LA STRAGE DI VERGAROLLA

Una giornata piena di sole; una folla di adulti e di bambini che trascorrevano gioiosamente il tempo a tuffarsi nell’azzurro del mare e a riposarsi nel verde della pineta; una gioventù sportiva di atleti e di atlete, riuniti per partecipare alla gare di nuoto della “Coppa Scarioni”; una giornata di festa.

E invece, alle 14.10 del 18 agosto del 1946, un boato, una colonna di fumo, decine di corpi straziati, il sangue che arrossa il mare.

La strage di Vergarolla, a Pola, che il 18 agosto del 1946 causò la morte di oltre settanta persone e un centinaio di feriti, tutti civili, smembrando intere famiglie che quel giorno avevano affollato la spiaggia per assistere alla gara natatoria organizzata dalla «Pietas Julia», non fu un incidente ma un attentato organizzato dall’Ozna, la polizia segreta di Tito.

 

Inquadramento storico.

Negli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale i territori a cavallo dell’allora confine orientale italiano  furono al centro di una disputa ad un tempo stesso nazionale e politica, ultimo atto di un secolare conflitto fra italiani e slavi.

Il 13 settembre 1943 il Comitato Popolare di Liberazione (CPL) dell’Istria – formalmente composto da croati e italiani della regione, ma dominato completamente dai primi – proclamò a Pisino l’annessione della regione alla Croazia; il 25 settembre il proclama venne ribadito a Otocak dallo Zavnoh (Zemaljsko antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Hrvatske – Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia). Il 30 novembre entrambi i proclami vennero fatti propri a Jajce dall’Avnoj (Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije – Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia). Parallelamente, ad Aidussina un’assemblea popolare slovena proclamò l’annessione del Litorale sloveno(intendendo con questo termine in linea generale una parte dell’antico Litorale austriaco,comprendente Gorizia, la costa fino a Grado, Trieste e l’Istria nord-occidentale).

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Mappa di Pola. La spiaggia di Vergarolla è indicata dalla freccia

Al termine delle ostilità, i territori in questione furono l’oggetto di una delle maggiori contese politico/diplomatiche del dopoguerra. Inizialmente occupati quasi per interno dall’Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia, il 9 giugno 1945 vennero divisi in due zone – A e B – separate da un confine chiamato Linea Morgan. All’interno della zona A l’amministrazione militare sarebbe dipesa dalle forze angloamericane, mentre le forze armate jugoslave avrebbero amministrato militarmente la zona B.

 

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I confini orientali italiani dal 1937 ad oggi. Si nota in rosso la Linea Morgan, che divise la regione in Zona A Zona B in attesa delle decisioni delle trattative di pace

La città di Pola venne inclusa nella zona A, divenendo una sorta di enclave circondata dal territorio della zona B. Al tempo era la maggiore città istriana a maggioranza italiana, in larga parte contraria all’annessione alla Jugoslavia.

Questo stato delle cose – secondo gli accordi fra gli angloamericani e gli jugoslavi – sarebbe stato modificato in seguito alle trattative di pace.

Ciò creò di fatto una situazione del tutto particolare, essendo garantita a Pola – a differenza del resto dell’Istria – la libertà di espressione dei propri sentimenti nazionali, la pubblicazione di stampa non controllata dal Partito Comunista Jugoslavo e perfino una certa libertà di organizzazione di manifestazioni politiche pubbliche, sempre sotto il controllo delle forze militari angloamericane.

Il Fatto. Il 18 agosto 1946, sulla spiaggia di Vergarolla, si sarebbero dovute tenere le tradizionali gare natatorie per la Coppa Scarioni, organizzate dalla società dei canottieri “Pietas Julia“. La manifestazione aveva l’intento dichiarato di mantenere una parvenza di connessione col resto dell’Italia, e il quotidiano cittadino “L’Arena di Pola” reclamizzò l’evento come una sorta di manifestazione di italianità.

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La sede della “Pietas Julia”

La spiaggia era gremita di bagnanti, tra i quali molti bambini. Ai bordi dell’arenile erano state accatastate – secondo la versione più accreditata – ventotto mine antisbarco – per un totale di circa nove tonnellate di esplosivo – ritenute inerti in seguito all’asportazione dei detonatori.  Alle 14,15 l’esplosione di queste mine uccise diverse decine di persone. Alcune rimasero schiacciate dal crollo dell’edificio della “Pietas Julia”.

Il boato si udì in tutta la città e da chilometri di distanza si vide un’enorme nuvola di fumo. I soccorsi furono complessi e caotici, anche per il fatto che alcune persone furono letteralmente “polverizzate”. Questa è una delle cause per cui non si riuscì a definire l’esatto numero delle vittime, tuttora controverso.

Sulla sabbia giacevano da mesi residuati bellici che però erano stati disinnescati e più volte controllati dagli artificieri inviati dalle autorità anglo-americane: «Ormai facevano parte del paesaggio, ci stendevamo sopra i vestiti o mettevamo la merenda al fresco sotto la loro ombra», testimoniano oggi i sopravvissuti.

Eppure qualcuno aveva riattivato quegli ordigni per farli esplodere esattamente quel giorno.

Oggi possiamo scriverlo senza paura di essere smentiti dai negazionisti, che per decenni hanno parlato di “incidente”, perfino di autocombustione: a 70 anni dalla strage, due studi in contemporanea sono stati commissionati a storici super partes dal Libero Comune di Pola in Esilio (LCPE, l’associazione che raccoglie tutti gli esuli da Pola) e dal Circolo Istria di Trieste, e le conclusioni cui i storici sono addivenuti, pur divergendo su alcuni aspetti, concordano su un punto inconfutabile: fu strage volontaria.

Se già qualche anno fa dagli archivi di Londra erano trapelati i primi indizi di un attentato volontario, tali elementi non erano ancora sufficienti. Così, William Klinger, massimo studioso italiano di Tito, si è recato negli archivi di Belgrado, mentre un’altro giovane storico, Gaetano Dato, ha consultato quelli di Zagabria, Londra, Washington e Roma. Ciò che emerge chiaramente da entrambi gli studi è che per capire cosa avvenne su quella spiaggia bisogna guardare agli scenari mondiali: Vergarolla è il crocevia della storia moderna post bellica, la palestra in cui nasce la guerra fredda. Klinger ha il merito di inserire la strage nella più generale politica aggressiva jugoslava contro l’Italia sconfitta ma anche contro i suoi stessi alleati anglo-americani. Già all’indomani della strage partirono due inchieste, una della corte militare e l’altra della polizia civile alleate, non a caso intitolate “Sabotage in Pola”, cioè nettamente orientate a negare l’incidente fortuito. Klinger non prova la responsabilità diretta della Ozna (negli archivi di Belgrado non ci sono i dispacci dell’epoca, l’ordine tassativo era di distruggere all’istante qualsiasi istruzione ricevuta), ma racconta il contesto, la spietatezza della polizia di Tito, che controllava buona parte del PCI italiano e soprattutto in quel 1946 stava alzando il tasso di violenza in un crescendo di azioni, tant’è che sia gli americani che gli inglesi in documenti scritti lamentano col governo jugoslavo “le attività terroristiche e criminali”. Inoltre sempre Klinger nota come all’epoca la stampa jugoslava desse conto di ogni minimo avvenimento, eppure non dedicò una sola riga a una strage terrificante: un silenzio quantomeno sospetto.

Gaetano Dato spiega nei dettagli le dinamiche dell’esplosione: “Scoppiarono una quindicina di bombe antisommergibile tedesche e testate di siluro che erano state disinnescate, ma che con l’ausilio di detonatori a tempo furono riattivate”. Dato avverte però che nella sua ricerca sceglie di “mettere da parte le memorie” dei testimoni, perché teme che “involontariamente selezionino una parte di verità, cancellando o modificandone altre”, ma questo rischia a volte di essere il punto debole del suo lavoro di storico, che lascia aperte tutte le ipotesi: “Se devo dire la mia personale opinione – ci dice – fu una strage jugoslava, ma non posso tralasciare altre piste: quella italiana, con gruppi monarchici o fascisti che stavano organizzando la resistenza contro Tito, e quella di anticomunisti jugoslavi”. Ma di entrambe, ammette, non ci sono prove.

“È vero che all’epoca c’erano ancora italiani che intendevano combattere in difesa dell’italianità, ma Vergarolla certo non aizzò i polesi a sollevarsi, anzi, ne fiaccò per sempre ogni istanza”. Dunque, per comprendere i mandanti occorre vedere i risultati, e questi furono la rinuncia a combattere per Pola italiana, con la fine di ogni manifestazione da quel giorno in poi, e mesi dopo la partenza in massa con l’esodo, ormai visto come unica salvezza. Ed entrambi i “cui prodest?” portano alla Jugoslavia.

D’altra parte un’escalation di azioni precedenti hanno sbocco naturale proprio nei fatti di Vergarolla: nel maggio del ‘45, già in tempo di pace, la nave “Campanella” carica di 350 prigionieri italiani da internare nei campi di concentramento titini cola a picco contro una mina e le guardie jugoslave mitragliano in acqua i sopravvissuti; pochi mesi dopo a Pola esplodono altri depositi di munizioni in centro città; nel giugno del ‘46 militanti filojugoslavi fermano il Giro d’Italia e sparano sulla polizia civile; 9 giorni prima di Vergarolla soldati jugoslavi assaltano con bombe a mano una manifestazione italiana a Gorizia; la domenica prima della strage una bomba fa cilecca sulla spiaggia di Trieste durante una gara di canottaggio: sarebbe stata un’altra carneficina… per la quale bisognerà attendere il 18 agosto. Negli archivi di Londra un documento attesta la “volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi manifestazione italiana, anche sportiva”.

