TALAMONA 7 marzo 2014 presentazione di un libro alla casa Uboldi
NEL LIBRO DI DOMIZIANO LISIGNOLI UNA ARMONICA COMMISTIONE TRA IMMAGINI EVOCATIVE E TESTI PROFONDI
Le mani. Dopo gli occhi sono il nostro primo e più immediato contatto con il Mondo che nel caso di persone affette da cecità diventano ancora più importanti. Le mani inoltre, come ha sottolineato l’assessore alla cultura Simona Duca facendo gli onori di casa “sono un tassello fondamentale della nostra storia evolutiva, sono quello che ci ha permesso di diventare quello che siamo, di virare da una forma scimmiesca verso la civiltà attraverso l’acquisizione della posizione eretta e la possibilità appunto di maneggiare strumenti. Ma le mani sono anche un’importantissima forma di comunicazione che si esprime attraverso la gestualità e, attraverso le impronte digitali determinano la nostra identità: si da il caso infatti che nessuno, nemmeno i gemelli omozigoti, hanno impronte digitali perfettamente identiche” le mani dunque presentano mille sfumature e si rivelano essere le porte su un mondo tutto da scoprire. Un Mondo che Domiziano Lisignoli (fotografo valtellinese titolare di uno studio fotografico apprezzatissimo a Sondrio e specializzato nello stile reportage) ha indagato a fondo. Il risultato di questa sua ricerca è il libro DI MANO IN MANO presentato questa sera alla Casa Uboldi alle ore 20.45. Una location che si è rivelata essere tutt’altro che casuale. L’ultima foto del libro infatti ritrae la mano di una donna malata terminale morta proprio il giorno successivo allo scatto ed è per questo motivo che il signor Lisignoli ha voluto fortemente fare una presentazione del libro a Talamona. Un libro che attraverso le mani, attraverso gesti quotidiani ritratti in bianco e nero con grande efficacia espressiva, racconta la vita stessa dalla nascita alla morte passando per varie fasi. Un libro che nella mente del signor Lisignoli ha cominciato a prendere forma nel 2005 durante un reportage che seguiva da vicino le sale parto. “Volendo cogliere il senso profondo della professione delle ostetriche” ha spiegato Lisignoli “ho capito che il punto focale del mio racconto per immagini avrebbero dovuto essere le mani, lo strumento fondamentale del loro lavoro. Nel 2011 mi sono invece trovato a bordo di un elicottero e anche in quell’occasione mi è venuto d’istinto focalizzarmi sulle mani del pilota, sui suoi gesti mentre guidava il mezzo. È stato allora che ho sentito sorgere in me la volontà di realizzare un reportage tutto incentrato sulle mani che attraverso le mani raccontasse la vita stessa”. Un reportage che questa sera Lisignoli ha raccontato al pubblico in sala attraverso una presentazione digitale delle foto che nel libro compaiono accostate a testi efficaci e di piacevole lettura che questa sera il signor Lisignoli ha cercato di rendere a voce. Punto di partenza della presentazione la foto di copertina: un intreccio di più mani appartenenti a cinque generazioni diverse per evocare un senso di continuità per descrivere la vita che si rinnova continuamente. Da li le mani di tutte le persone che il signor Lisignoli ha potuto incontrare nel corso della sua esperienza, di questo suo viaggio di scoperta a cominciare appunto dalle mani delle ostetriche che decretano l’inizio della vita, passando dalle mani dei bambini che le usano per scoprire il mondo che li circonda, le mani dei ragazzi dei quali si parla spesso e spesso a torto in modo banale, ritratti con le mani intente nell’uso di gadget digitali di ultima generazione, fino ad arrivare a una galleria di gesti quotidiani (scrivere, prendere una tazzina di caffè, la classica stretta di mano) e di attività lavorative e artigianali dove le mani svolgono un ruolo di primo piano: le mani del contadino che semina e raccoglie, le mani di un chirurgo, del pilota dell’elicottero, le mani dei tecnici delle frecce