ai Patriarchi nel loro desiderio di agire e decidere in tutta indipendenza.[66]

All’inizio del secondo Millennio, il Papato fu al centro di una grande rifioritura, dovuta anche all’elezione di alcuni Papi molto efficienti, questo cambiamento si verificò nello stesso periodo in cui anche i Patriarchi ecumenici avevano raggiunto il culmine del loro potere. Il conflitto tra Roma e Costantinopoli fu principalmente a causa della competizione culturale tra Greci e latini, fermamente convinti entrambi della superiorità delle proprie tradizioni.[67]

Durante il secolo XI si ebbero due movimenti paralleli, miranti uno alla riforma monastica e l’altro a rafforzare la disciplina ecclesiastica, a sopprimere la simonia e ad impedire l’accesso di uomini incapaci alla carica episcopale, caratterizzarono la Chiesa occidentale; entrambi i movimenti avevano l’interesse di consolidare l’autorità dei Papi e imporre al clero il celibato; la loro ispirazione derivava dalla stessa fonte: il rinnovato interesse per la cultura e per la civiltà latina. Gli Imperatori tedeschi dettero ampio sostegno ai movimenti di riforma, perché bisognosi di un clero più istruito e disciplinato per la loro amministrazione civile ed ecclesiastica, ma se fino al secolo XI i titolari delle due principali sedi erano appartenuti al mondo mediterraneo e, nonostante le controversie, avevano avuto molte cose in comune, la situazione cambiò quando a capo della Chiesa latina salirono uomini di origine diversa e di carattere diverso: nati e cresciuti in Francia e in Germania, essi erano degli stranieri sia per gli Italiani che per i Greci. Credendo di rappresentare la vera tradizione apostolica essi imposero l’aggiunta di “Filioque” nel Credo e l’obbligo del celibato per il clero prima in Italia e poi in Grecia, tutto questo provocò lo sdegno di Bisanzio.[68]

La trasformazione del Papato da uno dei Patriarchi dell’Impero romano in monarchia sacra coincise con la venuta dei Normanni in Italia, chiamati da Benedetto VIII nel 1016 come difensori nello scontro con gli Arabi e i Bizantini, ben presto conquistarono il controllo della Sicilia, si spinsero nell’Italia meridionale divenendo una forza politica predominante ed ebbero una parte decisiva nello scisma tra Roma e Costantinopoli. Esso iniziò nel 1049, quando salì sul soglio pontificio il prelato francese Bruno di Toul col nome di Leone IX. I Normanni, che cercarono di impadronirsi delle province bizantine dell’Italia meridionale, rappresentavano anche una grave minaccia per i possedimenti del Papato, quindi fu naturale che il Papa e l’Imperatore di Costantinopoli Costantino Monomaco pensassero alla possibilità di una stretta collaborazione e, dopo uno scambio di lettere, il Papa inviò tre legati a Costantinopoli per pattuire un’alleanza con l’Imperatore.[69] La delegazione, formata dal Cardinale Umberto di Mourmontiers, Vescovo di Silva Candida, dal Cancelliere della Santa Sede Federico di Lorena, (poi Papa col nome di Stefano IX) e dall’Arcivescovo di Amalfi Pietro, arrivò a Costantinopoli nell’aprile del 1054 ed ebbe subito un’aspra contesa con il Patriarca Michele Cerulario, la cui azione antiromana era evidente dal 1050, quando accusò i Latini di essere eretici, definendoli “azimiti”.[70] Vennero così ripresi vecchi motivi polemici e Leone IX, assistito dal suo segretario Cardinale Umberto da Silva Candida, cercò di opporsi alle accuse dottrinali e dogmatiche mosse dagli Orientali. Il 16 luglio 1054 (poche settimane dopo la morte di Leone IX) i legati del Pontefice deposero sull’altare maggiore della chiesa di Santa Sofia la bolla di scomunica contro il Patriarca Michele e i suoi fedeli, la risposta fu la ribellione: Michele Cerulario rinnovò le tesi di Fozio dell’876 e, a sua volta, scomunicò i Latini. Era la rottura, lo scisma. Ma queste scomuniche non segnarono l’avvento dello scisma definitivo: infatti nel 1054 fallì un tentativo di riconciliazione, che era stato intrapreso su una base sbagliata e in condizioni sfavorevoli. La bolla del 16 luglio 1054 redatta da Umberto da Silva Candida mostra chiaramente fino a che punto la mentalità della Chiesa di Roma si fosse modificata sotto l’azione del movimento riformatore e quanto poco gli uomini di questo movimento avessero capito della Chiesa orientale dei suoi usi e delle sue consuetudini. Il cardinale ebbe la pretesa di scoprire in questa Chiesa le origini di tutte le eresie, accusando i Bizantini di avere escluso il “Filioque” dal Credo, mostrando non solo il suo bigottismo, ma anche una scarsa conoscenza storica: non aveva idea che il Credo originale non contenesse il termine “Filioque” e che il celibato obbligatorio del clero non fosse una tradizione apostolica.[71] Dopo un tentativo imperiale di riconciliazione fallito, un Sinodo convocato a Costantinopoli il 24 luglio scomunicò la “bolla della scomunica”, il suo autore e i suoi collaboratori, non incorsero in questa scomunica il Papa e la Chiesa occidentale.[72]

Tra la Chiesa di Roma e quella orientale vi era un abisso, non solo per la mentalità, ma anche per il culto, la disciplina le usanze e soprattutto per la struttura della comunità cristiana: per l’Occidente la Chiesa era considerata una monarchia sacra e il Papa l’epicentro di ogni autorità sia dottrinale sia amministrativa. Il criterio dei Greci, invece, non approvava un Papato di questo genere, essi consideravano il Pontefice come il gerarca più anziano, l’idea che il Papa fosse un sovrano ecclesiastico cui tutta la Cristianità dovesse obbedire e dipendere, era ben lungi alla tradizione bizantina e tutto questo diede adito ad interminabili dispute tra Latini e Greci, vertenti non solo su problemi costituzionali ma anche su piccoli particolari di costume e di rito.[73]

Le crociate non portarono alcun aiuto all’Impero romano d’Oriente, anzi lo indebolirono e aggravarono maggiormente le relazioni tra le Chiese. Con la conquista di Costantinopoli da parte dei crociati nel corso della quarta crociata (13 aprile 1204), con la distruzione della città e l’elezione di un Patriarcato latino e dell’Impero latino, le prospettive di un ripristino della comunione ecclesiale furono distrutte.[74]

 

Il Concilio di Firenze

Durante gli anni in cui l’Impero d’Oriente era agli estremi, il Basileus aveva continuato a sperare negli aiuti militari dall’Occidente, l’unico mezzo per ottenerli era l’assoggettamento al Papa e le trattative per una simile resa si susseguirono incessantemente.[75]

L’ultimo tentativo di riconciliazione col Papa fu alla vigilia della caduta dell’Impero, quando l’Imperatore Giovanni VIII venne in Italia per intraprendere i negoziati con Papa Eugenio IV, il quale convocò un Concilio, la cui prima seduta si tenne a Ferrara ma il 10 gennaio 1439 l’assemblea si trasferì a Firenze, dove il 6 luglio dello stesso anno si concluse con la proclamazione dell’Unione.[76]

I delegati di tutte le Chiese erano presenti al Concilio di Firenze, i Vescovi ortodossi erano divisi: una parte desiderava la riunione con l’Occidente sia per motivi religiosi che politici; l’altra parte era contraria, in quanto sosteneva che cedere a Roma equivaleva a rinnegare la tradizione apostolica custodita dall’Oriente cristiano.

Il problema dello scisma fu considerato da un punto di vista esclusivamente dottrinale, si ritenne, infatti, che una volta raggiunta l’intesa sul campo teologico, l’unità del Cristianesimo sarebbe stata subito ricostituita e si sarebbe potuto, quindi, eliminare la minaccia dell’Islam.[77] Un lato interessante di questo Concilio fu la soluzione del problema papale: i Greci non erano al corrente dell’importanza che il potere centrale del Papato aveva assunto in Occidente e la prova di questo fu l’accordo rapidamente raggiunto tra le due parti: gli Ortodossi accolsero la formula proposta dai Latini, a condizione che i diritti e i privilegi dei Patriarchi orientali rimanessero immutati, essi firmarono un atto così elaborato: <<Noi riconosciamo il Papa come Sommo Pontefice, Vicereggente e Vicario di Cristo, Pastore di tutti i Cristiani e Sovrano delle Chiese di Dio>>.[78]

Il Concilio di Firenze si concluse con la proclamazione dell’Unità, che presto però si rivelò illusoria, perché i delegati, al ritorno in patria, vennero accolti con palese ostilità: il popolo dichiarava apertamente che preferiva essere governato dai Turchi anziché dal Papa, in quanto i Musulmani, almeno, non avrebbero interferito nei loro affari ecclesiastici. Molti prelati, che avevano firmato il decreto d’Unione, rinnegarono la propria firma. Si dovette attendere il 12 dicembre 1452 perché l’Unione fosse ufficialmente proclamata nella Chiesa di Santa Sofia. Poco più di cinque mesi dopo, Costantinopoli cadde nelle mani di Maometto II. L’Unione di Firenze morì con l’Impero di Bisanzio.[79] Lo scisma tra Oriente ed Occidente non fu certamente un evento improvviso, ma una vicenda che ebbe il suo sviluppo nel corso di vari secoli; la crescita dell’autorità papale, che fu la causa principale di tale scisma, non costituì mai il problema basilare delle parti in causa. Le divergenze e le dispute furono sempre su argomenti di secondaria importanza, tutto questo fu dovuto, forse, al fatto che Orientali ed Occidentali avevano perduto la possibilità di un’intesa reciproca e conseguentemente parlavano due linguaggi diversi.[80]

Nonostante tutti i segni che da anni annunciavano il disastro, la conquista turca di Costantinopoli colpì profondamente l’opinione pubblica orientale ed occidentale e, in primo luogo, il Papato: da molti Cristiani d’Occidente tale conquista venne interpretata come la giusta punizione. Da allora i Papi, pur interessati alla riforma della Chiesa, sul piano esterno ebbero come obiettivo principale la crociata contro i Turchi.[81]

Il Sultano Maometto II si dimostrò molto accomodante: intervenne personalmente per affrettare l’elezione del nuovo Patriarca, assisté alla cerimonia, lo ricoprì di doni e gli concesse un atto di riconoscimento ufficiale, col quale lo collocava a capo della Nazione greca, facendone così la guida religiosa e civile dei suoi fedeli. Fu concessa ai Cristiani la protezione politica dello Stato, la libertà di praticare la propria religione e le decisioni per le questioni religiose e giudiziarie, di essere governati dai loro capi religiosi, secondo il loro statuto particolare; furono accordati anche vari privilegi ai Patriarchi e ai preti. In teoria il governo assicurava il suo sostegno ai capi religiosi della Nazione greca, in realtà la pace religiosa e il rispetto dei privilegi concessi derivavano soprattutto dalla benevolenza del Sultano e dall’umore dei suoi funzionari, che si facevano pagare i loro favori, così la corruzione aprì le porte alla simonia e con questa alla rivalità tra i pretendenti al trono patriarcale e all’instabilità nel governo della Chiesa. D’altra parte, se l’autorità del Patriarca, ufficialmente riconosciuto come solo capo, si affermava sul piano amministrativo e civile, tuttavia il centro di gravità della Chiesa bizantina si spostava verso la Grecia, perché Costantinopoli, dopo la sua caduta, aveva ormai perso il ruolo di fulcro della cristianità orientale.[82]

Facendo un punto della situazione, si può affermare che le Chiese unite sono in un certo modo frutto del Concilio di Firenze (1439) e si sono sviluppate particolarmente nei Paesi slavi e balcanici a partire dal XVII secolo.

Capitolo III

LE CHIESE CATTOLICHE ORIENTALI: TRADIZIONI E UNIONI ALLA CHIESA DI ROMA

Se pensiamo all’insieme del Corpus Cristiano, viene spontaneo considerare il Cristianesimo suddiviso in tre grandi rami: cattolico, ortodosso e quello riformato-protestante; con la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa come se fossero due macro-organizzazioni unitarie, mentre la Chiesa Riformata appare suddivisa in tante differenti confessioni. Ma la Chiesa cattolica non è monolitica ed è composta da circa ventitré denominazioni diverse, ciascuna con una propria storia, con proprie gerarchie e con proprie ritualità distinte, con riti diversi rispetto a quello del “Missale Romanorum”, come ad esempio il Rito Ambrosiano a Milano o il Rito Mozarabico in alcune zone della Spagna etc. Ma se pensiamo a quella parte della Cristianità che più di ogni altra vive la contrapposizione tra la propria fede e quelle di un mondo circostante culturalmente ostile, nasce la necessità di indagare sulle cause dell’origine e dello sviluppo di un numero abbastanza cospicuo di Denominazioni definite comunemente “Chiese Orientali”, che generalmente vengono suddivise in cinque Tradizioni o Famiglie principali legate ai Patriarchi d’origine. La tradizione vuole che la nascita di queste Chiese sia dovuta alle predicazioni di diversi Apostoli e Discepoli, naturalmente tutto questo appare leggendario, mentre dal punto di vista prettamente storico le cause di sviluppo di un certo numero di Denominazioni sono strettamente legate alle vicende che hanno colpito e diviso il Cristianesimo. All’inizio del secolo IV il Cristianesimo poteva considerarsi unito sia da un punto di vista dottrinale che per il riconoscimento della supremazia del Vescovo di Roma, ad eccezione di diverse forme liturgiche dovute alla ricezione evangelica e al substrato culturale dei vari luoghi, ma in seno al Cristianesimo nacquero numerosi disaccordi relativi al mistero trinitario e alla natura e divinità di Cristo. E’ durante il Concilio di Efeso del 431 che inizia la prima grande rottura, che avrà gravi conseguenze nello sviluppo delle Chiese “sui iuris”, con la condanna della dottrina nestoriana; nel successivo Concilio di Calcedonia (451) ci furono ulteriori fratture che divennero sempre più marcate a causa della condanna del monofisismo; ma ciò che determinò la nascita delle Chiese “sui iuris”fu il cosidetto “grande Scisma d’Oriente” del 1054, con il disconoscimento della supremazia romana del Patriarca Michele I Cerulario e la scomunica reciproca tra il Vescovo di Roma e quello di Bisanzio.[83]

Il I canone del CCEO afferma: <<Canones huius Codicis omnes et solas Ecclesias orientales catholicas respiciunt nisi, relationes cum Ecclesia latina quod attinet, aliud expresse statuitur>>. Il codice vincola e regge i fedeli delle Chiese cattoliche d’Oriente. Il CCEO, tuttavia, non è un codice onnicomprensivo che contiene tutto il loro diritto, ma raccoglie solo le norme comuni a tutte quelle Chiese. Diversamente dal CIC, codice di una singola Chiesa, il CCEO non è un codice della Chiesa orientale (al singolare) ma la normativa comune a tutte le Chiese cattoliche orientali, che, a loro volta, devono codificare il proprio diritto particolare in un codice peculiare. Il CCEO deve essere letto sulla base della storia di ognuna di queste Chiese e nell’ottica delle loro tradizioni.[84]

I canoni contenuti nel CCEO riguardano, dunque, “omnes et solas” le Chiese cattoliche orientali, ma nello specifico a quali soggetti si rivolge tale legislazione canonica? I criteri identificativi di queste Chiese sono vari, in quanto l’espressione “Chiese orientali” ha un’accezione storica piuttosto che geografica, poiché queste Chiese hanno la loro origine nella parte orientale dell’antico Impero romano, infatti uno dei criteri è quello che si riferisce alla divisione dell’Impero romano operata da Teodosio nel 395 tra Impero romano d’Oriente e quello d’Occidente, criterio non ritenuto valido a causa dei numerosi mutamenti. Un altro criterio è quello negativo, secondo cui le Chiese orientali cattoliche sono la parte non latina costituenti la Chiesa cattolica universale, criterio ritenuto valido da vari studiosi insieme a quello enumerativo; altri, invece, preferiscono il criterio di provenienza (es. dalle Chiese orientali ortodosse, dalla Chiesa ortodossa di rito bizantino, dalla Chiesa Assira d’Oriente, senza controparte ortodossa).[85] Il criterio rituale, infine, ex can. 28, che sembra essere il più accreditato, è quello in cui le Chiese orientali sono raggruppate secondo le cinque Tradizioni, che in passato erano chiamate “riti primari”, in quanto, tranne l’armeno, sono state le matrici da cui sono sorti i diversi riti.[86]

  • TRADIZIONE ALESSANDRINA, che comprende la Chiesa Copta e quella Etiopica.

                                                               

  • TRADIZIONE ANTIOCHENA, di cui fanno parte le Chiese: Siriaca, Maronita, Siro-Malankarese.

 

  • TRADIZIONE ARMENA, con la Chiesa Armena.

 

  • TRADIZIONE CALDEA, che include le Chiese: Caldea e Siro-Malabarese.

 

  • TRADIZIONE COSTANTINOPOLITANA (BIZANTINA), che annovera le seguenti Chiese: Bielorussa, Bulgara, Greca-Bizantina, Ungherese, Italo-Albanese, Melchita, Rumena, Rutena, Slovacca, Ucraina, Iugoslava, Albanese, Russa.

Il 6 luglio 1439 fu pubblicato in latino e in greco il decreto conciliare che cominciava: “Laetentur coeli et exultet terra”, che esponeva gli articoli come erano stati concordati fra le due parti e proclamava solennemente la rinnovata unione delle Chiese orientali con quella di Roma, anche se, in realtà, si dovrebbe parlare di “unità della Chiesa”, poiché la Chiesa è di per se stessa una, e non già costituita da varie Chiese, ma di una Chiesa.[87] Costantino XII, successo nel 1448 al fratello Giovanni VIII, continuò a mantenere la comunione con la Chiesa di Roma, che però fu rotta ufficialmente con il Concilio di Costantinopoli del 1472, quando il Patriarca Gennadio II (Giorgio Scolario), istigato da Maometto II, disapprovò il Concilio di Firenze e scomunicò tutti quelli che accettavano i suoi decreti.[88] In seguito, gli approcci dei pontefici per l’unione delle Chiese orientali con quella di Roma non cessarono, ma divennero meno importanti poiché gravi eventi come la Riforma protestante e l’avanzata dei Turchi verso Occidente, assorbirono le energie dei cattolici occidentali; inoltre dopo la caduta di Costantinopoli era venuto a mancare il più grande organismo del mondo orientale, quindi le trattative ormai dovevano svolgersi tra la Chiesa di Roma da un lato e le singole Chiese orientali dall’altro.[89]

Le Chiese cattoliche orientali, comprese quelle ortodosse, fondano le loro origini nelle cinque tradizioni della Chiesa d’Oriente, col passare del tempo queste tradizioni dettero origine ai diversi riti costituiti da un comune patrimonio liturgico, teologico, spirituale e anche disciplinare.

Dopo la morte e la resurrezione di Cristo, i suoi seguaci, che ancora non si chiamavano cristiani, non si distinguevano ancora nettamente dagli ebrei e frequentavano con perseveranza il tempio: <<Ed erano di continuo nel tempio, benedicendo Dio>> (Lc. 24,53). Il messaggio evangelico, in questo periodo e nel successivo, non era ancora una dottrina, un culto ben definito nella sua forma esteriore, ma i principi fondamentali della vita della Chiesa consistevano nella partecipazione collettiva agli insegnamenti degli Apostoli, nella frazione del pane e nelle preghiere. (At. 2, 42). Anche se minima, ma possiamo già riscontrare una forma di organizzazione e di regolamentazione giuridica, come ad esempio il provvedere alle necessità materiali della comunità, con particolare riguardo verso le vedove, che rappresenta una delle prime ripartizioni delle mansioni all’interno della collettività cristiana, istituita dagli Apostoli (At. 6,1-6). Sempre gli Atti degli Apostoli ci informano della presenza di un organo di suprema direzione della Chiesa: il Collegio Apostolico, competente a decidere con autorità in materia di fede (At 15, 6.35), che informa delle proprie decisioni formalmente attraverso lettere apostoliche ed inviando propri legati (At 15, 22-31), infine riscontriamo la presenza di un’organizzazione in grado di rendere materialmente operanti i rapporti di sostegno tra le varie comunità dislocate a considerevole distanza tra loro (At 11, 27-30 e 2 Cor. 8). Comunque un minimo di organizzazione e di struttura gerarchica è presente fin da subito e cresce in maniera proporzionata all’aumento del numero delle comunità e dei fedeli: le Lettere paoline e quelle apostoliche ci danno un’ampia descrizione di tutto questo. In seguito i rituali e le regole di condotta diventano sempre più definite e presto iniziano ad essere codificate.[90]

I frequenti rapporti epistolari degli Apostoli e la sicurezza dei trasporti nell’Impero romano, permettevano di viaggiare rapidamente e consentivano ottimi collegamenti tra le varie comunità; quando tutto questo venne a mancare, gradualmente nacquero delle divergenze che dettero luogo a varie peculiarità in seno alle comunità cristiane: il Cristianesimo faceva progredire la cultura del luogo eliminando da essa tutto quello che era incompatibile col Vangelo, la Chiesa locale faceva proprio quanto si conciliava con il Vangelo riprendendolo ed epurandolo dalla cultura del posto, con la conseguenza che ogni comunità cominciava a professare la propria fede in modo particolare rispetto alle altre.

I continui contatti tra società civile e quella ecclesiastica provocarono, durante i grandi cambiamenti sociali, culturali e politici accaduti negli ultimi tempi dell’esistenza dell’Impero romano e all’inizio dell’Alto Medioevo, le diversità tra il Cristianesimo orientale e quello occidentale: In Occidente il desiderio di pace e di ordine, si rispecchia nella Chiesa che comincia ad assumere una struttura unitaria e gerarchica, alla cui sommità c’era il vescovo di Roma. In Oriente il Cristianesimo si sviluppa in un contesto di rinascita dei diversi popoli, delle loro culture e tradizioni, che gli fanno assumere un aspetto multiforme, a causa anche della presenza di più sedi vescovili che si fregiano della dignità apostolica.[91] In questi luoghi si svilupparono e consolidarono tradizioni rituali proprie, non solo sul piano liturgico, ma anche su quello teologico e spirituale, con consistenti variazioni all’interno di ciascun rito originario ed anche nell’uso della lingua liturgica. Mentre nella tradizione romana si affermerà sempre di più l’unità e l’omogeneità rituale. A questa distinzione rituale si è affiancata una progressiva separazione giurisdizionale che ha portato, nel giro di pochi secoli, alla formazione di distinte Chiese cristiane non in comunione tra loro. La causa di questo disgregamento dell’unità iniziale della Chiesa di Cristo è da ricercare in una complicata connessione tra interessi politici temporali e divisioni teologiche, in particolare dalle ripercussioni delle controversie cristologiche.

La storia della cristianità ha assistito ad un continuo avvicendarsi di tentativi di avvicinamento e di periodi di aspri conflitti, che sono stati alla base della divisione tra Chiese orientali non cattoliche e quelle cattoliche. Solamente la Chiesa cattolica orientale maronita, originaria del Libano, può vantare di essere l’unica Chiesa orientale che non è mai venuta meno alla comunione con la Sede Apostolica.[92]

La Tradizione Alessandrina

Comprende la Chiesa copta e quella etiopica. Il Cristianesimo arriva in Egitto, secondo la tradizione, con la predicazione di San Marco e già nel II secolo abbiamo la traduzione del Vangelo in lingua copta. Nel III secolo, cominciano le persecuzioni, tra cui quella cruenta di Diocleziano, ma questo è anche il periodo molto prolifico del monachesimo che vede protagonisti i padri fondatori Antonio e Pacomio. Quando Atanasio, artefice del Concilio di Nicea (325), diventa vescovo di Alessandria, nasce la sede del primo Patriarcato d’Oriente.[93] Durante il Concilio di Calcedonia, in cui furono condannate le dottrine nestoriane ed eutichiane, fu condannato anche il Patriarca Dioscoro, dando luogo ad una divisione che oppose gerarchia e fedeli, che durò fino alla conquista musulmana del VII secolo, nonostante le opposizioni di questa Chiesa che subì grandi persecuzioni. Da questa divisione nacquero i melchiti e i giacobiti: i primi fedeli e i secondi opposti al Concilio di Calcedonia.[94]

L’unione dei Copti con la Chiesa cattolica fu proclamata a Firenze il 4 febbraio 1442 col decreto “Cantate Domino quoniam magnifice fecit”.[95] Un altro gruppo cattolico copto si forma nel 1741, quando Amba Athanasius, vescovo copto di Gerusalemme, si convertì al Cattolicesimo e Papa Benedetto XIV lo nominò vicario apostolico della sua piccola comunità, che lo aveva seguito nella conversione (in seguito Athanasius tornerà alla Chiesa copta ortodossa). La Chiesa, fondata nel I secolo, ebbe origine, come accennato, dalla predicazione di San Marco evangelista, che portò il Cristianesimo in Egitto durante l’Impero di Nerone. Nel corso del IV e V secolo avvenne lo scisma della Chiesa Copta da quella latina e greca, causato anche dalle eresie cristologiche, che videro i Cristiani dividersi sulla questione della natura di Cristo. I Copti non seguirono ciò che venne affermato nel Concilio di Calcedonia (451), ma rimasero fedeli ai precedenti concili, definendosi “miafisiti”, in quanto non cedettero alla definizione calcedonese “due nature in una persona”, ma preferirono parlare di un’unica natura del Verbo incarnato, seguendo la dottrina di San Cirillo di Alessandria. La Chiesa copta e quella cattolica hanno iniziato un cammino ecumenico solo dopo il Concilio Vaticano II, che ha portato all’incontro tra Paolo VI e il Patriarca copto nel 1973, il cui risultato è stato la dichiarazione comune che esprime un accordo ufficiale sulla cristologia (12 febbraio 1988), mettendo fine a secoli d’incomprensione e di reciproca diffidenza.[96]

 

A partire dal secolo XIII i greci melchiti d’Egitto, sull’esempio di quelli della Siria, adottarono il rito bizantino.[97] I Copti-cattolici rimasero un’esigua minoranza, tanto che alla fine del XIV secolo i missionari Francescani esercitarono il loro ministero in segreto. Nel 1742 il Vescovo copto di Gerusalemme Amba Atanasio fu nominato Vicario apostolico e messo a capo della piccola comunità cattolica. Nel 1893, i padri Francescani lasciarono ai Copti cattolici dieci Chiese dislocate per la maggior parte nell’Alto Egitto; due anni più tardi papa Leone XIII divideva l’Egitto in tre diocesi copte cattoliche e nominava un Vicario patriarcale.

Nel 1899 il Pontefice ristabilisce in favore di questo prelato il titolo di Patriarca di Alessandria per i Copti; ciò porta a numerose conversioni, ma in seguito a problemi sorti con la Santa Sede, il Patriarca si dimette e passa dalla parte degli scismatici, questa defezione suscita scandalo e arresta lo sviluppo della comunità, tanto che il Patriarcato è soppresso e ricostituito solo nel 1947.[98]

Il decreto del 1442 non menziona gli Etiopi, appartenenti alla stessa tradizione dei Copti,[99] che si convertirono al Cristianesimo intorno al 356, nonostante molte resistenze, ma nel secolo VI, con l’arrivo dei Nove Santi, monaci monofisiti che fuggivano dalle persecuzioni, questa religione ebbe sempre più successo, grazie anche alla sua forte connotazione monastico-popolare ed ebbe una vita florida a causa del suo isolamento. Sono i missionari cattolici che tentano il riavvicinamento della Chiesa etiope con Roma a partire dal XIV secolo, ma è solo all’inizio del 1600 che si ha il passaggio ufficiale alla fede cattolica del negus Socinio e del suo popolo. La gerarchia cattolica si è stabilizzata dal 1961, ma solamente una parte molto esigua della popolazione fa parte di questa fede religiosa, con un Metropolita che risiede ad Addis Abeba.[100]

La Tradizione Antiochena

Inizialmente si forma a Gerusalemme e si sviluppa soprattutto ad Antiochia, poi si diffonde in Palestina, Siria e Mesopotamia settentrionale; a partire dal secolo XVII si estende ad una parte del Malabar.

Nel 451, con il Concilio di Calcedonia si hanno le prime scissioni: il Patriarca Severo di Antiochia si dichiara monofisita e, nel IV secolo, Giacomo Bar Addai diffonde il giacobinismo, in opposizione ai melchiti.[101] La tradizione antiochiana è conservata nella Chiesa siriaca, dai maroniti, che hanno apportato nel loro rito delle modifiche in senso latino e dai malankaresi, cioè dai cattolici antiocheni dell’India.[102]

        La Chiesa siriaca si costituisce nel XVI secolo con un Patriarca e vari Vescovi. Dopo il Sinodo di Sharfé del 1853 il Patriarca è eletto dal Sinodo dei Vescovi riuniti sotto la presidenza di un Metropolita. Il neo eletto deve fare la professione di fede imposta da Papa Urbano VIII agli orientali e promettere obbedienza al Pontefice. E’ investito del titolo di “Patriarca di Antiochia per i Siriani” e risiede a Beirut.[103] La Chiesa siriaca, dopo qualche tentativo di riunione con quella latina, durante le crociate, nel 1444 e poi nel secolo XVI, si unisce a Roma solo nel Seicento, grazie anche all’operato dei missionari gesuiti e cappuccini.[104]

Nel 1662, la comunità sira di Aleppo, che già aveva aderito al cattolicesimo, elesse come Patriarca il vescovo Ignazio Andrea Akhidjan (1662-1677); nel 1783, a Roma fu eletto Patriarca Ignazio Michele III Jarweh (1783-1800) da dei vescovi siri, ma la sua elezione non fu riconosciuta dalla maggior parte della Chiesa giacobita e dal governo turco, quindi fu eletto un nuovo patriarca ortodosso e Ignazio Michele III dovette rifugiarsi in Libano, tuttavia fu riconosciuto da Roma come patriarca dei siro-cattolici, con il titolo di Patriarca di Antiochia. Nella prima metà del XIX secolo la Chiesa siriaca fu ostacolata da gravi dissidi interni, ma in seguito il patriarca Ignazio Pietro VII Jarweh dette un grande impulso all’organizzazione, trasferendo la sua sede ad Aleppo e trasformando il monastero di Scharfeh in un seminario per la formazione del clero: durante il suo patriarcato alcuni vescovi giacobiti tornarono all’unione con Roma. Tra dicembre 1853 e gennaio 1854 si svolse il primo Sinodo della Chiesa cattolica siriaca, sotto la presidenza di un delegato apostolico.[105]

Come già accennato, la Chiesa maronita è l’unica Chiesa orientale rimasta sempre in piena comunione con Roma, sebbene, nel secolo XII sembra aver aderito per qualche tempo al monotelismo. Le sue origini risalgono alla fine del quarto, inizio del quinto secolo ed ha le sue origini ad Antiochia attorno all’antico monastero di Beth Maron: il suo fondatore, San Marone era un monaco, il quale con il suo carisma radunò intorno a lui altri religiosi, nonostante avesse adottato uno stile ascetico molto severo. La Chiesa maronita crebbe intorno al monastero, da cui si svilupparono altre congregazioni che contribuirono ad incrementare la comunità, i cui monaci lottarono costantemente per difendere la fede contro i monofisiti.[106] Nel VII secolo, dopo l’invasione dei Musulmani, i Maroniti si spostarono nel nord del Libano, per 400 anni risedettero nella valle Kadisha, dove i Patriarchi vissero con la comunità nelle caverne delle zone montuose dove nessuno poteva raggiungerli, in seguito uscirono e si diffusero nella regione. Il rito orientale di questa Chiesa appartiene alla tradizione liturgica di Antiochia, prevede la messa in aramaico e siriaco, ma attualmente la maggior parte della liturgia è nella lingua corrente della gente; è l’unica Chiesa cattolica del Medio Oriente non “uniata”, cioè che non ha una controparte ortodossa: tutti i maroniti fanno parte della Chiesa di Roma.[107] La Chiesa maronita ha conservato nei secoli un carattere autonomo anche durante l’epoca musulmana, con l’uso della liturgia propria e il clero sposato, oltre a rapporti amichevoli con Roma. Una forte tradizione tra i maroniti afferma che, in realtà, la loro chiesa non ruppe mai la comunione con la Santa Sede.[108] Capo di questa Chiesa è il Patriarca che porta il titolo di “Patriarca d’Antiochia e di tutto l’Oriente”, che gli è stato riconosciuto, almeno per la prima parte, da Papa Alessandro IV nel 1254; insieme al nome di battesimo, il Patriarca aggiunge anche quello di Pietro, in ricordo del primo Vescovo di Antiochia.[109]

I cattolici di rito siriano del Malabar sono chiamati Malankaresi,[110] per distinguerli dai loro compatrioti di rito caldeo (Chiesa Siro-Malabarese). Il rito siriano si diffonde nel Malabar verso la metà del XVII secolo, ma è solo nel 1930 che si costituisce la Chiesa cattolica Siro-Malankarese.[111]

        La Chiesa siro-malankarese (Mar Thoma Suryani Sabha malankararese; Mar Thoma in aramaico significa San Tommaso): Le origini del Cristianesimo in India sono legate tradizionalmente ai primi insediamenti cristiani che nacquero nel Kerala (l’antico Malabar), dopo l’arrivo in quei luoghi dell’Apostolo Tommaso (52 d. C.), in seguito la comunità cristiana si diffuse nel sud ovest del Paese in forma libera e originale, solo nel 1498 subirono delle influenze esterne, quando Vasco da Gama sbarcò nelle coste indiane stabilendovi i primi avamposti portoghesi. Nel 1542 circa i Gesuiti iniziarono l’evangelizzazione di queste popolazioni, imponendo spesso conversioni forzate di massa. Questa comunità subì una divisione nel 1653: da un lato si ebbe la Chiesa malankarese e dall’altro quella malabarese, la prima lottò per la sua autonomia e per la tutela della sua tradizione liturgica, perdendo la comunione con la Chiesa cattolica e giurando di non sottostare all’autorità del Padroado portoghese, ossia i privilegi accordati dalla Santa Sede al re del Portogallo, di cui i più importanti furono sanciti da due bolle di Papa Leone X: “Dum fidei constantiam” e “Emmanueli Regi Portugalliae illustri”, rispettivamente del 4 e 12 giugno 1514. Ma col passare del tempo questa Chiesa sente il bisogno di riavvicinarsi alla Chiesa cattolica, tuttavia i vari tentativi formali di riunificazione ebbero scarso successo, fino a quando, nel 1930, il Vescovo Mar Ivanios, delegato della Chiesa ortodossa malankarese per dialogare con la Santa Sede, fu accolto da Papa Pio XI, il quale due anni più tardi stabilì la gerarchia cattolica siro-malankarese in India con il decreto “Christo Pastorum Principi”, con l’elezione di due diocesi e l’imposizione del Pallio a Mar Ivanios.[112]

 

La Tradizione Armena

L’evangelizzazione dell’Armenia da parte degli apostoli Bartolomeo e Taddeo sembra essere una leggenda: il fondatore di questa Chiesa è Gregorio l’Illuminatore (260-326).[113] Gli Armeni non hanno avuto, nei primi secoli, molte relazioni con la Chiesa Occidentale, con le crociate numerose persone, per interesse o per convinzione, hanno adottato la fede romana. Solo nel 1742 si costituisce Patriarcato armeno cattolico, il cui Patriarca ha il titolo di “Patriarca di Cilicia e degli Armeni e risiede in Libano.[114]

Gli Armeni sancirono la loro unione con il documento “Decretum ad Armenos” del 22 novembre 1439, ma non fu un’unione totale: ben presto i cattolici furono perseguitati e fallirono anche i nuovi tentativi di riunione. Alla fine del XVIII secolo (1740-1758), però, Benedetto XIV riconosce la Chiesa armena e costituisce loro il primo patriarcato cattolico.[115] Il primate è il Patriarca di Cilicia, con sede a Beirut, mentre la sede della Chiesa armena-cattolica si trova a Bzoummar, in Libano. A partire dal XVII secolo, grazie all’opera di missionari latini, si formano gruppi di cristiani che entrano in comunione con Roma. Queste comunità armeno-cattoliche erano sparse su un immenso territorio (dall’Italia alla Persia) e non avevano un loro unico responsabile, infatti spesso dipendevano da un vicario apostolico o da delegati apostolici oppure erano assoggettate al vescovo latino più vicino, quindi non esisteva una Chiesa armeno-cattolica costituita. Dal punto di vista civile dipendevano dagli stessi connazionali da cui si erano separati non sempre pacificamente, qiundi nel Settecento e nel secolo successivo, alla lotta per l’indipendenza e l’autonomia ecclesiastica si unirà quella per l’emancipazione civile e il riconoscimento legale della Chiesa armeno-cattolica e per ciò che riguarda l’autonomia religiosa occorreva l’istituzione di un proprio patriarcato: Il primo tentativo fu fatto nel 1714, ma fu denunciato alle autorità turche dagli armeni ortodossi; il secondo tentativo fu nel 1740: l’elezione del Patriarca non poté essere ostacolata dal governo turco, impegnato nella rivolta del pascià d’Egitto, nel 1742 Benedetto XIV riconobbe il nuovo patriarca con l’incarico di unire, sotto la sua autorità patriarcale, tutti gli armeni cattolici. Nella seconda metà del secolo XIX si venne a creare una situazione di tensione tra la Chiesa armena-cattolica e la Santa Sede, che causò uno scisma in seno al Patriarcato armeno, a causa di antichissimi diritti circa l’elezione dei Patriarchi e dei Vescovi, tensione che aumentò quando il Papato pubblicò la lettera apostolica “Reversurus” (12 luglio 1867) con la decisione che il Patriarca, eletto dai soli Vescovi del Patriarcato, sarebbe entrato in carica solo con la conferma dell’elezione pontificia, la conseguenza fu lo scisma nella Chiesa armena, che rientrò definitivamente nel 1880 quando l’ultimo scismatico si riconciliò con Roma. Alcuni studiosi sostengono che il cristianesimo armeno non si sia mai separato dalla comunione con la Santa Sede e che le comunità armene cattoliche discendano direttamente dall’evangelizzazione operata da San Gregorio Illuminatore, fondatore del cristianesimo armeno.[116]

 

La Tradizione Caldea

Si è sviluppata nei territori dell’antico impero persiano. Dalla Mesopotamia questa tradizione è stata diffusa dai missionari all’Asia centrale, in Cina e in India.

Due sono le Chiese appartenenti a questa Tradizione: quella caldea e quella siro-malabarese. I cattolici della Chiesa caldea si proclamano i successori legittimi dei primi cristiani dell’Impero persiano e l’autonomia di questa Chiesa è stata ottenuta nel V secolo con la facoltà di eleggere un Patriarca cattolico, il quale porta il titolo di “Patriarca di Babilonia” e risiede a Baghdad.[117]

Prima del XIII secolo i cristiani del nord-est della Mesopotamia (Persiani) non ebbero diretti rapporti con la Chiesa di Roma, dalla quale si staccarono, divenendo eretici, quando passarono al nestorianesimo. Soltanto nel 1233 circa alcuni missionari domenicani convertirono al cattolicesimo il Patriarca nestoriano di Baghdad, allacciando in tal modo relazioni con la Santa Sede. Nel 1551-1552, dopo uno scisma nestoriano che favorì lo sviluppo del Cristianesimo, alcuni vescovi con un gruppo di fedeli si riunirono nel monastero di Rabban Hormisda ed elessero come loro Patriarca l’abate del monastero Yochanan Sulaqa, il quale fu inviato a Roma, dove ebbe un colloquio con Papa Giulio III, si convertì al Cristianesimo e fu consacrato, al suo ritorno in patria costituì una regolare gerarchia episcopale, che successivamente tornò al nestorianesimo, intanto l’anno seguente (1553) lo stesso pontefice creò il Patriarcato della Chiesa cattolica caldea. Nel 1610 il Patriarca nestoriano Elia II ristabilì l’unione con Roma, ma anche questa volta durò solo cinquant’anni. Fu nel 1672 che il Cristianesimo si diffuse ampiamente ad opera del’’Arcivescovo di Amida, tanto che Innocenzo XI lo elevò al rango di Patriarca (1681). L’unione definitiva con Roma si ebbe solo nel 1830, quando Pio VIII confermò al Patriarca il titolo di “Patriarca di Babilonia dei Caldei”, con sede nella città di Mossul fino al XX secolo. Chiese di tradizione caldea si trovano anche in Iran, Libano, Siria Gerusalemme, Egitto, Turchia, Australia, e negli Stati Uniti d’America.[118]

I “cristiani di San Tommaso” o cristiani malabaresi discendono da comunità fondate nel IV secolo circa e poi passate al nestorianesimo, questo gruppo si dette un’organizzazione stabile nel 1599, quando l’Arcivescovo di Goa indisse un Sinodo per unificare la gerarchia e adeguare la liturgia al cattolicesimo; ma i missionari Gesuiti latinizzarono pesantemente i riti ai quali i fedeli erano legatissimi, creando molti malcontenti, di questo ne approfittò l’Arcidiacono Tommaso Parambil, il quale si staccò da Roma seguito da un sostanzioso numero di fedeli per unirsi con i Siro-Giacobiti (monofisiti). Papa Alessandro VII sostituì i Gesuiti con i Carmelitani, i quali riuscirono a ricondurre all’unione con la Santa Sede molti cristiani. Prima dell’arrivo di Vasco de Gama la Chiesa malabarese era legata da antichi rapporti con il nestorianesimo, ma con l’arrivo dei Portoghesi si ebbero dei mutamenti: la politica portoghese si scontrò con il desiderio di indipendenza e autonomia dei fedeli, i quali accolsero con entusiasmo il Vescovo caldeo Mar Youssef, inviato in India col consenso del Pontefice per ripristinare le antiche consuetudini, ma fu imprigionato dai Portoghesi, deportato a Lisbona per essere processato dal Tribunale dell’Inquisizione. La mancanza di un Vescovo, il processo di latinizzazione della Chiesa mala barese contribuirono, nel Seicento, al distacco della già fragile comunione con Roma e alla divisione in seno alla stessa Chiesa dando vita alla Chiesa malankarese. La data di fondazione di questa Chiesa si può considerare nel’Molto tempo dopo, nel 1896 furono creati tre Vicariati apostolici sotto la guida di Vescovi siro-malabaresi; nel 1923, Pio XI col breve “Romani Pontifices” dette una propria gerarchia a questa Chiesa, costituendo l’Arcivescovato di Ernakulan con tre vescovati suffraganei e nel 1934 la sottopose ad un processo di de-latinizzazione dei riti, che sfociò nell’approvazione della nuova liturgia nel 1957 con Pio XII. Fu nel 1992 che Papa Giovanni Paolo II elevò la Chiesa ad Arcivescovile Maggiore, nominando anche il primo Arcivescovo Maggiore nella persona del Cardinale Antony Padiyara.[119]

I sacerdoti della Chiesa malabarese portano il nome di “cathanar”, abbreviazione di “carthan” (governatore) e di “nathar” (signore); i Vescovi hanno il titolo di “Mar”, che equivale a Monsignore, al quale alcune volte, viene aggiunto quello di “Abouna” (Nostro Padre).[120]

 

La Tradizione Costantinopolitana (Bizantina)

Sviluppatasi soprattutto a Costantinopoli, deriva dalla tradizione antiochena, comprende anche degli elementi alessandrini e cappadoci. Il rito bizantino è conservato anche dai popoli soggetti alla giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli, cioè nelle Chiese autocefale provenienti, nei secoli successivi, dal Patriarcato medesimo e anche nei Patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, appartenenti alla fede caledoniana.[121]

La Chiesa bielorussa: a partire dalla fine del XVIII secolo la storia dei Ruteni si diversifica a seconda che si tratti di Ruteni di Russia o della ex Cecoslovacchia. Alla fine dell’Ottocento il governo russo sopprime tutte le sedi cattoliche e i Ruteni sono incorporati nella Chiesa ufficiale. Nel primo decennio del Novecento molti Ruteni chiesero di rientrare in comunione con Roma, ma per prudenza, passarono al rito latino, poiché la legge russa proibiva ai cattolici l’uso del rito bizantino.[122] Nel 1595 ed anche l’anno successivo, dopo l’unione di Brest, numerosi cristiani bielorussi erano entrati in piena comunione con la Chiesa di Roma: nel 1931 la Chiesa bielorussa ricevette un Visitatore apostolico inviato dalla Santa Sede e nel 1939 fu nominato un Esarca per i fedeli bielorussi di rito bizantino, mentre nel 1960 fu nominato un Visitatore apostolico per i fedeli residenti all’estero.[123]

Nel IX secolo i Bulgari accolsero il Cristianesimo nel rito bizantino, (893-972), Simeone I successore dello zar Boris I, proclamò un Patriarcato indipendente nel 917, che fu riconosciuto da Costantinopoli, ma ebbe fine nel 1018 con la caduta del Primo impero bulgaro. Dopo avere ottenuto di nuovo l’indipendenza nel 1186, il Patriarca di Costantinopoli  riconobbe l’indipendenza della Chiesa bulgara e il diritto al Patriarcato nel 1235, ma la conquista ottomana mise fine al Patriarcato e il suo territorio unito con quello di Costantinopoli. Ne secoli successivi fu imposta la lingua greca nella liturgia e i Vescovi erano greci; nel XIX secolo il Sultano emanò un decreto (12 marzo 1870) per l’istituzione di un esarcato bulgaro indipendente da Costantinopoli, il cui Patriarca scomunicò la Chiesa bulgara,nonostante tale provvedimento non fosse riconosciuto dalle Chiese ortodosse, fu ritirato solo nel 1945. I Bulgari cercarono l’appoggio di Roma, sperando che fruttasse alla loro Chiesa la libertà negata da Costantinopoli: Papa Pio IX accettò la loro richiesta ed elevò al rango arcivescovile personalmente l’Archimandrita Sokolsky l’8 aprile 1861, il quale, qualche mese dopo scomparve su un battello russo diretto a Odessa, questo avvenimento incise negativamente sulle conversioni.[124] Alla fine dell’Ottocento furono istituiti due Vicariati apostolici, soppressi nel 1926 e istituito un Esarcato apostolico per i fedeli di rito bizantino, per iniziativa del futuro Papa Giovanni XXIII (Angelo Roncalli), il quale fu Visitatore apostolico in Bulgaria nel 1925 e Delegato apostolico fino al 1934. Dopo la Seconda guerra mondiale, il regime comunista non abolì la Chiesa greco-cattolica bulgara, anche se fu sottoposta a drastiche restrizioni, che furono mitigate quando sul soglio pontificio salì Giovanni XXIII il 28 ottobre 1958.[125]

Solo alla fine del XIX secolo si verificarono le prime conversioni greche al cattolicesimo con la creazione di una Chiesa cattolica “sui iuris”di rito bizantino,  in seguito furono costruite altre Chiese in Tracia, Costantinopoli, Calcedonia e Turchia, molto meno numerosi furono i cattolici di rito latino, i quali, generalmente, erano discendenti dei veneziani, pisani, genovesi ed amalfitani, che si erano stabiliti nelle isole greche all’epoca delle Repubbliche marinare per fini commerciali. Nel 1907 il Pontefice nominò Isaias Papadopoulos Vicario generale della delegazione apostolica di Costantinopoli e quattro anni più tardi venne elevato al rango episcopale, dando luogo ad un nuovo ordinamento per i cattolici greci, che in seguito divenne un Esarcato. Dopo il conflitto bellico tra Grecia e Turchia, molti cattolici traci si rifugiarono in Macedonia, la comunità di Costantinopoli, invece, si trasferì ad Atene con il proprio Vescovo. Nel 1932 monsignor Calavassy, che sostituisce Papadopoulos, si stabilisce ad Atene e monsignor Varouhas in Turchia, a Costantinopoli, entrambi come ordinari: l’Esarcato cattolico-bizantino fu separato dall’Esarcato apostolico di Costantinopoli per i cattolici della Turchia e limitato unicamente allo Stato greco, ma a causa delle emigrazioni e dei fatti che avevano travagliato la popolazione, la comunità di questo Esarcato si è sensibilmente ridotta, al punto che l’ultimo sacerdote, morto nel 1997, non è mai stato rimpiazzato.[126]

Al rito bizantino appartiene anche la diocesi di Hajdu-Dorogh, situata al centro della vasta pianura dell’Ungheria. Questa nuova diocesi è stata eretta nel 1912 da Pio X con settantotto parrocchie rutene, ottantatre parrocchie rumene e con quella di rito bizantino di Budapest. Dopo la prima Guerra mondiale le parrocchie di questa diocesi, il cui Vescovo risiede a Nyiregyhaza, sono rimaste in tutto ottantatré.[127] La conversione dei Magiari al Cristianesimo avvenne con Géza (972-997) della dinastia degli Arpad. Il successore, Stefano il Santo, (997-1038) gettò le basi dello Stato ungherese, avvalendosi anche del supporto del Papato. Per organizzare la Chiesa ungherese, Stefano istituì arcivescovati e vescovati, stimolando anche gli ordini religiosi a fondare loro conventi.[128]

Nel corso del XVII secolo i cattolici ungheresi erano concentrati soprattutto nel nord-est del Paese, la loro cura spirituale dipendeva dall’Eparchia di Mukacheve della Chiesa cattolica rutena (1600). Durante il secolo successivo molti ungheresi protestanti si convertirono al cattolicesimo adottando il rito bizantino e cominciarono ad usare la lingua nazionale nella loro liturgia. Nel 1868 i delegati di cinquantotto parrocchie si riunirono per promuovere l’uso della lingua ungherese nella liturgia e per la creazione di una propria Eparchia, che fu poi istituita da Papa Pio IX l’8 giugno 1912: Eparchia di Hajdudorog per le 162 parrocchie greco-cattoliche di lingua ungherese. Dopo la Prima Guerra mondiale, la modificazione delle frontiere nazionali portò alla riduzione del territorio dell’Eparchia di Hajdudorog e delle 168 parrocchie originarie ne restarono 90, di cui 21 erano quelle nei confini ungheresi delle eparchie di Presov e una dell’eparchia di Mukacheve, il 4 giugno 1924 furono unificate nell’esarcato di Miskolc. Questa nuova conformazione fu inizialmente classificata come rutena, perché quelle parrocchie usavano ancora lo slavo ecclesiastico nella liturgia, ma ritenuta parte della chiesa greco-cattolica ungherese. Le 67 parrocchie dell’eparchia di Hajdudorog in territorio romeno furono alienate il 9 aprile 1934. Il territorio dell’eparchia inizialmente coincise con quello dell’Arcidiocesi di rito latino di Eger (Ungheria orientale) e con la città di Budapest. Il 17 luglio 1980 la sua giurisdizione fu estesa a tutta l’Ungheria. La Santa Sede e l’Ungheria stabilirono relazioni diplomatiche nel 1920, ma furono interrotte dopo la seconda guerra mondiale, quando il governo comunista prese il potere del Paese; tali relazioni furono ristabilite dopo la disgregazione del regime comunista a partire dal 2 febbraio 1990. Papa Giovanni Paolo II, con la sua lettera apostolica “Hungariae Nationis”(1993) procedeva ad una riorganizzazione territoriale, che tenesse conto delle nuove condizioni in cui la Chiesa ungherese era chiamata a svolgere la sua missione. Vennero modificati alcuni confini delle diocesi, tenendo in considerazione le perdite territoriali subite dall’Ungheria (dopo la prima  guerra mondiale), ne furono create due nuove: quella di Kaposvar e quella di Debrecen-Nyiregyhaza; fu elevata a Metropolia la diocesi di Veszprém.[129]

La Chiesa italo-albanese: nell’alto Medioevo, l’Italia meridionale e la Sicilia facevano parte dell’Impero romano d’Oriente, i Cristiani di queste regioni seguivano il rito bizantino introdotto dalla politica imperiale e dipendevano dal Patriarcato di Costantinopoli, fino alla conquista dei Normanni nell’XI secolo. Il rito latino soppianta quasi completamente quello bizantino e Roma riprende i suoi diritti che i Patriarchi greci avevano usurpato. Nel XV secolo, i Greci e gli Albanesi, fuggirono dagli invasori Turchi e cercarono rifugio in Calabria e in Sicilia; l’immigrazione continua nei secoli XVI e XVII, in modo che si contano presto più di trenta villaggi. I nuovi venuti mostrano un tale attaccamento al loro rito, da far sì che questo sia conservato.

Urbano II, nel 1624, allo scopo di impedire l’intrusione dei Vescovi greci, spesso scismatici, che venivano ad installarsi nelle province meridionali dell’Italia, istituisce a Roma una prelatura metropolitana di rito bizantino, il cui titolare poteva ordinare i sacerdoti del proprio rito, ma senza esercitare alcuna giurisdizione sui fedeli. Questi ultimi rimangono sotto la dipendenza dei Vescovi latini nelle diocesi delle quali essi fanno parte. Papa Benedetto XIV concede loro, nel 1742, la costituzione “Etsi Pastoralis” che li regola ancora oggi. Vengono fondati due seminari e molti monasteri, di cui restano attualmente solo il monastero di Grottaferrata presso Roma, il seminario italo-albanese di Palermo e il collegio greco di Sant’Atanasio a Roma. Il 13 febbraio 1919, Benedetto XV eresse l’Eparchia di Lungro suddivisa in ventinove parrocchie. Pio XI con sua bolla del 26 ottobre 1937 sancisce l’erezione dell’eparchia di Piana dei Greci, con giurisdizione sui fedeli di rito bizantino della Sicilia. L’abbazia territoriale di Santa Maria di Grottaferrata comprende la sola antichissima abbazia di Grottaferrata, fondata nel 1004 da san Nilo da Rossano, sopra un terreno dove di un’antica villa romana, donato ai monaci dai Conti di Tuscolo,feudatari del luogo.[130]

 Dopo il Concilio di Calcedonia (V secolo), l’Imperatore di Costantinopoli Marciano deliberò che i decreti del Concilio avessero forza di legge dello Stato: coloro che accettarono questa decisione furono detti “melchiti”, ossia “uomini del re”. Il termine, deriva dall’arabo “malik” e i monofisiti d’Egitto lo usavano in senso dispregiativo per gli ortodossi; oggi con questo vocabolo sono designati i cattolici di rito bizantino, di lingua araba.

Nonostante l’occupazione musulmana del Medio oriente del VII secolo e la riconquista dell’Impero bizantino di questi territori sottoposti all’autorità del Patriarcato di Costantinopoli, i Melchiti rimasero sempre in comunione con Roma, rapporti talvolta resi molto difficoltosi anche a causa degli abusi inflitti dai Crociati. Per due secoli, dopo la conquista ottomana (1516), la Chiesa melchita fu di nuovo sottoposta al Patriarcato di Costantinopoli, ma nonostante il controllo ortodosso i Melchiti riuscirono a mantenere i contatti con la Santa Sede, anche se la maggior parte di loro parteggiò per Costantinopoli. A questa Chiesa appartengono i cristiani di rito bizantino dei Patriarchi di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme. I melchiti cattolici hanno subito numerose e violente persecuzioni da parte degli scismatici e dalle autorità turche fino al 1837, anno in cui il Patriarca Massimo III Mazloum riorganizza la Chiesa melchita cattolica.[131] Nel XVII secolo missionari cattolici incrementarono i rapporti tra latini e melchiti e nel 1709 il Patriarca di Antiochia Cirillo V riaffermò l’autorità Pontificia sulla Chiesa melchita, che subì una divisione nel 1724: una parte, “Ortodossi antiocheni”, sotto l’influenza di Costantinopoli; l’altra “Melchiti cattolici” dichiararono formalmente l’unione con Roma. Con il decreto di Papa Leone XIII “Orientalium Dignitas” la Chiesa melchita cattolica ha potuto mantenere il rito orientale e durante il Concilio Vaticano II il Patriarca di Antiochia contribuì all’apertura del dialogo con la Chiesa ortodossa. I Melchiti cattolici dichiararono formalmente l’unione con Roma nel 1724, dopo la divisione della Chiesa melchita in due rami: quello degli ortodossi antiocheni e quello dei Melchiti cattolici, presenti non solo in Medio Oriente, ma anche in Canada, USA, Brasile, Australia.[132]

I Rumeni, in grande maggioranza cattolici, nei secoli XVI e XVII, diventarono scismatici oppure calvinisti, per la riconversione i Gesuiti organizzarono delle missioni che ebbero pieno successo. Ma nel 1735 un monaco serbo, Bessarione, sostenuto dal Patriarca di Pec, condusse una lotta accanita in Transilvania contro i cattolici, i quali intimoriti si convertono all’ortodossia. L’ordine fu ristabilito dopo circa venti anni; i Rumeni in Transilvania si dividono in due Chiese: una unita a Roma e l’altra dissidente. L’unione fu preparata durante i Sinodo di Alba Iulia del 1697, fu poi decisa ufficialmente nel Sinodo dell’anno successivo, venne ratificata solennemente col Sinodo del 1700 sempre svoltosi ad Alba Iulia. Il Pontefice Innocenzo XIII, con sua bolla “Rationi congruit” del 9 maggio 1721, conferma la fondazione di un vescovado per gli uniti della Transilvania, con sede a Fagaras, poi a Blaj dal 1737. Papa Pio IX con sua bolla del 1853 “Ecclesiam Christi ex omni lingua” istituì metropolia greco-cattolica rumena nell’eparchia di Fagaras-Alba Iulia con tre diocesi suffraganee.[133]

La Chiesa rutena: i Ruteni sono slavi che risiedono nel sud-ovest della Russia, nella Galizia, in parte della ex Cecoslovacchia e della Romania. Essi abbracciarono il rito bizantino dal momento in cui si convertirono al Cristianesimo nei secoli X e XI. Nel 1589 l’erezione del Patriarcato russo di Mosca diventa un pericolo grave per i cattolici, poiché i Russi pretendono di estendere su tutti gli Slavi di rito bizantino la loro autorità civile e religiosa. I Vescovi ruteni, riuniti in Sinodo a Brzesc, decidono di rompere per sempre con i Patriarchi orientali scismatici e di riconoscere la sola autorità del Papa (1595). La Chiesa rutena si unì alla Chiesa di Roma nel 1646. Tale Chiesa è compresa nell’Eparchia di Mukacheve in Ucraina e soggetta alla Santa Sede; nell’Arcieparchia di Pittsburg con tre eparchie suffraganee, dove si trova anche la sede, forse a causa dei molti cattolici che emigrarono negli USA fin dal secolo XIX e nell’Esarcato apostolico della Repubblica Ceca.[134]

L’unione della Chiesa slovacca si ha nel 1649, quando l’igumeno di un monastero situato presso Mukacheve, che i fedeli riconoscevano come loro capo religioso, chiese ed ottenne di entrare in comunione con Roma, a condizione di conservare il rito bizantino. I Ruteni della Cecoslovacchia, nel XVII secolo, si convertirono al cattolicesimo, conservando però il rito bizantino ed eleggendo Vescovi di questo rito. Non vengono fissati, però, i confini di questa nuova diocesi e ciò provoca frequentemente dei conflitti di giurisdizione con Vescovi latini fino al 1771, quando Pio VI erige la diocesi di Mukacheve. L’Unione di Uzhorod del 1646 fa accettata all’unanimità sul territorio che comprende la Slovacchia orientale e il 22 settembre 1818 fu eretta l’Eparchia di Presov che fu poi sottratta dalla giurisdizione del primate d’Ungheria nel 1937 e soggetta alla Santa Sede. Giovanni Paolo II eresse l’esarcato apostolico di Kosice.[135]

La Chiesa ucraina uniate esiste dal 1596, quando gli Ucraini di rito greco decisero di staccarsi dalla Chiesa ortodossa per unirsi alla Chiesa di Roma. Per tre secoli e mezzo hanno potuto professare liberamente la propria fede, finché Stalin decide di sopprimere la loro Chiesa (1946). Nel settembre 1989, per la prima volta, dopo più di quarant’anni, gli Uniati hanno manifestato pubblicamente a Lvov per il riconoscimento della propria libertà di culto e contro l’integrazione della Chiesa ortodossa. All’inizio del 1990 il Cardinale degli Uniati ha celebrato la prima Messa pubblica.[136]

La storia religiosa dell’Ucraina è strettamente legata agli avvenimenti storico-politici del Paese. Secondo un’antica leggenda fu l’Apostolo Andrea che predicò il Vangelo nella regione del Mar Nero e già durante il regno del Principe Igor (914-945) i cristiani erano numerosi. Alla morte di Igor, la moglie Olga prese la reggenza, si fece battezzare e restò in contatto sia con Costantinopoli sia con l’Imperatore Ottone I, al quale chiese di inviare a Kyiv un Vescovo per l’evangelizzazione dei suoi sudditi. In seguito, con altri regnanti, Kyiv divenne il centro spirituale del Cristianesimo slavo; anche dopo lo scisma del 1054 la Chiesa di questa città continuò ad intrattenere relazioni con la Chiesa di Roma anche se discontinue ed ebbe una grande fioritura di questa religione. Ma dall’anno 1169 ha inizio la decadenza: il duca Bogoliubskii devastò Kyiv, le Chiese furono bruciate, i fedeli uccisi e i sopravvissuti fatti schiavi. Nel 1240 l’Ucraina fu conquistata dai Tartari, perdendo la sua centralità sugli slavi orientali; da questo periodo in poi, risentì moltissimo di tutti gli avvenimenti storici-politici della Russia e dei Paesi dell’Est, al punto tale da non permettere uno sviluppo religioso e culturale. Fu chiesta protezione alla Chiesa di Roma, che garantiva la protezione dalla russificazione e dalla latinizzazione, perché le condizioni erano il rispetto per l’identità della Chiesa locale.[137] Nel 1595 fu concordata a Roma un’Unione di Brest, ratificata poi a Brest Litovsk nel 1596: in questa circostanza, oltre all’arcieparchia metropolitana di Kyiv ed altre della Rutenia Bianca, si unirono anche le eparchie della Volinia. Nel 1620 fu ristabilita l’Unione e il Metropolita si stabilì a Kyiv. La Chiesa fu elevata allo statuto Arcivescovile Maggiore il 23 dicembre 1963, con a capo l’arcivescovo maggiore di Lyiv-Halyc.[138]

Il 9 e 10 marzo 1946 ebbe luogo il Sinodo di Lviv, nella cattedrale di San Giorgio, dove le autorità sovietiche tennero sotto la minaccia delle armi i convocati; venne revocata l’unione di Brest e la Chiesa riunita forzatamente con quella ortodossa, la piccola comunità che rimase fu costretta a vivere nelle catacombe e a svolgere il servizio pastorale senza una struttura ufficiale, uscendo solo con l’inizio della “Perestroika”, che dette ai cattolici un poco di libertà e il coraggio di lottare per i propri interessi nazionali e religiosi. Nel 1989, le autorità sovietiche riconobbero le comunità greco-cattoliche e nel 1991 il Cardinale Lubachivsky, capo della Chiesa rientrò alla sua sede dopo l’esilio.