Non scordiamo che il 17 agosto del ‘46, il giorno prima, a Parigi si era chiusa la sessione plenaria della Conferenza di pace e stavano iniziando le commissioni per decidere sui confini orientali d’Italia: era una data topica e i giochi non erano ancora chiusi. “I polesi potevano ancora sperare che la città venisse attribuita al Territorio Libero di Trieste, sogno sfumato solo un mese dopo, il 19 settembre”: le istanze di italianità erano ancora vive e i titoisti dovevano annientarle. Milovan Gilas, il braccio destro di Tito, così scriveva nelle sue memorie:  “Fummo mandati in Istria nel ‘46 da Tito perché bisognava cacciare gli italiani con qualsiasi mezzo. E così fu fatto”.

Sopravvissuti. “Il mare era rosso di sangue e i gabbiani impazziti”.

Si parla solo dei morti di quel giorno, ma quanti sopravvissuti all’esplosione  morirono nei mesi successivi? L’ospedale cittadino “Santorio Santorio” divenne il luogo principale della raccolta dei feriti: nell’opera di assistenza medica si distinse in particolar modo il dottor Geppino Micheletti, che nonostante avesse perso nell’esplosione i figli Carlo e Renzo, di 9 e 6 anni, per più di 24 ore consecutive non lasciò il suo posto di lavoro.

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Il dottor Geppino Micheletti. Il consiglio comunale di Pola conferì al dottor Micheletti una medaglia di benemerenza il 28 agosto 1946, dieci giorni dopo i fatti, mentre lo stato italiano il 2 ottobre 1947 lo onorò con la medaglia d’argento al valore civile. Il 18 agosto 2008, nella ricorrenza del 62º anniversario della strage di Vergarolla, nel Piazzale Rosmini di Trieste venne inaugurato un monumento in onore di Geppino Micheletti

Le reazioni e i funerali.Il consiglio comunale di Pola si radunò d’urgenza e inoltrò una protesta formale al comando supremo alleato del Mediterraneo, all’ammiraglio Ellery Stone, capo della Commissione Alleata di Controllo a Roma, al Comando del Corpo al quale appartenevano le truppe di stanza a Pola, al Colonnello dell’AMGVG (Allied Military Government Venezia Giulia-Governo Militare Alleato della Venezia Giulia) di Trieste e dell’Area Commissioner di Pola. Le autorità furono fermamente invitate a “stabilire le responsabilità” della strage.

L'”Arena di Pola” titolò a tutta pagina “Pola è in lutto”, e scrisse: “non è finita la guerra. Lutti che si rinnovano, bare che si compongono in lunga fila, lamento di feriti che riempiono ancora le corsie degli ospedali. Un martirio che poche città hanno conosciuto!”

L’intera città partecipò ai funerali, tanto che si dovettero organizzare due diversi cortei funebri. Tutti gli stabilimenti, gli uffici ed i negozi rimasero chiusi in segno di lutto. Le esequie furono celebrate dal vescovo di Parenzo e Pola Raffaele Mario Radossi, che durante l’omelia disse: “Non scendo nell’esame delle cause prossime che hanno determinato un simile macello; io rimetto tutto al giudizio di Dio (…) al quale nessuno potrà sfuggire nell’applicazione tremenda della sua inesorabile giustizia”.

I feriti furono molte decine, fra cui anche due militari britannici, mentre il numero esatto dei morti non venne mai accertato: alla manifestazione sportiva erano accorse anche centinaia di persone dai villaggi limitrofi, e se circa cinquanta furono i cadaveri riconosciuti ufficialmente, ai funerali ventun bare contenevano corpi non identificati, oltre a quattro bare di resti non ricomponibili. Il totale più accreditato di morti stimati è di circa ottanta, ma alcune stime arrivano ad ipotizzarne cento.

La notizia nella stampa italiana.Il modo di riportare la notizia della strage di Vergarolla nella stampa italiana in qualche modo può essere considerato un indicatore della rovente temperie politica dell’epoca, nonché della difficoltà di recepire notizie da una zona ancora formalmente parte del territorio italiano, ma di fatto separata da esso.

La prima segnalazione del quotidiano del PCI l’Unità fu del 21 agosto 1946, a esequie avvenute. Il titolo è “Gli anglo-americani responsabili della strage di Pola”, ed in esso si dà spazio alla notizia secondo cui il vescovo di Pola avrebbe “stigmatizzato con roventi parole le autorità angloamericane, che presidiano la zona, chiamandole “responsabili” della tragedia per non aver rimosso le mine dalla spiaggia, dove erano state gettate dalla marea, per non averle disinnescate dopo averle lasciate sulla spiaggia”. La tesi del quotidiano – nonostante i vari sospetti sull’ipotesi dell’attentato doloso – è che si sia trattato di una disgrazia, dovuta all’incuria degli angloamericani. Il numero delle vittime stabilito- 62.

Il giorno successivo, l’Unità riportò un “rapporto telegrafico della Camera del Lavoro di Pola” secondo il quale il numero delle vittime sarebbe salito a “oltre 100”, ma la tesi è sempre quella della “sciagura dovuta ad incuria dei colpevoli”. L’articolo segnala la “giusta indignazione della popolazione di Pola e di tutta l’Italia”, affermando che il consiglio municipale della cittadina istriana avrebbe votato un ordine del giorno “di protesta”.

È da notare che il quotidiano comunista italiano in quegli stessi giorni conduceva una continua campagna di stampa in difesa degli interessi jugoslavi nella regione, contro – dall’altra parte – “i servi del fascismo e dell’Italia fascista” che contrapponendosi alla Jugoslavia assieme agli Stati Uniti avevano portato l’Europa sull’orlo di una nuova guerra.

La Nuova Stampa di Torino diede la notizia il 20 agosto, intitolando “Sventura a Pola” e inserendo nel sommario l’interrogativo: “Si tratta di un attentato?

L’inchiesta inglese.Il comando inglese istituì una commissione militare d’inchiesta, che però non riuscì a determinare le responsabilità della strage, aumentando i dubbi su alcune circostanze. La relazione finale raggiunse le seguenti conclusioni:

  • Gli ordigni erano stati messi in stato di sicurezza, ed in seguito controllati varie volte, sia da militari italiani, sia alleati. Un ufficiale britannico di nome Klatowsky affermò di aver ispezionato tre volte le mine – l’ultima il 27 luglio – concludendo che le stesse potessero essere fatte esplodere solo intenzionalmente.
  • Testimoni diretti – fra i quali uno dei militari inglesi feriti – avevano affermato che poco prima dell’esplosione avevano udito un piccolo scoppio e visto un fumo blu correre verso le mine.
  • Il comandante della 24ma Brigata di fanteria inglese – M.D.Erskine – segnalò che le mine non erano né recintate né sorvegliate, proprio perché ritenute inerti e non pericolose.
  • Erskine espresse nella relazione finale il parere secondo cui “Gli ordigni sono stati deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute” (“The ammunition was deliberately exploded by person or persons unknown”).

“L’Arena di Pola” ribadì varie volte l’argomento: “Stando così le cose, le mine non possono essere scoppiate da sole senza l’intervento di alcuno”. La cittadinanza ebbe la netta impressione che i militari alleati agissero con poca determinazione nella ricerca dei colpevoli, ed essendosi maturata la convinzione che Pola fosse una sorta di pedina di scambio nel gioco delle potenze vincitrici della guerra, tutto ciò esacerbò ulteriormente gli animi.

A differenza del resto dei territori in seguito ceduti dall’Italia alla Jugoslavia col trattato di pace, ove l’amministrazione militare era affidata all’esercito jugoslavo,l’esodo da Pola fu effettuato sotto la sovrintendenza delle forze alleate. La maggior parte della popolazione andò via dalla città.

L’idea dell’abbandono di Pola da parte della “larghissima maggioranza” dei cittadini era maturata mesi prima della strage di Vergarolla. Le feroci contrapposizioni fra i filoitaliani e i filojugoslavi erano condite da accuse e minacce, e la radicalizzazione della frattura non lasciò ai perdenti “alcun margine di accettazione della soluzione avversa”. Complessivamente, la popolazione di Pola ritenne di trovarsi di fronte ad un’alternativa secca: o rimanere nella propria città in balia di un potere che non offriva nessuna garanzia sul piano della sicurezza personale, né su quello della libera espressione del proprio sentire nazionale e politico, oppure abbandonare tutto per prendere la via dell’esilio.

La prima pagina de “L’Arena di Pola” del 4 luglio 1946, col titolo “O l’Italia o l’esilio”

Le notizie trapelate a maggio del 1946 in merito all’orientamento delle grandi potenze riunite a Parigi a favore della cosiddetta linea francese – che assegnava Pola alla Jugoslavia – rappresentarono un fulmine a ciel sereno: in città si era infatti convinti che il compromesso sarebbe stato raggiunto sulla linea americana o sulla linea inglese, che avrebbero lasciato la città all’Italia.