tricolori, le mani che prestano soccorso, le mani del tastierista dei Subsonica, che ha vissuto senza regole per quarant’anni finchè ha deciso di darsi una disciplina attraverso il volo, quelle del macchinista del trenino del Bernina, le mani dei volontari del 118, le mani di un anziano, la mano volutamente sfocata di Finardi che si dichiara ateo con una sua personale concezione di spiritualità. Il tutto per arrivare alla conclusione che è stata anche il punto di partenza di questa serata: le mani alla fine della vita, una foto molto sofferta ad una persona che non ha mai potuto vederla e che dunque il signor Lisignoli ha voluto omaggiare e ricordare presentando il suo libro qui stasera per ringraziarla di aver aderito al suo progetto nonostante la sua sofferenza. Un racconto per immagini che non sono solo da guardare ed ecco perché sono accompagnate anche dal testo scritto. Un libro che attraverso le mani in alcuni scatti da uno sguardo inedito e originale anche sul nostro territorio e le sue attività. Un racconto di vita intriso in qualche modo della vita di tutti coloro che hanno contribuito al progetto (il signor Lisignoli ha voluto ringraziare in modo particolare l’Associazione Siro Mauro e la psicologa dell’Ospis che ricorda con emozione il momento dello scatto alla mano della donna che chiude il libro). Un libro che ritrae nella loro semplicità piccoli gesti e piccoli momenti dell’esistenza proprio per sottolinearne l’importanza troppo spesso sottovalutata: momenti lieti, di contatto, momenti difficili che ci rendono bisognosi di un sostegno, momenti che caratterizzano la nostra vita e quella degli altri, momenti di crescita e momenti di perdita.
Antonella Alemanni con la collaborazione di Sonia Sassella
L’ Africa è una terra straordinariamente affascinante e misteriosa; uno dei modi più belli e piacevoli di apprezzare la cultura, lo spirito e le tradizioni di questo paese è sicuramente conoscere e saper apprezzare le ricette tradizionali, venendo a contatto con sapori ed aromi caratteristici indubbiamente diversi rispetto a quelli normalmente conosciamo.
In Africa, in genere, si mangia da piatti comuni, seduti in cerchio sul pavimento (le donne separate dagli uomini). Buona regola, prima di accomodarsi, è togliersi le scarpe, facendo attenzione a non mostrare la pianta dei piedi, segno di maleducazione. Raramente esistono le posate: occorre prelevare il cibo con la mano, facendo attenzione a prenderne le giuste porzioni. Non bisogna abbuffarsi con avidità e occorre lasciare un po’ di cibo nella ciotola per mostrare al padrone di casa che si è mangiato a sufficienza. Prima e dopo il pranzo viene offerta all’ospite una brocca con un po’ di acqua: non va bevuta, ma usata per lavarsi le mani.
Nella tradizione africana il cibo rappresenta un momento magico, di pace ed armonia con i commensali, un evento sacro e contemporaneamente di allegria e profonda unione.
I piatti tipici della cucina africana sono estremamente ricchi e fantasiosi, si caratterizzano per gli intensi profumi ed i sapori forti e decisi grazie al grande utilizzo di spezie ed erbe aromatiche, quali cannella, chiodi di garofano, pepe, zenzero, curcuma,coriandolo, cumino curry, paprika e molte altre. Quest’ultime sono il simbolo e la caratteristica che rende unica l’isola di Zanzibar, la più grande di un arcipelago situato nell’Oceano Indiano, a pochi chilometri dalla costa della Tanzania, in Africa orientale. Quest’isola era già nota nell’antichità come “isola delle spezie”, in quanto nel mondo antico erano considerate prodotti pregiati e preziosi, tanto da costituire il motivo principale per l’apertura di nuove rotte e canali per favorire gli scambi commerciali. Spesso si pensa che il nome “Zanzibar” derivi dalla parola “zenzero”, in realtà si deve molto probabilmente a Zangi-bar, che nella lingua dell’antica Persia significava “terra dei neri”.