La Chiesa iugoslava: il Re d’Ungheria, nel 1463, avendo riconquistato una parte della Bosnia dai Turchi, impone agli abitanti l’unione con Roma; questi nuovi fedeli però accettano il cattolicesimo solo all’inizio del XVII secolo. Nel 1611 Papa Paolo V nomina loro un Vescovo di rito bizantino e alla fine dello stesso secolo viene nominato un Vescovo anche per la Slavonia. I cattolici iugoslavi subiscono le vessazioni degli scismatici e il Vicariato della Slavonia viene soppresso; per porre fine a questa persecuzione Pio VI erige una diocesi a Krizevci, tuttora esistente.[139] Più recentemente, le persecuzioni del governo di Tito non hanno risparmiato la diocesi di Krijevtsy: imprigionando il Vescovo e alcuni sacerdoti. Dall’Europa centrale e dall’opposta sponda adriatica giunse la religione cattolica-romana, professata in prevalenza dalle genti a Nord della Sava, eccettuato il Sirmio; nelle isole e lungo la costa dalmata, spingendosi a nord della Narenta, sin quasi all’alta Bosnia e con minor predominio nella Voivodina.[140]

L’evangelizzazione dell’Albania sembra sia cominciata fin dall’epoca apostolica, probabilmente fu San Paolo ad evangelizzare questo Paese durante i suoi viaggi. Nel 58 la città di Durazzo aveva un suo Vescovo, nel IV secolo quasi tutto il Paese era cristianizzato e sul suo territorio erano sorte cinquanta sedi vescovili. già al tempo del Concilio di Nicea (325) esisteva una certa organizzazione ecclesiastica, sviluppatasi sotto l’influsso della Chiesa di Roma. La differenza di rito tra le due parti del Paese deriva dal fatto che nella parte settentrionale vi erano i missionari latini, mentre in quella meridionale i Bizantini. Dal 732 l’Albania può considerarsi alle dipendenze di Costantinopoli, con la quale sarà trascinata nello scisma greco; solo il nord del Paese, di rito romano, rimarrà sotto la Chiesa cattolica. Dopo una rifioritura delle sedi cattoliche intorno al Mille, nel secolo XIII l’ortodossia prende il sopravvento. Di fronte al pericolo turco (sec. XV) prelati latini e popolazione cattolica emigrano in Italia, costituendo quelle colonie italo-albanesi che ancora oggi mantengono il rito bizantino.[141] Un rifiorire del cattolicesimo si ha nel secolo XVII e ancora in quello XVIII soprattutto ad opera di Papa Clemente XI ed infine nel secolo XIX con la fine della persecuzione turca e l’istituzione dei seminari, scuole e missioni cattoliche. Ma già all’inizio del Novecento i cattolici albanesi si trovano in una situazione d’inferiorità numerica rispetto ai loro connazionali ortodossi e soprattutto musulmani.[142] Risale al 1660 la prima unione della Chiesa albanese con Roma, quando un prete ortodosso si unì alla Chiesa cattolica, per essere abbandonata nel 1765 a causa di impedimenti posti dai governanti ottomani. Un gruppo di villaggi dell’Albania centrale passarono al cattolicesimo nel 1895 e nel 1939 il Paese diventa una giurisdizione ecclesiastica separata sotto la cura di un amministratore apostolico.[143] L’avvento del regime comunista apre un periodo di terrore religioso: con le prime condanne a morte, la soppressione delle opere cattoliche e l’espulsione di numerosi religiosi; verso la metà degli anni Cinquanta, la Chiesa cattolica albanese vive la tormentata stagione del “silenzio” fino al crollo del regime, ma negli anni successivi il cattolicesimo conosce una grande fioritura, “incoraggiata” anche dal viaggio apostolico di Papa Giovanni Paolo II in questo Paese nel 1993; già nel 1989 Madre Teresa di Calcutta (Gonxhe Bojaxhiu) aveva ottenuto il permesso di tornare nella sua patria, dando ai suoi connazionali la speranza in un futuro di libertà.[144]

La Santa Sede, nel 1472, sperava che avvenisse la riunione della Chiesa russa con quella romana in occasione del matrimonio dello zar Ivan III con la principessa cattolica Zoe, figlia di Tommaso Paleologo, celebrato in San Pietro, ma la principessa, giunta a Mosca, si dichiarò ortodossa. Nel periodo seguente, probabilmente, non vi furono veri e propri rapporti tra le due chiese, ma solo tentativi unilaterali da parte della Chiesa cattolica.[145]

E’ inizialmente dovuta all’esistenza di colonie straniere la presenza di cattolici in un Paese prettamente ortodosso come la Russia; le prime Chiese cattoliche sorsero solo tra il XVII e XVIII secolo a Mosca e a Pietroburgo, ma i parroci furono considerati solo degli stranieri e appena tollerati, tale situazione mutò in seguito alle spartizioni della Polonia (1772, 1793, 1785),quando l’Impero russo “ereditò” sei milioni di cattolici polacchi che avevano una loro gerarchia ecclesiastica ben definita e che in seguito sarebbe stata la base gerarchica della Chiesa cattolica russa. Poco prima delle dette spartizioni l’imperatrice Caterina II istituì la prima diocesi a Mogilev, di cui facevano parte Mosca e Pietroburgo, con a capo il Vescovo di Vilnius e nel 1782 fu trasformata in arcidiocesi: tutto questo senza chiedere il consenso alla Santa Sede: questo evidenzia che la Chiesa cattolica russa nasce in seno all’Impero russo  e con caratteristiche molto diverse dalle altre Chiese “sui iuris”, ovviamente i rapporti tra Sede Apostolica e corte imperiale furono sempre molto precari a causa di questa manifesta indipendenza della Chiesa cattolica da Roma. L’Arcivescovo trasferì la sua sede a Pietroburgo, che, alla fine del XVIII secolo divenne il centro più attivo della Chiesa cattolica russa. Nel 1839 e poi nel 1875 il governo russo obbligò con la forza a reintegrarsi nella Chiesa ortodossa quelle unite della Lituania, Bielorussia  e di varie regioni della Polonia, mettendo fine legalmente alla loro esistenza, ad eccezione della Chiesa cattolica ucraina (Galizia orientale facente parte dell’Impero austro-ungarico). Nel corso del XIX secolo i cattolici latini, unici riconosciuti legalmente, furono divisi in sette diocesi, i cui Vescovi erano controllati dalla burocrazia imperiale, come avveniva con gli Ortodossi tramite il Sinodo, le possibilità di conversione al cattolicesimo divennero quasi impossibili a causa della severissima legge russa sulla libertà religiosa, al punto tale che i sudditi che si fossero convertiti rischiavano il processo penale; per i militari l’abiura era addirittura uguagliata all’alto tradimento. Il 17 aprile 1905 l’emanazione dell’editto di tolleranza segnò una tappa importante verso la libertà religiosa, ma per i sacerdoti cattolici il Paese restava chiuso.[146]

Sempre nel corso del XIX secolo un certo numero di Russi abbraccia la fede cattolica, creando un movimento tendente ad organizzare una Chiesa russa cattolica di rito bizantino, questo fu un fenomeno più qualitativo che quantitativo, perché coinvolse molti grandi nomi della cultura e dell’aristocrazia. Gli ortodossi vedono in ciò un pericolo grave per la loro Chiesa e ottengono la chiusura, tra il 1913 e il 1914, delle Cappelle cattoliche di rito bizantino e l’espulsione dei sacerdoti colpevoli di aver fatto del proselitismo. Nel 1917, con la rivoluzione d’ottobre, si permette di costituire un Esarcato russo, ma la persecuzione dei Soviet, nel 1923, annulla ciò che era stato ottenuto.[147] La Chiesa russa si unì formalmente con quella di Roma nel 1905 e nel 1917 fu fondato il primo Esarcato apostolico per i cattolici russi, seguito dalla fondazione di un secondo nel 1928 a Harbin per i cattolici russi in Cina, ufficialmente ancora esistenti anche se privi di nomina vescovile.[148]

CAP IV

LE CHIESE PATRIARCALI

Le Chiese sui iuris

Il contenuto del CCEO riguarda tutte e solamente le Chiese orientali cattoliche, anche se non tutte non tutte sono collocate nello stesso grado: le Chiese patriarcali, con a capo i Patriarchi, quelle arcivescovili maggiori condotte dagli Arcivescovi maggiori, le Chiese metropolitane, rette da Metropoliti e quelle “sui iuris” minori, con a capo i Gerarchi. Le Chiese “sui iuris”, quindi, non si identificano né con la Chiesa universale né con la Chiesa particolare, ma si possono definire una comunione di Chiese particolari a livello regionale o interregionale.[149] Questi concetti sono espliciti nel Concilio Vaticano II: <<Queste Chiese particolari, sia d’Oriente che d’Occidente, sebbene siano in parte tra loro differenti nei riguardi dei cosidetti riti, cioè per liturgia, per disciplina ecclesiastica e patrimonio spirituale, tuttavia sono in egual modo affidate al pastorale governo del Romano Pontefice […] Esse quindi godono di pari dignità, così che nessuna di loro prevale sulle altre a motivo di rito, e inoltre godono degli stessi diritti e sono tenute agli stessi doveri>>.[150]

Il decreto conciliare “Orientalium Ecclesiarum”, trattando delle Chiese orientali cattoliche riconosciute espressamente o tacitamente in varie epoche dal Pontefice Romano, le chiama “Chiese particolari o riti”.

Secondo il Concilio Vaticano II ciò che costituisce ecclesiologicamente una “Chiesa particolare o rito” viene descritto come il raggruppamento stabile dei fedeli: clero secolare e regolare, religiosi e fedeli cristiani laici, organicamente congiunto da una gerarchia propria, che, nell’unità della Chiesa universale, vive e cresce nel suo patrimonio liturgico, teologico, disciplinare e spirituale. La locuzione “Chiese particolari o riti”, usata nel decreto “Orientalium Ecclesiarum”, è stata oggetto di molte discussioni perché in questo modo si identificava erroneamente il concetto di “Chiesa particolare”.

<<Il termine “ritus” è giudicato inadatto a significare pienamente la realtà di una comunità cattolica radunata attorno ad una gerarchia e dotata di particolari elementi specifici etnico-religiosi, specialmente dopo che è stato riconosciuto a queste comunità lo status di Chiese “Sui iuris”, che del resto non implica, in quanto tale, alcuna connotazione territoriale. Così è stata infatti superata, e si spera in modo definitivo, la terminologia ambigua in uso dal secolo XVI, per la quale si indicavano quelle comunità con il termine ritus, cosa che faceva convergere l’attenzione sulle particolarità liturgiche, a danno di quelle spirituali, culturali e disciplinari>>.[151]

La PCCICOR ha lungamente discusso sul tema della nozione e dei termini di “Chiese particolari” e di “Rito”, nel frattempo il nuovo CIC ha utilizzato l’espressione “Chiese particolari” per indicare le diocesi, chiamate eparchie nel diritto orientale. Il CCEO tenta di risolvere definitivamente la questione: nel canone 177 §1 l’eparchia è chiamata Chiesa particolare, nella quale è presente ed opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica ossia “Ecclesia universa”.

Il nuovo Codice del 1990 chiama le varie Chiese orientali col nome di “Ecclesiae sui iuris”, cioè “Chiese di diritto proprio”, perché si reggono secondo un loro proprio statuto speciale, sostituendo la terminologia del suddetto decreto di “Ecclesia particularis”.[152]

Il can. 27 CCEO definisce dal punto di vista strettamente giuridico una Chiesa “sui iuris”: <<Si chiama in questo Codice, Chiesa sui iuris, un raggruppamento di fedeli cristiani congiunto dalla gerarchia, a norma del diritto che la suprema autorità della Chiesa riconosce espressamente o tacitamente come sui iuris>>. La definizione di “Ecclesia sui iuris” non si presenta avulsa dal Codice, ma gli è relativa: essa è intesa in funzione del Codice (vocatur in hoc Codice Ecclesia sui iuris).[153]

Le componenti che costituiscono una Chiesa “sui iuris” sono tre: la prima consiste in un raggruppamento di fedeli, un’assemblea o comunità ecclesiale di popolo di Dio (fedeli, chierici, monaci e religiosi); la seconda  è rappresentata dall’esistenza di una gerarchia propria che unisce a norma del diritto questa componente di fedeli in una determinata comunità, compatta e organizzata come una Chiesa; infine l’ultima, formale ed esterna: è il riconoscimento espresso o tacito da parte della suprema autorità della Chiesa dell’autonomia dell’organizzazione.

Chiesa “sui iuris”, ossia autonoma, ma bisogna notare che l’autonomia in questione non è assoluta nel senso della “autocefalia” delle Chiese ortodosse, ma è ben delimitata dal diritto stabilito dalla suprema autorità della Chiesa, cioè dal Romano Pontefice e dal Collegio dei Vescovi.[154] L’autonomia delle Chiese “sui iuris” implica una facoltà di governarsi emanando leggi appropriate, amministrando la giustizia e curando con mezzi pastorali, anche coercitivi, la comunità ecclesiale, in modo che questa viva in ordine e tenda verso i propri fini. La differenza fondamentale tra Chiesa latina “sui iuris” e le altre Chiese Orientali “sui iuris” non consiste solo nel fatto che quella latina ha una configurazione giuridica non paragonabile nemmeno per una lontana analogia con altre Chiese “sui iuris”; questa radicale differenza deriva dal fatto che la Chiesa latina ha come capo il Pontefice, il cui potere non gli è concesso da nessuno, ma è di diritto divino (iure divino), è un potere primaziale che non può essere limitato da alcun “ius humanum”. Questo potere è ordinario, supremo, pieno, immediato e universale e può essere sempre esercitato liberamente; mentre tutte le altre Chiese “sui iuris” esistono in virtù del volere della suprema autorità della Chiesa.[155]

Le differenze più marcate, probabilmente, sono quelle relative al rito della Messa, che è celebrata in lingua volgare, dopo la riforma del Messale di Paolo VI, ma riguarda anche molti altri aspetti: la somministrazione dell’Eucaristia in entrambe le forme di pane e del vino, l’uso del pane lievitato, il Battesimo per immersione, invece della genuflessione l’inchino con la parte superiore del corpo e con un gesto del braccio. Queste diverse ritualità sono molto antiche, risalgono, in particolare, al tempo delle persecuzioni quando la difficoltà di comunicazione era notevole e dava luogo a numerose varietà delle pratiche religiose. Nel 1570, con la pubblicazione del “Messale Romano”, tali pratiche divennero più omogenee, ma le comunità più isolate e provenienti da diverse Tradizioni avrebbero dovuto trasformare i loro principi tradizionali per uniformarsi alle altre Chiese, tutto questo avrebbe creato molta confusione tra i fedeli e sarebbe stato controproducente per l’attività apostolica, quindi le Chiese “sui iuris” hanno mantenuto le diverse liturgie che rispecchiano i nuclei storici da cui hanno avuto origine. Molto significativa la frase pronunciata da Papa Benedetto XVI alcuni anni fa: “I cristiani orientali dovrebbero essere i cattolici, non c’è bisogno che diventino latini”.[156]

E’ stato, pertanto, necessario riunire la normativa canonica delle altre Chiese “sui iuris” in un Codice a parte, in cui si circoscrivono i poteri che provengono dallo “ius ecclesiasticum” di tutti coloro che in queste Chiese hanno un potere sopraepiscopale, sia personale sia collegiale, con ben definite competenze legislative, giudiziarie ed amministrative. Ogni potere sopraepiscopale appartiene, comunque, alla suprema autorità del Pontefice e del Concilio ecumenico e che solo da questa autorità può avere origine la normativa determinante i poteri dei Capi delle Chiese orientali “sui iuris” e quelli dei loro Sinodi. La figura giuridica della Chiesa latina è fondamentalmente la medesima della Chiesa universale nei suoi primordi: il Papa successore di Pietro ed i Vescovi successori degli Apostoli, senza alcuna autorità intermedia sorta in seguito nell’Oriente e riconosciuta dalla suprema autorità.[157]

Le Chiese “sui iuris” orientali costituiscono, con le loro peculiari strutture gerarchiche, una parte di “Ecclesia universa” complementare alla Chiesa latina, ma nello stesso tempo appartengono ad un mondo molto diversificato, in quanto ciascuna delle Chiese orientali è diversa dall’altra per la gerarchia, per la cultura, per il patrimonio rituale.[158]

Quattro delle Tradizioni orientali si attuano in diverse Chiese “sui iuris”: Alessandrina, Antiochena, Caldea e Costantinopolitana, fa eccezione la Tradizione Armena alla quale appartiene solo la Chiesa omonima. Ciascuna Chiesa, anche se fa parte della stessa Tradizione, possiede un proprio “cuore”, una propria vita ed un proprio specifico rito inteso nel senso del can. 28 CCEO, che recita: << §1 Il rito è il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per la cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris. §2 I riti, di cui si tratta nel Codice sono, a meno che non consti altrimenti, quelli che hanno origine dalle tradizioni alessandrina, antiochena, armena, caldea e costantinopolitana>>. Nell’ambito di una stessa tradizione ci sono molte Chiese con un rito proprio, quindi le persone giuridiche “sui iuris” non sono le cinque Tradizioni, ma le Chiese riconducibili a queste.

I termini “ritus” e “Ecclesia sui iuris” hanno un significato a se stante del tutto univalente. Il primo è un patrimonio inestimabile, ma non è persona giuridica con doveri e diritti; il secondo ha come capo una ben determinata persona fisica, la quale “in omnibus negotiis giuridici eiusdem personam gerit”.[159]

Il can. 39 ricorda il sacro obbligo dei fedeli appartenenti a queste Chiese di conservare, far promuovere e progredire il proprio rito, inteso come patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare. Tutto questo non significa solo di osservare e conservare in modo statico il proprio patrimonio, ma testimoniarlo nella vita, celebrarlo nella liturgia, conoscerlo nella sua essenza e profondità e promuoverlo dinamicamente.[160] I canoni 39 e 40 esplicano questo sacro dovere riferendosi ai gerarchi, ai chierici, ai monaci, ai religiosi e a tutti i fedeli, riportando la lettera e lo spirito del Concilio Vaticano II: <<Sappiamo e siamo certi tutti gli orientali che sempre possono e devono conservare i loro legittimi riti liturgici e la loro disciplina, e che non si devono introdurre mutazioni, se non per ragioni del proprio organico progresso […] e qualora per circostanze di tempo o di persone fossero indebitamente venuti meno a esse, procurino di ritornare alle avite tradizioni>>.[161]

Nel decreto conciliare “Orientalium Ecclesiarum”: <<si raccomanda caldamente agli istituti religiosi e alle associazioni di rito latino, che presentano la loro opera nelle regioni orientali o tra i fedeli orientali, che per una maggiore efficacia dell’apostolato fondino, per quanto è possibile, case o anche province di rito orientale>>.[162] Le istituzioni cattoliche latine che svolgono la loro opera nei territori orientali devono essere particolarmente attente nel rispetto della gerarchia locale e delle tradizioni sacre degli orientali cattolici, evitando ogni atteggiamento di spirito o di tendenza di occidentalizzazione. Lo stesso riguardo deve essere manifestato anche verso le Chiese orientali ortodosse; in tal modo sarà bandito “ogni sentimento di litigiosa rivalità”.[163]

 

La formazione dei Patriarcati

L’istituzione patriarcale nelle Chiese orientali ha le sue origini nella tradizione canonica antica, decretata dai primi Concili ecumenici celebrati in Oriente. I canoni conciliari del IV secolo concretizzano la volontà dell’Episcopato di costituire un’organizzazione territoriale della Chiesa, prendendo come base la divisione amministrativa dell’Impero romano.[164]

I poteri dei Vescovi provinciali furono limitati a favore del Vescovo della metropoli (città principale di una provincia civile), quelli di una stessa provincia civile devono formare un solo corpo sotto la guida del Vescovo della metropoli. Il can. 6 del Concilio di Nicea (325) afferma: <<In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli sia mantenuta l’antica consuetudine per cui il Vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province, come è consuetudine anche per il Vescovo di Roma. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle Chiese i loro privilegi…>>. Il Concilio dichiara che si deve mantenere la prassi già esistente, per la quale il Vescovo di Alessandria si avvale di una particolare prerogativa, esercitando una potestà superiore sull’episcopato delle province dell’Egitto, della Libia e della Pentapoli.[165] L’istituto patriarcale non fu creato dal Concilio niceno, ma solamente accolto come istituto di antica e tradizionale applicazione. Il canone conciliare non menziona i privilegi accordati a quelle sedi, ma si limita a sancire che il Vescovo di Alessandria goda delle stesse prerogative che ha quello di Roma e, nello stesso tempo, non espressamente, conferma il sistema di amministrazione ecclesiastica metropolitano già esistente in Oriente, vale a dire l’organizzazione delle Chiese locali episcopali in province ecclesiastiche metropolitane, conforme all’ordinamento delle province civili dell’Impero.

Ad Alessandria è riconfermato un potere straordinario, il suo Vescovo esercita la giurisdizione non su una sola provincia, come un Metropolita, ma su più province e su più metropoli.[166] Il potere riconosciuto alla Chiesa di Antiochia non è specificato, però è da ritenere che esso usufruisca di un particolare primato, in quanto già prima del Concilio di Nicea è considerata la principale metropoli ecclesiastica d’Oriente.[167]

Il can. 7 dello stesso Concilio afferma che il Vescovo di Gerusalemme gode solo di un particolare onore: questa città resta ancora dipendente dalla metropoli di Cesarea in Palestina. Il caso di Gerusalemme, che, malgrado fosse la culla del Cristianesimo, beneficiava di modestissimo rilievo ecclesiastico, indica come nell’antichità l’importanza politica di una città si riversava direttamente in quella ecclesiastica.[168]

Il primo Concilio ecumenico di Costantinopoli (381), al can. 2, riconosce i diritti per i Vescovi delle altre Chiese collocate nelle capitali delle diocesi civili: Efeso, Cesarea, Eraclea.[169] Con il can. 3 per la prima volta la sede episcopale di Costantinopoli ottiene un posto privilegiato tra le Chiese d’Oriente: <<Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il Vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma>>. Proprio in questo periodo Costantinopoli diventa in modo definitivo residenza imperiale e capitale politica e nel 381 Nettario, Vescovo di questa città, assume il titolo di Patriarca.[170]

Il Concilio di Calcedonia del 451 eleva a rango di sede patriarcale Gerusalemme, staccando da Antiochia le tre Palestine e riservandole al nuovo patriarcato. Da allora ai titolari delle grandi sedi di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme è riservato il titolo di Patriarca. Nel VI secolo Giustiniano I (527-565) attribuisce anche ai Vescovi di Roma il suddetto titolo nell’esercizio giurisdizionale su più eparchie e province ecclesiastiche, dando origine alla “teoria della Pentarchia”, dove la Chiesa è governata da cinque Patriarchi in conformità al piano voluto ed istituito dai Concili.

Il primo è il Vescovo di Roma, la cui giurisdizione si estende sulla metà occidentale dell’Impero e su una vasta parte dei Balcani; secondo è il Patriarca di Costantinopoli, che ha il controllo di trentanove Metropoli e circa quattrocento Vescovi diocesani, le province del Ponto, della Tracia e dell’Asia sono sotto il suo controllo. Il terzo Vescovo è quello di Alessandria, il quale supporta l’Egitto coadiuvato da quattordici Metropoliti e centoquattordici Vescovi; il quarto gerarca è il Patriarca di Antiochia, che con tredici Metropoliti e centoquaranta Vescovi esercita il suo potere in Siria e in Arabia; il quinto assistito da cinque Metropoliti e da cinquantanove Vescovi ha giurisdizione sulla Palestina ed è il Patriarca di Gerusalemme. Teoricamente i cinque Patriarchi sono uguali, in realtà l’importanza dei vari patriarcati varia notevolmente, divenendo nel corso dei secoli V e VI uno dei maggiori problemi per la vita della Chiesa.[171]

Il titolo di Patriarca è conferito ai capi delle Chiese d’Oriente che non hanno accettato le definizioni cristologiche dei Concili di Efeso e di Calcedonia, dando luogo ai patriarcati ortodossi monofisiti di Alessandria e di Antiochia, quello nestoriano di Persia e monofisita d’Armenia.[172]

 

I Patriarcati e la Santa Sede fino al X secolo

Durante tutto il corso del primo millennio i Patriarchi orientali beneficiano di maggiore autonomia degli prelati occidentali. La spiegazione non va cercata nella grande distanza tra Roma e le sedi patriarcali, ma nel fatto che non intercorreva tra Papa e Patriarca un vincolo gerarchico: il Papa non ha nei confronti dei Patriarchi la potestà di controllo, di sostituzione, di avocazione, cioè quei poteri che caratterizzano ogni rapporto gerarchico. Roma interviene sempre e solo per tutelare l’ortodossia o per garantire, come giudice di ultima istanza, il rispetto della giustizia e della legalità, esercitando una giurisdizione straordinaria.[173] La Chiesa romana come “custos fidei et unitatis” ha una “sollecitudo erga ecclesiam universalem” che le conferisce un diritto-dovere di intervenire nella vita delle singole Chiese locali per mantenere l’integrità della fede e l’unità della comunione cattolica.

I patriarchi orientali non sono creati da Roma, né costituiscono i suoi organi periferici, possiedono una giurisdizione propria, o meglio una “sollecitudo” nel patriarcato, loro attribuita dalla “communio” dei Vescovi suffraganei.[174] Il rapporto tra Patriarca e Vescovi suffraganei è di tipo gerarchico: il primo beneficia del potere di direzione, di vigilanza nei confronti dei suoi Vescovi, li giudica, li depone; riceve gli appelli contro le loro sentenze, li sostituisce quando il loro compito è svolto in modo negligente.

Con Papa Nicolò I muta la concezione ecclesiologica: la Chiesa è un’istituzione gerarchica, vigorosamente centralizzata sotto la suprema potestà del Pontefice, ogni giurisdizione sopraepiscopale è “vicaria Romani Pontificis”. Questa concezione romana si contrappone a quella bizantina della Pentarchia, che è accettata da Roma solo nei limiti in cui non contrasta con il primato pontificio, come espressione di una situazione di fatto che si era creata nella Chiesa universale, in cui i Patriarchi sono i rappresentanti delle loro Chiese e di quelle del patriarcato e, in tale veste, stringono il “vinculum”communionis” tra loro e la Chiesa romana. In questo periodo l’esercizio della potestà giurisdizionale del Pontefice rimane limitato da un’ampia autonomia, un vero autogoverno, riconosciuta ai patriarcati. L’autonomia si risolve in materia legislativa, amministrativa, disciplinare e liturgica, non certamente in materia di fede, dove l’autorità del Papa è indiscussa.

L’Oriente elegge senza impedimenti i propri Patriarchi, Metropoliti, Vescovi, istituisce nuove diocesi, regola autonomamente la disciplina del clero, dei monaci, dei laici ed è il Patriarca che dà le prescrizioni liturgiche, introduce nuove feste e ne fissa la data.

Con il passaggio al secondo Millennio, si apre un nuovo periodo storico caratterizzato dalle preoccupazioni di custodire e controllare la compattezza della Chiesa, prediligendo il suo aspetto unitario su quello articolato nelle singole Chiese locali. Il momento determinante si ha con l’allontanamento definitivo della Chiesa d’Oriente da quella latina.[175]

 

I Patriarcati dopo lo Scisma

I Concili del IV e V secolo avevano definito l’ordine di precedenza delle sedi patriarcali: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, che è poi riconfermato anche dopo il grande scisma dal Concilio lateranense del 1215.[176] Quest’ultimo Concilio enuncia tre privilegi accordati ai Patriarchi: dopo avere ricevuto il “pallium” dal Vescovo di Roma, possono darlo ai loro suffraganei e ricevere da essi i giuramenti di fedeltà e di obbedienza al Papa e a loro stessi; possono farsi precedere dalla croce, fuorché a Roma o in presenza del Papa o dei loro legati; possono ricevere gli appelli delle sentenze di istanze inferiori ai loro patriarcati.[177] Tali privilegi sono reiterati anche dal Concilio di Firenze terminato nel luglio del 1439.

Fra gli argomenti trattati a Firenze, fu definito il primato di Roma e del Pontefice sulla Chiesa universale: il 21 giugno i negoziatori si misero d’accordo sulla relativa formula, ad eccezione di  due punti sopra i quali i Greci insistettero con le loro obiezioni. Il Papato non deve convocare un Concilio ecumenico senza l’accordo dell’Imperatore e dei Patriarchi; nel caso di appello al Papa contro la sentenza di un Patriarca, il Pontefice non deve imporre al Patriarca l’obbligo di comparire in giudizio a Roma, ma inviare dei legati sul posto.[178] Il Papa rifiuta queste due restrizioni ai suoi poteri e i negoziati continuano, nello stesso tempo i Greci chiedono che l’ordine delle sedi patriarcali sia incluso nel progetto del documento di Unione delle Chiese.[179]

Si arriva al testo definitivo dell’Unione, che dopo aver confermato il primato pontificio su tutta la Chiesa, dichiara: <<Rinnoviamo, inoltre, l’ordinamento tramandato nei canoni da osservare tra gli altri venerabili Patriarchi, per cui il Patriarca di Costantinopoli sia secondo dopo il santissimo Pontefice romano, il Patriarca di Alessandria sia terzo, quello di Antiochia quarto, quello di Gerusalemme quinto, senza alcun pregiudizio per tutti i loro privilegi>>.[180]

 

La nozione di Patriarca

Secondo il can. 56 CCEO, il Patriarca, vescovo di un’eparchia o diocesi, <<…est Episcopus non exceptis Metropolitis ceterosque christifideles Ecclcesiae, cui praeset, ad normam iuris a suprema Ecclesiae auctoritate approbati…>>, riconoscendo in tal modo una potestà su tutti i membri della sua Chiesa di qualunque ordine e grado, questa “potestas” è regolata dal diritto comune e particolare emanato dal Pontefice, suprema autorità della Chiesa.

Nella definizione di Patriarca c’è stata un’evoluzione di formulazione tra il motu proprio “Cleri Sanctitati”, il decreto “Orientalium Ecclesiarum” ed il nuovo CCEO, nel primo (can. 216 §1) troviamo questa definizione: <<Col nome di Patriarca si intende un vescovo al quale i canoni attribuiscono la giurisdizione su tutti i vescovi, non esclusi i Metropoliti, sul clero e sul popolo di un certo territorio o rito, da esercitare a norma del diritto e sotto l’autorità del Romano Pontefice>>. Nel secondo (n. 7) è così definito: <<Col nome di Patriarca orientale si intende un Vescovo, cui compete la giurisdizione su tutti i Vescovi, non esclusi i Metropoliti, il clero e il popolo del proprio territorio o rito, a norma del diritto e salvo restando il primato del Romano Pontefice>>. Il gruppo di studio della Commissione Pontificia per la revisione del CICO in un primo testo modifica il canone del “Cleri Sanctitati” nel modo seguente: <<Secondo una antichissima tradizione della Chiesa, già riconosciuta dai primi Concili ecumenici o dal Romano Pontefice, è riservato uno speciale onore ai Patriarchi delle Chiese orientali, dato che ognuno presiede alla sua Chiesa patriarcale come padre e capo>>. Il testo era conforme al decreto “Orientalium Ecclesiarum” tranne nell’aggiunta “o Romano Pontefice (riconosciuta)”, che figura nel documento conciliare: questo riferimento è stato aggiunto per sottolineare che una tradizione, purché antica, non può essere valida nella Chiesa senza un consenso dato, almeno implicitamente, dal Romano Pontefice, il quale è di per sé sufficiente.[181] In un documento successivo, il gruppo di studio ha usato parte della formulazione del decreto “Orientalium Ecclesiarum” senza accennare ai primi Concili ecumenici o al Pontefice: <<Secondo una antichissima tradizione della Chiesa è riservato uno speciale onore ai patriarchi delle Chiese orientali, i quali prtesiedono alla propria Chiesa patriarcale come padre e capo>>.[182]

Il CCEO riformula definitivamente la norma in conformità al decreto “Orientalium Ecclesiarum”, riconoscendo, dunque, al Patriarca una “potestas” su tutti i membri della sua Chiesa, regolata dal diritto comune e particolare emanato dal Pontefice.[183] Se nella Chiesa latina è solo il Papa che ha autorità sui Vescovi, nelle Chiese orientali si ha un’autorità immediata tra Vescovi e Pontefice. Il nuovo Codice ha sostituito il termine “giurisdizione” del “Cleri Sanctitati” e “Orientalium Ecclesiarum” con quello più generico di “potestà” che spetta al Patriarca; infatti, in Oriente, la funzione di quest’ultimo non è mai stata compresa come “giurisdizione sui Vescovi”, le genuine tradizioni evidenziano piuttosto la sinodalità e corresponsabilità di tutti i Vescovi nel governo della Chiesa patriarcale, con la conseguenza che la potestà in questione si inserisce nella struttura sinodale.[184]

Il Patriarca presiede in quanto “primus inter pares”, mentre il governo della Chiesa è sinodale, secondo il can. 34 degli Apostoli, che prescrive: <<Bisogna che i Vescovi di ogni nazione sappiano chi tra loro è il primo, e che lo considerino come loro capo. Non devono far nulla senza il suo assenso, anche se appartiene a ciascuno di trattare gli affari della propria eparchia e dei territori da essa dipendenti. Ma anche egli (il primo) non dovrà fare nulla senza l’assenso di tutti gli altri…>>.[185]Il Patriarca, in quanto “primus”, esercita la potestà di governo esecutiva o amministrativa, mentre quella legislativa e giudiziaria compete al Sinodo dei Vescovi.

Il Patriarca è un Vescovo eletto, consacrato e intronizzato a norma del diritto per essere il pastore di una sede determinata (sede patriarcale), cioè la sua eparchia. Come ogni Vescovo eparchiale, il Patriarca governa la sua eparchia locale in virtù della sua ordinazione episcopale, come potestà propria, ordinaria e immediata (cann. 101 e 178). Come Patriarca presiede come capo e padre, però non con una funzione simile a quella esercitata all’interno dell’eparchia, ma nel senso specificato dal can. 34 degli Apostoli; la funzione patriarcale è, infatti, inseparabile dalla sinodalità dei Vescovi.[186]

<<I Patriarchi con i loro Sinodi costituiscono la superiore istanza per qualsiasi negozio del patriarcato…>>.[187] Il Patriarca è il garante della funzionalità canonica del Sinodo. Per l’esercizio delle sue funzioni egli è munito di potestà, di particolari diritti, privilegi e prerogative. Potestà, diritti e privilegi concessi <<…a norma del diritto approvato dalla suprema autorità della Chiesa…>>, [188] questo sottolinea il primato pontificio sull’istituzione patriarcale, che gode sì di autonomia, ma di un’autonomia relativa.[189] Nell’emanare ed approvare il diritto relativo ai Patriarchi, comunque, la suprema autorità della Chiesa deve rispettare le tradizioni degli orientali.[190]

 

Fondazione, titolo, dignità e ordine di precedenza dei Patriarchi

Il can. 57 §1 sancisce che spetta al Papa ed al Concilio ecumenico la fondazione, il ripristino, la soppressione ed il mutamento delle Chiese patriarcali. E’ sempre il Pontefice o il Concilio ecumenico che può cambiare il titolo riconosciuto o concesso ad una Chiesa patriarcale. L’ecclesiologia ortodossa, invece, riconoscendo come suprema autorità della Chiesa solo il Concilio ecumenico, riserva ad esso la definitiva ratifica della fondazione di diversi patriarcati da parte di Costantinopoli.[191]

Durante i lavori di preparazione del Codice è stato notato che il titolo di qualche Chiesa patriarcale è stato modificato senza l’intervento dell’autorità suprema della Chiesa; ma come risposta viene stabilito che la denominazione delle Chiese patriarcali e i titoli dei Patriarchi devono essere di competenza del Pontefice.[192] Il §3 sempre del canone 57 si riferisce alla sede e residenza del Patriarca nella città principale da cui egli desume il titolo, dichiarando che un eventuale trasferimento è ammesso solo con limitazioni molto strette: per una causa gravissima, con il consenso del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale ed in fine con l’assenso del Papa.

Il can. 59 CCEO conferma l’ordine di precedenza già sanzionato dai Concili ecumenici, ribadendo l’uguaglianza quanto a dignità patriarcale, ma con differente precedenza tra loro; mentre il can. 58  prevede la precedenza del Patriarca su tutti i Vescovi, salvo restando le norme speciali sulla precedenza stabilite dalla suprema autorità.

Il problema, sollevato anche in passato, era quello di risolvere la questione della precedenza tra Cardinali e Patriarchi.[193] I Cardinali, dal secolo XV, precedono anche i Patriarchi, secondo la bolla di Eugenio IV “Non mediocri” del 1439.[194]

Secondo il CIC anche i Patriarchi possono essere assunti nel Collegio dei Cardinali e in quel caso hanno come titolo la propria sede patriarcale. Ciò non può essere considerata come elevazione ad una maggiore dignità di quella patriarcale. L’istituzione del Collegio cardinalizio è storicamente legata al clero della Chiesa di Roma, solo dal secolo XII incominciarono ad essere nominati Cardinali anche i prelati residenti fuori Roma secondo il Codice latino i Cardinali sono di aiuto al Pontefice, sono consiglieri e cooperatori di esso, mentre i Patriarchi sono capi e padri di Chiese apostoliche.[195]

 

Elezione dei Patriarchi

Il livello di autonomia interna delle Chiese patriarcali rispetto alla suprema autorità della Chiesa si può vedere, in modo particolare, nella procedura per la designazione dei Patriarchi e dei Vescovi. Le norme sull’elezione dei Patriarchi sono enunciate nei cann. 63-77 CCEO: <<Il Patriarca è canonicamente eletto nel Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale>> (can. 63). Quando la sede patriarcale diviene vacante, l’Amministratore della stessa Chiesa, generalmente il Vescovo più anziano per ordinazione tra i Vescovi della curia patriarcale, o in mancanza di questi, tra i Vescovi del Sinodo permanente, convoca il Sinodo dei Vescovi della Chiesa Patriarcale per l’elezione del nuovo Patriarca. In genere funge da Amministratore il Vescovo più anziano per ordinazione tra i Vescovi della curia patriarcale, o in mancanza di questi, tra i Vescovi del Sinodo permanente.[196]

La riunione si deve svolgere entro un mese dal momento in cui la sede patriarcale è diventata vacante, fermo restando un tempo più lungo non superiore a due mesi, stabilito dal diritto particolare. Il Sinodo elettivo deve riunirsi nella residenza patriarcale o in luogo designato dall’Amministratore con il consenso del Sinodo permanente. All’elezione partecipano i membri del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, ossia tutti quelli ordinati per svolgere una funzione nella stessa Chiesa ovunque costituiti, entro e fuori il territorio della detta Chiesa, inclusi i Vescovi che hanno rinunciato al loro ufficio.[197] Nessuno, estraneo al gruppo dei Vescovi, può essere ammesso a dare il voto, pena la nullità dell’elezione, nessuno può entrare in aula ad eccezione dei chierici assunti come scrutatori o attuari del Sinodo. In base al can. 66 CCEO a nessuno è permesso interferire in qualunque modo sia prima, durante e dopo il Sinodo. E’ esclusa la partecipazione diretta o indiretta del popolo e l’interferenza delle autorità civili.

In uno schema precedente di revisione del Codice non era escluso il diritto della Santa Sede di intervenire nell’elezione del Patriarca, poi però la menzione della Sede Apostolica è stata ritenuta superflua, in quanto le norme successive sono state ritenute sufficienti, specialmente quella che richiede la domanda di comunione ecclesiastica da parte del neo-eletto al Papa e la concessione di questa comunione.[198] La soppressione del diritto di interferire della Santa Sede è emblematico per capire l’intento del legislatore di garantire il principio del diritto delle Chiese orientali di governarsi secondo le proprie discipline.[199]

I Vescovi legittimamente convocati hanno l’obbligo di partecipare all’elezione, se la presenza di qualcuno fosse resa impossibile da una giusta causa, deve esporre per iscritto le sue ragioni al Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, che decide sulla legittimità dell’impedimento. L’obbligo giuridico di partecipare all’elezione è una conseguenza dell’imposizione di aderire in genere alla vita sinodale e significa partecipare alla corresponsabilità per conservare l’unità e la sinodalità della propria Chiesa “sui iuris”. Si può procedere all’elezione solo se sono presenti due terzi dei Vescovi tenuti a partecipare al Sinodo, ad eccezione di coloro che sono trattenuti da legittimo impedimento (can. 69). La presidenza è tenuta da chi, tra i presenti, è eletto a maggioranza assoluta nella prima sessione, nel frattempo è riservata all’Amministratore della Chiesa. Il Codice distingue tra l’Amministratore della sede patriarcale vacante, al quale spetta, tra l’altro, di convocare i Vescovi al Sinodo di elezione e colui che viene eletto per presiederlo per l’elezione stessa, tale elezione garantisce maggior funzionamento nello svolgimento della procedura canonica. La consuetudine vuole che la sede vacante sia amministrata “ad interim”, inclusa la presidenza del Sinodo di elezione, dal Vescovo più anziano per ordinazione episcopale oppure dal Vescovo della prima sede episcopale che viene dopo quella patriarcale, secondo l’antichità o secondo l’importanza storicamente riconosciuta della medesima.[200]

La sede patriarcale diventa vacante con la morte o con la rinuncia del Patriarca. L’accettazione della rinuncia spetta al Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, dopo aver consultato il Papa, a meno che il Patriarca non si sia rivolto direttamente al Pontefice.[201] Viene eletto Patriarca colui che ha ottenuto due terzi dei voti, ma tale maggioranza non sempre è facilmente raggiungibile, perciò il can. 72 prevede: <<…a meno che per diritto particolare non si sia stabilito che, dopo un conveniente numero di scrutini, almeno tre, sia sufficiente la parte assolutamente maggiore dei voti e l’elezione sia portata a termine a norma del can. 183 §§ 3 e 4>>.

Ancora al can. 183 §3 troviamo: <<…dopo tre votazioni inefficaci, nella quarta votazione i voti vanno dati solo ai due candidati che nella terza votazione hanno ricevuto la maggioranza dei voti>> e al §4: <<Se, a causa della parità dei voti nella terza o quarta votazione, non consta chi sia il candidato per la nuova votazione o chi sia stato eletto, la parità si dirima in favore di colui che è più anziano per ordinazione presbiteriale; se nessuno precede gli altri per ordinazione presbiteriale, prevale chi è più anziano di età>>.

Se l’elezione non è portata a termine entro quindici giorni dall’apertura del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, la stessa viene devoluta al Pontefice (res ad Romanum Pontificem devolvitur). La norma del CCEO non specifica l’oggetto preciso dell’intervento del Papa, ossia se si tratti di intervento diretto per la nomina del Patriarca, o indiretto, ad esempio con esortazioni ai Vescovi sinodali o con altro tipo di provvedimento decisionale. L’intervento del Papa potrebbe intendersi nel senso del decreto conciliare “Unitatis Redintegratio”, ovvero di “Sede Romana moderante” qualora sorgano dissensi; questa interpretazione dimostrerebbe in maggior misura la natura dei rapporti tra la Sede Apostolica e le Chiese orientali.[202]

Il diritto particolare di ogni Chiesa “sui iuris” tratta poi i requisiti di idoneità del candidato alla dignità patriarcale, salvo quanto prescritto dal canone 180.[203] Se l’eletto è Vescovo già ordinato, il Sinodo procede alla sua proclamazione ed intronizzazione; se, invece, l’eletto è legittimamente proclamato Vescovo, ma non ancora ordinato, l’intronizzazione patriarcale non può essere fatta validamente prima che l’eletto abbia ricevuto l’ordinazione episcopale. Essendo il Patriarca un Vescovo di un’eparchia determinata, il suo incarico presuppone la canonica elezione e proclamazione all’episcopato secondo la procedura dei cann. 180-189 CCEO, di conseguenza se l’eletto risulta tra i nomi compresi nell’elenco dei candidati all’episcopato per il quale il Pontefice ha già dato il suo assenso, si procede alla sua elezione e proclamazione all’episcopato e poi gli viene immediatamente intimata l’elezione al patriarcato; invece se l’eletto al patriarcato non risulta tra i nomi del suddetto elenco, si richiede l’assenso del Pontefice per la sua elezione e proclamazione all’episcopato. Ottenuto tale assenso, si procede alla sua elezione e proclamazione episcopale, seguita dalla comunicazione dell’elezione al patriarcato. In questo secondo caso se il Papa non dà il suo assenso per l’episcopato, implicitamente non lo dà neppure per l’elezione patriarcale.[204]

Il Patriarca neo-eletto deve comunicare, entro due giorni dall’avviso dell’elezione, la sua accettazione; in caso contrario o se entro due giorni non risponde, perde ogni diritto. Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale è tenuto ad inviare al più presto lettere sinodali al Papa per informarlo dell’avvenuta elezione e dell’intronizzazione canonicamente compiuta; della professione di fede e della promessa di eseguire fedelmente il suo ufficio pronunciate dal nuovo Patriarca davanti al Sinodo. Le lettere sulla compiuta elezione sono mandate anche ai Patriarchi delle altre Chiese orientali in segno di comunione.[205]

Il Patriarca eletto deve richiedere al Papa la comunione ecclesiastica per mezzo di lettera sottoscritta di suo pugno.[206] Il CCEO non parla di “confirmatio” del neo eletto da parte del Pontefice, non è richiesto alcun atto di ratifica o confermazione, il nuovo Patriarca entra pienamente nelle sue funzioni.

A differenza delle norme del “Cleri Sanctitati”, Il nuovo Codice non fa menzione della richiesta del pallio. Tale omissione è giustificata dal significato stesso del pallio, che è insegna della potestà vescovile, cioè metropolitana, non conforme alla nozione di Patriarca orientale, al quale spetta non soltanto una potestà sovraepiscopale, ma anche sovrametropolitana entro i confini della Chiesa patriarcale.[207]

Per quanto riguarda la comunione ecclesiastica, dopo il Concilio Vaticano II è stato maggiormente sottolineato il senso ecclesiologico e canonico dell’antica tradizione dello scambio di lettere di comunione ecclesiastica tra i Patriarchi e il Papa.[208]

Il Patriarca esercita validamente il suo ufficio solo dal momento dell’intronizzazione, con la quale assume a pieno diritto il suo ufficio; tuttavia si aggiunge che il Patriarca, prima di ricevere dal Papa la comunione ecclesiastica, non convochi il Sinodo dei Vescovi e non ordini nuovi Vescovi.[209]

La potestà patriarcale, fino al Vaticano II, era concepita come una concessione del Pontefice, invece nella prospettiva dell’ecclesiologia di comunione del suddetto Concilio, i rapporti tra i Patriarchi e i Papi si stabiliscono sulla base di comunione manifestata e richiesta e di comunione concessa e ricambiata; si tratta di comunione (condivisione comunanza) nella fede con la Chiesa di Roma e di comunione gerarchica con il Pontefice.[210]

 

La potestà dei Patriarchi

La potestà che compete al Patriarca sui Vescovi e sugli altri fedeli della Chiesa che presiede è ordinaria, propria e personale. E’ ordinaria perché è annessa all’ufficio patriarcale, si tratta della potestà che deriva dalla configurazione stessa dell’istituzione e dall’ufficio patriarcale, mediante la quale egli esercita i diritti e i doveri che sono il contenuto di questo ufficio e che sono definiti dallo stesso diritto canonico.[211] E’ una potestà propria, ovvero esercitata dal Patriarca a nome proprio in comunione gerarchica con il Pontefice. Non è una potestà delegata, poiché non è concessa per mezzo di un atto di delega da parte del Papa. E’ una potestà personale, non delegabile, quindi il Patriarca non può istituire un vicario e neppure delegare ad un altro la sua potestà per la totalità degli affari della stessa Chiesa.

La Commissione per la revisione del CCEO discorda su un argomento piuttosto complesso: se il Patriarca estenda la sua autorità su tutta la Chiesa (verso i suoi fedeli) oppure su un territorio determinato, anche se vasto. In quest’ultimo caso la discussione verte sulla cura pastorale dei fedeli del patriarcato che vivono fuori dallo stesso (che non sono pochi, date le massicce migrazioni avutesi dall’Est verso i Paesi occidentali).[212] Dopo il Concilio Vaticano II è stato osservato che <<…se la Chiesa latina, una Chiesa particolare, può esercitare la sua giurisdizione ovunque sui propri sudditi, non si vede perché lo stesso diritto non debba essere riconosciuto nella stessa misura anche dalle altre Chiese particolari, le Chiese orientali. Non si tratta di un privilegio ma soltanto di giustizia>>.[213]

Il Concilio Vaticano II ha evidenziato che i Vescovi costituiti fuori dal territorio patriarcale rimangono “aggregati” alla gerarchia della loro Chiesa patriarcale, secondo le norme della legge.[214] Con il termine aggregato il Concilio ha introdotto così una nuova struttura non prevista nel “Cleri Sanctitati”. L’espessione “aggregato” si usa per consolidare il rapporto tra i fedeli orientali e la loro Chiesa d’origine, ma con limiti territoriali ben distinti e anche tra l’autorità dei Patriarchi e il Sinodo dei Vescovi per quanto riguarda i confini del loro territorio. Perciò, anche se il termine “aggregato” è stato introdotto dal Vaticano II, la potestà del Patriarca e del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale non è estesa totalmente fuori dai confini del loro territorio.[215]

La salvezza delle anime di milioni di fedeli cattolici orientali in diaspora e il bisogno di osservare dovunque il proprio rito, richiederebbero forse l’estensione della potestà patriarcale fuori dei confini del territorio, salvo restando il diritto della Sede Apostolica di intervenire qualora lo giudicasse opportuno.[216] Alla fine della discussione sono state prese queste decisioni: che il principio di territorialità della giurisdizione dei Patriarchi, in vigore dall’epoca del Concilio di Nicea  e ribadito in quello Vaticano II,[217] deve restare alla base dell’intero schema della revisione del Codice, con lo scopo di potenziare l’autorità patriarcale in tutto quello che potrebbe favorire una maggiore unità e coesione di tutti i fedeli orientali sparsi nel mondo con la propria Chiesa patriarcale ed aiutarli a conservare fedelmente il proprio rito.[218] Il CCEO ha mantenuto il principio di territorialità: can. 78 §2. <<La potestà del patriarca può essere esercitata validamente soltanto entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, a meno che non consti diversamente dalla natura della cosa, oppure dal diritto comune o particolare approvato dal Romano Pontefice>>.

Giovanni Paolo II, in occasione della presentazione del Codice al Sinodo dei Vescovi, ha riferito di prendere in considerazione tutte quelle proposte da specificare con uno “ius speciale” relative ai poteri patriarcali, in base all’ultima parte del can. 78 §2”.[219] Nello stesso canone, è menzionato anche il diritto comune che estende, in certi casi, i poteri dei Patriarchi al di fuori dei confini del territorio delle proprie Chiese, come ad esempio la possibilità che il territorio di queste Chiese venga esteso dalla Santa Sede anche oltre le “regiones orientales”.[220] Il can. 86 §2, inoltre, prevede la facoltà del Patriarca di ordinare e intronizzare anche i Metropoliti e i Vescovi, costituiti fuori dei confini del territorio della Chiesa patriarcale. Altri casi in cui i poteri patriarcali sono estesi “extra” i confini della Chiesa patriarcale sono rappresentati dai cann. 148 §1 e 829 §3. La prima di queste norme stabilisce che il Patriarca abbia lo “ius vigilantiae” sui propri fedeli in tutto il mondo; la seconda attribuisce la facoltà al Patriarca di celebrare i matrimoni dei fedeli della propria Chiesa in tutto il mondo.[221]

Il CCEO specifica quali sono i diritti e i doveri del Patriarca nel proprio territorio: secondo il can. 79 egli rappresenta la Chiesa patriarcale in tutti gli affari giuridici; al can. 98 è determinato che il Patriarca può stipulare, con il consenso del Sinodo dei Vescovi della sua Chiesa e col previo assenso del Papa, accordi con l’autorità civile e può renderle esecutive solo dopo aver ottenuto l’approvazione del Pontefice. Queste convenzioni non derogano quelle stipulate oppure approvate dalla Santa Sede con Stati o con altre società politiche.

Il Patriarca deve avere cura anche dell’osservanza degli statuti personali nei luoghi in cui sono in vigore (can. 99 §1), riconosciuti dalle autorità civili in alcuni Paesi, specie islamici, e applicati nelle varie comunità religiose alle persone fisiche e morali. Viene ricordato ai Patriarchi, i quali usufruiscono nello stesso luogo della potestà riconosciuta o concessa negli statuti personali, la convenienza ad agire di comune intesa negli affari di maggiore importanza. Il Patriarca garantisce il vincolo di comunione della sua Chiesa con il Papa, per cui è tenuto a ratificare ai Vescovi e agli altri interessati gli atti del Pontefice inerenti la sua Chiesa, a meno che la Sede Apostolica non abbia provveduto diversamente (can. 81).[222]

La potestà legislativa del Patriarca è contenuta da quella del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale: le leggi sono emanate dal Sinodo e promulgate dal Patriarca, il quale, nell’ambito della sua competenza, può emanare decreti per l’applicazione e l’osservanza delle leggi del diritto comune o del diritto particolare, inviare ai fedeli lettere encicliche, istruzioni ed esortazioni pastorali (can. 82).

Il §3 del can. 82 avverte il Patriarca, nell’esercizio della sua potestà, di non trascurare di ascoltare il Sinodo permanente o il Sinodo dei Vescovi della sua Chiesa o anche l’assemblea patriarcale, nelle cose che riguardano tutta la Chiesa patriarcale o gli affari più importanti. Se però viene stabilito dal diritto che per porre un atto giuridico, il Patriarca ha bisogno del consenso oppure del consiglio del Sinodo permanente o del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, i suddetti organi devono essere convocati a norma del can. 948; perché l’atto abbia valore, si richiede che sia ottenuto il consenso della parte assolutamente maggiore di coloro che sono presenti, oppure che si chieda il consiglio di tutti.[223]

Il Patriarca ha il diritto e il dovere di compiere la visita pastorale in ogni eparchia nei tempi stabiliti dal diritto particolare. Non si tratta della “visita canonica” che compete, a norma del can. 205, al Vescovo eparchiale, che riguarda le persone, gli istituti cattolici, le cose e i luoghi sacri che si trovano entro i confini dell’eparchia, ma <<Per una causa grave e col consenso del Sinodo permanente, il Patriarca può visitare una chiesa, una città o un’eparchia, personalmente oppure per mezzo di un altro Vescovo, e durante questa visita può compiere tutto ciò che compete al Vescovo eparchiale nella visita canonica>>.[224]

Entro il territorio della Chiesa patriarcale, per una grave causa soprattutto giustificata dal bene dei fedeli, con il consenso del Sinodo dei Vescovi e dopo aver consultato la Sede Apostolica, il Patriarca può, secondo il can. 85 §1, erigere, circoscrivere diversamente, unire, dividere, sopprimere province ed eparchie acclesiatiche.[225] Può anche dare al Vescovo eparchiale un coadiutore; può trsferire, sempre per una grave causa, il Metropolita o un Vescovo eparchiale o titolare, se il trasferito rifiuta la decisione, il Sinodo dei Vescovi dirime il caso o lo deferisce al Pontefice (can. 85 §2). Il Patriarca può erigere, mutare e sopprimere gli esarcati: queste decisioni devono avere il consenso del Sinodo permanente e deve essere informata quanto prima la Sede Apostolica. Può, inoltre, ordinare i Metropoliti personalmente o, se è impedito, per mezzo di altri Vescovi, come pure, se il diritto particolare stabilisce, ordinare anche tutti i Vescovi (can. 86 §1).[226] Il Patriarca ha la facoltà di ordinare ed intronizzare i Metropoliti e tutti gli altri Vescovi della propria Chiesa patriarcale, costituiti dal Pontefice fuori dei confini del territorio della Chiesa stessa (can. 86 §2). Questo è un caso previsto dal diritto comune dell’estensione della potestà patriarcale fuori dei confini del territorio.

Il Patriarca, come padre e capo della chiesa cui presiede, deve essere commemorato nella Divina Liturgia, dopo il Pontefice, da tutti i Vescovi e da tutti gli altri chierici, secondo le formule dei libri liturgici, in segno di comunione gerarchica. Anche il Patriarca deve fare la commemorazione del Pontefice, in segno di piena comunione, proprio per questo è tenuto a curare che tutti i Vescovi e chierici della sua Chiesa commemorino il Papa (can. 92 §1 e 2). E’ prevista, inoltre, la visita del Patriarca “ad limina Apostolorum”, cioè entro un anno dalla sua elezione e in seguito più volte durante la sua funzione, compie la visita a Roma per venerare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo e per presentarsi al Pontefice. (can. 92 §3)

Al can. 93, il Codice stabilisce per il Patriarca l’obbligo di residenza nella sede patriarcale, dalla quale non deve allontanarsi se non per una causa canonica.[227] Rientra nei compiti del Patriarca vigilare sull’amministrazione di tutti i beni appartenenti alla Chiesa patriarcale, fermi restando i doveri dei singoli Vescovi di vigilare sull’amministrazione di tutti i beni ecclesiastici che esistono nella loro eparchia e che non sono sottratti alla loro potestà.

Nei monasteri stauropegiaci, cioè una confederazione di monasteri “sui iuris” di diverse eparchie situati all’interno dei confini del territorio di una Chiesa patriarcale, come pure nei luoghi dove non è retta né un’eparchia né un esarcato, il Patriarca ha gli stessi diritti e doveri del Vescovo patriarcale.[228] La potestà giudiziaria del Patriarca è molto ridotta, poiché è riservata quasi esclusivamente al Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale.