Il 25 giugno, la Camera del Lavoro proclamò uno sciopero generale di protesta che raccolse un’adesione altissima. Il 3 luglio si costituì il “Comitato Esodo di Pola”. Il giorno successivo “L’Arena di Pola” titolò a piena pagina: “O l’Italia o l’esilio”. Nell’articolo principale a firma di Guido Miglia, si legge: “Il nostro fiero popolo lavoratore, quello che pure aveva creduto nella democrazia e s’era ribellato ad ogni forma di schiavitù, abbandonerebbe in massa la città se essa dovesse sicuramente passare alla Jugoslavia, e troverà ospitalità e lavoro in Italia, ove il governo darà ogni possibile aiuto a tutti questi figli generosi che preferiscono l’esilio alla schiavitù ed alla snazionalizzazione. A Pola rimarranno forse alcune migliaia di fanatici che, dopo alcune settimane di occupazione jugoslava, si pentiranno atrocemente di tutto il male fatto da loro e cercheranno allora di sfuggire alla persecuzione violenta ed all’oppressione. E proprio perché sanno che a loro toccherà questa sorte, e per continuare ad essere dei gerarchi della “minoranza” italiana, fanno ogni sforzo per convincere la gente a rimanere in città; dopo averla terrorizzata con un anno di propaganda bestiale, con deportazioni in massa di innocenti e con lancio di uomini vivi nelle foibe, fra lo sghignazzare di alcuni ubriachi di sangue”.

Il 12 luglio, il “Comitato Esodo di Pola” cominciò la raccolta delle dichiarazioni dei cittadini che intendevano lasciare la città nel caso di una sua cessione alla Jugoslavia; il 28 luglio furono diffusi i dati: su 31.700 polesani, 28.058 avevano scelto l’esilio. Pur essendo da considerarsi queste dichiarazioni prevalentemente come un tentativo di pressione sugli Alleati a sostegno della richiesta di plebiscito, cionondimeno esse avevano assunto un significato più profondo: “L’esodo si era trasformato nella maggior parte della popolazione da reazione istintiva in fatto concreto, che acquistava via via uno spessore organizzativo e iniziava a incidere sulla vita quotidiana degli abitanti”.

Nell’estate del 1946 l’esodo era già un’opzione molto concreta. Tuttavia, nella memoria collettiva della popolazione la strage di Vergarolla venne ritenuta come un punto di svolta, in cui anche gli incerti si convinsero che la permanenza in città alla partenza degli Alleati sarebbe stata impossibile.

Lo scoppio fece abbassare il volume alla città. A quel punto si operò lo scollamento decisivo, inesorabile. L’impalpabile nevrosi della catastrofe vicina era già diffusa nell’aria e fra la gente. Lì, a quel funerale, dilagò il senso dell’ineluttabile e della sua accettazione, lì ci furono scene drammatiche, scene di fuga da un luogo di morte. L’esodo a quel punto si fece visibile, massiccio, collettivo. Vergarolla aveva modificato radicalmente le sorti della città.

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Trieste: Monumento di 2011 alle vittime di Vergarolla

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Il cippo di Vergarolla, inaugurato nel 1997

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fonti:

William Klinger, La strage di Vergarolla, Supplemento a L’Arena di Pola n.5 del 26 maggio 2014

Gaetano Dato, “Vergarolla 18 agosto 1946 .Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda, LEG, Gorizia 2014

In Memorial

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Pola

LEGGERE… CHE PASSIONE!

Biblioteca scolastica

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Le biblioteche hanno bisogno dei lettori, e non solo perché i libri senza chi li sfoglia e li ama non hanno senso di esistere, ma anche perché l’anima di una biblioteca è formata da tutti coloro che gli varcano l’ingresso, che si soffermano un’attimo a prendere un libro, che si scambiano opinioni, riflessioni, contribuendo così a diffondere il messaggio della biblioteca, a volte “nascosto”dentro i libri: un luogo per eccellenza di cultura, di incontro, di crescita insieme.

L’anno scolastico appena concluso ha visto impegnati nel progetto culturale “LEGGERE…CHE PASSIONE!”, volto alla “scoperta” della biblioteca, la classe quarta elementare dell’Istituto Comprensivo “G.Gavazzeni” di Talamona. Ecco alcuni dei titoli di questi laboratori: La carta fatta in casa, Il mio libro nascondiglio, Anima di carta, Sono bibliotecario. In conclusione del progetto, abbiamo raccolto le testimonianze dei bambini della classe quarta in merito a quello che ha significato per ogni uno di loro questa esperienza.

                                                                                                                La biblioteca è…
La nostra biblioteca è situata a Talamona, in provincia di Sondrio. In questa biblioteca si possono trovare libri interessanti e divertenti, anche per i più anziani.
A noi piace stare in questa biblioteca perché è molto divertente imparare a leggere certi libri molto istruttivi anche per prepararsi per le verifiche. Vi consigliamo di leggere molto libri perché possono trascinarvi in un’avventura magnifica che ricorderete per tutta la vita. 
                                                                                                                                                                                     Giulia Motta, Giulia Piazza, Angelica Valsecchi

Quest’anno scolastico abbiamo avuto la fortuna di andare in Biblioteca con il volontario per la cultura Lucica. I primi giorni ci siamo conosciuti e abbiamo preso in prestito i libri; dopo alcune settimane invece abbiamo iniziato vari progetti molto divertenti e utili. Il progetto che preferiamo è “IL LIBRO DA COSTRUIRE”, ma ci è piaciuto anche fare il laboratorio “LA CARTA FATTA IN CASA”.
Consigliamo ai nostri coetanei di venire in Biblioteca e leggere i molti libri che contiene. 
                                                                                                                                               Alessia Colombini, Melissa Mariani, Sarah Acquistapace Bertolini

 

                                                                                                                        L’anno dei libri
E’ stato molto bello in quest’ anno scolastico andare in biblioteca una o due volte al mese. E’ stato molto interessante fare i laboratori come “La carta fatta in casa”,” Il libro nascondiglio” e “Il nostro libro”. Poi qualche volta i bibliotecari siamo stati noi: abbiamo messo i libri nel giusto ordine sugli scaffali seguendo i simboli che sono diversi a seconda della tipologia di libri. 
                                                                                                                                                                         Giosuè Sassella, Michele Gusmeroli, Tommaso Maffia

 

                                                                                                                   I libri fanno storia
Ci è piaciuto venire in Biblioteca, perché i libri contengono storie e argomenti molto interessanti e anche perché servono per studiare. Noi vi consigliamo di venire qui, ci sono libri per tutti, grandi e piccoli, di paura e di cose inventate e molti altri libri.
Qui, c’è il gusto della scelta fra tantissimi libri. Abbiamo fatto anche alcuni laboratori: “La carta-come si fa?” , “Il libro nascondiglio”, e con la carta abbiamo costruito dei libri…e tanti altri ancora! 
                                                                                                                                                                                                                     Sara Falcetti, Leonardo Bulanti

 

                                                                                                                                   I libri
In quest’anno scolastico la maestra Flavia ci ha fatto conoscere la Biblioteca portandoci una volta ogni tre settimane. In questi giorni ci ha aiutato Lucica, che ci ha fornito delle tessere per poter ordinare i libri e scoprire novità interessanti.
Abbiamo scoperto perché la Biblioteca è utile e che dobbiamo farla conoscere agli altri in modo che possano vivere nuove avventure fantastiche e imparare nuove informazioni.
I nostri libri preferiti sono stati: “Lupo chi sei”, “La gatta magica” e “Un cucciolo da salvare”. Abbiamo vissuto un’esperienza fantastica! 
                                                                                                                                                                                                   Elisa Bonetti, Alice Papoli, Anita Ciaponi

Quest’anno abbiamo cambiato il sistema del prestito dei libri, non lo abbiamo più fatto a scuola ma siamo venuti in biblioteca, abbiamo conosciuto Lucica, la nostra guida. Ci ha insegnato tutti i simboli dei libri; con lei abbiamo fatto molti laboratori: “La carta fatta in casa”, “Il libro nascondiglio”, “Sono bibliotecario”, e poi abbiamo anche scritto noi un libro: il nostro si intitola “La nonnina con il porto d’armi”.
Ci è piaciuto venire in biblioteca, vi consigliamo di venire qui, poi c’è anche l’Internet! 
                                                                                                                                                                                                                           Fabio Bulanti, Dennis Callina

 

Che bello venire in biblioteca e poter leggere molti libri! Abbiamo gradito i vari laboratori, tra cui quello della “Carta fatta in casa”. C’è piaciuto stare in Biblioteca a riordinare gli scaffali durante il progetto “Leggere che passione”. I nostri libri preferiti sono stati: “Il grande libro dei dinosauri”, “Sandokan”, “Parlo subito inglese”, “Il quarto viaggio nel regno della fantasia”.
                                                                                                                                                                          Luca Lombardi, Giorgio Bertolini, Giovanni Popescu

 

Quest’anno in biblioteca abbiamo imparato che i libri sono molto belli da leggere, fanno imparare cose nuove. Ci sono tanti tipi di libri: di avventure, di cose paurose, di astronomia, di fiabe ecc…In biblioteca abbiamo imparato a fare la carta riciclata, abbiamo visto una mostra del legno, abbiamo riordinato gli scafali, abbiamo fatto un libro nuovo e preso in prestito altri per leggerli a casa. In biblioteca si può anche studiare. E’ stato bellissimo, vorremmo farlo anche l’anno prossimo, perché leggere è bellissimo! 
                                                                                                                                                                       Simone Petrelli, Alan Colombini, Francesco Simonetta

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foto di gruppo: Classe Quarta Elementare, Istituto Comprensivo “G.Gavazzeni”, Talamona

galleria immagini laboratori in biblioteca

LA COSTITUZIONE DEL CONSORZIO DEI PREMESTINI (seconda parte)

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foto:Val Lunga dal Dos Tachèr  

                                                                             Guido Combi (GISM)

Solo nell’800 appare costituito il consorzio dei Premestini come gruppo chiuso, comprendente unicamente gli abitanti della Val Lunga, o meglio, i discendenti delle famiglie che stipularono l’enfiteusi nel 1617. Questa “chiusura” trova la sua ragion d’essere nelle vicende che interessarono Tartano nel ‘700.