I piatti tipici sono diversi da regione a regione, per questo motivo quando si parla di cucina si può dividere l’Africa in quattro zone:Africa orientale, occidentale, settentrionale e meridionale .
AFRICA ORIENTALE
Questa zona comprende Kenya, Tanzania, Uganda e Zanzibar: qui, la cucina è caratterizzata da una commistione di sapori e contaminazioni provenienti da diverse parti del mondo. Si cucinano diverse carni e prodotti ittici, tra le spezie c’è un uso abbondante di vaniglia, ma anche di chiodi di garofano, zenzero, cannella e noci moscate. E’ di forte influenza la cucina araba, a seguito di numerose colonizzazioni; si possono inoltre osservare anche contaminazioni della dieta mediterranea, in particolare della cucina italiana. E’ inoltre molto diffuso il consumo di frutta tropicale, utilizzata per la preparazione di succhi di frutta, liquori, dolci, come torte di banane, cocco e ananas.
AFRICA OCCIDENTALE
Fanno parte di questa fascia Mauritania, Mali, Niger, Chad, Senegal, Gambia, Guinea-Bissau, Sierra Leone, Liberia, Guinea,Costa d’Avorio, Ghana,Togo,Benin, Nigeria e Burkina Faso.La tradizione culinaria dell’Africa occidentale è legata a pochi elementi base, come la manioca, il miglio e le spezie, e all’uso di salse di condimento che, a seconda dei Paesi, sono più o meno piccanti. Dai contatti con il mondo arabo, la cucina africana occidentale ha ereditato il riso e la cannella, due ingredienti caratteristici molto usati, e certamente il cuscus, uno dei più famosi e tipici piatti africani. In questa zona il clima è particolarmente adatta alla coltivazione di cereali, come il grano,da cui deriva la semola di grano duro, ingrediente base di questo piatto. Dalla sua lavorazione si ottengono dei chicchi, che dopo essere cotti a vapore vengono conditi con verdure bollite, carne di montone, agnello e pollo e, in alcuni casi anche il pesce, a seconda delle zone. Il cuscus è preparato e apprezzato anche oltre i confini dell’Africa occidentale, come in Egitto e nel vicino oriente, anche se la sua vera “casa” è il Maghreb, dove rappresenta un elemento di unione tra le varie popolazioni che vi convivono.
AFRICA SETTENTRIONALE
Fanno parte di questa categoria l’Algeria, l’Egitto, la Liberia, il Marocco e il Sudan. La cucina dell’Africa settentrionale è molto antica, anche in questo caso, comunque le contaminazioni sono tante e sono dovute ai contatti con i popoli che si sono succeduti in quest’area. Gli ingredienti usati comunemente sono patate, pomodori, molte verdure e una vasta varietà di spezie, sopratutto la menta.Poiché la maggior parte della popolazione è musulmana si consuma solo carne halal.
AFRICA MERIDIONALE
Questa zona comprende Sud Africa,Botswana,Namibia,Mozambico,Zimbabwe,Zambia e Malawi. Questa cucina viene talvolta soprannominata “cucina arcobaleno” per la sua varietà di influenze provenienti da culture e da popoli diversi, a partire dagli indigeni africani per arrivare agli europei e agli asiatici Ne è derivata una cucina complessa e ricca. Gli ingredienti di base sono prodotti ittici, tutte le carni, frutta e verdura,grano e i suoi derivati.
Accostarsi alla cucina africana diventa pertanto un gesto altamente culturale, una modalità immediata e simpatica per conoscere e allargare la comunione.
Marta Francesca Spini,
studentessa scuola secondaria di primo grado
Il Faro di Alessandria, considerato una delle sette meraviglie del mondo antico non che una delle realizzazioni più avanzate ed efficaci della tecnologia ellenistica, fu costruito sull’isola di Pharos, di fronte al porto di Alessandria d’Egitto, negli anni tra il 300 a.C. e il 280 a.C. e rimase funzionante fino al XIV secolo, quando venne distrutto da due terremoti.