Nelle Chiese cattoliche orientali, secondo il nuovo Codice, ci sono quattro livelli giudiziari: quello papale, quello patriarcale o arcivescovile maggiore, quello metropolitano e quello eparchiale. A livello patriarcale (o arcivescovile maggiore) si distinguono due specie di tribunali: quello superiore, costituito dal tribunale sinodale formato da tre Vescovi membri del Sinodo dei Vescovi e dal Sinodo dei Vescovi stesso che agisce come tribunale d’appello del tribunale sinodale (can. 1062); il tribunale ordinario del patriarcato (o arcivescovile maggiore), la cui competenza si estende a tutto il territorio (questo tribunale è distinto da quello dell’eparchia, can. 1063 §1), giudica in seconda e terza istanza le cause definite nei tribunali eparchiali.[229]

 

La figura del “procurator patriarchie apud Sanctam Sedem”

La figura del procuratore patriarcale presso la Santa Sede è uno dei tipici uffici delle Chiese orientali descritto dal can. 61, secondo cui il Patriarca può avere un procuratore presso la Sede Apostolica, nominato personalmente con il previo assenso del Pontefice, cioè il procuratore deve essere “gradito” alla Santa Sede.[230]

La normativa non specifica quali compiti il procuratore debba assolvere, ma attribuendo semplicemente a quest’ufficio il termine “procuratore”, sembra che il “procurator” abbia ampia facoltà di agire in nome e per conto del Patriarca. Il suo ufficio dovrebbe essere quello di rappresentante del Patriarca ed al contempo tramite fra questo e la Santa Sede, dunque una funzione principalmente diplomatica.[231] Per altri, invece, il procuratore non è un rappresentante del Patriarca, ma si tratta piuttosto di un “mandatario” personale che <<…in forza di un mandato di procura agisce in nome del Patriarca nelle diverse pratiche da trattare con i vari dicasteri della Santa Sede>>.[232]

Il “procurator” è comunque il tramite diretto tra il Patriarca e il Papa, è un vincolo permanente fra Roma e la Sede patriarcale. Questo istituto, prodotto del passato, quando le distanze, a causa dei mezzi di trasporto, sembravano maggiori rispetto a quelle attuali, è rimasto in vigore per trattare varie questioni presso i dicasteri e le congregazioni della Curia romana; spesso il procuratore diviene anche il punto di riferimento per i fedeli orientali abitanti in questa città.[233]

Nella legislazione precedente non si parlava di “procurator” bensì di “apocrisarium”. Tale termine designava un incarico proprio del mondo costantinopolitano e solo in un secondo momento accolto dalla Chiesa, l’apocrisario era un funzionario imperiale con l’incarico di svolgere missioni e ambascerie ufficiali, essi potevano essere civili o militari, solo più tardi nacquero gli apocrisari ecclesiastici.[234]

La Commissione per la revisione del Codice orientale ha deciso di usare un termine meno specifico come “Procurator”, cioè colui che agisce per conto altrui,[235] anche se etimologicamente occidentale.[236]

 

Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale

Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale è canonicamente convocato e preceduto dal Patriarca e rappresenta la superiore istanza della Chiesa patriarcale.[237] L’istituzione patriarcale e quella sinodale sono interdipendenti: la funzione del Patriarca si comprende nel Sinodo e con il Sinodo e quella del Sinodo con il Patriarca. Non si può concepire il funzionamento del Sinodo senza la presenza del Patriarca, di cui è primo membro.[238] Il CCEO opera una distinzione tra il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale dalla curia patriarcale di cui fa parte un Sinodo ristretto, detto permanente.[239]

La “sinodalità” si presenta come un’applicazione pratica della collegialità nel governo ecclesiastico ed è compresa nel patrimonio della Chiesa dei primi secoli.[240] Il CCEO, nel capitolo III del titolo IV, tratta del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e al can. 102 stabilisce chi ne sia membro: tutti i Vescovi ordinati appartenenti alla Chiesa patriarcale, ovunque costituiti, dentro e fuori il territorio della stessa Chiesa. Sono esclusi quelli già canonicamente eletti, ma non ancora ordinati, contrariamente alla norma dei canoni 224 §1 e 341 §1 del “Cleri Sanctitati”. I Vescovi titolari, ossia quelli cui non è stata affidata un’eparchia da governare a nome proprio, qualunque altra funzione esercitino o abbiano esercitato nella Chiesa.[241]

Secondo la teologia e la normativa orientale antica, solo i Vescovi eparchiali dovrebbero essere membri del Sinodo. Mediante il sacramento dell’ordinazione, il Vescovo diventa pastore di una Chiesa locale e nello stesso tempo entra in comunione di collegialità e corresponsabilità per tutta la Chiesa, è proprio dall’ordinazione episcopale, compiuta per costituire un rappresentante di un’eparchia, che nasce il diritto e il dovere di partecipare al Sinodo.[242] La Commissione per la revisione del Codice ha, però, eccepito che <<…il principio che tutti i Vescovi di una Chiesa siano presenti al Sinodo è stato considerato non solo necessario perché il Sinodo dia esempio di unità della Chiesa patriarcale, ma anche perché conforme ai “tria munera” che ogni Vescovo riceve, secondo la dottrina del Vaticano II, nella stessa consacrazione episcopale>>.[243] Per queste ragioni, membri del Sinodo sono anche i Vescovi che hanno rinunciato al loro ufficio, in quanto Vescovi della propria Chiesa, sebbene non tenuti a parteciparvi: <<Tutti i Vescovi legittimamente convocati al Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale hanno il grave obbligo di partecipare al Sinodo stesso, ad eccezione di coloro che hanno rinunciato al loro ufficio>> (can. 104 §1); essi sono chiamati “Vescovi emeriti” con il titolo dell’eparchia che già hanno governato, quindi annoverati, per analogia, tra i Vescovi titolari.

Il §2 del can. 102 stabilisce che, ai Vescovi eparchiali costituiti fuori del territorio della Chiesa patriarcale (in diaspora) e a quelli titolari, pur avendo essi il diritto e il dovere di partecipare al Sinodo della propria Chiesa, può essere limitato il loro voto deliberativo a norma del diritto particolare salvo restando tuttavia il loro diritto di partecipare al Sinodo che elegge il Patriarca e i Vescovi. Secondo il diritto particolare o con il consenso del Sinodo permanente, al Sinodo, oltre alle suddette persone, possono essere invitati dal Patriarca anche altri gerarchi (prelati) che non sono Vescovi, come anche altri chierici e laici in qualità di consultori esperti.

Gli Amministratori apostolici, gli Esarchi apostolici o patriarcali e gli Amministratori di sedi vacanti in genere i Gerarchi del luogo, non insigniti del carattere episcopale, possono essere invitati a discrezione del Patriarca a partecipare al Sinodo, senza diritto di voto deliberativo. In alcune Chiese particolari è diventata consuetudine invitare i superiori generali di ordini religiosi e qualche volta anche i rappresentanti del clero.[244] E’ competenza del Patriarca conoscere e presiedere il Sinodo. Senza la convocazione canonicamente fatta e la presidenza del Patriarca le decisioni dei Vescovi sono illegittime (can. 103). Dalla vita sinodale può essere escluso soltanto colui che sia inabile a dare il proprio voto (can. 953 §1) o punito con le pene di riduzione a un grado inferiore, di deposizione o di scomunica maggiore (cann. 1433 e 1434).[245]

Il can.105 CCEO intima la presenza personale dei Vescovi al Sinodo, escludendo l’invio di un procuratore: <<…nessuno dei membri dello stesso Sinodo può inviare al suo posto un procuratore e nessuno ha più di un voto>>, modificando così la norma del “Cleri Sanctitati”, secondo la quale i Vescovi che per giusto motivo non possono essere presenti al Sinodo, possono farsi rappresentare da un’altra persona.

Sono previste due tipi di convocazione: quella straordinaria e quella ordinaria. Nel primo caso il Sinodo deve essere convocato ogni volta che si devono trattare, a norma del diritto, affari che appartengono all’esclusiva competenza di questo Sinodo, come l’elezione del Patriarca e dei Vescovi, l’emanazione di leggi per la Chiesa patriarcale, per la funzione giudiziaria come tribunale superiore; tutte le volte che si richiede il consenso del Sinodo per eseguire alcuni affari della Chiesa. In molti canoni del CCEO è stabilito, infatti, che per porre in essere un atto, il Patriarca ha bisogno del consenso di questo Sinodo, pena l’invalidità dell’atto (can. 106 §1 e 2).

Il Sinodo può essere convocato ogni volta che il Patriarca, con il consenso del Sinodo permanente, lo ritiene necessario; infine tutte le volte che almeno una terza parte dei membri lo richieda per un certo affare.[246] In genere, il Sinodo si riunisce ordinariamente una volta all’anno, secondo le norme del diritto particolare, in base al §2 del can. 106. Per diritto comune, ogni sessione sinodale è canonica ed ogni singola votazione è valida se più della metà dei membri tenuti ad intervenire è presente. Il diritto particolare può, tuttavia, esigere per certi affari una maggiore presenza.[247]

Nel can. 110 CCEO al Sinodo dei Vescovi compete sia la potestà legislativa sia giudiziaria (è il tribunale a norma del can. 1062), l’elezione del Patriarca, dei Vescovi e dei candidati agli uffici (can. 149), mentre al Patriarca appartiene la potestà amministrativa, che compete a questo Sinodo solo se, per determinati atti, il Patriarca così stabilisce. Il limite alla competenza legislativa è costituito dalla non contrarietà al diritto comune, cioè alle leggi e alle consuetudini legittime della Chiesa universale e a quelle comuni a tutte le Chiese orientali.[248]

Il diritto emanato dall’autorità legislativa di ogni Chiesa patriarcale, ossia dal proprio Sinodo dei Vescovi, promulgato e pubblicato dal Patriarca, rappresenta fonte principale del proprio diritto particolare.[249]

Il CCEO specifica il significato del diritto comune e del diritto particolare al can. 1493: <<§1. Col nome di “diritto comune” in questo Codice s’intendono, oltre alle leggi e alle legittime consuetudini della Chiesa universale, anche le leggi e le legittime consuetudini comini a tutte le Chiese orientali. §2. Col nome invece di diritto particolare s’intendono tutte le leggi, le legittime consuetudini, gli statuti e le altre norme del diritto, che non sono comuni né alla Chiesa universale né a tutte le Chiese orientali>>. Spetta al Sinodo stesso l’interpretazione autentica di queste leggi; nel periodo che intercorre tra un Sinodo e l’altro, però tale diritto spetta al Patriarca, previa consultazione del Sinodo permanente.

Il can. 110 modifica il diritto precedente del “Cleri Sanctitati”, secondo cui la potestà legislativa spettava al Patriarca. La nuova norma è certamente più conforme al principio stabilito dal decreto conciliare “Orientalium Ecclesiarum”, che stabilisce: <<I Patriarchi coi loro Sinodi costituiscono la superiore istanza per qualsiasi negozio del patriarcato, […] salvo restando l’inalienabile diritto del Romano Pontefice di intervenire nei singoli casi>>.[250] In linea con i principi del Vaticano II, il can. 111 stabilisce che gli atti relativi alle leggi e alle decisioni del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale siano inviati quanto prima al Pontefice.

Il decreto conciliare qualifica lo “ius interveniendi” del Papa nella funzione legislativa dei patriarcati, riconoscendo e garantendo la validità ed efficacia di questa legislazione, senza nessuna forma di approvazione da parte della Santa Sede, attribuendo al Papato, però, il diritto-dovere di intervenire mediante un “giudizio di costituzionalità”, sia in materia dottrinale, sia in materia di uniformità della legge particolare ai principi fondamentali del diritto canonico e dell’organizzazione ecclesiastica.[251]

Per ciò che riguarda gli atti amministrativi, ossia la potestà esecutiva di governo, essa è riservata dal can.110 §4 al Patriarca. Quanto poi all’estensione dell’applicazione delle leggi sinodali delle Chiese patriarcali, il can. 150 §2 CCEO impone delle flessioni, prescrivendo che le leggi liturgiche hanno vigore ovunque, cioè devono essere applicate dai Vescovi, dal clero e dai fedeli dentro e fuori il territorio della Chiesa patriarcale. Le leggi disciplinari, che riguardano il governo e l’ordine interno della Chiesa, invece, hanno vigore solo entro i confini del territorio patriarcale e non si applicano fuori di esso, cioè nelle eparchie costituite fuori, ma aggregate canonicamente alla Chiesa patriarcale del proprio rito.[252] Il can. 150 §3, tuttavia, prescrive che le leggi sinodali disciplinari possono avere vigore nelle eparchie fuori del territorio patriarcale, se approvate dalla Sede Apostolica oppure se i Vescovi eparchiali danno a tali leggi forza di legge nelle loro eparchie, in virtù della loro potestà legislativa, come pastori immediati e ordinari della propria Chiesa locale. Questi Vescovi non sono obbligati, però, ad applicare le leggi disciplinari sinodali nelle loro eparchie, ma sono esortati ad agire in tal senso.[253]

 

La Curia e l’assemblea patriarcale

In ogni Chiesa patriarcale opera la curia patriarcale, distinta da quella dell’eparchia del Patriarca, che consta di determinati organi, Il primo di questi è il Sinodo permanente, che, secondo le fonti storiche e canoniche, comincia ad operare a Costantinopoli ed è presentato come “Synodus permanens”.[254] Esso è costituito da cinque membri: il Patriarca e quattro Vescovi designati per un periodo di cinque anni (questi Vescovi sono eletti dal Sinodo dei Vescovo della Chiesa patriarcale) e deve essere convocato dal Patriarca almeno due volte all’anno e ogni volta che egli lo ritiene necessario.[255] E’ un organo amministrativo coadiutore del Patriarca nella condotta degli affari importanti.[256]

Il tribunale ordinario della Chiesa patriarcale, il Cancelliere patriarcale e varie commissioni sono gli altri organi della Curia, oltre ai Vescovi, che sono al massimo tre, ai quali il Patriarca affida degli uffici particolari con residenza nella Curia stessa. Per l’amministrazione dei beni della Chiesa patriarcale, il Patriarca, ottenuto il consenso del Sinodo permanente, nomina un economo patriarcale,  esperto in economia e fedele cristiano, il quale non deve essere né parente né affine del Patriarca fino al quarto grado compreso.[257]

Nella Chiesa patriarcale è presente anche l’assemblea patriarcale, disciplinata dai canoni 140-145, che non appaiono nel “Cleri Sanctitati”, ma sono un’innovazione del Codice orientale: è un’istituzione che assicura la partecipazione di tutti i fedeli nella vita e nell’amministrazione della Chiesa.[258]

L’assemblea patriarcale (conventus patriarchalis), presieduta dal Patriarca, presta la propria collaborazione a quest’ultimo e al Sinodo della Chiesa patriarcale nel gestire gli affari più importanti.[259] Il can. 143 §1 CCEO elenca i membri di quest’assemblea, che sono i Vescovi eparchiali e tutti gli altri gerarchi del luogo, i presidi delle confederazioni monastiche, i superiori generali degli istituti di vita consacrata e i superiori dei monasteri “sui iuris”; i rettori di università cattoliche ed ecclesiastiche, i decani delle facoltà teologiche e di diritto canonico, che hanno la loro sede nel territorio della Chiesa di cui si tiene l’assemblea. I rettori di Seminari maggiori; almeno un presbitero proveniente da ogni eparchia, un religioso e due laici.[260]

Cap V

LE CHIESE ARCIVESCOVILI MAGGIORI, METROPOLITANE E LE ALTRE CHIESE “SUI IURIS”

Le Chiese arcivescovili maggiori

La seconda struttura ecclesiastica orientale contemplata dal CCEO è quella arcivescovile maggiore con a capo l’Arcivescovo maggiore, dedicando a queste Chiese “sui iuris” solo quattro canoni. Nel primo (can. 151) viene definito Arcivescovo maggiore <<…il Metropolita di una sede determinata o riconosciuta dalla suprema autorità della Chiesa, il quale presiede a un’intera Chiesa orientale “sui iuris” non insignita del titolo patriarcale>>.

Il titolo di Arcivescovo maggiore si è conservato solo in Oriente, anche se la sua origine la troviamo nel Patriarcato occidentale, questo titolo è stato inizialmente attribuito ai capi delle grandi sedi ed in seguito ad alcuni di essi è stato aggiunto quello di Patriarchi.

Nella metà del IV secolo, l’enorme estensione territoriale della “Ecclesia Romana”, fu la probabile causa per cui Papa Damaso delegò al Vescovo di Tessalonica un grande numero di province dell’Illirico.[261] In tal modo, per motivi pratici, ha origine il Vicariato, che nel VI secolo prenderà il nome di Arcivescovado. Nel V secolo, durante il terzo Concilio di Efeso (431), la Chiesa di Cipro ottiene la sua autonomia giuridica da Antiochia e il diritto di ordinarsi un capo, il quale viene chiamato Arcivescovo.[262]

La figura dell’Arcivescovo maggiore è molto simile a quella del Patriarca, anche se il primo è un metropolita con potestà su altre province ecclesiastiche, oltre a quella propria, mentre il Patriarca è un vescovo eparchiale con giurisdizione su tutti gli altri Vescovi ed eventualmente anche su quelli metropoliti, sostanzialmente si differenzia dal Patriarca solo per l’ordine di precedenza, non per le potestà che gli competono all’interno della sua Chiesa.[263]

Nel “Cleri Sanctitati” l’Arcivescovo maggiore non possedeva gli stessi poteri attribuiti ai Patriarchi; mentre il decreto “Orientalium Ecclesiarum” afferma che ciò che è stato stabilito per i Patriarchi si applichi anche agli Arcivescovi maggiori.[264] Il canone 152 CCEO conferma tale principio, l’ultima clausola di detta norma  intende,però, riaffermare che i diritti e le prerogative degli Arcivescovi maggiori non sono del tutto uguali a quelli dei Patriarchi.[265] La Chiesa arcivescovile maggiore ha un sistema di governo simile a quello della Chiesa patriarcale: la maggiore differenza  si riscontra nell’ambito dell’elezione dell’Arcivescovo maggiore e del Patriarca. L’elezione di quest’ultimo è completa, per cui il neo-Patriarca può essere subito intronizzato, nonostante sia l’eletto che il Sinodo dei Vescovi abbiano l’obbligo di darne notizia al Papa e di chiedergli la “Comunione ecclesiastica”; l’elezione dell’Arcivescovo, effettuata dal Sinodo con la stessa libertà di autonomia, non è, invece, definitiva, poiché occorre chiedere ed attendere la “conferma” del Pontefice, per poter procedere alla proclamazione ed intronizzazione.[266] Tale conferma è motivata nei “Praenotanda” allo “Schema Canonum de constitutione Hierarchica Ecclesiarum Orientalium”: dallo studio della tradizione orientale si evince che la figura giuridica dell’Arcivescovo maggiore è apparsa quasi come vicaria dei Patriarchi. Fin da quando nella Chiesa cattolica è stato istituito quest’ufficio, la conferma del Papa è sempre stata necessaria.[267]

La figura giuridica del’’Arcivescovo maggiore, non può essere considerata come quasi vicaria di quella dei Patriarchi, in quanto lo status di autonomia canonica interna, anche se relativa, delle Chiese patriarcali, riconosciuta dal Concilio Vaticano II e dal CCEO, deve valere anche per le Chiese arcivescovili maggiori.[268]

Secondo le norme del canone 153, dopo la conferma, l’eletto deve emettere, davanti al Sinodo dei Vescovi della Chiesa arcivescovile maggiore, la professione di fede e la promessa di adempiere con fedeltà il proprio ufficio. Segue la proclamazione e l’intronizzazione, ma se l’eletto non è Vescovo prima deve ricevere  l’ordinazione episcopale. Per ciò che riguarda le precedenze d’onore, gli Arcivescovi maggiori seguono immediatamente i Patriarchi, secondo l’ordine di erezione della Chiesa cui presiedono.[269]

 

Le Chiese metropolitane sui iuris

Occorre, innanzitutto, distinguere una Chiesa metropolitana “sui iuris” dalle Chiese metropolitane nella Chiesa patriarcale. Quest’ultima è una provincia ecclesiatica, costituita da più eparchie, entro e fuori dei confini del territorio della Chiesa patriarcale, presieduta da un Metropolita, è sotto l’autorità del Patriarca (o dell’Arcivescovo maggiore) e non gode di una vera podestà sopraepiscopale.

La Chiesa metropolitana “sui iuris”, invece, gode di una potestà sopraepiscopale, non però soprametropolitana ed è sotto l’autorità del Pontefice.[270] Si tratta di una Chiesa presieduta da un Metropolita nominato dal Papa e coadiuvato da un Consiglio dei Gerarchi. La sede di questa Chiesa “sui iuris” si trova nella città principale, da cui il Metropolita desume il titolo. (can. 158 § 1). Questa Chiesa costituisce la forma giuridica originale e più antica di strutturazione ecclesiastica in Oriente, di regime sinodale, anche se ben presto la struttura metropolitana viene sostituita da quella patriarcale senza essere abrogata.[271] Queste Chiese sono quattro (fino alla fine del Novecento): etiopica, malankarese, rumena e rutena, tutte rette da un Metropolita assistito dal Consiglio dei Gerarchi, che tutti insieme formano l’unico organo dotato di potere legislativo nei confronti dell’intera Chiesa “sui iuris”.[272]

Il Metropolita, come anche i Vescovi della Chiesa metropolitana “sui iuris” è nominato dal Pontefice, secondo la procedura stabilita dal canone 168: <<Per quanto riguarda la nomina del Metropolita e dei Vescovi, il Consiglio dei Gerarchi componga per ciascun caso un elenco almeno di tre candidati più idonei e lo invii alla Sede Apostolica osservando il segreto anche verso i candidati; per comporre questo elenco, i membri del Consiglio dei Gerarchi, se lo ritengono opportuno, possono chiedere il parere di alcuni presbiteri o di altri fedeli cristiani che si distinguono per saggezza, circa le necessità della Chiesa e le doti speciali del candidato all’episcopato>>.

Entro tre mesi dall’ordinazione episcopale o dall’intronizzazione, il Metropolita è obbligato a chiedere al Papa il pallio (can. 156 §1). Durante i lavori di preparazione del Codice è stato notato che <<…il pallio è un prestito della Chiesa latina ed estraneo alle genuine tradizioni orientali. In realtà tutti i Vescovi di quasi tutte le Chiese orientali hanno nell’omophorion l’equivalente liturgico del pallio>>.[273] E’ stato quindi richiesto che se questa norma (can. 156 §1) non può essere abrogata, sia almeno omesso il §2, che impone al Metropolita di non convocare il Consiglio dei Gerarchi e di non ordinare i Vescovi prima dell’imposizione del pallio.[274] La norma è rimasta in considerazione del nuovo significato che assume il pallio stesso: non solo segno della potestà metropolitana, come per la Chiesa latina, ma anche della piena comunione della Chiesa “sui iuris” con il Pontefice.[275]

La potestà che compete al Metropolita sui Vescovi e su tutti gli altri fedeli cristiani della sua Chiesa è ordinaria, propria (non vicaria) e personale, ciò non gli consente di poter costituire un vicario per l’intera Chiesa “sui iuris”, oppure delegare la sua potestà a qualcuno per la totalità dei casi (can. 157 §1). La potestà del Metropolita e del Consiglio dei Gerarchi è esercitata validamente solo entro i confini del territorio della Chiesa metropolitana “sui iuris”, in quanto vale il principio di territorialità (can. 157 §2).

Il canone 159 stabilisce le competenze specifiche attribuite al Metropolita: ordinare e intronizzare i Vescovi della propria Chiesa; convocare il Consiglio dei Gerarchi a norma del diritto e disporre l’ordine del giorno delle questioni da trattare in esso, presiederlo, trasferirlo, prorogarlo, sospenderlo o scioglierlo; erigere il tribunale metropolitano; vigilare perché la fede e la disciplina ecclesiastica siano osservate; compiere la visita canonica nelle eparchie; nominare l’amministratore dell’eparchia nel caso di cui al can. 221 §4 (se entro otto giorni non è stato eletto l’amministratore, oppure se l’elezione è invalidata). Il Metropolita deve anche provvedere agli atti necessari per il conferimento degli uffici ecclesiastici previsti dal diritto, qualora il Vescovo eparchiale li abbia trascurati. Altro ufficio spettante al Metropolita è quello di comunicare ai Vescovi e agli altri interessati gli atti del Papa e curarne l’esecuzione. Al Metropolita, oltre ai suddetti diritti e doveri, spetta anche tutto ciò che gli è attribuito dal diritto comune o da quello particolare stabilito dal Pontefice.[276]

Per gli affari straordinari e particolarmente difficili, il can. 160 esorta il Metropolita e i Vescovi eparchiali a consultarsi reciprocamente.

Il Metropolita è obbligato ad avere frequenti rapporti col Papa e ogni cinque anni deve visitare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo e presentarsi al Pontefice, possibilmente insieme ai Vescovi della sua Chiesa.

Il CCCEO prevede il Consiglio dei Gerarchi (cann. 164-171), cui spetta la potestà legislativa. Questo organo gode della facoltà di redigersi un proprio corpo di statuti, però ha il dovere di farli conoscere alla Sede Apostolica: ne fanno parte tutti i Vescovi ordinati, ma, per diritto comune, hanno diritto di voto deliberativo soltanto i Vescovi eparchiali e quelli coadiutori; il diritto particolare può concedere il diritto di voto anche ai Vescovi ausiliari e a quelli titolari, ciò significa che mentre il governo della Chiesa patriarcale (o arcivescovile maggiore) è affidato sinodalmente a tutti i Vescovi della rispettiva Chiesa, quello di una Chiesa metropolitana è affidato ai soli Vescovi che siano anche Gerarchi, ossia che abbiano il governo di una propria eparchia.[277]

Perché sia valida una sessione del Consiglio dei Gerarchi occorre la presenza della maggioranza dei Vescovi tenuti a partecipare, tuttavia il diritto particolare può esigere una presenza più alta. Le leggi sono approvate a maggioranza assoluta dei voti di coloro che tra i presenti hanno voto deliberativo. Queste leggi non possono essere promulgate se il Metropolita non ha informato la Santa Sede e prima di aver ricevuto da questa una notificazione scritta di attestazione di ricevimento degli atti.[278] La promulgazione delle leggi e la pubblicazione delle decisioni del Consiglio dei Gerarchi è di competenza del Metropolita (can. 167 §3). Nel §4 dello stesso canone troviamo che la potestà amministrativa spetta al Metropolita, il quale può porre gli atti amministrativi che il diritto comune riserva alla superiore autorità amministrativa della Chiesa “sui iuris”, previo consenso del Consiglio dei Gerarchi.

E’ possibile un paragone tra il Consiglio dei Gerarchi e le figure simili previste nel diritto latino.[279] L’assemblea dei Vescovi di una Chiesa metropolitana “sui iuris”, infatti è un’istituzione assai simile a quella delle conferenze episcopali nel CIC, che riuniscono periodicamente i Vescovi di uno stesso Stato esercitando una vera e propria potestà legislativa, anche se limitata.[280] Nello stesso tempo il Consiglio dei Gerarchi si differenzia dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, poiché non ha gli stessi diritti e gli stessi doveri, il suo ruolo principale è quello di aiutare il Metropolita a norma del diritto.[281]

 

Le altre Chiese “sui iuris”

Il quarto modello delle Chiese “sui iuris” riconosciuto dal CCEO nei cann. 174-176, è costituito da quelle Chiese che non sono né patriarcali né arcivescovili maggiori né metropolitane, ma sono Chiese che, in base al can. 174, sono affidate a Gerarchi nominati dal Pontefice, i quali le presiedono a norma del diritto comune e di quello particolare stabilito dal Papa, il quale è al di sopra delle competenze del Gerarca.[282]

L’autorità competente è il Gerarca, che necessita del consenso della Sede Apostolica, a meno che non sia esplicitamente stabilito altrimenti.[283] Il CCEO lascia ampie possibilità quando parla dei Gerarchi, per cui può trattarsi non solo di eparchia, ma anche di un esarcato affidato ad un Esarca non insignito di carattere vescovile con una reggenza “nomine Romani Pontificis”.[284] I diritti e i doveri del Gerarca sono stabiliti dal can. 175, che rimanda al can. 159, che disciplina i diritti e i doveri del Metropolita nella Chiesa metropolitana “sui iuris”.[285]

Le altre Chiese “sui iuris”, alla fine del Novecento, erano: la Chiesa bulgara con un Esarcato; quella greca con due Esarcati, uno ad Atene e l’altro a Costantinopoli; la Chiesa ungherese con due Eparchie; quella italo-albanese con due Eparchie e un monastero esarchico. La chiesa slovacca con due Eparchie e quella iugoslava con una. Le Chiese bielorussa, albanese, e russa sono senza gerarchia.[286]

Cap VI

LE EPARCHIE, I VESCOVI EPARCHIALI E GLI ESARCATI

Nozione di eparchia e di Vescovo

Il titolo VII (cann. 177-310) del CCEO tratta dei Vescovi, delle Eparchie e del loro governo: per indicare la diocesi usa il termine greco “eparchia”: nella normativa canonica antica, questo vocabolo indica la provincia ecclesiastica sotto il Metropolita, solo in un secondo momento è stata usata per indicare la Chiesa locale sotto un Vescovo.[287] La definizione di eparchia data dal Codice è ripresa fedelmente dal decreto conciliare “Christus Dominus” (n. 11) che dà rilievo soprattutto all’aspetto teologico, pur non trascurando l’aspetto giuridico-amministrativo dell’istituzione.[288] L’eparchia (diocesi nel CIC), come “porzione di popolo di Dio”, rappresenta la Chiesa particolare affidata ad un Vescovo, il quale nel suo ministero pastorale è circondato dalla collaborazione dei presbiteri e diaconi.

L’eparchia è una persona giuridica rappresentata, in tutti gli affari giuridici, dal Vescovo eparchiale, il quale governa la sua eparchia a nome proprio e nel governare la sua Chiesa particolare non è un delegato del Pontefice, ciò nonostante le funzioni di santificare, insegnare e governare, che hanno la loro fonte nella consacrazione episcopale, per la loro natura, non possono essere esercitate se non nella piena comunione gerarchica con il Papa.[289]

E’ chiamato Vescovo titolare (can. 179) colui che non governa a nome proprio un’eparchia, ma ha già svolto o svolge qualunque altra funzione nella Chiesa. Vescovi titolari sono anche quelli coadiutori e quelli ausiliari. Al Vescovo titolare è assegnato il titolo di un’eparchia antica scomparsa, proprio per significare che ogni Vescovo è legato ad una Chiesa locale esistente o esistita.[290] La figura del Vescovo titolare, particolarmente di quello ausiliare o coadiutore con diritto di successione, è ignota alla tradizione orientale antica; i primi Concili ecumenici, infatti, non ne parlano.[291] Di conseguenza, durante i lavori preparatori del CCEO, è stato proposto di eliminare la figura del Vescovo coadiutore perché contraria “alla teologia orientale” e “ignota all’Oriente”.[292] L’argomento è stato a lungo dibattuto, sottolineando soprattutto come l’istituto del Vescovo coadiutore nella sua figura odierna, cioè con lo “ius successionis”, per gli orientali non sia un’innovazione del Concilio Vaticano II, ma appartenga allo “ius vigens” almeno dal momento in cui è stato promulgato il “Cleri Sanctitati” (1957). E’ stato poi osservato che gli istituti giuridici “ignoti” alle tradizioni delle Chiese orientali non sono obbligatoriamente “contra ius” tradizionale, il Concilio Vaticano II esorta a ripristinare, dove possibile, le antiche tradizioni orientali, ma in ogni caso il diritto deve essere aggiornato ed adeguato in base alle esigenze del mondo moderno.[293]

La designazione dei Vescovi nelle Chiese orientali

Fino alla formazione dei patriarcati orientali cattolici, la scelta dei Vescovi avveniva secondo le antiche norme dei Concili ecumenici e dei Sinodi locali, ossia da tutti i Vescovi della provincia a maggioranza assoluta, tenendo conto dei desideri del popolo cristiano. La consacrazione compiuta da parte dei Vescovi “viciniores” costituisce la forma giuridica attraverso la quale è conferito l’ufficio episcopale, essa presuppone però una preventiva designazione da parte dei Vescovi “viciniores” e dei membri della Chiesa locale cui verrà preposto il nuovo Vescovo, in modo che la sua nomina sia il frutto di un accordo tra fedeli, clero della Chiesa locale e Vescovi comprovinciali.[294]

Verso la fine del IV secolo i notabili della “civitas” sono chiamati a comporre il collegio elettorale, così il corpo elettorale risulta essere più ristretto, ma ciò non significa la perdita del suo importante ruolo; il “consensus fidelium” costituisce un presupposto necessario alla nomina.[295]

Già nella seconda metà del secolo III i Vescovi che erano a capo delle metropoli civili cercavano di avere poteri e prerogative sui Vescovi provinciali. Il Metropolita, come Vescovo principale della provincia, confermava il neo-eletto, che, tramite lui, entrava in comunione con la Sede Romana. Con la costituzione dei patriarcati, il Metropolita doveva ottenere anche il consenso del proprio Patriarca. Il ricorso al Papa era occasionale: solo nel caso di gravi dissensi in merito alla canonicità dell’elezione. I diritti del Metropolita e del Sinodo provinciale sono passati progressivamente al Patriarca e al Sinodo patriarcale.[296]

La partecipazione della comunità all’elezione dei Vescovi è attestata in tutte le Chiese orientali sotto forme diverse. Nella Chiesa melchita, ad esempio, il Sinodo del 1790 accordava al popolo e al clero della diocesi di Aleppo la facoltà di eleggere il nuovo Vescovo, anche se poi occorreva l’approvazione del Patriarca e dei Vescovi. Nella Chiesa armena e in quella caldea, il popolo e il clero erano invitati a presentare al Sinodo episcopale la lista dei candidati in occasione dell’elezione di una sede.[297]

Il motu proprio “Cleri Sanctitati” riconosceva due procedure canoniche per la scelta dei Vescovi, che le Chiese d’istituzione patriarcale potevano seguire. Secondo la prima norma, prevista dai cann. 252-253, il Patriarca raccoglieva le informazioni e la documentazione sui candidati che proponeva al Sinodo. Poteva interrogare, se lo riteneva opportuno, i parroci, i sacerdoti della diocesi vacante per eventuali suggerimenti di candidature e naturalmente doveva ascoltare, in primo luogo, i Vescovi. I laici erano esclusi da qualsiasi intervento e consultazione.[298] Il Sinodo procedeva all’elezione del nuovo Vescovo tra i candidati proposti. Dopo questo adempimento il Patriarca inviava alla Santa Sede il risultato e chiedeva la conferma dell’eletto. Sempre il Patriarca interrogava il neo-eletto per sapere se accettava l’episcopato; informando poi la Sede Apostolica e definendo insieme il giorno della pubblicazione della nomina.[299]

La seconda procedura, considerata “expeditius”, è prevista nel can. 254 del “Cleri Sanctitati”: il Patriarca con il suo Sinodo inviava un elenco di candidati alla Santa Sede per ottenere l’approvazione Pontificia. Dopo il “nihil obstat” della Congregazione per la Dottrina della Fede, valido sei mesi, il Patriarca riuniva il Sinodo e procedeva all’elezione del nuovo Vescovo, scegliendo tra i candidati che avevano ottenuto l’approvazione pontificia; nel caso in cui la scelta fosse caduta su di un Vescovo al di fuori dell’elenco approvato, si seguivano le prescrizioni dei cann. 252-253, ossia della prima procedura.[300]

La norma generale del “Cleri Sanctitati” era il can. 392, che stabiliva come regola che: <<Il Romano Pontefice nomina liberamente i Vescovi, oppure conferma coloro che sono stati legittimamente eletti>>. La legislazione precedente prevedeva come regime ordinario la nomina, come eccezione l’elezione. Il nuovo Codice modifica questa situazione: l’elezione diventa la regola per la designazione dei Vescovi e la nomina rimane un’eccezione.[301]

I cann. 180-189 del nuovo Codice sono dedicati all’elezione dei Vescovi. Il primo (can. 180) determina la qualità e le condizioni che deve possedere ogni candidato: deve essere una persona di grande fede e pietà, di costumi integerrimi, deve distinguersi per zelo, prudenza e fruire di buona fama, deve avere almeno trentacinque anni di età e cinque di presbiterato, deve essere libero dal legame matrimoniale. Il CIC non parla di questo impedimento e la spiegazione consiste nel fatto che nella Chiesa latina gli uomini sposati non possono accedere al presbiterato; la legislazione orientale, al contrario, li inabilita soltanto per l’episcopato. Non è esatto, però, dire che i preti delle Chiese orientali possono contrarre matrimonio, essi possono solo continuare a vivere con la donna sposata anteriormente all’ordinazione, ma è rigorosamente vietato contrarre un nuovo matrimonio anche se avviene il decesso della moglie.[302]

Il CCEO si differenzia dal Codice latino anche per ciò che riguarda la formazione intellettuale del candidato: il CIC dichiara di esigere la laurea dottorale o almeno la licenza in Sacra Scrittura, Teologia o Diritto Canonico conseguite in Istituti di studi superiori approvati dalla Santa Sede, oppure “sia almeno veramente esperto in tali discipline”. Il Codice orientale, invece, richiede solamente che il candidato abbia i diplomi suddetti in “aliqua scientia sacra” senza specificare il luogo di provenienza. Durante il procedimento informativo, è doveroso assicurarsi che il candidato professi la dottrina della Chiesa cattolica, questo è dovuto al fatto che in alcuni Paesi orientali la formazione intellettuale dei sacerdoti avviene in Università statali o in Centri non cattolici.[303]

Il can. 181 stabilisce che i Vescovi, entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, siano eletti canonicamente dal Sinodo dei Vescovi di quella Chiesa. La stessa disposizione vale anche per le Chiese arcivescovili maggiori, in base alla prescrizione del can. 152 già menzionato. In tutti gli altri casi sono nominati direttamente dal Pontefice: i Vescovi delle Chiese patriarcali e di quelle arcivescovili maggiori costituiti fuori dei confini del proprio territorio, su proposta di un elenco di almeno tre candidati da parte del Sinodo (can. 149); il Metropolita e i Vescovi della Chiesa metropolita “sui iuris”, proposti nello stesso modo, dal Consiglio dei Gerarchi a norma del can. 168 e i Vescovi di queste Chiese costituiti fuori dei confini del proprio territorio; infine i Vescovi delle altre Chiese “sui iuris” e delle altre circoscrizioni ecclesiastiche che dipendono direttamente dalla Santa Sede.[304] Solo i Vescovi, membri del Sinodo patriarcale, hanno il potere di proporre i candidati e di raccogliere informazioni e documentazione necessaria per provarne l’idoneità (can. 182).

Prima della convocazione del Sinodo e in tempo opportuno, i Vescovi devono comunicare al Patriarca le informazioni raccolte sui candidati. La nuova legge riconosce al Patriarca il diritto di completare, se è il caso, con le proprie informazioni, che devono essere trasmesse ai membri del Sinodo, che esamina i nomi dei candidati e compila un elenco dopo essere stato canonicamente adunato ed aver proceduto a scrutinio segreto, che sarà inviato dal Patriarca alla Sede Apostolica per ottenere l’assenso del Papa.[305]

Secondo la legislazione del “Cleri Sanctitati”, il Patriarca comunicava al Pontefice i risultati delle elezioni al fine di ottenere la “conferma”: era questo un atto che presupponeva un esame sia della procedura seguita che dell’idoneità dell’eletto. Il CCEO, invece, in linea con il Concilio Vaticano II, stabilisce che le elezioni dei Vescovi non sono più soggette a conferma pontificia e, introducendo una diversa procedura, prescrive la richiesta del previo “assenzo” del Papa su una lista di candidati prima di convocare il Sinodo elettivo.[306]

Con la nuova procedura si è verificato un cambiamento fondamentale: il Pontefice aderisce alle decisioni del Sinodo, le fa proprie e si riconosce che queste sono complete ed efficaci.[307] La convocazione del Sinodo è canonicamente valida se sono presenti i due terzi dei Vescovi aventi diritto, ad eccezione di coloro che sono assenti giustificati. Per l’elezione occorre la maggioranza assoluta, ma se dopo tre votazioni non è stata raggiunta, nella quarta i voti andranno solo ai due candidati che nella terza votazione hanno ricevuto più voti (maggioranza relativa); nel caso di parità nella terza o quarta votazione, risulta eletto il decano per ordinazione presbiterale oppure il più anziano di età.[308]

Il Patriarca non può definire la parità con il suo voto, in quanto membro del Sinodo. Si presentano, a questo punto, due casi: l’eletto è compreso nell’elenco al quale il Pontefice ha già dato il suo assenso, il Patriarca allora procede all’intimazione segreta rivolta all’eletto e se questo accetta, il Patriarca informa la Santa Sede. Nel caso in cui l’eletto non sia compreso nell’elenco menzionato, il Patriarca deve chiedere l’assenso del Papa per l’elezione fatta.[309] Il nuovo Codice ha adottato la seconda procedura del “Cleri Sanctitati” semplificandola e rendendola valida per tutte le Chiese particolari.[310]

Il CCEO prevede anche l’ipotesi in cui il Sinodo dei Vescovi non possa riunirsi a causa di gravi circostanze. In questo caso, il Patriarca, dopo aver consultato la Sede Apostolica, chiede per lettera i voti dei Vescovi, ma, per la validità dell’atto, deve avere due Vescovi come scrutatori, designati a norma del diritto particolare o, se manca, dal Patriarca stesso con il consenso del Sinodo permanente.[311] Sia il Vescovo eletto sia quello nominato, per essere promossi all’episcopato, hanno bisogno entrambi della provvisione canonica, cioè della procedura di conferimento dell’ufficio. L’ordinando deve emettere la professione di fede, la promessa di obbedienza verso il Papa e, nelle Chiese patriarcali o arcivescovili maggiori, la promessa di obbedienza verso il Patriarca o l’Arcivescovo maggiore.[312] Si nota la differenza tra il nuovo Codice e quello latino: secondo il CCEO avvengono prima dell’ordinazione episcopale, mentre per il CIC prima della presa di possesso.[313]

Entro tre mesi dal giorno della proclamazione, l’eletto all’episcopato deve ricevere l’ordinazione episcopale e non più tardi di quattro mesi deve prendere possesso canonico dell’eparchia, se non ci sono legittimi impedimenti. La stessa norma vale per il Vescovo nominato dal Papa dal momento del ricevimento della lettera apostolica (can. 188 §1). La presa di possesso avviene con la cerimonia dell’intronizzazione, in cui viene data lettura la lettera patriarcale di provvisione o quella apostolica.

 

Diritti e doveri dei Vescovi eparchiali

<<E’ compito del Vescovo eparchiale governare l’eparchia affidatagli con potestà legislativa, esecutiva e giudiziaria […] Il Vescovo eparchiale esercita la potestà legislativa personalmente; esercita la potestà esecutiva sia personalmente, sia per mezzo del protosincello e dei sincelli; la potestà giudiziaria sia personalmente, sia per mezzo del Vicario giudiziale e dei giudici>> (can. 191, §1 e 2).

La potestà legislativa del Vescovo eparchiale non è delegabile, invece quella esecutiva (amministrativa) e quella giudiziaria possono essere delegate: quella giudiziaria può essere subdelegata solo per eseguire gli atti preparatori di un qualsiasi decreto o sentenza.

Il CCEO stabilisce tutta una serie di disposizioni di carattere pastorale e giuridico che riguardano l’esercizio della funzione del Vescovo eparchiale, i suoi diritti e i suoi doveri. Oltre i diritti ed obblighi a cui sono tenuti tutti i chierici, il Codice tratta quelli relativi al “munus” proprio del Vescovo, che si distingue nella triplice funzione di santificare, insegnare e governare.[314] Un rilevo particolare acquista la “sollecitudo” ossia quel diritto-dovere d’intervenire nelle vicende interne all’eparchia e nelle relazioni con le altre Chiese locali e con l’intera Chiesa universale.[315]

Il Vescovo eparchiale ha l’obbligo di vigilare sulla vita liturgica della sua eparchia, di offrire un esempio di santità, di celebrare le funzioni sacre, ha il vincolo di risiedere nella propria eparchia e di visitarne canonicamente ogni anno almeno una parte, in modo che ogni cinque anni l’intera eparchia, sia controllata per constatarne lo stato e il funzionamento canonico ed è tenuto a presentare, sempre ogni cinque anni, una relazione al Patriarca e inviarne copia anche alla Sede Apostolica.

Quando il Vescovo eparchiale compie settantacinque anni oppure, per infermità o altra grave causa, risulti meno idoneo all’adempimento del suo ufficio, è pregato di presentare la rinuncia alla sua carica, che va sottoposta rispettivamente al Patriarca o all’Arcivescovo maggiore, se si tratta di Vescovo eparchiale entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale o di quella arcivescovile maggiore; negli altri casi va presentata al Pontefice.[316] Per l’accettazione della rinuncia da parte del Patriarca o dell’Arcivecsovo maggiore, si richiede il consenso del Sinodo permanente, a meno che non vi sia stato in precedenza un invito a rinunciare da parte del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale o arcivescovile maggiore. Il Vescovo dimissionario, il quale ottiene il titolo di Vescovo emerito dell’eparchia già da lui governata, ha diritto ad un adeguato sostentamento; queste norme valgono anche per Vescovi coadiutori e ausiliari.[317]

I Vescovi orientali possono, partecipare alle Conferenze Episcopali, secondo il decreto conciliare “Christus Dominus” che tratta dell’ufficio dei Vescovi nei confronti della Chiesa sia universale sia particolare, in quanto  <<…alla Conferenza Episcopale appartengono tutti gli ordinari dei luoghi di qualsiasi rito…>>.[318] Il CIC stabilisce che queste istituzioni di diritto canonico latino possano essere composte da Vescovi di “un altro rito”, ma questi non possono avere voto deliberativo: gli orientali “invitati” hanno diritto di voto solamente consultivo.[319]

Il decreto “Christus Dominus” prescrive che tutte le Conferenze Episcopali devono avere i propri statuti, riconosciuti dalla Santa Sede per regolare il loro funzionamento. Il can. 450 del CIC dichiara che proprio questi statuti possono disporre diversamente per quanto riguarda la partecipazione alle Conferenze dei prelati orientali.[320] Le prescrizioni del Codice latino sono in contrasto con le decisioni del Concilio Vaticano II, ma le “adunanze interrituali”, previste dal decreto conciliare “Christus Dominus” (n. 38 h), nei territori dove esistono più Chiese di diverso rito, hanno sollevato molte critiche perché ritenute poco rispettose del principio di “pari dignità” delle Chiese orientali con quella latina, professato dal Vaticano II. I Vescovi orientali finivano per essere assoggettati alle decisioni giuridicamente vincolanti delle assemblee composte in maggioranza da prelati di rito latino.[321]

 

Gli organi coadiuvanti il Vescovo eparchiale nel suo governo

Nei cann. 42-428 del Motu Proprio “Cleri Sanctitati” troviamo le norme per le Chiese “sui iuris” che regolano l’istituzione canonica dell’Assemblea eparchiale (Conventus eparchialis). La Commissione per la revisione del CCEO ha basilarmente modificato questi canoni e l’elemento innovativo principale riguarda la presenza dei laici all’Assemblea. Non solo è omessa la clausola “laicis exclusis” del can. 424, §1 del “Cleri Sanctitati”, ma è stabilito che essi hanno il diritto di parteciparvi a condizione che il loro numero non superi un terzo del totale di tutti i membri. La Commissione ha dovuto tenere in considerazione anche il Codice di Diritto Canonico latino, che tratta l’argomento e la relativa disciplina nei cann. 460-468.

Il decimo punto del §1 can. 238 CCEO prevede che a questa assemblea possono partecipare <<…dei laici eletti dal consiglio pastorale, se esiste, altrimenti nel modo determinato dal Vescovo eparchiale, così che il numero dei laici non superi un terzo dei membri dell’assemblea eparchiale>>.

Il “conventus eparchialis” presta al Vescovo un’opera di aiuto in quelle cose che si riferiscono a speciali necessità o all’utilità dell’eparchia (can. 235); secondo il can. 236 è convocata quando le circostanze lo consigliano, ovviamente a giudizio del Vescovo e dopo avere consultato il consiglio presbiterale. L’origine dell’assemblea eparchiale, che non è un’istituzione nuova per le Chiese orientali, coincide per ordine temporale con l’istituzione del consiglio presbiterale del III secolo, un organo ordinario e permanente presso la sede episcopale con la funzione di prestare aiuto al Vescovo eparchiale nel governo della sua Chiesa locale. I Vescovi, fin dall’epoca suddetta, convocano oltre al consiglio presbiterale in circostanze straordinarie, tutto il clero della loro eparchia o il clero superiore per discutere argomenti importanti ed anche per conoscere il parere del clero circa le eresie sorte e che dilagavano sempre di più.  Dal V secolo in poi queste assemblee diventano una prassi consueta.[322] L’assemblea eparchiale è l’equivalente del Sinodo diocesano nel CIC; la diversa terminologia non indica, però, una diversa concezione tra la Chiesa latina e le Chiese orientali. In altre parole, le assemblee eparchiali sono dei consigli episcopali in cui vengono enunciati i pareri del clero dell’eparchia su vari temi, che poi verranno sottoposti al giudizio del consiglio episcopale permanente per la promulgazione dei relativi decreti.[323]

Durante i lavori preparatori del Codice orientale, il gruppo di studio, parlando di “conventus eparchialis”, ha inteso distinguere questa istituzione da quella dei Sinodi di diverse forme che non sono mai completamente consultivi in Oriente, sottolineando in tal modo che l’espressione “Synodus diocesana” sarebbe del tutto inadeguata.[324]

Fin dai primi secoli, nelle Chiese orientali è in vigore il principio secondo cui i Patriarchi e i loro Sinodi costituiscono la superiore istanza per qualunque questione del patriarcato: i Sinodi orientali hanno specifici compiti, il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale è l’organo legislativo e giudiziario di questa Chiesa. Una situazione del tutto diversa da quella dei Sinodi diocesani della Chiesa latina, organi consultivi convocati per aiutare i Vescovi diocesani[325] e anche da quella delle corrispondenti assemblee eparchiali, che non possono essere che un organo di sostegno con voto consultivo, in quanto il Vescovo eparchiale ha il potere legislativo, amministrativo e giudiziario.[326]

All’assemblea eparchiale, convocata e presieduta dal Vescovo dell’eparchia, a norma del can. 238 §1, devono partecipare il coadiutore e i Vescovi ausiliari; il protosincello, i sincelli, il vicario giudiziale, l’economo eparchiale, i consultori eparchiali, il rettore del seminario maggiore, i protopresbiteri,[327] almeno un parroco per ogni distretto, i membri del consiglio presbiterale e alcuni delegati del consiglio pastorale, vari diaconi, i superiori dei monasteri “sui iuris” e alcuni superiori degli altri istituti di vita consacrata che hanno nell’eparchia una casa; infine i laici eletti dal consiglio pastorale in numero tale da non superare un terzo dei membri dell’assemblea eparchiale. Quest’ultima partecipazione rappresenta l’innovazione principale della revisione del Codice in materia di assemblea eparchiale nei confronti del motu proprio “Cleri Sanctitati”.[328] A norma del can. 243 §1, il Vescovo eparchiale deve avere la curia eparchiale, cioè organismi e persone che aiutano il Vescovo nel dirigere l’attività pastorale, nel curare l’amministrazione dell’eparchia come anche nell’esercitare la potestà giudiziaria.[329]

In ogni eparchia si deve costituire il protosincello, che nel “Cleri Sanctitati” è detto sincello, che corrisponde al vicario generale della Chiesa latina e ogni volta in cui è necessario per il governo dell’eparchia possono essere costituiti uno o più sincelli (corrispondenti ai vicari episcopali).

Il “syncellus”, di etimologia greca, significa “insieme+cella” per indicare il vivere insieme nella stessa cella, fu in origine il frate compagno del monaco che era stato eletto Vescovo, commensale e confidente, egli spesso diveniva molto potente e, rimasta vacante la sede, non raramente succedeva nella carica di Vescovo o di Patriarca. L’incarico del sincello fu molto ambito, conobbe un eccezionale sviluppo tanto che furono creati titoli come protosyncellus (primo sincello).[330] L’ufficio del protosincello consiste nell’aiutare, con potestà ordinaria vicaria di cui è provvisto a norma del diritto comune, il Vescovo eparchiale nel governo dell’intera eparchia: il protosincello partecipa ai poteri esecutivi del Vescovo entro limiti stabiliti dalla legge.[331] Anche i sincelli partecipano ai poteri esecutivi del Vescovo entro certi limiti, ossa hanno la medesima potestà di governo ordinaria vicaria del protosincello relativa ad una determinata parte dell’eparchia o in un determinato genere di affari, oppure nei riguardi dei fedeli cristiani ascritti ad un’altra Chiesa “sui iuris” o di un determinato raggruppamento di persone.(can. 246). Il protosincello ed i sincelli sono nominati dal Vescovo eparchiale e da lui possono essere rimossi senza impedimenti (can. 247 §1); devono essere sacerdoti celibi, a meno che il diritto particolare non stabilisca diversamente, di età non inferiore ai trent’anni, laureati o licenziati o almeno esperti in qualche scienza sacra (can. 247 §2).

Nella curia eparchiale deve, inoltre, essere costituito il “cancelliere” (presbitero o diacono) con il compito di vigilare che siano redatti e sbrigati gli atti della curia e che siano conservati nell’archivio: è il notaio della curia. Oltre al cancelliere possono essere costituiti altri notai.[332]

Il Vescovo eparchiale, dopo aver consultato il Collegio dei consultori eparchiali e il Consiglio per gli affari economici, deve nominare un “economo eparchiale”, fedele cristiano ed esperto in economia, nominato per un tempo determinato dal diritto particolare di ciascuna Chiesa “sui iuris”, ha la funzione di amministrare i beni dell’eparchia, provvedere alla loro conservazione, tutela ed incremento; ha l’obbligo di rendere conto dell’amministrazione al Vescovo ogni anno e tutte le volte che quest’ultimo lo richiede.[333] Il “Consiglio per gli affari economici”, presieduto dal Vescovo eparchiale, deve preparare ogni anno il conto dei proventi e delle spese, cioè il bilancio preventivo, che si prevedono nell’anno seguente ed approvare a fine anno il consuntivo delle entrate e delle uscite.

Appartengono, infine, alla curia eparchiale il “vicario giudiziale”, il “difensore del vincolo” e il “promotore di giustizia”, come nella Chiesa latina particolare.

Nell’eparchia deve essere costituito il “Consiglio presbiterale”, formato da un gruppo di sacerdoti che rappresenta il presbiterio e aiuta il Vescovo nell’attività pastorale. La sua natura è consultiva.[334]

Il Vescovo eparchiale deve anche costituire il “Collegio dei consultori”, nominando alcuni membri del consiglio presbiterale per un periodo di cinque anni, con un compito misto: sia pastorale che amministrativo. Questa istituzione è una novità sia del CIC sia del CCEO.[335]

Il “Consiglio pastorale” è un organo possibile dell’eparchia, ha il compito di studiare, valutare e proporre conclusioni in ordine all’attività pastorale nell’eparchia.[336]

 

Le parrocchie ed i parroci

Le norme del CCEO circa le parrocchie ed i parroci riprendono quelle corrispondenti del CIC. In base al can. 279 la parrocchia è <<… una determinata comunità di fedeli cristiani, stabilmente costituita in un’eparchia, la cui cura pastorale è affidata ad un parroco>>. Spetta al Vescovo eparchiale erigere, modificare e sopprimere le parrocchie, previa consultazione del consiglio presbiteriale, che come le Chiese “sui iuris”, le province, le eparchie ecclesiastiche e gli esarcati sono persone giuridiche.

Il diritto di nominare i parroci spetta esclusivamente al Vescovo eparchiale, il quale sceglie tra i presbiteri con fama di buoni costumi e di altre virtù richieste dal Codice. Se il presbitero è coniugato, si richiede un contegno irreprensibile anche per la moglie e per i figli. Il parroco ottiene la “cura delle anime” dalla provvisione canonica, ma può esercitarla lecitamente solo dopo la presa del possesso canonico della parrocchia.[337] Nel caso di scarsità di sacerdoti il CCEO provvede affidando allo stesso parroco la cura di più parrocchie vicine, mentre nel Codice latino il Vescovo diocesano può affidarle ad un diacono o ad una persona non insignita del carattere sacerdotale.[338]

 

Gli esarcati e gli esarchi

Il “Cleri Sanctitati” menzionava tre specie di Esarchi: quelli con proprio territorio, quelli apostolici e quelli patriarcali e arcivescovili. Il CCEO non ha mantenuto questa divisione, ma parla generalmente di esarcati e di Esarchi.[339] Il can. 311 definisce l’esarcato come <<… una porzione del popolo di Dio che, per speciali circostanze, non viene eretta in eparchia e che, circoscritta da un territorio o con un qualche altro criterio, è affidata alla cura pastorale di un Esarca>>. “Exarcha” ed “exarchia” sono termini greci che riflettono le categorie dell’amministrazione civile. Nei secoli IV e V il Vescovo capo di una diocesi civile era chiamato Esarca, Arcivescovo e più tardi Patriarca.[340]

Per quanto riguarda l’erezione, modificazione e soppressione di un esarcato, se questo è situato entro i confini del territorio di una Chiesa patriarcale, si applica il can. 85 §3, secondo cui spetta al Patriarca erigere, mutare e sopprimere gli esarcati, informando la Sede Apostolica; per tutti gli altri esarcati è competente la sola Sede Apostolica.

L’Esarca può essere nominato dal Patriarca o dal Papa a governare un esarcato o in loro nome o in nome proprio, in questo caso esercita la potestà di governo ordinaria, annessa dal diritto stesso al suo ufficio, e propria; nel primo caso, invece, esercita la potestà di governo ordinaria vicaria.

Secondo il can. 313, le norme relative alle eparchie ed ai Vescovi eparchiali valgono anche per gli esarcati e per gli Esarchi, a meno che non sia diversamente disposto.[341] Un esarcato è l’equivalente del vicariato apostolico o della prefettura apostolica del Codice latino.[342]

 

Gli amministratori apostolici

Il CCEO dedica solo un canone alla figura giuridica dell’amministratore apostolico: can. 234 §1. <<Talvolta il Romano Pontefice per gravi e speciali cause affida il governo di una eparchia, a sede piena oppure vacante, a un amministratore apostolico. §2 I diritti, i doveri e privilegi dell’amministratore apostolico si desumono dalla lettera della sua nomina>>.(can. 234 §2)

Nel “Cleri Sanctitati” la norma era così formulata: <<Talvolta il Romano Pontefice per gravi e speciali cause affida stabilmente o a tempo [in perpetuum vel ad tempus] il governo di una eparchia, a sede piena oppure vacante, a un amministratore apostolico>>. Il CIC, invece non comprende più questa figura. Durante la revisione del CICO è stato proposto di sopprimere questo canone, ma la proposta non è stata accettata e il canone è rimasto con un solo emendamento: l’omissione delle parole “vel in perpetuum vel ad tempus”, poiché è difficile concepire un amministratore “in perpetuum” di un’eparchia del territorio di una Chiesa patriarcale.[343]La suddetta proposta, come altre fatte durante i lavori preparatori del Codice, tendono ad evidenziare che questa figura giuridica non è nota alla tradizione orientale e perciò non era opportuno reintrodurla nel Codice.[344]

 

CONCLUSIONI

Questo lavoro, come già detto nella premessa, non ha la pretesa di avere trattato esaurientemente una storia tanto complessa e vasta come quella delle Chiese orientali, abbiamo cercato di coglierne alcuni aspetti fondamentali. Fin dagli inizi la Chiesa si configurò come una comunità di credenti, ma come tutte le comunità anche questa aveva bisogno di un’organizzazione con leggi e uomini che le facessero rispettare, insomma una comunità regolata, chiaramente anche il governo della Chiesa ha avuto un’evoluzione nel corso dei secoli, adattando la sua normativa alle necessità contingenti. Le Chiese orientali hanno sempre accettato l’istituto vescovile e poi quello patriarcale, anche se molte divergenze si sono avute sull’interpretazione da dare al primato del Pontefice e sulla teologia dello Spirito Santo: al Concilio di Sardica (343) venne stabilito che in caso di contese tra Cristiani, il giudizio del Vescovo di Roma sarebbe stato fondamentale. Nel 1955, il Pontificio Consiglio per l’Unità, con la pubblicazione del “Le tradizioni greca e latina riguardo alla processione dello Spirito Santo”, ha dimostrato come le incomprensioni di carattere linguistico abbiano influenzato la controversia tra Latini e Greci sul “Filioque”, evidenziando quanto le due posizioni siano più vicine di quanto sembri a prima vista. Cristo ha fondato una sola Chiesa, quindi non ha molto senso la locuzione “Chiese orientali”, anche se si differenziano da quella latina per i riti liturgici celebrati da popoli molto diversi per lingua, cultura e religioni preesistenti; nel Vangelo è scritto semplicemente di andare “in tutto il mondo” (Mc. 16, 15) senza distinzione tra Oriente ed Occidente. Se in passato ci sono state tante questioni che hanno diviso la Chiesa, attualmente il problema è molto più complicato con la mescolanza di varie etnie, ma quale migliore augurio se non che queste Chiese possano vivere in comunione tra loro?

NOTE

[1] Concilio Vaticano I: Denz.-Schonm., 3004; cf 3026; Concilio Ecumenico Vaticano II, Dei.

2 Cfr. O. Bucci, Il codice di diritto canonico orientale nella storia della Chiesa, in Apollinaris 55 (1982), pp. 370-488.

3 Cfr. A. Giannini, Dottrina sulla codificazione del diritto canonico orientale, in Ephemerides iuris canonici 48 (1992), pp. 29-30.

4 Pubblicazione del diritto matrimoniale con il motu proprio “Crebrae Allatae” del 22 febbraio 1949 di 131 canoni  che entrarono in vigore il 2 maggio seguente. Cfr. Prefazione al CCEO, Enchiridion Vaticanum: documenti ufficiali della Santa Sede 1990, 12, Bologna 1992, pp. 49-51.

5 Pubblicazione del diritto processuale con il motu proprio “Sollecitudinem nostram” del 6 gennaio 1950. I canoni entrarono in vigore dopo un anno. Cfr. Ibid.

6 Furono pubblicati con motu proprio “Postquam Apostilicis Litteris” ed entrarono in vigore il 21 novembre 1952. Cfr. Ibid.

7 Entrò in vigore il 15 agosto 1958. Cfr. Ibid.

8 Il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) ha approvato 16 documenti: 4 costituzioni, 9 decreti e 3 dichiarazioni, tra questi, quelli che riguardano le Chiese orientali cattoliche sono: la Costituzione dogmatica “Lumen Gentium”, il decreto “Orientalium Ecclesiarum” e il decreto “Unitatis Redintegratio”. Cfr. A. Agnoletto, Storia del Cristianesimo, Milano 1978, p. 378; J. Faris, La storia della codificazione orientale, in Il Diritto Canonico Orientale nell’ordinamento ecclesiale, a cura di K. Bharanikulangara, Città del Vaticano 1995, pp. 262-263. La prima riguarda la Chiesa universale, l’unità della fede, nonostante l’esistenza di una “varietas” di chiese locali fondate in vari luoghi dagli apostoli e dai loro successori. Cfr. “Lumen Gentium”, n. 13. Nel decreto “Orientalium Ecclesiarum risulta importante l’affermazione “Aequalis dignitas Ecclesiarum Orienti set Occidentis”. Vi è pari dignità e le Chiese d’Oriente hanno il diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolrari, poiché “in esse risplende la tradizione apostolica tramandata dai Padri”, perché di “veneranda antichità” e perché questa tradizione “costituisca   parte del patrimonio rivelato ed indiviso della Chiesa universale”. Il decreto OE introduce numerose modifiche disciplinari e traccia, contemporaneamente, le linee per un rinnovamento e un ripristino delle antiche ed autentiche tradizioni delle Chiese orientali, Ciò è stato molto importante per evitare presso gli orientali motivo di timore di latinizzazione delle loro Chiese, cioè che il nuovo “Codex Iuris Canonici” servisse come modello per il nuovo diritto canonico orientale, come avvenne nella legislazione orientale precedente. L’ultimo documento, il decreto “Unitatis Redintegratio” tratta dei rapporti con i Cristiani orientali non cattolici, ma ortodossi. Cfr. D. Salachas, Istituzioni di diritto canonico delle Chiese cattoliche orientali. Strutture ecclesiali nel CCEO, Bologna 1993, pp. 48-49; “Orientalium Ecclesiarum”, nn. 1-4; “Unitatis Redintegratio”, nn. 14 e 16.