Già da quest’epoca, sia Campo che Tartano si erano di fatto rese ormai completamente indipendenti da Talamona, anche se il distacco non era stato dichiarato formalmente.

Nel 1816 i due paesi si unirono fra loro e, successivamente, con dispaccio governativo del 21 dicembre 1831, venne decretata la separazione di essi dal comune di Talamona, con la conseguente formazione del comune di Campo Tartano comprendente la Val Lunga, la Val Corta e Campo. Solo nel 1845 venne però approvata la divisione dell’estimo, realizzata nel 1850.

A questo punto parrebbe evidente l’operatività della clausola di reversibilità contenuta nell’atto del 1556 per la quale, nel caso di separazione del comune di Tartano da Talamona, i Premestini avrebbero dovuto tornare allo stesso comune di Tartano, ora divenuto, dopo l’unione con Campo, comune di Campo Tartano. Tuttavia, come risulta dal documento divisionale, fra i terreni appartenenti al comune di Talamona, oggetto di divisione, non sono compresi i Premestini, neppure elencati nei beni del nuovo comune di Campo Tartano.

I Premestini risultano invece intestati a “Gusmeroli consorti di Val Lunga” (probabilmente deve intendersi “Gusmeroli e consorti di Val Lunga”. La particolare indicazione del cognome Gusmeroli  è dovuta al fatto che la maggior parte dei consorti ha questo cognome poiché proviene dalla stessa famiglia d’origine), tenuti a corrispondere al comune, per il godimento di essi, L. 63.46.

La spiegazione di questo fatto va ricercata di nuovo nel tentativo di evitare che i beni Premestini, in quanto beni del comune, fossero utilizzati da tutti gli abitanti, compresi quelli di Campo e della Val Corta. Per conservare l’esclusiva titolarità dei terreni di loro appartenenza, nel ‘500, ma forse anche in epoche anteriori, gli abitanti dell’antico colondello formarono  appunto l’ente denominato dei “consorti di Val Lunga”. E’ dunque intervenuto un mutamento nella condizione giuridica di tali beni, passati da beni pubblici a beni privati.

Con tutta probabilità, l’ente in parola ebbe un’origine spontanea, inizialmente non formalizzata; non esiste infatti alcun atto di fondazione del consorzio. Successivamente, in coincidenza con l’emanazione delle leggi austriache sfavorevoli alla proprietà collettiva e con l’atteggiamento ostile dell’amministrazione comunale, i membri avvertirono l’esigenza di dare un fondamento giuridico al consorzio come ente chiuso, in modo da legittimarlo.

Fu utilizzato a tal scopo, con un’abile interpretazione, l’atto di stipulazione dell’enfiteusi del 1617.

Di fronte infatti alle pretese del comune che vantava diritti di proprietà sui beni consorziali, proclamandosi successore dell’antico comune di Val Lunga, poi colondello, i consorti sostennero che l’enfiteusi fu concessa non al colondello come persona giuridica, ma a tutti gli abitanti di esso “uti singuli”. Per provarlo, addussero il fatto che a costituire l’enfiteusi fossero intervenuti Antonio Caneva, Michele Mazzolini, Antonio Cavazzi e Giovanni Pietro Gusmeroli non quali consiglieri e sindaci del colondello, ma quali mandatari e procuratori degli uomini di Val Lunga. Per questo solo i discendenti delle famiglie abitanti la Val Lunga nel 1617 potevano vantare dei diritti sui Premestini, divenuti ormai loro patrimonio indiviso. Su di esso i membri del consorzio esercitavano dei diritti come se ne fossero i proprietari; sono documentati infatti i tentativi del comune di impedire il taglio di legname nei boschi Premestini.

 

Gli statuti di consorzio

 

Nel 1860, con rogito Mariani, “gli abitanti e uomini della Vallunga e dei colondelli del Corsuolo, dei Gavazzi, della Fracia e della Ceva, tutti consorti utilisti proprietari dei fondi detti i Premestini della Vallunga di Tartano, fondi che ora sono a boschi, pascoli e zerbi, zappativi e ceppo nudo, intestati in censo ai sottoscriti e loro ascendenti” redassero uno statuto “stando che detti fondi si godono in comunione e senza regole specifiche”.

Dal tenore dello statuto si comprende che numerose liti sorgevano nei rapporti tra i consorti per il taglio delle piante, ma soprattutto per il pagamento delle imposte cui ogni consorte doveva contribuire.

Con lo statuto “venne creata una amministrazione con il compito prevalente di autorizzare il taglio di piante di alto fusto e riscuotere un tenue corrispettivo che andasse a costituire un fondo per il pagamento delle imposte, del salario alla guardia boschiva e delle spese di amministrazione”.

In questo modo fu, in un certo senso, codificata la comunione fra i consorti e la proprietà dei Premestini, con piena facoltà di alienarli e di escluderne i terzi dal godimento.

Nel 1868, i consorti, giovandosi della legge 24 gennaio 1864 n. 1636, affrancarono il canone, dichiarando nel relativo rogito che, per effetto di tale affrancazione, “intendevano e volevano essere liberi e sciolti da obbligo per qualsiasi titolo verso il comune di Campo Tartano e pieni ed assoluti proprietari de beni in discorso”.

Lo statuto del 1860 subì tre modifiche, rispettivamente nel 1891, nel 1898 e nel 1924. Non vi furono tuttavia sensibili mutamenti, sia per quanto riguarda la gestione dei beni comuni, che la struttura amministrativa del consorzio.

Dalle modifiche di alcune norme, o da aggiunte, si possono dedurre quali fossero i principali problemi che il consorzio stesso si trovava ad affrontare.

L’intento fondamentale  è sempre quello di garantire l’utilizzazione del patrimonio consorziale a favore di tutti gli aventi diritto, prevenendo possibili usurpazioni sia da parte dei consorti che da parte di estranei. E’ interessante a tal proposito notare che il consorzio assume le stesse funzioni del comune rispetto ai beni che gli appartengono ed anche ai rapporti con i membri dell’ente. Vi è corrispondentemente una marcata analogia fra le norme degli statuti comunali in materia e quelle degli statuti consorziali in esame. Il parallelismo risulta ancor più evidente se si considera che sui Premestini i consorti, senza necessità di autorizzazione da parte dell’amministrazione, potevano esercitare dei diritti che erano in tutto e per tutto simili a quelli di uso civico che gli abitanti del comune esercitavano sui beni di questo.

Se, come si è già rilevato, lo statuto del 1860 era stato redatto soprattutto per sopperire all’inadempienza dei consorti relativamente alle imposte prediali, quello successivo del 1891 si dilunga sulla organizzazione amministrativa del consorzio, prevedendo specifiche modalità di convocazione dell’assemblea, fissando maggioranze speciali per deliberazioni relative a determinate materie, contemplando la possibilità di delega a favore di un altro consorte, ecc.

La modifica del 1898 è limitata all’aggiunta di tre capoversi all’art. 1 del precedente statuto con la quale, evidentemente con la preoccupazione ancora di conservare l’integrità dei beni, impedendo eventuali usurpazioni, si stabilirono dettagliatamente i compiti della guardia boschiva, consistenti nel denunciare le violazioni allo statuto ed applicare le corrispondenti contravvenzioni.

 

I conflitti fra i membri del consorzio e gli altri abitanti del comune. I conflitti fra il consorzio e l’amministrazione comunale.

 

E’ fuor di dubbio che il possesso dei consorti non doveva essere pacifico.

I consorti, titolari dei Premestini, godevano di una posizione privilegiata rispetto agli altri abitanti del comune di Campo Tartano, poiché, oltre ad avere i benefici che derivavano dal possesso dei pascoli utilizzati in comune, erano i soli contadini della Valle ad avere un utile in denaro, senza dover prestare alcuna opera, per la vendita di legname deliberata dall’amministrazione e per l’affitto dell’Alpe Gavedo, compresa nei Premestini. Tale denaro costituiva dunque un’eccedenza rispetto al consueto reddito familiare ed assumeva una rilevanza notevole in relazione alla economia contadina di montagna.

E’ dunque comprensibile che questo stato di fatto generasse fortissime rivalità tra gli abitanti del comune di Campo Tartano, che erano esclusi dal godimento dei Premestini, e i consorti di Val Lunga, rivalità che spesso sfociavano in reciproci danneggiamenti nello svolgimento della vita comunale. Il contrasto contrapponeva in particolare la Val Lunga alla Val Corta, e Tartano a Campo, dando luogo ad un acceso campanilismo che impediva ogni pacifico rapporto fra gli abitanti delle due frazioni; ancora all’inizio del secolo erano rarissimi i matrimoni tra gli appartenenti alle comunità rivali.

Per quanto riguarda il possesso esclusivo dei Premestini da parte degli uomini di Val Lunga, era opinione diffusa negli abitanti di Campo e della Val Corta che rappresentasse un abuso, poiché i beni avrebbero dovuto spettare al comune ed essere amministrati come gli altri beni comunali senza privilegio alcuno.

