GIOVEDI’ LETTERARI IN BIBLIOTECA

TALAMONA per due giovedì di febbraio e due di marzo

 

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QUATTRO INCONTRI ALLA SCOPERTA DEGLI AUTORI VALTELLINESI E DELLE LORO OPERE di Antonella Alemanni

In principio erano i focolari dove gruppi di uomini si trovavano per raccontarsi le giornate, fatte prevalentemente di battute di caccia. Poi sono venuti i simposi greci, i banchetti romani, le corti del medioevo e del rinascimento e più avanti i salotti e i caffè mentre nei contesti contadini per secoli e secoli si è avuta la realtà delle veglie con tutti che stavano nelle stalle a raccontarsi le storie e la vita. La casa Uboldi si propone come una particolarissima sintesi di tutte queste realtà, ne evoca gli echi di serata in serata, di evento in evento durante i quali si è parlato di tutto. Dall’ arte alla memoria storica, dagli sport di montagna ai viaggi, disquisizioni religiose e persino lezioni di astronomia oltre naturalmente la letteratura. Siamo pur sempre in una biblioteca e la biblioteca è fatta in primo luogo di libri da presentare, commentare, condividere, libri di cui discutere con chi li ha scritti per arricchirsi e aprire nuovi orizzonti, nuovi percorsi. È con questo spirito che il gruppo dei volontari della biblioteca ha voluto proporre questo ciclo di serate denominate GIOVEDI’ LETTERARI che ricordano anche nella dicitura un sapore di altri tempi quando animare salotti era una sorta di moda, un fenomeno di costume cui chi voleva essere dentro lo spirito del tempo doveva attenersi (pare che anche Margherita di Savoia quando stava al Quirinale organizzasse in casa sua degli eventi, dei salotti culturali che in tutta Roma erano diventati famosi proprio con la dicitura di giovedì letterari). Ed è così che a partire da giovedì 4 febbraio, un giovedì si e uno no fino al 17 marzo, ci si è ritrovati alle 20.30 per dare spazio e voce a quattro autori che attraverso racconti, poesie e riflessioni vogliono proporre ciascuno la propria personale visione del Mondo.

 

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IL GHETTO DELLE FARFALLE

 

TALAMONA 29 gennaio 2016 si ricorda la Shoah con un libro

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IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DELLA MEMORIA L’ISTITUTO GIOVANNI GAVAZZENI PRESENTA UNA RAPPRESENTAZIONE DI PAROLE E MUSICHE DAL GHETTO DI TEREZIN

Un progetto preparato nelle scorse settimane dai ragazzi di terza dell’Istituto Comprensivo Giovanni Gavazzeni. Per essere pronti, come ogni anno, ad onorare la giornata della memoria, in questa occasione i ragazzi hanno analizzato un libro, intitolato LA REPUBBLICA DELLE FARFALLE che parla di un gruppo di bambini costretti a vivere rinchiusi nel ghetto di Terezin. Un libro scritto da Matteo Corradini, nato nel 1975 che per ripercorrere il filo della memoria si è basato su documenti ufficiali.

Sono gli stessi ragazzi che hanno presentato con queste parole il lavoro svolto da cui è scaturita questa serata ricca di memorie, riflessioni (e di pubblico) scandita da brani musicali suonati dai ragazzi stessi, da cartelloni che gli stessi ragazzi hanno descritto, da ricerche storiche che a turno i ragazzi hanno esposto e da letture dei brani del libro in esame dai quali emergono storie emotivamente forti di amicizia e vita in comune in situazioni estreme, una vita scandita da una sola e unica parola d’ordine: resistenza. Resistenza per ritagliarsi una parvenza di vita normale anche di fronte agli orrori che si palesano sempre più evidenti (attraverso ad esempio il pessimo cibo che viene fornito ai ragazzini, il fatto di dover vivere lontano dai propri affetti familiari, ma ancor più dalle strane grida di un gruppo di bambini che, a un certo punto, ai nostri giovani protagonisti, appaiono un po’ troppo spaventati da una semplice doccia, una stranezza che presto, loro malgrado, giungeranno infine a comprendere); resistenza per l’appunto attraverso le forti amicizie che vanno creandosi; resistenza attraverso le attività che i ragazzini cercano di mantenere, di traslare in questa nuova vita dalla vita di prima: resistenza disegnando, scrivendo, facendo i compiti, tenendo persino una sorta di giornalino cui tutti collaborano; resistenza aggrappandosi a cose che in circostanze normali verrebbero date per scontate come il suono di una mela che scrocchia sotto i denti. Tutto questo emerge dalle pagine di questo libro. La vita che cerca sempre in ogni modo di trovare una strada, di compiersi. Ed è esattamente questo che i ragazzi coordinati dalla professoressa Simona Duca (che però stasera non ha quasi avuto bisogno di intervenire, tanto i ragazzi se la cavavano), hanno tratto dalla lettura del libro e hanno trasmesso stasera in ogni modo. Ecco perché un ingrediente fondamentale di tutto il lavoro è stata la musica (che avrebbe dovuto essere coordinata dal professor Riccardo Camero, purtroppo assente), la musica come simbolo della vita che trionfa sulla morte, del bene che trionfa sul male, della bellezza che resiste contro chi la vuole cancellare. Il messaggio più importante che si vuole trasmettere con queste rievocazioni (oltre naturalmente alla memoria storica degli eventi in sé) credo sia proprio questo: la forza di ricercare la bellezza nelle cose e nella vita pur trovandosi di fronte all’orrore, al peggio del peggio della natura umana.

Antonella Alemanni

 

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VALTELLINA NEL PARADISO DELLO SCIALPINISMO

TALAMONA 18 dicembre 2015 con Beno alla scoperta delle montagne

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RACCONTI, AVVENTURE E IMMAGINI COME UN DOCUMENTARIO IN PRESA DIRETTA

Le montagne sono le cattedrali della terra. con i loro portali di roccia, i mosaici di nubi, i colori dei torrenti e gli altari di neve. Così Lucica Bianchi, assessore alla cultura nel presentare questa serata dedicata appunto alle montagne, un discorso che riprende in parte le parole del comunicato stampa preventivamente diffuso per annunciare la serata medesima, permettendo così a tutti gli appassionati di montagna di poter trovare spazio e momenti di condivisione nell’ascoltare i racconti di Beno, Enrico Benedetti, classe 1979, una laurea in ingegneria elettrica e una sconfinata passione per la montagna alla quale ha dedicato tutte le sue energie attraverso molteplici attività: alpinista, corridore, pastore, scrittore, fotografo, divulgatore ed editore di libri e pubblicazioni sul territorio alpino valtellinese e sulla sua cultura fra cui, sopra tutti, la rivista trimestrale LE MONTAGNE DIVERTENTI, nata nel 2007. Ma è sulla sua attività di fotografo che Beno tende a dare un maggiore accento raccontandola così: “La mia fotografia va di pari passo con il mio modo d’andare in montagna, senza badare alla lunghezza degli avvicinamenti o all’isolamento dei luoghi, e si distingue per scatti in ambienti severi: dalle vette delle montagne, alle creste o alle pareti anche nelle condizioni meteo più strane.”  Una serata per approfondire la conoscenza delle nostre montagne durante la quale si è parlato di scialpinismo in occasione dell’apertura della stagione ed è stato presentato il libro ALPI SELVAGGE che racconta l’arco alpino a tutto tondo. Una serata che ha preso il via a partire dalle ore 20.30 alla Casa Uboldi e che è stata ben accolta anche dal sindaco Fabrizio Trivella che questa sera, come lui stesso ha detto nel suo intervento di saluto, non è intervenuto alla serata in veste di amministratore, ma in veste di sciatore, di sci alpinista amatoriale “scio fin da bambino cominciando con la discesa e finendo per convertirmi allo scialpinismo, un modo più spirituale di vivere la montagna. Riguardo a questa serata non si può che apprezzare l’operato dell’assessore Bianchi che accanto a tematiche legate all’arte e alla cultura alta riesce anche a proporre serate come queste, tematiche più godibili da un maggior numero di persone” che infatti riempivano la sala “difficilmente nell’organizzare le nostre serate abbiamo riempito la sala come questa sera” ha osservato ancora il sindaco “dunque significa che il tema è davvero stimolante per tutti”.

A questo punto ha preso la parola Beno stesso cominciando a introdurre il suo racconto “questo doveva essere un incontro di presentazione del libro ALPI SELVAGGE, ma ho pensato di non fare una presentazione classica, di non presentare il libro sempre nello stesso modo e così ho pensato di proporre come corollario una serata sullo scialpinismo per riuscire a vedere un po’ di neve a dicembre quest’anno”.

Il racconto di Beno è cominciato dalla fine si può dire, con una prima presentazione dedicata alle gite da lui effettuate in montagna proprio quest’anno con immagini realizzate in modo anche un po’ grezzo, perché, come lo stesso Beno ha puntualizzato “in montagna si pensa più a sciare che a girare delle immagini”. Ed ecco ora il suo racconto.

La Valtellina secondo me è il paradiso dello scialpinismo perché per il 90% le montagne valtellinesi sono completamente sconosciute e quindi si riesce ancora a fare esplorazione ed è quasi un lusso poter dire questo a 100 km da Milano. Quel che mi piace fare quando vado in montagna è proprio questo, esplorare, conoscere. È molto raro incontrare altre persone durante queste escursioni. La Valtellina, rispetto ad altre zone alpine dove ho viaggiato, ha la splendida particolarità di avere in pochissimo spazio tantissime valli e tantissime montagne, se pensiamo ad esempio alle Dolomiti c’è una singola montagna che la vedi a chilometri di distanza. Qui ci sono montagne con distese infinite di valli. Una volta salita una montagna viene la frenesia di andare alla scoperta delle altre, capire se si può sciare. Le mie escursioni sono spesso il risultato di anni e anni di preparazione e di osservazioni. Bisogna tornare nello stesso posto più e più volte prima di pianificare precisamente l’escursione vera e propria. Il tempo non è buono oppure non si ha tempo, bisogna che questi due elementi vengano a coincidere, bisogna che nevichi per andare a sciare. Per questo ci sono annate buone in cui cadono fino a due metri di neve, come due anni fa e annate meno buone piene di notti serene, che se per tutti sono una gioia, per uno sci alpinista sono un incubo.

Il racconto di Beno era accompagnato sia dalle immagini che dalla musica, sottofondi di musica pop rock a sottolineare la versatilità delle sue passioni.

Finalmente a febbraio di un anno caratterizzato da notti serene e da spolverate (il 2013) il tempo è cambiato. Una bella nevicata consente di partire per un’altrettanta bella gita. Le prime nevicate possono essere pericolose per il rischio valanghe, ma i veri sci alpinisti non le evitano perché per chi ha questa passione sono i momenti migliori.

Le gite classiche

Queste escursioni sono molto diverse dalle gite classiche che possono venire in mente più facilmente a tutti e dunque fanno si che i luoghi siano piuttosto affollati. Un luogo per una gita classica può essere ad esempio Cima Piazzi scendendo da passo del Foscagno che richiede abilità sciistiche di base. Non è un luogo in realtà così frequentato, non è molto facile da trovare, ma è comunque una delle gite più classiche e famose. Un’altra meta classica è punta Cadini che siccome ha poco dislivello quando viene aperta la strada in aprile è trafficata come al supermercato, come in città all’ora di punta. I giorni migliori per godersi questa gita sono quelli infrasettimanali in periodi in cui ha nevicato da poco così da non trovarsi tutti insieme così come accade in val Tartano dove tutti si ritrovano sui medesimi percorsi. Le gite sono bellissime però dover fare la fila anche in montagna non è molto emozionante. In Val Masino poca gente esce dai soliti percorsi montani del Sasso Moro appena sopra gli impianti sciistici di Palù, oppure Pizzo Scalino che conta sulla cima almeno settecento persone di domenica. Da pizzo Scalino la cima regala una splendida vista sulla val di Togna e la val Fontana, due posti eccezionali per chi ama lo sci. Le due cime che ritengo più interessanti sono quelle accanto a pizzo Scalino. Bisogna andarci esplorarle e conoscerle partendo da zero perché non si sa nemmeno come salire, come trovare un percorso, bisogna procedere per tentativi ed errori, riorganizzare più volte. Comunque ne vale la pena.

A questo punto Beno ha presentato due discese da lui effettuate in val Fontana. Nel suo archivio Beno ha i ricordi, le immagini di almeno seicento gite di scialpinismo. Per stasera ha scelto di portare quelle di sci ripido.