9 Cfr. N. Edelby, Unità o pluralità delle codificazioni? E’ necessario un codice speciale per le Chiese orientali?, in Concilium 8 (1967), pp. 50.51

10 “Lumen Gentium”, n. 13.

11 Cfr. J. Faris, op. cit…,p. 262.

12 Cfr. “Ecclesiarum Orientalium”, nn. 7-8-9.

13  “Nuntia” 3 (1976), p. 3.

14 Cfr. Lettera della Segreteria di Stato, n. 278.287/G.N., del 27 febbraio 1991.

15Cfr. “Pastor Bonus, art. 155.

16 Cfr. E. Eid, La revisione del codice di diritto canonico orientale alla luce del decreto conciliare “Orintalium Ecllesiarum”, in “Nuntia” 20 (1985), pp. 128-131. Il primo principio direttivo richiede un codice unico per tutte le Chiese orientali cattoliche. Il secondo principio direttivo afferma la necessità del “carattere orientale” del codice, l’ispirazione di questo deve essere rivolta alle “autentiche fonti orientali” conformandosi con la tradizione canonica orientale sotto ogni aspetto. Secondo un altro principio è sottolineato il “carattere ecumenico” del codice, perché le Chiese orientali cattoliche “fioriscono ed assolvono con nuovo vigore apostolico la missione loro affidata” (OE, n. 1); per quanto riguarda sia il bene dei fedeli sia “il compito di promuovere l’unità di tutti i Cristiani, specialmente orientali” (OE, n. 24). Gli altri principi riguardano il carattere giuridico e pastorale del codice e la revisione del diritto penale. Il principio di sussidiarietà, infine, ha speciale importanza data la struttura particolare delle Chiese che fanno capo ad una autorità che partecipa del potere sopraepiscopale del Papa, come sono i Patriarchi, gli Arcivescovi maggiori ed i Sinodi. Il nuovo codice si limiterà alla codificazione delle discipline comuni a tutte le Chiese orientali, lasciando ai loro vari organismi la facoltà di regolare con il diritto particolare le altre materie non riservate alla Santa Sede.

17 Il Papa all’Angelus del 7 ottobre 1990 fa il seguente annuncio: “Sono lieto di annunciare che il prossimo 18 ottobre, festa di San Luca Evangelista, promulgherò ufficialmente il Codice dei Canoni delle Chiese orientali e, il successivo 25 ottobre avrà luogo la sua solenne presentazione nella Congregazione Generale del Sinodo dei Vescovi…”. “Nuntia” 31 (1990), p. 6.

18Le parti già promulgate erano i quattro “mutu  proprio” di Pio XII: 1949, “Crebrae allatae”, contenente il diritto matrimoniale; 1950, “Sollicitudinem Nostram”, riguardante il diritto processuale; 1952, “Postquam Apostolicis Litteris”, relativamente ai Religiosi e ai beni temporali; 1957, “Cleri Sanctitati”, concernente il diritto  relativo ai “Riti”, alle persone fisiche e morali: “De personis”.

19Cfr.  Nuntia 1 (1975), pp. 11-18.

20 Cfr. Nuntia 31 (1990), pp. 37-45.

21 Cfr. G. Feliciani, Le basi del Diritto Canonico, Bologna 1993, pp. 43-44.

22 Cfr. Tradizione italiana del discorso del Santo Padre, in “Nuntia” 31 (1990), pp.18-20.Unico “Corpus Iuris Canonici”, in quanto il CIC, il CCEO e la costituzione “Pastor Bonus” sono stati elaborati per realizzare il regno dell’Amore e dunque anche il nuovo CCEO funga da “vehiculum caritatis”. Cfr. I. Zuzek, Riflessioni circa la Costituzione apostolica “Sacri Canones” (18 ottobre 1990), in “Apollinaris 65 (1992), pp. 53-56.

23Costituzione “Sacri Canones”, in CCEO, 1990. Questa immagine viene utilizzata per la prima volta dal poeta russo Vjacieslav Ivanov (1866-1949), il quale, desiderando appartenere alla pienezza della Chiesa, aderisce alla Chiesa cattolica nel 1926, senza abbandonare però le ricchezze spirituali della Chiesa ortodossa. Cfr. G. Nedungatt, Presentazione del CCEO, Enchiridion Vaticanum: Documenti ufficiali della Santa Sede, Bologna 1992, 12, p. 889.

24Cfr. G. P. Montini, Il Codice per le Chiese Orientali. Presentazione generale del CCEO, in “Quaderni di Diritto Ecclesiale (1991), pp. 205-206.

25 La divisione in titoli è stata favorita dai Pontefici fin dall’inizio della codificazione orientale per fedeltà alla tradizione delle Collezioni canoniche orientali. Cfr. E. Eid, Discorso di S. E. Mons. Emilio Eid alla presentazione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali al Sinodo dei Vescovi, 25 ottobre 1990, in “Nuntia” 31 (1990), p. 29. Il Codice consta di 1546 canoni e di 30 titoli, di cui il primo enuncia i diritti e i doveri dei fedeli; i titoli II-IX sono dedicati alla struttura gerarchica; dei chierici, dei laici, dei religiosi e delle associazioni di fedeli si occupano i titoli X-XIII. Fanno seguito i canoni relativi al magistero ecclesiastico (tit. XV), al culto divino (tit. XVI), ai beni temporali (tit. XXIII), ai giudizi (tit. XXIV-XXVI), alle sanzioni (tit. XXVII-XXVIII); mentre delle fonti del diritto, della prescrizione e del computo del tempo viene trattato nei due titoli conclusivi (tit. XXIX-XXX).

26 Ibid.

27 Cfr. G. Nedungatt, The title of the New Oriental Code, in “Studia Canonica 25/2 (1991), pp. 465-476.

28 Cfr. G. Nedungatt, Presentazione…, pp. 895-896; R. Metz, Les deux Codes: le Code de Droit Canonique de 1983 et le Code des Canons des Eglises Orientales de 1990, in “L’année canonique 39 (1997), pp. 75.76. Nel 1990, anno della promulgazione del CCEO, i Cristiani orientali nella comunione cattolica erano circa quindici milioni, contro i centocinquanta milioni dei fedeli delle Chiese ortodosse. Cfr. Nedungatt, Presentazione…, p. 892.

29 Cfr. D. Salachas, Le novità del “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” a proposito del Primato romano, in “folia canonica”, Review of Eastern and Western Canon Law 1998. WWW.kjpi.ppke.hu/kiadva/fc_01_06.htm

30 Ibid.

31 Ibid.

32 Ibid.

33 Ibid.

34 Cfr. H. Kung, La Chiesa, Brescia 1976, pp. 318-321.

35 Cfr. S. Ferrari, L’Ordinamento giuridico della Chiesa Cattolica. Lo sviluppo Storico, CUEM, Milano 1998, p. 29 e segg. Cfr. anche H. Kung, La Chiesa, “Biblioteca di Teologia contemporanea”, Brescia 1967, pp. 318-321.

36 Cfr. L. Duchesne a cura di, Le Liber pontificialis, I, Paris 1886, pp. 207-10.

37 Teodora voleva ad ogni costo convincere papa Silverio a mitigare le sue posizioni anti-monofisite e sperava, in particolare, di poter far rieleggere Antimo, Patriarca monofisita di Costantinopoli, il quale era stato scomunicato e deposto da papa Agapito I. Vigilio, nel suo interesse, era propenso ad assecondare i piani dell’imperatrice, che si era impegnata a metterlo sul soglio pontificio al posto di Silvestro, ma Teodora aveva bisogno di Belisario per realizzare il suo piano ed anche di Antonina, moglie del generale e già sua dama di compagnia. Con una missiva contraffatta il papa fu accusato di essersi accordato con il re goto Vitige che stava assediando Roma e che prometteva al re di aprirgli la porta Asinara, pressi il Laterano, in modo da consentire l’ingresso dei Goti e liberare Roma dai Bizantini. L’11 marzo, Belisario invitò il Papa per scagionarsi, ma Silverio non riuscì a controbattere le accuse pronunciate da Vigilio e Antonina, quindi fu arrestato, spogliato degli abiti pontificali, vestito con una semplice tonaca monacale e spedito in esilio a Patara, in Licia. Fu annunciato al popolo che Silverio non era più papa e il 29 dello stesso mese , su imposizione di Belisario, Vigilio fu consacrato vescovo di Roma. Il Vescovo di Pataria, indignato per la sorte del pontefice, si recò a Costantinopoli per protestare presso Giustiniano dicendo che nel mondo c’erano molti re ed un solo papa, il quale era stato cacciato dalla sua sede. L’imperatore rimandò a Roma Silverio e ordinò a Belisario di istruire una nuova inchiesta, se fosse risultato che la lettera riguardante il presunto complotto a favore dei goti era contraffatta, Silverio sarebbe stato reintegrato come papa. Contemporaneamente fu consentito a S. di tornare in Italia, ma Belisario, sotto la pressione di Antonina e Vigilio, manovrati da Teodora, lo fece deportare nell’isola disabitata di Palmaria, oggi Palmarola, una delle isole dell’arcipelago pontino. L’11 novembre, Silverio fu probabilmente costretto ad abdicare firmando un documento in cui rinunciava al ministero di vescovo di Roma in favore di Vigilio. Il 2 dicembre dello stesso anno morì a causa delle dure privazioni e del trattamento subito. Secondo il Liber Pontificalis fu sepolto il 20 giugno sull’isola, contrariamente a quelli di altri papi morti in esilio, i suoi resti mortali non furono mai trasferiti a Roma e il suo sepolcro divenne centro di miracoli e meta di pellegrinaggi. Cfr. J.N. D. Kelly, Gran Dizionario Illustrato dei Papi, Casale Monferrato, Edizioni Piemme S.p.A, 1989,  p. 168; O. Bertolini, La fine del pontificato di papa Silverio in uno studio recente, “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, 47, 1924, pp. 325-43.

38 Cfr. S. Ferrari, L’Ordinamento… cit., p. 29 e segg.

39Ibid.

40 Ibid.

41 Ibid.

42 J. Danie Lou-H. Marrou, Nuova Storia della Chiesa, II, Torino 1970, p. 357.

43 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo orientale, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 80 e segg. Inizialmente ci fu rivalità tra Costantinopoli e Alessandria conclusasi con la sconfitta di quest’ultima, in seguito si aprì un serio conflitto tra Roma e i Patriarchi d’Oriente, che trovava le sue radici sia nella posizione politica dei Vescovi di Roma, che venivano considerati sempre più come capi temporali, oltre che spirituali, sia nella convinzione che i Papi fossero i successori di San Pietro e, come tali, dotati di speciali prerogative.

44 Ibid.

45 Ibid., p. 81.

46 Cfr. G. Tabacco-G. G. Merlo, Medioevo, Il Mulino, Bologna 1981, p. 70 e segg.

47 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo…cit., p. 81 e segg.

48 Organizzò grossi gruppi di penitenti-asceti: i cenobiti, conviventi in edifici comuni, in rigida obbedienza a un abate e dediti a lavori artigianali, pastorali, agricoli, all’assistenza degli infermi e dei pellegrini, oltre che a pratiche di astinenza, lettura e meditazione delle Sacre Scritture e alla recitazione diurna e notturna dei Salmi biblici. Cfr. G. Tabacco-G. G. Merlo, Medioevo… cit., p. 73 e segg.

49 Ibid.

50 “Non avrai altro Dio fuori che me. Non fare nessuna scultura, né immagine delle cose che splendono su nel cielo, o sono sulla terra, o nelle acque sotto la terra. Non adorare tali cose, né servir loro, perché io, il Signore Iddio tuo, sono un Dio geloso…”. Esodo: Decalogo, 20: 3-5.

51 Nel 726, Leone III fece allontanare da un portone del palazzo una celebre raffigurazione di Cristo, costrinse a dimettersi il Patriarca Germano, che richiedeva una decisione conciliare per questa politica avversa alle immagini e nominò al suo posto l’iconoclasta Anastasio. Cfr. J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa Cattolica, Torino 1989, p. 402.

52 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 95 e segg.

53 Ibid.

54 Al Concilio parteciparono 338 vescovi orientali, ma nessun Patriarca era presente. L’Imperatore nominò successore di Anastasio, morto di recente, Costantino II di Costantinopoli; Presidente dell’assemblea fu l’iconoclasta Teodosio, vescovo di Efeso. Gli atti del Concilio non furono conservati, ma da quelli del Secondo Concilio di Nicea veniamo a conoscenza del decreto finale dell’assemblea di Hieria, che ci informano della condanna della venerazione delle icone non solo come atto di idolatria, ma come vera e propria eresia, poiché un’icona di Cristo non può che rappresentarlo o con le due nature divina e umana fuse insieme (monofisismo), o solamente come uomo (nestorianesimo). Cfr. J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica… cit., p. 402; L. D. Davis, The First Seven Ecumenical Councils (325-787): Their History and Theology . Wilminton, Del: M. Glazier, 1987, p. 302.; W. T. Treadgold, A History of the Byzantine State and Society, Stanford University Press 1997, p. 361.

55 Inizialmente si riunì a Costantinopoli nel 786 e dopo un’interruzione fu di nuovo convocato nel 787. Questo Concilio costituì l’elemento di chiusura dei lavori di definizione dogmatica e da allora la Chiesa ortodossa non riconosce più alcuna autorità ai Concili successivamente convocati in Occidente. Cfr. J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., p. 403.

56 Ricordato tutt’oggi come “Festa dell’ortodossia e celebrato la prima domenica di Quaresima. Cfr. Ibid.; si veda anche N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 96.

57 Adriano I e Leone III difesero il Concilio e la formulazione del simbolo niceno-costantinopolitano senza il “Filioque”. Il punto centrale della controversia era il termine latino “Filioque”, la frase contestata era quella che riferisce la relazione tra lo Spirito Santo e le altre persone della Santa Trinità. I Vescovi occidentali, diversamente da quelli orientali, sostenevano che nel Credo fosse inclusa questa parola. Il Credo, così come era stato sancito a Costantinopoli e poi approvato definitivamente dai Vescovi occidentali e orientali nei Concili successivi, si rifaceva al Vangelo di Giovanni (XV, 26), dove è detto che lo Spirito Santo procede dal Padre, quindi dal punto di vista storico avevano Ragione i Vescovi orientali. Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 99.

58 Lo zar Boris voleva da Costantinopoli una Chiesa indipendente con a capo un Patriarca, ma non vedendosi accontentato, espresse questo suo desiderio a Roma e chiamò chierici franchi nel Paese, che con la loro attività introdussero i riti occidentali e il concetto del “Filioque”, rendendo l’atmosfera incandescente.Vi fu un’aperta condanna verso questa evangelizzazione (Enciclica emanata da Fozio nell’867), una contestazione della disciplina ecclesiastica introdotta (celibato ecclesiastico) e una condanna  per eresia della dottrina romana (Filioque). Cfr. J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa…. cit., p. 404; N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 99 e segg.

59Fozio, uomo molto colto, fu eminente funzionario civile e nonostante laico, grande fu la sua fama di teologo. Nell’857 il Patriarca di Costantinopoli venne deposto dall’Imperatore Michele III (l’Ubriaco) e al suo posto venne nominato Fozio, dopo avere ricevuto affrettatamente gli ordini, ma Nicolò I non volle riconoscerlo come Legittimo Vescovo e inviò due legati a Costantinopoli per indagare su questa elezione, come era suo diritto. Nella lettera accennò anche alla possibilità di riconoscere valida tale elezione se le province ecclesiastiche dell’Italia meridionale e dell’Illiria fossero state restituite alla sua giurisdizione, dopo che erano state tagliate fuori durante la disputa iconoclasta. Nell’861 venne indetto un Concilio a Costantinopoli presieduto dai due legati pontifici, in cui fu dichiara la legittimità dell’elezione di Fozio, il Papa, contento del riconoscimento della sua autorità, fu altrettanto contrariato per non avere ottenuto la restituzione delle province, perché l’Illiria coincideva in parte con la Bulgaria, il cui sovrano (Boris) era intenzionato a convertirsi con il suo popolo al Cristianesimo: evento molto importante per il Papa. In seguito ci fu un’astiosa corrispondenza tra Roma e Costantinopoli e la questione della Bulgaria acquisì un’importanza capitale, ad aggravare la situazione ci fu l’ambigua politica dello zar Boris, che portò gli antagonisti ad accusarsi di allontanamento dalla tradizione apostolica e ad attribuirsi innovazioni eretiche. Lo zar cercava di barcamenarsi tra Roma e Costantinopoli e nell’866 due Vescovi latini arrivarono in Bulgaria portando al sovrano una lunga epistola del Pontefice in risposta ai suoi interrogativi, in cui il Papa metteva in guardia i Bulgari e scagliava violente accuse contro i Greci, i quali furono molto indignati da tutto questo e Fozio convocò un Sinodo a Costantinopoli (867), in cui venne condannato l’operato del Pontefice: l’evangelizzazione svolta dai missionari romani, contestazione della disciplina ecclesiastica, compreso i celibato ecclesiastico, ma soprattutto l’insegnamento eretico riguardante la discendenza dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, riaprendo la controversia del “Filioque”. Nell’876 Nicolò I morì e Fozio venne destituito dalla sua carica di Patriarca dal nuovo Imperatore Basilio, il quale elesse al suo posto Ignazio, già Patriarca prima di Fozio, ma alla morte di Basilio fu di nuovo rieletto Fozio, che riallacciò i rapporti con Roma, mettendo fine allo scisma. Fozio fu poi deposto una seconda volta dall’Imperatore Leone VI il Sapiente (886) e morì in esilio senza più far parlare di sé  nell’891. Durante questo tempo, lo zar Boris aveva di nuovo cambiato opinione e nell’869 estromise il Vescovo latino e fece tornare i Greci, in tal modo il suo regno fu definitivamente assorbito nell’orbita dell’ortodossia bizantina. Cfr. A. Agnoletto, Storia del Cristianesimo… cit., pp. 143-144; J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., pp. 404-405; N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., pp. 104-205.

60 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit, p. 102 e segg.; J. Danié Lou-H. Marrou, Nuova storia della Chiesa, II, Torino 1970, p. 120 e segg.

61 La fede nell’uguaglianza di tutti i Vescovi era basata sulla dottrina esposta da Ignazio di Antiochia, secondo la quale la Chiesa è pienamente manifesta dove il Vescovo, rappresentante del sacerdozio etrerno di Cristo, celebra l’Eucaristia in presenza dei fedeli. Cfr. J. Danié Lou-H. Marrou, Nuova storia… cit. pp. 121-122.

62 Nella sua opera “De Spiritu Sancti Mystagogia” Fozio dimostra che questa dottrina sovverte l’equilibrio tra unità e diversità all’interno della Trinità. Cfr. J. Danié Lou-H. Marrou, Nuova storia… cit. pp. 121-122.

63 Ibid.

64 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 98 e segg.

65 Ibid. L’alterazione del testo del Credo sembra sia avvenuta in Spagna nel VI o VII secolo, probabilmente per un errore dovuto alla poca cultura del clero spagnolo, il quale  ritenne che la clausola “Filioque” si trovasse nella versione originale, forse spinto dal desiderio di far risaltare l’uguaglianza tra il Padre e il Figlio, negata dagli Ariani. Questa modifica si diffuse in Gallia e in Bretagna, ma rimase una peculiarità delle Chiese locali barbariche, non toccando la suscettibilità dell’Oriente. La controversia nacque quando i Vescovi carolingi incolparono gli Ortodossi di avere abolito il termine “Filioque”, che in realtà non era mai esistita.

66 Secondo il diritto canonico bizantino, il secondo e il terzo matrimonio erano validi, ma il quarto non poteva essere riconosciuto legalmente. Il matrimonio dell’Imperatore Leone VI non fu riconosciuto dal Patriarca Nicolò I il Mistico, conformemente a quanto detto sopra, ma fu riconosciuto da Papa Sergio III, conseguenza di questo fu che il nome del Pontefice fu cancellato dai dittici (tavolette della prece eucaristica) e il Patriarca deposto, ma in seguito fu rimesso al suo posto e pregò Papa Giovanni X di inviare i suoi rappresentanti. A Costantinopoli il documento di riunificazione (920)

aveva proibito le quarte nozze, ciò venne accettato sia da un Sinodo (921) sia dai legati pontifici, conseguentemente il nome del Papa fu reinserito nei dittici e da allora la tetragamia  è vietata nella Chiesa ortodossa mentre quella occidentale non conosce una simile limitazione. Cfr. J. Danié Lou-H. Marrou, Nuova storia… cit. pp. 130-131; J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., p. 406.

67 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 108 e segg.

68 Ibid.

69 Ibid., p. 110

70 Il Patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario era un uomo di volontà ferma e risoluta, inflessibile sostenitore della disciplina e consapevole dell’altissima dignità del posto che occupava e aveva una popolarità maggiore di quella dell’Imperatore. Nella sua propaganda per l’unità aveva sostenuto che l’uso del pane azzimo nell’Eucaristia era un’innovazione eretica. Dato che per fedeli della Chiesa armena era consuetudine seguire questa usanza, essi avevano obiettato dicendo che Roma e tutto l’Occidente erano dalla loro parte, Michele Cerulario indignato da questa risposta, nel 1052, aveva ordinato al clero latino di Costantinopoli di seguire l’usanza greca, ma di fronte al rifiuto del clero, fece chiudere tutte le Chiese di rito latino. Il Patriarca fece scrivere una lettera a Leone, Arcivescovo di Ocrida, indirizzata a Giovanni  Vescovo greco di Trani, in cui venivano aspramente criticati gli usi liturgici occidentali e condannato sia l’uso del pane azzimo, sia l’osservanza del digiuno al sabato durante la Quaresima, infine fu condannato anche il modo di cantare l’Alleluia .Cfr. Ibid.

71 Michele Cerulario trattò i legati pontifici arrivati a Costantinopoli da ignoranti della tradizione apostolica, mettendo perfino in dubbio l’autenticità dei sigilli del documento recante la delegazione. Umberto da Silva Candida cercò di spiegare all’Imperatore che un’alleanza  tra Impero e Papato poteva essere conclusa solamente a condizione che il Patriarca si sottomettesse al Papa, ma Michele Cerulario ostacolò tutti i negoziati, nonostante l’Imperatore cercasse di arrivare ad un compromesso con i legati pontifici. La scelta del Cardinale Umberto da Silva Candida come capo della delegazione non favorì la riconciliazione, perché egli fu sostenitore accanito della riforma e non certo simpatizzante per la Chiesa orientale, quindi l’atmosfera che si venne a creare non fu propizia ad una riconciliazione. Il Cardinale cercò l’appoggio dell’Imperatore, sottovalutando il potere del Patriarca che trattò come un subalterno; nel frattempo giunse a Costantinopoli la notizia della morte del Pontefice, prigioniero dei Normanni, Michele reagì a questa notizia sospendendo subito ogni contatto con la delegazione , dichiarando non più valide le loro credenziali. Dal canto suo Umberto approfittò della morte del Papa per agire secondo la sua volontà e il 16 luglio 1054 scomunicò il Patriarca con i suoi sostenitori, deponendo una bolla, da lui redatta, sull’altare della Chiesa di Santa Sofia durante la celebrazione dell’Eucaristia e davanti alla folla sbigottita uscì dalla Chiesa gridando : “videat Deus et iudicet”. Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 110 e segg.; J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., pp. 408-409.

72 Ibid.

73 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 113.

74 Cfr. J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., p. 357.

75 Durante il Concilio di Lione del 1274 sembrò che questi negoziati fossero approdati ad un risultato positivo, ma la rivolta dei Vespri Siciliani (1282) allontanò il pericolo di un’aggressione dall’Occidente e i Bizantini si ripresero la propria indipendenza ecclesiastica e ripudiarono l’unione con Roma conclusa a Lione. Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 144.

76 Ibid. p. 144 e segg.

77 Ibid., Per le discussioni furono scelti cinque argomenti principali: il “Filioque”, il Purgatorio, l a supremazia papale, il Pane eucaristico, le parole della Consacrazione per la Comunione. L’argomento discusso più a lungo fu quello sul  termine “Filioque”, che finì con il successo degli Occidentali, nonostante i tentativi di dimostrare, da parte degli Orientali, che solo la formula originale costituiva la tradizione apostolica, ma i teologi scolastici, molto più preparati dei loro antecedenti, avevano formulato uno schema intellettuale in difesa della duplice provenienza dello Spirito Santo, dimostrando che molti insigni scrittori ecclesiastici antichi avevano descritto lo Spirito Santo come precedente dal Padre attraverso il Figlio. Venne così stabilita la teologia della duplice provenienza , gli altri punti furono discussi e risolti amichevolmente e in conclusione fu sancita l’unione con Roma.

78 N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 147. Marco, Arcivescovo di Efeso si rifiuto di sottoscrivere il documento di unione, questo gesto stava a significare quanto grande sia stata l’avversione dei Bizantini ad accettare la resa a Roma , cui erano stati sottoposti da varie circostanze.

79 Ibid.; Cfr. anche J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., p. 359.

80 Cfr. N. Zernov, Il Cistianesimo… cit., pp. 147-148.

81 Cfr. A. T. Khoury, La Chiesa bizantina dopo la caduta di Costantinopoli, in “Concilium” 7  (1967), p. 60; G. Fedalto, Le Chiese d’Oriente, in “Comlementi alla Storia della Chiesa”, a cura di E. Guerriero, II, Milano 1992, p. 25.

82 Ibid.

83 Cfr. L. M. F. Sudbury, “Sui Iuris”. Gli altri Cattolici, in InStoria, n. 32, agosto 2010 (LXIII), www.instoria/chiese_sui_iuris_htm).

84 Cfr. G. Nedungatt, Presentazione… cit., p. 890.

85 Questo criterio è seguito da Montini. Cfr. G. P. Montini, Il Codice…cit., pp. 202-203.

86 Cfr. G. Nedungatt, Presentazione…cit., pp. 892-893; I. Zuzek, Presentazione del CCEO, in “Monitor Ecclesiasticus” 115 (1990), pp. 602-603.

87 Cfr. P. Paschini, Lezioni di Storia ecclesiastica, Torino 1935, p. 100 e segg.

88 Ibid.

89 Cfr. R. Janin, Les Eglies orientale set les rites Orintaux, Mayenne 1997, p. 455.

90 Cfr. Didachè, capp. 7-10 contenenti prescrizioni liturgiche e capp. 11-15 recanti regolamentazioni disciplinari scritte probabilmente nella seconda metà del I secolo.

91 Antiochia (Pietro), Alessandria (Marco), più tardi si aggiungerà Costantinopoli (Andrea), tendevano a porsi reciprocamente come Chiese autonome e separate.

92 Cfr. V. Parlato, Le Chiese d’Oriente tra storia e diritto, in “Collana di Studi di Diritto Canonico ed Ecclesiastico, Giappichelli, Torino 2003, pp. 165-167; Cfr. anche F. Marti, La Chiesa cattolica, le Chiese cattoliche orientali, le Chiese orientali, in “L’Occidente & l’Oriente: l’attualità di antiche divisioni, Inx.studiocecci.com/?page_id=143.                                                                                                                                                                              93 Il Concilio di Nicea, primo dei Concili ecumenici, fu convocato dall’imperatore Costantino e vi parteciparono da 220 a 318 vescovi per la maggior parte orientali. Viene stabilito la consustanzialità del Figlio con il Padre, condannata l’eresia di Ario e proclamato il “Symbolum fidei”, cioè il Credo; fissò anche la celebrazione della Pasqua dopo l’equinozio di primavera (uso romano-alessandrino). Ario (256 circa 336), presbitero e teologo berbero, era stato consacrato sacerdote nel 310 ad Alessandria d’Egitto, cominciò a diffondere le sue idee verso il 313. L’eresia ariana affermava la differenza di natura tra il Padre e il Figlio: soltanto il Padre è il vero perfetto Dio, che non deriva da nessuno, il Figlio fu creato nel tempo per creare il mondo, quindi , Ario subordinava il Figlio al Padre e non era identificabile con Dio stesso. Cfr. A. Agnoletto, Storia…, cit., p. 99.

94 Il Concilio di Calcedonia (451), convocato dall’imperatore romano d’Oriente Marciano, in continuità con i Concili precedenti trattò argomenti cristologici, durante i quali, Marciano condannò il monofisismo di Eutiche (378-454), archimandrita di un convento di Costantinopoli, il quale affermava che prima dell’incarnazione c’erano due nature in Cristo, ma dopo una sola, derivata dall’unione delle due nature stesse: cioè la Divinità aveva accolto l’Umanità, come il mare accoglie una goccia d’acqua, così Eutiche era solito riassumere la sua dottrina. Cfr. B. Mondin, Dizionario dei teologi, URL, p. 234. Nestorio (381-451), vescovo siriano, sosteneva la totale separazione delle due nature del Cristo: umana e divina, negando l’unione ipostatica, quindi in Cristo convivevano due persone distinte: l’Uomo e il Dio. Maria era madre solo della persona umana, rifiutandole il titolo di Madre di Dio (Theotokos), già condannato nel Concilio di Efeso (431), in cui viene stabilita la divina maternità di Maria, nel Concilio di Calcedonia si condanna di nuovo la dottrina nestoriana stabilendo le due nature indivise e inseparabili, entrambe concorrenti in una persona e una ipostasi. Cfr. M. Eliade-I.P. Couliano, Religioni, Jaca Book, Milano1992, p. 236; Cfr. anche A. Agnoletto Storia…, cit., p. 100.

95 Cfr. G. Smit, Roma e l’Oriente Cristiano. L’azione dei Papi per l’unità della Chiesa, Roma 1944, p. 132 e segg.

96 Ibid.

97 Cfr. D. Salachas, Istituziioni di Diritto Canonico delle Chiese cattoliche orientali. Strutture ecclesiali nel CCEO, Bologna 1993, p. 68.

98 Cfr. R. Janin, Les Eglises…cit., pp. 479-492.

99 Ibid.

100 Ibid. pp. 492-493 e 502-503; Cfr. G. B. Tragella, v. Etiopia, in Dizionario Ecclesiastico, I, Torino 1953, p. 1021; K. Baus-h. G. Beck-E. Ewig-H. J. Vogt, La Chiesa tra Occidente e Oriente, in Storia della Chiesa, III, 1978, pp. 63-64.

101 Dal 451 al 518 si alternarono ad Antiochia Patriarchi cattolici e Patriarchi monofisiti, a seconda che gli imperatori di Costantinopoli siano favorevoli o contrari alle decisioni del Concilio di Calcedonia. Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., pp. 377-378.

102 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 68.

103 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., pp. 389-390.

104 Ibid., p. 387.

105 Cfr. G.B. TRagella, v. Malabar, in Dizionario… cit., II, p. 787.

106 Ibid., pp. 454-455.

107 Cfr. http://it.custodia.org/default.asp?id=2012

108 Cfr. www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Cristiani-copti-e-maroniti-c

109 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 458.

110 Il nome deriva dalla costa del Kerala, in India, luogo di origine della Chiesa Siro-Malankarese. Cfr. G. Nedungatt, Presentazione… cit., p. 894.

111 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 392.

112 Cfr.P. Chaput, La Duble identité des chrétiens Keralais: confessions et castes Chrétiennes au Kerala (Inde du Sud), in “Archivies des sciences sociales des religion, vol. 106, 1999, pp. 5-23 Cfr. G.B. Tragella, v. Malabar, in Dizionario… II, 78; R. Janin, Les Eglises… cit., p. 392.

113 Cfr. R. Janin, L’Eglises… cit., p. 334; Cfr. K. Baus-H. G. Beck-E. Ewig-H. J. Vogt, op. cit., pp. 69-72.

114 Cfr. R. Janin, L’Eglises… cit., p. 334.

115 Cfr. A.M. Bozzone, v. Armenia, in Dizionario Ecclesiastico, Torino 1955,I, p. 222.

116 Cfr. G. Amadouni, L’Eglise arménienne et le Catholicisme, Venezia 1978, p.8 e segg.

117 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., pp. 422-425.

118 Ibid., p. 422; Cfr. anche magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/10/07/promemoria-le-chiese-cattoliche-orientali-sono-23/

119 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., pp.433-434; R. Janin, L’Eglise syrienne du Malabar, in “Echos d’Orient”, Tomo XVI, anno 1913, pp. 526-535. Cfr. anche http://www.treccani.it>enciclopedia>chiesa-caldea_(Enciclopedia-Italiana)/

120 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., pp. 433-434.

121 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 69. Sono autocefale quelle Chiese greche indipendenti dall’autorità dei Patriarchi.

122 Cfr. R. Janin, Les Esglises… cit., p. 290.

123 Ibid.

124 Monsignor Sokolski fu portato in un luogo sconosciuto. Non si sa se bisogna considerarlo un complice oppure una vittima delle manovre moscovite, ma l’ultima ipotesi sembra quella più plausibile. Ibid., p. 304

125 Ibid. pp. 303-305; Cfr anche C. Fabrègues, Le Vicariat apostolique bulgare de Tracia, in “Echos d’Orient, Tome VI, année 1903, Parigi, pp. 35-40 e 80-85.

126 Cfr. G. Nedungatt, Presentazione… cit., p. 894. Cfr. anche A.M. Bozzone, v. Orientali uniti, in Dizionario… cit., II, p. 1234.

127 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 271

128 Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/ungheria/

129 Cfr. Szent Istvan Tarsulat (Società Santo Stefano), Magyar Katolikus Lexikon, Budapest, 1993, vol. II, pp. 516-517.

130 Cfr. R. Janin, L’Eglises… cit., p. 275 e segg. Cfr. G. P. Montini, Il Codice… cit., p. 203 in nota n. 4.

131 Gli scismatici continuano con le persecuzioni: pretendono di imporre ai sacerdoti un costume speciale che permetta di distinguerli facilmente. Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 277.

132 Ibid. p. 275 e segg.;Cfr. anche  http://it.cathopedia.org/wiki/Chiesa_Cattolica_Greco-Melchita.

133 Ibid. pp. 305-307; Cfr. S. Kahné, v. Romania, in Dizionario Ecclesiastico, Torino 1858, III, p. 587.

134 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 288-290.

135 Il 30 gennaio 2008 Papa Benedetto XVI ha riorganizzato la Chiesa rendendola metropolitana sui iuris con l’elevazione dell’eparchia di Presov a metropolia, l’elevazione dell’esarcato apostolico di Kosice ad eparchia e l’erezione dell’eparchia di Bratislava. La sede è a Presov. L’Igumeno è il capo di un monastero e corrisponde all’abate della chiesa latina. Cfr. anche Janin, Les Eglises… cit., p. 294.

136 Ibid., pp. 305-310, 172-206.

137 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 172 e segg.; http://www.genova.org.ua/italiano/la-storia-breve-della-chiesa-cattolica-ucraina-di-rito-bizantino

138 Ibid. pp. 172-206; Cfr. magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/10/07/promemoria-le-chiese-cattoliche-orientali-sono-23/ la storica sede di Leopoli è stata trasferita ufficialmente a Kyiv il 6 dicembre 2004

139Ibid., pp. 301-302.

140 Ibid. pp. 302-303. Cfr. G. Ljubomir, v. Iugoslavia, in Dizionario Ecclesiastico, Torino 1955, II, p. 528))

141 Cfr. G. P. Montini, Il Codice… cit., p. 203; Cfr. anche magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/10/07/promemoria-le-chiese-cattoliche-orientali-sono-23/

142 Cfr. R. Spirito, v. Albania, in Dizionario Ecclesiastico, I, Torino 1953, pp. 76-77.

143 Cfr. magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/10/07/promemoria-le-chiese-cattoliche-orientali-sono-23/

144 Cfr. L-E. Louvet, Les missions catoliques au XIX siècle, VIII. L’Eglise romaine dans la péninsule des Balkans, in “Missions Catholiques, Lyon 1890, XXII. pp. 491 e segg. Cfr. anche www.cattoliciromani.com

145 Cfr. A. I. Obzonez, v. Russia, in “Dizionario Ecclesiastico, Torino 1955, III, p. 625.

146 Cfr. www. russiacristiana.org/storiachcatt1.htm

147 Cfr. R. Janin, L’Eglises… cit., p. 301.

148 Ibid.

149 Cfr. L. Lorusso, La designazione dei vescovi nel Codex canonum ecclesia rum orientalium, in “Quaderni di diritto ecclesiale” XII (gennaio 1999), pp. 48-49.

150 OE 3; Cfr. D. Salachas, Teologia e nomo tecnica del “Codex canonum ecclesia rum orientalium”, in “Periodica de re canonica” 82 (1993), pp. 511-516.

151 Nuntia, 28 (1989), 19.

152 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., pp. 62-63. La locuzione sui iuris non è nuova, ma è stata ripresa da un canone tratto dalle parti del Codice orientale promulgate da Pio XII, dove invece di Ecclesia sui iuris si parlava di Ritus sui iuris, ossia si attribuiva lo stato giuridico di sui iuris ad un rito, come se il rito fosse un ente giuridico.

153 Cfr. M. Brogi, Le Chiese sui iuris nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, in “Il Diritto Canonico Orientale nell’ordinamento ecclesiale, a cura di K. Bharanikulangara, Città del Vaticano 1995, p. 62.

154 Cfr. D. Salachas, Le status ecclésiologique et canonique des Eglises catholiques orientales sui iuris et des Eglises orthodoxes autocéphales, in “L’année canonique 33 (1990), pp. 33-36.

155 Dopo il Concilio Vaticano II, il concetto del regime della Chiesa inteso come “monarchico e assoluto”, viene a mutare con le affermazioni della costituzione “Lumen Gentium”: il Pontefice non è l’unico soggetto di piena e suprema potestà, questa infatti compete anche al “Collegio episcopale”. Ma in realtà non si tratta di soggetti diversi in senso assoluto, Papa e Collegio episcopale, perché il Papa non solo fa parte del Collegio ma ne è il capo e spetta a lui convocarlo, dirigerlo e approvare le norme per la sua azione. Abbiamo dunque da una parte i poteri del Pontefice considerato singolarmente e dall’altra i poteri del Pontefice insieme a tutti i Vescovi. La determinazione del modo con cui deve essere governata la Chiesa è rimessa al giudizio discrezionale del Papa, sia personalmente che collegialmente. Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., pp. 85-87; I. Zuzek, Presentazione… cit., p. 605.

156 Cfr. L. M. F. Sudbury, “Sui Iuris”. Gli altri cattolici, in “InStoria” 32 (2010) http://www.instoria.it/home/chiese_sui_iuris.htm

157 Cfr. Zuzek, Presentazione… cit., pp. 605-606.

158 Cfr. D. Salachas, Ecclesia universa et Ecclesia siu iuris nel Codice latino e nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, in “Apollinaris” 65 (1992), pp. 66-67.

159 Cfr. I. Zuzek, Presentazione… cit., p. 602.

160 Crf. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 95.

161 “Orientalium Ecclesiarum”, n. 18. Il can. 41 si riferisce “…ai fedeli di qualsiasi Chiesa sui iuris, anche della Chiesa latina, che per ragione di ufficio, di ministero o di incarico hanno relazioni frequenti con i fedeli cristiani di un’ altra chiesa sui iuris” e ordina che “…siano formati accuratamente nella conoscenza e nella venerazione del rito della stessa Chiesa, secondo l’importanza dell’ufficio, del ministero o dell’incarico che adempiono”.

162 Ibid.

163 “Unitatis Redintegratio”, n. 18.

164 Cfr. V. Parlato, L’Ufficio patriarcale nelle Chiese orientali dal IV al X secolo, Padova 1969, p. 10.

165 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 130.

166 Cfr. V. Parlato, L’ufficio… cit., p. 13. Il Vescovo di Alessandria oltre ad ordinare tutti i Vescovi, compresi i Metropoliti delle regioni di cui ha la competenza, interviene per la difesa dell’ortodossia, per difendere e salvaguardare la vera fede, depone Vescovi e risolve giuridicamente alcuni casi a lui differiti. Emana anche atti legislativi in materia disciplinare validi per tutto l’Egitto.

167 Ibid.

168 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 131.

169 Cfr. T. Bertone, voce Patriarchi, in “Enciclopedia del Cristianesimo. Storia e attualità di Duemila anni di speranza, Novara 1997, p. 542.

170 Ben presto l’influenza del primate bizantino si estende alle regioni del Ponto, dell’Asia, della Tracia. Cfr. V. Parlato, L’ufficio… cit., p.16.

171 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo orientale, Milano 1962, p. 80 e segg. Inizialmente ci fu rivalità tra Costantinopoli ed Alessandria che si concluse con la sconfitta di quest’ultima, in seguito si aprì un serio conflitto tra Roma e i Patriarchi d’Oriente, che trovava le sue radici sia nella posizione politica dei Vescovi di Roma, sia nella convinzione che i Papi fossero i successori di Pietro e, come tali, dotati di speciali prerogative.

172 Cfr. T. Bertone, Voce Patriarchi… cit., p. 52.

173 Cfr. V. Parlato, L’ufficio… cit., p. 47.

174 La “communio” può essere descritta come vincolo di unione che lega i Vescovi tra di loro, i fedeli tra di loro, i Vescovi con i fedeli ed in senso traslato indica l’unione dei credenti, la società dei fedeli, la Chiesa stessa. Ibid., p. 34.

175 Ibid., pp. 67-70. Si veda anche il capitolo II del presente lavoro.

176 Questo è l’ordine di precedenza delle sedi patriarcali affermato nel 1215 nel Concilio lateranense IV: “Rinnovando gli antichi privilegi delle sedi patriarcali, decretiamo, con l’approvazione del santo e universale Concilio, che, dopo la Chiesa romana, la quale per disposizione del Signore ha il primato della potestà  ordinaria su tutte le altre Chiese, come madre e maestra di tutti i fedeli cristiani, la Chiesa di Costantinopoli abbia il primo posto, quella di Alessandria il secondo, quella di Antiochia il terzo, quella di Gerusalemme il quarto, ferma restando la dignità di ciascuna…”. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 135.

177 Cfr. M. Thériault, Le Patriarche selon les Latins des XIV et XV siècles, in “Studia Canonica 22 81988), pp. 140-141.

178 Ibid., p. 143.

179 Ibid., pp. 143-144.

180 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., pp. 135.136.

181 Cfr. I. Zuzek, De Patriarchi set Archiepiscopis maioribus, in “Nuntia” 2 (1976), p. 36.

182 Nuntia 19 (1884), p. 24.

183 Cfr. M. Brogi, Strutture… cit., p. 305.

184 Cfr. D. Salachas, Lo “stus sui iuris” delle Chiese patriarcali nel Diritto Canonico orientale, in “Periodica de re canonoca” 83 (994-IV), p. 573.

185 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 144. I canoni degli Apostoli, risalenti forse alla fine del III secolo, anche se costituiscono dei consigli piuttosto che norme giuridiche, tuttavia esprimono la tradizione e la coscienza sinodale della Chiesa primitiva in Oriente.

186 Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 573. Canoni degli Apostoli,  34: “Quando i vescovi debbino riconoscere l’autorità del loro primato. E’ necessario che i vescovi di ciascuna regione conoscano chi tra loro è protos e che lo considerino come capo e che non facciano nulla di importante senza il suo consenso, svolgendo ciascuno per conto proprio quelle cose che concernono la propria eparchia  ed i territori ad essa soggetti. Tuttavia, neppure il protos non faccia nulla senza il parere di tutti. In tal modo ci sarà la concordia e sarà data gloria al Padre, al Figlio ed allo Spirito Santo”.

187 “Orientalium Ecclesiarum”, n. 9.

188 Can. 56 CCEO.

189 Cfr. D. Salachas, Le Status d’autonomie des Eglises catholiques orientale set leur communion avec le Siège Apostolique de Rome, in “L’Année canonique 38 (1996), pp. 83-84.

190 “Orientalium Ecclesiarum”, n. 5-6.

191 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., pp.153. Dopo la rottura di comunione ecclesiastica tra Oriente ed Occidente, i Pontefici hanno istituito diverse Chiese patriarcali cattoliche, mentre nella Chiesa ortodossa il patriarcato di Costantinopoli ha ammesso al rango di patriarcato diverse Chiese nazionali.

192 Cfr. Nuntia 28 (1989), p. 32.

193 Cfr. Nuntia 22 (1986), p. 45.

194 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p.155. Dal 1150 i Cardinali formano il Collegio cardinalizio; dall’anno 1059 sono elettori esclusivi del Papa, nel secolo XII incominciarono ad essere nominati Cardinali anche i prelati residenti fuori Roma.Già dal secolo XII precedono i Vescovi e gli Arcivescovi e dal secolo XV anche i Patriarchi con la Bolla “Non mediocri” di Papa Eugenio IV, che contiene, come è noto, un riepilogo abbastanza ampio delle prerogative del Collegio  cardinalizio e delle loro motivazioni ecclesiologiche.

195 Ibid., Cfr. anche G. Feliciani, Le basi… cit., p. 88.

196 Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 578.

197 Ibid.

198 Cfr. Nuntia 19 (1984), p. 26.

199Cfr. “Orientalium Ecclesiarum”, n. 5.

200Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., pp. 159-160.

201 Ibid., p. 186.

202 Cfr. D. Salachas, Lo “status…”cit., p.580

203 Can. 180: “Ut quis idoneus ad episcopatum habeatur, requiritur, ut sit: 1 firma fide, bonis moribus, pietate, animarum zelo et prudentia praestans; 2 bona existimatione gaudens; 3 vinculo matri monii non ligatus; 4 annos natus saltem triginta quinque; 5 a quinquennio saltem in ordine presbyteratus vel saltem peritus”. J. Chiramel, La struttura… cit., p. 138.

204 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 162. L’elenco dei candidati all’episcopato, composto e approvato dal Sinodo, è inviato dal Patriarca alla Sede Apostolica (nella fattispecie alla Congrgazione per le Chiese orientali) per ottenere l’assenso del Pontefice. Non si tratta qui direttamente dell’assenso per la proclamazione a Patriarca, ma per quella dell’episcopato, presupposto per essere proclamato ed intronizzato come Patriarca.

205 Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 582.

206 Il Patriarca riconosce così nel Pontefice l’organo primario della Chiesa cattolica. Cfr. V. Parlato, L’ufficio… cit., p. 194.

207 Cfr. Nuntia 19 (1984), p. 8.

208 Con lo scambio di queste lettere si esprimeva l’unità e la comunione tra le Chiese. Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 584.

209 Non è una proibizione, ma è un invito. Cfr. CCEO can. 77; D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 165.

210 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 166.

211 Ibid., p. 167.

212 Cfr. G. P. Montini, Il Codice per le Chiese… cit., p. 209.

213 J. Rezac, Sull’estensione della potestà dei Patriarchi e in genere delle Chiese orientali sui fedeli del proprio rito, in “Concilium 8 (1969), p. 145.

214 Cfr. Cann. 39-41 CCEO.

215 Cfr. “Orientalium Ecclesiarum”, n. 9.

216 Cfr. Nuntia 22 (1986), pp. 9-11.

217 Cfr. “Orientalium Ecclesiarum”, n. 7c.

218 Cfr. J Chiramel, La struttura gerarchica… cit., p. 137.

219 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 189.

220 Il can. 146 §1 descrive il concetto giuridico di territorio di una Chiesa patriarcale, composto da tre elementi: il primo è quello geografico, il territorio si estende a determinare regioni geografiche; il secondo è costituito dall’osservanza, in queste regioni, del rito proprio della stessa Chiesa patriarcale; il terzo elemento è rappresentato dal diritto del Patriarca di erigere, in queste regioni, province, eparchie ed anche esarcati. Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 587.

221 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 189. Due anni prima della promulgazione del Codice il tribunale di primo grado ha giudicato nullo, per difetto di forma, il matrimonio di un cattolico di rito maronita celebrato nella città di Dubai davanti ad un parroco di rito cattolico. Il Patriarca maronita affermava che Dubai è situata in un luogo che tradizionalmente rientra nelle Regioni orientali, dove da epoca antica si professa il rito maronita e che egli aveva delegato un sacerdote a benedire i matrimoni dei fedeli appartenenti a questo rito. Il Vicario apostolico per l’Arabia obiettava che Dubai non aveva mai fatto parte delle Regioni orientali, che il Patriarca maronita non poteva, quindi, delegare una giurisdizione che non aveva, senza il previo consenso della Santa Sede; inoltre obiettava che il presunto sacerdote delegato non aveva mai potuto metter piede nel luogo da oltre dieci anni, perché impedito da ragioni politiche. Questo caso è sembrato un pretesto di fronte al vero problema: l’estensione del potere delle varie autorità ecclesiastiche cattoliche in Oriente. Le soluzioni sono venute con il Codice del 1990. Cfr. C. Gullo, Territorialità della giurisdizione patriarcale e difetto di forma nel matrimonio canonico dei fedeli appartenenti alle Chiese orientali, in “Diritto Ecclesiastico” 2 (1991), p. 203 e segg.

222 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 169.

223 Ibid., p. 592.

224 CCEO can. 83 §2; Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 169.

225 Non si richiede l’approvazione, bensì la previa consultazione della Santa Sede. Cfr. D. Salachas, Lo”status…” cit., p. 592.

226 Il diritto del Patriarca di ordinare i metropoliti, preposti delle province, e del Metropolita di ordinare i Vescovi della propria provincia vige sin dall’antichità, è un diritto stabilito dal Concilio di Calcedonia. Cfr, D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 593.

227 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 170.

228 Cfr. D. Salachas, Lo”status…” cit., p. 595. Riportiamo il can. 101 CCEO: “Il Patriarca, nella propria eparchia, nei monasteri stauropegiaci, come pure nei luoghi dove non è eretta né un’eparchia né un esarcato, ha gli stessi diritti e doveri del Vescovo eparchiale”.

229 Cfr. A. Thazhath, The Superior and Ordinary Tribunals of a sui iuris Eastern Catholic Church, in “Studia Canonica” 29/2 (1995), pag. 380 e segg.; CCEO can. 1062 §1: “Synodus Episcoporum patriarchalis, salva competentia Sedis Apostolicae, est superius tribunal infra fines territorii eiusdem Ecclesiae. §2: Synodus Episcoporum Ecclesiae patriarchalis per secreta suffragia eligere debet ad quinquennium ex suo gremio Moderatorem generale administrationis iustitiae necnon duos Episcopos, qui cum eo praeside costituunt tribunal: si vero unos ex his tribus Episcipis est in causa vela desse non potest, Patriarcha de consensu Synodi permanenti set alium Episcopum substituat; item in casu recusationis videat Patriarcha de consensu Synodi permanentis. §3 Huius tribunalis est iudicare causas contentiosas sive eparchia rum sive Episcoporum, etiam Episcoporum titularium. §4. Appellatio in his causis fit ad Synodum Episcoporum Ecclesiae patriarchalis ulteriore appellatione remota salvo can. 1059. §5. Moderatori generaliadministrationis iustitiae est ius vigilandi omnibus intra fines territoriiEcclesiae patriarchalis sitis necnon ius decisionem ferendi in recusatione contra aliquem iudicem tribunalis ordinarii Ecclesiae patriarchalis. Can. 1063 §1. Patriarcha erigere debet tribunal ordinarium Ecclesiae patriarchalis a tribunali eparchiae Patriarchae distinctum”.

230 Cfr. D. Ceccarelli Morolli, La figura del “Procurator patriarchae apud S. Sedem”, in “Apollinaris 68 (1995), p. 733 e segg.. Secondo l’autore, in questo contesto, per Santa Sede si deve intendere la Congregazione per le Chiese orientali.

231 Ibid.

232 Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 577.

233 Cfr. D. Ceccarelli Morolli, La figura del “procurator…” cit., p. 734. Come esempio l’autore ricorda, in nota, la comunità dei Siro-cattolici che ha come punto di incontro culturale la Chiesa di S. Maria in Campo Marzio, sede della procura del Patriarcato di Antiochia dei Siri.

234 Cfr. D. Ceccarelli Morolli, La figura del “procurator…” cit., p. 737.

235 Cfr. Nuntia 2 (1976), p. 45; 22 (1986), p. 47.

236 La loro istituzione risale al tempo di Augusto che aveva preposto “procuratores” di rango equestre ad alcuni uffici e “procuratores” scelti fra i liberti, all’amministrazione finanziaria. Cfr. D. Ceccarelli Morolli, La figura del “procurator…” cit., p. 739.

237 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 171.

238 Ibid.

239 Il Sinodo permanente è disciplinato nel can. 115. Si veda oltre nel presente lavoro.

240 Il can. 5 del Concilio di Nicea ordina che in ciascuna provincia debba tenersi due volte l’anno un Concilio, composto da tutti i Vescovi della provincia, Cfr. E. Eid, La synodalité dans la tradition orientale, in “Ephemerides iuris canonici” 48 (1992), p. 11 e segg.

241 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 172.

242 Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., pp. 597-598.

243 Nuntia 22 (1986), p. 78. Ad ogni Vescovo vengono conferite diverse funzioni: la prima è quella di insegnare (munus docendi) che consiste nella predicazione del Vangelo. Un’altra funzione è quella di santificare (munus sanctificandi) che si realizza negli atti del culto divino. L’ultima funzione è quella di governare (munus regendi). Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., p. 74 e segg.

244 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit. p. 174.

245 Già il Concilio di Calcedonia stabilisce che i Vescovi che non prendono parte alle riunioni sinodali, rimanendo nella loro città, pur essendo in buona salute e liberi da impegni urgenti, “siano fraternamente rimproverati”. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 175.

246 Se, però, questo affare spetta al Patriarca o al Vescovo eparchiale oppure ad altre persone, il Patriarca può rifiutare la convocazione del Sinodo. Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 603.

247 Per l’elezione del Patriarca il diritto comune richiede una maggiore presenza di Vescovi (due terzi) e una maggioranza superiore di voti per la validità della decisione. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 178.

248 Cfr. G. P. Montini, Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese Orientali, in “Quaderni di diritto ecclesiale” 9 (1996), p. 445.

249 Cfr. J. Chiramel, La struttura gerarchica… cit., p. 139.

250 “Orientalium Ecclesiarum” n. 9b.

251 Cfr. V. Parlato, Alcuni problemi attuali del diritto canonico orientale, in “Atti del congresso internazionale di diritto canonico, La Chiesa dopo il Concilio”, II, Milano 1972, p. 971.

252 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 181.

253 Ibid.

254 Cfr. J. Hajjar, The Synod in the Eastern Church, in “Concilium” 8 (1965), p. 31.

255 Cfr. J. Chiramel, La struttura gerarchica… cit., p. 139.

256 Cfr. E. Eid, La Synodalitè… cit., p. 25.

257 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 185.

258 Cfr. J. Chiramel, La struttura gerarchica… cit., p. 139.

259 Per esempio nell’aggiornamento delle forme e dei modi dell’apostolato e per ciò che concerne la disciplina ecclesiastica. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 187.

260 Ibid.

261 Cfr. G. Orioli, Gli Arcivescovi maggiori: origine ed evoluzione storica fino al secolo settimo, in “Apollinaris” 58 (1985), p. 615 e segg. L’Illirico comprendeva le seguenti province: Acaia, Epiro Vecchio ed Epiro Nuovo, Macedonia Prima e Seconda, Tessaglia, Dacia Ripense e Dacia Mediterranea, Prevalitana, Mesia Prima, Dardania  e Creta.

262 Ibid.; D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 192. Orioli scrive che la posizione di Cipro non è molto chiara, per cui ritiene che il primo esempio di Arcivescovado, storicamente certo, sia quello della Chiesa sira monofisita. Nel 628 il I Sinodo di Mar Matta accoglie l’istituto giuridico vicariale e viene deciso che il metropolita di Tagrit non porterà il titolo specifico di Arcivescovo, ma quello di Grande Metropolita d’Oriente o di Catholicòs e più tardi assumerà quello di Mafrian. Il Sinodo di Tarmana nel 752 specifica che il Mafrian è un vero Vicario patriarcale. Tra le Chiese cattoliche orientali due sono Chiese arcivescovili maggiori, quella di Lvov degli Ucraini, eretta il 23 dicembre 1963, e quella di Ernakulam-Angamaly dei Siro-Malabaresi, eretta il 30 gennaio 1993.

263 Cfr. M. Brogi, Strutture… cit., p. 305.

264 Cfr. J. Chiramel, La struttura gerarchica delle Chiese Orientali, in “Il Diritto Canonico Orientale nell’ordinamento ecclesiale”, a cura di K. Bharanikulangara, Città del Vaticano 1995, p. 139.

265 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 194.

266 Cfr. M. Brogi, Strutture… cit., p. 306. candidato all’episcopato>>.

267 Cfr. Nuntia 19 (1984), p. 13.

268 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit. p. 195.

269 Tra i gerarchi della Chiesa, l’Arcivescovo maggiore ucraino occupa il settimo posto, i primi sei sono occupati dai Partiarchi. Cfr. J. Chiramel, La struttura… cit. p. 140; D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 196; Can. 154 CCEO.

270 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 197.

271 I canoni dei primi Concili fanno, infatti, riferimento alla Chiesa metropolitana. Ibid., p. 198.

272 Cfr. P. Szabo, La questione della competenza legislativa del Consiglio dei Gerarchi, in “Apollinaris” 69 (1996), p. 486.

273 Nuntia 28 (1989), p. 44.

274 Ibid.

275 Cfr. J. Chiramel, La struttura… cit., p. 140.

276 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 200.

277 Cfr. M. Brogi, Strutture… cit., p. 309.

278 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 201.

279 Cfr. P. Szabo, La questione… cit., p. 510.

280 Cfr. G. Feliciani, Le basi del Diritto Canonico, Bologna 1993, p. 92 e segg.

281 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 198.

282 Cfr. M. Brogi, Strutture… cit., p. 310

283 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 202.

284 Cfr. G. Nedungatt, Presentazione… cit., p. 892; J. Chiramel, La struttura… cit., p. 141.

285 Sono sti esclusi, naturalmente, i punti 1 e 2 del canone 159, che riguardano esclusivamente il Metropolita come capo di una Chiesa metropolitana “sui iuris”. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 202.

286 Ibid. p. 203; Cfr. G. Nedungatt, Presentazione… cit., p. 893.

287 I termini eparchia del CCEO e di diocesi del CIC provengono entrambi dall’Impero romano sotto Diocleziano, diviso in dodici diocesi, le quali a loro volta erano divise in numerose province: eparchie. Cfr. D. Salachas, Istituzioni…cit., p. 209.

288 Can. 177 §1. L’eparchia è una porzione del popolo di Dio, affidata alle cure pastorali del Vescovo coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore, e da lui riunita nello Spirito Santo per mezzo del Vangelo e dell’Eucarestia, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica. §2. Nell’erezione, mutazione e soppressione delle eparchie entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, bisogna osservare il can. 85 §1; in tutti gli altri casi, l’erezione, mutazione e soppressione compete solo alla Sede Apostolica.

298 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 212.

290 Ibid., p. 213.

291 Ibid., p. 214.

292 Nuntia, 23 (1986), p. 6.

293 Cfr. Nuntia, 23 (1986), p. 7.

294 Cfr. V. Parlato, L’ufficio patriarcale nelle Chiese orientali dal IV al X secolo, Padova 1969, p. 80. E’ difficile configurare esattamente il rapporto tra la volontà dei Vescovi viciniores e quella dei fedeli della Chiesa locale in ordine alla scelta del nuovo Vescovo, ciò che è importante è il fatto che la nomina è il risultato di un accordo tra popolo e Vescovi.

295 Ibid.

296 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 253.

297 Ibid., p. 256.

298 Cfr. J. Khoury, La scelta dei Vescovi nel Codice dei Canoni delle Chiese orientali, in “Apollinaris”, 65 (1992), pp. 78-79.

299 Cfr. L. Lorusso, La designazione dei Vescovi nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, in “Quaderni di Diritto ecclesiale”, 12 (1999), p. 52.

300 Cfr. J. Khoury, La scelta… cit., p. 80.

301 Cfr. R. Metz, La Désignation des éveque dans le droit acque: étude comparative entre le Code latin de 1983 et le Code oriental de 1990, in “Studia Canonica”, 27 (1993), p. 326.

302 Ibid., p. 329.

203 Cfr. J. Khoury, La scelta… cit. p. 83.

304 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., pp. 218-219.

305 La lista dei candidati e il verbale delle riunioni sinodali sono inviati dal Patriarca alla Congregazione per le Chiese orientali, che si procura il nihil obstat della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo i singoli candidati. Redige, infine, il documento chiamato “Foglio di Udienza” che sottopone al Papa.Cfr. J. Khoury, La scelta… cit., p. 85.