STORIA
Intorno al 334 a.C. Alessandro, re di Macedonia, conquistò l’Egitto, ove fondò la città di Alessandria seguendo un ‘idea da lui concepita ad imitazione di Babilonia, antica città mesopotamica. Alessandria diverrà la più grande città del mondo per tre secoli arrivando a contare un milione di abitanti con un suo museo,un giardino botanico e uno zoologico e con una biblioteca con più di 700.000 volumi. Una diga in mattoni, lunga oltre un chilometro, univa l’isola di Pharos, posta di fronte alla città, alla terra ferma, formando due golfi, uno militare e uno mercantile. Oggi ne restano soltanto qualche vestigio.
Il Faro fu fatto costruire da Sostrato di Cnido, un mercante greco. Il progetto, cominciato da Tolomeo I Sotere, all’inizio del proprio regno, venne concluso dal figlio Tolomeo II Filadelfo.
Lo scopo dell’imponente opera era aumentare la sicurezza del traffico marittimo in entrata e in uscita, reso pericoloso dai numerosi banchi di sabbia nei tratti di mare del porto di Alessandria e dall’assenza di rilievi olografici. Esso consentiva di segnalare la posizione del porto alle navi, di giorno mediante degli speciali specchi di bronzo lucidato che riflettevano la luce del sole fino al largo, mentre di notte venivano accesi dei fuochi. Si stima che la torre fosse alta 134 metri, una delle più alte costruzioni esistenti all’epoca, e secondo la testimonianza dello storico Giuseppe Flavio poteva essere visto a 48 chilometri di distanza (cioè fino al limite consentito dalla sua altezza e dalla curvatura della superficie terrestre).
Il Faro era costituito da un alto basamento quadrangolare, che ospitava le stanze degli addetti e le rampe per il trasporto del combustibile. A questo si sovrapponeva una torre ottagonale e quindi una costruzione cilindrica sormontata da una statua di Zeus o Poseidone, più tardi sostituita da quella di Helios.
Ai navigatori la fiamma del Faro vista isolata e alta sull’orizzonte come una stella,sembrava l’apparizione della divinità protettrice. Assai presto si diffuse nel mondo antico la fama della torre luminosa nel porto della città di Alessandria!
Due monete dell’epoca romana con raffigurazioni di fari: nella moneta che si trova a sinistra, risalente ad Antonino Pio, lo troviamo posizionato sulla destra; nell’altra moneta, di Domiziano, è raffigurato il faro di Alessandria.
A d eccezione della piramide di Cheope, il Faro fu la più longeva delle sette meraviglie del mondo antico. Rimase in funzione per sedici secoli, fino a quando nel 1303 e nel 1323 due terremoti lo danneggiarono irreparabilmente.
Dal nome dell’isola Pharos ebbe etimologicamente origine il nome “faro”, che verrà poi ereditato da tutte le successive torri luminose all’ingresso dei porti.
Ad Alessandria la memoria del Faro è mantenuta viva da una scultura moderna in marmo bianco che accoglie i turisti che entrano a visitare la città.
Marta Francesca Spini, studentessa scuola secondaria di primo grado
Alcuni studiosi l’hanno identificata con Sela,che significa “roccia”, una città menzionata nell’Antico Testamento,in cui si legge che fu la capitale del regno di Edom. Stiamo parlando della città di Petra, soprannominata anche la Città delle Tombe, fondata nel IV a.C. e colonizzata dai romani nel 106 d.C., durante la reggenza dell’imperatore Traiano.
Petra è l’unica città al mondo ad essere stata completamente scavata nella roccia e i beduini del deserto sostengono che durante la fuga dall’Egitto, Mosè vi si fermò con il suo popolo. L’eco di questa vicenda a metà strada tra la tradizione e il mito, risuona ancora oggi nel nome del fiume Wadi Musa (“Torrente di Mosè”) che un tempo scorreva in questa zona.