La val Fontana è composta da una sfilza di montagne sul cui fondo si intravede Talamona, dunque dalla statale si può intravedere un piccolo brandello di val Fontana. Dal 2004 ho cominciato a pianificare la mia esplorazione della val Fontana, di tutte le cime che vi si trovano. Alcune sembrano appetibili per lo sci, altre, come la vetta di Ron, sembrano totalmente repulsive, però a questa montagna che guarda direttamente il fondovalle valtellinese c’ero particolarmente affezionato allora ho cominciato a condurre i miei tentativi nei modi più strampalati. Nel 2004 decido di voler salire in invernale. Per quanto riguarda l’attrezzatura ero ancora agli albori, equipaggiamento molto artigianale, arrangiato. A cavallo del periodo di Natale il primo giorno affondando nella neve ho battuto traccia fino all’altitudine di 2008 e il giorno dopo sfruttando questa traccia sono salito fino a 3050 raggiungendo quasi la vetta mentre stava scendendo la notte, il che mi ha costretto a tornare indietro. Questi posti sono caratterizzati da pendii adatti più ai camosci che alle persone, ma non ho proprio potuto fare a meno di tornarci nel 2006 col mio amico Matteo approfittando di una splendida nevicata da un metro a novembre. Sulle guide turistiche le informazioni relative alla cima di Ron per quanto riguarda i consigli per escursionisti e sciatori recano “assolutamente da evitare con neve” e questo mi attraeva particolarmente, come una sfida che dovevo assolutamente vincere. In realtà poi questa salita non offriva particolari problemi tranne che per il fatto che era stretta. Dapprima a novembre con Matteo e poi il 26 dicembre da solo per la mia discesa con gli sci. Dopo la val Fontana un’altra montagna che volevo assolutamente sciare era pizzo Calino perché è una montagna strana a forma di tronco di piramide, con la punta piatta grande come un campo di calcio, ricorda un po’ il cratere di un vulcano, come se questo monte fosse un po’ il Vesuvio valtellinese. Credevo di poter scendere questa montagna con gli sci perché la via normale che sale dallo spigolo di destra non ha grandi pendenze soprattutto in presenza di molta neve, però bisognava studiare e aspettare le condizioni ottimali. Ho studiato e osservato dal 2005 al 2008 poi nel 2008 nei giorni di Natale non c’è neve per tre giorni. Cio vuol dire che sulla montagna c’è la giusta quantità di neve senza cornici, le condizioni ideali. Ho fatto la mia escursione il giorno stesso di Natale del 2008 seguita dalla discesa con gli sci lungo il pendio accompagnato da un gruppo di camosci sulla cresta montuosa. Quel giorno ero da solo arrivo al punto dove si lascia la macchina e mi ritrovo impantanato rischiando che salti tutto. Fortunatamente incontro un cacciatore che mi ha aiutato con la macchina poi ognuno è andato per i fatti suoi finchè alla sera ci siamo ritrovati nello stesso momento e nello stesso punto dopo che ho disceso in sciata continua più di duemila metri di dislivello. Di fronte al Calino c’è il monte Combolo. Chi guarda questo monte da Ponte in Valtellina dopo le prime nevicate afferma di vedere sulla parete il volto della Madonna che rende il monte famoso ai credenti del luogo, mentre i non credenti nello stesso punto ci vedono Madonna la cantante. Questa montagna di per sé non è difficile da sciare però ha dovuto aspettare tanti anni perché è pericolosissima per le valanghe. Dalla cima c’è tutto un pendio che scende a quaranta gradi immettendosi in una valle sempre più stretta che infondo diventa un canyon. La pala sud della montagna esposta al sole tende facilmente a scaldarsi e a creare valanghe che scendono fino a valle spazzando via tutto sul loro cammino. Ci sono poche piante disposte a ciuffettini qua e là. A gennaio di due anni fa col mio amico Giovanni abbiamo trovato le condizioni ideali per la gita sognata da tempo, una arrampicata sul pendio seguita da discesa libera con sci. Alla salita vera e propria, il 25 gennaio, è preceduta due giorni prima una salita preliminare per studiare le condizioni della neve. Gli ultimi metri prima della vetta erano più scivolosi a causa del vento che ha fatto ghiacciare la neve. Il mio amico era particolarmente in forma e mi distanziava spesso. Salendo si intravedevano le piste dell’Aprica. Dalla cima si poteva poi intravedere il gruppo del Bernina. La maggiore difficoltà in alto sono le rocce nascoste sotto la neve poi il bello comincia dopo i primi 100 m. una delle più belle emozioni quando si condivide una salita con gli sci è, tanto per citare una frase di un altro mio amico Pietro, arrivare sulla cima per stringere la mano al compagno, come simbolo appunto della condivisione dello sforzo. Un’altra montagna che mi ha fatto dannare è la corna Brutana che si trova nel comune di Tresivio ed è la sua cima più alta che si affaccia sulla Valtellina e si trova vicino alla vetta di Ron e presenta a sud una parete che può sembrare del tutto rocciosa, ma in realtà ha al suo centro un canale nevoso nemmeno troppo ripido che ritenevo sciabile. Il problema di questa parete è che è orientata a sud e questo rende difficile trovare una neve che sia nelle condizioni adatte per consentire una discesa con gli sci. Di solito o la neve è ghiacciata oppure è farinosa con pericolo di valanghe e quindi bisogna aspettare i giorni con pericolo 4 per provare l’escursione. Quando ci sono andato è stato in compagnia di un mio amico di Caspoggio, uno dei migliori sciatori valtellinesi, molto spericolato. Due giorni prima di andare con questo amico, visto che sembravano esserci le condizioni giuste ho provato ad andare da solo, ma una volta in salita la neve si è rivelata non molto stabile. Finalmente arriva il giorno. Una nevicata, seguita da un pomeriggio di sole, l’ideale per una bella gita a quattro con anche le fidanzate in attesa in una piazzola sicura che possono dunque ammirarci dal basso come due puntini sul fianco della montagna. Il segreto dello sci ripido sta tutto nell’atteggiamento mentale, nel superare le paure e acquisire sicurezza in sé stessi. Solo così si evitano errori e dunque anche di farsi male. La cima del monte dava su un canale incuneato che dava il via a tutta una serie di curve e poi ad un tratto ripido. Una volta rientrati dal canale principale tutto diventa più bello e più facile. Un’altra pazzia che avevo in mente da anni era quella di poter sciare la montagna del Painale. Rocciosa e uniforme su tutti i lati più o meno, particolarmente ripida sulla parete nord ovest un’altra che tende ad essere verticale in basso, la parete sud ovest a strapiombo e la parete est dove i primi escursionisti di fine Ottocento erano riusciti a trovare una via, è una montagna che, dopo molte salite, ho ritenuto potesse prestarsi per dare una possibilità anche agli sciatori. Anche questa montagna la salgo con l’amico spericolato di Caspoggio. C’è una speranza per poter sciare probabilmente sulla cresta, ma è ancora da testare. Noi si è ripiegato sulla parete est, non altissima, intorno ai 400 m che però presenta una grossa barra di rocce. Bisognava capire se fosse possibile salire comunque, aggirarla in qualche modo e poi capire come organizzare la discesa con pendenze che si aggirano intorno ai sessanta gradi. Col mio amico saliamo in un giorno in cui la neve non è particolarmente bella, prevalentemente ghiacciata coi passaggi stretti tra le rocce e una discesa che complessivamente metteva in difficoltà con le picozze, ma il mio amico la scendeva a salti con gli sci. Nel complesso e se si esclude la parte finale, il Painale è stata la montagna più difficile tra quelle affrontate. Tra le vette valtellinesi, le Orobie in particolare, la più famosa è il pizzo di Coca dalla cui vetta scende un lungo canalone diretto a nord ovest. Dagli anni Ottanta questo monte è diventato un classico dello sci ripido. Ci si è finiti a fare una gita qui per caso, avendo inizialmente in mente un’altra montagna che però quel giorno programmato per quella gita aveva un notevole rischio valanghe che ha spinto ad optare per il pizzo di Coca esposto a nord con una buona neve al contrario delle esposizioni est con neve troppo instabile. Il canalone di discesa del Coca è molto famoso coi suoi 1200 m di dislivello in sci ripido, un must per gli specialisti di questa disciplina da provare almeno una volta nella vita, ma anche due o tre con la neve bella come quella di quel giorno. La montagna che si era pensato di scalare originariamente era il pizzo di Scotes, la sesta cima più alta delle Orobie con una pala rivolta a nord ovest molto ripida che scende fino a digradare in un vallone  della Piota, un vallone che sfocia su delle cascate di ghiaccio. In un’annata eccezionale come il 2014 le cascate di ghiaccio erano ridotte ad una striscia di una ventina di metri e per il resto era tutto sciabile allora finalmente è arrivato l’anno scorso il momento anche per la gita allo Scotes che si può osservare da Teglio con un binocolo per studiarlo e programmare l’escursione. La cima è preceduta da un avvallo ripidissimo ma prima di raggiungerlo c’è un tratto più pianeggiante con una barra di rocce. Mi è capitato di leggere schede tecniche che riportavano temperature di quaranta gradi, ma sono state redatte da persone che qui non sono mai salite. Io e il mio amico Giovanni salendo abbiamo trovato una cima dalla neve immacolata cui è seguita una discesa molto ripida. La ripidità si può dedurre dagli spostamenti della neve. Una difficoltà nello sci ripido consiste nel saper scegliere l’attrezzatura corretta che non deve essere mai troppo leggera, ma affidabile. Chi risparmia sul peso deve essere abilissimo a sciare perché l’attrezzatura leggera è sottoposta a maggiori sollecitazioni ambientali. Una volta discesa la parte alta del vallone, ritorno alle cascate da fare sempre in discesa e dopodiché il percorso si snoda in mezzo ad un labirinto di grossi massi. Questa montagna è visibile dalla valle e vedendola si può notare chiaramente che è adatta ad essere sciata. Nonostante questo non si trova mai nessuno lassù e neanche nei valloni vicini eppure vi sono zone su questa montagna che non richiedono neppure troppo sforzo per essere sciate. Una volta chiusa questa esperienza la mia attenzione si è concentrata sulla Val Malenco dove si trova una montagna caratterizzata da rocce scure e cime repulsive, il pizzo di Recastello di 2888 m che sorge completamente in terra bergamasca sul retro della valle. col mio amico di Caspoggio molto spericolato l’abbiamo raggiunta direttamente dalla Valtellina con gli sci. Particolarmente interessante per la discesa, la parete nord. L’itinerario seguito è stato particolarmente lungo, dal passo di Bondone si scende al lago del Marmellino e da li si risale alla cima di Recastello. Il tutto con un dislivello di 3004-3005 m. Il mio amico qui è stato particolarmente spericolato scegliendo per la discesa un percorso pieno di rocce che non si sapeva bene come andava a finire. Restando sulle Orobie una cima molto interessante è il Medasc caratterizzato da sette picchi frequentati soprattutto d’estate per discese alpinistiche, ma io volevo provare a fare una discesa con gli sci. Nel 2012 si comincia a provare la traiettoria di sinistra un po’ stretta. Ci si ritorna un’altra volta nel 2014 e ci si accorge che questa via è piena di voragini così il mio amico Giovanni decide di optare per la via di destra caratterizzata da tutta una serie di placche rocciose inaccessibili su cui però si può scendere quando si deposita la neve sopra. Questa non è stata la discesa più difficile del 2014, ma è stata la più pericolosa per via della nutrita presenza di ghiaccio che rendeva la neve dura e compatta come marmo. Non sempre intestardirsi per voler scendere a tutti i costi una montagna comporta dei buoni risultati. Il corno di Braccia l’avevo salito in tutti modi. Nelle guide moderne nessuno diceva che c’era un accesso sulla parete nord. In un libro di fine Ottocento ho letto di alcuni pionieri che partiti da Sondrio che un passaggio lo hanno trovato, ma è un canaletto stretto difficile da scovare. Subito non l’ho trovato nemmeno io quando sono andato apposta a cercarlo. Dopo un mesetto decido di tornare e riprovarci, ma mi sono scontrato con una grande valanga, c’erano persino i gipeti che volteggiavano e io mi sono trovato li vicino al versante che veniva trascinato a valle. le valanghe spesso hanno una velocità pari a quella di una persona che cammina, ma questo non impedisce loro di trascinare tutto con se. E mentre si stava li ad osservare la valanga il gipeto portava via a poco a poco i pezzi di una carcassa, forse proprio quella di un animale morto travolto dalla valanga. Questo gipeto insieme ad un altro esemplare sono la prima coppia di gipeti insediatisi in Val Malenco dopo anni in cui erano estinti sterminati dalla superstizione popolare, soprattutto dei pastori che temevano di vedersi portare via gli agnelli. Appena al di là delle creste della Valmalenco, una valle rinomata per lo scialpinismo, si trova un’altra valle, la Val di Forno che dal Maloja si incunea fino ai versanti settentrionali della Val Masino. Un posto incredibile per lo sci che si può raggiungere in camminata da Chiareggio. Dietro monte del forno c’è passo Vatseda e dietro ancora vari versanti tra cui la discesa della cima di Rosso. Al nostro amico spericolato dei salti un po’ troppo temerari rompono gli sci a percorso appena iniziato. Si procede lungo valle Rosso finchè da lontano si vede arrivare qualche perturbazione e allora si va verso nord della cima di Rosso coi suoi 45-50 gradi di dislivello che l’amico temerario ha disceso con uno sci legato con lo scotch, ma poi ha fatto seguito un’altra avventura sul pizzo del Torrone Centrale con un versante ripido che scende sul versante nord la cui difficoltà è un crepaccio terminale di 6-7 m. Nel 2014 è arrivata molta neve che ha chiuso il crepaccio così la salita è stata possibile, dopo aver fatto quella della cima di Rosso. Io col mio amico temerario partendo dalla Val Malenco, mentre altri due amici sono partiti dal Maloja finchè ci siamo trovati in mezzo alla valle alle 7.30 di mattina perché qualcuno doveva andare a lavorare. Una valle enorme che dalla fine dell’Ottocento si è abbassata mediamente di 180 metri di spessore. Li l’amico temerario ha voluto gareggiare con un gruppo di ragazzi accampati nella valle per girare un documentario sullo sci ripido. Solo che loro avevano degli sci più spessi e specifici lui degli sci più standard. Lui così si ribalta due volte e la seconda perde uno sci. Così gli presto un mio sci. In salita sono andato io con uno sci solo e poi lui è sceso dal pendio con uno sci solo. Oltre a questa piccola selezione il nostro territorio presenta altre mete sciistiche interessanti, in val Masino, il Canal Corto, una cresta rocciosa su cui si scia nel lato che rimane dietro, io con un amico ci sono andato nel 2009, una discesa ripidissima che è sempre sul dosso piano, ma con una barra di rocce che protegge l’altopiano sommitale. Una neve che sembrava glassa, nonostante tutto faceva caldo perché l’estate era alle porte. E poi il Ligoncio sciata dopo un po’ di salite a piedi e due tentativi. Il vero sci estremo è questo: trascinarsi per tre ore sugli sci per sciare effettivamente solo un’ora e mezza incontrando ostacoli climatici come la grandine e cercando di individuare la traiettoria migliore, tenendo conto che alcuni passaggi sono particolarmente problematici, strettoie, barre di roccia. Nulla che potesse spaventare il mio amico temerario che scivolava tranquillo tra curve e passaggi stretti distanziandomi parecchio. In questo sta l’essenza dello sci. La val Masino offre altre cime interessanti, due tutte vicine su cui sono salito e sceso. La cima della Moldasca o ferro centrale (le cime infatti sono le cime del ferro) poi c’è il ferro orientale con salita a S. La Moldasca reca dietro i colossi del Cingalo del Badile tra l’Italia e la Svizzera. Io l’ho fatta da entrambe le parti e la cosa più lunga è il ritorno coi mezzi pubblici più che i 2500 m di dislivello. Per quanto riguarda il ferro orientale, esiste una guida di scialpinismo che dice che questa cima si raggiunge facilmente dalla cresta, ma in realtà la salita si è rivelata ardua così sono tornato indietro accontentandomi della salita fatta l’inverno prima da un’altra parte.