I contrasti delineati si fecero più accesi nel 1899, quando il Prefetto di Sondrio, Hoffer, la cui attenzione sui beni Premestini venne richiamata dalla domanda di autorizzazione ad un taglio di piante, ritenne tali beni appartenenti al comune e non agli abitanti di Val Lunga, che ne godevano “uti singuli”. Il Prefetto, sostituendosi al consiglio comunale di Tartano, deliberò di rivendicare in nome di esso i beni Premestini ed ordinò che venissero nominati tre commissari per rappresentare la frazione di Val Lunga. Nel frattempo, gli successe il Prefetto Giustiniani, il quale, in luogo di far nominare i tre commissari, nominò a rappresentarlo il segretario Triantafilis. Questo chiese agli amministratori dei Premestini la consegna dei beni ed il resoconto dell’amministrazione. In seguito al loro rifiuto, ottenne dal Prefetto un ordine di sequestro dei documenti riguardanti il consorzio che tuttavia non poté avere esecuzione per l’opposizione dei consorti. In conseguenza del rifiuto di eseguire l’ordine del Prefetto, vennero denunciati dalle autorità dodici contadini di Val Lunga, processati per oltraggio e resistenza alla pubblica autorità e condannati. L’esito della causa accentuò i contrasti fra i consorti e l’amministrazione comunale.

Nel 1904 fu il comune a rivendicare la proprietà dei beni Premestini, promuovendo una causa contro i consorti.

La sentenza fu però favorevole a questi ultimi, ed accolse le ragioni dell’avvocato Merizzi, il quale sostenne che i beni menzionati appartenevano anticamente alla vicinanza di Val Lunga ed erano poi passati al comune politico con l’aggravio degli usi civici a favore di tutti gli abitanti. Il difensore dei consorti sostenne che poi con l’investitura livellare e l’affrancazione del livello, solo i discendenti degli antichi originari che avevano affrancato il canone fossero divenuti assoluti proprietari e risultasse così estinto l’uso civico.

Le controversie tuttavia non erano destinate a sopirsi e si riacutizzarono in seguito alla decisione del comune di trasferire il municipio da Campo a Tartano; la notte antecedente il trasferimento venne dato fuoco all’archivio comunale.

La rivalità tra i due paesi permarrà anche dopo che la causa della controversia, il godimento dei Premestini, avrà di fatto perso importanza. E ciò avvenne in seguito al decreto 22 maggio 1924 n. 751 per il riordinamento degli usi civici, convertito nella legge 16 giugno 1927 n. 1766.

Sulla base della legge citata, il Commissariato usi civici della Lombardia, con decreto 13 gennaio 1939, “dichiara che i cosiddetti Beni Premestini che hanno formato oggetto del rogito Camozzi del 13 giugno 1617 e di cui allo statuto 28 aprile 1924 (rogito Lavizzari), non costituiscono né una comunione di carattere meramente privato governata dal codice civile, né un’associazione agraria, né una proprietà puramente patrimoniale e quindi non gravata di usi civici della Frazione di Valle Lunga, ma il demanio civico della Frazione stessa”.

All’epoca dell’emanazione del decreto l’importanza economica di questi beni era ormai grandemente scemata, sia perchè troppi risultavano essere i beneficiari rispetto al valore dei beni stessi, sia per il miglioramento generale delle condizioni economiche dovuto soprattutto all’emigrazione, sia per il sopravvivere di norme restrittive volte a tutelare il patrimonio boschivo. Tuttavia, ancora negli anni 50 del 1900, l’amministrazione del divenuto demanio civico frazionale volle ricordare con una lapide, che avrebbe dovuto essere murata sul piccolo edificio scolastico, da poco costruito con i fondi del demanio stesso in Val Lunga, l’esito favorevole della causa promossa dal comune contro il consorzio nel 1904. Non essendoci ancora la strada carrozzabile, la lapide fu trasportata fino alla contrada Dosso con il carrello della società idroelettrica Comacina, per poi essere trasferita a spalle fino a Tartano il giorno seguente.

Durante la notte venne però ridotta in frantumi da ignoti e non fu più rinnovata.

 

Note

(1) -La Val Tartano è una valle sospesa delle Orobie situata nella bassa Valtellina, percorsa dal torrente Tartano. Essa comprende due paesi: Campo e Tartano. Il bacino si divide in prossimità del paese di Tartano in due sub-bacini: quello di Val Lunga e quello di Val Corta; le due valli terminano con le testate che le separano dalla Val Brembana. La sponda destra della Val Lunga è prativa fino all’altezza di circa 1300-1400 metri s.m.; da qui inizia una fascia di lariceto ad andamento irregolare, intramezzato da roccia, fino a 1500-1600 metri s.m. dove cominciano gli alpeggi. Sulla sponda sinistra prevale il bosco di abete rosso all’inizio della valle, soppiantato quasi del tutto verso la testata dal larice; anche qui al di sopra del bosco si trovano gli alpeggi. La Val Corta è prativa e coperta di bosco di abete rosso. E. Bassi, “La Valtellina. Guida illustrata”. Monza 1927, pagg. 96, 97.

(2) -Il termine “premestino”  è molto diffuso nei territori montani, non solo della Valtellina, e trae origine quasi sicuramente dalla caratteristica dei luoghi che designa: quella di essere pascoli di mezza montagna, quindi utilizzati prima dell’estate; da qui primaestivum da cui poi i vari derivati. In un documento del 30.12.1555 è citato un pascolo “quod appellatur Premestinum” di proprietà del Comune di Campo. Questo termine è richiamato spesso anche negli Statuti di Talamona del 1525.

3) –Accola: canone annuo, esistente solo in Valtellina, versato da privati, anche estranei alla vicinìa, ai quali venivano concessi i beni comunali in affitto, locazione o enfiteusi.

Contratti similari erano:

a)  l’ enfiteusi: diritto reale di godimento su un fondo di proprietà altrui, secondo il quale il titolare (enfiteuta) ha la facoltà di godimento pieno sul fondo stesso, ma deve migliorarlo e pagare al proprietario un canone annuo in derrate o in denaro;

b)  Il livello: contratto agrario in uso nel Medioevo, cessato nel 1800, è simile all’ enfiteusi e poteva essere fatto anche per abitazioni oltre che per terreni. Era molto usato per le proprietà di monasteri e dalla Chiesa.

 

BIBLIOGRAFIA: Simona Tachimiri: Questioni storiche sugli usi civici e le proprietà collettive in Valtellina. Tesi di laurea – Anno accademico 1985-86.

L’OCCHIO DI LEONARDO DA VINCI

 

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Ritratto secentesco di Leonardo fatto eseguire su quello del Museo Giovio in Como dal Cardinale Federico Borromeo per la Biblioteca Ambrosiana

 

 

L’occhio dal quale la bellezza dell’universo è specchiata dai contemplanti, è di tanta eccellenza, che chi consente alla sua perdita, si priva della  rappresentazione di tutte le opere della natura, per la veduta delle quali l’anima sta contenta nelle umane carceri, mediante gli occhi, per i quali essa anima si rappresenta tutte le varie cose di natura.” Leonardo da Vinci

Tra gli studi di Leonardo da Vinci di particolare importanza fu uno studio del sistema nervoso in cui si proponeva di capire il funzionamento degli organi di senso. Nella concezione tradizionale, il cervello conteneva tre cavità: la prima, l‘impressiva, raccoglieva le informazioni provenienti dai cinque sensi. Queste informazioni venivano passate al cervello, il sensus comunis, dove erano interpretate, e poi depositate nel terzo ventricolo, la memoria.

Tra i cinque sensi Leonardo collocò la vista al vertice della gerarchia sensoriale, descrivendola come il mezzo più importante in nostro possesso per comprendere gli infiniti meccanismi della natura.

Ai tempi di Leonardo la comprensione dell’ottica era ancora aggrappata alle false convinzioni di Aristotele e Platone. L’errore più evidente era l’idea platonica che gli esseri umani percepissero l’universo perché l’occhio proiettava particelle che venivano poi nuovamente riflesse all’occhio. Leonardo si rese conto che questa ipotesi era illogica, e pervenne alla conclusione che se la vista avesse funzionato in quel modo, allora noi avremmo potuto vedere tutti gli oggetti con la stessa velocità perché le particelle emesse dall’occhio impiegherebbero tempi deformi per raggiungere obbiettivi a distanze diverse e tornare poi ai nostri occhi. Dopo numerosi studi sostituì questa teoria con una semplice descrizione, affermando che la luce si comporta come un’onda. Leonardo poi proseguì descrivendo il modo in cui la luce è riflessa da superficie diverse, il meccanismo con cui l’occhio percepisce i riflessi, giudica le distanze e riconosce le prospettive, e quello in cui la luce, cadendo sugli oggetti, genera le onde. In gran parte del pensiero di Leonardo sentiamo riecheggiare il grande filosofo Alhazen, il quale all’inizio di Prospectiva communis osservava:

“tra tutti gli studi delle cause e delle motivazioni la luce massimamente delizia i contemplatori; tra le grandi cose della matematica, la certezza delle sue dimostrazioni eleva la mente dei ricercatori nel modo più illustre; la prospettiva deve dunque essere preferita a tutti i discorsi e le discipline umane, nello studio delle quale i raggi si espandono per mezzo delle dimostrazioni e in cui si trova la gloria non solo della matematica ma anche delle fisica, contemporaneamente adorna dei fiori dell’una e dell’altra.” 