Nei dintorni della Città Rossa sono stati rinvenuti antichissimi reperti risalenti al Paleolitico ed al Neolitico (10.000-5.000 a.C.) mentre gli scavi archeologici effettuati a Petra hanno portato alla luce resti di insediamenti attribuiti agli Edomiti, popolazione che, a partire dal II millennio a.C., si stabilì in questa zona.
I Nabatei, un’etnia semitica originaria del deserto e dedita al nomadismo, arrivarono nel sud della Giordania, dell’Arabia, tra il VI e IV secolo a.C., stabilendosi nel paese di Edom e cacciando, nel 500 a.C. gli Edomiti della Città delle Tombe.
Durante il periodo Ellenistico e Romano, Petra fu la capitale del regno dei Nabatei, che fecero di questa città uno dei principali snodi del traffico viario commerciale del Medio Oriente, uno strategico crocevia di antiche vie carovaniere lungo le quali gli aromi della penisola arabica, la seta cinese, le spezie indiane e l’incenso venivano trasportati dal sud dell’ Arabia verso la Palestina, i paesi che si affacciavano sul Mar Mediterraneo, l’Egitto e la Siria.
I Nabatei resistettero eroicamente agli attacchi del generale greco Antigono nel 312 a.C. e sotto il re Areta III, estesero la propria egemonia fino a Damasco, l’odierna capitale della Siria.
Nel 363 d.C., in epoca bizantina, la Città delle Tombe fu quasi completamente distrutta da un violento terremoto, a seguito del quale iniziò a perdere sempre più importanza. Riacquistò un certo lustro durante le campagne militari europee in Terra Santa, periodo in cui i cavalieri crociati vi eressero ben tre forti.
L’ultimo personaggio storico a visitare Petra, prima che cadesse nell’oblio per quasi sei secoli, fu il sultano mamelucco Baybars, che vi si recò nel 1276 durante un viaggio verso Karak, dopo di che venne riscoperta, nella primavera del 1812, dall’audace viaggiatore ed esploratore anglo-svizzero Johann Ludwig Burckhardt (1784-1817).
I resoconti di Burckhardt sulla riscoperta di Petra furono resi di dominio pubblico nel 1822, suscitando grande interesse e curiosità in tutta l’Europa.
Gli archeologi non sono ancora riusciti a stabilire esattamente quale fosse la natura di quest’opera; alcuni studiosi ipotizzano che fosse una tomba, altri un tempio, altri ancora una sorta di forziere.
Uno degli interrogativi più intriganti della città di Petra consiste nel declino della civiltà che l’ha resa così florida e nel suo improvviso spopolamento, un mistero che molti storici ed archeologi hanno tentato e stanno tutt’ora tentando di svelare ma che sembra resistere al tempo ed alla scienza.
Secondo l’architetto Pietro Laureano, incaricato dalla monarchia giordana di sviluppare un piano per restaurare e preservare i monumenti di Petra, il crollo della civiltà nabatea e l’abbandono della Città Rossa da parte dei suoi abitanti, è dovuto principalmente ad un fattore di ordine economico, per la precisione, ad una diminuita richiesta di incenso e seta, due dei principali prodotti commerciati a Petra ed al fatto che le carovane deviarono a favore di altre rotte, dai percorsi originari che un tempo portavano alla città di Petra.
Gli ultimi abitanti di Petra, dopo il periodo bizantino e l’epoca dei crociati, erano piuttosto inclini al nomadismo e gradualmente abbandonarono la città; con lo spopolamento le condizioni economiche peggiorarono ulteriormente, portando al declino strutturale di tutta la città.
Marta Francesca Spini,
studentessa scuola secondaria di primo grado.