Ma le gite sono troppe per raccontarle tutte e dunque a questo punto Beno è passato alla presentazione del libro.

Alpi selvagge

Questo libro è il prodotto degli sforzi congiunti di 17 fotografi e di due autori di testi con lo scopo di fare un omaggio all’arco alpino, in particolare le 24 cime ritenute più rappresentative associando a ciascuna cima una specie animale anch’essa ritenuta rappresentativa, una sorta di simbolo per ciascuna cima descritta. L’intero arco alpino è molto lungo. Si parte dal colle di Caribona in Liguria fino a Vienna. Le montagne richiedono una trattazione molto vasta, anche perché di ogni montagna, come Beno ha fatto notare raccontando le sue avventure sulla neve e le cime, c’è moltissimo da dire, infiniti dettagli e curiosità. Ed è proprio la descrizione di una sfaccettatura diversa di ogni montagna la parte che Beno ha avuto nella realizzazione di questo libro, che stasera è stato presentato avvalendosi di una presentazione realizzata con una scelta di foto tratte dal libro medesimo. Il tutto partendo da una domanda: perché una montagna può risultare più famosa o più importante delle altre? Magari perché tale montagna ha una forma bellissima oppure per le storie degli uomini che sono saliti, che hanno fatto della conquista di quella specifica vetta la loro missione o per gli animali che ci vivono, per i particolari fenomeni geologici o climatici che vi si verificano o magari per la presenza di ghiacciai dalle proporzioni inimmaginabili.

Il viaggio del libro parte da un gruppo di monti nelle alpi Liguri famose per il loro interno con 40 mila chilometri di grotte calcaree. Una montagna in questa parte dell’arco alpino è divenuta tristemente famosa quando nel 2012 vi si è disperso il primario di chirurgia di Lecco durante un’escursione ed è stato ritrovato morto qualche tempo dopo, un paio d’anni dopo per la precisione con i due amici saliti con lui. Si diceva all’inizio che sono stati associati degli animali ad ogni montagna trattata. Un’associazione non facile perché gli animali tipici delle alpi sono presenti un po’ su tutto l’arco alpino e dunque a volte le associazioni sono state casuali. In alcuni casi invece come in quello del Gran Paradiso l’associazione è stata d’obbligo. Il Gran Paradiso di per sé non ha niente di che. In alcune descrizioni di inizio Novecento si legge che “ha roccia, ma non troppo, ghiaccio, ma non troppo, è alta ma non troppo, gli italiani ci tengono particolarmente semplicemente perché si tratta dell’unico Quattromila delle alpi che sorge completamente in territorio italiano”. L’animale rappresentativo di questo monte non poteva che essere lo stambecco. A fine Ottocento questi animali erano stati quasi completamente sterminati per delle stupide credenze come quella di un ossicino che gli stambecchi hanno vicino al cuore che preserverebbe dalle malattie cardiache improvvise o quella delle corna afrodisiache (un luogo comune che riguarda molti animali e anche per parti diverse dalle corna ndr), insomma per un motivo o per l’altro questi animali erano diventati trofei di guerra e pure in Svizzera non ce n’era più neanche uno. Essendo trofeo ambito, il re ne voleva un po’ per sé da cacciare. La sua riserva di caccia è diventata il nucleo di quello che oggi è il Parco Nazionale del Gran Paradiso, creato negli anni Venti del Novecento e preservato ora non più dalle guardie reali ma dal Corpo Forestale dello Stato. Gli stambecchi viventi oggi sono tutti discendenti di quei pochi esemplari preservati dal re per la sua caccia personale. Lo stambecco è uno splendido animale perfettamente adattato ai pendii ripidi coi loro zoccoli che si aprono sul davanti. L’età di uno stambecco si stabilisce contando i nodi sul corno. A me recentemente è capitato di trovare un corno (senza cervo perché capita che li perdono) con 27 nodi. Un nonno stambecco. Parlando delle alpi questa sera vi accennerò le principali. Il Monte Bianco, la più alta dell’arco alpino (ma non la più alta d’Europa perché recentemente ho scoperto che questo primato va ad un monte dell’Europa Orientale che mi pare stia sul Caucaso il Monte Ebron ndr) eccezionale sotto ogni punto di vista; altezza a parte un dato interessante è la cima, una cupola di ghiaccio che si trova a una quarantina di metri più in alto rispetto alla cima rocciosa e quaranta metri più ad ovest per via dell’azione dei venti. La storia della prima salita del monte a fine Settecento è particolarmente interessante. Erano stati promessi dei soldi a chi ci fosse riuscito da uno scienziato di Ginevra cui occorreva che qualcuno arrivasse in vetta per poter fare delle verifiche sperimentali sul barometro di Torricelli. Dopo ventisei anni due giovani riescono ad arrivare in vetta e lo scienziato che stava ad osservarli da lontano col binocolo per essere sicuro che tutto si svolgesse in regola ha chiesto che i due l’anno successivo lo accompagnassero, resosi conto che la salita non presentava particolari problemi. Una salita eccezionale perché questo scienziato si è portato dietro di tutto. Diciassette portatori che recavano damigiane di vino, tenda, un piccolo laboratorio scientifico per gli esperimenti in vetta, il suo letto e addirittura una stufa a legna. Essendo il monte Bianco dunque il monte più alto di tutti ed essendo che una funivia ne raggiunge facilmente le pendici ormai, ai giorni nostri ci salgono milioni di turisti ogni anno dunque il monte Bianco purtroppo non è più un posto dove fare esplorazione perché, sebbene sia un massiccio grandissimo c’è sempre tantissima gente. Io ci sono stato col mio amico Giovanni che in questo modo concludeva la sua esplorazione dei Quattromila delle alpi con cinque creste appunto situate sulla vetta principale del monte Bianco. Sulla cima del monte Bianco, abbiamo scoperto, non solo c’è molta gente, ma è tutta gente che lascia “ricordini” come quelli dei cani per le strade delle città, ma per accamparci siamo comunque riusciti, fortunatamente, a trovare un punto tutto con la neve bianca. Sulla cima dove saremmo dovuti salire ad un certo punto c’era un elicottero che portava via da quella stessa cima un gruppo di alpinisti come fossero delle salsicce. Il mattino dopo ci avviamo per la Cresta del Diavolo per raggiungere le famose cinque creste rocciose caratterizzate da un granito rosso, ruvido, generalmente solido, dove si alternano appunto passi di roccia a selle di neve e ghiaccio. All’inizio siamo soli, ma poi siamo raggiunti da carovane di gente; lì infatti le guide vengono pagate profumatamente per portare clienti e dunque la montagna diventa luogo di buisness, anche d’avventura ma regolata, dove tutti vanno negli stessi punti a fare le foto ricordo di fretta perché sono molti i gruppi che salgono. Una volta che noi raggiungiamo la cresta da scendere poi a corda doppia si sale si riscende un po’ di volte fino ad arrivare al punto dove avevamo visto l’elicottero che portava via come dei salsicciotti gli alpinisti. Arrivati li si scopre che è una calata nel vuoto da cui non ci si riesce più a liberare se non arriva appunto l’elicottero. Quando siamo arrivati c’era un gruppo di tedeschi che si stavano calando. L’ultima cresta rischiava di non essere conquistata per via della presenza di un ricordino particolarmente sovradimensionato che però non ha scoraggiato il mio amico dal compiere la sua impresa, la parte più coraggiosa di tutta la traversata. Dopo il monte Bianco non poteva mancare il Cervino, forse la montagna più bella delle alpi cui sono legate molte storie di alpinisti che l’hanno scalata, storie a volte tragiche; quella però cui la montagna è associata nell’immaginario collettivo è l’impresa di Walter Bonatti, la scalata della parete nord, un’impresa voluta per ricordare un gruppo di alpinisti che, cento anni prima, proprio su quella parete sono morti mentre erano di rientro dalla conquista della vetta: erano legati insieme in una cordata, è bastato che uno scivolasse per far precipitare tutti, tranne tre alpinisti che si sono salvati perché la corda (che a metà Ottocento era di canapa) si è rotta così loro non sono stati trascinati. Anche un altro monte, lo Iunfrao è associato ad imprese alpinistiche tragiche, ma è famoso soprattutto per l’imponente ghiacciaio dell’Aresh il più grande ghiacciaio delle alpi che è solo uno dei ghiacciai che occupano i vari versanti di questa montagna. I dati di questo grande ghiacciaio sono impressionanti: grande come 12 mila campi da calcio, 900 m di spessore nel punto più spesso e se pensassimo di mantenere l’attuale popolazione mondiale sciogliendone le acque ponendo che ogni abitante del mondo beva un litro di acqua al giorno, con l’acqua di questo ghiacciaio l’umanità potrebbe sopravvivere sei anni. è impressionante soprattutto se si considera il progressivo assottigliamento dei nostri ghiacciai che ormai non basterebbero al fabbisogno di una famiglia media per una settimana. Per quanto riguarda le montagna Valtellinesi nel libro c’è il pizzo Badile cui è associato il gallo Cedrone. Poi abbiamo il pizzo Bernina che è l’ultimo Quattromila delle Alpi a est delle stesse con una vasta distesa di neve mista a ghiaccio, la più vasta di tutto l’arco alpino. C’è poi la cima che porta alle Dolomiti con le loro rocce chiare i cui effetti cromatici si possono apprezzare in particolar modo all’alba e al tramonto. Sulle Dolomiti soggiorna spesso il nostro fotografo di punta, un ragazzo che ha realizzato la maggior parte degli scatti li ha fatti tra i diciannove e i vent’anni, un grande appassionato con una tecnica eccezionale, è riuscito, con mesi di appostamenti in tenda o in capanno, ad immortalare gli animali più difficili, uno di quei fotografi che cercano di  acquisire confidenza con gli animali da fotografare cercando di scomparire nell’ambiente, di mimetizzarsi al punto tale che gli animali giungono a considerarli come parte dell’ambiente, come se fossero rocce o alberi e poi usando varie tecniche ingegnose. In questo modo ha fotografato i cuculi, che depongono le uova nei nidi di altre specie che diventano genitori adottivi a tempo pieno, anche perché, una volta che il cuculo esce dall’uovo, butta fuori dal nido le uova e gli eventuali altri piccoli che vi trova al suo interno; ha fotografato anche il martin pescatore un bellissimo uccello dal piumaggio azzurro e arancione un po’ cangiante, difficile non solo da fotografare, ma anche da avvistare perché è molto veloce. Per scovarlo bisogna seguirne un esemplare per un po’ e conoscere le sue abitudini. Si tratta infatti di un uccello abitudinario che caccia sempre nello stesso posto e si mette sullo stesso rametto a mangiare il pesce che ha catturato, perché è di pesce che si nutre. Il nostro fotografo, Jacopo, ha passato mesi a fare amicizia col martin pescatore fino appunto, come dicevamo prima, ad apparire come un elemento del paesaggio, nascosto nel suo capanno, mentre studiava le tecniche migliori per catturare i momenti significativi. Ha montato la macchina fotografica su una slittina galleggiante, ha costruito gabbie di vetro da mettere sottacqua collegata ad un cavo di scatto remoto lungo otto metri. Naturalmente i fotografi (e non solo quelli di natura) devono fare tantissimi scatti per ottenerne uno solo che è quello giusto, perfetto, che si trova nel mucchio e neanche sempre c’è (conosco addirittura un fotografo che si occupa di altri generi, ma che dice sempre che se una persona che vuol fare questo mestiere riesce a realizzare nell’arco di tutta la vita cento scatti ottimi è un bravo fotografo, questo per dire che bisogna puntare sulla qualità e non sulla quantità, pochi ma buoni insomma ndr). Dallo scatto perfetto però si può notare la particolarità di questo animale, una membrana che gli copre gli occhi rendendoli impermeabili e permettendogli dunque di immergersi. Nel libro c’è tutta la foto sequenza (mostrata anche nella presentazione proiettata ndr), immersione, cattura del pesce, consumazione del pasto. In generale tutte le foto di animali che si trovano nel libro sono opera di Jacopo e sono di una qualità eccezionale. Bisogna tenere conto che Jacopo, che lo ricordiamo è un ragazzo di poco più di vent’anni, pubblica per TIME, NATIONAL GEOGRAPHIC è uno dei più bravi fotografi d’Italia. Restando sulle Dolomiti parliamo della cima della Marmolada, che ci fa conoscere un altro ragazzo prodigio. Un ragazzo che a ventitré anni è salito per una via molto difficile sulla montagna con pochi attrezzi senza dire nulla a nessuno, una via molto rocciosa di 1200 m di dislivello. Altri alpinisti lo hanno visto salire quasi allo sbaraglio da solo, nel libro c’è pure una parte di un’intervista che questo ragazzo ha rilasciato in seguito in cui dichiara che la via non è difficile ci sono solo un paio di strapiombi che richiedono attenzione e accorgimenti particolari. Uno strapiombo che si apre su 600 m di vuoto che va saltato avendo dall’altra parte un appiglio largo un dito. Comunque questo ragazzo è ancora vivo e sta continuando a fare questo tipo di scalate con una tecnica davvero sopraffina. È un ragazzo straniero dal nome impronunciabile che a vederlo sembra il classico secchione della classe timido e occhialuto per nulla portato all’attività fisica ed è invece tra i cinque più forti rocciatori al mondo con un forte autocontrollo. Nel libro si incontrano anche le tre cime di Lavaredo (una splendida foto con la via Lattea sullo sfondo), poi le montagne su cui Messner ha mosso i primi passi e poi arriviamo alla montagna più orientale dell’arco alpino che sorge vicino a Caporetto, località divenuta tristemente famosa durante la Grande Guerra, una piana dritta di pascolo senza capannoni. La cosa che mi è piaciuta di più di questa terra quando l’ho visitata sono i fiumi che escono di colpo dalla montagna con un’acqua talmente trasparente che la si nota solo sentendo il bagnato sui piedi. Il Trigla, la montagna più orientale dell’arco alpino è anche la montagna nazionale della Slovenia caratterizzato da un fenomeno ottico spettacolare chiamato fantasma di Broken che io sono riuscito a vedere appena ci sono andato. Per vederlo bisogna avere il sole basso alle spalle e la nebbia di fronte. Si tratta di una sorta di arcobaleno circolare con l’immagine di chi sta osservando come stampata in mezzo. Alzando le braccia, nel riflesso di questa immagine compaiono lunghissime. La particolarità è che ognuno vede solo il suo fantasma di Broken. Se voi state osservando il vostro fantasma di Broken e c’è in quel momento una persona accanto a voi, il vostro non lo vede, è tutta una questione di posizione e di gradi, basta essere sfasati di pochissimo per non vederlo più. Io ho scoperto questo fenomeno su un libro di fine Ottocento che racconta di una spedizione in val di Togno di Bruno Galli Valerio con altre persone tra cui tre cacciatori che raggiunse il passo del Forame; arrivati in cima, fucile alla mano per via degli orsi, raccontano di vedere tre fantasmi cui puntano il fucile, ma che a loro volta puntavano il fucile verso la spedizione. Da quando l’ho letto l’ho visto 10 volte perché a quel punto sapevo dove guardare, è facile ovunque ci sia nebbia bassa. Per chi è appassionato di fotografia, una piccola curiosità: il fantasma di Broken è difficile da fotografare e lo è per un motivo preciso ed è che, essendo un’illusione ottica non ha una posizione precisa nello spazio una profondità e dunque la macchina fotografica non può determinare la profondità di campo, regolare la messa a fuoco. Dunque le foto non rendono mai davvero la reale bellezza di questo insolito fenomeno.