 

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Problema di Alhazen . Il problema di Alhazen (o anche problema del bigliardo circolare) è la ricerca del cammino che un raggio luminoso deve percorrere (in un mezzo omogeneo) perché giunga all’occhio da una sorgente data dopo aver subito riflessione su uno specchio sferico. Per note proprietà della riflessione, il problema si riduce subito a due dimensioni.  Qui, una celebre soluzione meccanica che utilizza un sistema articolato a 5 aste. Nella prima asta, imperniata in Q (fisso sul piano), è praticata una scanalatura ove scivola il cursore A, al quale sono incernierate due aste uguali AB, AC. Altre due sbarre BM e CL (incernierate in B, C) si intersecano su un perno P (QP=cost.), formano un rombo articolato ABPC e sorreggono (nei tratti PM, PL) due scanalature. PM scivola attraverso un cursore S (fisso sul piano) che rappresenta la sorgente. Spostando PL fino a farla passare per l’occhio O, si risolve automaticamente il problema.

 

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Per la risoluzione del problema di Alhazen, Leonardo fece una macchina chiamata Ellissiogrado.

Nei suoi taccuini, Leonardo tradusse dal latino questo passaggio che rappresenta perfettamente il suo punto di vista sull’ottica.

Peckham e altri pensatori medioevali avevano sostenuto che il vuoto fosse riempito dalle immagini provenienti da oggetti solidi. Secondo costoro, come per Leonardo, ogni corpo opaco riempiva l’aria circostante con infinite immagini: in poche parole “la luce viene riflessa in tutte le direzioni da tutte le parti degli oggetti solidi opachi e viaggia in linea retta”. 

Peckham introdusse il concetto di “piramide” per riferirsi alla traiettoria dei raggi luminosi dall’oggetto all’osservatore; esso fu in seguito adottato dal Leon Batista Alberti e poi ripreso da Leonardo. Nei suoi taccuini, in cui egli parla della luce, si presenta il termine “piramide radiante” o “piramide ottica”. L’espressione si riferisce all’idea che i raggi di luce provenienti dai bordi di un oggetto e che convergono con quelli che viaggiano esattamente in linea retta, li intersecano a livello dell’occhio, al quale giungono sotto forma di una piramide o di un cono. Tale idea era basata sull’assunto che la luce viaggi in linea retta: Leon Batista Alberti l’aveva estesa per spiegare il modo in cui l’artista raccoglie informazioni da un oggetto.

Leonardo si servì di alcune parti del lavoro di Alberti per giungere alle proprie conclusioni. Egli fece una distinzione tra” visione sferica”e “visione centrale”, affermando che l’occhio aveva una singola direttrice centrale e che tutti gli oggetti la cui immagine giungeva all’occhio lungo quella linea erano percepiti bene. Intorno a quella linea ce n’erano infinite altre, che hanno tanto meno valore ai fini di una visione chiara e distinta, quanto maggiore è la loro distanza dalla direttrice centrale. Leonardo fu quasi certamente il primo a scrivere sulla “visione stereoscopica” e sul modo in cui gli occhi, in virtù del fatto di essere due, raccolgono informazioni riguardo ad un oggetto. Egli capì anche che queste informazioni venivano poi trasmesse per essere interpretate “dall’anima”, o da quella che oggi sappiamo essere la corteccia cerebrale, ossia la regione del cervello responsabile dell’elaborazioni sensoriali in entrata.Essendo Leonardo ostinatamente deciso a studiare e rappresentare il reale secondo la «somma certezza» delle scienze matematiche, le leggi proporzionali della visione oculare e la loro applicazione alla prospettiva pittorica non potevano non affascinarlo. Ma la visione non è fatta solo di rapporti quantitativi. Accanto a forma e dimensione degli oggetti, esistono altri più duttili elementi, assai meno«misurabili»: colore, ombra, luminosità. […]Dopo aver preso in considerazione come la «qualità dell’aria», cioè la sua maggiore o minore umidità per specie, influenza la propagazione delle specie o immagini degli oggetti, passa a un altro tipo di alterazione «fisica», quella dovuta alla struttura anatomica dell’occhio. Sviluppando premesse contenute negli autori medievali di ottica, che in un primo momento aveva sottovalutato, Leonardo osserva una serie di discrepanze tra il meccanismo della visione ipotizzato dalla prospettiva lineare e centrale degli artisti, e la visione reale degli oggetti. I raggi visivi che recano le similitudini o immagini degli oggetti quando entrano nell’occhio vanno incontro a variazione del loro angolo di incidenza e a una duplice rifrazione. Ne consegue che la visione «piramidale» ipotizzata dagli artisti non corrisponde alla realtà. La «piramide visiva» implicava infatti che tutti i raggi visivi confluissero in un punto unico e centrale dell’occhio. Ma la situazione era ben diversa. L’immagine di un oggetto non confluisce in un sol punto ma su di una superficie: «la virtù visiva è sparsa per tutta la pupilla dell’occhio» (Manoscritto F dell’Institut de France). Quindi la «piramide prospettica» (base nella cornice del quadro, vertice nel punto di fuga verso il quale convergono le linee della rappresentazione pittorica) era stata costruita dagli artisti in base a una «piramide visiva» (base nell’oggetto visto, vertice nell’occhio) che, di fatto, non esiste. Anche la prospettiva perde il suo «centro visivo: «La virtù visiva non è in un punto come vogliono e perspectivi pittori» (Manoscritto D dell’Institut de France).

Collegando il funzionamento dell’occhio a quello della camera oscura, Leonardo procedette creando strani congegni ottici in grado di aumentare l’ampiezza del campo visivo; a tal proposito scriveva:

“se torrai una mezza palla di vetro e metteravvi il volto e stopperella bene alla(…)congiunzione del viso e empierella di sottile acqua, vederai tutte le cose che son vedute dalla superficie d’essa palla, in modo quasi ti vederai dirieto alle spalli.” 

Questi studi lo condussero infine al progetto del proiettore e alla costruzione di un congegno affine a un cannocchiale.

 

L’OCCHIO DI LEONARDO

mostra a cura di Pietro C. Marani

catalogo a cura di Pietro C. Marani-Edizioni De Agostini, Novara

La  Biblioteca Ambrosiana mette in atto la ventesima mostra del Codice Atlantico, una mostra volta all’interesse di Leonardo per l’occhio, inteso come l’organo umano della percezione visiva. I disegni  selezionati dimostrano come lo studio dell’ottica in stretta relazione con lo studio della geometria si rilevi di grande importanza per Leonardo, non solo ai fini della raffigurazione prospettica, ma anche per la definizione teorica di problemi che la scienza “d’ombra e lume” li solleva, tutto questo confluendo poi nel Trattato della Pittura. Nel catalogo realizzato in occasione della mostra, il professor Marani afferma: “L’ottica è dunque terreno di ricerca e sperimentazione in strettissimo rapporto con la creazione artistica, cioè con la pittura ed è singolare che le trattazioni e gli appunti di Leonardo sull’ottica, sembrino essere stati provocati dalla volontà di teorizzare o darsi ragione di fenomeni luministici, o inerenti il chiaroscuro o ancora il rapporto tra luce e rilievo, che egli aveva in prima battuta risolto nella pittura, come se egli abbia voluto, a posteriori, dare ragione scientificamente di quanto egli aveva realizzato con la pratica della pittura.”

 

 

(disegni di Leonardo da Vinci con il tema dell’ottica e della prospettiva)

 

La mostra-aperta dal 10 Giugno al 7 Settembre- e suddivisa tra due sedi: la prima sezione è esposta nella Sala Federiciana della Biblioteca Ambrosiana, mentre la seconda si può ammirare nella Sacrestia del Bramante nel convento di Santa Maria delle Grazie.

 

ambrosiana - Copia                                   sacrestia-del-bramante

 

 

Lucica Bianchi

IL MONDO SLAVO. DIES ACADEMICUS, AMBROSIANA

Gli Slavi come una razza nuova e sconosciuta, si affacciarono ai confini del vecchio mondo europeo già nei primi secoli dopo Cristo. L’impero d’Oriente entrò in contatto immediato appena nel Quinto secolo, quando varie tribù slave apparvero minacciosamente ai suoi confini settentrionali, lungo il Danubio. Gli imperatori di Roma, come adesso i loro successori al trono di Costantinopoli, avevano ormai conosciuto, col passaggio del tempo, numerosi invasori, alcuni dei quali erano riusciti perfino a spingersi profondamente nel interno del territorio, ma poi si erano ritirati, erano stati sconfitti oppure scomparvero in qualche altro modo. Sembra che anche questa volta il Costantinopoli non si sia turbato eccessivamente dinanzi alle ondate slave, tanto meno si è pensato che queste tribù si potessero stabilire  in modo definitivo e duraturo dentro i confini dell’Impero. Ma nel corso di un periodo relativamente breve, la maggior parte della Penisola Balcanica venne occupata dagli Slavi, che si spinsero fino all’interno del Peloponneso, arrivando perfino in alcune isole dell’Egeo. Nei secoli che seguirono, intorno al territorio dell’Impero, al nord, al nord-ovest e al nord-est, si formarono i primi stati dei popoli slavi. Così, già nei secoli VI-VII nacque per l’Impero Bisantino quel grande interrogativo: come regolare cioè i suoi rapporti con la numerosa popolazione slava che si era stabilita dentro i confini ma anche con i giovani stati slavi appena formati. Numerosi fatti nella vita politica, culturale e militare dell’Impero sono strettamente connessi con i rapporti bisantino-slavi e possono essere chiariti soltanto in questa luce.Dopo aver intrecciato molteplici rapporti con Bisanzio e dopo aver subito un’importante influenza dalla civiltà bisantina, questi popoli slavi ne assunsero-dopo la caduta dell’Impero sotto il dominio turco nel 1453-la gran parte dell’eredità culturale.