LA CULTURA TEATRALE IN DIALETTO LOCALE
MORBEGNO 7 marzo 2014 spettacolo teatrale all’auditorium di piazza S. Antonio
IL RITORNO DELLA COMPAGNIA FIL DE FER DA DUBINO CON UNA NUOVA DIVERTENTE COMMEDIA DIALETTALE ISPIRATA ALLA QUOTIDIANITA’
Molto spesso si sente dire che ci si accorge del valore di cio che abbiamo e delle persone che ci accompagnano nel corso della nostra vita soltanto quando le perdiamo. Ed è da questo spunto che prende l’avvio la commedia dialettale PAR VES CUNSIDERAA’ BISOGNA PROPI CREPA’ proposta dalla compagnia FIL DE FER di Dubino questa sera alle ore 21 all’auditorium di Morbegno. Una commedia che racconta la quotidianità di una coppia normale composta da Arturo e Lucrezia alle prese con le loro beghe coniugali, le continue incursioni della madre di Lucrezia che non fa alcun mistero di non sopportare suo genero e la vicina strampalata da poco vedova che crede di essere in qualche modo perseguitata dallo spirito del marito defunto. Una situazione che il povero Arturo mal sopporta al punto che un giorno, con la complicità dell’amico medico Giacomo, escogita un piano ardito: fingersi morto sperando in questo modo di suscitare dei sensi di colpa nella moglie e nella terribile suocera. Questa messa in scena darà avvio ad una sequela di situazioni sempre più esilaranti e alla comparsa di personaggi sempre più strampalati che visitano la casa dei nostri: l’ispettore dell’assicurazione sulla vita che Arturo ha stipulato, accorso per sondare una situazione a suo avviso poco pulita; la portinaia che apre la posta; la presidentessa dell’associazione delle vedove combattenti che lottano per cremare i loro mariti in modo da averli sempre vicini e vuol convincere anche Lucrezia a cremare Arturo; la becchina che vuole fare un clistere ad Arturo il quale troverà il modo di cacciarla via; la vicina di casa strampalata che ritorna in preda di uno dei suoi deliri e si trova faccia a faccia con Arturo vivo e in piedi che ha approfittato di un momento di solitudine per alzarsi a prendere qualcosa da mangiare; Leo, titolare di un negozio di scarpe col quale Lucrezia, che ha fiutato l’inganno del marito, finge di avere una tresca; l’immancabile suocera che non si dimostra affatto dispiaciuta della dipartita di Arturo e avrà alla fine una brutta sorpresa; infine l’amico Giacomo complice dell’inganno che per tutta la durata dello scherzo starà sempre sul chi vive ma alla fine troverà l’amore nella persona della presidentessa delle vedove combattenti, amore che alla fine tornerà a trionfare anche tra Lucrezia e Arturo, il quale non potrà fare a meno di concludere che “Par ves cunsideraà bisogna propi crepà”. Una commedia recitata con grande brio e che ha divertito molto il pubblico in sala, uno spettacolo organizzato a favore del GFB ONLUS un’associazione di genitori di bambini affetti da una rara forma di distrofia muscolare, la beta-sarcoglicanopatia, poco conosciuta e studiata e della quale nessuno parla, motivo per cui la signora Beatrice Vola, fondatrice nonché presidente del GFB ONLUS che ha due figli affetti da questa malattia, ha creato un sito Internet che potesse proporsi come punto di riferimento mondiale per i malati (50 in Italia e 350 in tutto il Mondo) e le loro famiglie e lo scorso anno è riuscita ad organizzare il primo convegno che facesse il punto sulla ricerca, una ricerca che sta dando ottimi risultati che fanno ben sperare tutti coloro che sono affetti da questa patologia, rarissima ma, a differenza delle altre forme di distrofia muscolare, potenzialmente curabile a patto però di poter disporre di tutti i fondi e gli strumenti necessari. È stata la stessa Beatrice Vola supportata dall’assessore alla cultura del comune di Morbegno, Cristina Ferrè, e dalla ricercatrice Paola Bonetti, a spiegare tutte queste cose durante l’intervallo tra un atto e l’altro e ad informare il pubblico in sala che si può destinare una quota del 5×1000 a questa associazione che svolge un lavoro importantissimo “soprattutto mettendo in comunicazione il mondo spesso asettico della ricerca in laboratorio con quello delle persone che sperano nella ricerca per uscire da situazioni drammatiche di malattia, due mondi che molto spesso, a torto, restano distanti e non si parlano” come ha sottolineato la ricercatrice Bonetti. Il risultato è stato, per dirlo con le parole dell’assessore Ferrè “una serata che coniuga il divertimento, il teatro e quindi la cultura, all’impegno sociale”.