Il momento dell’acquisto dei saluti e degli autografi

A questo punto Beno ha concluso, il suo ricco racconto dando alcune informazioni di servizio. Il libro presenta tre copertine diverse più una quarta in edizione limitata, una per ogni zona delle alpi. Per chi fosse stato in ritardo coi regali di Natale era possibile acquistare tre copie a 50 euro dunque un prezzo inferiore di quello di ogni copia singola che era 20 euro.

Dopo la presentazione di Beno, l’assessore Lucica Bianchi ha voluto condividere i pensieri personali suggeritigli dall’ascoltare gli avventurosi racconti delle gite in montagna, ha voluto in particolar modo mettere l’accento sul senso di libertà che le montagne sanno trasmettere, sottolineando che lei non ci va come alpinista.

In sala tra il pubblico erano presenti anche gli amici di Beno coprotagonisti delle sue avventure che sono stati dunque omaggiati (grande assente lo sciatore spericolato) e poi è venuto il tempo del dialogo, delle domande, dei libri da comprare con le dediche che Beno si è offerto gentilmente di fare.

La fidanzata di Beno vendeva i libri e ha portato alcune copie della rivista MONTAGNE DIVERTENTI così mi è venuto di chiedere qualche delucidazione sull’iter che ci vuole per fondare e portare avanti una rivista. Un grosso impegno. Bisogna andare in tribunale, fare la registrazione, avere un pubblicista che faccia da direttore responsabile, avere soldi da investire per la stampa, avere un locale dove stampare che non per forza deve essere una tipografia vera e propria purchè sia registrata legalmente come sede, bisogna avere dei bravi collaboratori che abbiano voglia di lavorare, che consegnino i pezzi in tempo, compatibilmente con i tempi della stampa. C’è stato un periodo nella storia in cui si fondavano riviste a gogò. Oggi si aprono blog e siti, ma anche in questo caso c’è tutto un iter dietro. Per quanto riguarda le avventure di Beno mi restava un’ultima curiosità mentre mi firmava la mia copia del libro. Sarà stato nella zona dove fu ritrovata la mummia del Similaun? Risposta. No. Magari una prossima gita. E chissà, una prossima serata.

Antonella Alemanni

L’EVENTO DI PACE

TALAMONA 12 dicembre 2012 incontro con poeti locali

 

LETTURE COLLETTIVE POESIE E CANZONI

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Dicono i poeti che solo la poesia ispira la poesia. Credo che la poesia sia nata prima della scrittura, infatti le prime forme di poesia erano orali come gli antichissimi canti di pace, di amore, di armonia. Poi, via via che la poesia si evolve, si libera da schemi obbligati per poi diventare pura forma di espressione che si fonda sulle dimensioni musicali del linguaggio, sui ritmi, gli accenti, le sonorità per trasmettere contenuti ed evocare suggestioni ed emozioni. Il linguaggio poetico, sia nelle sue forme codificate da secoli sia in quelle più libere, è in grado di cogliere e di dare voce a esigenze profonde dell’uomo, mescolando in modo indissolubile scrittura, senso del ritmo, musicalità della parola, rivelazione di particolari significati. Proprio questi particolari significati andremo a scoprire questa sera insieme a un gruppo di poeti che tutti conosciamo perché sono nostri compaesani, un gruppo di poeti che magistralmente ci condurranno nel percorso di scoperta del messaggio di pace e di armonia che i versi da loro composti e recitati racchiudono. Sono solita dire che la poesia è la sorella della musica, che la poesia fa rima con la musica e dunque avremo anche il piacere di sentire cantare e suonare colui che viene chiamato il menestrello sondriese, Angelo Coppelli, che a molti sarà capitato di incontrare passeggiando per le vie del centro di Sondrio. Uomini come lui si incontrano nelle più rappresentative piazze del Mondo oppure nelle antiche strade della città. Uomini come lui si incontrano, si sentono suonare, cantare, portare, per quanto sia possibile, l’armonia e la gioia di vivere nelle nostre anime, nelle nostre case.

Così Lucica Bianchi, Assessore alla Cultura di Talamona, nel suo discorso introduttivo prima di lasciare spazio proprio ad Angelo Coppelli che ha avuto l’onore di aprire la serata offrendo agli astanti un primo assaggio della sua arte. Un brano suonato col flauto di Pan, quello fatto con canne in ordine di lunghezza, un brano suonato mentre sullo schermo alle spalle scorrevano immagini di pace, armonia, gioia e serenità. Le sue esibizioni (anche cantate di brani molto famosi come BLOWIN’IN THE WIND di Bob Dylan della quale Coppelli ha proposto anche un adattamento in italiano) hanno continuato ad intervallare, nel corso di tutta la serata, le letture dei poeti, che proponevano almeno due brani ciascuno, principalmente, inni alla pace e alla concordia anche in riferimento agli spiacevoli fatti che sono avvenuti nel Mondo come il dramma dei disperati che annegano in mare, l’attacco terroristico a Parigi.

Ad aprire poi la serata tra il gruppo di poeti è stata Anna Barolo con i brani IL CANTO DEGLI ANGELI e A DUE VOCI. Poi Teresa Cattaneo con IL ROSETO e FINESTRA ILLUMINATA.

Ogni due poeti che leggevano interveniva Angelo Coppelli. Purtroppo non ha potuto far ascoltare tutti i brani che aveva in programma perché due si sono persi chissà come. Il bello della diretta.

È venuto poi il turno del poeta dialettale talamonese per antonomasia Cesare Ciaponi che attraverso la sua arte racconta storie del passato, la vita e le memorie di un tempo, facendo anche a volte delle riflessioni e dei paragoni con il presente. Questa sera si parla di Natale e di pace. La prima poesia letta da Cesare Ciaponi, UL NATAL DA PININ (IL NATALE DA BAMBINI) la seconda in italiano si intitolava LA BELLEZZA “più che poesia qualcuno la chiama prosa poetica”. Confermo pienamente. Prosa poetica più filosofica che narrativa. La letteratura ha molte sfaccettature.

Dopo Cesare Ciaponi è stata Paola Mara De Maestri a proporre due chicche della sua arte intitolate IL PANE DEL SORRISO e RICORDO I NATALI.

Angelo Coppelli ha dato un contributo prezioso anche offrendo la sua musica come sottofondo musicale durante le letture dei poeti, strimpellando con la sua chitarra. Dopo queste ultime due letture ha proposto una canzone conosciuta più nei paesi di lingua anglofona che parla di un tamburino che si reca in visita ad un presepe portando un piccolo dono.