Gli avvenimenti politici nei tempi posteriori diminuirono sensibilmente il potere bisantino e offuscarono il prestigio dell’Impero nel mondo europeo. Quello che il Bisanzio perdeva continuamente sul piano politico, veniva almeno parzialmente recuperato nel campo dell’influsso religioso, ecclesiastico e quindo culturale. Già i primi successi dell’attività missionaria dei Bisantini per la conversione degli Slavi erano accompagnati immancabilmente dall’istituzione di una gerarchia ecclesiastica-costituiti dai metropoliti, arcivescovi, vescovi ecc-nei rispettivi paesi slavi subordinati almeno teoricamente al patriarcato di Costantinopoli, ritenuto il vero interprete e detentore dell’ortodossia.

Attraverso tutte queste vicende intrinseche tra la Chiesa di Costantinopoli e delle Chiese nei vari paesi slavo-ortodossi, la religiosità bisantina esercitò un’influenza considerevole nella vita dei popoli slavi del Sud e dell’Est europeo. Senza toccare l’aspetto dogmatico  e liturgico di quest’influsso, soffermiamoci su ciò che contribui alla cultura slava medievale. Considerando la lingua nazionale dei popoli slavi adatta per l’uso liturgico, i bisantini favoriscono la formazione di un alfabeto slavo, e la traduzione, per mezzo di esso dei testi liturgici necessari per l’opera di cristianizzazione degli Slavi. L’alfabeto” glagolitico”,(il più antico alfabeto slavo conosciuto) inventato da Costantino Filosofo Cirillo all’inizio della seconda meta del IX secolo, venne sostituito verso la fine dello stesso secolo dall’alfabeto “cirillico” .Questi due alfabeti slavi, adattati ad esprimere alla perfezione le caratteristiche delle slave parlate, furono presto adoperate per un uso ampio, diventando la base di una ricchissima attività letteraria e religiosa. L’invenzione di un alfabeto slavo ed il suo uso per a scopi letterari e religiosi significava in realtà, innalzare la lingua parlata dei popoli slavi a lingua letteraria, e ciò rappresentava nel vecchio mondo europeo un’innovazione culturale straordinaria. Nasce così la letteratura detta paleoslava, che-sviluppatasi verso la fine del IX secolo e nella prima meta del X fra i Bulgari-presto si propagò anche fra i altri popoli della” Slavia ortodossa”. Le traduzioni della letteratura patristica contribuirono non solo ad arricchire una cultura in formazione, ma servirono come base per lo sviluppo delle lingue slavi nazionali come lingue letterarie. Le traduzioni prepararono, dall’altro canto un atmosfera favorevole all’apparire di opere originali in lingua slava. Le traduzioni slave hanno anche un’importanza maggiore nello studio della letteratura patristica e quella bisantina in lingua greca. Si possono menzionare varie opere di patristica e bisantina, che sono giunte fino a noi non nella loro lingua originale, ma unicamente in traduzione slava medioevale. In altri casi la versione slava risale indubbiamente ad un originale molto più antico oppure ad un testo migliore e più completo di quello conosciuto oggi nei manoscritti greci. In tal modo la traduzione slava acquista un’importanza particolare anche per la ricostruzione dell’originale. Alcune delle versioni slave sono poi conservate nei manoscritti che per la loro antichità e qualità artistica e letteraria possono essere messi accanto agli migliori manoscritti col testo greco. Non per ultimo, va rilevato che alcune opere della letteratura bisantina, sia letteraria che religiosa, furono scritte utilizzando fonti d’origine slava, oggi scomparse. Per tutte queste considerazioni,i manoscritti slavi, hanno il valore di preziosissime testimonianze, non tanto per la ricostruzione dei manoscritti originali, quanto per la storia dell’eredità spirituale di questi popoli. Possiamo ricordare le figure storiche di alcuni dei maggiori promotori della civiltà slava- come ad esempio i fratelli Costantino Filosofo Cirillo e Metodio, gli inventori dell’alfabeto slavo e fondatori della letteratura paleoslava-che hanno saputo promuovere una cultura e un’identità slava assieme ad una propria coscienza etnica.

Lucica Bianchi

fonti: Ivan Dujcev,  “Medioevo Bisantino-Slavo”, volume 1, Roma 1965, Edizioni di Storia e Letteratura.

DIES ACADEMICUS della Classe di Slavistica, Biblioteca Ambrosiana

Mentre in Europa l’Italia celebra nella pace la festa della sua costituzione in repubblica e mentre sempre più acute e sorde le lacerazioni rischiano di devastare i confini, le case e le vite dei popoli slavi, La Veneranda Biblioteca Ambrosiana, con la sua Accademia, offre un concreto auspicio di dialogo e comprensione con la testimonianza dello studio di una pietra miliare su cui è stata edificata la civiltà europea: il libro. Il libro, con la sua portata di conoscenze, la sua reticolare diffusione e la salutare costituzione dei luoghi della sua custodia. Sul libro è incentrato il Dies Academicus della Classe di Slavistica

In giugno 2014 la Classe di Slavistica organizza l’annuale Dies Academicus dedicato al tema “Libro manoscritto e libro a stampa nel mondo slavo (XV-XX sec.)”.

Durante l’apertura del Dies Academicus, si terrà il solenne Atto Accademico presieduto da mons. Franco Buzzi, Prefetto della Biblioteca e Presidente dell’Accademia Ambrosiana, che consegnerà ai neo Accademici della Classe di Slavistica i diplomi di appartenenza all’Accademia.

Seguiranno la presentazione del facsimile dell’Evangeliario di Strahov, donato alla Biblioteca Ambrosiana, la presentazione del facsimile del paleotipo ambrosiano “Libro per varie occorrenze” di Jakov Krajkov e la prolusione tenuta dal professor Sergejus Temčinas.

A questo momento di incontro sono invitati i Consoli di tutti i Paesi dell’area slava e i Rappresentanti delle Comunità Cristiane (sia Cattoliche che Ortodosse) dei Paesi Slavi, presenti nella città di Milano.

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Questi i neoaccademici, cui verrà consegnato il diploma del Gran Cancelliere, l’Arcivescovo di Milano:
Pavel Ambros (Olomouc),
Slavia Barlieva (Sofia),
Michail Bibikov (Mosca),
Aleksander Filonenko (Charkiv – Char’kov),
Jitka Křesálková (Milano),
Ol’ga Sedakova (Mosca),
Konstantin Sigov (Kyïv – Kiev),
Sergejus Temčinas (Vilnius)

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Si ricorda inoltre che anche con il Patrocinio della Biblioteca Ambrosiana è stato pubblicato in aprile 2014 il volume curato dal Direttore della Classe di Slavistica, mons. Francesco Braschi: Liturgia ed ecumenismo con gli scritti di mons. Enrico Rodolfo Galbiati, dottore e prefetto dell’Ambrosiana (1953-1989), che tanta luce gettano sulla comprensione, anche storica, della divaricazione dei popoli in Europa e sulla possibilità, anche immediata, di una reale reciproca comprensione, stima e aspettative comuni.

Curatore della Newsletter
della Veneranda Biblioteca Ambrosiana
dr. prof. Fabio Trazza

 

Chi frequenta l’Ambrosiana sa che nell’Accademia , la Classe di Slavistica è un fiore all’occhiello. Ora sotto il Prefetto Buzzi abbiamo visto un mons. Braschi attivissimo  in questo ruolo. Due figure di grandi viaggiatori e tessitori del mondo della slavistica , che sul filo di eventi fondamentali intessono relazioni che ogni giorno portano un grande arricchimento. 

 Si è iniziato con l’emozione dell’atto accademico e consegna dei diplomi ai neoaccademici. E li vedevi in ordine , come studenti alla laurea, rispondere alla chiamata e gli leggevi l’emozione che provavano a essere chiamati in una “classe” unica, rara. Pavel Ambros di Olomuc, Slavia Barlieva di Sofia, Michail Bibikov di Mosca, Alexander Filonenko di Charkiv Char’kov,Jitka Kresalkova di Milano e Praga, Ol’ga Sedakova di Mosca,Konstantin Sigov di Kiev,Sergeius Temcinas di Vilnius.Il lettore e gli interessati ci scuseranno se stiamo saltando accenti che storpiano i loro nomi.E’ bene precisare che seppur grandi accademici di saggia età non mancavano fra loro giovani professori.

Poi Evermod Geiza Sidlovsky ha presentato e donato alla Ambrosiana il prezioso evangelario della  biblioteca Strahov luogo magico dove gli amanti dei libri sono autorizzati a sognare. Axinija Dzurova di Sofia ha descritto e raccontato il prezioso “libro per varie occorrenze” del paleolitico ambrosiano di cui se ne conoscono solo tre copie.

Bellissima esposizione a opera del prof.Sergejus Temcinas di Vilnius “La tradizione libraria in rus’ka mova nel Granducato Lituano e nel regno di Polonia come modello di integrazione culturale” colmando e chiarendo una lacuna che la sua esposizione ha esposto in modo dettagliatissimo ed esaustivo. Aiutati da una precisa traduzione italiana abbiamo potuto seguire la relazione in russo altrimenti per noi intelligibile. 

Tratto dal “Il Guglielmo”, periodico di informazione, cultura e turismo.