306 Se il Papa non dà all’uno o all’altro candidato compreso nell’elenco, la sua adesione, tale nome deve essere radiato prima di procedere all’elezione. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 224.

307 Cfr. J. Khoury, La scelta… cit., p. 81.

308 Cfr. can. 183, già citato nel capitolo V del presente lavoro.

309 Cfr. L. Lorusso, La designazione… cit., p. 54.

310 Cfr. J. Khoury, La scelta … cit., p. 86.

311 Cfr. L. Lorusso, La designazione… cit., p. 54.

312 Cfr. R. Metz, La désignation… cit., p. 332.

313 Ibid.

314 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 214; CCEO, cann. 190-211.

315 Cfr. V. Parlato, L’ufficio… cit., p. 88 e segg.

316 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 232 e segg.

317 Ibid.

318 “Christus Dominus”, n. 38 b.

319 Cfr. P. Erdo, La partecipation des Eveques Orientaux a la conférence épiscopale, in “Apollinaris”, 64 (1991), p. 295 e segg.

320 Ibid., pp. 304-305.

321 Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., pp. 93-94; P. Erdo, La partecipation des Eveques Orientaux à la Conférence Episcopale, in “Apollinaris” 64 (1991), p. 307.

322 Cfr. D. Salachas, L’istituzione ecclesiale dell’”Assemblea eparchiale” nel diritto delle Chiese orientali, in “Apollinaris” 61 (1988), p. 862.

323Ibid.

324 Cfr. Nuntia 9 (1979), p. 34.

325 Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., p. 100.

326 Cfr. D. Salachas, L’istituzione ecclesiale… cit., p. 864.

327 Il protopresbitero  è quello preposto ad un distretto, composto da diverse parrocchie, nominato dal Vescovo, a cui nome svolge le funzioni stabilite dal diritto, specialmente quella di coordinare e promuovere l’azione pastorale a livello superparrocchiale; corrisponde al vicario foraneo del CIC, Cfr. D. Salachas, L’istituzione ecclesiale… cit., p. 872.

328 Ibid., p. 861.

329 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 239.

330 Cfr. G. Nedungatt, Glossario dei termini principali usati nel CCEO, in “Enchiridion Vaticanum: Documenti ufficiali della Santa Sede”, 12, Bologna 1992.

331 “… la parte di potere del governo annessa per legge a un determinato ufficio è chiamata potestà ordinaria in quanto il suo contenuto e la sua estensione non dipendono dalla discrezionalità dell’autorità che la conferisce ma sono predeterminati dal diritto. Viene considerata propria o vicaria a seconda che venga esercitata dal titolare dell’ufficio in nome proprio o in nome altrui”. G. Feliciani, Le basi… cit., pp. 78-79.

332 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 240.

333 Ibid., p. 241.

334 Ha la stessa funzione di quello delle diocesi latine. Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., p. 99.

335 Il can. 271 stabilisce che il numero dei consultori non deve essere inferiore a sei e superiore a dodici. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 243.

336 E’ disciplinato nella stessa maniera anche nel CIC. Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., p. 99.

337 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 247.

338 Ibid., p. 245.

339 Ibid., p. 249.

340 Cfr. G. Nedungatt, Glossario… cit., pp. 908-909.

341 Valgono, perciò, le norme sui diritti e doveri dei Vescovi eparchiali, sugli organi che aiutano il Vescovo nel governo dell’eparchia, sulle parrocchie e sui parroci. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 250.

342 Cfr. G. Nedungatt, Glossario… cit., p. 909.

343 Cfr. Nuntia 23 (1986), pp. 50-51.

344 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 252.

 

L’ALIMENTAZIONE NELL’ISLĀM SECONDO IL CORANO

ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE DI MILANO (INCONTRI PLENARI DI AGGIORNAMENTO IDR 2014-2015)

 

Dr. p. Paolo Nicelli, P.I.M.E.

Nel Corano (1) vi sono più di un centinaio di occorrenze nella radice akl, da cui deriva la forma verbale akala (mangiare), e 48 occorrenze della radice ¥‘m, da cui deriva il sostantivo ¥a‘…m (nutrimento) e 28 occorrenze per l’imperativo kul™ (mangiate!). «E vi ombreggiammo di nubi e facemmo scendere su voi la manna e le quaglie: “Mangiate, dicemmo, delle cose buone che vi abbiam destinato!” Ed essi, nella loro perversità non Noi offesero, ma se stessi. صلى الله عليه وسلم E quando dicemmo: “Entrate in questa città e mangiate quel che volete, in abbondanza, ma entrate per la porta prostrandovi e dicendo: Perdono! E Noi perdoneremo i vostri peccati e saremo larghi coi buoni!” صلى الله عليه وسلم Ma gli iniqui cambiarono quella parola in una diversa da quella che era stata loro ordinata, e sugli iniqui Noi inviammo un castigo dal cielo per la loro corruzione. صلى الله عليه وسلم E quando Mosè chiese acqua per il suo popolo e gli dicemmo: “Batti la roccia con la tua verga” e ne sgorgheranno dodici sorgenti e ogni tribù seppe a quale doveva bere. Bevete e mangiate ciò che Iddio vi manda e non portate malignamente corruzione sulla terra!”» (Sura della Vacca: II, 57- 60). «O uomini, mangiate quel che di lecito e buono v’è sulla terra e non seguite le orme di Satana, ch’è vostro evidente nemico» (Sura della Vacca: II, 168). «O voi che credete! Mangiate delle cose buone che la Provvidenza Nostra v’ha dato, e ringraziatene Iddio, se Lui solo adorate!» (Sura della Vacca: II,172). «V’è permesso, nelle notti del mese di digiuno, d’accostarvi alle vostre donne: esse sono una veste per voi e voi una veste per loro. Iddio sapeva che voi ingannavate voi stessi, e s’è rivolto misericorde su di voi, condannandovi quel rigore; pertanto ora giacetevi pure con loro e desiderate liberamente quel che Dio vi ha concesso, bevete e mangiate, fino a quell’ora dell’alba in cui potrete distinguere un filo bianco da un filo nero, poi compite il digiuno fino alla notte e non giacetevi con le vostre donne, ma ritiratevi in preghiera nei luoghi d’orazione. Questi sono i termini di Dio, non li sfiorate. Così Iddio dichiara i suoi Segni agli uomini, nella speranza che essi lo temano» (Sura della Vacca: II,187). «Ti domanderanno che cosa sia lecito mangiare, Rispondi: “vi sono lecite le cose buone e quel che avrete insegnato a prendere agli animali a preda portandoli a caccia a mo’ di cani (ché del resto non avete fatto che insegnare a loro ciò che Dio ha insegnato a voi). Mangiate dunque ciò che avranno preso per voi, menzionandovi sopra il nome di Dio; e temete Iddio, ché Dio è rapido al conto!”» (Sura della mensa: V, 4). «Mangiate delle cose lecite e buone che Dio vi dà provvidente e temete quel Dio in cui credete! صلى الله عليه وسلم Dio non vi riprenderà per una svista nei vostri giuramenti, bensì vi riprenderà per aver concluso giuramenti che poi avete violato: in tal caso l’espiazione sarà il nutrire dieci poveri con cibo medio di cui nutrite le vostre famiglie, o il vestirli, o l’affrancamento di uno schiavo. Chi non troverà mezzi per fare questo, digiuni tre giorni. Questa è l’espiazione per aver violato i vostri giuramenti quando vi sarete impegnati. Mantenete dunque i vostri giuramenti! Così Iddio vi dichiara i Suoi Segni affinché per avventura Gli siate riconoscenti» (Sura della Mensa: V, 88-89) In riferimento a: «O voi che credete, adempite ai patti. Vi sono permessi gli animali dei greggi eccetto quelli che ora vi diremo, e non dovrete permettervi la caccia mentre vi trovate in stato sacro: Dio certo decreta ciò ch’Egli vuole» (Sura della Mensa: V, 1).  2 «Mangiate delle cose sulle quali è stato nominato il nome di Dio, se credete nei Suoi Segni» (Sura delle Greggi: VI, 118). «Egli è colui che ha fatto crescere giardini, vigneti a pergolato e senza pergolato, e palme, e cereali vari al mangiare, e olive e melograni simili e dissimili. Mangiate del frutto loro, quando viene la stagione, ma datene il dovuto ai poveri, il dì del raccolto, senza prodigalità stravaganti, che Dio gli stravaganti non ama. صلى الله عليه وسلم Del bestiame, alcuni animali sono da soma, altri da macello: mangiate di quello che la Provvidenza di Dio v’ha dato, e non seguite i passi di Satana, ch’è per voi chiaro nemico» (Sura delle Greggi: VI, 141-142). «O figli d’Adamo! Adornatevi quando vi recate in un luogo di preghiera qualsiasi, mangiate e bevete senza eccedere, perché Dio non ama gli stravaganti» (Sura del limbo: VII, 31). «E i figli d’Israele li dividemmo in dodici tribù, in dodici comunità, e rivelammo a Mosè, quando il suo popolo gli chiese da bere: “Batti con la tua verga la roccia!” E dodici sorgenti ne sgorgarono, e tutti gli uomini seppero dove dovevano bere; e li ombreggiammo con la Nube e facemmo scendere su loro la Manna e le Quaglie, dicendo loro: “Mangiate delle buone cose che la Nostra provvidenza vi dona!” Ma non a Noi essi fecero torto, bensì a se stessi. صلى الله عليه وسلم E rammenta quanto fu detto loro: Abbiate questa città e godetevi come volete! E dite: “Perdono!” entrando per la porta con prostrazioni. Allora vi perdoneremo i vostri peccati e farem prosperare quelli che operano il bene!» (Sura del Limbo: VII, 160-161). L’imperativo kul™ (mangiate!), è associato al sostantivo ¥ayyib…t (cose buone), o all’aggettivo derivato dalla stessa radice ¥ayyib, opposti entrambi al sostantivo khab…’ith (cose immonde). Da questa breve analisi lessicografica possiamo già individuare i tre temi, quello teologico, quello giuridico e quello antropologico, cari alla dottrina islamica e alla prassi alimentare: i cibi sono un dono di Dio, una delle manifestazioni della misericordia, della benevolenza e quindi della provvidenza divina verso gli uomini (intesa come rizq – ciò di cui ha bisogno l’uomo), secondo quanto enunciato dal bismiall…hi ar-ra|mani ar-ra|imi (Nel nome di Dio il più misericordioso il più benevolente).

1. Il tema teologico: All…h Razz…q (Dio è il Provvidente)

Questo “nome di Dio” (2) mette in evidenza la provvidenza divina in riferimento all’uomo, inteso come colui che beneficia del sostentamento (rizq-ciò di cui ha bisogno), che Dio stesso ha stabilito per lui: «O uomini! Adorate dunque il vostro Signore che ha creato voi e coloro che furono prima di voi, a che possiate divenir timorati di Dio, صلى الله عليه وسلم il quale ha fatto per voi della terra un tappeto e del cielo un castello, e ha fatto scendere dal cielo acqua con la quale estrae dalla terra quei frutti che sono il vostro pane quotidiano; non date dunque a Dio degli eguali, mentre voi sapete tutto questo!» (Sura della Vacca: II, 21-22). «E quando Mosè chiese acqua per il suo popolo e gli dicemmo: “Batti la roccia con la tua verga” e ne sgorgarono dodici sorgenti e ogni tribù seppe a quale doveva bere. Bevete e mangiate ciò che Iddio vi manda e non portate malignamente corruzione sulla terra!» (Sura della Vacca: II, 60). La dottrina islamica della provvidenza e benevolenza divina è fortemente legata alla misericordia di Dio, il quale provvede a fornire all’uomo la sua porzione di sostentamento. Tale porzione è già stabilita da Dio stesso. La dottrina viene poi unita a quella fondamentale dell’adorazione di Dio e a quella della sottomissione totale a Lui (tawakkul), dottrina, questa, che definisce la relazione tra l’uomo, creatura di Dio, e il suo Creatore. Essa definisce anche l’atto libero della volontà del credente (mu’min) di aderire a Dio e alla Sua volontà significato nella preghiera dalla profonda prostrazione (suÞ™d), volta alla totale mendicanza dell’amore di Dio.(3) Il “timore di Dio” è condizione  fondamentale, ma allo stesso tempo diviene la meta, o l’ideale, a cui tendere. Tutta la creazione è, in quanto pensata, voluta da Dio per l’uomo stesso. Il tema lessicale del rizq designa, in termini più specifici, un sostentamento determinato (q™t muqaddar), come concetto di bene in generale (milk), oppure come il cibo (ghidh…’): «Non c’è animale sulla terra, cui Dio non si curi di provvedere il cibo, ed Egli conosce la sua casa e la sua tana: tutto è scritto in un Libro chiaro» (Sura di H™d: XI, 6). Il termine: animale (d…bba) e il termine: cibo (rizq), richiamano al fatto che con cibo non possiamo indicare un bene o una proprietà, poiché l’animale non è un soggetto giuridico, capace di possedere, ma è ugualmente parte delle benedizioni divine, poiché può accedere al cibo per il suo sostentamento. In questo caso, si vuole mettere in evidenza, in termini teologici, l’azione di Dio, che come Razz…q, provvede per il sostentamento di tutta la creazione, soprattutto l’umanità. Il conoscere la sua casa e la sua tana richiama al fatto che Dio è onnisciente e onnivedente, cioè conosce nel dettaglio l’uomo, i suoi pensieri, le sue azioni e, soprattutto, i suoi bisogni essenziali, legati all’alimentazione. Per questo il cibo (rizq), non può che essere legato a qualcosa di buono (¥ayyib…t); non a qualcosa di immondo (khab…’ith ). Alla stessa stregua, in termini giuridici, il cibo (rizq) quando designa la proprietà non può essere collegato a un bene illecito (|ar…m), ma a un bene lecito (|al…l). Pertanto, la povertà, che è causata dalle azioni illecite degli uomini, che perseguono dei beni illeciti, non può essere imputata a Dio, ma ai comportamenti illeciti, quindi peccaminosi, degli uomini.

2. Il tema giuridico: L’opposizione tra lecito (|al…l) e illecito (|ar…m).

Il Corano dice che i credenti devono mangiare solo ciò che è lecito, nel senso di “buono” ¥ayyib. Vi sono dei versetti che indicano dei divieti precisi, altri invece tendono a mitigare le leggi tribali preislamiche, sia in un contesto polemico antiebraico, sia nei in un contesto polemico contro le leggi dei politeisti arabi: «[…] per la empietà, infine, di questi giudei abbiam loro proibito delle cose buone che prima erano loro lecite e perché han deviato dalla via di Dio, di molto صلى الله عليه وسلم e perché han praticato l’usura che pur era stata loro proibita, per aver consumato i beni altrui falsamente; e abbiam preparato per i Negatori fra loro castigo cocente. صلى الله عليه وسلم Ma quelli fra loro che sono saldi nella scienza, i credenti che credono in ciò che è stato rivelato a te e in quel che è stato rivelato prima di te, quelli che fanno la Preghiera e pagano la Dècima, i credenti in Dio e nell’Ultimo Giorno, a quelli daremo mercede immensa» (Sura delle Donne: IV, 160-162). Il Corano esprime in chiave fortemente antisemitica il concetto di |ar…m, dichiarando che la proibizione inflitta agli ebrei su alcuni cibi è dovuta al fatto che essi hanno deviato dalla via di Dio attraverso due gravi atti d’infedeltà: 1) Il non aver riconosciuto la rivelazione coranica, la funzione profetica di Mu|ammad صلى الله عليه وسلم e l’inviato Gesù صلى الله عليه وسلم. 2) Il non aver riconosciuto la predicazione dei profeti, compreso quella del profeta Gesù صلى الله عليه وسلم e quindi il non aver accettato una sorta di “successione profetica”, che si compie definitivamente con la venuta del profeta Mu|ammad صلى الله عليه وسلم, inteso come il “Sigillo della rivelazione”. Tale atteggiamento, secondo questa visione polemica, li pone come “Negatori” (k…fir™n).(4) Il pensiero coranico di fondo sostiene la tesi che Dio ha dato la legge a Mosè per via della durezza del cuore del suo popolo, che aveva voltato le spalle al suo Creatore. I precetti ebraici sono 4 presentati come una punizione divina o come qualcosa che le autorità religiose del tempo hanno imposto al popolo, per la sua durezza del suo cuore. Da qui, la necessità di una Legge, quella islamica, che è più leggera di quella ebraica, capace di mitigare i precetti e le prescrizioni ebraiche. L’Islām coranico vuole quindi presentarsi come meno rigido della Legge ebraica i cui divieti alimentari non sono fatti propri dal Corano. In effetti, enunciando alcuni divieti alimentari che i musulmani devono seguire, il Corano dichiara che altri divieti alimentari sono obsoleti e quindi abrogati. Fatto salvo questo principio generale, la descrizione nel dettaglio dei cibi leciti e di quelli illeciti viene fatta dipendere più dalla Sunna e dalla Shar†‘a, che dal Corano stesso, che come indicato nella sura della Mensa, non scende nei dettagli, ma si limita ad indicazioni generali: «Vi son dunque proibiti gli animali morti, il sangue, la carne del porco, gli animali che sono stati macellati senza l’invocazione del nome di Dio, e quelli soffocati e uccisi a bastonate, o scapicollati o ammazzati a cornate e quelli in parte divorati dalle fiere, a meno che voi non li abbiate finiti sgozzandoli, e quelli sacrificati sugli altari idolatrici; e v’è anche proibito di distribuirvi fra voi a sorte gli oggetti: questo è un’empietà. Guai, oggi, a coloro che hanno apostatato dalla vostra religione: voi non temeteli, ma temete me! Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione e ho compiuto su di voi i miei favori, e M’è piaciuto di darvi per religione l’Islàm. Quanto poi a chi vi è costretto per fame o senza volontaria inclinazione al peccato, ebbene Dio è misericorde e pietoso» (Sura della Mensa: V, 3). In questi versetti (ay…t) coranici ciò che è importante per la nostra trattazione è la parte finale: «Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione…». Si tratta probabilmente di un’interpolazione meccana, nella sura quinta che è di origine medinese, apposta dal redattore per sottolineare la portata teologica delle prescrizioni alimentari islamiche, più mitigate rispetto a quelle ebraiche, ma più restrittive rispetto a quelle politeiste. Con la Legge islamica, Dio ha voluto indicare il suo favore al popolo musulmano, scegliendo la via mediana o il giusto mezzo, non troppo pesante da seguire, ma neppure troppo permissiva di fronte a comportamenti peccaminosi e quindi illeciti del politeismo arabo. Il tema di fondo è il principio etico islamico del fare il bene ed evitare il male.

3. Il tema antropologico: le leggi dell’ospitalità.

Il tema antropologico dell’ospitalità è profondamente legato ai due temi trattai: quello teologico e quello giuridico. L’ospitalità che porta in sé l’offerta di cibo è importante quanto la preghiera o tutto quanto è contenuto nel credo islamico (‘aq†da). L’ospitalità viene riferita alla prassi vigente tra le tribù del deserto detta: a¡abiyya (solidarietà), dovuta, per legge tribale, a coloro che si trovano in difficoltà per via delle difficili condizioni climatiche del deserto. Rifiutare l’ospitalità significava infrangere una legge fondamentale nella sua sacralità, ma voleva anche dire rifiutare l’assistenza alla creatura di Dio, che provvede soprattutto per chi è in difficoltà e a rischio per la sua vita. Offrire al viandante la tenda come protezione e il cibo come sostentamento durante il suo lungo viaggio valeva dire offrire la protezione e l’alimentazione al parente prossimo. Chi ospitava, era quindi responsabile dell’incolumità del viandante, come di chiunque accoglieva sotto la sua tenda, cosciente del fatto che Dio avrebbe provveduto a sua volta per lui in situazioni analoghe: «La pietà non consiste nel volgere la faccia verso l’oriente o verso l’occidente, bensì la vera pietà è quella di chi crede in Dio, nell’Ultimo Giorno, e negli Angeli, e nel Libro, e nei Profeti, e dà dei suoi averi, per amore di Dio, ai parenti e agli orfani e ai poveri e ai viandanti e ai mendicanti e per riscattar prigionieri, di chi compie la preghiera e paga la Dècima, chi mantiene le proprie promesse quando le ha fatte, di chi nei dolori e nelle avversità e nei dì di strettura; questi sono i sinceri, questi i timorati di Dio» (Sura della Vacca: II, 177). «Ti chiederanno che cosa dovran dar via dei loro beni. Rispondi: «Quel che date via delle vostre sostanze sia per i genitori, i parenti, gli orfani, i poveri, i viandanti; tutto ciò che farete di bene, Dio lo saprà» (Sura della Vacca: II, 215). 5 «Adorate dunque Iddio e non associateGli cosa alcuna, e ai genitori fate del bene, e ai parenti e agli orfani e ai poveri e al vicino che v’è parente e al vicino che v’è estraneo e al compagno di viaggio e al viandante e allo schiavo, poiché Dio non ama chi è superbo e vanesio» (Sura delle Donne: IV, 36). Questi versetti oltre ad associare il viandante alle categorie di persone sia famigliari che estranei, sottolinea il pericolo in cui incorre l’avaro di ospitalità, che nell’avarizia esprime la sua superbia non compiendo il bene ed esponendosi all’ira divina. Tuttavia, il Corano dice che Dio rifiuta anche coloro che donano per un tornaconto personale, cioè quello di mettersi in mostra davanti alla gente: «Né ama Iddio coloro che donano dei loro beni per farsi veder dalla gente e non credono in Dio e nell’Ultimo Giorno» (Sura delle Donne: IV, 38). Ecco dunque come l’ospitalità, legata al precetto religioso, recupera la prassi preislamica della solidarietà, inserendola nel contesto dell’esperienza religiosa del timore di Dio e della pratica del bene comune. Il Corano ha così recuperato le leggi dell’ospitalità dei beduini del deserto della Penisola Arabica, dando loro una connotazione religiosa. La violazione di queste leggi, ora sacralizzate, porta il credente alla perdizione. I due aspetti antropologici e sociali: 1) Quello della sopravvivenza del viandante in un’economia di sussistenza; 2) Quello dell’esistenza di una massa di individui ridotti alla povertà, incapaci di rispondere ai propri bisogni più necessari, fanno dell’alimentazione un fattore importante che apre, nell’esercizio della legge dell’ospitalità, all’esperienza della solidarietà, non più legata alle convenzioni tribali, ma alla fede in Dio.

 

1 Per le citazioni coraniche utilizzeremo: A. Bausani, Il Corano, Biblioteca Universale Rizzoli, Pantheon, Milano 2001.

2 Al-Razz…q (il Provvidente), è uno dei bei novantanove nomi di Dio.

3 Nicelli P., Al-Ghaz…l†, pensatore e maestro spirituale, Editoriale Jaca Book SpA, Milano 2013, pp. 47-73.

4 Il termine k…fir, plur: k…fir™n, assume nel Corano i significati differenti di “infedele”, “miscredente”, “negatore”. Dipende dal contesto in cui viene utilizzato e dalla polemica antigiudaica, anticristiana, oppure antiidolatrica, che si presenta nel testo.

IL MONASTERO DI RADARI

 

Saggio di Loredana Fabbri

Alla memoria di Monsignor Mario Bocci, che fu per me un grande maestro, di cui ricorderò sempre le parole che spesso mi diceva:

<< Loredana, ricordati sempre questa frase ”Timeo Danaos et dona ferentes”>>.

 

PREMESSA

Questo lavoro è un tentativo di ricostruire la storia e la vita cenobitica del monastero di Santa Maria e San Benedetto di Morrona, non trascurando gli aspetti economici ed i rapporti con i laici che di questa abbazia sono condizionamento e risultato. Ho cominciato prendendo gli inizi dal lavoro di Rosanna Pescaglini Monti sulla famiglia dei Cadolingi, che hanno avuto una determinante importanza nel primo secolo di storia di questo monastero: i rapporti tra questa famiglia ed il cenobio si colgono chiaramente tramite diversi documenti. Molto è stato l’interesse della Santa Sede Apostolica, dell’arcivescovato pisano e del vescovato di Volterra verso questo monastero, al punto di essere causa e oggetto di molte divergenze tra gli arcivescovi e i vescovi pro tempore. Attraverso una quantità notevole di documenti reperiti nel corso di vari anni in diversi archivi della Toscana, è possibile ricostruire, pur con delle grosse lacune, la storia di questo monastero dal secolo XI alla fine del secolo XV, quando il vescovo di Volterra Francesco Soderini, manu armata, caccia i monaci e si impadronisce dell’abbazia, assegnandone i beni rimasti e l’edificio alla Mensa Vescovile di Volterra. In seguito e per molti secoli divenne la residenza estiva dei prelati volterrani, fino a quando, nel 1868, per leggi eversive all’asse ecclesiastico furono estromessi e il monastero venne venduto a privati. Le ricerche per il presente lavoro ebbero inizio molti anni fa e si protrassero per alcuni anni, in seguito, a causa di gravi problemi personali, il lavoro non poté proseguire e fu lasciato per anni incompiuto: ne è testimonianza l’opera “Odeporico delle Colline Toscane” di Giovanni Mariti, trascritta presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze, in quanto non ancora edita e che è stata presa come linea conduttrice del presente lavoro, anche se non sempre viene citata, come anche altri riferimenti che oggi potrebbero sembrare “obsoleti”, ma che in realtà sono validissimi, si veda, ad esempio, le pergamene dell’Archivio Vescovile di Volterra, che ho avuto la possibilità di consultare e trascriverne i punti salienti insieme a Monsignor Mario Bocci, allora archivista del detto archivio, anzi sono molti i suggerimenti ed i consigli che il Monsignore mi dette a quei tempi, consigliandomi di essere il più fedele possibile agli originali, compresi gli errori. Altra testimonianza importante è la Visita Apostolica del vescovo di Rimini Giovan Battista Castelli,”territorio” allora assolutamente impossibile da consultare, da me trascritta sempre sotto la guida di Monsignor Bocci, alla cui memoria è dedicato il presente lavoro. Per quanto riguarda le date dei documenti mi sono attenuta a quelle trovate negli stessi, senza considerare lo stile pisano o quello fiorentino, come anche per le misure e le monete: ho semplicemente riportato ciò che ho trovato scritto nelle varie fonti.

 

Ho voluto evidenziare come agli inizi del secolo XI il monachesimo toscano fosse diviso in monasteri isolati, imperniati nelle loro diocesi ed accumunati dal loro richiamarsi alla regola di san Benedetto. Questo quadro cambia in modo quasi radicale  circa un secolo più tardi, i monasteri vengono a far parte di due grandi congregazioni monastiche: la Camaldolese e la Vallombrosana, la cui storia, spesso, si intreccia con quella di grandi famiglie come i Cadolingi, i Gherardeschi, gli Aldobrandeschi, i Pannocchieschi ed altre che emergono per la loro ricchezza e potere. Certamente nel secolo X  ed anche fino alla metà circa di quello successivo, le fondazioni e le donazioni in favore dei monasteri non rappresentano ancora una cognizione di attività riformistica e di rinnovamento religioso, ma nascono chiaramente  dal concetto di espiazione per la salvezza dell’anima, fondare un monastero o fare una cospicua donazione ad esso rappresentava il mezzo per restare ancorati alla vita cristiana e allo stesso tempo era fonte di interessi politici e patrimoniali. In questo caso, il monastero di Morrona era già esistente, ma con la grossa donazione dei conti Cadolingi comincia la sua ascesa. In genere sono monasteri che conservano ancora la peculiarità di quelli privati, in cui la casata spesso si arroga il diritto di intervento e conferma nell’elezione dell’abate, di rappresentare il monastero nelle controversie giuridiche, certe volte anche nell’osservanza della regola e nella disciplina. Sono disposizioni che solo apparentemente sembrano rigoristiche, ma che in realtà sono dettate da interessi di carattere familiare, politico ed economico. Le bolle pontificie e i diplomi imperiali si orientano sempre di più a favore di una indipendenza giurisdizionale dei cenobi e ciò fa capire come i signori laici fossero interessati a queste fondazioni, che rappresentavano un ostacolo all’espandersi dei poteri vescovili nel contado. E’ in questo contesto che vediamo la fioritura di molte fondazioni e donazioni monastiche, non tanto come fuga dal mondo, ma principalmente come reazione alla situazione sociale ed anche come prospettiva di riscatto di se stessi, delegando a questi uomini ”più vicini” a Dio il compito di ottenere una vita migliore su questa terra e un posto nell’aldilà, quindi si affida alle preghiere dei monaci l’espiazione delle proprie colpe.

Anche se, come già detto, i documenti reperiti sono molti, andando avanti col tempo essi si fanno più rari, creando delle lacune non idifferenti, fino ad arrivare al XV secolo, dove la documentazione è veramente sporadica e non mi è stato possibile ricostruire una storia esaustiva dell’abbazia fino alla sua presa da parte del vescovo di Volterra, fatto documentato in modo particolareggiato.

Per la storia del monastero di Morrona si veda anche il lavoro di M. L. Ceccarelli Lemut, Tra Volterra e Pisa: Il monastero di S. Maria Di Morrona nel Medioevo ( secoli XI-XIII), Pacini, Pisa 2008.

Capitolo I Origini del monastero

L’abbazia di Santa Maria e San Benedetto di Morrona risiede nelle Colline Pisane su un poggio di tufo, diramazione di quello in cui è situato il centro di Morrona, che rimane più a sud rispetto alla badia.[1]

La storiografia tradizionale tramanda come data di fondazione il 1089, anno in cui Ugo o Uguccione, figlio del conte Bulgaro della famiglia dei Cadolingi, con la moglie Cilia fecero alla badia una cospicua donazione. Ma da questo documento appare chiaro che il cenobio era già esistente: << …per hanc cartula offerimus, tibi Deo, ecclesiam sancte Marie de monasterio et eiusdem ecclesie donamus, cedimus, tradimus omnia que predicte ecclesie modo habere et detenere videntur, cum casiaet terris et vineis, silvis et buscareis, culti set incultis omnibusque eorum pertinentiis… >>.[2] Prova di un’anteriore esistenza di questa badia è un’enfiteusi del 25 luglio 1092, in cui troviamo: <<…Martino reverendissimo abbas de ecclesia et monasterio divine et beate sancte Marie prope loco Morrona, ubi vocitatur monasterio Radari… >>.[3] Questo appellativo è presente anche in altri due documenti relativi all’anno 1098, per cui avanziamo l’ipotesi che la fondazione del cenobio possa risalire all’epoca longobarda, come farebbe supporre il nome “Radari”;[4]inoltre in uno dei suddetti documenti, cioè una donazione di beni posti in Casanova, il monastero viene menzionato con il titolo di Santa Maria e, per la prima volta, anche con quello di San Benedetto: da questo secondo titolo possiamo dedurre che la regola professata dai monaci era quasi sicuramente quella benedettina, come, del resto, lo era nella maggior parte dei monasteri toscani in questo secolo; anzi il dato comune del monachesimo toscano, che durante il secolo XI è ancora frammentato in singoli monasteri, è rappresentato solo dal loro indifferenziato richiamarsi alla regola di San Benedetto.

Diciassette anni dopo, nel 1109, la conduzione del cenobio passò ai monaci Camaldolesi con una donazione fatta da Ugo, figlio dell’omonimo conte al Sacro Eremo di Camaldoli della << …ecclesia et monasterio Domini Sancte Marie virgini, quot est constructum et edificatum, sive construendum vel edificandum in loco et curte mea, que nominatur Morrona, cum omnibus rebus et iuris sibi pertinentibus… >>,[5] l’atto è sottoscritto anche dall’abate camaldolese Gerardo, rettore del monastero. Fin dall’anno 1101 troviamo come abate di questa abbazia un certo Gerardo e se il rettore e l’abate fossero stati la stessa persona, ciò farebbe supporre che i Camaldolesi si fossero stanziati nel monastero ancor prima della donazione del conte Ugo all’Eremo di Camaldoli. [6]

Non è da escludere che al “passaggio” dall’ordine benedettino a quello camaldolese abbia contribuito molto Pietro Moriconi, tradizionalmente discendente dalla nobile famiglia dei Moriconi da Vico, monaco appartenente a quest’ultima regola e dagli inizi del XII secolo arcivescovo di Pisa, per scopi politici ed egemonici su questi territori. Pietro Moriconi morì nel 1119 e fu sepolto nella cattedrale di questa città.[7]

Completamente sconosciute e non documentate con certezza restano, dunque, le origini del monastero; certo la donazione dei Cadolingi al cenobio va inserita nel quadro più ampio della situazione monastica toscana intorno al Mille: la frammentarietà, di cui abbiamo già accennato, faceva sì che i singoli monasteri non avessero rapporti organici tra loro e frequentemente erano sottoposti alla tutela di proprietari laici, che avevano poteri di pieno governo sui monasteri stessi.

Grandi famiglie laiche fondarono e dotarono molti cenobi come segno del prestigio e dell’importanza raggiunta; una fondazione di monasteri e donazioni in loro favore non si inserivano, in questo periodo (inizio sec. XI), nel quadro di una consapevole lotta di riforma e di rinnovamento religioso, ma nascevano forse da altri motivi e tradizioni: da lunga data rappresentavano un classico mezzo di espiazione e di salvezza personale, inoltre sia le fondazioni che le donazioni facevano parte di una serie di interessi di carattere politico-patrimoniale che significavano il consolidarsi degli interessi politici ed economici della famiglia intorno ad un punto di forza rappresentato dal monastero stesso che diveniva, in tal modo, l’emblema di una nuova influenza e di un nuovo potere. Sono monasteri che conservano un carattere spiccatamente privato, dove la famiglia si riserva, generalmente, molti diritti che mirano ad interventi dettati da ragioni di carattere politico ed economico e da interessi puramente familiari: assicurarsi nuove solidarietà, nuovi appoggi e contrastare l’espandersi dei poteri vescovili nel contado. L’attività dei vescovi a favore delle fondazioni monastiche, che è quasi inesistente alla fine del secolo X, diviene più frequente nella prima metà del secolo successivo e rappresenta gli albori delle idee di riforma anche in Toscana. Un secolo dopo, questo aspetto del monachesimo toscano appare profondamente cambiato, tanto che la sua storia viene a riassumersi, per la maggior parte dei monasteri, nella storia delle due grandi congregazioni monastiche vallombrosana e camaldolese.[8]

Attualmente non resta più traccia di questa antica abbazia; quando nel 1788 Giovanni Mariti visitò questi luoghi, erano ancora visibili delle macerie di pietre quadrate e << …dei manifesti indizi di cose sacre… >>.[9]

Il 30 agosto 1152 l’abate Iacopo, col consenso del priore di Camaldoli e dei suoi monaci, vendette a Villano, arcivescovo di Pisa, i possessi di Montevaso e Montanino eccetto Riparossa, << …pro edificando clausura in loco qui dicitur Podium, que prius erat in loco que dicitur Abbadie Vetere… >>.[10]

Ancor oggi il luogo conserva lo stesso toponimo ed è possibile che i monaci avessero voluto trasferire lì il proprio cenobio sia per motivi di posizione, sia perché vi sorgeva la chiesa di Santa Maria, che assunse tanta potenza da far scadere la stessa pieve del castello ad un’importanza puramente formale.

La chiesa di Santa Maria e il chiostro

L’antica chiesa di Santa Maria divenne, dunque, proprietà del monastero nel 1089 con la cospicua donazione del conte Ugo dei Cadolingi al cenobio, ossia lo divenne legalmente, perché dalla frase riportata dal rogito, sembrerebbe che la chiesa appartenesse già “spiritualmente” ai monaci: << …per hanc cartula offerimus tibi Deo ecclesiam Sancte Marie de Monasterio et eiusdem ecclesie donamus, cedimus, tradimus omnia que monachi predicte ecclesie modo habere et detinere videntur… >>.[11]

L’edificio, tutto in pietre quadrate, sembra risalire al secolo VIII o IX, ma nessun indizio certo può testimoniare la data o almeno l’epoca della sua origine, i molti restauri subiti nel corso dei secoli non permettono un’esatta ricostruzione dell’interno di essa. Questa chiesa, purtroppo, non viene mai descritta nelle fonti reperite, ma solo citata, molte volte, come luogo in cui venivano redatti gli atti notarili. Bisogna arrivare al secolo XVI per avere qualche notizia di questo edificio con la visita apostolica del vescovo di Rimini Giovan Battista Castelli (1576), il quale ci informa che la chiesa << …in omnibus bene se habet, quia tectum fuit de novo coopertum et parietes incrustati et dealbati… >>;[12] mentre il pavimento era in pessime condizioni, ma il presule vide preparati i mattoni con i quali si doveva rifare la pavimentazione. L’altare, di pietra, aveva la lapide di marmo rotta in parte e sopra di esso vi era un’immagine molto antica ma ritenuta decente. Il campanile, a forma piramidale, era stato colpito da un fulmine e stava per essere restaurato, però aveva due buone campane. Erano già stati stabiliti e stavano per avere inizio anche altri lavori di ristrutturazione per la casa, residenza estiva del vescovo pro tempore di Volterra.[13]

Circa duecento anni più tardi la descrizione, molto dettagliata, della chiesa fatta da Giovanni Mariti, che corrisponde a quella del Targioni-Tozzetti, ci fa conoscere questo antico edificio quasi allo stato attuale: la facciata della chiesa, volta ad ovest e come tutta la costruzione in pietre quadrate, è divisa in tre spartimenti terminanti verso l’alto in tre archi. A destra della porta d’ingresso vi era un cippo sepolcrale infisso nel terreno, di epoca etrusca, che Mariti definisce di marmo pisano con poche decorazioni, riadattato a pila per l’acqua benedetta, attualmente rimosso.[14]

L’interno della chiesa, a navata unica, la cui crociera resta sopra il presbiterio, ha un’abside circolare che è stata incamerata nell’interno del monastero in epoca non definibile. Sempre all’interno, sulla destra, una pila di pietra porta scolpite le armi del vescovo volterrano Luca Alemanni (1598-1625). L’altare, posto ad est, rimane sopraelevato di sei scalini di mattoni, sopra di esso << …vi sono ventotto piccole quadrette poste a più ordini e di varia configurazione. Alcuni terminano a semicerchio, altri in angolo e alcuni in figura piramidale, che unite insieme formano un sol quadro. Al primo ordine di essi e nel mezzo vi è l’immagine di Maria… >>.[15] Questo è probabilmente il dipinto cui fa menzione anche il vescovo Castelli: attualmente resta solo la parte centrale raffigurante la Madonna con Bambino. Dietro l’altare c’è un coro piuttosto piccolo e a sinistra di esso una porta, oggi murata, che permetteva l’accesso al campanile; dalla parte opposta un’altra porta immetteva nel chiostro ed un’iscrizione su marmo portava la data dell’anno 1724: porta e lapide non sono più esistenti.

Lungo le pareti della chiesa sono dipinti, a figura intera, i dodici apostoli, affreschi che il Mariti ritiene risalenti al Seicento; ma gli ultimi due apostoli presso la porta d’ingresso furono restaurati dal pittore Domenico Tempesti.[16]

Nel lato nord, esterno alla chiesa, c’era una porta laterale murata (forse dal tempo in cui fu costruito il monastero?). Ad est di questa porta c’è il campanile a pianta quadrilatera, sempre in pietre quadrate, forse coevo alla costruzione della chiesa, << …ma dal piano ove sono le campane fino in cima è fatto di mattoni… >>,[17] infatti sappiamo di un restauro posteriore al 1576, anno della visita Castelli.

Le campane sono due: una più grande in cui ancor oggi si può leggere la seguente iscizione: “Mentem sanctam spontaneam honorem Deo et Patriae liberationem”. La più piccola porta la stessa iscrizione e l’anno 1327; nel secondo giro troviamo: “T.P.R. Dopni Bartholomei lucensis venerabilis abbatis monasterio Sancte Marie de Morrona Gherardus et Thadeus me fecerit”.[18]

La chiesa misura “44 braccia” dalla porta d’ingresso al catino del coro, nel corpo “13 braccia circa” e nella crociera “22 braccia e mezzo”.[19]

Il chiostro, piuttosto piccolo, è in pietre e mattoni, il cui ingresso principale è a sud, risalente al 1316, fu fatto costruire dall’abate pro tempore Silvestro, ai tempi della visita del Mariti c’erano ancora varie iscrizioni su marmo, una della quali in caratteri gotici, oggi non più esistenti; la parte del monastero sopra il loggiato era, come già detto, adibita a villa del vescovo di Volterra. Il Mariti lo definisce: << …di miserabile costruzione di pietre e mattoni e le pietre sono mal lavorate e peggio connesse, per cui non vi è niente di corrispondente all’opulenza monastica e non ha che far niente coll’edifizio della chiesa, il quale è assai più antico… >>.[20]

Nelle Colline Pisane si conoscono tre diverse grandezze di chiese, in base alle quali, con molte riserve, possiamo stabilire all’incirca il secolo in cui sono state edificate: le più antiche sono quelle piccole lunghe circa diciotto metri e larghe nove (lunghe circa dodici passi e larghe sei), che in origine furono oratori privati fatti erigere da feudatari per comodità delle loro famiglie. Questi oratori si cominciano ad edificare fin dal secolo IV, in seguito, a causa dell’incuria e del tempo furono ridotti in condizioni tali che Pipino re d’Italia, nel secolo IX, ordina che siano subito restaurati. Le chiese che possiamo definire di media grandezza misuravano circa 40 metri di lunghezza e venti di larghezza (lunghe venti o trenta passi circa e larghe dai dieci ai quindici passi), furono costruite tra il IX e il XII secolo circa, quando crebbe lo spirito della Chiesa e il numero dei fedeli, facendo sentire l’esigenza di spazi più ampi per accogliere la numerosa popolazione che accorreva dalla campagna circonvicina. A queste cappelle fu assegnato un prete e ad alcune di esse, in seguito, fu dato il titolo di pievi, prepositure e arcipreture. Le chiese più grandi potevano misurare dai sessanta ai novanta metri circa di lunghezza e dai trenta ai quarantacinque, metri di larghezza(quaranta, sessanta passi di lunghezza e venti, trenta di larghezza) erano le antiche chiese battesimali, cioè le pievi. I piccoli oratori e le cappelle di media grandezza restarono sottoposte a queste pievi, ma col passare del tempo e con l’edificazione di nuove chiese, gli oratori privati, che pure erano serviti al popolo, furono ridotti di nuovo a cappelle private o a semplici benefici.

La pieve di Morrona

Circa l’ubicazione della pieve di Morrona i pareri degli storici sono discordi: Targioni-Tozzetti sostiene che era situata dove era la casa del pievano, senza darne l’esatta posizione; Giovanni Mariti ipotizza che fosse la chiesa di Santa Maria del monastero; Repetti la colloca dentro il castello e poi, contraddicendosi, nell’estremità del paese.[22]

L’antica pieve di Morrona intitolata a Santa Maria e San Giovanni e più tardi anche a Santa Lucia, sorgeva distante dal castello circa tre chilometri in luogo detto GINESTRELLA, toponimo attualmente scomparso.[23]

L’esatta ubicazione della pieve si può evincere da una locazione del 1327 che l’abate del monastero di Morrona Bartolo fa a Cecco del fu Milio di cinque pezzi di terre costituenti il podere della << …plebis Sancti Iohannis de Morrona, quod est suprascpti monasterii et quod iam tenit plebanus Biancus in locatione a dicto monasterio… >>.[24] Il primo pezzo di terra, descritto nei suoi vocaboli e posto nei confini di Morrona, circonda la pieve ed ha un lato verso Oriente, uno “versus Stibbiolum”;[25] il terzo verso la via pubblica e “versus Vallem Orti”;[26] il quarto “in terra suprascripti monasteri”.[27] Il secondo pezzo di terra “positum ibi prope”,[28] ha un lato “in viis plublicis quibus itur Soianam et ad plebem predictam”.[29] Anche gli altri terreni, tutti confinanti tra loro, sono in Valle Orti, il cui toponimo è attualmente scomparso, ma da due relazioni e perizie di beni appartenenti alla Chiesa di Morrona, fatte fare all’inizio del Novecento dal pievano pro tempore, possiamo rilevare che due pezzi di terre posti in “Valdorto” confinano con il botro di Bucine, toponimo tuttora esistente.[30] Questo botro scorre sul fondo di una valle a destra della via che ancor oggi porta a Stibbiolo e a Soiana: la pieve sorgeva su questo lato della strada, dove attualmente è costruita una villa, nel cui terreno, secondo la tradizione orale, sono stati rinvenuti numerosi resti di ossa umane e una croce di ferro che era stata sepolta.

La prima volta che troviamo menzionata questa pieve è nel 1141 in un privilegio di Innocenzo II, con cui vengono confermati dei beni al cenobio di Santa Maria e San Benedetto, e tra questi figurano sia la pieve che la cappella di Morrona intitolata a San Nicola.[31]

Più tardi, nel 1176, l’arcivescovo di Pisa Ubaldo si fece aggiungere le pievi di Morrona e di Pava, estendendo maggiormente la sua giurisdizione, ma la pronta reazione volterrana fece sì che le due pievi tornassero alle loro diocesi.[32]

Nel 1214 la pieve ed il suo pievano furono causa di una lite (lite che si protrae nel tempo, di cui parleremo più avanti) sorta tra l’abate del monastero e il vescovo di Volterra per l’obbedienza che il pievano doveva al prelato e per il pagamento di un censo annuo di soldi quindici volterrani che l’abate doveva pagare al vescovo ogni anno per la pieve, in quanto detentore dello iuspatronato della pieve stessa; ma da quanto tempo il patronato spettava all’abate di Morrona?[33]

Dopo un periodo, che dalla metà del secolo X va fino alla metà circa del secolo XI, in cui l’autorità vescovile è in crisi e le pievi vengono alienate a laici sotto forma di livello o di beneficio, segue un altro periodo che comprende la metà del secolo XI e i primi decenni del XII, in cui vengono restaurati e recuperati i diritti del vescovo, viene ricostruita la compattezza dell’ambito pievano e riorganizzate le istituzioni canonicali. Il conflitto contro il possesso delle  decime e delle chiese da parte dei laici fa sì che esse vengano cedute spesso ai monasteri ed anche i Camaldolesi, come pure altri ordini monastici, cominciano ad ottenere numerose chiese e con queste la facoltà di cure delle anime. Dopo alcuni divieti, in vari concili e sinodi, ai regolari di arrogarsi l’esercizio dell’ufficio parrocchiale, nel Concilio lateranense del 1123 venne ordinato ai monaci di astenersi nel modo più assoluto dal celebrare messe pubbliche, visitare pubblicamente i malati, dare la penitenza e l’estrema unzione, perché tutto questo non era di loro competenza. I monaci, inoltre, nelle chiese da loro dipendenti, dovevano servirsi di sacerdoti investiti dall’ordinario diocesano.[34]

E’ molto probabile che il monastero abbia avuto lo iuspatronato della pieve in questo periodo, che coincide con il “passaggio” dai Benedettini ai Camaldolesi e con l’ascesa politica ed economica del cenobio.

Gli Abati di Morrona rispettarono sempre il divieto di esercitare il governo spirituale della pieve, facendola officiare al clero secolare, mentre si ingerirono con una certa prepotenza nell’elezione del pievano, arrogando a se stessi questo diritto, in quanto detentori del suddetto patronato.[35].

Nelle decime degli anni 1275-1276 la pieve non compare; da quelle degli anni 1302-1303 rileviamo che non pagava decima, mentre la chiesa dei santi Bartolomeo e Niccolò di Morrona pagava libbre 1.1[36]. Nel 1356 (Sinodo Belforti) la pieve pagava sette libbre come la cappella o chiesa suddetta.[37]

Nel catasto dei religiosi del 1427-29 appare che << …lo piovano di Morrona dà di censo l’anno, lo dì di santa Maria sopradetto, lire due, soldi cinque per la chiesa di Santo Bartolo da Morrona per la pieve di Santa Maria a Ginestrella… >>[38]. E ancora << …Pieve di Santa Lucia di Ginestrelle et di Santo Bartolo da Morrona unita insieme… >>[39], ciò farebbe supporre che la pieve sia stata unita con la cappella in un arco di tempo che va dal 1356 al 1427-29.

Nel 1576 il vescovo Castelli, durante la sua visita apostolica, scrive della pieve: << …Deinde vidit ecclesiam dirutam Sancte Lucie a Ginestrella a tanto tempore citra, quod non est memoria in contrarium. Cernantur vestigia parietum longes braccia 8, altitudines braccia 4 et nulla bona habere repertum est… >>[40]; il prelato decretò che sopra le rovine della pieve fosse eretta una grande croce come disponeva il concilio tridentino: possiamo avanzare l’ipotesi che la croce sia quella ritrovata sotterrata.

Capitolo II .Il secolo XII: contesto storico e ascesa del monastero

Il feudalesimo mutò ben presto la natura giuridica e il carattere del potere comitale e le funzioni del conte vennero ad essere considerate come semplice accessorio del “beneficium” che già veniva concesso al conte come ricompensa del suo operato, conseguentemente si giunse alla feudalizzazione della contea. Il vincolo che unisce il conte al sovrano si allenta e in seguito (secc. X-XI) si assiste alla decadenza del suo potere politico, attaccato anche dai feudatari che in questo periodo sorgono numerosi, tra questi i vescovi, i quali affermano sempre più la loro autorità nell’ambito della città.

Anche a Volterra, come altrove, gli imperatori, ai quali premeva l’amicizia dei vescovi, avevano continuamente favorito la curia con privilegi e immunità; forti di tutto ciò i prelati si lanciarono alla diretta conquista del potere comitale nella loro città, potere che venne riconosciuto dall’imperatore con l’intento di procurare al sovrano un fedele e vantaggioso alleato, in quanto i vescovi-conti, non disponendo del diritto ereditario del feudo, evitavano il pericolo di un insediamento nella città di vere e proprie dinastie feudali, tornando libera l’investitura ad ogni sede vacanza vescovile, come invece accadeva nel contado con i feudatari laici.

Nel Comitatus volaterranus, la giurisdizione temporale del vescovo si afferma nei secoli IX-XI: nell’ottobre 821 un diploma di Lodovico il Pio conferma i privilegi concessi da Carlo Magno; nell’845 furono concessi da Lotario “gli avvocati del vescovo”, insieme con il diritto d’ingresso dei pubblici funzionari nelle terre della Chiesa. Nell’874 Lodovico II sancisce i precedenti privilegi, conferma alla curia vescovile tutti i beni posseduti fino ad allora a qualunque titolo e ordina la rescissione di tutti i rogiti (contratti di donazione, concessioni, livelli etc.) effettuati nel periodo in cui il vescovo era fisicamente indisposto, disponendo la rivendicazione dei suddetti beni e decretando pene pecuniarie a chi avesse osato offendere o recare violenza alla proprietà del vescovato di Volterra.[41]

Adalberto marchese di Toscana, concede, nell’896, al presule volterrano il possesso e la giurisdizione civile dei castelli di Berignone, Montieri ed altri; mentre Ugo di Provenza, re d’Italia, dona alla sede episcopale alcuni possessi nel territorio di San Gimignano. Ai tempi di Ottone I L’autorità civile concessa ai vescovi volterrani era già abbastanza estesa, in seguito con i diplomi di Federico I ( 1164 ) e di Enrico Vi ( 1186, 1189, 1194 ), il vescovo venne ratificato con il titolo di “Principe del Sacro romano Impero e Conte palatino in Toscana” e acquistò il diritto di battere moneta, riconoscere consoli e podestà, creare conti, giudici e notai, legittimare spuri.[42]

Il periodo in cui si nota il massimo accentuarsi dei poteri è certamente quello dominato dal vescovo Ruggero, il quale appare per la prima volta come vescovo di Volterra il 24 maggio 1103 in un privilegio di Pasquale II a favore della Chiesa volterrana.[43] Divenne poi arcivescovo di Pisa nel 1123, dopo la scomparsa del suo predecessore Attone, morto fra il 29 agosto 1121 e il 24 marzo 1122, mantenendo la cattedra dell’episcopato volterrano.[44] Ruggero firmò con il titolo di arcivescovo i documenti spettanti la curia pisana e con il titolo di vescovo quelli riguardanti la curia volterrana, ma in un documento del 20 agosto 1128 appare con entrambi i titoli: << … vulaterensis episcopus ac pisanorum archiepiscopus… >>, si trattava di una sentenza a causa di una rimostranza dell’abate di Morrona, in territorio volterrano, contro l’arcivescovo di Pisa per dei possessi posti in episcopato volterrano. [45]

Ruggero non appartenne, come è stato ipotizzato in passato, alla nobile famiglia degli Opezinghi, originaria della zona tra Pisa e Volterra, dove aveva anche i suoi possessi,  bensì discendeva da due nobili famiglie lombarde e particolarmente importante fu la famiglia paterna, in quanto il padre Enrico (II) del fu Enrico apparteneva alla sesta generazione dei Gisalbertingi o Ghisalbertini, il cui capostipite Giselberto fu vassallo di re Berengario I, poi conte di Bergamo, infine conte del Sacro Palazzo. La madre del prelato << …Bilisia filia quondam Rogerii de loco Soresina… >>[46] apparteneva ad una famiglia della feudalità capitaneale milanese. Ruggero incrementò i beni della Chiesa volterrana prima nel 1111 con una cospicua donazione di terre poste << …in curte sua de Casano… >>[47] presso il fiume Era, poi nel 1115 con un acquisto della metà dei beni di Gerardo di Catignano e di Alberto del fu Villano entrambi di Pescia, i quali vendevano per pagare dei debiti; detti beni erano posti << …in castri Catignano, castello et curte de Catignano, Riparotta, Arsicile, Cambasi, Sancto Benedicto cum curte Muchio, curte Puliciano, Collemusciori, Camporobiano, Casallia, Fusci, Morrona, Montevaso, Petracassa… >>.[48]

Sconosciuti restano gli eventi che portarono Ruggero a ricoprire l’esercizio dell’episcopato di Volterra, poiché se nel secolo precedente non fu raro che prelati di origine lombarda fossero eletti negli episcopati di Firenze, Lucca e Pisa, nel secolo XII, con la riforma ecclesiastica si torna alla vecchia procedura, eleggendo vescovi provenienti dalla Chiesa locale.[49] Il vescovo Ruggero fu molto più intento alle cure temporali che a quelle spirituali, riassumendo in sé la figura imponente del vescovo-conte.

Quando a Volterra, in ritardo di un secolo rispetto ad altre parti d’Italia, nasce il libero Comune, l’unità patrimoniale e feudale dell’episcopato raggiunge il massimo: siamo alla metà del XII secolo.[50] All’origine del Comune volterrano stanno alcune potenti famiglie, legate da vincoli di parentela, vassalle e suddite del vescovo, queste famiglie stabilite in case-torri dominanti una parte della città, costituivano una piccola comunità, cui i feudatari del contado giurarono di difendere contro tutti nel gennaio del 1194. Quando queste famiglie ebbero la necessità di convertire i beni in loro possesso a titoli diversi, in proprietà definitive e stabili, si trovarono di fronte un vescovo-conte, che accampava e difendeva i propri diritti feudali sorretto da imperatori e papi. Le famiglie si coalizzarono: vassalli vicedomini e avvocati diventarono uomini del Comune e Consoli, staccandosi dai loro signori ecclesiastici, dando luogo ad una sempre più salda unità cittadina. E’ dunque intorno al governo vescovile che si formano i nuovi ceti dirigenti.

Il conflitto, sorto subito con la nascita del Comune, contro il vescovo era inevitabile: in gioco erano le giurisdizioni sul contado, molto ambito dai vescovi.

A Volterra, dalla metà del XII secolo fino al 1239 il vescovo appartenne sempre (con una eccezione) alla famiglia dei Pannocchieschi, grande famiglia comitale, di cui non sono conosciute le origini e l’appartenenza a questa famiglia del primo vescovo, cioè Galgano, è più presunta che reale, in quanto nessun documento ne attesta l’appartenenza e non si hanno notizie prima del suo episcopato. I Pannocchieschi possedevano cospicui beni nel territorio della città; ricordati nei documenti fin dal secolo X, presto si divisero in più rami che tennero signorie nel pisano, nel volterrano e in quel di Massa Marittima.[51]

Nel 1164 Federico Barbarossa conferì a Galgano Pannocchieschi l’investitura ufficiale della città e del comitato, probabilmente per fedeltà e riconoscenza per avere aderito al partito ghibellino, lasciata la curia pontificia e prestare obbedienza all’antipapa Vittore IV, nominato per volontà dell’imperatore in contrapposizione ad Alessandro III. L’atto del 1164 rappresentò certamente l’inizio di quel grande mutamento che vide Galgano trasformarsi da vescovo di Volterra in autorità comitale. Appena divenuto vescovo, dopo l’episcopato di Adimaro, di cui le ultime notizie si hanno nel 1146 e relative al 1150 sono quelle in cui viene menzionato Galgano come vescovo per la prima volta, aggiunse ai possedimenti della sua Chiesa alcuni beni ricevuti per donazione[52] e sempre nello stesso anno cercò di conquistare anche Montevaso, situato metà nella comunità di Castellina, diocesi di Pisa e metà in quella di Chianni, diocesi di Volterra, ciò non poteva non dar luogo a controversie tra i vescovi delle due città, una di queste è testimoniata in un lodo del 15 ottobre 1150, in cui il cardinale Guido, esaminate le molte testimonianze di ambedue le parti, riconobbe la legittimità del possesso di Montevaso all’arcivescovo pisano.[53] Nel 1158 un nuovo successo della politica espansionistica di Galgano portò alla curia volterrana una parte della corte di Gerfalco e di Travale (sul confine del territorio volterrano verso Siena). Di fronte a questa ostentazione di potere ci sono gli interessi concordati dei privati, che intendono difendere i propri beni e le loro libertà e dietro a queste persone c’è il Comune, che vede nel vescovo Galgano, sintesi del regime feudale, l’impedimento maggiore ai bisogni urbani di Volterra.[54]

L’episcopato ha ormai grandi possessi che arrivano fino alle porte di Pisa e di Lucca, Che permettono alla mensa vescovile di impinguarsi con le entrate e con i doni dei fedeli. Intanto il consolato si sta organizzando come istituto giuridico, emancipandosi sempre di più dalla tutela del vescovo, corrodendone a poco a poco le basi del potere. L’intrasigente vescovo, fulminatore di scomuniche, venne accerchiato nel suo palazzo, malmenato e ucciso in seguito ad una congiura popolare. La tradizione vuole che Gargano sia stato ucciso sulla soglia della cattedrale che cinquanta anni prima Callisto II aveva solennemente consacrata al cospetto del vescovo Ruggero.[55]

In venti anni di episcopato del Pannocchieschi l’urto tra Comune e Vescovato si era fatto cruento al punto di contaminare la sacralità.

Seguì un periodo di relativa calma durante l’episcopato di Ugo dei Saladini dei conti d’Agnano, già canonico di Padova, nominato da Alessandro III nel 1173, quindi parrebbe che dalla morte di Galgano (1171) alla nuova nomina la cattedra vescovile sia stata vacante e che per motivi di disordini seguiti all’uccisione del prelato i canonici per difendere la curia e i beni, avessero chiesto la protezione pontificia, accordata in un documento del 1171 e replicata negli anni 1175 e 1179 essendo vescovo Ugo; dopo la morte del quale i Pannocchieschi tornarono alla conquista del potere.[56]

Fu eletto vescovo Ildebrando Pannocchieschi e durante il suo episcopato sembrò che la fortuna fosse dalla parte della sua Chiesa: i privilegi, le concessioni, le protezioni pontificie si alternarono a quelle imperiali, appagando l’intraprendenza e la sete di potere di questo vescovo, che tuttavia seppe sempre mantenere la dignità dell’ecclesiastico.