È stato poi il turno di Giusy Gosparini la quale aveva già fatto la scorsa primavera una piccola presentazione di una sua raccolta poetica nel negozio CATIA CREZIONI 2000 di una ex dipendente. Giusy Gosparini ha infatti esercitato per gran parte della sua vita il mestiere di parrucchiera, scoprendo la poesia (una vocazione che in realtà, come lei stessa raccontava, l’ha accompagnata per tutta la vita, ma che non aveva trovato un vero e proprio sbocco) in seguito ad un incidente accorso alle sue mani che l’ha costretta a chiudere la sua attività. Lei stessa nel raccontare questa vicissitudine personale disse “il Signore mi ha permesso di trovare una nuova strada”. Nel raccontare la sua poesia Giusy Gosparini dichiarò di “non utilizzare termini troppo ricercati, ma di basarsi molto sui sentimenti e sull’osservazione della natura”. Questa sera Giusy Gosparini ha proposto tre poesie intitolate SUSSURRA IL VENTO che riprende tematiche di attualità come appunto le morti del mare per la disperazione e gli orrori giustificati in nome della religione e A NATALE TUTTI BUONI, un sogno. Per finire IL BIMBO NON SA.

Anche Angelo coppelli ha questo punto non ha ne cantato ne suonato, ma letto una lirica intitolata CREARE PACE “perché la pace dobbiamo crearla noi, nessuno ce la offre” .

A seguire un’altra poetessa di nome Giuseppina ha letto  IL MIO NATALE e LETTERA DI UNA MADRE dedicata ovviamente alle sue figlie.

Angelo Coppelli per rimpiazzare i due brani che non è riuscito a trovare ha proposto un canto di pace dedicato a tutti i ragazzi e le ragazze del Mondo che se si dessero la mano potrebbero fare un girotondo intorno al Mondo. in chiusura di serata è stato riproposto questo brano e tutti hanno fatto un girotondo intorno alla stanza. Intanto però un momento teatrale, una scenetta che ha visto per protagonisti Angelo Coppelli e Giusy Gosparini. La prima di due scenette.

Il ciclo delle letture poetiche è poi proseguito con Paolo Mandelli che ha proposto i brani IMMAGINI DI SOGNO e IL SOLE DI DICEMBRE. A seguire Patrizia Biglioli con LA PACE e NATALE NON PER TUTTI.

E ora Angelo Coppelli con BLOWIN IN THE WIND scritta nel 1964 su un tovagliolo in un pub di Greenweech Village quando il suo autore Bob Dylan era ancora uno dei tanti cantanti underground emergenti. Meno male che qualcuno ce la fa. Dovremmo riflettere un po’ tutti su quello che ci perdiamo impedendo ai talenti di emergere e di esprimersi. I sogni uccisi e soffocati sono un danno che si ritorce contro l’umanità intera.

Non è mancato chi ha voluto dedicare un pensiero alla maestra Ines Busnarda Luzzi una persona che ha trasmesso cultura e senso civico. Il brano si intitola BLU CARTA DA ZUCCHERO.

Dopo la seconda piccola recita del duo Coppelli-Gosparini ecco un fuori programma di paolo Mandelli che ha voluto recitare una poesia inizialmente non prevista, dedicata al fratello e ai fratelli in generale. “si diventa fratelli quando si condivide qualcosa non esiste solo la fratellanza di sangue”. La poesia recava titolo NASCEMMO FRATELLI.

Siamo arrivati al gran finale dopo il quale l’Assessore Lucica Bianchi ha voluto dire ancora qualche parola.

Vorrei dare un corollario a questa bellissima serata riprendendo una strofa di una poesia letta in un opuscolo regalo di Angelo Coppelli, un testo che esprime benissimo i ringraziamenti che avrei voluto fare. Con queste parole di pace, amore, armonia ringrazio i poeti che sono intervenuti stasera che sono nostri, un nostro patrimonio locale. Non resta altro che augurare che la pace e l’armonia accompagnino tutti in ogni momento della vita perché non potrebbe esserci niente di più meraviglioso di queste tre semplici parole.

Non c’è bisogno di aggiungere altro.

Antonella Alemanni

 

IL TALAMONESE

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Il talamonese dicembre 2015 (2)

Torna, dopo un anno di stop, il Talamonese, il periodico di informazione del Comune di Talamona. L’amministrazione ha, infatti, deciso di continuare la tradizione interrotta durante il periodo del Commissariamento. Come in passato, l’obiettivo dell’iniziativa editoriale è quello di avvicinare i cittadini agli amministratori e far conoscere le innumerevoli associazioni e gruppi di persone impegnate nel promuovere attività culturali e sportive in paese. “Voglio ringraziare tutta la redazione e tutti coloro che hanno contribuito alla pubblicazione di questo primo numero – ha sottolineato Elena Pescucci – e invitare i talamonesi a partecipare a questo progetto editoriale che è di tutti. Siamo contenti di aver inaugurato questo nuovo ciclo, siamo già pronti a lavorare sul secondo numero: chi vorrà potrà inviare i propri scritti o le tematiche che vorrebbe fossero approfondite. Insieme alla redazione valuteremo tutte le richieste che arriveranno”.

Duemila e duecento le copie che entreranno nelle case dei talamonesi. Come? Attraverso la consegna porta a porta da parte dei volontari. “Abbiamo chiesto ai talamonesi di darci una mano – ha spiegato Lucica Bianchi – un bel gruppo di persone si è già reso disponibile. Ad ognuno è stata assegnata una via o una contrada. Chiunque volesse aiutare è il benvenuto. Può farlo semplicemente mettendosi in contatto con noi. Verranno comunque istituiti anche dei punti di diffusione: in Comune, in Biblioteca, nella sede della Proloco e nell’ufficio Servizi Sociali e Cultura”.

 

 

IN MEMORIAM

TALAMONA 6 novembre 2015 commemorazione della festa del 4 Novembre

UN RICORDO DEI CADUTI PER LA PATRIA E PER LA LIBERTA’
Come ogni anno, Talamona ricorda una pagina importante della Storia. Una pagina fatta di grandi ideali e di enormi sacrifici. Talamona ogni anno commemora il 4 novembre, una festa nazionale in onore delle forze armate e ad imperituro ricordo dei caduti di ogni guerra e lo fa anche grazie alla collaborazione del Gruppo Alpini che ogni 4 novembre (oppure ogni domenica immediatamente successiva) organizza una giornata conviviale al proprio tempietto, per ritrovarsi tutti uniti nel ricordo del passato ad apprezzare la pace del presente. Quest’anno l’evento che chiamerà a raccolta la comunità sarà di fronte al monumento dei caduti. Cio che non cambia è il fatto che, come avviene da circa tre anni a questa parte, anche la Casa Uboldi, in concomitanza con queste giornate, dedica una delle sue ormai proverbiali serate del venerdì ad approfondimenti su questa ricorrenza, dunque a riflessioni sulle due guerre mondiali, memorie e testimonianze e di conseguenza sui valori della patria, della pace e della libertà. Eccoci dunque ancora qui questa sera a partire dalle ore 20.30 per un nuovo viaggio nel passato “tutti qui così numerosi e soprattutto tanti giovani per onorare, per rendere un omaggio in più alle migliaia di eroi che hanno sacrificato il bene supremo dell’uomo, cioè la vita, affinchè oggi tutti noi si possa vivere in pace” così l’assessore alla cultura Lucica Bianchi ha presentato, dopo i doverosi ringraziamenti di rito, questo nuovo evento che comprende anche la partecipazione degli allievi della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo Giovanni Gavazzeni di Talamona attraverso disegni da loro realizzati e presentati, messi in mostra insieme ad una selezione di disegni eseguiti nell’arco degli ultimi trent’anni dagli ormai ex allievi del medesimo istituto.
Saluto del sindaco Fabrizio Trivella
A questo punto la parola è passata momentaneamente al sindaco di Talamona Fabrizio Trivella che ha manifestato la sua gioia di fronte a tanta numerosa partecipazione popolare, soprattutto per la presenza delle giovani generazioni “questa sera ripercorreremo delle pagine molto importanti della nostra Storia che è fondamentale continuare a ricordare” ha esordito il sindaco che tra le altre cose ha ricordato come il 4 novembre non significa per l’Italia solo la cessazione delle ostilità con l’Austria e la vittoria, ma anche, proprio grazie a tale vittoria, il definitivo raggiungimento dei suoi confini storici (in realtà non proprio definitivo perché dopo il secondo conflitto mondiale, proprio in quelle stesse zone sono state apportate ai confini italiani ulteriori modifiche che a tutt’oggi perdurano ndr) e cio significa che per l’Italia il 4 novembre è festa nazionale, data in cui in seguito è stata istituita la giornata delle forze armate proprio in ricordo dei tanti soldati periti nel raggiungimento dell’unità nazionale, per la libertà di questa patria costruita con tanta fatica “il ricordo dei soldati caduti deve essere in primo luogo un inno alla pace” ha proseguito il sindaco che ha voluto poi condividere con gli astanti un aneddoto personale risalente ai suoi vent’anni. Il nonno alpino lo portò con sé ad una riunione di suoi commilitoni che si erano persi improvvisamente di vista all’indomani dei fatti dell’8 settembre 1943. Non tutti purtroppo erano li a ricordare. C’era chi non ce l’aveva fatta a scappare e tornare a casa, chi non si era salvato. Quelli che c’erano però, ricordavano con trasporto quanto avevano vissuto anche a nome di chi non c’era più. “questa esperienza è stata molto importante per me per toccare con mano quello che altrimenti sarebbe rimasto solo un racconto indiretto di eventi che per me, così come per tutti i più giovani, di allora e ancor più di adesso, sarebbero rimasti eventi lontani di cui non sarebbe stato possibile comprenderne la vera entità. Spero che questo evento aiuti a comprendere il valore del sacrificio per la patria e per la pace”
La Grande Guerra. Un video per ricordare
A questo punto l’assessore Lucica Bianchi ha ripreso la parola e ha proposto la visione di un video. Le immagini dei soldati lanciati all’attacco tratte da video originali di repertorio erano intervallate dal racconto degli eventi fondamentali del conflitto sul fronte alpino. Si riporta qui di seguito il testo che scandiva le immagini (non eccessivamente crude per non urtare la sensibilità dei presenti ha poi specificato l’assessore).
L’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria il 24 maggio 1915. Il comando delle forze armate italiane fu affidato al generale Luigi Cadorna. A partire dal 15 maggio 1916 l’esercito austriaco intraprende una vasta operazione militare passata alla storia come strafexpedion. A luglio Cadorna prepara una nuova offensiva sulla sponda destra dell’Isonzo nei pressi di Gorizia. Il 9 agosto si svolge la battaglia di Gorizia. L’attacco provocò la morte di 21.630 soldati italiani e 52.940 feriti. Il 24 ottobre 1917 inizia la battaglia di Caporetto. L’esercito austro-tedesco avanza per 150 km in direzione della pianura. Le truppe italiane, impreparate ad una guerra difensiva e duramente provate dalle precedenti battaglie dell’Isonzo, non ressero l’urto delle forze nemiche e dovettero ritirarsi fino al fiume Piave. Cadorna aveva imputato l’esito infausto della battaglia alla viltà dei suoi soldati, ma all’indomani della disfatta venne sostituito con Armando Diaz. Dopo Caporetto le operazioni belliche si concentrarono sull’altopiano di Asiago, sul monte Grappa e lungo il Piave. Il 29 ottobre 1918 l’Austria chiede l’armistizio, il 3 novembre un reparto di bersaglieri sbarca a Trieste. Il 4 novembre il generale Armando Diaz annuncia la vittoria.
Dopo questa cronaca, intervallata dalle immagini e accompagnata da un sottofondo musicale al tempo stesso malinconico e solenne, il video si conclude con l’audio originale del proclama di Armando Diaz.
Intervento dell’assessore Lucica Bianchi
Stasera parleremo di guerra, parleremo di eroi, parleremo di valori, ma soprattutto parleremo della vita perché le migliaia di giovani eroi erano soliti scrivere, nei loro diari, nelle loro lettere, nei loro testamenti che un soldato che muore per la patria non è mai morto. La guerra che scoppiò nel 1914 fu un avvenimento nuovo nella storia dell’umanità perché fu la Prima Guerra Mondiale, una guerra che vide lo scontro di tutti i grandi stati che metteranno le loro capacità produttive nel campo dell’industria moderna e della tecnica per preparare strumenti di offesa e difesa. Fu una guerra di massa, combattuta per terra, per mare e nell’aria con l’impiego di armi mai usate prima: carri armati, aerei, sommergibili, gas e con il ricorso a nuovi mezzi di lotta economica e psicologica. Viene combattuta dai belligeranti sino all’esaurimento delle forze. una guerra le cui vittime e i cui danni andarono ben oltre qualsiasi calcolo previsto e finì col portare radicali sconvolgimenti all’economia internazionale, alla geografia mondiale aprendo così la via a ripercussioni e conseguenze che dureranno a lungo anche nel dopoguerra. L’umanità deve mettere fine alla guerra oppure la guerra metterà fine all’umanità. Ho scelto queste parole, che possono sembrare bibliche, perché biblico sotto molti aspetti fu l’evento della Grande Guerra. Parliamo di cinque anni di ostilità, cinque anni di conflitto mondiale che sembrano essere stati dimenticati troppo in fretta, oscurati dalla successiva Seconda Guerra Mondiale studiata, trattata e documentata, ricordata quasi ad oltranza da tutti i media ed è un grave peccato nonché errore, perché la Prima Guerra Mondiale ha gettato quasi tutte le basi della seconda, creando i presupposti per la nascita di movimenti politici e avvenimenti storici che hanno segnato il futuro, di dittature che hanno avuto un ruolo predominante nell’arco di tempo che va dal 1920 al 1945 e in alcuni paesi anche oltre. Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiara guerra all’Austria-Ungheria. Comincia così per l’Italia una guerra senza precedenti nella sua Storia, una guerra mondiale con ben ventuno Paesi coinvolti. Nel 1915 un soldato dal fronte occidentale il cui nome non ci è mai stato dato sapere scriveva la sua ultima lettera a casa e nel finale di questa lettera si legge: se romperete il patto con noi che moriamo oggi, noi non riposeremo mai, anche se spunteranno papaveri su tutti i campi della Terra. Allora credo che sia doveroso per noi ricordare, riflettere, fermarci un attimo, giusto il tempo per rivolgere un pensiero, un semplice pensiero a questi eroi perché i nomi incisi su tutti i monumenti e anche sul nostro monumento dei caduti non sono solo parte di un elenco, ma sono dei giovani che hanno offerto la loro vita, il loro sangue, affinchè oggi, quei nobili ideali che hanno animato il loro coraggio possano animare le nostre vite. Il 4 novembre 1918 segnò la fine di una lunga guerra che aveva insanguinato tutta l’Europa. L’Italia vi aveva partecipato per liberare le province di Trento e Trieste, per ristabilire quindi i suoi confini la dove la natura li aveva già segnati naturalmente con una corona di meravigliose montagne. Più di seicentomila soldati italiani morirono e alla loro memoria ogni comune dedicò un monumento o una lapide che ne reca incisi i nomi per sempre. Oggi onoriamo quei nomi, quei caduti, visitiamo questi monumenti leggiamoli quei nomi. Sono stati scritti per mantenere viva la memoria di chi è morto per dare una patria più grande e gloriosa tutta unita entro le linee che le Alpi scintillanti di ghiacci e i mari azzurri di acque profonde hanno per essa tracciato. Fermiamoci ogni tanto davanti al monumento, al nostro monumento, leggiamo i nomi su di esso incisi, ascoltiamo ogni tanto la voce dei giovani soldati talamonesi che dalla lapide del monumento a loro dedicato chiedono soltanto una cosa. Non essere dimenticati. Per tutte le vittime della guerra, per tutti gli eroi oggi il nostro ricordo e il nostro amore sono vivi e profondi.
La professoressa Maria Luisa Silipo e i suoi piccoli artisti in erba
È venuto ora il momento degli alunni della scuola media che “attraverso l’espressione artistica e il loro impegno molto sentito” ha introdotto l’assessore “ci tenevano a portare il loro tributo, il loro saluto di onore, di rispetto e di amore”. Ad introdurre i ragazzi la loro insegnante di arte Maria Luisa Silipo che li ha accompagnati in questo percorso di trasfigurazione della guerra nell’arte. “il lavoro che hanno svolto quest’anno gli allievi dell’Istituto Gavazzeni” ha spiegato la professoressa “ha colto i sentimenti che avrebbero potuto provare i reduci nel ritrovarsi oggi quindi da un lato la gioia di ritrovare le persone care ancora in vita, la fine della guerra, il ricongiungimento con la famiglia, ma dall’altra parte i ricordi dolorosi che rimarranno sempre impressi nel loro cuore e nei loro occhi. I ragazzi con molta sensibilità hanno colto questi sentimenti e li hanno espressi attraverso delle tavole grafiche” queste tavole sono state presentate dai ragazzi stessi o dalla professoressa. Eccone la carrellata. I lavori più significativi scelti tra quelli dei ragazzi di terza e di seconda.
Per prima la tavola di Giacomo Mario Menegola, una sorta di manifesto per la pace che lui stesso ha brillantemente spiegato.