 

LEONARDO ICON

Nel XV secolo l’Italia era la più prospera e colta regione d’Europa. Fu qui che per primo e con maggior rigoglio, fiorì il Rinascimento dell’arte e della letteratura, della scienza e della tecnologia. E fu in questo ambiente che uomini come Leonardo da Vinci ebbero la possibilità di esprimere la propria eccezionale, ricchissima personalità.

Nel Trattato di Pittura del 1492 (precedente alla conoscenza di Luca Pacioli, colui che diventerà un mentore nel campo della matematica), Leonardo scrisse:“...nessuna certezza è dove non si può applicare una delle scienze matematiche over che sono unite con esse matematiche […] quelli che s’innamorano della pratica senza la scienza, sono come i nocchieri che entrano in naviglio senza timone o bussola, che mai hanno certezza dove si vadano.” In Leonardo compariva quindi una prima affermazione puntuale sulla necessità di usare la matematica per conoscere la natura, ma egli fino all’ incontro con Luca Pacioli-1496- non fu in grado di usarla perché, non la conosceva, come non conosceva il latino, un vero grave limite che Leonardo riconobbe, criticando chi disquisiva e basta e rivendicando però la migliore scuola della sperienzia:Sebbene, come loro, non sapessi allegare gli autori, molto più degnia cosa a leggere allegando la sperienzia, maestra ai loro maestri. Costoro vanno sgonfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro, ma delle altrui fatiche; e le mia a me medesimo non conciedono; e se me inventore disprezzeranno, quanto
maggiormente loro, non inventori ma trombetti e recitatori delle altrui opere, potranno essere biasimati [dal Codice Atlantico, f. 117, r.b.].

Da Luca Pacioli, Leonardo impara cosa vuol dire “la dimostrazione” ed assume la denominazione di “avversaria” per l’enunciato da refutare. La sua geometria si fa dunque più colta, i problemi proposti sono quasi sempre tratti dagli scritti di Pacioli, spesso a sua volta tratti da Euclide. Un particolare interesse Leonardo mostra per la Sezione Aurea, presentatagli da Pacioli, che la chiama “divina proporzione”. Molti dei disegni e molte delle riflessioni delle pagine geometriche dei codici leonardeschi hanno come tema la sezione aurea. Uno di questi Codici, cosiddetto Codice Atlantico è il  “libro grande” descritto nella donazione di Galeazzo Arconati alla Biblioteca Ambrosiana. In foglio grande (mm. 440 X 650), consta di 393 carte che raccolgono circa 1600 foglietti, per lo più autografi. La legatura in cuoio rosso reca la legenda: Disegni di machine et delle arti segrete et altre cose di Leonardo da Vinci, raccolte da Pompeo Leoni. La sua compilazione risale al tempo del soggiorno spagnolo di Leone Leoni, il quale, smembrando i manoscritti vinciani in suo possesso, ne formò due raccolte fittizie, seguendo il criterio di separare gli schizzi e gli appunti artistici e di anatomia dagli altri ritenuti di meccanica e in genere di scienza. La prima, venduta al re di Inghilterra è conservata al castello di Windsor; la seconda, giunta in possesso del conte Galeazzo Arconati, nel 1637 entrò a far parte della Biblioteca Ambrosiana insieme agli altri codici vinciani, con i quali nel 1796 fu trasferita a Parigi già con la denominazione di Codice Atlantico (dal formato di atlante), e fu anche il solo codice a essere restituito all’Italia,(per merito dello scultore Antonio Canova), mentre gli altri rimasero alla Biblioteca dell’Istituto di Francia.

Parlare del Codice Atlantico risulta alquanto difficile, ove non si voglia parafrasare la stessa somma del sapere vinciano. Le note biografiche si aggiungono alle osservazioni dei fenomeni naturali, alle sperimentazioni scientifiche, agli studi di meccanismi diversi. È a f. 391 recto-b la nota minuta di lettera a Ludovico il Moro ritenuta non autografa ma originale, in cui il Maestro all’atto della sua venuta a Milano illustra le sue capacità nel campo dell’ingegneria militare, dell’artiglieria, dell’architettura e offre i suoi servigi per la modellazione della grande statua onoraria in bronzo di Francesco Sforza: in tutto ciò egli afferma di esser disposto a concorrere e paragone di ogni altro, sia chi vuole”. Molti, anzi in preponderanza sono nel Codice Atlantico i fogli che si riferiscono al soggiorno milanese di Leonardo. Le notazioni di ingegneria idraulica documentano l’importante apporto recato agli studi di canalizzazione dell’agro lombardo iniziati già sotto la signoria viscontea e realizzati, con imprese che hanno del colossale, soltanto allo scorcio del Cinquecento. Nella nobile schiera di valenti progettisti che lo avevano preceduto, da Filippino degli Organi ad Aristotele Fioravanti, Leonardo si inserisce con nuovi ritrovati, come il perfezionamento delle “conche” o con progetti grandiosi, come congiunzione a Milano dell’Adda derivata alla località Tre Corni. Larga parte hanno pure i disegni di macchine belliche (balestre, mitragliere, cannoni a retrocarica) e di fortificazioni militari, i dispositivi nautici, le invenzioni tecnologiche, gli studi di architettura e di cartografia, le esercitazioni grammaticali, incisivi abbozzi di schemi alari per il volo meccanico,profili per medaglie, idee per dipinti, modelli per i monumenti equestri : tutti ingemmano i preziosi foglietti, vari di grafia e di tecnica, raramente spuri, sempre partecipi del favoloso mondo vinciano.

All’interno del Codice troviamo la pianta della città di Milano disegnata da Leonardo,(f.199v, c.1507-10) collocando il centro di Milano nell’esatta posizione oggi occupata dalla Biblioteca Ambrosiana, confermando quanto di recente fu scoperto in seguito agli scavi archeologici: la Biblioteca Ambrosiana sorge sul Foro della Milano Romana, ovvero all’incrocio del cardo e del decumano, le due arterie principali attorno a quali sorgeva l’antica Mediolanum.

A seguito della pedonalizzazione di piazza Pio XI, la Fondazione Federico Borromeo ha svelato alla città di Milano Leonardo Icon, opera ispirata al genio di Leonardo, un tributo agli studi del maestro, con particolare riferimento agli studi della curvità della Terra e sulla teoria delle ombre contenuti nel celebre Codice Atlantico; manoscritto che la biblioteca Ambrosiana mostra al pubblico attraverso un grandioso progetto espositivo che la condurrà fino ad Expo 2015 e per cui, a pieno titolo, ama definirsi “La Casa di Leonardo a Milano”.

Immagine

Commissionata da Giorgio Ricchebuono, Presidente della Fondazione Cardinale Federico Borromeo,e ideata dall’architetto Daniele Libeskind, Leonardo Icon “nasce dall’idea di dare vita alla complessità della mente e delle idee di Leonardo: l’unione tra natura e cultura, arte, scienza e innovazione, una sorta di macchina per l’immaginazione”, ha dichiarato l’artista Libeskind.

La scultura è basata sulla forma geometrica del frattale, più precisamente il” frattale aleatorio”-un concetto di dimensione geometrica presente nel lavoro di da Vinci-che si propone di dare un interpretazione matematica a fenomeni reali dominati dal caso e dal caos. Un frattale è un oggetto geometrico dotato di omotetia interna: si ripete nella sua forma allo stesso modo su scale diverse, dando così nascere ad altre forme geometriche che pur cambiando forma, mantengono la matrice originaria da cui sono evolute.

Per generare un frattale di questo tipo si può cominciare con un triangolo giacente su un piano arbitrario. In Leonardo Icon, questo piano è dato dall’antica pianta della città di Milano, disegnata da Leonardo da Vinci, presente nel Codice Atlantico.

Partendo da un punto medio del triangolo, alzando o abbassando di una quantità scelta, il procedimento è applicato  è ripetuto all’infinito. Leonardo Icon è un’evoluzione che vede l’inizio nell’antica Mediolanum, e attraverso il linguaggio universale della matematica, si sviluppa verso l’infinito, in un gioco continuo dell’immaginazione.Pertanto, quando si disegna concretamente un frattale, ci si può fermare dopo un congruo numero di iterazioni.

All’aumentare del numero delle iterazioni, comincia a formarsi una superficie sempre più ricca di particolari. In questo «metodo dello spostamento dei punti medi», l’entità aleatoria dello spostamento  è retta da una legge di distribuzione che può essere modificata fino ad ottenere una buona approssimazione della superficie di cui si vuol costruire il modello.

Leonardo dunque seppe sfidare la cultura e l’arte del suo tempo con un acume ed una freschezza che, a distanza di secoli, non cessano di conquistare. In questa freschezza, nella ricerca appassionata e libera è, forse,il grande messaggio dell’ uomo Leonardo.

 

 

Bibliografia
Bagni GT., D’Amore (2006). Leonardo e la matematica. Firenze: Giunti.
D’Amore B., Matteuzzi M. (1976). Gli interessi matematici. Venezia: Marsilio.
Marcolongo R. (1937). Studi vinciani. Memorie sulla geometria e la meccanica di Leonardo
da Vinci. Napoli: Stabilimento Industrie Editoriali Meridionali.
Marinoni A. (1982). La matematica di Leonardo da Vinci. Milano: Philips-Arcadia.
Marinoni A. (1986). Introduzione a De divina proporzione. Milano: Silvana.
Nardini B. (2004). Vita di Leonardo. Firenze: Giunti.
Vasari G. (1964). Vite scelte. A cura di A.M. Brizio. Torino: UTET. (Opera originale:
Firenze: Giunti, 1568).

 

 

 

                                                                                                                                                                                                                                       Lucica Bianchi