Antonella Alemanni
Galleria foto manifestazione
TALAMONA 8 marzo 2014 spettacolo al teatro dell’oratorio
LA PAGURA LE SICURA LA SICUREZZA MAI (dialetto talamonese)
“La paura è sicura, la sicurezza mai”
UNA COMMEDIA DIALETTALE IN TRE ATTI CHE RACCONTA CON IRONIA TEMI DI ATTUALITA’
È possibile raccontare un dramma molto attuale come i frequenti furti nelle case attraverso il registro della commedia brillante? È quello che hanno provato a fare questa sera alle ore 21 al piccolo teatro dell’oratorio gli ATTORI PER CASO della compagnia di Andalo Valtellino proponendo lo spettacolo in tre atti intitolato LA PAGURA LE SICURA LA SICUREZZA MAI che narra le vicende della famiglia Sciopa: il padre Bruno, la madre Ida e le due figlie Elena e Luigina. Tutto comincia quando una sera i coniugi Sciopa, rientrando tardi a casa dopo aver festeggiato l’anniversario di matrimonio, la trovano svaligiata e vanno a finire di aggredire i loro due amici, accorsi alla chetichella con le figlie per organizzare una festicciola a sorpresa, scambiandoli per i ladri ritornati sui loro passi. È l’inizio di un cambiamento nella vita della famiglia soprattutto del padre Bruno che si fa sempre più ossessionato dalla sicurezza al punto di prendere, anche consigliato dall’amico, delle misure ben precise come montare un impianto antifurto all’avanguardia, prendere contatti con la compagnia assicurativa contro i furti cui si è affidato l’amico e pagare il maresciallo svitato del paese affinché tenga tutto maggiormente sotto controllo e talmente diffidente da sospettare che il ladro sia nientemeno che l’amico della sua figlia maggiore Elena (che poi si scoprirà, durante una scena intrisa di esilaranti equivoci e qualche doppio senso essere più che un amico), nonché il pretesto per eventi che rompono il tran- tran quotidiano come la visita degli operatori di Teleunica per un’intervista e l’iniziativa di Bruno di coinvolgere la moglie in un corso di autodifesa autogestito fino alla risoluzione finale con qualche colpo di scena come la scoperta dei veri ladri e l’annuncio che la figlia Elena aspetta un figlio da quello che si rivela essere non il suo amico, ma il suo ragazzo.
Dopo l’esordio dello scorso anno la compagnia ATTORI PER CASO di Andalo Valtellino ritorna quest’anno con un’altra commedia dalla comicità un po’ contenuta e qualche svarione (durante il primo atto si dice che il luogo dove è ambientata la Storia è Andalo poi nei due atti successivi si fa riferimento a Talamona) nonché dal fatto che gli attori danno vita a personaggi un po’ stereotipati che non si distinguono molto da quelli della commedia precedente soprattutto i personaggi dei due coniugi: da una commedia all’altra cambiano i nomi ma non il fatto che lui è un marito ancora dopo molti anni totalmente innamorato e attratto dalla moglie la quale dal canto suo si dimostra più rude e distaccata. Nonostante queste piccole pecche e una comicità un po’ meno brillante e briosa rispetto a quella di altre compagnie che si sono viste la commedia riesce comunque a regalare una serata di divertimento se non fosse che nel seguire la vicenda lo spettatore si potrebbe chiedere: potrei trovare anch’io la mia casa svaligiata quando torno?
Antonella Alemanni