1

Il disegno raffigura dei ragazzini che fanno il girotondo intorno ad un falò e indossano delle magliette su cui sono riportate le bandiere degli stati partecipanti alle due guerre mondiali, ognuno la maglietta della sua nazione. Nel falò brucia la bandiera del nazismo, a simboleggiare la fine della dittatura e di ogni ostilità in Europa, in più bruciano due fucili, simbolo ognuno di ciascuno dei due conflitti. Sopra i ragazzi sorge un sole che rappresenta l’unione europea con al centro una colomba che testimonia il lungo periodo di pace che l’Europa sta vivendo dalla fine del secondo conflitto mondiale e ha simboleggiato l’istituzione dell’Unione Europea. A sinistra troviamo il monumento per i caduti di Talamona con lo stemma del comune e la bandiera italiana che reca la scritta NON DIMENTICARE riferita alle guerre e ai caduti.
A seguire il disegno di Simone Riva presentato dalla professoressa

2

Sono raccolte alcune immagini della guerra e dei simboli di pace che sintetizzano il tema trattato in modo stilizzato e personale.
È stato poi il turno della piccola Nives presentare il suo disegno

3

Questo disegno rappresenta due mani che si stringono e insieme formano un tronco d’albero forte e resistente, un albero della pace che da come frutti l’amore, la comprensione e la generosità verso gli altri. Il simbolo deriva dalla copertina di un album dei Nomadi intitolato MA NOI NO. Di questo album particolarmente significativa è la canzone I RAGAZZI DELL’ULIVO che parla dei bambini e dei ragazzi vittime delle guerre dei grandi.
Ecco ora il disegno di Claudia e così come lei lo ha raccontato.

4

In questo disegno è rappresentato l’occhio del reduce di guerra al cui interno è rappresentata una vita nuova di speranza e felicità senza più dolore, ma con un albero spoglio ad indicare l’impossibilità di dimenticare quanto si è vissuto. anche i colori intorno all’occhio disegnato vogliono essere un simbolo di speranza futura di felicità e gioia
Il disegno di Karima raccontato da lei

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Nel disegno è rappresentato il mondo che si vede dall’universo in cui regna la pace simboleggiata dalla colomba e dall’arcobaleno che scaccia via con la pioggia tutti i ricordi negativi che in qualche modo restano comunque, nonché dalle mani che si uniscono in un gesto di fratellanza formando un cuore.
Il disegno di Matteo raccontato dalla professoressa

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È qui rappresentata una pagina e attraverso il disegno della penna antica si vogliono simboleggiare tutti i soldati che hanno scritto una pagina della Storia con il loro sangue
E ora quello di Leonardo Perlini sempre raccontato dalla professoressa

7

Si rappresentano qui due lacrime. In una, quella colorata, c’è la gioia e quindi il ritorno alla vita dei reduci mentre nell’altra grigia ci sono i ricordi della guerra appena trascorsa e dunque il dolore per quanto è accaduto.
A seguire il disegno presentato da Laura e Sofia

8

Un cannone che spara fiori come simbolo di pace semplice ma significativo. Un altro simbolo di pace è la colomba che porta un fiore nel becco. Sul cannone è posto come memoria un cappello degli alpini e in una pergamena sopra compare la scritta riportata al tempietto degli alpini.
Il disegno di Sebastiano Simonetta presentato sia dalla professoressa che da lui stesso

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Un lavoro significativo che simboleggia il dipanarsi dei ricordi e degli eventi come se fossero le scene di un film riavvolte in una bobina che rappresenta anche in questo caso una sorta di ruota della pace che capovolge il corso degli eventi. In bianco e nero sono rappresentati i ricordi relativi alla guerra mentre a colori la nuova vita in epoca di pace. Un contrasto, quello tra guerra e pace, tra vita e morte, caratterizzato anche dalla scelta dei colori sullo sfondo.
In ultimo il disegno di Benedetta (purtroppo non tutti i disegni esposti sono stati commentati, ma alcuni erano comunque molto eloquenti).

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Il disegno illustra la famosa canzone di Fabrizio De Andrè LA GUERRA DI PIERO un testo molto impegnativo, che mette in luce il fatto che, per la maggior parte degli uomini coinvolti nella guerra, non c’è onore o riconoscimento individuale o anche solo una sepoltura degna, migliore di un campo su cui crescono i papaveri. La maggior parte dei soldati non ha un’identità a noi nota e nemmeno una croce che ricorda il luogo dove sono caduti, dove sono sepolti. Il soldato della canzone incarna la follia della guerra. Vede un nemico, vuole colpirlo guardandolo negli occhi, ma viene a sua volta colpito e ucciso dal nemico stesso restando nel campo dov’è caduto su cui crescono i papaveri.
La canzone LA GUERRA DI PIERO è stata recitata da tutti i ragazzi in cerchio. Qui di seguito si riporta il testo.
Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma son mille papaveri rossi

lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente

così dicevi ed era inverno
e come gli altri verso l’inferno
te ne vai triste come chi deve
il vento ti sputa in faccia la neve

fermati Piero , fermati adesso
lascia che il vento ti passi un po’ addosso
dei morti in battaglia ti porti la voce
chi diede la vita ebbe in cambio una croce

ma tu no lo udisti e il tempo passava
con le stagioni a passo di giava
ed arrivasti a varcar la frontiera
in un bel giorno di primavera

e mentre marciavi con l’anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore

sparagli Piero , sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra a coprire il suo sangue

e se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore

e mentre gli usi questa premura
quello si volta , ti vede e ha paura
ed imbraccia l’artiglieria
non ti ricambia la cortesia

cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chiedere perdono per ogni peccato

cadesti interra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato un ritorno

Ninetta mia crepare di maggio
ci vuole tanto troppo coraggio
Ninetta bella dritto all’inferno
avrei preferito andarci in inverno

e mentre il grano ti stava a sentire
dentro alle mani stringevi un fucile
dentro alla bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole

dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.
Secondo intervento di Lucica Bianchi
All’assessore Lucica Bianchi il compito di ringraziare l’impegno di questi ragazzi e di apprezzare il loro sguardo fresco e ancora in gran parte disincantato su un passato duro e difficile. La presenza dei ragazzi ha indotto l’assessore a riflettere su un episodio specifico della Grande Guerra, quello dei ragazzi del 99 cioè nati nel 1899 e coscritti per la chiamata alle armi durante le fasi ultime e più critiche del conflitto quando molti di loro non avevano neppure 18 anni.
I ragazzi del 99. Un video per ricordare.
Anche per questo ricordo è stato utilizzato un video. Immagini con testi e musiche sono sempre il modo migliore per imprimersi nel cuore un messaggio, una storia, specie se chi ascolta è molto giovane e coltiva molto questi nuovi linguaggi.
Questo video illustra soprattutto luoghi, monumenti, bassorilievi, in particolar modo a Bassano del Grappa, teatro principale della vicenda. Si riporta qui di seguito il testo in sovraimpressione sul video che racconta brevemente e con enfasi (anche retorica) questa storia.
Nel 1917 la chiamata. Dal 10 novembre al 31 dicembre di quell’anno si verificarono le prime battute di arresto per l’esercito che resero necessari questi ulteriori arruolamenti. In seguito ad un proclama del comando supremo dell’esercito italiano i ragazzi del 99 ebbero il loro primo battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico… in un superbo contrattacco hanno trionfato! Alcuni battaglioni austriaci che avevano osato varcare il Piave sono stati annientati. 1200 i prigionieri catturati e alcuni cannoni presi dal nemico sono stati riconquistati. In quest’ora suprema di dovere e onore nella quale le armate con fede salda e cuore sicuro arginano sui monti e sul fiume l’ira nemica che l’esercito sappia che i nostri fratelli della classe 1899 hanno dimostrato di essere degni del retaggio di gloria che su di essi discende. Un sottoufficiale dichiarò di aver osservato le loro mani grandi e robuste avvezze ai lavori pesanti, mani da figli di contadini falegnami e artigiani e i volti pieni dell’ingenua spontaneità della loro giovinezza. Non esistono dati certi riguardo ai giovani soldati caduti sui campi di battaglia, ma il ricordo di questi giovanissimi combattenti resta scolpito nella memoria popolare. Tra questi ragazzi il più longevo è stato Delfino Borroni, scomparso nel 2008.
Un racconto fantastico… se si dimentica che in fin dei conti si tratta di giovani poco più che adolescenti mandati direttamente al macello.
Commiato
All’assessore Lucica Bianchi l’onere anche dei saluti conclusivi. “vorrei che tutti vedessero questa serata non come conclusione di un evento, ma come un anticipo della giornata di domenica quando tutto il paese renderà onore agli eroi talamonesi caduti” ha dichiarato l’assessore prima di leggere alcuni passaggi di un piccolo libro di memorie di guerra scritto da Buongiorno Tasca che racconta le gesta della brigata Pavia, una delle più rinomate, ma anche e soprattutto le gesta di coloro che furono soldati sul campo dell’onore per dare a noi una patria più grande e ricordarli non solo è un sacro dovere per il tributo di gratitudine che dobbiamo loro, ma è una nostra necessità di vita interiore. Come le gole arse dalla calura cercano le limpide fontane per abbeverarsi e ristorarsi così l’anima nostra ha sete di luce brama di forza e di bisogno di esempi che sospingano e sollevino nelle dure prove della vita e lo preparino alla prova che un domani la patria minacciata può chiederci, quella dell’ultimo sacrificio. Dobbiamo quindi prepararci ad essere forti perché soltanto se riusciamo ad essere forti riusciamo ad essere liberi. Dopo questa lettura il ringraziamento ai ragazzi e a tutti coloro i quali sono intervenuti a questa serata partecipata.
Beata l’epoca che non avrà bisogno di eroi. È una frase che si sente spesso dire. Finora un’epoca simile non è ancora arrivata. Ogni epoca ha avuto i suoi eroi mitici o storici che fossero e ognuno ha avuto la sua celebrazione. Questi eroi di epoca in epoca sono andati ad accumularsi e chissà che le memorie che hanno creato con le loro gesta non possa contribuire a costruire piano piano un mondo che ricorderà si ancora gli eroi del passato ma che esso sia un passato lontano e non si abbia più da piangere nuovi eroi nel presente e soprattutto nel futuro. Un’epoca in cui gli eroi potranno riposare in pace il sonno dei giusti con la serena consapevolezza che il mondo non avrà mai più bisogno di invocarli e che le file di coloro che sono caduti non si ingrosseranno più.