Con un diploma del 15 maggio 1185 di Federico I, vennero annullate tutte le alienazioni di beni della mensa vescovile volterrana fatte probabilmente dall’ antecessore di Ildebrando.[57] Il 26 agosto 1186 Arrigo VI concede in feudo al prelato circa settanta tra ville, castelli, terreni ( di alcuni di tali beni ricevette la metà, terza e quarta parte) posti nel contado volterrano e pisano e il governo della città di Volterra con tutte le giurisdizioni sovrane, oltre al diritto di eleggere consoli non solo a Volterra ma anche a San Gimignano, Casole e Monte Veltraio; quindi Ildebrando oltre alla carica di vescovo si trova ad avere anche funzioni di sovrano o quanto meno di vicario imperiale.[58] Sempre da Enrico VI ottiene la conferma del possesso delle miniere argentifere di Montieri e nel 1189 il diritto di batter moneta con l’o bbligo di una retribuzione annua di sei marche d’argento al regio erario, incrementando le entrate di questa curia tanto che nell’anno 1190 fu in grado di prestare a Enrico Testa, marescalco di Enrico VI, la somma di mille marchi d’argento.[59] Nel 1187 il papa accorda ai possessi e ai diritti della sede volterrana il perpetuo privilegio dell’apostolica benedizione e l’anno seguente la pieve di Colle Val d’Elsa è posta sotto la giurisdizione del Pannocchieschi.[60] Privilegi e immunità vengono anche accordati da Innocenzo III (1189).[61]

Dopo il 1190 i rapporti tra Ildebrando ed Enrico VI subiscono una rottura a causa dell’intesa dell’imperatore con Pisa, di cui ha bisogno per la sua impresa in Sicilia. Enrico VI dichiara fuori corso la moneta volterrana a beneficio di quella pisana; ma nell’estate del 1194 Ildebrando, riaccostandosi di nuovo all’imperatore, ottiene i poteri di Messo regio e Conte palatino, con giudizio sulle cause di prima istanza e di appello spettanti all’Impero.[62]

Le parole del Giachi danno un’idea molto chiara della personalità di questo principe della Chiesa: << …fu così intraprendente che non ebbe difficoltà di mescolarsi nei pubblici affari, e trattar personalmente tanto la pace che la guerra, di modo che fu poi dichiarato Prior Societatis Thusciae nelle fazioni contro l’imperatore Federigo. L’autorità che seppe procurarsi sopra la città e sopra altre parti della sua diocesi, lo portò a tanta grandezza che gli stessi imperatori Federigo e Arrigo lo ebbero in molta considerazione; e la repubblica fiorentina lo volle ascrivere nell’anno 1200 nel numero dei suoi cittadini, esimendo da ogni gravezza le terre e gli uomini soggetti al vescovado >>.[63]

Poco tempo dopo sorse un grosso contrasto tra il vescovo e i suoi canonici, che dette luogo alla secessione tra il capo della diocesi, investito dei poteri temporali, e il Capitolo della cattedrale, che ebbe una violenta reazione quando Ildebrando tentò di nominare canonici a lui fedeli. Innocenzo III dette ragione al Capitolo e i Volterrani si resero conto che per difendersi dal vescovo dovevano mettersi sotto la protezione pontificia.[64]

Troviamo ancora menzionato Ildebrando in un documento del 1211, ebbe dunque l’episcopato volterrano per circa ventisei anni e l’anno successivo troviamo sulla sedia vescovile Pagano Pannocchieschi, arcidiacono della cattredrale e nipote di Ildebrando.[65]

E’ in questo quadro storico-politico che si svolgono le prime vicende documentate del monastero di Radari, in cui i conti Cadolingi hanno avuto, nel periodo iniziale, un’importanza fondamentale.

La presenza della ricca e potente famiglia dei Cadolingi in questa zona è documentata solo dalla fine del secolo XII: nel secolo X i Cadolingi possedevano vasti territori nella zona intorno a Pistoia e nella Valle dell’Ombrone; fu con il conte Cadolo che verso la fine di questo secolo il loro patrimonio cominciò ad espandersi fino all’Arno ed egli stesso fondò il primo monastero della famiglia a Fucecchio. Verso la metà del secolo XI, con il conte Guglielmo detto Bulgaro, i possessi dei Cadolingi si espansero lungo la riva volterrana del fiume Elsa e, tra la fine di questo secolo e l’inizio del XII, Uguccione si impossessò di vasti terreni nell’alta valle del Bisenzio e nel punto d’incontro delle diocesi di Lucca, Pisa e Volterra.[66]

Una gran parte di questa enorme massa di beni era stata chiaramente usurpata ai vescovi di varie diocesi da tutti i membri della famiglia, ma il conte Guglielmo Bulgaro fu uno dei maggiori responsabili di sottrazioni di possessi vescovili e con solenne giudizio, che ebbe luogo il primo dicembre 1059 in Firenze,[67] davanti a papa Nicolò II, Guglielmo dovette restituire a Guido, vescovo di Volterra, la metà dei castelli di Puliciano, Colle Muscioli e tutti i beni che Adelmo e Gisla, fondatori della badia ad Elmo e benefattori di varie pievi della zona volterrana, prima di morire, avevano posseduto nei pivieri di Cellole, Chianni e San Gimignano.[68]

Il 18 febbraio 1113 moriva l’ultimo dei Cadolingi, Ugo o Ugolino: il suo testamento disponeva di lasciare la metà dei propri beni ai vescovi delle diocesi in cui questi erano ubicati.[69]

Ugolino, probabilmente, tormentato dal pensiero che l’estinguersi della propria casata fosse un castigo dovuto alla violenza dei suoi avi a danno delle chiese, disponeva in tal modo che i beni ecclesiastici tornassero alle varie diocesi. Già negli ultimi anni di vita, il conte aveva beneficiato alcuni monasteri, specie se eretti dai suoi antenati, tra i quali quello di Santa Maria e San Benedetto di Morrona con un rogito del 1106; altri nel 1107 in suffragio dei genitori e dei fratelli.[70]

Subito dopo la sepoltura del conte ebbe luogo la restituzione dei beni alle singole diocesi ed a questa cerimonia, oltre ai vescovi di Firenze, Lucca, Pistoia, Pisa, fu certamente presente anche Ruggero, vescovo di Volterra, il quale fu investito della metà del patrimonio che Ugolino possedeva “infra episcopatum vulterranum”. [71]

Ciò che accadde dopo la morte di Ugolino fu causa di urto fra Gerardo, abate del monastero di Morrona e il vescovo di Volterra, che subito ebbe delle pretese nei confronti del cenobio; ma l’abate non fu certamente d’accordo a cedere alle pressioni del prelato volterrano, tanto più che la badia, con una bolla di Pasquale II del 4 novembre 1114, si trovò ad essere sotto la protezione della Santa Sede Apostolica con gli altri monasteri dell’ordine Camaldolese.[72]

Il 21 maggio 1120 Callisto II, essendo presente a Volterra, accoglie sotto la protezione pontificia sia il monastero che i beni, che si espandevano fino a Massa e Montegemoli. Onorio II con sua bolla del 7 marzo 1125, confermano tutti i possessi e i privilegi.[73] Ma questi privilegi, rappresentanti il rafforzamento dei diritti e prerogative dell’abate, non posero fine alle pretese del vescovo fino all’anno 1128, quando Ruggero già divenuto arcivescovo di Pisa, oltre che vescovo di Volterra, << …resideret iuxta ecclesiam et monasterium Sancte Marie de Morrona cum suis iuris peritis et notariis et aliis probis atque nobilibus viris… >>,[74] esaminò con Guido, priore di quella abbazia, le ragioni dei possessi e restituì allo stesso priore << …quedam iniuste detinere de iustitia suprascripti monasterii. Te. Prefatus venerabilis episcopus causa cognita refutavit atque postposuit iam dicto monasterio in manu predicti prioris omnes res que continebantur in suis instrumentis quas ipse habebat et possidebat de Aquisiane curte et vulterrano episcopatu ut pote in Rialto et in Ripa Rossa et in aliis locis… >>.[75]

L’arcivescovo Ruggeri sfruttò l’occasione della temporanea fusione tra le diocesi di Volterra con quella di Pisa, perseguendo una politica a favore di quest’ultima città ed anche gli abati di Santa Maria e San Benedetto agirono in questa direzione, legando sempre più le sorti del cenobio e dei suoi possessi a Pisa e alla Chiesa pisana, che vi andò acquistando sempre più pretese e diritti.[76]

Con un breve del 23 gennaio 1134 diretto a Gerardo abate del monastero di Morrona, papa Innocenzo II ordina che egli resti nel possesso di tutti quei beni che erano stati concessi alla badia dal conte Ugo e dai suoi figli << …aut aliis catholicis… >>;[77] conferma tutti i possessi presenti e futuri; proibisce ad ogni vescovo ed a qualunque altra persona di molestare il monastero, togliere beni o diminuirli con qualsiasi vessazione o legge.[78]

Anche quando il monastero si trovò in difficoltà economiche, perché gravato da ingenti debiti, l’abate Gerardo si rivolse alla Chiesa pisana, vendendo, nell’anno 1135 il 29 marzo, dei beni a Uberto arcivescovo di Pisa per cinquecento soldi: si trattava della metà intera della terza parte << …de podio et castello et curte de Aqui, quod Vivaio vocatur et de podio et castello et curte et districto de Morrona… >>.[79] Nel 1141 l’abate Uberto, successore di Gerardo, si fece confermare da papa Innocenzo II << …in ipso castro et curte eius plebem et capellam eiusdem castri cum decimis. Ea que habetis in curte aquisana. Balneum et acqueductum usque in Casina terras qua habetis in palude et in pantano cum decimis eorum… >>. E il 22 novembre 1148 Eugenio III aggiunse la chiesa di Tora e quella di Collemontanino. [80]

In tal modo è spiegabile l’atto con cui l’arcivescovo di Pisa Ubaldo, relativo al 2 giugno 1199, concede al priore di Camaldoli, ricevente per l’abbazia di Morrona, la facoltà di eleggere e di istituire il pievano della chiesa di Collemontanino, facoltà che costò agli abati del monastero non pochi fastidi, come vedremo più avanti.[81]

Nel 1152, quando venne costruito il nuovo edificio del monastero, l’abate Iacopo, su consiglio di Rodolfo, priore di Camaldoli e col consenso dei suoi monaci, per sostenere le spese della costruzione, in altro luogo e nell’odierna forma, vendette ancora una volta alla Chiesa pisana, allora rappresentata dall’arcivescovo Villano, i beni che possedeva in Montevaso, Montanino e Mortaiolo, eccetto Riparossa, per un valore di quattrocento soldi pisani e un anello d’oro. Il documento fu rogato alla presenza degli abati dei monasteri di San Zeno e di San Michele in Borgo, dei consoli di Pisa e di altri importanti cittadini.[82] La Chiesa pisana venne in tal modo in possesso di ciò che avrebbe dovuto avere alla morte del conte Ugo.

Di grande interesse fu la strada del monastero per lo scambio commerciale tra Pisa e Volterra, che si vivacizzava col mercato di Pava (odierna Pieve a Pitti), traffico osteggiato dagli abitanti di Volterra fin dal 1252 con una chiara disposizione statutaria.[83]

Il patrimonio fondiario e l’economia del monastero attraverso i secoli

Secolo XII

 La grossa dotazione che il conte Ugo dei Cadolingi fece all’antico monastero di Radari nel 1089, consisteva, oltre a molti terreni “cultis et incultis” sparsi in vari luoghi, anche in numerose case ed alcuni mulini << …que sun in fluvio Caldana, cum aquis et aquiductibus… >>.[84] A questa donazione se ne vengono ad aggiungere altre tre nel 1098: la prima del 4 gennaio è di prete Albone del fu Buosi, che per suffragio dell’anima sua e dei suoi genitori offre alla chiesa e monastero la sua parte di patrimonio consistente in due pezzi di terra posti in Casanova: l’abate Eriberto riceve la donazione per sostentamento dei minaci presenti e futuri.[85] La seconda di tre pezzi di terra posti nei confini di Rivalto, viene fatta da Benzo e Gerardo del fu Saracino e da Oliva loro madre e mundualda il 7 gennaio, a Casanova e Rivalto “esclusa la terra figlinese e raimbertinga”;[86] la terza da Bianca vedova di Giudo e figlia del fu Imiglio il 6 luglio: i due pezzi di terra offerti si trovano nei confini di Casanova e sono coltivati a vigne.[87] Questi beni danno luogo alla formazione di un ingente patrimonio ed il cenobio comincia ad avere amministratori e feudo.

Durante la prima metà del XII secolo continua l’ascesa economica del cenobio sia con donazioni private, che con acquisti da parte degli abati.[88]

Ancora una volta i Cadolingi hanno un ruolo preminente nei confronti dell’abbazia accrescendone il patrimonio con due donazioni fatte da Ugo, figlio dell’omonimo conte, negli anni 1105 e 1107; vediamo dunque agire questa famiglia alla stessa stregua di tanti altri individui e gruppi familiari della zona. Con la prima il monastero entra in possesso del terreno che dall’altura su cui era edificato degrada nella valle fino al fiume Cascina, ad accezione di cinque staiora di terra vignata coltivata da Aldibrando di Gerardo.[89] Con la seconda, di un pezzo di terra chiamato Collina, posto nei confini di Morrona in luogo detto Villa Negoziana, ad eccezione di tre particelle, le cui prime due << …sunt feudu de filii Gualandi de Montorgnano… >>;[90] la terza è coltivata da Ildibrando di Gerardo Cinnami.[91] Otto staiora di terra seminativa << …ad staiores duodecimos panos… >> vennero a far parte dei beni del cenobio in seguito ad una donazione di prete Tenzo fu Gumberto il 9 dicembre 1105.[92]

Beni a Soiana, Soianella e Campagnana furono donati da Rodolfo del fu Davit, Gualando del fu Guidone, Mascaro del fu Marco. La chiesa dei santi Cristoforo e Lucia di Villa Negoziana con i suoi beni ed appartenenze, compreso ogni diritto di patronato, compresa la facoltà di istituirvi un prete, fu donata da Ildebrando fu Gerardo, la chiesa era anche dotata di cimitero.[93]

Altri terreni con relative appartenenze furono offerti all’abbazia da “Ragineri comitis de Pantano” nel 1115;[94] Rolandino fu Buoso donò la metà intera del suo patrimonio, l’altra metà sarebbe appartenuta al monastero se alla sua morte non avesse avuto eredi diretti, in caso contrario gli eredi avrebbero avuto l’obbligo di dare alla chiesa del monastero un affitto annuo di dodici denari per la festa di s. Stefano.[95]

Nella seconda metà del secolo XII le pie donazioni furono molto meno frequenti, forse a causa della lacunosità della documentazione e non dal fatto che queste venissero a mancare, gli atti di fine secolo registrano solo due donazioni ad una notevole distanza di anni da quelle sopraccitate. Nella prima, del 20 dicembre 1182, Iugeneta del fu Ildebranduccio e vedova di Guido di Tavernere offre ogni suo avere e se stessa al cenobio, di cui è abate pro tempore Marco, il quale in un codicillo promette in cambio di dare alla benefattrice, vita natural durante, << …victum, vestitum convenientem… >>.[96] La seconda risale al 7 agosto 1184: Corso del fu Opizone e sua moglie Berta donano tutte le loro proprietà mobili ed immobili poste nei confini di Morrona, Aqui e Montanino.[97]

Anche i beni pervenuti all’abbazia per acquisti degli abati dovettero essere piuttosto ingenti: i primi due risalgono rispettivamente al primo febbraio e al 6 aprile 1109, entrambi hanno come attore il conte Ugo dei Cadolingi, il quale vende, col primo, metà della sua porzione del castello e corte di Morrona con << …omnibus casis et cassini, vel casalini… >>.[98] Con questo acquisto gli abati vennero in possesso della maggior parte dei terreni circostanti Morrona. Con la seconda compera, il cenobio entra in possesso della metà di ciò che Ugo possiede in << …Aquisiana curte, cum alia medietatem de tota mea portione de castello quot (sic) nominatur Vivarium… >> ad eccezione del castello e corte di Santa Lucia.[99] Entrambi gli acquisti furono fatti per << …unum par pellium in prefinito… >>; nei codicilli, che seguono la “completio”, viene stabilito che se il conte avesse avuto un erede sia maschio che femmina, tutti questi beni sarebbero stati restituiti dagli abati, contro il pagamento di quaranta lire di denari lucchesi; mentre se Ugo fosse morto senza eredi anche l’altra metà dei suddetti bene sarebbe appartenuta al monastero. Ciò fa pensare ad un prestito con garanzia fondiaria più che ad una vendita. La zona indicata è quella ad est dell’attuale Casciana Terme, individuabili per il riferimento al fiume Caldana, che nasce ai piedi del colle di Vivaia, dove è ubicata questa località e di cui erano già note le proprietà terapeutiche di queste acque, infatti nel documento si fa riferimento alle “aquis et aqueductibus”; in questo luogo era concentrato un nucleo importante dei beni di questa famiglia e l’acquisizione di ciò da parte degli abati fece sì che i rapporti tra il monastero e il Comune di Aqui fossero più frequenti, dando luogo ad interminabili liti di cui parleremo più avanti.[100]

Dopo che all’abbazia di Morrona erano passati, sia per donazione sia per vendite vere o simulate, un’enorme parte dei beni che i Cadolingi avevano in questa zona, il monastero diventa il polarizzatore di questa importante parte della Tuscia, punto d’incontro di tre diocesi: Lucca, Pisa, Volterra, sfuggendo al controllo dei rispettivi vescovi, in particolare a quello di Volterra, diocesi di cui faceva parte. Ma dopo la morte di Ugo, nel 1113,che determinò l’estinzione di questa famiglia, ebbe logo la spartizione e la restituzione dei beni ai vescovi nelle cui diocesi erano situati, come dal testamento dell’ultimo conte.[101] Quando il vescovo di Volterra, come anche gli altri due, fu investito della metà dei beni posti nel suo episcopato e due anni più tardi (1115) acquistò dagli esecutori testamentari anche l’altra metà per la somma di centocinquanta lire di denari lucchesi, si ebbe lo smembramento di questo enorme patrimonio che comprendeva anche i beni della badia di Morrona.[102] Ebbe così inizio il processo di decadimento economico di questo monastero?

Altri terreni, situati nelle vicinanze dell’abbazia, furono acquistati nel 1134, 1136, 1139.[103]

Ci troviamo nell’impossibilità di identificare una serie di “loci dicti”, ora per la maggior parte dei casi scomparsi, per la cui localizzazione i documenti esaminati non forniscono alcun elemento: essi collegano in genere la loro origine a qualche caratteristica del paesaggio o al nome del proprietario o del conduttore, il mutamento dei quali, nel contesto di una diversa organizzazione agraria, ne ha probabilmente provocato la scomparsa.

Il patrimonio fondiario, pur non formando un unico blocco, presenta una certa compattezza: raramente, infatti, gli appezzamenti non confinano, almeno da un lato, con altri di proprietà del monastero. Tra i confinanti figurano anche dei privati, probabilmente esponenti di famiglie più abbienti della zona ed enti ecclesiastici come la chiesa dei ss. Nicola e Bartolomeo. La grande percentuale di fondi privi di indicazione di misura rende, purtroppo, il discorso quantitativo necessariamente generico. Nella maggior parte dei casi viene commerciato il singolo appezzamento, la “petia de terra” sempre definita nei suoi confini, oppure la “terra et res”, la “terra et vinea”, ubicata in uno o più luoghi, confinata e solo in pochi casi misurata. Questa prevalenza della “petia de terra” impone l’immagine di un enorme frazionamento agrario, del resto anche le quattro confinazioni indicate per ciascuna parcella e in cui compaiono con frequenza la “via” e il “fossatus” fanno pensare a una viabilità campestre e ad una rete di fossi piuttosto intensa.

La natura dei beni posseduti dal monastero varia: in gran parte si tratta, come già detto, di pezzi di terra, di mulini, di casine o casalini, più di rado di orti. I terreni sono coltivati a grano, vigne, olivi, prati e pascoli.

La forma di gestione, sulla quale siamo infirmati da quattro documenti risalenti al 1115, 1168, 1196, 1198 è l’affitto, che veniva concesso in cambio di un censo annuo in denaro da soddisfarsi nelle feste di s. Michele e s. Giovanni (4 dicembre).[104]

Dal patrimonio fondiario dell’abbazia furono alienati ancora dei beni con due vendite: abbiamo visto che quando il vescovo Ruggeri divenne contemporaneamente anche arcivescovo di Pisa, rivolse la sua politica a favore di questa città in connessione con la politica di espansione che Pisa perseguiva nelle Colline Pisane e nel contado volterrano fin dall’inizio del secolo XII. Anche gli abati di Morrona si orientarono in questa direzione, cercando di svincolarsi sempre più da Volterra e unendo le sorti del monastero a Pisa; infatti quando nel 1135 l’abate Gerardo si trova gravato da ingenti debiti, vende all’arcivescovo di Pisa Uberto quei beni che aveva acquistati nel 1109 dal conte Ugo.[105] Nel 1152, l’abate Jacopo vende ancora all’arcivescovo pisano tutti i beni che il monastero possiede in Montevaso e nei dintorni, per edificare la badia nel luogo detto Poggio, cioè presso l’antica chiesa di s. Maria dove ancor oggi la possiamo vedere.[106]

Vogliamo concludere l’argomento sull’economia di questo monastero nel secolo XII con le parole del Volpe: << Favorivano in questo tempo siffatto distendersi del dominio territoriale della chiesa e del comune pisano o la libera donazione degli abitanti di qualche castello, o le necessità finanziarie delle abbazie un giorno floride, ora in rapida decadenza, come quella di Santa Maria di Morrona […] i vecchi monasteri di origine longobarda e franca, se renitenti ad accogliere il moto riformista dell’XI secolo, insidiati da tutte le parti dai feudatari avidi, minati dalla sorda e tenace ribellione dei loro dipendenti, si trovano a poco a poco spogliati della terra ed onerati di debiti coi cittadini più ricchi per i quali simile impiego di denaro è un’ottima speculazione, perché non mancherà mai loro l’appoggio del comune contro gli abbati ed i feudatari del contado. E’ questo il caso, nel XII secolo, di molti monasteri del contado pisano, specialmente se hanno vicino un fiorente comune rurale col quale i contrasti sono inevitabili come quello di San Felice di Vada, San Salvatore di Sesto, presso Bientina, di Santa Maria di Morrona nel castello omonimo >>.[107]

 Secolo XIII

 La sporadicità dei documenti impedisce un’organica ricostruzione dei possessi che costituirono il patrimonio fondiario del cenobio anche per il secolo XIII.

I beni acquistati dagli abati, in un arco di tempo che va dal 1239 al 1272, sono appezzamenti di terre lavorative, con alberi, boscate e vignate, in alcuni dei quali sorgono anche case e casalini; se poi volessimo indicare quali alberi fossero coltivati dai contadini del monastero, potremmo compilare, in base alle nostre fonti, un inventario molto inconsistente, in quanto sono nominati solo fichi e peri, in numero maggiore gli ulivi.[108] I cerri e le querce, che pur costituivano la base della vegetazione arborea in queste colline, sono menzionati rarissime volte nei documenti, probabilmente questa lacuna è dovuta alla frequenza di queste piante che ne rendeva inutile la precisazione ed erano sottointese nel generico vocabolo di “albero”.

Vite e frumento sono le uniche colture cui le fonti si riferiscono più frequentemente, in special modo per la prima come di quella più pregiata: queste vigne erano disseminate un po’ dovunque. Quanto al frumento, base dell’alimentazione e base, in molti casi, delle unità di misura di questi terreni, lo troviamo nominato molto spesso anche come retribuzione dei censi che i contadini davano agli abati. Rare volte il pezzo di terra era lavorato a prato.

I riferimenti topografici degli acquisti sono, come per il secolo precedente, designati con “loci dicti” ed il quadro generale è sempre quello di un intenso frazionamento fondiario, in cui, dopo lo sfaldamento del manso, prevale incontrastata la “petia de terra”, ma nonostante ciò possiamo rilevare che il patrimonio fondiario del monastero si dislocava in modo piuttosto omogeneo intorno ad esso per un raggio molto vasto, anche se, data la mancanza di misure dei terreni nella maggior parte delle fonti, non ricostruibile dal punto di vista quantitativo.

Questi beni erano dati a livello o a locazione, ma non è specificato se a contadini o a coloni o ad altre persone di diversa condizione giuridica. Un livello risalente al 13 gennaio 1271 fu concesso dall’abate Alberto a prete Scolario, pievano della pieve di Morrona, per conto della stessa pieve, consistente in numerosi appezzamenti di terreno siti nei pressi intorno alla pieve, per una durata di ventisei anni.[109]

I censi, annuali, erano retribuiti sia in denaro (quasi sempre moneta pisana), che in cereali (grano, orzo, miglio), .[110]

Le nostre fonti non ci permettono di formulare un organico discorso sul punto essenziale dell’organizzazione della proprietà monastica, cioè sui sistemi di sfruttamento del lavoro contadino. L’accumulazione di terre da parte dell’abbazia durante i secoli XII e XIII con il continuo acquisto di terreni, incameramento di patrimoni familiari, organizzazione della propria ricchezza fondiaria intorno a chiese e villaggi, dovette essere considerata, probabilmente, anche come la ricomposizione di un dominio sulle famiglie contadine, in un quadro ormai decaduto dell’antica organizzazione per mansi.

Per quasi tutta la prima metà del secolo XIII nessuna donazione al monastero compare nelle fonti: l’ultima risale al 1184, per cui il cenobio non avrebbe ricevuto donazioni per un periodo di cinquantotto anni.[111] Avanzare delle ipotesi a questa mancanza di offerte da parte laica sarebbe cosa inopportuna e da fare con la massima cautela, d’altra parte il vuoto di donazioni degli anni che vanno dal 1184 al 1242, anno in cui troviamo la prima “cartula offersionis” di questo secolo, potrebbe essere una delle tante conseguenze della lacunosità della documentazione, come già altrove detto.[112]

Tale donazione è interessante per diversi motivi, perché è un’alienazione di beni cospicua, per l’ius patronato  delle due chiese e perché nel documento troviamo una frase che sembra fuori tempo: Scotto del fu Bernardo e Gregorio suo figlio danno a Benedetto, abate di Morrona, oltre ad ogni loro possesso posto nel castello di Montanino anche lo ius patronato della chiesa dello stesso luogo. Offrono, inoltre, il patronato della pieve di San Giovanni di Aqui << …et totam mansionem quam habet et tenet Benenatus quondam Pantonerii de qua consuevit reddere annuati quarras sex grani de Montanino et quam magister Contadinus, de eodem loco, habuit et tenuit a suprascripto Scotto actor et defensor ad penam quingentarum marcarum aurei… >>.[113] L’abate concesse loro un vitalizio annuo consistente in tre staia di grano e una libbra d’olio. E’ da notare la frase << …totam mansionem quam habet et tenet Benenatus… >>[114] in un documento del secolo XIII, bisogna considerare che il frazionamento fondiario è già intenso nel XII secolo, in cui prevale ormai il pezzo di terra o la terra con vigna, la terra con bosco, la terra con alberi; la decadenza del manso è già avvenuta anche se nella prima metà del secolo XII non è raro che alcuni atti notarili nominino il detentore di un complesso fondiario, anche se non si tratta più di un manso. Verso la metà del XII secolo, l’evoluzione della decadenza del manso è giunta al termine e generalmente i documenti menzionano i coltivatori raramente, nella maggior parte dei casi le alienazioni fondiarie non avevano ormai più per oggetto tutte le terre facenti capo a una famiglia contadina, ma singoli ed isolati pezzi di terre. Certo non può essere questo unico esempio a configurare quel tratto principale della struttura curtense, né possiamo desumere la persistenza di questa struttura nella zona alla fine della metà del secolo XIII da questa formula, in cui il manso figura compreso nei beni della pieve di Aqui alienati al monastero, è probabile che rappresenti più un’indicazione geografica che l’espressione di un legame strutturale. Sempre nella stessa carta, l’abate, col consenso dei suoi monaci, promette per sé e per i suoi successori, di dare << …ei vel suo herede aut cui ipse preceperit apud castrum Montanini toto suprascripte vite Scotti esse??? in dicto castro staria tria grani et libram unam olei ad pena dupli… >>.[115] Un altro rogito con la stessa data contiene la conferma dei beni da parte del donatore.[116]

Nella seconda metà del secolo tre sono le donazioni (reperite) fatte all’abbazia: la prima effettuata da Belcolore vedova di un certo Fabbri di Terricciola, che per rimedio dell’anima sua e dei suoi parenti dona a Gerardo abate un pezzo di terra con fichi e bosco, posto nei confini di Morrona in luogo detto Valle, terreno che viene affittato nello stesso giorno dall’abate a Guido fu Saracino di Morrona per sei panieri di grano buono l’anno.[117] Le altre donazioni sono due testamenti: con il primo, del 1286, il monastero entra in possesso di tre parcelle di terreno poste nei confini di Morrona, il testatore, Benvenuto del fu Giovanni dello stesso luogo, obbliga con una clausola l’abate ad affittare gli appezzamenti a Lenzo, Naccio e Donato, figli del fu Carbone e abitanti nello stesso luogo, per un censo annuo di sei quarre di grano. Il testatore, inoltre, lascia all’abbazia altri due terreni situati nelle vicinanze degli altri, uno dei quali con una casa, a condizione che Beldimanda, sua moglie, << …det annuatim suprascripto monasterio quarras duas boni et puri et nostratis grani ad reptam pisanam mensuram apud idem monasterio… >>.[118] Porta la stessa data il rogito con cui Alberto abate entra in possesso di questa cospicua offerta.[119]

Un pezzo di terra posto sempre nei confini di Morrona in luogo detto Cascina viene a far parte del patrimonio fondiario di Santa Maria e San Benedetto con testamento di Lupo fu Pellario di Morrona il 16 giugno 1288.[120]

Negli anni 1275-1276 la badia di Morrona pagava di decima libbre 25 e soldi10; nel 1276-1277 libbre 26 e soldi 6.[121]

Secoli XIV e XV

 All’inizio del XIV secolo, la badia di Morrona pagava di decima lire 14.18, ciò farebbe supporre che le rendite fossero molto diminuite dal 1276-77 quando, come abbiamo visto, pagava lire 26.6;[122] ma al tempo del Sinodo Belforti (1356) il monastero pagava di decima 90 lire,[123] questo farebbe ipotizzare una ripresa economica all’inizio della seconda metà di questo secolo: cosa poco probabile, perché il cenobio, come vedremo, ha un’evoluzione abbastanza rapida di quella decadenza economica iniziata già nel secolo XII. Chiara testimonianza è la bolla pontificia spedita da Bonifacio VIII al pievano di Chianni il 17 aprile 1300, perché si occupasse di rivendicare per il monastero tutti quei beni che erano stati alienati illegittimamente dagli abati, queste concessioni a laici e chierici avevano causato gravi danni economici al monastero.[124] Nella bolla non viene menzionato il nome del pievano, ma supponiamo che si tratti di un certo Giacomo, pievano a Chianni dal 1285; resta ignoto il motivo per cui Bonifacio VIII si rivolga a questo pievano per tale incarico, che in quei tempi rappresentava un esercizio di difficile attuazione e da conseguire con molta diplomazia.[125]

Nella prima metà del Trecento il monastero entra in possesso di vari pezzi di terra acquistati dagli abati, questi beni sono dislocati nei confini di Morrona ed Aqui, sono terreni boscati, campi, con ulivi ed alcuni hanno anche dei fabbricati.[126]

Sempre in questo periodo troviamo due donazioni: la prima, del 1324, è un testamento per il quale “Corbulus quondam Strenne” di Morrona dichiara di voler essere sepolto nel monastero di Santa Maria, lasciando 30 soldi di moneta pisana per il suo funerale, 40 soldi per il settimo giorno dalla sua scomparsa, 10 soldi per l’altare del monastero, 5 per quello della pieve e 5 per quello della chiesa di San Bartolomeo; lascia inoltre due pezzi di terra.[127] Il diritto di sepoltura era molto ambito perché i vantaggi economici che i monaci ne traevano dovevano essere non indifferenti, in quanto ogni corpo seppellito assicurava al cenobio lasciti ed elemosine nello stesso giorno del funerale, poco tempo dopo e generalmente una volta all’anno. Questo tipo di concessione non piaceva ovviamente ai titolari delle pievi, non contenti di perdere i diritti loro spettanti secondo il diritto ordinario.

Nella seconda donazione Ugolino fu Bonaccorso da Morrona e sua moglie Mingarda fu Morronese, dello stesso luogo, offrono, per la salvezza delle loro anime e dei loro peccati, se stessi e tutti i loro beni mobili e immobili presenti e futuri, rinunciano ad un salario, ma si riservano 22 lire di denaro pisano per dote delle loro figlie.[128]

Da una vendita di legna effettuata nel 1306, l’abate Corrado ricava 40 lire “pro utilitate et melioramento” del monastero: la legna si trova in luogo detto “Silva Abbatis” e viene acquistata da due abitanti di Soiana.[129]

Nello stesso anno il 18 di gennaio una grossa parte dei beni della badia fu data in feudo, o meglio in accomandigia dall’abate Corrado a Bonifacio, conte di Donoratico e signore della sesta parte della Sardegna: con la decadenza economica, il monastero si trovò probabilmente in grosse difficoltà specialmente col laicato, come dimostra anche la bolla di Bonifacio VIII, in quanto non era più in grado di esercitare la sua potenza sopra tutto e tutti come era avvenuto per il passato, quindi trovò nel conte di Donoratico più che un feudatario un protettore,[130]  << …erano luoghi, quindi, dove abbondavano boschi e pascoli anticamente comunali, passati poi con la conquista barbarica al fisco regio e donati a Grandi ed a monasteri. Vi avevan perciò nel IX, X, ed XI secolo prosperato vigorosamente nobiltà feudale ed istituzioni monastiche, due prodotti identici di una stessa età storica, della cui protezione e della cui rovina più tardi si giovano le comunità agricole germogliate sul terreno da quelle preparato e desiderose di rivendicare, come realmente rivendicano, quei diritti antichissimi sulle terre comunali: germogliate entro le corti signorili e monacali… >>.[131]

Al 1309 e successivamente al 1320 risalgono tre permute, un’altra è del 1347: con la prima l’abate Corrado cede nove pezzi di terra con ogni appartenenza posti nei confini di Morrona, in cambio di tre terreni appartenenti a Pardo di Bonaccorso abitante nello stesso luogo, la seconda, presente al rogito Bonaventura, priore di Camaldoli, l’abate Bartolomeo cede due case con “orticello”, ubicate in Morrona, in cambio di alcuni beni appartenenti a ser Francesco; sempre nello stesso documento viene permutato un pezzo di terra con un altro più vicino al monastero. che appare anche Nella terza permuta, due terreni di Pardo di Bonaccorso vengono ceduti a “Bartholomei de Eugubio”, allora abate del monastero, perché più vicini agli altri possessi dell’ente ecclesiastico, in cambio di terre confinanti con altre proprietà nel morronese. [132]    

Abbastanza numerose, sempre per quanto riguarda la prima metà di questo secolo, sono le locazioni di terreni, edifici e mulini, che rappresentano in modo esclusivo la conduzione del patrimonio fondiario del cenobio.[133]

Il censo annuo da soddisfarsi in occasione di varie festività era sia in natura che in denaro (sempre moneta pisana). I toponimi e i cosiddetti “loci dicti” sono sempre gli stessi, quindi non ci sono stati grandi cambiamenti rispetto al secolo precedente.

Sei retribuzioni di censi date dagli abati al presule volterrano risalgono agli anni 1315, 1318, 1322, 1333, 1335, 1340. Il primo censo viene soddisfatto il 22 ottobre 1315 dall’abate Bartolomeo, consistente in quindici soldi << …pro anno elapso […] pro censu Abbatie predicte et capelle de Morrona, annis singulis… >>[134] e davanti al vescovo e ad altri testi, essendo inadempiente << …promittens dictam solutionem… >>.[135] Il censo soddisfatto il 3 settembre 1318 consiste in due rate di quindici soldi ciascuna, siccome  << …non solutorum per duobus annis… >>.[136] Sempre l’abate Bartolomeo, rappresentato da Mansueto suo monaco, il 14 ottobre 1322, corrisponde al vescovo volterrano quarantacinque soldi a titolo di censo per la pieve di Santa Maria di Morrona e per la cappella di San Bartolomeo dello stesso luogo, lo stesso Mansueto, sempre a nome dell’abate << … finem refutationem et pactum de ultius non petendo dictum censum anni presentis et promittens per se et suos successores dictas confessus est refutationem et finem perpetuo firmam et ratam habere et non confacere ut veire sub obbligationem bonorum Episcopatus predicti… >>.[137] Il 29 dicembre 1333 Benvenuto, monaco del cenobio di Santa Maria di Morrona, in rappresentanza del suo abate corrisponde al vescovo di Volterra soldi quarantacinque di denaro pisano per censo della pieve e della cappella di Morrona, che era tenuto a soddisfare ogni anno per la festa dell’Assunzione. << …Renuntians exceptiam non date, tradite et numerate sibi dicte pecunie et omni exceptioni doli mali et infactum. Nec non promictens stipulatione solepni dicto dopno Benvenuto recipienti pro dicto domino abbate predictam confessionem solutionem renuntiationem et omnia suprascripta et quolibet predictorum firma rata et grata habere et tenere perpetuo et non contrafacere vel venire per se vel olim aliqua ratione vel causa de iure vel de facto, sub pena dupli dicte quantitatis pecunie et dupli omnium expensarum ac interesse litis et extra et sub obligatione sui et bonorum suorum… >>.[138] Il rogito per il censo risalente al 30 dicembre 1335, quando Giovanni di Ugolino di Casanova, procuratore del monastero morronese, a nome dell’abate, paga al presule volterrano non solo quarantacinque soldi di denari pisani, ma anche quindici soldi di denari volterrani per la pieve e cappella di Morrona, ha più o meno lo stesso tenore di quello precedente,[139] come anche quello relativo al 6 giugno 1340, essendo abate Silvestro d’Anghiari.[140]

Durante il secolo XIV sono solo tre i rogiti che ci informano delle elezioni e costituzioni di procuratori del monastero, nel primo, relativo all’anno 1334, Bartolo, abate del cenobio di Morrona e il pievano della pieve di Ginestrelle dello stesso luogo eleggono procuratore Fazio, abate del monastero dei Santi Giusto e Clemente di Volterra;[141] con il secondo, lo stesso abate con il rettore della chiesa di San Bartolomeo di Morrona eleggono a procuratore ancora l’abate del monastero dei Santi Giusto e Clemente di Volterra, il rogito risale all’anno 1336;[142] nel terzo documento datato 1343, l’abate Silvestro elegge procuratore e difensore del monastero di Morrona << … Funtinum porelli de Veneri, conversum dicti monasterii… >>.[143]

 

Fare un quadro della situazione economica e del patrimonio fondiario di questo cenobio è estremamente difficoltoso, ma per la seconda metà del secolo XIV è addirittura impossibile, in quanto le fonti, già lacunose, si interrompono bruscamente alla fine della metà di questo secolo, per riprendere in quello successivo, anche se in modo molto limitato, comunque da questa frammentarietà di notizie possiamo dedurne uno stato di generale decadenza e di miseria. Nella Costituzione camaldolese fatta nel Capitolo volterrano il 21 maggio 1351 il monastero di Morrona figura tra quelli mediocri, ma non sappiamo se è definito mediocre rispetto al numero dei monaci e per la grandezza dell’edificio oppure per i suoi possessi.[144]

Dalle collette dell’Ordine del XIV secolo, che coprono un periodo di tempo che va dal 16 luglio 1315 al 1324, possiamo rilevare che la badia di Morrona pagava tre fiorini, quando il monastero dei SS. Giusto e Clemente di Volterra pagava otto fiorini, ciò fu stabilito nel capitolo celebrato in Cortona nell’anno 1315. Nel capitolo del 1317 fu decretato: << …est ratio distributionis collecte sexcentorum florini aurei in duobus terminis solvendorum… >> da soddisfarsi il primo giorno di agosto e il primo di settembre, quindi come prima rata il cenobio di Morrona doveva pagare otto libbre e quattro soldi;[145] più avanti troviamo che il monastero pagava libbre sedici e quattro soldi, << … isti sunt que solverent collecte sua monasterio contingentis proxime imposite… >>.[146] Il mese di ottobre del 1320: << …infrascipta est ratio collecte MCC florinorum aureorum imposite pro negotiis ordinis maxime pro eam sancti Savini in monasterio Vulterris cum consiliarum ordinis videlicet… >>,[147] al monastero di Morrona spettavano undici fiorini e trentadue soldi. In data 1318 per la festa di Pentecoste << … infrascipta est distributionis collecte MCC florinorum aurei imposite pro negatus ordinis maxime pro eam monasterio sancti Savini in monasterio sancti Zanobi pisanis quando ibidem fuit generale capitulum celebratus… >>,[148] Il monastero di Morrona corrispose una somma di fiorini undici e trentadue soldi, << …infrascripta est pecunia exacta pro abbatem sancti Michaeli de Burgo pisani… >>.[149] Lo stesso importo lo troviamo il 27 aprile 1320 e in maggio dell’anno successivo gli otto fiorini sono scesi a sette e trenta soldi, per arrivare a sei e trenta soldi nel mese di dicembre. Nel 1323 Benedetto, procuratore del monastero di Volterra, paga la colletta per il suo monastero trattenendosi venti fiorini d’oro prestati per fare fronte a debiti del monastero. Allo stesso modo paga per il monastero di Morrona “dominus Vitali”, ritenendo per sé dieci fiorini che aveva dato in prestito per debiti. Il monastero di Morrona deve pagare per la colletta dello stesso anno ed entro determinati termini cinque fiorini d’oro << …et singulis annis sequentibus sibi monastrerium debet solvet… >> tre fiorini d’oro.[150] Il monastero, quindi, aveva corrisposto come prima rata fiorini cinque, come seconda fiorini tre, come terza e quarta quota fiorini cinque. << …Item solve abbatibus de Roma pro presentia… >> fiorini otto; residua la somma di due fiorini. Nel 1381 non viene menzionato il monastero di Morrona.[151]

Il 9 novembre 1390 da una bolla pontificia di Bonifacio IX apprendiamo che il papa ordina ai monaci del monastero di ricevere come abate Giorgio, già abate del monastero di San Michele in Borgo di Pisa, è questa la seconda volta che troviamo un abate eletto da un papa: infatti con una bolla emanata da Clemente V, nel 1313 maggio 24, viene eletto il nuovo abate di Morrona nella persona di Pietro di San Salvatore di Selvamonda, della diocesi di Arezzo, l’abbaziato cenobitico era vacante, per il passaggio dell’abate Bartolo al monastero di San Giovanni di Borgo San Sepolcro.[152] Questo può essere il sintomo di una decadenza non solo economica, ma soprattutto di una decadenza di quel potere che aveva contraddistinto le azioni e la condotta degli abati che si erano succeduti nel corso dei secoli. Questo declino del potere potrebbe essere stato la causa della concessione del feudo di Montanino e altri beni, al conte di Montescudaio. Ormai dell’antica potenza dell’abbazia non restava che il ricordo: l’ascendente che aveva avuto sopra ogni persona che aveva tentato di opporsi ai suoi privilegi o al volere di un abate, alla fine del XIV secolo era quasi nullo. Per difendere i beni restanti il generale dell’ordine Andrea e Giorgio abate di Morrona, col consenso dei suoi monaci, concedono in feudo perpetuo parte di questi beni a Niccolò conte di Montescudaio, cittadino pisano, figlio di Giovanni della famiglia dei Gherardeschi:[153] << …considerata presertim magna potentia et excellentia egregii et potenti viri Nicolai comitis de Montescudario. Considerato etiam quod memoratus dominus haberi possit pro fideli et defensore monasterii et ordinis supradicti… >>.[154] Già abbiamo visto che all’inizio del secolo una grossa parte dei beni vengono dati in feudo a Bonifacio conte di Donoratico, il quale però non lascia eredi, quindi nel 1393 tali beni passano a Niccolò non solo per le sue ottime qualità morali, ma perché è erede indiretto di Bonifacio. Il conte di Montescudaio viene, dunque, dichiarato difensore di questo monastero contro la vioenza dei laici che occupano indebitamente i beni della badia o non soddisfano gli obblighi pattuiti: << …et considerato etiam maxime per prefatum dominum generalem priorem et dictum dominum abatem grata devotionis obsequia et favoris que olim bone memorie magnificus et potens vir Bonifacius comes de Donoratico et sexte pertis regni Kallaritani dominus, cui per cartam rogatam a ser Oliveri Maschione notario olim Michaelii dominice incarnationis anno MCCCVI […] et etiam considerato quod prefatus comes Nicholaus est de prosapia et in patrimonio ut dicitur, prefati magnifici domini Bonifacii comitis et ex dicto domino comite Bonifacio nullus appareat filus masculus, seu descendentes, per hoc instrumentum dedit et tradit et libere concessit prefato domino comiti Nicholao de Montescudaio… >>.[155] I beni consistono in << …medietatem integram pro indiviso totius castri Montanino, Plebarii Balnei de Aquis et eius territorii, dominii o proprietatis… >>,[156] ad eccezione però del patrimonio sulla chiesa di Collemontanino: << …non intelligatur concessus patronatus ecclesiae Sancti Laurentii de Montanino et Rumitorium Terre Veteris et nove, qui et quod in hoc contractu non veniant… >>.[157]

Un documento del 5 maggio 1408 ci informa di una commissione data da Agostino Moriconi da Lucca, abate del monastero di San Pietro de’ Pozzuoli a Orlando, abate di Morrona, per agire in sua vece nella futura elezione del nuovo priore di Camaldoli. Il 16 giugno 1462, con una procura fatta da Iacopo di Andrea da Galatea, abate del cenobio di Morrona, a Benedetto del fu Masco di Andrea da Galata, suo nipote e priore di Santa Maria di Vincareto, “per rinunciare in di lui nome la detta badia di Santa Maria nelle mani del pontefice Pio II o di Mariotto, priore dell’Eremo e generale di tutto l’Ordine camaldolese”. Risale al 15 marzo 1464 un breve di Pio II diretto al priore e generale di tutto l’Ordine camaldolese, con cui gli demanda di consegnare per usufrutto un possesso del monastero di Santa Maria di Morrona a Iacopo, il quale era stato abate dello stesso monastero, affinché possa vivere in modo decente, ma di non andare oltre il sostentamento. Tale bene serve anche per compensare l’abate Iacopo di un credito di duecento fiorini che aveva fornito al suo monastero per avere dovuto sostenere una lite.[158]

Dal catasto dei religiosi degli anni 1427-29 si può tentare una ricostruzione dei beni posseduti dal monastero in quel tempo: nel castello di Morrona possedeva tre case ed un frantoio, un’altra casa era situata nei confini di Soiana.[159]

Dei numerosi mulini dislocati lungo il corso delle acque dei fiumi Caldana e Cascina, di cui abbiamo già fatto cenno ma ne parleremo più ampiamente nel successivo capitolo, ne restavano uno nei confini di Morrona ed altri due presso Aqui, di cui uno era terragno e l’altro francesco, cioè il primo aveva la ruota piccola e più bisogno di acqua, il secondo aveva la ruota più grande, ma occorreva un corso d’acqua più lungo .[160]

Sei poderi posti nei confini di Morrona ed Aqui facevano ancora parte delle proprietà della badia Camaldolese, insieme a numerosi pezzi di terreni, di cui però non conosciamo l’estensione, erano terre campie, vignate, ulivate, fruttate, boscate, pratate e collinate; tra queste figura anche un canneto “sull’acqua del Bagno” , cioè ad Aqui.[161]

Gli affitti menzionati sono quattro che l’abate pro tempore riceveva ed erano sempre retribuiti in grano.

Da tutti questi beni, il monastero traeva una rendita annuale di settecentosettantuno fiorini, diciotto soldi e cinque denari. Ma tra le varie spese ed i debiti il cenobio doveva pagare millecinquecentonovantaquattro fiorini, otto soldi e cinque denari, superando di gran lunga le entrate: da questi dati appare chiaro lo stato di abbandono e di miseria in cui versava la badia, nonostante i beni posseduti fossero ancora considerevoli.[162]

Le spese che doveva sostenere servivano al salario di un monaco, di un fante e di un cuoco; al censo annuo che il monastero doveva pagare al generale dell’ordine, all’eremo di Camaldoli, al vescovo di Volterra ed alla decima papale. Altre spese erano per il mantenimento delle tre case rimaste, << …che stanno molto male e chagiono e sono cadute… >>.[163] Doveva, inoltre, provvedere al mantenimento di un “monachetto”, che accudiva a << …Domenico Orlando  che fu abate della detta badia, perché lo detto è molto vecchio gli fu chonceduto per lo generale dell’ordine per la sua vecchiezza fiorini venticinque l’anno per suo vivere e vestimenti… >>,[164] il quale abate doveva restituire all’abate di San Zeno  otto fiorini che aveva preso in prestito; un fiorino all’abate di San Michele di Pisa e tre fiorini a Meo da Certaldo << …per panno che levò al sopradetto domino… >>.[165] Un oncio d’olio comperato da prete Masino di Terricciola e mai pagato; cinque fiorini presi in prestito da Donato, monaco di San Frediano (Pisa); anche a Barsotto di Corso l’anziano abate doveva restituire cinque fiorini avuti in prestito e a Iacopo di Chele di Chianni doveva nove sacchi di grano, tre fiorini e sette soldi.

Per la festa di Santa Maria di settembre, doveva pagare quattro fiorini.

Il monastero era gravato da molti debiti da soddisfare << …a più e più persone lo quale lo nome non si mette perché sono in molte persone… >>.[166] Gli eredi di Gherardo Canigiani dovevano avere ventisette fiorini, quindi vedendo che il debito non veniva estinto aveva preso in pegno un possesso dei migliori, posto nei confini di Morrona. Dovevano, infine, essere dati quattro fiorini << …al Generale per suo mulo che si schorticò essendo lo detto Generale al Bagno… >>. Per la festa di Santa Maria di settembre, doveva pagare quattro fiorni.

<< …Monasterium porro (sic) de Morona tanquam Eremi Manuale pluries confertur et visitatur. Censumque salmae unius olei Eremo persolvisse constat anno 1329 ad 1483, quod ab Episcopo Vulterrano D. Francisco Soderino vi et armata manu fuit occupatum dum visitaret illud atque in eo abbatem praeficeret… >>.[167]

Risale all’8 di giugno del 1464 la vendita di una casa ad un certo Nanni per la somma di 24 fiorini.[168]

Dopo la caduta di Pisa in potere dei Fiorentini (1406), la documentazione concernente l’abbazia si fa sempre più lacunosa, anche perché ormai era lontano il tempo in cui il cenobio aveva grande potere e ampli privilegi. Le guerre combattute tra Pisani e Fiorentini avevano depauperato l’economia locale e devastato il contado sul cui territorio si era combattuta la guerra ed il monastero non trovò più l’appoggio della Chiesa di Pisa, tanto meno nell’episcopato volterrano, i cui rapporti erano sempre stati molto instabili, talvolta burrascosi, nonostante la badia spettasse a questa diocesi. Dal 1406, dunque, il cenobio divenne di dominio fiorentino.

Capitolo III.  I rapporti degli abati con il clero e con i laici

 La vita, all’interno del cenobio, era piuttosto movimentata e gli abati ricoprivano una carica estremamente impegnativa, che li teneva ogni giorno immersi in problemi amministrativi, politici e spirituali. Come un signore nel suo dominio dovevano esercitare i loro diritti e far rispettare i doveri, difendere la propria autonomia dall’ingerenza dell’arcivescovo pisano, ma soprattutto dal presule volterrano, i cui rapporti furono sempre burrascosi, per terminare, nel 1482, con la presa del monastero “manu armata” da parte del vescovo.

Ma che genere di rapporti ci furono tra gli abati e il clero e tra gli abati e il laicato? Manca, purtroppo, una documentazione omogenea, infatti abbiamo dei “vuoti” in vari periodi di tempo, ma quella di cui disponiamo ci dà un’idea abbastanza chiara di tali rapporti.

Un documento dettagliato, del 23 maggio 1162, ci informa su una sentenza che pose fine ad una lite sorta tra l’abate e i consoli di Aqui: Pellario e Gerardo di San Casciano, consoli di Pisa, su consiglio di Ildebrando Pagano, giudice ordinario e dei suoi assessori, furono incaricati di definire questa controversia causata dalle pretese che l’abate aveva verso i consoli, Comune e popolo di Aqui, << …que non sinebant eum quiete possidere Nigothanam… >>, le cui terre erano poste nel distretto del comune di Aqui, ma facevano parte di un beneficio goduto dall’abbazia.[169] Con una “cartula offertionis” del 25 marzo 1104 il monastero era venuto in possesso di tutti i terreni, vigne, colti e incolti appartenenti alla chiesa di San Cristoforo e San Lucia di Negoziana; il donatore, Ildebrando del fu Gerardo, comprese nella donazione anche tutte le offerte, decime ed oblazioni di questa chiesa, che << …ab omni parte circumsacrata est cum cimiterio… >>;[170] inoltre l’abate aveva la potestà di eleggerne il rettore.

Al cenobio, quindi, apparteneva ciò che era oggetto della disputa: i consoli sostenevano il diritto di ogni castello di “campare et custodire” nel proprio distretto, pur riconoscendo la proprietà di queste terre al monastero, inoltre affermavano che per più di trenta anni il popolo di Aqui << …semper Nigothana campaverant et custodierant… >>.[171] L’abate, dal canto suo, dichiarava che il terreno in questione era sempre stato ritenuto libero e lavorato dai suoi “campari” senza alcuna contraddizione degli Aquisiani e del Comune; esigeva, inoltre, che gli fosse restituito un pezzo di terra di sedici staiora e mezzo che apparteneva alla sua chiesa: << …Plebanenses vero dicebant se per quadraginta annos et plus sine interruptionem prefatum terre petium per se tenuisse… >>.[172]

La disputa continua a lungo restando ferme le parti sulle loro dichiarazioni, infine la causa << …diu ante nos ventilata… >>,[173] fu studiata in tutti i suoi particolari, ma essendo i giudici rimasti molto dubbiosi, emisero la seguente sentenza: << …illi de Aqui pro curia et eius districtu mittant camparios in Negothana et custodiant. Abbas vero aut Morrona nullum camparium ibi ponat, aut per suos camparios custodiri faciat. Campaticum tamen abbas aut Morrona neque de bestiis, neque de aliis rebus tribuat. De hominibus de Nigithana abbatem absolvimus. Pantanum vero illi de Aqui scilicet plebanenses habeant et teneant sine molestia… >>.[174]

In questi anni, in Valdera, si ebbero alcune sollevazioni contro i Pisani: i cattani della zona si erano riuniti nel castello di Peccioli ed erano riusciti a mettere insieme tremila fanti e quattrocento cavalli, ma quando l’esercito pisano invase la Valdera (1163), dopo un breve assedio fu incendiato il castello di Pava, di conseguenza tutte le rocche di questa zona fino a Volterra si arresero, pagando imposizioni e dando ostaggi. Nonostante che il vescovo volterrano avesse ottenuta la giurisdizione politica di questi luoghi nel 1186 da Enrico VI, i Pisani continuarono a dominare su questi castelli, in quanto lo stesso imperatore con un diploma del 30 maggio 1193 aveva assicurato loro il dominio di queste corti. Il vescovo di Volterra reclamò presso il papa, il quale minacciò di interdetto i Pisani, affinché restituissero i castelli al prelato, ma avvalendosi del diploma imperiale continuarono il loro dominio e nel 1202 una delegazione pontificia scomunicò il potestà di Pisa, i suoi anziani e tutto il popolo.

Nonostante le pretese e l’intromettersi della Chiesa pisana, il monastero di Morrona rimase sempre sotto la giurisdizione vescovile di Volterra, anche se in alcuni documenti viene detto “in episcopatu pisano”. Questo equivoco può essere nato al tempo della duplice (fino al 1132) carica del vescovo Ruggero (arcivescovo di Pisa dal 1124) e continuato anche dopo la sua morte fino all’inizio della seconda metà del secolo XIII, tanto più che nei documenti non viene nominato l’arcivescovo o il vescovo pro tempore.[175] Ma i rapporti degli abati, che perseguirono nella loro politica filo-pisana e i vescovi volterrani furono, come già detto, sempre molto discutibili, specialmente durante il corso del secolo XIII, in cui gli abati aumentarono la loro potenza, appoggiati in questo dalla Santa Sede Apostolica, i cui papi emanarono varie bolle a favore dell’ordine Camaldolese e tra gli altri monasteri figurava sempre citato anche quello di Morrona.

E’ datato 25 giugno 1200 l’atto con cui Ubaldo, arcivescovo di Pisa e primate di Sardegna, concede a Martino priore camaldolese, ricevente per il cenobio di Morrona, e ai suoi successori la facoltà perpetua di potere eleggere ed istituire in perpetuo un sacerdote nella cappella di Montanino << …sine mea meorum successorum vel cuiuslibet alius contradictione cum popoli tantum predicte cappelle conscientia… >>.[176] E se il popolo non avesse voluto acconsentire all’elezione << …electus vero sacerdos et instituto debitas et consuetas reverentias predicto monasterio exhibeat… >>.[177] Il sacerdote, però, non poteva assolutamente essere un monaco.

E’ verso la fine del secolo XI che i monaci iniziarono ad avocare a sé il diritto di adempiere alla cura delle anime, ritenendo di possedere tutte quelle qualità indispensabili per tale ufficio: povertà, castità, vita comune. Il problema delle chiese ubicate presso i monasteri fu discusso al sinodo di Clermont del 1095, in cui venne decretato che il governo spirituale non fosse tenuto da monaci, ma da un prete eletto dal vescovo col consiglio dei monaci. Il sinodo di Poitiers del 1100 stabilì che il clero regolare potesse, su ordine del vescovo, predicare, battezzare, dare la penitenza e seppellire i morti, ma ribadiva che nessun monaco poteva attribuirsi il compito di esercitare le suddette attività.[178]

Molti anni dopo, troviamo, in un atto dell’8 settembre 1293, prete Iacopo del fu Corso di Quarrata, rettore della sopraddetta chiesa che offre per censo una candela di cera da una libbra all’abate del monastero di Morrona Alberto (pisano) nel giorno della festa della Vergine Maria , dimostrazione della dipendenza della pieve dal cenobio.[179]

Il 27 settembre 1212 viene stipulata una transazione tra l’abate Viviano e prete Orlando, cappellano della chiesa dei Santi Bartolomeo e Niccolò di Morrona, il primo, a nome dell’abbazia, promette di non esigere più la decima che << …recoligebat ab omni hominibus de Morrona vel aliquis capellanus suprascripte ecclesie recolligebat pro suprascripta ecclesia de Morrona vel pro suprascrpta abbathia in confinibus Morrone vel extra confines et ubicumque homines de Morrona laboraverin… >>.[180] Venne, inoltre, stabilito che prete Orlando e i suoi successori non avrebbero dovuto dare, oltre la decima che solevano pagare, << …de ovis, et lino et candela pro facto decime que solebant dari suprascrpte abbathie… >>.[181] L’abate, che si era intromesso d’autorità nella pieve e nella rettoria dei SS. Bartolomeo e Niccolò, rinunciò dunque alle decime, ma prete Orlando dovette promettere (per sé e per i suoi successori) di dare al monastero, ogni anno per la festa di san Michele in settembre e per la festa dei Santi, in luogo della decima << …unum modium grani de quarris viginti quatuor et unum modium inter ordeum et mileum et quarras duodecim spelde… >>.[182] In più promise di dare, entro suddetti termini, soldi quaranta di denari pisani, che era solito dare anche agli antecessori dell’abate Viviano.

Se i rapporti tra gli abati del monastero e gli arcivescovi pisani furono piuttosto frequenti e pacifici, quelli con i vescovi di Volterra non lo furono altrettanto,  basta citare tre documenti per capire i rapporti che intercorrevano. Il 21 ottobre 1214, il vescovo di Firenze cerca di “appianare” delle divergenze tra l’abate e l’episcopato di Volterra, quindi proferisce un lodo circa la causa che verteva tra prete Paolo, procuratore del vescovo volterrano da una parte e l’abate Viviano e prete Orlando dall’altra, circa l’obbedienza e riverenza che il vescovo pretendeva dal cappellano. La causa, col consenso delle parti, era stata affidata all’arbitrio del vescovo di Firenze, il quale decide: <<…ut predictus capellanus de Morrona seu plebanus qui nunc est vel pro tempore fuit faciat obedientiam episcopo vulterrano pro populo et abbas de Morrona singulis anni in festo Assumptionis Beate Marie virginis det vel dari faciat iam dicto domino episcopo vulterrano vel suo certo nuntio nomine census pro capella et blebe XV solidi denari vulterrani… >>.[183] Decide, inoltre, che tanto l’abate che il cappellano non possano imporre pubbliche penitenze << …scilicet criminalium peccatorum, nec causas matrimoniales audiant… >>.[184] E il cappellano “vocato ab episcopo” sia tenuto ad andare al Sinodo come gli altri chierici del vescovato.

Il presule fiorentino giudica anche che il vescovo volterrano, nonostante l’obbedienza che gli deve il cappellano, non possa comandargli nessuna cosa che sia contraria al monastero e all’abate o contro la loro libertà, << …nec alias exactione occasionem albergerie episcopus exigat a plebaum vel capellanum vel a plebe seu a capella per se vel per alium de monasterio nihil decimus quia credimus ipsum esse exentur ab anni prestationem et quia presbiter Paulus procurator nihil contra monasterium dicit… >>.[185] Le decisioni del vescovo di Firenze evidentemente non soddisfecero quello di Volterra, infatti il 15 agosto 1219, l’abate Viviano incarica Arrigo fu Ugolinello, suo castaldo, di offrire al procuratore di Pagano quindici soldi volterrani il giorno della festa dell’Assunta nella chiesa di Santa Maria in Volterra, come dal lodo del 21 ottobre 1214. Ma il denaro non fu accettato, quindi << …Arrigus nollet dictum et abbatem in penam incidere et gravamen inde habente dictus Arrigus deposuit dictos denarios sigillatos super altare beate Marie qua est in dicta ecclesia eodem suprascripto die… >>.[186]

L’anno successivo, il 15 agosto 1220, Gerardo fu Mulinari, nunzio dell’abate, è costretto a far rogare un atto in cui si attesta che il denaro è stato depositato sull’altare della chiesa di Volterra dal suddetto Gerardo, perché anche questa volta la somma, consistente in 15 soldi di denaro volterrano, viene rifiutata dal vescovo.[187] Una transazione dell’11 febbraio 1221 sembra mettere fine a queste controversie: prete Giovanni, procuratore del vescovo di Volterra a suo nome, rinuncia ad ogni diritto sulla pieve e sulla chiesa di San Nicola di Morrona, alienando tali diritti a Guido priore di Camaldoli, ricevente per l’eremo e il monastero di Morrona.[188] Anche nel secolo seguente troviamo vari rogiti, in cui l’abate di Morrona corrisponde al presule volterrano un censo annuo di quindici soldi di denaro volterrano per la rettoria dei Santi Bartolomeo e Niccolà di Morrona.