                                                                                              Antonella Alemanni

 

foto gallery

 

 

LA LATTERIA VALENTI DI TALAMONA: UNA STORIA DI SAPERI E DI SAPORI

TALAMONA 19 settembre 2015 seconda e ultima serata dell’iniziativa “TALAMONA SCRIGNO DI CULTURA”, nel contesto delle GIORNATE EUROPEE DEL PATRIMONIO 

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l’allestimento per la serata 

IN OCCASIONE DELLA SECONDA E ULTIMA GIORNATA EUROPEA DEL PATRIMONIO UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DEL CIBO TIPICO COME MOTORE DI CIVILTA’ E IDENTITA’ CULTURALE di Antonella Alemanni

Nell’edizione di quest’anno la coincidenza delle giornate europee del patrimonio con l’evento internazionale di EXPOMILANO 2015 dedicato al cibo offre svariate opportunità di progettare eventi, momenti di riflessione, di condivisione o di dibattito intorno al tema dell’alimentazione, ma non soltanto dal punto di vista di sostentamento, ma anche come patrimonio tradizionale e identitario di una comunità. Il cibo ha da sempre occupato un posto centrale nel rapporto tra uomo e natura, tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Questa è una realtà caratterizzata da una forte dimensione sociale che si rifletteva non solo in tavola, ma anche nei rapporti di convivenza e di lavoro all’interno di una comunità. In questa chiave di lettura l’alimentazione nonché la produzione del cibo si presenta come un fenomeno alquanto sfaccettato e composto nel suo interno da un insieme di aree funzionali che rendono il cibo un vero e proprio fatto sociale estremamente ricco e rispondente ad una forma plastica di rappresentazione collettiva. Su queste premesse, l’evento di stasera si propone attraverso un suggestivo itinerario di esplorare il mondo della produzione casearia nei suoi aspetti sociali e culturali mettendone in risalto da un lato le complesse relazioni con le emozioni individuali e simboliche e dall’altro le caratteristiche di consumo, di elemento economico e identitario. Così Lucica Bianchi, assessore alla cultura di Talamona ha presentato i contenuti di questa serata alla casa Uboldi a partire dalle ore 20.45 “un viaggio che parte dal nostro passato per traghettarci nel presente” lo ha definito il sindaco Fabrizio Trivella, intervenuto subito dopo “un percorso per organizzare il quale tutti in amministrazione abbiamo messo impegno e passione”. Un viaggio svoltosi con la partecipazione di Vincenzo Cornaggia, presidente del consorzio per la tutela del Bitto storico e Casera, ma soprattutto in compagnia di un Virgilio d’eccezione: Simona Duca ex assessore alla cultura e ora volontaria animatrice della biblioteca e di molte sue serate (quelle che non anima le presenta) che questa sera ha illustrato la storia della latteria Valenti argomento della sua tesi di laurea.

Breve intervento di Vincenzo Cornaggia

Il consorzio per la tutela del bitto e del casera è nato da un’esigenza dei produttori e delle loro cooperative di proteggere dei prodotti che fanno parte della tradizione come appunto il Bitto e il Valtellina Casera. Quest’ultimo risale al Cinquecento mentre il Bitto ha origini addirittura celtiche, ma senza una denominazione che permette di identificarlo sul mercato non avrebbe il potenziale che ha invece avuto. Il consorzio è nato grazie all’impegno di tutti coloro che fanno parte della filiera produttiva di questi prodotti tipici dagli stagionatori ai commercianti. È nato nel 1995 quindi è un consorzio relativamente giovane. Nel 1996 siamo riusciti ad ottenere la DOP (denominazione origine protetta) per i nostri prodotti e questo ha comportato un ulteriore impegno del consorzio che ha dovuto dotarsi di un organismo di controllo che è il CSQA, ha dovuto supportare tutti i soci per quanto riguarda le pratiche burocratiche e dare una mano nella produzione. Oggi questa scelta sta pagando in modo giusto e corretto perché chi fa parte di questo circuito riesce tutt’ora ad avere un prezzo decoroso del latte mentre chi purtroppo resta fuori in questo momento è veramente in sofferenza quindi ben vengano le tradizioni e i modi giusti e corretti di valorizzarle.