Ma i rapporti che intercorrevano tra i vescovi e gli abati non migliorarono con il tempo, infatti dopo molti anni, nel mese di gennaio 1284, l’arcivescovo di Pisa cerca di fare da arbitro nella secolare controversia dell’ius patronato della pieve e cappella di Morrona tra il vescovo di Volterra e l’abate Gerardo. Il presule volterrano si arroga tale diritto in quanto le due chiese si trovano nella sua diocesi ed episcopato; l’abate afferma che il patronato spetta al monastero, come da tempo immemorabile. L’arcivescovo pisano << …nil aliud possit facere quam contineatur in arbitro supradicto non possum absolutum dare responsum… >>,[189] sia perché esiste il compromesso del vescovo di Firenze del 1214, sia per la bolla di Alessandro IV del 1258, con la quale viene confermato a tutto l’ordine Camaldolese il patrocinio accordato dalla Santa Sede, evidenziando che tutti i monasteri erano uniti come un sol corpo al Sacro Eremo . Il presule pisano stabilisce che << …videtur questio de procurationem, rationem, visitationis qua si exempta est plebes vel cappella non debet visitari et procuratio non debet in rationem visitationis iustitia tam quam in privilegiis reservatur episcopum defraudari non debet… >>.[190] Circa un secolo più tardi, l’8 agosto 1345, quando era abate del monastero Silvestro di Anghiari, l’elezione del pievano di San Bartolomeo e San Niccolò avviene << …ex antiqua consuetudine electio et reformatio dicte ecclesie rectoris nolens quod dicta ecclesia in temporalibus nec spiritualibus substineat per vocationem diutinam? Lesionem inquisirit et requisirit… >>.[191] Sono presenti Coli di Corniano e Cinni Ganucci, consoli del comune di Morrona, i quali concordano per eleggere Niccolò di ser Iacopo di Morrona, già pievano di San Giovanni di Ginestrella. << … dicto presbitero Niccholao de suo ore proprio et suis manibus presentavit rogans eundem ut dictam eletionem debeat acceptare qui presbiter Niccholaus electus et presentatus respondit quod super hiis deliberare volebat et maturim cogitare et de predictis respondebit prout dominus instigabit… >>.[192] Segue l’elezione del pievano << …et nichilominus edictum ad hostium suprascripte ecclesie apponat et effigat et dimittat ita quod eiusdem edicti volentibus possit haberi copia. […] Et capiens? Eum per manum mittens eum in dictam ecclesiam et eius corporalem possessionem mittendo in manus eius hostia ecclesie et claves domorum et funes campanarum et libros et pannos altaris ecclesie suprascripte offerendo eum ante altare cantando solemniter Te Deum laudamus… >>.[193]

I mulini appartenenti al monastero e posti sui fiumi Caldana e Cascina dettero ingenti guadagni ma anche molti problemi agli abati sia nel secolo XIII che in quello successivo: il 3 febbraio 1223, Martino, allora abate della badia, col consenso di Guido priore di Camaldoli da una parte e Upezzino fu Ugolino con Guerriero fu Upezzino dall’altra affidano la loro controversia all’arbitrato di Martino, abate dell’abbazia di San Giusto di Volterra e a Bonaccorso notaio. La lite era sorta a causa del possesso di un mulino, al momento distrutto, posto in luogo detto Pantano, vicino al fiume Cascina nei confini di Soiana e di un acquedotto appartenente al mulino e posto nello stesso luogo. Venne stabilita la pena di 100 libbre di denari pisani nuovi per chi non avesse osservato ciò che sarebbe stato stipulato con la deliberazione. L’abate di Morrona, in presenza di tali arbitri, chiede a Guerriero l’ottava parte e a Upezzino la settima dei beni suddetti, in quanto abitati e detenuti per quarant’anni e appartenenti al monastero da tempo immemorabile; chiede, inoltre, le spese legali e venti libbre di denaro pisano nuovo per spese extra. I due rispondono e negano che tutto ciò appartenga alla badia, ma che sia di loro proprietà, poiché furono comprati da Seragone e Guidone fratelli e figli del fu Molinari di Vico, con rogito fatto da Bonaccorso notaio e per mezzo di un’altra compera fatta da Bonaccorso fu Orlandino ricevente per Berta sua moglie, con rogito del notaio Bartalochi fu Grillo, e per donazione della quarta parte fatta da Molinari con rogito di Bertolochi notaio. La lite continua restando ferme le due parti. L’abate insiste per fare annullare i suddetti contratti e riportare le cose allo stato primitivo. Dopo avere analizzato i vari documenti a loro disposizione i guidici deliberano << …per laudum sive laudamentum et amicabilem compositionem ita diffiniorem laudarem et pronuntiaverent que dictum molendinum et locum in quo dictum molendinum conservit esse et aqueductum eius gora eius et ruptarium et aquatarium que et que olim fuere suprascripti molendini vel ad eum pertinere aliquo modo… >>.[194]

Da una vendita del 1228, veniamo a conoscenza che Martino abate di Morrona vende, col consenso dei suoi monaci e per utilità del monastero, un mulino posto in luogo detto Pantano nei confini di Cevoli, a Upertino fu Ugolino e per la valutazione dell’immobile sono chiamati prete Giovanni rettore della chiesa di Morrona e Uberto fu Ventura, non leggibile la stima, pena cento libbre.[195] Quindi, cinque anni dopo la lite il mulino torna ad Upertino o Upezzino, ma l’anno successivo 1229 (AVV, sec  XIII, dec. III, n. XXVII) lo stesso Upezzino vende a Martino abate il mulino sopraddetto per cento libbre di denaro pisano, pena il doppio, << …cum macinis et aquiductis et cum omnibus suis pertinentiis et omnia iura… >>.[196] La sorte del mulino sembra non essere ancora definita: nel 1239, lo stesso Upertino lo vende di nuovo al monastero di Morrona, rappresentato dall’abate Simone, sempre con ogni sua appartenenza  e terreno circostante.[197]Alla fine il mulino viene dato in locazione dall’abate Simone a Boninsegna fu Brinichi.[198]

Il 15 dicembre 1230, in seguito ad un reclamo fatto da Uguccione, sindaco e procuratore del monastero contro Gerardo fu Ianuensis di Morrona, il cenobio ottiene la restituzione della metà “pro indiviso” di otto pezzi di terra posti nella zona circonvicina all’abbazia e quattro libbre di denari per le spese sostenute. I giudici, Rosselmino Malabarba e Uguccio fu Pandolfi Alberti, essendo Gerardo contumace non emettono una vera e propria sentenza, ma stabiliscono che entro l’anno Gerardo si presenti davanti ai giudici, altrimenti il monastero entrerà in possesso di tutti i suoi beni e dovrà anche pagare quaranta soldi per le spese.[199]

E’ del 9 novembre 1231 una transazione, in cui Tedisco fu Venaccio di Morrona mette fine alla lite vertente tra lui e Uguccione, sindaco del monastero a causa di un pezzo di terra campia posto nei confini di Aqui nel piano del fiume Cascina vicino al bosco della badia, rinunciando ad “omni iure et actionem” su questo terreno, pena il doppio della stima per sé e per i suoi eredi; Uguccione offre la remissione dei peccati.[200] L’anno successivo, il 20 di maggio, lo stesso Uguccione presentava ai consoli di Soiana, Ugo e Magliavacca, delle lettere scritte da Tedicio, capitano della Valle d’Era, affinché i pastori e gli animali del monastero potessero continuare a pascolare nei confini di Soiana come era sempre stata consuetudine (sotto giuramento), con pena di cento soldi per chiunque avesse trasgredito entro tre giorni, altrimenti avrebbe preso provvedimenti entro sei giorni, in quanto a lui spettava tale ufficio.[201]

Il 27 maggio 1232 il priore della chiesa di San Paolo a Orto, delegato del papa, è arbitro nella controversia sorta tra Paccino fu Durazzo di Morrona fatto citare da prete Giovanni, cappellano della chiesa e l’abate Martino, il quale ultimo chiede la restituzione di un pezzo di terra con vigne ed alberi e ogni competenza, posto nei confini di Morrona in luogo detto Valle con altri terreni; il priore acconsente alla restituzione, Paccino è contumace.[202]

Il 19 luglio 1236, Pagano vescovo di Volterra e Michele abate di Morrona nominano arbitro dello loro controversie Benedetto, abate d’Elmi e rettore della chiesa di San Martino. L’abate pretendeva che la pieve e la cappella di Morrona appartenessero “in spiritualibus” e “in temporalibus” al monastero in piena proprietà e che fossero completamente libere dalla giurisdizione vescovile, inoltre l’abate voleva pagare al vescovo per la pieve e la cappella solo quindici soldi di moneta volterrana. I loro rettori dovessero prestargli obbedienza e partecipassero al Sinodo come stabilito dall’arbitrato del 1214. Il presule volterrano accorda alcuni privilegi << …super decimis, mortuariis et aliis rebus… >> e concesse a prete Enrico, << …quo se gerit pro plebano plebis Sancte Marie seu Sancti Iohannis de Morrona… >> ad eccezione di quanto stabilito nel documento del 1214.[203] Questa carta ci fa capire quanta stabilità avessero tali contratti, accomodamenti, lodi, compromessi, basta confrontare questo rogito con quelli relativi al 21 ottobre 1214 e 11 febbraio 1221 e capire la precarietà di ciò che veniva stabilito, frutto, senza dubbio, di accordi presi tra i contraenti a favore delle loro convenienze.

Dopo pochi mesi, il 10 dicembre 1236, il priore camaldolese presentò all’arcidiacono fiorentino Mugnaro le lettere apostoliche chieste contro prete Enrico del Collemontanino, poiché il priore pretendeva che l’istituzione della pieve di Morrona appartenesse a se stesso e sostiene che don Enrico si sia intromesso “in suum preiudicium et gravamum” in essa. Prete Enrico si difende dicendo che quel rescritto apostolico era surrettizio, perché era stato omesso di dire che la detta pieve era nella diocesi di Volterra ed era stata dotata di diversi privilegi dal vescovo di quella diocesi e che era stato taciuto anche che il vescovo di Volterra si trovava in possesso o quasi di eleggere il pievano di essa << …et in eo qued existit tacitum qualiter episcopus vulterranus est in possessione vel quasi iuris eligendi plebanum in ipsa … >>.[204] Prete Enrico sostenne anche che il detto decreto fosse arbitrario per essere stato ipotizzato che si fosse intruso nella chiesa, quando invece era stato istituito dal vescovo di Volterra. L’arcivescovo fiorentino così si pronunciò: << …nullam eorum tanquam dilatoriam admittendam esse, nec aliquam ex ipsis admitto, presertim cum earum quedam pertineant ad negotio principale… >>.[205]

Le controversie tra l’abate del monastero e prete Enrico continuarono, ma nel frattempo fu rogato un atto dal notaio Pellegrino il 16 aprile 1237, in cui quattordici uomini di Morrona giurarono fedeltà all’abate e ai suoi successori.[206]

Il 27 aprile 1237, ancora una disputa tra l’abate Martino e il vescovo di Volterra Pagano è causata dalla nomina del vescovo diretta a Enrico come pievano della chiesa di Collemontanino nella diocesi di Pisa. L’abate e il prete Enrico nominarono arbitri di tale controversia Martino, abate di San Michele in Borgo di Pisa, Giovanni pievano di Pava, Scotto fu Bernardo del Collemontanino e Bonaguida fu Ardizzone, ma, il 13 maggio dello stesso anno, troviamo come arbitri solo Martino e Scotto.[207] Finalmente nella sentenza emessa il 9 agosto, essendo contumace prete Enrico, i due giudici riconobbero le ragioni dell’abate, al quale il pievano doveva restituire la pieve e i suoi beni, la sua nomina ed istituzione furono dichiarate nulle.[208]

Il 15 ottobre 1241, Guido, priore di Camaldoli, delega Michele monaco dell’Eremo, di precedere all’elezione dell’abate di Morrona in sostituzione di Simone deceduto il 4 ottobre. L’incaricato del priore, dinanzi a Guido e Bruno, monaci della badia di Morrona e Spinello, Morronese, Bernardo, Martino conversi, dichiara che l’elezione dell’abate da tempo immemorabile spettava pleno iure al priore di Camaldoli, quindi elegge il nuovo abate nella persona di Benedetto, già camerario di Camaldoli, (segue un’ampia spiegazione della cerimonia). Il giorno successivo, sempre davanti ai testimoni, stabilisce che per ciò che si riferisce ai beni mobili ed immobili appartenenti al cenobio, << …ut de cetera non vendat vel alienat seu in feudum novum et iure feudi novi det alicui mundi persone vel personis de possessionibus et rebus immobilibus dicti monasterii… >> senza il consenso del priore di Camaldoli e del capitolo dello stesso cenobio, pena la scomunica.[209]

Un documento del 31 marzo 1250, ci fa capire che l’abate doveva contrastare anche con prete Enrico, pievano della pieve di Morrona, il quale attribuisce a sé e ai suoi successori il diritto di scegliere il cappellano della chiesa dei santi Bartolomeo e Niccolò dello stesso luogo, inoltre rivendica il potere di investire i cappellani sulle cose spirituali e temporali. Il notaio Bonaccorso fu Spinelli di Morrona, sindaco del monastero mise fine a questa disputa e prete Enrico, che inizialmente insiste nel dire  che l’abate e gli altri uomini presenti avevano torto, dovette rinunciare alle suddette pretese, pena duecento libbre di denari pisani.[210]

In uno dei soliti privilegi pontifici a favore dei Camaldolesi emanato da Innocenzo IV il 29 novembre 1252 si trova menzionata anche la badia di Morrona., cui seguono due bolle pontificie relative al 5 e 28 aprile 1255, indirizzate all’abate del monastero di Morrona in favore del patronato sulla chiesa di Montanino, nonostante la cessione di Scotto del fu Bernardo e del figlio Gregorio del 1242, papa Alessandro IV dovette intervenire contro il rettore della pieve di Aqui, il quale aveva istituito il rettore della pieve di montanino, andando contro la << …antiqua et approbata et hactenus pacifice observata consuetudine… >>, che ne attestava il diritto al monastero.[211]

Il giorno della festa dell’Assunta, cioè il 15 agosto 1255, Michele, abate di Morrona, dà a Domenico, monaco del monastero di San Giusto di Volterra, rappresentante Ranieri vescovo di questa città, quindici denari pisani d’argento, per soddisfare l’arbitrato e il provvedimento già stabilito da Giovanni vescovo di Firenze per la pieve e la cappella di Morrona, di cui il monastero detiene l’ius patronato ed ogni pertinenza.[212] Il documento è rogato da Filippo fu Baroni notaio e si riferisce ancora a quel lodo emesso dal vescovo di Firenze nel 1214, con cui il presule stabilì che l’abate di Morrona pagasse di censo quindici soldi di denari volterrani, censo che poi fu rifiutato dal vescovo di Volterra nel 1219. Lo stesso notaio stipula un’inibitoria, l’8 settembre 1255, che Michele abate, fa al prete Danesi, rettore della cappella di San Nicolò di Morrona, affinché non paghi nessuna colletta al vescovo di Volterra e che non presti nessun servizio segreto o manifesto al presule in pregiudizio dei diritti del monastero e qualora questi imponesse qualche elemosina, non agire senza il consenso dell’abate. Dopo un anno esatto, l’abate Michele viene trasferito da Morrona al monastero di San Zeno di Pisa; Mainetto, abate di San Michele d Pisa e delegato dal priore di Camaldoli lo elegge abate del suddetto monastero << …ac induxit in corporalem possessionem predicto monasterio tangendo muros dicte ecclesie cum ingredi non possent dicta ecclesia et sic tangendo portam clausam dicti monasteri non valentibus ingredi ipsum claustrum eodemque die dictus Michael promisit obediantia iuxta regulam… >>.[213]

Il 13 ottobre 1257, il monastero di Santa Maria e San Benedetto di Morrona riceve la visita e la riforma fatta da Ranieri, eremita camaldolese, visitatore e vicario di Martino priore di Camaldoli. In primo luogo fu interrogato l’abate Michele, davanti al notaio Orlando di Bonaccorso di Morrona, relativamente alle cose temporali e spirituali. Dopo avere descritto minuziosamente questi due argomenti, si procede alla stesura del rogito, redatto dal suddetto notaio.[214] Non differisce molto l’altra visita reperita, risalente all’8 agosto 1345, in cui Iacopo, abate del monastero di San Pietro in Pozzuoli e Bartolomeo, priore di Santa Maria in Valle Perugina, nominati visitatori dell’Ordine dal priore di Camaldoli Giovanni, visitano il monastero di San Giusto di Volterra e poi quello di Morrona. Dall’ispezione tutto risulta nella norma. L’atto fu rogato nel capitolo del monastero da Antonio di Bonaguida di Morrona alla presenza di Francesco di ser Nello di Arezzo e Blasio fu Vanni di Città di Castello testi.[215]

Il 22 luglio 1260, Iacopo, arciprete e vicario del vescovo di Volterra e i monaci del monastero di San Giusto dello stesso luogo, eleggono abate del medesimo cenobio Michele, già abate di Morrona. La confermazione di tale elezione avviene il 31 luglio << …Idem domino Michael abbas S. Iusti putuit humiliter confirmationem a domino Martino abbate de Cerreto vicario seu delegato domini Iacobi prioris camaldulensis super dicta electione facienda, quam obtinuit cum administratione promisiti que manualem obedientiam… >>.[216] Dopo pochi mesi, il 28 maggio 1261, Bartolo, vicario generale di tutto l’Ordine Camaldolese, fu incaricato da Iacopo, priore dell’Eremo << …prehabita renunciatione in suis manibus facta per domino Michaelem, qui segerebat pro abbate S. Iusti de Vulterris, eo quia in preiudicium provilegior ordinis receperat confirmationem a vicario domini electi vulterrani, eidem domino Michaeli confirmationem contulit in..o potius elegit… >>.[217]

E’del 20 febbraio 1275 una transazione tra Gerardo, abate del cenobio di Morrona e alcuni uomini del comune del Bagno a Aqui, avente ad oggetto la definizione di una vertenza relativa alla manomissione del bagno, pena cento marchi d’argento.[218]

Il 28 agosto 1278, Tarlato di Arezzo, potestà di Pisa, il capitano Rinaldo da Riva e gli Anziani del popolo di Pisa avendo appreso che, a danno del Comune di Pisa e del Monastero di Morrona, da parte di alcuni, erano stati fatti dei nuovi lavori nel Bagno ad Aqui e nel suo acquedotto, lavori che avevano danneggiato gravemente le immunità del cenobio. Quindi le persone menzionate scrivono ai consoli, ai sindaci, al Consiglio e al Comune di Aqui perché si conservino illesi i diritti del Comune di Pisa e del monastero e dispongono di far togliere tutte quelle novità e le fosse che erano state fatte nel Bagno e nell’acquedotto, dove erano i mulini della badia, fino al fiume Cascina, che tutto fosse rimesso allo stato primitivo e che in futuro non fossero fatti lavori che potessero portare danno sia al Comune di Pisa che al monastero di Morrona. Ma i consoli di Aqui fecero, probabilmente, orecchie da mercante, infatti segue un altro documento in cui vengono rinnovate le stesse disposizioni. Dalla testimonianza di vari testimoni si rileva che le novità consistevano in alcune deviazioni di vari corsi di acqua, lasciando i mulini della badia senza acqua, quindi non erano in grado di macinare, perché l’acqua riprendeva il consueto corso sotto i mulini.[219] Il 25 settembre 1278, il Comune di Pisa, in persona del notaio Leopardo, affermò che non avendo il vescovo di Volterra alcuna giurisdizione sul medesimo Comune, non aveva la facoltà di dare ordini circa la controversia tra il monastero di Morrona e il pievano di Aqui, come invece aveva fatto con sua lettera al podestà, agli anziani, al capitano e al consiglio di Pisa.[220] Su questa controversia viene trovato un accordo il 29 ottobre 1278, quando Jacopo eremita camaldolese, visconte e procuratore dell’Eremo e priore di Camaldoli e Gerardo abate del monastero da una parte e Feo pievano della chiesa di Aqui dall’altra, il quale era responsabile della deviazione delle acque e che da tempo cercava di dare fastidio al monastero circa l’uso dell’acqua per i mulini, quindi in nome di detta chiesa, promette di rilasciare in futuro sempre libero il corso delle acque per i detti mulini e di rinunciare a qualsiasi privilegio e diritto che aveva sopra i medesimi. Per questa promessa e rinuncia il pievano riceve un pezzo di terra posto in luogo detto Pantano, col patto di aggregarlo ai beni della sua pieve e di non alienarlo mai sotto qualsiasi titolo.[221]

Il giorno della festa principale del monastero, e della pieve di Morrona (8 settembre 1293), prete Iacopo fu Corso di Quarrata, rettore della chiesa di Montanino, offre ad Alberto pisano, abate del monastero, per censo un cero di una libbra.

Il primo gennaio 1297, con un rogito viene annullato << …revocavit, cassavit et irritavit et nullius valoris esse voluit ipsum perpetuo per hoc presens instrumentum annullanza… >> un atto in cui Ugo Guitti, giudice e cittadino pisano, dà al monastero di Santa Maria sei staia di grano l’anno << …iure perpetuo in fedum contra iura et statuta Camaldulensis ordinis sine consensu licentia et auctoritate prioris camaldulensis sub cuis iurisditione est dictum monasterium… >>.[222] Ciò era stato stabilito da Gerardo “olim” abate del monastero senza il consenso del priore dell’Eremo.

L’abate pro tempore di Santa Maria di Morrona e i suoi predecessori avevano concesso ad alcuni laici e chierici a vita o a censo annuo, decime, terre e altri beni, ledendo però i diritti del monastero, quindi papa Bonifacio VIII essendo venuto a conoscenza di tale situazione, con suo breve del 17 aprile 1300, incaricò, come accennato precedentemente, il pievano della pieve di Chianni di rivendicare per il cenobio tutti quei beni che erano stati alienati illegittimamente.[223] Cinque anni dopo, il 6 agosto 1305, troviamo che Duccio fu Corrado di Morrona, di sua spontanea volontà, dichiara a Leopardo di Orlando, notaio dello stesso luogo e sindaco e procuratore del monastero, che vari pezzi di terre, posti nei confini di Morrona, sono di proprietà dell’abbazia con tutte le loro appartenenze. Duccio confessa che queste terre sono da lui lavorate e avute in affitto e censo, quindi restituisce l’affitto, il censo e il reddito. Molti dei toponimi di queste terre sono rimasti invariati, ciò rende possibile la loro ubicazione.[224]

Venuto a mancare prete Neri rettore della chiesa dei SS.  Bartolomeo e Nicolò, il 27 aprile 1311 fu eletto “Folle dicte Folluccie clerico quondam Berti”. L’elezione fu fatta nel coro della chiesa del monastero dall’abate Bartolo, “pro una voce tantum ex causa iuris patronatus” e da Nuccio fu Cioni e Vanni fu Pucci Fabbri, consoli del comune di Morrona “alia voce tantum”.[225]

E’ del 2 o del 5 gennaio 1312 un’istanza fatta al potestà di Pisa Federico di Montefeltro, capitano generale del Comune e del popolo pisano, in cui si dice che per molti privilegi e concessioni papali e donazioni fatte al cenobio di Morrona, tra le quali anche quella del Bagno ad Aqui e dell’Acqedotto dello stesso Bagno fino al fiume Cascina. Viene rievocato ciò che era accaduto molti anni prima, cioè la deviazione delle acque fatta da Feo, pievano della pieve di Aqui. Da questo documento veniamo a conoscenza che il monastero possedeva lungo l’acquedotto cinque mulini tuttora attivi e che nessuna persona ha potuto in passato, né può costruire al presente ed in futuro alcun mulino nel detto acquedotto. Ciò viene specifcato perché l’anno precedente la Repubblica di Pisa, mentre era potestà Federico di Montefeltro, aveva fatto restaurare vari bagni delle terme di sua appartenenza, tra questi figura anche quello di Aqui, era stato fatto un nuovo condotto per lo scarico delle acque delle terme, ma tutto questo fu fatto con criterio di non danneggiare nessuno.[226]Temendo che i mulini del monastero venissero danneggiati o addirittura che fossero costruiti nuovi mulini, l’abate ricorre al potestà e fa istanza perché fosse provveduto a far  rinnovare e rispettare ciò che era stato stabilito anni prima, che senza l’espressa volontà dell’abate fosse vietato costruire nuovi mulini sopra il nuovo canale.[227] Subito dopo, nei primi mesi del 1313 un documento attesta una convenzione fatta da Donzeno, sindaco e procuratore del monastero, a Ugolino fu Corso e Ferrante, per la quale si dava ordine di riordinare, murare, tagliare siepi ed ogni altra cosa che poteva nuocere ai mulini posti nel canale che da Aqui andava fino al fiume Cascina.[228] Se molti anni prima era stato chiuso il nuovo canale come per volontà dell’abate del monastero, ora il nuovo acquedotto viene lasciato per utilità delle Terme. Gli abati erano molto potenti e accaniti difensori dei loro beni, per cui questa istanza fu fatta con molto impegno dall’abate, tanto che la descrizione dei fatti passati e presenti sembra molto forzata ed esagerata. Certamente il nuovo canale fatto fare dal Montefeltro aveva un’altra direzione e, come il vecchio, andava a scaricare le acque prima nel Caldana e poi nel Cascina e questo poteva dare luogo all’edificazione di altri mulini. La “gelosia” degli abati per i mulini e per il canale è evidente anche quando “Vanne Domini Guidonis de Vade”, cittadino pisano, vuole edificare un mulino Sul fiume Caldana nei pressi del Bagno di Aqui, nell’anno 1325 (4 giugno); la reazione dell’abate e dei monaci la possiamo immaginare: divieto assoluto di fabbricazione, perché per i monaci tale acquedotto apparteneva all’abbazia da tempo immemorabile.[229] Non arrivando a nessuna conclusione ed accordo, nell’agosto dell’anno successivo, troviamo che era stato proposto che l’abate vendesse a Vanni un pezzo di terra presso un altro già di sua proprietà e dell’acquedotto di Caldana. L’abate scrive una lettera a Bonaventura, priore di Camaldoli ed ottiene di vendere il pezzo di terra per un prezzo conveniente a Vanni, col vincolo, però, di non potere edificare il mulino.[230] Ma un rogito del 24 luglio 1325, ci informa che Bartolo, abate del monastero morronese, col consenso dei suoi monaci e di Antonio da Verghereto, riuniti nel capitolo del cenobio di Morrona, << …fecit, constituit atque ordinavit suum et dicti monasterii procuratorem et nuntium spiritualem presbiterum Michaelem quondam Pardi de Corniano, rectorem Sancti Bartholi de Morrona, presentem et suscipientem in omnibus et singulis casis litibus et questionibus… >>, la lite era originata << …per iactum trium lapillorum et alium modum quemqumque dicto sindico et procuratur videbitur omnibus et singulis construentibus vel edificantibus aut construere vel edificare volentibus aliquid edificium super aqua seu cursu aut aqueductu aut alveo aque Caldane Balnei de Aquis a dicto Balneo usque in flumine Cascine vel in alio quocumque loco dicti monasteri aut dicto monasterio pertinente… >>.[231] L’abate dà l’incarico al procuratore di far valere i diritti del monastero.

Il 28 marzo 1303, Ugo Guicci, giudice e avvocato della chiesa di Santa Maria di Morrona, davanti a Guidone notaio e teste, << …liberavit et absolvit fratrem Nicoluccium, monacum et sindicum suprascripte ecclesie et monasterii Sancte Marie, […] domino Ugoni dare et solvere tenetur et debet per suo salario et mercede usque ad festum Sancte Marie de augusto… >>, davanti a Guidone notaio e testimone, Niccolò <<    …dedit et solvit suprascripto domino Ugoni… >> libbre nove e dodici soldi di denaro pisano. Ugone promette di dare nella stessa festa sei staia di grano. [232]

Un rogito datato 26 luglio1317, mette fine ad una contestazione tra Iacopo, notaio di Morrona del fu Bartolomeo e Bartolo, abate del monastero,  per un pezzo di terra con “fichi et remore” e ogni pertinenza, confinata e posta presso Morrona.[233]

Il 12 settembre 1323, Bartolo, abate del monastero di Santa Maria, davanti a Michele notaio, presente come teste, interroga personalmente Giustino fu Miglio di Morrona circa un pezzo di terra, parte campia e parte boscata, posto tra Soiana e Morrona, in luogo detto Stibbiolo con i suoi confini e proibisce a Giustino di lavorare ed entrare nel detto terreno, in quanto di proprietà del monastero. << …ab hodie in antea non intret nec intrare debeat, aut laboret seu laborare debeat vel faciat laborari petium unum terre… >>.[234]

Il 13 settembre 1331, Antonio procuratore del monastero, a nome dell’abate, fa rogare un atto in cui << …inibuit et vetuit Vanni quondam ser Nini de Morrona, que tenet et conducit… >> tre pezzi di terra: il primo con olivi in luogo detto L’Aia Vecchia, confinato; il secondo con fichi e altri alberi in luogo detto Chiusura, con i suoi confini; il terzo vignato in luogo detto Scopeto, confinato. Presentemente questi pezzi di terre non vengono lavorate dal suddetto Vanni, al quale viene chiesto un risarcimento di 25 lire di soldi pisani, perché non lavorando bene queste terre, fa un torto all’abate e al monastero.[235]Tali documenti fanno capire, ancora una volta, quali fossero i rapporti tra gli abati e i laici, specialmente in tempo di decadenza dell’abbazia, queste continue controversie fanno supporre che insieme alla progressiva diminuzione di prosperità si aggiungesse anche il declino del potere.

Il 23 gennaio 1335, essendo vacante la chiesa di San Lorenzo di Montanino, l’abate di Morrona Bartolo, patrono della suddetta chiesa, procede all’elezione del nuovo rettore, nella persona di Gregorio, fiorentino, monaco camaldolese.[236] Nello stesso anno, il 26 marzo 1335, Bonaventura, priore di Camaldoli, essendo vacante l’abbaziato del monastero di Morrona, nomina abate Bartolo “de Eugubio”.[237]

Con bolla emanata da Clemente V, il 24 maggio 1313, viene eletto il nuovo abate di Morrona nella persona di Pietro di San Salvatore di Selvamonda, della diocesi di Arezzo, l’abbaziato cenobitico era vacante, per il passaggio dell’abate Bartolo al monastero di San Giovanni di Borgo San Sepolcro.[238]

In data 8 agosto 1345, Silvestro di Anghiari, abate pro tempore del cenobio di Morrona, essendo da molto tempo vacante la rettoria della chiesa dei Santi Bartolomeo e Niccolò, nomina rettore della medesima chiesa, di cui gli abati avevano, per antica consuetudine, lo ius patronato, prete << …Nicholao nato ser Iacobi capitanei de Morrona, plebano Sancti Iohannis de Ginestrella…>>, chiedendo consiglio circa la nomina a “Dottuccium Coli de Corniano et Cinum Ganuccii de Morrona”, consoli dello stesso comune. Nel documento viene descritta la cerimonia dell’immissione nel possesso della chiesa.[239]

Le guerre tra Pisani e Fiorentini avevano demolito, distrutto, diroccato tutti i castelli del contado e devastato i raccolti, anche la badia di Morrona certamente ne patì le conseguenze e dopo la caduta di Pisa sotto il potere di Firenze,  il 9 ottobre 1406, quando i fiorentini guidati da Gino Capponi, riuscirono ad impossessarsi della città pagando con 50.000 fiorini il capitano del popolo Giovanni Gambacorta che fece aprire la porta di San Marco. Anche la badia divenne di dominio fiorentino e il monastero non poté più contare sul sostegno di Pisa e tantomeno su quello dei vescovi di Volterra, nonostante la badia si trovasse nella diocesi di questa città, d’altra parte i rapporti con il vescovato volterrano non erano mai stati molto tranquilli, infatti vedremo che proprio il prelato di Volterra sarà la causa della fine di questo monastero.

Il 5 maggio 1408 Agostino Moriconi, abate del monastero di San Pietro di Pozzuoli delega Orlando, abate di Morrona di agire in sua vece nella futura elezione del nuovo priore di Camaldoli.[240]

Nonostante il potere di questo monastero fosse decaduto, gli abati continuarono a far valere i propri diritti, per quanto era loro possibile, anche nel secolo XV. Il 3 di giugno 1454 l’abate pro tempore ottenne dagli “Ufiziali Rerum et Bonorum Rebellium et Bannitorum Communis Florentie” la revoca della licenza accordata agli uomini del comune di Bagno a Aqua e di Parlascio di poter costruire un mulino atto a macinare con le acque che uscivano dalle terme, cioè da quell’acquedotto che fu costruito quando era potestà di Pisa Federico di Montefeltro, contro i loro privilegi e diritti. Ma il 25 luglio dello stesso anno, sembra che l’abate e i suoi monaci avessero cambiato idea, infatti trovano un accordo con i Comuni di Bagno a Acqua e Parlascio. In questo documento viene esposto che il monastero aveva posseduto in passato cinque mulini nel corso delle acque delle terme e che i contadini dei luoghi circonvicini avevano avuto grandi vantaggi per macinare, ma le guerre tra Pisani e Fiorentini li avevano distrutti in buona parte, creando forti disagi a coloro che dovevano macinare. Per sopperire a queste difficoltà gli abitanti dei comuni vicini avevano pensato di fabbricare un mulino sul canale che veniva dal Bagno, cioè quello che era sempre stato negato e proibito dagli abati, i quali sostenevano che fin dalla fondazione della badia, il corso delle acque delle terme era sempre stato di loro appartenenza e viene citata la donazione del conte Ugo. Finalmente venne concordato che gli uomini dei vari comuni interessati potevano costruire un mulino con casa, idoneo a macinare sopra il tanto discusso canale: << …Et teneantur solvere uomine annui census in festa Beate Marie de mense septembris unum candelabrum cere libre unius… >>.[241]

Gli ultimi documenti relativi al XV secolo risalgono al 16 giugno 1462 e al 15 marzo 1464: il primo si tratta di un mandato di procura fatto da Iacopo di Andrea da Galatea, abate di Morrona a Benedetto del fu Masco di Andrea suo nipote e priore di Santa Maria di Vincareto, per rinunciare a suo nome alla suddetta badia di Morrona e rimetterla nelle mani del pontefice (Pio II) o di Mariotto, priore dell’Eremo e generale di tutto l’ordine Camaldolese, documento citato precedentemente.[242] Il secondo è un breve di Pio II diretto al priore di Camaldoli, con cui ordina di costituire un usufrutto su un bene del monastero di Morrona a Iacopo, il quale fu abate del cenobio, per poter condurre una vita decente e per ripagarlo di un credito di 200 fiorini che in passato aveva fornito al monastero per avere dovuto sostenere una lite, probabilmente si tratta di spese legali.[243] Seguono quattro bolle pontificie, una di Paolo II del 1467; le altre tre di Sisto IV datate rispettivamente: 1476; 1478; 1483, in cui si dice dei beni del monastero annessi alla Mensa vescovile di Volterra.[244]

Capitolo IV. La presa della badia

 La soppressione del monastero è documentata nei particolari da Pietro Delfino, Generale dell’ordine Camaldolese, in una lettera (in latino) del 13 settembre 1482, diretta a Ventura, abate dell’abbazia di San Michele di Murano, la cui traduzione fa perdere molta dinamicità alla stessa. Il Generale camaldolese scrive all’abate che era dovuto restare alcuni giorni a Siena, perché al suo arrivo era assente il Protettore; il giorno seguente, di buon mattino, arrivarono Antonio da Orvieto e Andrea d’Aquileia, figlio della sorella del cardinale di detta città, i quali portarono la notizia della morte dell’abate di Morrona e insistettero perché il generale Camaldolese si recasse subito a quella abbazia.[245]

Partito da Siena, in quello stesso giorno, arrivò a Morrona il giorno seguente e nonostante avesse sperato in una calda accoglienza, scrive il Generale molto impermalito, a fatica fu fatto entrare dopo due lunghe ore di attesa: << …Ubi sperantes grate nos admittendos, vix duarum horarum spatio impetrare potuimus ingressum… >>.[246]

I monaci e gli uomini del castello di Morrona avevano, nel frattempo, eletto abate don Mauro e, temendo che il Generale e il suo seguito potessero eleggere un altro, non permettevano loro di entrare nel monastero. Nello stesso tempo arrivò un parente di Antonio de’ Pazzi con molti cittadini fiorentini, ai quali fu subito aperta la porta.[247] Pietro Delfino non nascose la propria ira per l’indegnità del fatto: veniva escluso il legittimo superiore religioso mentre erano intromessi arbitrariamente dei laici: << …Non potuimus non moveri admodum indignitate rei, quod excluso religionis patre, laici admitterentur pro arbitrio… >>;[248] quindi, fece ordinare di riferire a don Mauro che se gli era impossibile farli entrare, almeno lui venisse alla porta, minacciandolo che se avesse rifiutato la proposta si sarebbero rivolti contro di lui in modo molto più deciso: il Generale era disposto ad attendere un’ora non di più, prima di procedere giuridicamente contro il neoeletto come ribelle e disprezzatore dell’autorità. Don Mauro ebbe paura di ciò che aveva detto il Generale e andò alla porta seguito da molte persone, con parole di scusa verso se stesso e verso gli uomini che custodivano il monastero, dicendo che essi non volevano altro abate che lui, inoltre supplicò umilmente il superiore di dare conferma alla propria elezione.

Fatti entrare nell’abbazia, fu concesso il perdono da parte del Generale, ma non la conferma dell’elezione, perché prima della partenza da Siena, Pietro Delfino aveva mandato a Firenze un ambasciatore al Priore degli Angeli, perché accettasse la nomina di abate di Morrona.[249]

Poco tempo dopo arrivò Bartolomeo Soderini, vicario del vescovo di Volterra Francesco Soderini, fratello del futuro gonfaloniere di Firenze Pier Soderini (compendio di immoralità e corruzione curialesca) per prendere possesso dell’abbazia in nome del suo vescovo, ma non gli fu permesso nemmeno di avvicinarsi all’edificio, quindi ripartì pieno di furore. Il vento di fronda, che per secoli è spirato tra il vescovato di Volterra e il monastero si fa ora più forte e il presule volterrano, il giorno dopo all’alba, approfitta e parte “manu armata” con i suoi soldati alla conquista della badia. Con i suoi duecento uomini armati entrò nel castello di Morrona, cominciò a minacciare il popolo e ad ordinare che non gli si opponessero: << …abbatiam Morrona sua esse, eamque si aliter non posset, per vim expugnaturum… >>.[250] Nel frattempo da Morrona e da altri luoghi circonvicini erano arrivati molti laici per difendere il monastero con qualsiasi genere di armi e si erano disposti alle porte, nei punti più vulnerabili, sopra i tetti per sorvegliare il nemico e vigilare. Non ancora finito il pranzo fu gridato l’allarme per l’arrivo del drappello vescovile: in un attimo tutti gli uomini armati si disposero sui tetti, sui muri, alle finestre per respingere con spade, frecce, spingarde ed altre armi di fortuna il nemico. Ma l’arrivo di Macerio impedì la lotta che certamente sarebbe stata feroce, inoltre agli uomini ordinò di tornare alle proprie case pena la testa. [251]

Per tre ore Pietro Delfino e gli altri cercarono di persuadere Macerio a procrastinare l’investitura al vescovo, almeno finché essi non avessero ottenuto udienza a Firenze. Fu fatica sprecata, perché egli insistette nel dire che doveva eseguire gli ordini ricevuti e adempire il mandato.

Il Generale Camaldolese scrisse subito una formale protesta e accusa << …ad dominium hac de re , plurimum conquesti de illata nobis ab episcopo injura… >>,[252] poi affidato il monastero a don Mauro, che, per la venuta del vescovo, era stato frettolosamente confermato abate, si dispose a partire, dopo avere avuto dal neo abate la promessa di difendere con ogni mezzo i diritti del monastero a Roma e dovunque fosse necessario.

Il Generale partì in fretta per non vedere con i propri occhi il momento in cui il presule volterrano avrebbe fatto il suo ingresso nella badia, poco dopo arrivò il Priore degli Angeli, ma appena fu informato della partenza di Pietro Delfino ed anche che il vescovo aveva già occupato il monastero, ritornò subito a Firenze: << …supervenit eadem hora prior Angelorum, qui ubi comperit minime nos adesse, et episcopum iam obtenuisse monasterium, Florentiam rediit… >>.[253]

Il giorno seguente il Generale arrivò a Siena con il suo seguito e riferì, addolorato e mesto per gli inutili sforzi, l’accaduto al cardinale protettore, esternando l’amarezza e la meraviglia di vivere in tempi e tra gente che permettevano di essere cacciati vergognosamente dalle proprie case per consegnarle ad estranei, oltre la rapina delle rendite dei monasteri. Il Cardinale lo consolò, lodando la sua diligenza nel difendere l’abbazia, << …qua non stetisset per nos, quin ordini servaretur… >>,[254] inoltre, lo esortò a stare di buon animo e gli disse di ascrivere all’infelicità dei tempi ciò che era accaduto, << …Hortari ut bono animo essemus, quodque accidisser, temporum infelicitati adscriberemus, quatenus immunis a calamitatibus inveniretur nemo… >>;[255] ma che non sempre la spada del divino furore sarà affilata contro di loro e verrà un giorno in cui ci sarà una serena pace per il popolo cristiano, infine promise, che al suo ritorno a Roma, avrebbe fatto tutto il possibile contro la prepotenza dell’invasore del loro monastero.

La lettera fu scritta da Fontebono, il 13 settembre 1482.[256]

I beni del monatero furono assegnati alla Mensa vescovile di Volterra e l’edificio fu trasformato in residenza estiva dei prelati volterrani fino al 1868, quando fu espropriato alla Chiesa e venduto a privati.

 APPENDICE

LISTA DEGLI ABATI

Martino         1092

Eriberto         1098

Gerardo         1101-1123

Guido            1128

Gerardo         1133-1139 (menzionato fino al 1139)

Uberto           1141            

Guidone                      1148

Jacopo           1152-1153

Ugo               1168

Marco           1182 (menzionato anche nel 1184)

Ubaldo          1196

Guido            1198

Viviano         1212-1220 (menzionato nel 1214, 19, 20)

Martino         1223-1232 (menzionato nel 1224, 28, 29, 31, 32)

Nicola           1236 (menzionato nel 1237)

Simone         1239 (menzionato nel 1240, 41 anno della sua morte il 4 ottobre)

Benedetto     1241 (eletto il 15/16 ottobre 1241 e menzionato nel 1242, 43, 44, 45)

Michele        1255 (nel 1256 di settembre Michele viene eletto abate di un altro monastero)

Guidone        1262 (menzionato nel 1263,64,66,67,68)

Alberto         1271 (menzionato nel 1272)

Gerardo        1275-1284 (menzionato nel 1277,78,84)

Alberto         1293 (viene detto pisano)

Gerardo        1297 (olim abbas mon.)

Alberto         1298

R……..         1301 (non decifrabile)

Corrado        1306-1309 (menzionato fino al 1309)

Bartolo         1311- 1318 (Bartolo de Anglario, menzionato nel 1312,13,15,16, 17,18)

Pietro            1313 ( nel 1313 troviamo menzionato Bartolo)

Silvestro       1316 ( nel 1316 troviamo menzionato Bartolo)

Cum…         1318 (il nome dell’abate cambia, ma non è leggibile; risulta che il 7 febbraio è sindaco e procuratore Gherio fu Inghiramo)

Bartolo         1319

Bartolomeo  1320-1336 (Bartholomeo lucensis o de Luca, lo troviamo menzionato negli anni 1321, 22, 23, 25, 27, 29, 31, 32, 34, 35, 36)

Silvestro       1340 (de Anglario, menzionato nel 1343,45)

Bartolomeo  1347 (de Eugubio di cui troviamo la sua elezione il 26 marzo 1335?)

Pietro           1350

Giorgio        1389-1390

Gregorio      1390-1394 (nel 1390 il 19 di ottobre troviamo ancora Giorgio abate)

Martino       1405-1406 (Martino Guiducci, già oriore di San Severo di Perugia, fu eletto il 20 maggio)

Orlando       1408

Iacopo         1457

Iacopo         1462 (di Andrea da Galeata, forse lo stesso che troviamo nel 1457)

Iacopo         1468 (troviamo “stato abate” e forse trattasi sempre della stessa persona)

Mauro         1482

Questa lista è stata desunta dalle numerose pergamene consultate presso l’AVV e dai documenti reperiti nella B.C.V.

[1] La comunità di Morrona è una frazione del comune di Terricciola, da cui dista poco più di un chilometro; << …risiede presso la vetta delle colline cretose che dalla parte di levante acquapendono in Val-d’Era, mentre dal lato opposto scendono in Val di Cascina… >>; << …Giurisdizione di Peccioli, Diocesi di Volterra, Compartimento di Pisa… >>. E. Repetti, Dizionario Geografico, Fisico e Storico della Toscana, III, Firenze, A. Tofani e G. Mazzoni 1833-1845, p. 614. Intorno al Mille Morrona dipendeva dalla consorteria dei conti Cadolingi; dopo l’estinzione della famiglia (1113) la Chiesa pisana vi esercitò giurisdizione sovrana: il 17 marzo 1199 Ubaldo, arcivescovo pisano, emanò un placito in cui ordinava ai consoli di Morrona e a tutta la comunità di ubbidire all’arcivescovo loro padrone e che in nessun tempo tentassero alcuna cosa contro la Chiesa di Pisa e il suo onore. I Morronesi furono sempre dalla parte ghibellina e nel 1238 anche questo Comune inviò i suoi rappresentanti a Santa Maria a Monte per stabilire le convenzioni fra i diversi partiti della lega ghibellina toscana. Nel 1294 i ghibellini della Val d’Era, guidati da Neri di Janni da Donoratico, si radunarono a Morrona e << …unitisi con le genti del conte Guido da Montefeltro, potestà di Pisa, fecero una sanguinosa zuffa contro l’oste guelfa fortificatasi in Peccioli di Val-d’Era… >>. Morrona seguì la sorte di altri castelli delle Colline Pisane e nel 1496, durante la guerra tra Firenze e Pisa, cadde in potere dei Fiorentini, ai quali si sottomise con atto pubblico. Cfr. E. repetti, cit., III, p. 614.

[2] C.f.r., G. Mariti, Odeporico o sia Itinerario per le Colline Pisane, Ms. 3511, III, Biblioteca Riccardiana, Firenze; G. Targioni-Tozzetti, Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, I, Firenze, Stamperia Imperiale 1768, pp. 216-222; E. Repetti, cit., I, pp. 20-21; III, pp.614-615; J. B. Mittarelli et Costadoni, Annales Camaldolenses Ordini Sancti Benedicti, Venetiis, 1755-1773; P. F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum, Italia Pontificia, III, Etruria, Berlino apud Weidmannos 1908, pp. 292-293; G. Lami, Deliciae Eruditorum, XVI, Firenze 1736-1755.

Il conte Ugo, figlio di Guglielmo detto Bulgaro, nipote del conte Cadolo fondatore dell’oratorio di Fucecchio, dal suo primo matrimonio ebbe due figli: Ugo e Lotario; rimasto vedovo, sposò in seconde nozze Cilia o Cecilia, dalla quale ebbe altri due figli: Ugolino e Rainuccio, che compaiono nel rogito e sono chiamati “proximarum parentum”, forse per distinguerli dagli altri due che di Cilia erano figliastri. C.f.r. G. Mariti, cit., J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 96 in appendice.

[3] Archivio Vescovile Volterra, sec.XI, dec. X, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi volterrani fino al 1100, Esame del Restum Volaterranum, con appendice di pergamene trascurate da Fedor Schneider in “Rassegna Volterrana”, XXXVI-XXXVII; XXXVIII-XXXIX, Volterra, Accademia dei Sepolti 1972, p. 71, n. 96. L’atto fu rogato nella chiesa di Santa Maria del monastero da Guido notaio regio; alla subscrptio verbale segue un codicillo di circa tre righe purtroppo indecifrabili.

[4] C.f.r. A.V.V., sec. XI, dec. X, n. V-VI. Gli atti furono rogati rispettivamente presso il castello di Santo Pietro e in Casanova da Guido notaio regio. Questo antroponimo, che non dovette essere molto diffuso nella zona delle Colline Pisane, appare in una carta lucchese dell’VIII secolo: “…Gauspert viri devoti filio Raduare…”. C.f.r. L. Bertini, Indici del Codice Diplomatico Longobardo, II, Bari 1970, p. 259.

[5] J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 213 in appendice.

[6] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. I. Troviamo menzionato questo abate fino al 1139, quindi Gerardo ebbe la guida spirituale e temporale di questo monastero per circa quarant’anni. Crf. A.V.V., sec. XII, dec. IV, n. XV.

[7] Nel 1115 Pietro Moricone ricevette in enfiteusi dall’abate Gerardo la terza parte dei castelli di Aqui, attuale Casciana Terme, e di Vivaia, castello che sorgeva a circa un chilometro ad ovest di Casciana Terme, sopra il quale ebbero la signoria i Cadolingi, che lo cedettero al monastero di Morrona con una vendita del 1109. Cfr. E. Repetti, cit., V, pp. 794-795. << Santa Maria in Morrona (Volterra) risulta tra i trasferimenti dei monasteri affidati a Camaldoli entro il 1113>>. W. Kurze, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana Medievale, “Studi Diplomatici, Archeologici, Genealogici, Giuridici e Sociali”, Acc. Senese degli Intronati, Siena 1989, p. 249.

[8] Cfr. G. Miccoli, cit., p. 47 e segg.

[9] G. Mariti, cit.

[10] G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p. 216 e segg.; G Mariti, cit.; J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 460 in appendice.

[11] J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 96 in appendice.

[12] A.V.V., Visita Apostolica del vescovo Castelli del 1576, c. 444 r. e segg.

[13] Ibidem

[14] C.f.r. G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p.216 e segg. Il quale sostiene di averne visti altri simili a Treggiaia, Monte Foscoli e nella pieve di Morrona.

[15] Il Mariti, confermato dal Repetti, sostiene che questo polittico, oggi purtroppo ridotto alla tavola centrale, sia ritenuto anteriore a Cimabue, perché degli esperti ”…vi ravvisano in maniera senza forma e senza intelligenza alcuna delle parti, come pure il colorito monotono, ed il piegare indeciso mostrano l’arte nel suo naturale meccanicismo, e al di fuori di ogni buon principio ed ogni regola, ma comunque si sia certo che sono molto antiche…”. G. Mariti, cit. C.f.r. E. Repetti, cit., I, p. 20. Gli affreschi sono attualmente molto deteriorati a causa dell’umidità.

[16] La porta e la lapide viene menzionata dal Mariti nella sua opera; le notizie concernenti lo stato attuale sono della scrivente, la quale ha esaminato minuziosamente tutte le parti dell’edificio. Domenico Tempesti: pittore pisano nato nel 1688, formatosi nell’accademia domestica di Domenico Ceuli, fu padre del famoso pittore Giovanni Battista, morì nel 1766. Per ulteriori notizie su questo pittore si veda: R. P. Ciardi a cura di, Settecento pisano. Pittura e scultura a Pisa nel secolo XVIII, Cassa di Risparmio di Pisa, Pisa 1990.

[17] G. Mariti, cit.

[18] Tali notizie sono della scrivente, la quale ha esaminato il luogo più volte.

[19] Cfr. G. Mariti, cit. Si pensa che il Mariti nella sua descrizione abbia usato come misura il braccio fiorentino, equivalente a 58,60 centimetri. La chiesa, dunque, sarebbe lunga circa 26 metri, larga 7,5 e nella crociera 13,5 metri.

[20] G. Mariti, cit… Il Mariti vide la seguente iscrizione su marmo in caratteri gotici:”Hoc opus fecit fieri donnus Silvester De Anghiare abbas uius monasteri. MCCCXVI. Sulla sinistra ai piedi della scala che portava all’appartamento per il pievano un’altra lapide recava questa iscrizione:”Hoc S. fieri fecit donnus Iacobus Andreae De Galeata abbas huius monasterii et successor. MCCCCLVII”. Accanto a questa iscrizione sepolcrale vi era un’arme o qualcosa di simile su cui erano scolpite due teste in profilo di uomo. Niente di tutto questo è oggi esistente. G. Mariti, Odeporico… cit., Attualmente il chiostro non si presenta molto dissimile all’epoca in cui fu visto dal Mariti: in seguito a restauri è stato riportato alla luce il loggiato, che era stato incamerato in una parete e intonacato.

[21] Cfr. G. Mariti, cit., pp.55-57. Il passo equivaleva a 1,48 metri circa.

[22] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p. 203; G. Mariti, cit.; E. Repetti, cit., III, p. 614.

[23] Troviamo i titoli di S. Maria e S. Giovanni per la prima volta in un documento del 19 luglio 1236, più tardi, nel 1427, è contitolare anche santa Lucia. Crf. A.V.V., sec. XIII, dec. IV, n. XXVII; A.S.F., Catasto n. 193, c. 609 v.

[24] A.V.V., sec. XIV, dec.III, n. LV.

[25] Ibid., Località con poche case a breve distanza dal centro abitato, sulla via che da Morrona porta a Soiana; il toponimo è invariato.

[26] Ibid.

[27] Ibid

[28] Ibid.

[29] Ibid.

[30] Cfr. A.P.M. (Archivio Parrocchiale Morrona). Le due perizie furono fatte fare da don Giuseppe Levrini pievano di Morrona nei primi anni del 1900

[31] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. V, n. I; F. Schneider, Regestum… cit., p. 58, n. 166.

[32] Cfr. A.S.P., Fondo atti pubblici, Iaffè, II, n. 12692; P. F. Kehr, cit., III, p. 327, n. 42; N. Caturegli, cit., n. 516.

[33] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. II, n. XVII.

[34] Cfr. C. Violante, Pievi e Parrocchie nell’Italia Centrosettentrionale durante i secoli XI e XII, in Le istituzioni ecclesiastiche della “societas christiana” dei secoli XI-XII. Diocesi, Pievi e Parrocchie, Milano, Vita e Pensiero 1-7 settembre 1974, p. 653 e segg.

[35] Cfr. P. Guidi a cura di, Tuscia. La decima degli anni 1274-1280, I, in Rationes Decimarum Italiae, Città del Vaticano, Poliglotta Vaticano 1932, p. 161.

[36] P. Giudi a cura di, op. cit., II, p. 200

[37] Cfr. Archivio Storico Comunale Volterra, (D’ora in poi A.S.C.V.) Sinodo Belforti, c. 51 r.

[38] A.S.F., Catasto n. 193, c. 609 v.

[39] Ibid.

[40] A.V.V., Visita apostolica di monsignor Giovanni Battista Castelli vescovo di Rimini del 1576, c. 445 r.

[41] Cfr. L. Pescetti, Storia di Volterra, Pisa 1985, p. 41 e segg.

[42] Cfr. A. F. Giachi, Saggio di ricerche storiche sopra lo stato antico e moderno di Volterra, Sala Bolognese, rist. anast., p. 207 e segg.; M. Bocci, Annuario della Diocesi di Volterra, Firenze 1981, p. 15; L. Pescetti, cit. p. 57.

[43] Cfr. F. Schneider, Regestu… cit, p. 49, n. 138; C. Violante, L’origine lombarda di Ruggero vescovo di Volterra e arcivescovo di Pisa, Accademia Nazionale dei Lincei, Serie VIII, Vol. XXXV, fasc. 1-2, Roma 1980.

[44] Cfr. C. Violante, L’origine lombarda di Ruggero vescovo di Volterra e arcivescovo di Pisa, “Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche”, Serie VIII, vol. XXXV, Fasc. 1-2 gennaio-febbraio 1980, Accademia Nazionale dei Lincei, p. 11 e segg.

[45] A. V. V., sec. XII, dec. III, n. VII; Cfr. L. A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, III, Milano 1738-1742, p. 1143; F. Schneider, Regestum… cit., p. 56, n. 159; N. Caturegli, cit. p. 202, n. 307; C. Violante, L’origine…cit., p. 11, nota 3.

[46] C. Voilante, L’origine… cit., p. 13 e segg.

[47] F. Schneider, Regestum… cit., p. 53, n. 148; A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 447

[48] F. Schneider, Regestum… cit., p. 54, n. 150; R. Davidsohon, Storia di Firenze, p. 561 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi… cit., p. 31.

[49] Cfr. C. Violante, L’origine…, cit., p. 17.

[50] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 46 e segg.

[51] Ibid.

[52] Ibid.

[53] Cfr. F. Schneider, La Vertenza di Montevaso del 1150, Bullettino Senese di Storia Patria, XV, Siena 1908, p. 12 e segg.

[54] Cfr. L. Pescetti, Storia…cit., p. 57; A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 204.

[55] Ibid.

[56] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p.57

[57] Ibid.

[58] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., V, pp. 804-805

[59] Per la restituzione e per i frutti <<…furono assegnate ad Ildebrando le rendite tutte che le città di Lucca e di Siena pagavano al re, il pedaggio delle porte di Siena, di Castelfiorentino e di Poggibonsi e le rendite ancora, che ritraeva il regio erario da più e diversi castelli nominati nel contratto che ne fu stipulato, che doveva il vescovo per le miniere di Montieri, per la regalia della moneta e del fodro>>. A. F. Giachi, Saggio… cit., p 209; Cfr anche E. Repetti, Dizionario… cit., V, p. 805.

[60] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 57

[61] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., V, p 805

[62] Cfr. L Pescetti, Storia… cit., p. 58

[63] A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 208

[64] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 60

[65] Ibid.

[66] Cfr. R. Pescaglini Monti, La Plebs e la Curtis de Aqui nei documenti altomedievali, “Bollettino Storico Pisano”, L, Pisa 1981, pp. 9-15.

[67] Cfr. F. Schneider, Regestum… cit., p. 46, n. 126; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., VI, p 228.

[68] Cfr. P. F. Kehr, Regesta… cit., III, p. 300; F. Schneider, L’ordinamento pubblico nella Toscana medievale, trad. it. A cura di F. Barbaloni di Montauto, Firenze 1975, pp. 270-271, nota 233.

[69] Cfr. M. Cavallini- M. Bocci, Vescovi…cit., p. 30; R. Pescaglini Monti, cit.., p. 10.

[70] Cfr. A. V. V., sec. XII, dec. I, n. XII; dec. I, n. XI; F. Schneider, Regestum… cit., pp. 50-51, nn. 140-143; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 31.

[71] Cfr. R. Davidsohn, Storia di Firenze, trad. it., I, Firenze 1956-1968, p. 565 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 31.

[72] Cfr. R. Pescaglini Monti, cit., pp. 13-14.

[73] Per la prima bolla Cfr. P. F. Kehr, Regesta…cit., n.1, p. 293; N. Caturegli, Regesta…cit., p. 180, n. 285; per la seconda bolla Cfr. J. B. Mittarelli- Costadoni, Annales…cit., p. 285 e 306 in appendice.

[74] A. V. V., sec. XII, dec. III, n. VII; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1143; G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., pp. 2216-2222; F. Schneider, Regestum…cit., p. 56, n. 159; N. Caturegli, Regesta…cit., p. 202, n. 307.

[75] Ibid.

[76] Già nel 1115 Pietro Moriconi, allora arcivescovo pisano, ebbe in enfiteusi dall’abate Gerardo la terza parte del castello e distretto di Vivaia e della corte di Aqui con ogni pertinenza, ad eccezione però di ciò che apparteneva al monastero prima della donazione del conte Ugo, con lìobbligo di pagare ogni anno in settembre 12 denari di moneta corrente. Cfr. N. Caturegli, Regesta…cit., pp. 152-153, n. 247. Sempre nello stesso anno, l’arcivescovo Pietro fece fare un giuramento di fedeltà ai castellani e agli abitanti di Vivaia, che promisero di difendere la sua persona, i suoi beni e quelli dei suoi successori, eccettuando sempre quei beni appartenenti alla chiesa e monastero di Morrona, che si trovavano nei confini e appartenenze del castello. Cfr. J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 248 in appendice; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1116.

[77] A. V. V., sec. XII, dec. IV, n. VI; F. Schneider, Regestum…cit., p. 57, n. 162.

[78] I documenti pontifici in favore dell’ordine Camaldolese, in cui è sempre menzionata la badia di Morrona, ed altri indirizzati direttamente agli abati, sono numerosi ed hanno sempre lo stesso tenore: confermano beni e privilegi come quelli degli imperatori Lotario e Corrado II del 1137 e del 1139. Ne segnaliamo alcuni: 1137 aprile 22 (Innocenzo II); 1141 gennaio 30 (Innocenzo II); 1146 febbraio 7(Eugenio III); 1154 marzo 14 (Adriano IV); 1176 aprile 11 (Alessandro III); 1179 aprile 23 (Alessandro III); 1184 luglio 7 (Lucio III); 1187 dicembre 23 (Clemente III); 1198 Maggio 5 (Innocenzo III); A. V. V., sec. XII, dec. varie; L. A. Muratori, Antiquitates…cit. ; J: B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit.; A. F. Giachi, Saggio…cit.; F. Schneider, Regestum…cit.; N. Caturegli, Regasta…cit.

[79] L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1153; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 349 in appendice.

[80] A.V.V., sec. XII, dec. V, n. 1; per la bolla di Eugenio II si veda P. F. Kehr, Italia…cit., III, n. 4, p. 293. Il toponimo Tora, tuttora esistente si riferisce ad un piccolo torrente che sorge nei pressi di Gello Mattaccino, nel comune di Casciana Terme, si presuppone che la suddetta chiesa fosse ubicata vicina al torrente.

[81] Cfr. AVV., sec. XII, dec. X, n. XV.

[82] Cfr. F. Schneider, La Vertenza…cit., pp. 3-22; G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., pp.216-222; J. B. Mittarelli.Costadoni, Annales…cit., III, p. 460 in appendice; E. Repetti, Dizionario…cit., I, p 20. << Favorivano in questo tempo siffatto distendersi del dominio territoriale della chiesa e del comune pisano o la libera donazione degli abitanti di qualche castello, o le necessità finanziarie delle abbazie un giorno floride, ora in rapida decadenza, come quelle di Santa Maria di Morrona e del Beato Giustiniano di Falesia, i cui abbati dichiarano espressamente di vendere per bisogno di denaro…>>. G. Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa. Città e contado, consoli e podestà. Secoli XII e XIII, Firenze 1970, p. 12.

[83] Cfr. M. Bocci, La Badia di Morrona e un prepotente Vescovo di Volterra, in “Volterra”, anno III 1964, n. 3 marzo e 5 maggio.

[84] J. B. Mittarelli- Costadoni, Annales… cit., III, p. 96 in appendice. Nel 1097 Ugo e Lotario, figli del conte Ugo fecero redigere un editto contro chiunque tagliasse, predasse, saccheggiasse, rubasse, incendiasse o facesse danno in tutti i dintorni della chiesa e del monastero, i trasgressori sarebbero incorsi in pene pecuniarie e scomunica.

[85] Cfr. A. V. V., sec. XI, dec.  X, n. IV; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 78, n. 119. La pena stabilita fu di 40 soldi d’argento e la maledizione. Il luogo, che tuttora conserva lo stesso toponimo, è una fattoria ubicata tra Terricciola e Selvatelle; Casanova è citata fin dal 780 come corte dei fondatori del monastero di San Savino. Nel 1102 l’abbazia di Carigi vi aveva dei beni, in seguito, la famiglia degli Upezzinghi ebbero il patronato della chiesa (S. Bartolomeo) e alcuni beni. La rocca fu smantellata nel 1164 dai Pisani. Nel 1238 gli uomini di Casanova parteciparono al trattato per la Lega stipulato in Santa Maria a Monte, nel 1289 vi si scontrarono i Ghibellini della Valdera e i Guelfi di Peccioli. Cfr. E. Repetti, Dizionario…cit., I, pp. 492-93.

[86] Cfr. A.V. V., sec. XI, dec. X, n. V. La pena sancita è di 60 soldi d’argento.

[87] A. V. V., sec. XI, dec. X, n. VI. Riportiamo la minatio: “…penam de optimus (arientum) solidos sexsaginta et que hanc cartula offersionis infrangere vel disrupere seu tollere adque contendere presumserit sit maledictus ab omnipotenti Deo et sancta Maria mater Eius…”

[88] Il 10 giugno 1099 Bernardo fu Gerardo, con suo testamento, dispone alcune elergizioni in denaro a favore di enti ecclesiastici situati in Pisa e nella diocesi: tra questi compare anche il monastero di Morrona (nonostante situato nella diocesi di Volterra), cui viene donata la somma di 20 soldi. Cfr. M. Tirelli Carli, Carte dell’Archivio Capitolare di Pisa, “Thesaurus Ecclesiarum Italiae”, III, Roma 1977, pp. 172-74.

[89] Cfr. A. V. V. ,sec. XII, dec. I, n. VIII; F. Schneider, Regestum…cit., p. 50, n. 140.

[90] A. V. V., sec. XII, dec. I, n. XI. Il documento è datato 19 febbraio 1107. Molto elaborata la minatio, anche se abbastanza frequente nei documenti tiscani dei secoli X-XI. “…Et siquilibet persona massculo vel femina quo minime credo suprascripta petia de terra quale super legitur quas in predicta ecclesia et monasterio optuli tollere vel minuare vel subtraere sive alienare presumserit aut aliqua […]causationis inferre voluerit deleat ei Deis optimus nomen eius de libro viventium et cum iusti non scribantur fiat pertipes cum Dathan et Abiron quos aperuit terra os eorum deglutivit sit socius Ananie et Thaèhire qui fraudatam pecunia mentiti sunt apostolis partem quoque habeat cum Pilato et Erode et Nerone et Juda traditore. Sit dannatus cum Simone mago que gratia Sancti Spiritus venundare voluit; sit demersus de ab altitudine celi in profundum in inferni et cum diabolo sit in infernum seper […] susus et in die iudicii ante divini tribunal non resurgat…”.

[91] Ibid.

[92] A. V. V., sec. XII, dec.I, n.IX. Cfr. anche M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p.55, n. 6, che erroneamente riportano “a staiora di 10 pani”, anziché 12.

[93] Per la prima donazione Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 54, n. 1.  L’offerta consiste nell’ottava parte di beni posti nei confini di Morrona. E’ questo il primo documento in cui troviamo menzionato l’abate Gerardo per la prima volta ed è datato 21 aprrile 1101. Con la seconda donazione, il 13 febbraio 1110, il monastero entra in possesso di tutta l’intera parte di case, terre, uomini, mobili e immobili del chierico Gualando fu Guidone notaio, tali beni erano posti nella corte di Soiana e in altri vari luoghi. Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. II, n.XVI; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 60, n. 18. Il rogito per la terza donazione è del 28 luglio 1111, il donatore offre alla chiesa di s. Maria “…que est fundata et edificata in loco et finibus in Poi, que est super planum de Valle de Cascina et prope castellum vestrum de Morrona…”, molti terreni colti e incolti ( vigne, boschi, prati, pascoli, oliveti), con diverse “cassini” e “casalini” posti nei territori di Soiana, Soianella, Campagnana e altri luoghi. A.V.V., sec. XII, dec. II, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 60, n.19. La quarta donazione riporta la data del 25 marzo 1104, Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. VI.

[94] Si tratta di beni ubicati “…in illo Pantano, quod infrascripta ecclesia et rectores eius adquesiverunt ab Uguccione comite et Cilia uxore eius…”. La carta è datata 17 febbraio 1115. Cfr. F. Schneider, Regestum…cit., p. 54, n. 151.

[95] Cfr. A:V.V., sec. XII, dec. III, n. III. Datata 26 marzo 1124.

[96] Cfr. A.V.V., sec. Xii, dec. IX, n. IX. Il rogito fu stipulato da Bartolomeo notaio imperiale con pena del doppio della stima e il lougo dove fu redatto è “in ospitale infrascrpti monasterii”, ospedale che non dovette avere grande importanza, perché oltre a questa prima volta che lo troviamo menzionato, lo ritroviamo menzionato in un privilegio di Gregorio IX del 28 giugno 1227 e in un altro documento relativo all’anno 1284 (5 gennaio), Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. XXX; non compare nemmeno in M. Battistini, Gli spedali dell’antica diocesi di Volterra, Pescia 1932.

[97] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. IX, n. VII.

[98] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. XII, n. XIV.

[99] Cfr. L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1107.

[100] Vivaia, toponimo tuttora esistente, che si trova tra Casciana Terme e Parlascio. I conti Cadolingi di Fucecchio vi ebbero la signoria. Cfr. E. Repetti, Dizionario…cit., V, pp. 794-795 e I, pp. 38-39.

[101] Cfr. R. Davidsohn, Storia…cit., p. 565 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p.31. “ Col testamento lasciò ciò che gli restava del suo, dopo pagati i debiti considerevoli ai vescovi delle respettive diocesi. Così la corte di Bagno a Acqua nella valle di Cascina, sul confine delle diocesi di Pisa e Volterra, venne all’arcivescovo pisano, tranne quello che ne era impegnato nella vicina badia di Morrona…”. F. Schneider, La Vertenza…cit., p.5.

[102] Cfr. F. Schneider, Regestum…cit., p. 54, n. 150.

[103] Per la prima cfr. A.V.V., sec. XII, dec. IV, n. VIII. Pergamena mutila, sul cui retro possiamo leggere: “Venditio facta abbatie Morrone de petio terre posito loco dicto Negozano per Ildebrandum et frates. Per la seconda Cfr. M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 78, n. 67. La vendita fu fatta da Opizzo abate della chiesa e monastero dei ss. Ippolito e Cassiano, consistente in tre vigne ed altri beni “ad Fuscianum”, che erano pervenuti alla sua chiesa per donazione di Rolando fu Ildebrando. Per la terza Ildebrando fu Bernardo aliena al monastero tutti i suoi beni posti nei confini di Negoziana, Morrona e Vivaio “par pellium grisiarum pro solidi viginti et octo in prefinito”. Cfr. ibid.

[104] Per il primo documento Cfr. J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 248 in appendice. L’abate Gerardo dà la terza parte del castello e corte di Vivaio e Aqui in enfiteusi a Pietro Moricone per un censo di 12 denari annui da soddisfare in settembre. Tali beni sono gli stessi acquistati nel 1109 dal conte Ugo. Il secondo è una locazione di un pezzo di terra in luogo detto “Guazo Ardinghi” “…cum aqua que vocatur Caldane super se habentem”, che l’abate dà a Gerardo di Teziciro per fabbricarvi un mulino, per un censo annuo di 4 soldi lucchesi per la festa di s. Giovanni in dicembre, pena 200 soldi. Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. VII, n. XIII; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 90, n. 101.Nel terzo documento troviamo che l’abate Ubaldo concede in livello a “Ianuensi “ fu Considerato 10 pezzi di terra con ogni loro edificio e pertinenze, di circa 65 staiora, per un censo annuo di 16 soldi di moneta pisana corrente, da pagarsi a settembre perc la festa di s. Michele e sua ottava; pena 100 lire, inoltre Genovese deve all’abate 20 soldi pisani “pro servitio dicti libelli”. Cfr. M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 108, n. 151. Nel quarto, l’abate Guido dà un pezzo di terra ad Aliotto fu Baldicione, ubicata presso Morrona, di 11 staiora, per un censo annuo di 12 denari, pena 100 soldi di denari buoni. Cfr. Ibid.

[105] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit.,, I, pp. 216-222; N. Caturegli, Regesto…cit., pp. 225-226, nn. 337-338-339; E. Repetti, Dizionario…cit.,  I, pp. 20-21.

[106] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit.,I, pp.216-222; N. Caturegli, Regesto…cit., p. 291, n. 425; E. Repetti, Dizionario…cit., I, pp. 20-21; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 460, n. 299 in appendice.

[107] G. Volpe, Studi sulle istituzioni Comunali a Pisa, Firenze 1970, p. 12 e 41

[108] Cfr. A.V.V.,1239 gennaio 13, Giunta fu Carbone vende a Simone abate un pezzo di terra posto tra Morrona ed Aqui, per 30 soldi di denari nuovi pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. IV, n. XIX. 1243 gennaio 30, Ubaldo fu Lunardo di Morrona vende a Benedetto abate un pezzo di terra con vigna posto nei confini di Morrona in luogo detto Pescaria, per 7 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. V.  1244 luglio 13, Contrus fu Galgano e Iacopo suo fratello vendono a Benedetto abate la metà di un pezzo di terra con ogni sua pertinenza, posto nei confini di Aqui presso il mulino del monastero, per 400 soldi di moneta nuova pisana, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. VII. 1250 agosto 29,Enrichetto fu Enrichetto di Soiana vende a Bonaccorso fu Spinelli, sindaco del monastero, di cui è abate Guidone, un intero pezzo di terra campia posto nei confini di Morrona in luogo detto Prato la Valle, per 8 libbre di denari nuovi pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. IXI. 1262 novembre 6, Pellegrino fu Benentendi notaio di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra posto nei confini di Aqui oltre il fiume Cascina in luogo detto Aqua Viula, presso il bosco del monastero, per 9 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. X. 1263 settembre 25, Bartolomeo di Morrona (paternità non leggibile) vende all’abate Guidone due interi pezzi di terre posti nei confini di Morrona, in luogo detto “Podio le Cavi”, con peri e ulivi; il secondo in luogo detto “valdelecavi”, entrambi per 35 denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. Vii, n. XX. 1264 settembre 29, Bartolomeo fu Cenati di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra posto nei confini di Morrona in luogo detto “Valle Orsi”, per 400 denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXV. 1266 settembre 21, Maestro Ventura fu Giovanni di Morrona vende a Guidone abate due interi pezzi di terra con vigna, fichi e altri alberi, posti nei confini di Morrona in luogo detto “Chiusdino”, per 20 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXXIV. 1267 aprile 15, Martino fu Riccobe ne di Morrona vende al solito abate un pezzo di terra con alberi, posto nei confini di Morrona in luogo detto “bal de le Cave”, per 8 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXXVI. 1267 ottobre 11, Isabella vedova di Iacopo fu Macchi e figlia di Bonacontri di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra lavorativa posto nei confini di Morrona, in luogo detto “Valle Sive ad Ripalba”, per 8 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, XXXIX. 1268 febbraio 27, Ranuccio fu Spinello di Morrona vende al suddetto abate un intero pezzo di terra lavorativa posto nei confini di Morrona in luogo detto “Miliari”, di 4 staiora e più, per 8 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. VIII. 1272 agosto 31, Inghiramo fu Giacomo Gualandelli di Morrona vende ad Alberto abate un pezzo di terra campia posto tra i confini di Morrona in luogo detto “Sterpeto”, di 4 staiora per 8 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VIII, n. VII.

[109] A. S. F. , Diplomatico Camaldoli, 1271 gennaio 13, Alberto abate, dà a livello a prete Scolario, pievano della pieve di Morrona, tutte le terre , vigne etc. poste intorno alla pieve, per un periodo di 26 anni, l’affitto annuale è di 18 quarre di grano e lire 25.

[110] Cfr. A.V.V., 1224 marzo 15, Martino abate dà a livello perpetuo a Beruccio fu Periccioli un pezzo di terra con ogni appartenenza ed edifici, per 4 quarre di grano all’anno, pena 20 libbre. Sec. XIII, dec. III, n. XII. 1231 gennaio 23, Martino abate, per migliorare il monastero, dà a prete Giovanni, cappellano della chiesa di s. Nicola di Morrona un pezzo di terra lavorativa, posto nei confini di Morrona in luogo detto “La Valle”, censo annuo 2 denari di moneta pisana, pena il doppio. Sec. XIII, dec. IV, n. I. 1240 febbraio 11, Simone abate, per utilità e migioramento del monastero, dà in locazione a Boninsegna fu Brinichi di Gallicano, per 12 anni, un mulino posto nei confini di Soiana in luogo detto “Pantano”, con casa, terra ed ogni sua pertinenza, pena 50 libbre se in tali anni il mulino non avesse funzionato e macinato bene; il censo annuo consisteva in “staria decem et octo boni grani et staria decem et octo inter ordeum et mileum”. Sec. XIII, dec. IV, n. XLIX. 1245 luglio 12, Benedetto abate dà a livello ad Enrico pievano della pieve di Morrona un pezzo di terra in parte vignata, posto vicino alla pieve e la metà di un altro pezzo di terra boscata vicino al primo, lavorato dagli uomini di Morrona, dai quali il monastero riceve la decima; per un censo annuo di 8 quarre di grano buono, una libbra di incenso e al posto delle decime “et oblationum et primitiarum” 10 quarre di grano buono e 25 soldi di denaro pisano, pena 100 libbre. Sec. XIII, dec. V, n. VIII. 1255 dicembre 4, Michele abate dà in locazione a Bario di Casaioli e a Salimbene suo fratello, figli del fu Bergi di Aqui, un pezzo di terra lavorato a prato e giunchetto, posto nei confini di Aqui in luogo detto “Plano de Aqua viva”, per 24 anni, con l’obbligo di fare una “foneam” perché l’acqua scorra a valle del poggio ed un censo annuo di 6 quarre di grano, pena 10 libbre e il doppio del valore stimato se ci saranno danni. Sec. XIII, dec. Vi, n. XXXV. 1259 settembre 5, Michele abate, dà in locazione a prete Pane e Porro di Quarrata, rettore della chiesa dei ss. Bartolomeo e Nicola di Morrona “in vita sua tantum” “totam primitiam et oblationem populi communis Morrone” che spettavano al Monastero; il censo è di 10 soldi di denaro pisano annuo, pena il doppio; inoltre il prete si impegna di mantenere la cappella nello stato attuale, pena 100 libbre di denaro pisano. Sec. XIII, dec. VI, n. LXIX.

A.V.V., 1279 giugno 9, Bonaccorso fu Spinello, sindaco e procuratore del monastero di Morrona, col consenso di Gerardo abate, dà in locazione a Bontalento fu Provinciale e a Provinciale detto Ciale fu “Menculi” entrambi di aqui, un pezzo di terra boscata posta nei confini di Aqui in luogo detto “Pozzale” e la quarta parte di un altro terreno posto in luogo detto “Catasta sine Asino Bonanno”, per un periodo di 25 anni; censo annuo di 25 denari pisani, pena 50 denari pisani e l’obbligo di non sub locare. Lo stesso documento contiene la locazione di altri 7 pezzi di terra a uomini di Aqui, per complessive 1083 staiora, la maggior parte dei quali aveva molti frutti ed olivi. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXX. 1298 luglio 22, Alberto abate dà in locazione a Brandino fu Bonaccorsi di Morrona un pezzo di terra “agrestum”, posto nei confini di Aqui in luogo detto “Steccaia”, per 29 anni ed un censo annuale di tre quarre di grano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. X, n. XXXII.

[111] V. nota n. 95 del presente lavoro.

[112] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. X, n. I.

[113] Ibid.

[114] Ibid.

[115] Ibid.

[116] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. V, n. II.

[117] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. VIII, n. LXXIII.

[118] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. XLVI.

[119] Ibid.

[120] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. LX.

[121] Cfr. P. Guidi a cura di, Rationes Decimarum…cit., I, pp. 153 e 161.

[122] Cfr. P. Guidi a cura di, Rationes…cit., II, p. 200.

[123] Cfr. A.S.C.V., Sinodo Belforti, c. 54 r.

[124] <<…quam predecessores eorum decimas, terras, domos, vinea, ortos, silvas, prata, pascua, remora, molendina possessiones iura iurisdictiones et quedam alia bona ipsius monasterii datis super hoc licteris confectis exinde publicis instrumentis interpositis iuramentis factis renuntiationibus et penis adiectis in gravem ipsius monasterii lesionem, nonnullis clericis et laicis aliquibus eorum ad vitam quibusdam vero ad non modicum tempus et aliis perpetuo ad firmam vel sub censu annuo concesserunt quorum aliqui super hiis confirmationis licteras in forma comuni dicuntur a Sede Apostolica impetrasse…>>. A.V.V., sec. XIII, dec. X, n. XLIII (manca la bolla, esiste solo la traccia). Per la comunità di Chianni si veda L. Fabbri, Le comunità di Chianni e Rivalto (secc. XI-XIX) Chianni delle Colline Pisane, “Rassegna Volterrana” anni LXI-LXII 1987, p. 35.

[125] Cfr. L. Fabbri, Le comunità…cit., p. 35.

[126] Cfr. A.V.V., 1318 febbraio 7, Helia fu Upezini di Morrona vende a Gherio fu Inghirami dello stesso luogo, ricevente per il monastero un pezzo di terra campia, posta nei confini di Morrona in luogo detto “Alipoli”, con ogni diritto, di 2 staia e 45 per 5 denari pisani minuti. Sec. XIV, dec. II, n. LVIII. 1321 gennaio 12, Giovanni detto Vanni fu Brandino, Simonetta vedova di Brandino e Contessa moglie di Vanni, per loro necessità ed indigenza, vendono all’abate Bartolo un pezzo di terra campia posta in luogo detto “Ghiermandi” con ulivi, per 20 lire di soldi pisani. Nello stesso documento è redatta anche la locazione che l’abate fa allo stesso Vanni per 10 anni con censo annuo di 2 staia di grano buono da soddisfarsi per la festa di Santa Maria in agosto, pena il doppio. Sec. XIV, dec II, n. (mancante); 1321 giugno 30, Nino fu Ganeto e Guida sua moglie e figlia di Piero di Morrona, a causa di necessità e indigenza, vendono a Gheri fu Inghirami dello stesso luogo, ricevente per il monastero un pezzo intero di terra campia e boscata, posto nei confini di Morrona in luogo detto “Vallarcho”, per 2 lire e 10 soldi di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XXIV, dec. III, n. IV. 1321 ottobre 13, Vanni fu (paternità illeggibile) vende a Gherio fu Inghirami, procuratore del monastero, un pezzo di terra con casa posta nei confini di Morrona in luogo detto “Le Date”, per 5 lire di denaro pisano minuto, pena il doppio. Sec. XIV, dec. III, n. XII. 1329 febbraio 10, “Tura quondam Bandi” di Morrona e suo figlio Guido vendono a  Bartolo abate del monastero ogni edificio posto nel loro “casalino” con ogni diritto, ubicati in Morrona, per 20 lire di denaro pisano minuto, pena il doppio. Sec. XIV, dec. III, n. CXIII. 1332 gennaio 23, Bonamico fu Bonaccorsi di Ceppato vende a Bartolomeo abate del monastero un pezzo di terra posto nei confini di Aqui in luogo detto “Mercatale” con ogni diritto, per 20 lire di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIV, dec. IV, n.XII.

[127] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. III, n. LXXV. Il documento è rogato nella casa del testatore da Michele fu Pardi notaio imperiale il 25 marzo 1324.

[128] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. IV, n. XXI. Il rogito risale all’8 giugno 1334.

[129] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. XXX. L’atto fu rogato l’8 giugno 1306.

[130] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., I, pp. 216-222. In toscana il termine divenne accomandigia e si applicò soprattutto in diritto pubblico per indicare il riconoscimento di un’autorità superiore fondato su espliciti rapporti di sudditanza.

[131] G. Volpe, Studi…cit., p. 20.

[132] Per il primo documento Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. LIV. Il rogito fu fatto da Gerardo fu Bonaccorsi di Cisanello notaio imperiale, davanti al pezzo di terra del monastero in luogo detto “La Croce”. Dai toponimi in cui erano posti questi beni, possiamo notare che l’abate tendeva a disfarsi dei possessi più lontani dal monastero, cercando di impossessarsi di quelli che invece erano ubicati nelle immediate vicinanze, ma appartenenti a privati cittadini. Questo lo possiamo vedere anche dal documento relativo all’anno 1320 in cui sono rogate due permute relative a due case poste nel castello di Morrona e a terre distanti dall’abbazia con altri beni molto più vicini; il cattivo stato di conservazione di questa pergamena impedisce di rilevare altre notizie. Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. II, n. LXVII. Per il secondo documento Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. V, n. XXVIII.

[133] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. XXXV (1307 giugno 28); sec. XIV, dec. II, n. VIII (1311 gennaio 17); sec. XIV, dec. II, n. XIII (1312 febbraio 5); sec. XIV, dec. II, n. ? (1316 marzo 17); sec. XIV, dec. II, n. XLIX (1317 luglio 29);  sec. XIV, dec. II, n. LVII (1318 febbraio 7); sec. XIV, dec. II, n. LIV (1318 ottobre 2); sec. XIV, dec. III, n. V (1321 luglio 8); sec. XIV, dec. III, n. XXV (1322 agosto 20); sec. XIV, dec. III, n. XVIII (1322 settembre 12); sec. XIV, dec. III, n. XXIX (1322 settembre 13); sec. XIV, dec. III, n. IX (1322 settembre 14); sec. XIV, dec. III, n. LV (1327 febbraio 4); sec. XIV, dec. III, n. CXV (1330 luglio 30); sec. XIV, dec. IV, n. VII (1332 giugno 30); sec. XIV, dec. V, n. X (1343 settembre 22); sec. XIV, dec. V, n. VII (1343 novembre 14); sec. XIV, dec. V, n. XV (1345 dicembre 10).

[134] AVV., 22 ottobre 1315, sec. XIV, dec. II, n. XXXV.

[135] Ibid.

[136] AVV. 3 settembre 1318, sec. XIV, dec. II, n. LII.

[137]AVV. 14 ottobre 1322, sec. XIV, dec. III, n. XXXIV.

[138] AVV. 29 dicembre 1333, sec. XIV, dec. IV, n. XVII.

[139] Cfr. AVV. 30 dicembre 1335, sec. XIV, dec. IV, XXXV.

[140] Cfr. AVV. 6 giugno 1340, sec. XIV, dec. IV, n. LXXI.

[141] Cfr. BCV (Biblioteca Comunale Volterra), Ms. 9335, Index Membranorum Archivi Abbatie SS. Iusti et Clementi volterrani, pars III, Studio D. Jos. Gherardini abbatis, anno MDCCLXIX.

[142] Ibid.

[143] AVV, sec. XIV, dec. V. n. V.

[144] Cfr. G. Mariti, Odeporico…cit.

[145] ASF., Camaldoli Appendice, n. 83, cc. non numerate.

[146] Ibid.

[147] Ibid.

[148] Ibid.

[149] Ibid.

[150] Ibid.

[151] Ibid

[152] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. II, n. XVI.

[153] Cfr. G. Targioni –tozzetti, Relazione…cit.,I, pp. 216-222; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., VI, p. 589 in appendice; G. Mariti, Odeporico… cit. Il Mariti riporta il documento per esteso.

[154] G. Mariti, Odeporico… cit.

[155] Ibid.

[156] Ibid.

[157] Ibid.

[158]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, pp.186-187, n. 76; Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798.

[159] Cfr. A.S. F., Catasto religiosi, n. 193, cc. 606 v.-611 r.

[160] Ibid.; si veda anche: Dizionario della lingua italiana, Accademia della Crusca, ed. IV (1729-1738), v. 5, p. 64.

[161] Ibid.

[162]A.S.F., Catasto religiosi, n. 193, cc. 606 v.-611r. “ 1427-1429. Vescovado di Volterra. Sostanze del Monastero della Badia di Morrona chontado di Pisa dell’ordine di Chamaldoli.

In primo: Un pezzo di terra parte champia chon ulivi e altri frutti e parte vignata, èosta nei chonfini di Morrona; lavoralo giusto di Giovanni d’Andreadi Romagna; rende ne l’anno di metà a misura pisana: biada staia 6 a soldi 6 a sacca; vino barili 30 a soldi 6 il barile; olio orcia 8 a lire 5 lorco. Uno podere posto in detti chonfini di Morrona, tenello Francescho di Puccino e Solvestro suo chompagno da Morrona. Prende l’anno di fitto : grano saccha 20 a soldi 45 il saccho (la stima del grano è sempre la stessa: soldi 45 a sacco). Uno podere posto nei predetti chonfini di Morrona, tenelo Antonio di Lupo da Morrona e prendene l’anno di fitto: grano saccha 6 e mezzo. Uno podere posto nei chonfini di Morrona, tenelo Giuliano di Ceo da Morrona, prendene l’anno di fitto: olio libbre 6, grano saccha 1. Uno pezzo di terra ulivata posta in esso predetti chonfini di Morrona, tenello Michele di Batino da Morrona, prendene l’anno di fitto grano saccha 10. Due pezzi di vigna posti in esso predetti chonfini, teneli Antonio di Lupo, prendene l’anno di fitto vino barili 2 a soldi 20 il barile. Due chase poste nel castello di Morrona, tene l’una Lorenzo di Ruffia da Cholle Montanino e danne di pigione l’anno lire 5, tiene l’altra Lorenzo di Nanni barbiere da Morrona e rende l’anno lui e sua famiglia si veda oltro………. Uno podere posto nei sopradetti chonfini di Morrona, luogo detto a Ginestrello, tenello Giovanni da Soiana, prende l’anno di fitto grano saccha 7. Uno pezzo di terra cho mulini poste ne predetti chonfini di Morrona, Tiello Biagio di Vannuccio da Morrona, rende l’anno di fitto olio libbre 7 a soldi 25 denari 6 a libbra. Cierti pezzi di terra posti ne sopradetti chonfini di Morrona, tiegli Sobene di ser Guido da Soiana e rendene l’anno di fitto grano saccha 3. Più e più pezzi di terre posto per metà ne sopradetti chonfini di Morrona e per metà ne chonfini di Soiana, tiegli Andrea di Lucha da Soiana e rendene l’anno di fitto grano saccha 2, olio libbre 2 a soldi 25 e denari 6. Un pezzo di bosco chon ghianda posto nel predetto chonfine di Morrona, tiene Bartolomeo di Ricchino da Soiana e rende l’anno di fitto in denari lire 6. Più e più pezuoli di terra poste nelle chonfini di Soiana, tielle Marcho di Giovanni e messer Chelino da Soiana e rendene l’anno di fitto grano quarre 3 a soldi 11 e denari 3 la quartina. Più e più pezzuoli di terra posti nelli sopradetti chonfini di Morrona, li quali tenghono le predette persone e Salvestro da Morrona e rendene l’anno di fitto grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quartina. Antonio di Bartolomeo da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quarra. Pasquino di Puccino da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quartina. Giovanni di Puccino da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Lando di Ghaddo da Morrona dà d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Pieri d’Antonio di Lelmo da Morrona dà d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Uno di fitto d’uno fattoio posto nel chastello di Morrona del quale so l’anno di mezzo ollio libbre 12 a soldi 25 e 6 a libbra. Più e più pezzuoli di terra posti nelli detti chonfini di Morrona e per metà nelli chonfini di Terricciuola, li quali sono parte champie e parte vignate, le quali tenghono le frascritte persone, cioè: Binduccio di Giovanni e Antonio di Lorenzo Celino di Turo e Nicholaio di Brettone e Bartolo di Landuccio e Francesco fabro da Terricciuola, rendono tutto l’anno di fitto i detti nominati di sopra: grano saccha 2. Nelli chonfini dello chomune del Bagno a Aqua due mulini, cioè luno teragno e laltro francescho, de quali lo mulino terragno macina ello mulino francescho no perché sotto di stima tiegli Marcho d’Andrea di Romagna e rendone l’anno di fitto grano saccha 25. Ella bate di sopradetta badia è tenuto alla metà della spesa che acchonciasse per rispese delli detti mulini. Una vigna posta all’orto  alle sopradette mulino, la quale tiene Pagholo di ser Tomaso da Ceuli e rendene l’anno di fitto in danari lire 7. Un pezzo di terra posta nei sopradetti chonfini del Bagno a Acqua, la quale si chonosce come la chiudenda della bate, rende l’anno di fitto grano saccha 1, olio libbre 1 a soldi 25 a libbra. Uno podere posto nei sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto la Chaldana, la quale tiene Lorenzo di … (illeggibile) del Bagno e rende l’anno di fitto grano saccha 16. Uno pezzo di terra posto nelli sopradetti chonfini del Bagno in luogo detto la Serra, la uale tiene Tomeo di Giovanni lo Casamulo e rende l’anno di fitto grano saccha 8 a soldi 45 a saccha.Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini, tiello Checcho di Guccio e Tommeo di Giovanni e Giovanni d’Ugholino e Tome..lo dal Bagno, rendone l’anno di fitto grano saccha 8. Un pezzo di terra parte champia e parte pratata posta ne sudetti chonfini del Bagno, la quale tiene Giubileo da Parlascio e rende l’anno di fitto grano saccha 6. Un pezzo di terra pratata posto ne sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto Acquaviva, lo quale tiene Calisto di Pagholo e Biagio di Bartolo da Parlascio e rendene l’anno di fitto grano saccha 4. Uno podere posto ne sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto in Gojano, lo quale tiene Lenzo di Giovanni da Morrona e prendene l’anno di fitto grano saccha 19. Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini del Bagno, lo quale tiene Bartolo di Cinovo dal Bagno e rendene l’anno di fitto grano saccha 1. Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini del Bagno, la quale tiene Niccholao di Giovanni e rende l’anno di fitto in denari lire 1 soldi 2. Più e più pezzi di terra parte champia e parte pratata posta in de sopradetti chonfini del Bagno, gli quali tiene Mozano d’Andrea da Chasciana e rendene l’anno di fitto grano saccha 6. Pezzi tre di terra posti ne sopradetti chonfini del Bagno, li quali tiene Niccholaio di Nardo di Chasciana e rendene l’anno di fitto grano saccha 6. Uno pezzo di terra champia posta ne sopradetti chonfini del Bagno, lo quale tiene Stefano di Giannello da Chasciana e rende l’anno di fitto grano saccha 1. Uno pezzo di terra champia posta ne sepredetti chonfini del Bagno in luogo detto Ginestreto, lo quale tiene Rinaldo di Petraia e rendene l’anno di fitto grano saccha 2. Più e più pezzi di terre chollinare posti ne sopradetti chonfini del Bagno in luogo detto il Poggio delle Forche,li quali tiene Puccino di Giovanni da Chasciana e Marcho di Bartolo del Bagno e rendone l’anno di fitto grano saccha 3. Gl’infrascritti sono coloro li quali sono censuari e livellari della sopradetta Badia, cioè in primo: Antonio di Lippo da Morrona dà di censo l’anno per una chasa posta nel chastello di Morrona soldi 5 denari 6 (8 settembre). Ser Guido da Soiana dà di censo per una chasa posta nel chonfine di Soiana e danne di censo l’anno lo dì di Santa Maria di settembre lire 5 soldi 0 denari 6. Vanni d’Orso del Bagno dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria di settembre soldi 16 denari 6 d’uno chaneto e d’una ruota da rotare fuori, posta in sulla acqua del Bagno. Duto di Raiano da Chaprona dà di censo l’anno (8 settembre, per dei beni) posti in Petraia soldi 11. Lo prete di Santo Donato di Terricciola dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria sopradetta libbre 1 di rena perché lo detto bade a parte di portinaggio della detta el detto di Santo Donato di Terricciuola. Lo pivano di Morrona dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria sopradetto lire 2 soldi 5 per la chiesa di Santo Bartolo da Morrona per la pieve di Santa Maria a Ginestrella.”

[163] Ibid.

[164] Ibid.

[165] Ibid.

[166] Ibid.

[167] O. M. Baroncini, Chronicon…cit., p. 124 (121 ter).

[168] Cfr. AS.P., Diplomatico n. 23, R. Acquisto Monini, p. 39.

[169] Cfr. AVV., sec. XII, dec. VII, n. VI; sec. XII, dec. VII, n. XIII; Nella prima pergamena non è mai citato il nome dell’abate di Morrona, ma da altri documenti siamo a conoscenza che nel 1153 era abate Iacopo e nel 1168 Ugo, quindi non possiamo stabilire con esattezza quali dei due abati fu quello che prese parte alla lite. Cfr. anche F. Schneider, Regestum…cit., pp. 67-68, n. 190; J. B. Mittarelli.Costadoni, Annales…cit., III, p. 460 in appendice.

[170] AVV., sec. XII, dec. I, n. VI. Il documento fu rogato da Guido notaio del Sacro Palazzo in Negoziana, con pena del doppio del beneficio e 200 soldi d’argento.

[171] AVV., sec. XII, dec. VII, n.VI.

[172] Ibid.

[173] Ibid.

[174] Ibid. La sentenza fu pronunciata nella pieve di Aqui; nella subscriptio troviamo: Ildebrando giudice, Gerardo console, Ildebrando giudice ordinario, Gerardo di Gunfredo console e assessore e “Uguicione de Casanvilia” notaio e giudice ordinario, che “hoc laudamentum scripsi”.

[175] I documenti concernenti questo equivoco cominciano l’anno 1153 e terminano nel 1258. Cfr. G. Mariti, Odeporico…cit.

[176] AVV, sec. XIII, dec. X, n. XV; F. Schneider, Regestum…cit., n. 249.

[177] Ibid.

[178] Cfr. C. Violante, Pievi …cit., pp. 697-698  Pievi e Parrocchie nell’Italia centrosettentrionale durante i secoli XI e XII, Milano 1974.

[179] AVV., sec. XIII, dec. X, n. IX.

[180] AVV. Sec, XIII, dec. II, n.X.

[181] Ibid.

[182] Ibid.

[183] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XVII.

[184] Ibid.

[185] Ibid.

[186] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XXXIX.

[187] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XLII.

[188] AVV:, sec. XIII, dec. III, n I.

[189] AVV, sec. XIII, dec. IX, n. XXX.

[190] Ibid.

[191] AVV. Sec XIV, dec. V, n. XIII.

[192] Ibid.

[193] Ibid.

[194] AVV., sec.XIII, dec. III, n. VIII.

[195] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. III, n XX.

[196] AVV. sec  XIII, dec. III, n. XXVII.

[197] Cfr. AVV. sec.. XIII, dec.IV, n. XLIV.

[198] L’11 febbraio 1240, Simone abate, per utilità e migioramento del monastero, dà in locazione a Boninsegna fu Brinichi di Gallicano, per 12 anni, un mulino posto nei confini di Soiana in luogo detto “Pantano”, con casa, terra ed ogni sua pertinenza, pena 50 libbre se in tali anni il mulino non avesse funzionato e macinato bene; il censo annuo consisteva in “staria decem et octo boni grani et staria decem et octo inter ordeum et mileum”. AVV., Sec. XIII, dec. IV, n. XLIX.

[199] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. III, n. XXX.

[200] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec.IV, n. IV.

[201] Cfr. AVV, sec. XIII, dec. IV, n. VIII.

[202] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. IV, n. IX.

[203] Cfr. AVV., sec.XIII, dec. IV, n. XXVII.

[204] AVV. Sec:XIII, dec. IV, n. XXVIII.

[205] Ibid.

[206] Cfr. AVV. Sec.XIII, dec. IV, n. XXIX. I nomi dei quattordici uomini sono i seguenti:Gerardo molinaius de Morrona, Ranoctinus Mainecti, Geniduccius quondam Januensi, Ubaldus quondam Riciardini, Junta quondam Corboli, Hormanectus quondam Gacti, Ranentus et Rustichellus germani quondam Io…anecti, Bertoldus quondam Carbonis, Rubertus quondam Vernacci, Pollarious quondam Carbonis, Jambone quondam Bernardini, Hormanecttus quondam Guidonis, Bonesigna quondam Bencivenni”.

[207] Cfr. AVV., sec.XIII, dec. IV, n. XXXI.

[208] Cfr. AVV:; sec.XIII, Dec. IV n. XXXII.

[209] Cfr. L. Schiaparelli, Regesto di Camaldoli, Loescher 1907, T. IV, pp. 63-64.

[210] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. V, n. XV.

[211] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VI, nn. XXV e XXV bis; F. Schneider, Regestum…cit., nn. 664-665.

[212] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VI, n. XXX.

[213] AVV., sec.XIII, dec. VI, n. XXXII; A.S.F., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 396, n. 64.

[214] Cfr. ASF., Diplomatico Camaldoli; Camaldoli, San Salvatore (eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680.

[215] Cfr. ASF., Camaldoli appendice, n. 89, c. 45 v. e r.

[216]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 398, n. 79.

[217]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 399, n. 82.

[218] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VIII, n. XXXIV

[219] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXI. Il  documento è molto lungo. Si cfr. anche F. Schneider, Regestum…cit., nn. 845-850, pp. 286-287. Lo Schneider riporta l’anno 1277, forse riferisce la data allo stile pisano?

[220] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VIII, n. LXXI.

[221] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXII; O. M. Baroncini, Chronicon Camalduli, ex Scripturis eius decerp-tum et ad nostra tempora deductum, Biblioteca di Arezzo ms. 343, p. 124 (121 ter)”Transacta quoque est anno 1278, stylo Pisano, er Mense octtobri Differentia AquaeductusMolendini ipsius Monasterii, quod ad Balneum de Aquis dicitur, ut D. Feus plebanus S. Mariae de Morona suisque successores praedictum acqueductum velut proprium praefati Monasterii semper liberum et expeditum manutenere teneantur, et D. Abbas Gerardus de Morona, atque D. Jacobus eremita vicecomes Camalduli in plebem praedictam transtulerunt, atque plebano tradiderunt unam petiam terrae star. XVI, loco qui dicitur Pantano in Plebario de Aquis pacto quod semper pro Mensa dictae Plebis sit, nec unquam vendi aut transferri possit, quae rata habuit confirmans D. Paganellus episcopus Lucanus, manu Guidonis Petri notarii”.

[222] AVV., sec. XIII, dec. X, n. XXX.

[223] Cfr. AVV, sec.XIII, dec. X, n. XLIII esiste solo traccia della bolla.

[224] Cfr. AVV, sec. XIV, dec. I, n. XXVIII

[225] Cfr. AVV, sec. XIV, dec.II, n. II.

[226] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., I, p. 208)

[227] Cfr. AVV, sec. XIV, dec. II, n. XII.

[228] Cfr. AVV., sec. XIV, (decade e numero mancanti nel documento).

[229] Cfr. AVV. Sec. XIV, dec. III, n. LXXX.

[230] Cfr, G. Mariti, Odeporico… cit.

[231] AVV., sec. XIV, dec. III, n. LXXXII.

[232] AVV. Sec. XIV, dec. I, n. XXVI.

[233] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. II, n. XLVIII.

[234] AVV., sec. XIV, dec. III, n. LXVII. Il toponimo è tuttora esistente.

[235] Cfr.  AVV., sec. XIV, dec. IV, n. II?

[236] Cfr. AVV., sec.XIV, dec. IV, n. XXXIX

[237] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. IV, n. XXVI.

[238] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. IV, n. XXVI.

[239] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. V, n. XIII.

[240] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680).

[241] G. Mariti, Odeporico…cit.

[242] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680). V. pag. 27.

[243] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680).

[244] Cfr. ASF. Camaldoli appendice, n. 83, cc. non numerate; B.G.V. (Biblioteca Guarnacci Volterra), Repertorio dell’Achivio di Badia, G. Gherardini MDCCLXIX, Inventario 9335.

[245] Cfr. A.S.C.V., Codice 12516, T, c. 72 v. e r.; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., t. VII, pp. 315-316.

[246] Ibid.

[247] Appartenente alla nobile famiglia De’ Pazzi, di centrale importanza nella storia di Firenze.

[248] Ibid.

[249] Probabilmente si tratta del priore del monastero camaldolese di Santa Maria degli Angeli, fondato nel 1295 da Guittone d’Arezzo, appartenente all’ordine dei frati Gaudenti, in luogo detto “Cafaggio”, fuori del secondo cerchio delle mura, dove, attualmente è pazza San Michele Visdomini e via de’ Servi. Nel 1348 l’Eremo venne ingrandito e furono incorporate varie case appartenute alle famiglie degli Alfani e degli Adimari. Nel 1378, era stato trsformato in deposito per i cittadini possidenti: fu saccheggiato nel 1378 durante la rivolta dei Ciompi. Oggi resta la ex chiesa di Santa Maria degli Angeli in via Alfani a Firenze. Cfr. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_Santa_Maria_degli_Angeli_(Firenze)

[250] Ibid.

[251] Ibid.

[252] Ibid.

[253] Ibid.

[254] Ibid.

[255] Ibid.

[256] Ibid.

Le conoscenze cartografiche e di navigazione greche, arabe e iberiche

Le conoscenze cartografiche e di navigazione greche, arabe e iberiche (Dal XIII al XIV secolo)

Le rotte di navigazione commerciali e i sultanati dell’Estremo Oriente: islamizzazione e spezie (Dal XIV al XVII secolo)

                                                         

                         Dr. p. Paolo Nicelli (Dottore della Biblioteca Ambrosiana)

Dal Mediterraneo alla globalizzazione

Nel contesto di questa presentazione, finalizzata a sviluppare il tema delle comunicazioni marittime e commerciali dal XIII al XIV secolo, desideriamo brevemente percorrere nel tempo le rotte di navigazione dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico, per poi giungere, nell’Oceano Pacifico, all’Arcipelago malaysiano, indonesiano e filippino, grazie agli studi geografici e cartografici medievali e moderni che hanno unito mondi e culture diverse. Le rotte di navigazione mercantili necessitavano di geografi e cartografi esperti, che potessero tracciare le vie di comunicazione più praticabili dalle navi, per giungere ai porti e nelle zone interne dei paesi d’Occidente e d’Oriente. Questo richiedeva ai cartografi l’indicazione dei rilievi montuosi, dei fiumi, dei laghi, dei venti, dei confini e delle città di quelli che divennero i principali «nodi commerciali» per l’Occidente e per l’Oriente. Grazie allo sviluppo delle scienze geografiche e cartografiche un ponte culturale e commerciale si aprì tra questi due mondi, non più lontani nelle distanze, ma vicini nella comunicazione globale.

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La “Geografia di Tolomeo”

Ms. Ambrosiano cc. II, 119, I D 527 inf. ff. 94 verso e 95 recto

Le rotte di navigazione commerciali e i sultanati (2)

(click sul link sopra per la lettura dello studio sull’argomento)

Lettera d’invito al banchetto dei medici

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                                  Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ di Ibn Bu¥lân (Lettera d’invito al banchetto dei medici)
Dr. padre Paolo Nicelli, P.I.M.E. (Dottore della Biblioteca Ambrosiana)

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Dettaglio preso da una miniatura della Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ di Ibn Bu¥l…n. In essa vi è rappresentato un dottore che visita un paziente o un possibile dibattito tra due medici. Sulla sinistra della miniatura vi è una credenza con bricchi e calici: probabili pozioni a uso medico (Museum of islamic Art, Jerusalem)

Descrizione del manoscritto
Ms. Arabo A 125 inf. – Abû ðasan al-Mukhtâr ibn ‘Abdûn ibn Sa‘dûn ibn Bu¥lân, Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ (Il banchetto dei medici), sec. XIII. Splendido codice su carta di 122 fogli, in formato medio, copiato in Alessandria d’Egitto nel 1273 da Mu|ammad ibn Qaisar al-Iskandarî. Il manoscritto vergato in elegante scrittura nasî vocalizzata, comprende tre scritti medici, il primo dei quali composto nel 1058 dal medico, filosofo e teologo arabo di fede cristiana nestoriana Abû ðasan al-Mutâr ibn ‘Abdûn ibn Sa‘dûn ibn Bu¥lân (m. 1066). L’autore visse alla corte degli ‘Abbasidi in Baghdâd, ed ebbe come maestro un prete nestoriano, Abû al-FaraÞ b. al-¦ayyib, un commentatore di Aristotele, Ippocrate e Galeno, il quale si interessava anche di botanica e scrisse di satira, vino e qualità naturali. In Egitto e in particolar modo al Cairo, Ibn Bu¥lân intraprese diverse controversie contro Ibn Riÿwân (medico, astrologo e astronomo egiziano) su temi quali le citazioni e le idee filosofiche di Aristotele sul luogo, il movimento e l’anima. Egli si trasferì a Costantinopoli nel 1054, dove, su richiesta del Patriarca Michele Cerulario (m.1059), compose un trattato sull’Eucarestia e l’uso del pane senza lievito. Durante lo scisma che avrebbe portato alla separazione della Chiesa greca da quella latina, Ibn Bu¥lân passò gli ultimi anni della sua vita come monaco in un monastero presso Antiochia. La sua opera medica più importante è il Taqwîn al-¡i||a (il rinvigorimento della salute). È un trattato d’igiene e di dialettica in otto capitoli, scritto nell’ XI secolo, probabilmente a Baghdâd,(1) su carta e in elegante scrittura nasî, con i titoli in carattere cufico in color rosso. Esso è dedicato a rispondere ad alcune domande generali sui quattro elementi naturali, gli umori e i caratteri emotivi. Ibn Bu¥lân studiò la natura e il valore della nutrizione, come anche l’influenza dell’ambiente, dell’acqua e del clima sulla salute.

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Altra opera importante è la Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ (lettera d’invito al banchetto dei medici), che tratta di temi di etica medica, con una satira sui medici ignoranti.(2) Questa lettera-trattato è accompagnata da undici miniature di alta qualità, di scuola siriana con influssi dell’Asia centrale evidenti nell’abbigliamento e nei lineamenti asiatici del volto dei convitati, esempio unico dell’arte iconografica mamelucca del XIII secolo. Riproduciamo qui il frontespizio del Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ ta¡nîf (redazione) del Ms. Arabo A 125 inf. f.15 R., custodito nella Veneranda Biblioteca Ambrosiana:

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1 Cfr. http://www.christies.com/lotfinder/books-manuscripts/al-mukhtar-bin-al-hasan-bin-abdun-bin-sadun-5422241-details.aspx (cons. 8 maggio 2015)
2 H. SELIN (editor), Encyclopaedia of the History of Science, Technology and Medicine in Non-Western Culture, Dordrecht – The Netherlands, 1997, pp. 417-418.

La miniatura di seguito riprodotta (Ms. Arabo A 125 inf. f.15 R.), raffigura una scena di brindisi fra l’ospite e i suoi invitati, vestiti con raffinata eleganza e accompagnati da un suonatore, aspetti questi tipici del simposio classico greco-romano, ormai ripreso anche in altre culture mediterranee. Nel simposio è presente una bevanda non ben definita. Essa potrebbe essere il vino a indicare che ci troviamo in un convivio di medici pagani, o cristiani, oppure non si tratta di vino, ma di thè, indicando quindi un convivio di medici musulmani. Terza ipotesi potrebbe essere l’assaggio di un elisir particolare di cui i medici parlano. Questa tesi, che riteniamo più probabile, sarebbe sostenuta dal fatto che solo due commensali hanno il bicchiere e bevono la bevanda, mentre gli altri sono impegnati in altre cose. Nel simposio manca invece il cibo, alimento importante, assieme al vino, tipico del simposio greco-romano, dove sia il vino che il cibo venivano consumati stando sdraiati sui triclini, durante una conversazione tra pochi intimi. I suonatori suonavano inni e canti per il piacere dei commensali. In un contesto arabo o mamelucco, come quello della Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’, i commensali sono invece inginocchiati a semicerchio su un tappeto e bevono insieme discutendo sul caso clinico di un certo Abû Aiub, il cui occhio si era arrossato, di color rosso sangue, probabilmente a causa di un agente esterno o a causa della pressione sanguinea nell’occhio stesso. Interessante è notare come un tale fenomeno, legato all’irritazione dell’occhio, venga spiegato attraverso un truce avvenimento quale quello di un massacro con il versamento di molto sangue, al punto da provocare, in colui che ne era stato il testimone oculare, l’arrossamento dell’occhio.

Stile dell’opera e traduzione del brano: (Ms. Arabo A 125 inf. f.15 R.)
L’opera si presenta con uno stile prosimetro, cioè che alterna prosa a poesia, così come espresso nei versi seguenti:
Prosa (natr): «Kahal disse che questa era una cosa relativa al nostro Šaih che si chiama Abû Aiub. Disse Abû Aiub: “bevo (Ašrabu) questo bicchiere e lo sorseggio (Asluhu) ”. Dopodiché, prese il bicchiere e lo sollevò e lo osservò e disse: “Per Allâh!, come disse il poeta”.
Poesia (ši‘r) in rime (damma – o…, o…,):
1) «Quindi Il vetro era una goccia non congelata e la medicina (il farmaco) di color rosso fuoco. “O Signore!, cantami, per Allâh!, i segreti […] di Kahal” e quindi iniziò e cantò».
Il significato del versetto richiama il modificarsi delle sostanze attraverso dei processi chimici. Infatti la composizione chimica del vetro del bicchiere si è modificata a causa di un processo chimico: prima di diventare solido era come una goccia non congelata, cioè liquido. Allo stesso modo, la medicina ha cambiato la sua composizione chimica con l’aggiunta di altri componenti diventando rosso fuoco.
2) «Qâlû ištakat ‘inuhu faqultu lahum min kathrati al-qatli nâlaha al-wa¡bu» «Dissero, che il suo occhio si lamentò, io gli ho risposto: per via del massacro (lett: della tanta uccisione), (l’occhio) è stato colpito dalla malattia».
3) «ðumratuhâ min damâ fî al-na¡li šahidu ‘aÞiab» «Il suo colore rosso per via del sangue di chi ha ucciso e il sangue sulla punta ferrata (della spada) è una testimonianza stupefacente».
4) «Quindi gli cantò: “L’ammalato alle palpebre (è ammalato) senza motivo e colui che si è truccato non si è truccato».
5) «La sua bellezza si lamentò della bruttezza dei suoi comportamenti, quindi la vergogna si manifestò sulle sue guance».

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Ciò che abbiamo presentato è un breve excursus su una delle perle più preziose che la Veneranda Biblioteca Ambrosiana custodisce con amore. Si tratta di una delle opere miniate più belle a disposizione del pubblico e degli studiosi. Ancora oggi, il Collegio dei Dottori dell’Ambrosiana custodisce con cura queste opere a cui, nel tempo, se ne sono aggiunte delle altre, non solo provenienti dal Nord Africa e dal Vicino Oriente, ma anche dall’Asia centrale e dall’Estremo Oriente. Lo studio delle lingue legato alla ricerca filologica e contenutistica delle antichità cristiane prosegue negli studi storici e filologici dei testi appartenenti ad altre tradizioni religiose ben oltre il bacino del Mediterraneo. Così dalla Cina, dal Giappone sono giunte delle opere interessanti e una notevole documentazione utile all’attività di ricerca dell’Accademia Ambrosiana, parte questa, con le più conosciute Biblioteca e Pinacoteca, della realtà culturale e artistica della Veneranda Biblioteca Ambrosiana. La neonata Classe di Studi Africani, che studia questo manoscritto come altri in lingua araba, copta, etiopica, armena e anche berbera, si inserisce in un quadro di lavoro di ricerca filologica con la precisa ambizione di voler approfondire lo studio storico e di attualità del mondo culturale mediorientale e africano, prendendo in esame le aree nord africane e coinvolgendo quelle sub-sahariane e oltre. Con lo spirito proprio del dialogo tra i popoli e le culture, si potranno promuovere dei lavori di ricerca interdisciplinari che coinvolgeranno le altre Classi di studio dell’Accademia, nello spirito proprio di Federico Borromeo che ha voluto creare questo luogo aprendolo alla comunicazione del sapere, oltre le frontiere geografiche, ideologiche e religiose. Non è retorico il ricordare che lo studio dei manoscritti appartenenti alla tradizione cristiana orientale, come a qualsiasi altra tradizione religiosa, è un vero e proprio contributo alla preservazione e valorizzazione di un patrimonio dell’umanità. La sua custodia e la sua preservazione è un nostro compito fondamentale, in quanto studiosi, soprattutto in quanto estimatori del loro inestimabile valore culturale, scientifico e religioso.

MARIEGOLA DI COLLIO

 

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La Mariegola di Collio è un codice miniato realizzato nel 1523 con testi e miniature di varie epoche, conservato nel Museo diocesano di Brescia.Nato per contenere lo statuto della Confraternita dei santi Antonio Abate, Faustino e Giovita attiva a Collio, spicca particolarmente per le miniature delle prime due pagine, realizzate da un artista nell’ambito di Floriano Ferramola. Il codice è datato 25 marzo 1523 e viene eseguito su commissione della Confraternita dei santi Antonio Abate, Faustino e Giovita attiva nella chiesa di Sant’Antonio Abate a Memmo, frazione di Collio.
Il codice, propriamente una mariegola, cioè un testo contenente lo statuto della confraternita, assolve alla sua funzione per tutti i secoli successivi fino alla prima metà del Novecento, quando cessa di essere utilizzato e viene trasferito nella Biblioteca Queriniana di Brescia, dove rimane fino agli anni ’70.Dalla fine del secolo si trova esposto presso il Museo diocesano cittadino, nella sezione riservata ai codici miniati.Si tratta di un manoscritto membranaceo di pergamena di media qualità, misurante 28,4×19,6 cm, suddiviso in questo modo:
Fogli 1r-8r: miniature e testo dal 25 marzo 1523. Vi è redatto l’originale statuto della confraternita;
Fogli 8v-50v: testi di varie epoche dall’11 marzo 1580 al 1949, con molti fogli bianchi. Vi si trovano altri documenti manoscritti relativi alla vita devozionale della comunità.
Ogni foglio è suddiviso in 32 linee e presenta una numerazione tarda nell’angolo superiore destro. I fogli più antichi sono redatti in scrittura gotica libraria italiana, con presenza di varie mani, mentre i successivi sono in scrittura corsiva umanistica. L’inchiostro utilizzato è sempre il nero, ma i titoli e le rubriche sono in rosso.
Il codice presenta due grandi miniature nelle prime pagine, ognuna suddivisa in due riquadri, uno maggiore al centro e uno minore alla base, contornati da una spessa cornice decorata a candelabre con altri ornamenti ai quattro angoli: il foglio 1v è decorato da una Crocifissione al centro e da una Orazione dei santi Sebastiano e Cristoforo in basso, mentre ai quattro angoli vi sono i simboli degli Evangelisti, mentre il foglio 2r presenta i Santi Antonio Abate, Faustino e Giovita al centro, le Tentazioni di sant’Antonio in basso e i Padri della chiesa agli angoli. Il resto dell’ornamentazione del codice, invece, riguarda principalmente iniziali e capilettera.
La legatura è originale cinquecentesca, in legno ricoperto di pelle, con motivi romboidali e floreali impressi a secco.

 

 

Lucica Bianchi

Nino Cellamaro

 

Bibliografia consultata:

Paola Bonfadini, Mariegola della Confraternita dei santi Antonio Abate, Faustino e Giovita in AA.VV., Nel lume del Rinascimento, catalogo della mostra, Edizioni Museo diocesano di Brescia, Brescia 1997

Gaetano Panazza, Le arti applicate connesse alla pittura del Rinascimento in Storia di Brescia, vol. III, Treccani, Brescia 1964

Gaetano Panazza, La confraternita dei santi Antonio Abate, Faustino e Giovita a Memmo di Collio, Gardone Val Trompia, 1979

IL VIRGILIO VATICANO

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nell’immagine: Folio 22 recto dal Virgilio Vaticano, contenente un’illustrazione dall’Eneide raffigurante la fuga da Troia

Il Virgilio Vaticano o Vergilius Vaticanus è un manoscritto miniato contenente frammenti dell’Eneide e delle Georgiche di Virgilio, scritto a Roma intorno all’anno 400, e conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Cod. Vat. lat. 3225).Il manoscritto fu probabilmente realizzato per un aristocratico pagano.Annotazioni presenti sul manoscritto indicano che rimase in Italia fino al VII secolo e che nel secondo quarto del IX secolo era a Tours.Alcune annotazioni furono introdotte da uno scriba francese attorno al 1400.Del manoscritto si sono conservati 76 folii con 50 illustrazioni. Se, come si usava all’epoca, conteneva originariamente tutti i lavori canonici di Virgilio, il manoscritto originario doveva contenere 440 folii e 280 illustrazioni circa.Il testo è una “scriptio continua” (cioè le parole sono scritte di seguito senza interporre spazi) in capitale rustica,(scrittura calligrafica maiuscola dell’antica Roma), opera di un singolo scriba. Lo scriba scrisse il testo lasciando lo spazio per le illustrazioni all’interno delle colonne di testo o, più raramente, a pagina intera.Successivamente tre illustratori differenti produssero le illustrazioni, riprese da libri iconografici. Le illustrazioni sono contenute all’interno di cornici e includono paesaggi, architetture e altri dettagli; nei paesaggi, il terreno grigio si mescola a bande di rosa, violetto o blu per dare l’impressione di una distanza sfocata. Le figure umane sono dipinte in stile classico con proporzioni naturali e disegnate con vivacità. L’illusione della profondità è resa bene; l’uso della prospettiva nelle scene in interno dimostra il ricorso a idee precedenti, ma occasionali errori dimostrano che i miniatori non conoscevano bene la materia. Lo stile delle miniature è molto simile a quelle del frammento dell’Itala di Quedlinburg(Itala è il più antico manoscritto biblico miniato conservatosi).
Insieme al Virgilio Romano e all’Ilias Picta, il Virgilio Vaticano è uno dei più antichi manoscritti contenenti il testo dell’Eneide illustrato.

a cura di Lucica Bianchi e Trifone Cellamaro

LA RICERCA DEL TEMPO SACRO

La Legenda Aurea è una raccolta medievale di biografie agiografiche composta in latino da Jacopo da Varazze, frate domenicano e vescovo di Genova. Fu compilata a partire circa dall’anno 1260 fino alla morte dell’autore, avvenuta nel 1298. L’opera costituisce ancora oggi un riferimento indispensabile per interpretare la simbologia e l’iconografia inserite in opere pittoriche di contenuto religioso.La Legenda Aurea fu dopo la Bibbia l’autentico bestseller tardo medievale: se ne contano migliaia di manoscritti, oltre a moltissime edizioni a stampa. Ma il buon domenicano genovese, con la sua raccolta agiografica, non aveva certo voluto né potuto far un lavoro di critica storica: egli si era limitato a raccogliere le leggende correnti, in qualche caso ad aggiungervi o a togliervi dei particolari, spesso a ricucirli in veri e propri “romanzi devoti”, come si vede il 6 gennaio a proposito dei magi e il 14 settembre riguardo alla leggenda del legno della vera Croce, temi che come si sa incontrarono uno straordinario successo nell’interpretazione degli artisti.Tuttavia, la critica era stata e resta durissima a proposito della verosimiglianza storica di quelle leggende: e i dotti gesuiti bollandisti, impareggiabili studiosi critici delle biografie santorali, la condannarono senz’appello come “leggenda non d’oro, bensì di piombo”. Più indulgenti, studiosi di valore come Alain Boureau hanno definito l’opera una “compilazione”, cosa che del resto nel medioevo non era affatto indecorosa, al contrario.

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Vite di santi – miniatura iniziale dalla “Legenda Aurea” di Jacopo da Varazze, Francia ,1382 – Londra, British Library.

a cura di Lucica Bianchi e Trifone Cellamaro