Intervento di Simona Duca: il lungo cammino della latteria Valenti 

Simona Duca ha raccolto, nel corso di tre anni di lavoro per la sua tesi di laurea, l’avventura umana, sociale e culturale della latteria Valenti tuttora attiva. Una storia che stasera ha condiviso col pubblico tramite una presentazione interattiva e una narrazione animata. Una storia che Simona ha fatto partire da una data, quella dell’Expo di Milano del 1881. In quell’occasione la latteria Valenti, aperta ufficialmente da un anno, ha ricevuto un importante riconoscimento per la più che ottima qualità del suo burro: una medaglia d’oro di prima categoria e un premio in denaro di mille lire che all’epoca erano una cifra non indifferente. Un risultato per nulla scontato, punto di arrivo di un’avventura travagliatissima che parte da lontano. Bisogna tornare indietro di circa trent’anni per capire questa storia, nella Valtellina di metà Ottocento, una terra alla deriva sotto tutti i punti di vista: ambientale, sociale, umano, culturale. A quell’epoca il nostro territorio faceva ancora parte dell’impero austroungarico. L’imperatore, a seguito di una ispezione territoriale, istituisce una commissione di inchiesta formata da vari studiosi, scrittori, soprattutto agronomi, capeggiata dall’agronomo Stefano Iacini, uno dei migliori nel suo campo all’epoca, il quale conclude che lo sfruttamento intensivo dei boschi e l’abbattimento scellerato degli alberi ha portato ad un vero e proprio cambiamento climatico (e pensare che nel Cinquecento, almeno a Talamona c’erano statuti avanzatissimi per disciplinare lo sfruttamento dei boschi, possibile che sono bastati poco meno di tre secoli per dimenticarseli? Ndr) un cambiamento che ha avuto come conseguenze più alluvioni e grandinate che hanno devastato i raccolti. La popolazione si è trovata dunque indebolita dalle carestie e dunque più esposta alle malattie, dovute appunto in parte al clima pessimo e in parte alla scarsa alimentazione, malattie come tubercolosi, scrofolosi, pellagra, rachitismo. Una popolazione talmente sofferente che ha fatto si che proprio in quegli anni la parola cretino entrasse nel vocabolario come sinonimo di valtellinese. Come se non bastassero le malattie delle persone, anche le viti e i bachi da seta, le risorse economiche principali, si ammalavano. Come conclusione della sua inchiesta Iacini scrisse: il 90% della popolazione valtellinese vive in condizioni di poca fortuna (il che voleva dire arretratezza e indigenza con la gente che arava persino i pochi campi coltivati senza usare gli animali per la maggior parte). Fino al 1859 occuparsi di queste problematiche era competenza degli austriaci. Dopo il 31 maggio 1859 diventa competenza del Regno d’Italia del quale la Valtellina entra a far parte un paio d’anni prima dell’unificazione e della proclamazione ufficiale il 17 maggio 1861. A chiunque se ne occupi comunque resta il problema di capire come bisogna agire per risolvere la situazione. Gli austriaci finchè il compito è toccato a loro hanno provveduto a rimboschire abbassare le tasse e ad istituire una lotteria per i poveri nell’ambito della quale tutti quanti erano obbligati a comprare almeno un biglietto, persino i religiosi. Dal 27 luglio 1860 ha inizio il Risorgimento in Valtellina anche grazie all’operato di Luigi Torelli colui il quale ha issato la bandiera sulla cima del Duomo durante le Cinque Giornate di Milano e che in quella data di luglio istituì una sorta di commissione, un Consorzio Agrario, che strappò al governo italiano la promessa di abbassare le tasse e di poter trattenere sul territorio valtellinese il 48% delle riscossioni da reinvestire per il rilancio. Di questa commissione faceva parte anche Clemente Valenti. A questo punto bisognava accordarsi circa le risorse su cui puntare per il rilancio territoriale. Il territorio valtellinese già dal Quattro-Cinquecento era per la maggior parte coltivato a vite a terrazza (che svettano orgogliosamente ancora oggi lungo la strada verso Sondrio ndr) ma facendo parte di un’Italia unita non era pensabile riuscire a porsi sul mercato col vino dovendo competere coi vigneti piemontesi, toscani e quant’altro anche se per la maggior parte i consorziati erano proprietari di viti ed era nei loro interessi tentare questa strada. Nemmeno i bachi da seta risultarono una risorsa praticabile. Ci voleva qualcosa di peculiare del territorio. Di certo non i prodotti agricoli, assolutamente improponibili vista la vicinanza con la ricca e fertile pianura padana. Restava a questo punto l’allevamento. I pascoli crescevano spontanei e non si ammalavano, erano abbondanti, la transumanza era una tradizione di lunga data. Le bestie sane e nutrite producevano latte da cui i valtellinesi sapevano trarre ottimi prodotti derivati. Ecco dunque la risorsa giusta su cui puntare: i prodotti caseari considerando che i valtellinesi si ritenevano i migliori casari sulla piazza. Il primo banco di prova per testare questa risorsa si presentò in occasione dell’Expo di Parigi del 1878 una delle prime manifestazioni a dare ampio spazio alla produzione di formaggi anche perché pure i francesi coi loro 150 mila tipi di formaggi diversi avevano un certo talento in materia e oltretutto la furbizia di organizzare l’Expo in primavera- estate in un’epoca senza frigoriferi che rendeva impossibile a tutti i Paesi partecipanti (tranne ovviamente il loro) trasportare formaggi freschi. Va da sé che i francesi si regalarono praticamente una vittoria schiacciante. Il secondo posto lo ebbero a pari merito Inghilterra e Svizzera che presentavano formaggi stagionati, invecchiati anche di molti anni giudicati innovativi che più invecchiavano più acquisivano qualità. Al terzo posto Olanda e Austria. Gli olandesi avevano introdotto un nuovo tipo di margarina chiamato burrina e gli austriaci un burro fatto di autentico burro per il 40% e poi arricchito per il restante con polvere di patate. L’Italia ottenne una menzione speciale per la vasta tipologia di formaggi grazie alla quale avrebbero potuto tener testa ai francesi se non fosse che si trattava di prodotti non commerciabili perché non vi erano metodi precisi per produrli. Ogni casaro lavorava autonomamente con metodi empirici nella sua cantina ognuno si faceva la sua forma diversa dalle altre. Questo è stato l’aspetto penalizzante. La peggio comunque l’hanno avuta i formaggi spagnoli giudicati letteralmente insipidi e dall’aspetto zozzo. Dopo l’esperienza tutto sommato incoraggiante dell’Expo al Ministero dell’Agricoltura ci si industriò a rendere commerciabili i prodotti caseari introducendo delle normative e dei protocolli di produzione unificati e istituendo tre scuole di formazione per casari e direttori di latteria. Una scuola superiore di agricoltura a Milano e due stazioni sperimentali, una a Reggio Emilia e una a Lodi. Da queste scuole i migliori passavano direttamente agli stage in Svizzera e poi in Danimarca a studiare Chimica poiché le università nordeuropee sono state le prime a mettere a punto prodotti chimici destinati all’industria casearia. Da queste scuole uscirono grandi nomi del settore come Gaetano Cantoni (che disse la storica frase il progresso si fa dove si produce il formaggio) e Carlo Pisona da Milano Luigi Manetti da Lodi e Luigi Zanelli da Reggio Emilia, autori di trattatelli molto efficaci sui metodi di produzione casearia. Una volta istituite le scuole bisognava fondare le latterie che andavano incentivate, così si istituirono con esse dei premi in denaro per la somma di 250 lire (una somma non da poco se si considera che per fondare la latteria Valenti ce ne sono volute 350) da assegnarsi alle latterie che rispettavano tre criteri di garanzia: in primo luogo la commerciabilità data da allevatori esperti e bestiame sano da metodi di produzione unificati e approvati a livello nazionale e dalla sperimentazione scientifica. Queste metodologie prevedevano la creazione di locali appositamente adibiti per la produzione e lavorazione del latte, un associazionismo rurale (il che voleva dire che i casari dovevano mettere insieme le loro risorse e il loro latte senza più fare ognuno per sé come si era sempre fatto precedentemente) sulla base delle quali fondare latterie a sistema sociale e non più turnario dove per sistema sociale si intendeva un unico casaro che per tutta la stagione seguisse interamente la produzione casearia, uno scelto tra tutti gli associati e non tutti gli associati a turno. Sulla carta insomma c’erano tutti gli elementi volti a favorire una maggiore commerciabilità dei prodotti. Tutte queste innovazioni però non significavano semplicemente dei ritorni economici, ma nelle intenzioni di chi li aveva messi a punto essi avrebbero dovuto portare anche a dei progressi socio culturali. Nuove metodologie unificate non potevano prescindere da una buona istruzione di base e dunque non erano più pensabili casari analfabeti. Ora per imparare il mestiere si studiava, si progrediva socialmente, associandosi si condividevano le risorse, le si ottimizzava, più risorse significava per gli stessi casari in primo luogo più ricchezza e benessere. Ormai il territorio lo si poteva considerare ufficialmente rilanciato e a confermare cio fu la definitiva consacrazione all’Expo del 1881. Bisogna però considerare che se le cose sulla carta sono abbastanza semplici da sistemare una volta trovato un percorso, non lo sono altrettanto nella realtà. La reticenza dei contadini che non si aprono alle innovazioni, alle collaborazioni, alla possibilità di imparare si è rivelata un ostacolo non da poco per Clemente Valenti che più di chiunque altro ha combattuto per portare nel territorio tutte le innovazioni finora citate, per creare la latteria di Talamona e renderla competitiva a livello nazionale in modo da concorrere per i premi messi in palio e ottenere tutti i vantaggi economici e socioculturali finora descritti. Una lotta che ha dovuto tener conto anche delle “lobby delle viti” all’interno del Consorzio Agrario che avevano tutto l’interesse di veder fallire il progetto della latteria per riportare l’attenzione nuovamente sulla produzione del vino. Tuttavia Baridelli, presidente del consorzio agrario e proprietario lui stesso di viti, decide, nel 1874 di dare un’opportunità a Valenti incaricandolo di occuparsi del progetto latteria per provare a portare in Valtellina le nuove normative e metodologie varate a livello nazionale per la produzione casearia un’opportunità che Valenti coglie al volo essendo fortemente convinto che il futuro è nelle latterie e potendo contare anche sull’aiuto e il pieno sostegno di Don Pietro Tirinzoni membro del comizio agrario che non ha interessi nel campo della viticoltura. Per prima cosa, affinchè tutto funzioni, bisogna prendersi cura delle mucche, perché sono loro a fornire materia prima. Valenti sfrutta la tradizione già presente sul territorio di far crescere tra le viti un po’ di erba per le mucche e si fa recapitare dalla Danimarca semi di trifoglio viola, una pianta che le mucche amano, per piantarla tra le viti. Nel 1875 poi è la volta della stesura, sempre da parte di Valenti, del primo statuto organico per le latterie sociali di tutta la Valtellina e della fondazione, nei locali a pianterreno di Palazzo Valenti, del primo nucleo di quella che diventerà la latteria Valenti che però chiuderà dopo tre settimane. Motivo? I contadini, come si è accennato prima. Reticenti, diffidenti gli uni verso gli altri, ma anche verso queste spinte progressiste, poco inclini ad attenersi ai regolamenti. Perdipiù visto che i finanziamenti regionali tardavano, Valenti, per avviare il tutto, si era visto costretto a richiedere a tutti i contadini 5 lire di tassa che nessuno poteva dare. A completare l’opera giunge, nel 1875, la morte di Pietro Tirinzoni. Sarebbe stata la fine se quell’anno le viti non si fossero ammalate di filossera permettendo a Valenti di continuare il suo progetto, perché, essendo le viti ammalate, il latte era ancora l’unica risorsa su cui puntare. Gli anni dal 1876 al 1879 vedono Valenti impegnato a scrivere lettere ai comizi agrari e al ministero dell’agricoltura e a prendere contatti (tramite uno zio, Geremia Valenti che vive a Milano) con la realtà delle scuole tecniche superiori di cui si è parlato precedentemente, in particolar modo con Gaetano Cantoni affinchè tenesse delle conferenze in Valtellina per indottrinare la popolazione. Simona a questo punto ha letto un estratto di una delle lettere febbrili scritte dal Valenti in quel periodo di lotta per un sogno. Le latterie sociali, convenientemente sviluppate, sono destinate a mutare le attuali infelici condizioni del nostro commercio del formaggio e ad apportare un benefico vantaggio alle popolazioni della nostra vallata. Gaetano Cantoni non verrà mai in Valtellina, manderà a sostituirlo Luigi Manetti che terrà due conferenze una a Morbegno e una a Grosotto per coinvolgere sia l’alta che la bassa valle. La reticenza dei contadini (e in parte anche dei membri del comizio agrario) giocherà un ruolo anche qui insieme ad una sfortunata combinazione di fattori. I comizi si sono tenuti dapprima in una domenica delle palme e comunque in periodo di fienagione. Un po’ per onorare le feste, un po’ per non trascurare i campi, quasi nessun contadino si presenta ai comizi del Manetti che dunque parla a Valenti al comizio agrario e a quei pochi contadini che si sono presentati, ma, a sorpresa, parla in dialetto e questo trasforma l’iniziale diffidenza in una certa simpatia anche se in realtà si trattava di interventi pieni di critiche. Manetti fa notare una cosa semplice. D’estate quando ci si ritrova tutti insieme in alpeggio si condividono le mucche, il latte, i locali per fare il formaggio la resa è maggiore rispetto che in inverno quando ognuno fa per conto suo e dunque perché non comportarsi tutto l’anno come in estate, associandosi permanentemente? A fornire ulteriori stimoli di miglioramento arrivano nel 1879 dapprima un concorso del Ministero dell’Agricoltura con il premio in palio all’EXPO di Milano del 1881 (quello che, come abbiamo già detto è stato vinto) e poi sempre dal ministero un aiuto economico di 250 lire stanziate per chiunque intendesse aprire una latteria. In Valtellina sorgono quelle di Talamona, Bormio e Grosotto che però per avere il premio in denaro devono fornire garanzie. Clemente Valenti nel frattempo è diventato sindaco di Talamona e può così garantire attraverso il comune. Nel 1880 scrive un nuovo statuto per la latteria sociale di Talamona togliendo dal regolamento le cinque lire di tassa che comparivano nel primo regolamento e aggiunge ai finanziamenti statali 140 lire di tasca propria. Nel complesso le spese serviranno a risistemare i locali di lavoro al prezzo di 233 lire e a prendere a noleggio i macchinari con tutto il restante. I locali li fornirà il pittore Giovanni Gavazzeni amico e dirimpettaio di Clemente Valenti che fornirà al prezzo d’affitto di 100-110 lire annue i locali al pianterreno della sua casa. Per lavorare nella sua nuova latteria Clemente Valenti vorrebbe casari che sappiano leggere e scrivere, ma in quegli anni il massimo cui può aspirare sono i semianalfabeti. Il primo assunto si chiamava Carlo Ciaponi che se la cavava coi numeri al punto che ogni allevatore portava in latteria la sua parte di latte contrassegnata da un numero, un’usanza che si è mantenuta nel tempo. Il regolamento della latteria è stato firmato il 18 gennaio 1880, la latteria sociale nasce ufficialmente il 27 febbraio (a Grosotto nacque qualche tempo prima, ma ancora con sistema turnario) e conta 41 soci e 65 mucche cifre destinate col tempo ad aumentare soprattutto dopo il successo all’EXPO Milano 1881. Un successo che se non si traduce in effettiva commerciabilità dei prodotti non serve. La produttività della latteria negli anni Ottanta dell’Ottocento si aggirava intorno a 50 kg di burro a settimana lasciando il restante latte per la lavorazione di formaggi magri e semigrassi che si vendevano a Morbegno e tuttalpiù a Lecco. Come espandersi? Preparando meglio i casari ad esempio. Nel 1883 la latteria Valenti diventa il secondo Regio Osservatorio di caseificio in Italia (il primo è Portici) cioè una scuola che prevedeva corsi teorici e pratici con tanto di stage da cui uscivano i migliori casari cui tutte le latterie, perlomeno dei dintorni, facevano riferimento, una delle prime scuole italiane ad ammettere dal 1885 anche donne molte delle quali madri che educando i figli trasmettevano loro quello che avevano imparato. Per studiare da Valenti arrivavano da tutt’Italia. A questo punto Simona ha letto un estratto della sua tesi, un aneddoto relativo ad un ragazzo sardo con tanto di lettera scritta dal medesimo. Nominati all’ultimo momento non fu semplice raggiungere Talamona (per i praticanti casari ndr). In particolar modo non tutti avevano le idee chiare sul corso, sullo svolgimento e soprattutto sul viaggio per raggiungere il paese. In particolar modo questo ragazzo scrive: sono stato nominato almeno per il prossimo trimestre del corso pratico e teorico di caseificio di codesta latteria con assegno di 50 lire mensili per pagare vitto e alloggio e mi dovrò trovare da lei entro il 15 corrente. Io non conosco codesti luoghi ne alcuno sa dirmi condizioni a riguardo del corredo del mio collocamento perciò mi rivolgo a lei, onorevole direzione, pregandola della gentilezza di indicarmi se gli alunni vengono alloggiati in uno stabilimento, in un albergo o in case private, quale bagaglio si deve portare cioè solo gli abiti o se sono necessari anche materasso e biancheria da letto e prego anche di indicarmi quali pratiche sono necessarie per procurarmi vitto e alloggio. Praticamente si andava alla ventura iscrivendosi già maggiorenni. Fortunatamente Clemente Valenti aveva molti riguardi verso i suoi allievi. I maschi alloggiavano nelle case nei dintorni della latteria mentre le ragazze al terzo piano del Palazzo Valenti con la servitù. Una  di queste ragazze, originaria di Osopo, anni dopo scriverà una lettera al Valenti per ringraziarlo di averla fatta sentire a casa e per mandare gli auguri di Natale con anche dei doni: un carretto giocattolo per il figlio Guido e una lingua salmistrata per lui e la sua gentil signora (i maschi invece scrivevano solo per richiedere lettere di raccomandazione quando volevano concorrere come direttori di latteria). Luigi Zanelli, formatosi a Reggio Emilia in visita nel 1885 in Valtellina dovette riconoscere gli alti standard di qualità raggiunti. Ma restava ancora da risolvere la questione della commercializzazione su larga scala dei prodotti. In tal senso un trampolino di lancio lo fornisce un’esposizione nazionale organizzata a Lodi nell’ambito della quale la Valtellina entra in contatto con ditte e commercianti a livello nazionale. Un po’ grazie a questi contatti un po’ tramite il passaparola i prodotti circolano, in particolar modo il burro, fiore all’occhiello, che nel 1886 sta sulle tavole degli alberghi di Montecarlo, ma che fa la sua bella figura anche negli alberghi valtellinesi in particolar modo alle terme di Bormio dove giunge un notaio di Roma, tale Cerretti,  che farà conoscere alla sua cerchia di conoscenti il burro valtellinese e contribuirà ad aprire i commerci con Roma. Col tempo i commerci si espandono in tutto il Piemonte, la Liguria parte della Francia, a Terni al Grand Hotel Europe e all’estero, a Londra ad Atene per circa un anno e ad Alessandria d’Egitto per poco meno (il problema era il trasporto, non c’erano le celle frigorifere, bisognava avvolgere il burro in stracci umidi e riporli in tole di latta rivestite con paglia). Fu anche per seguire queste rotte commerciali che  Clemente Valenti volle la stazione di Talamona. Gli inizi come sempre furono un po’ difficili. Un tale Melchiorre Sordi non riteneva il burro di Talamona commerciabile perché era di colore giallino e perdipiù aveva insinuato il dubbio che fosse impastato. Valenti si arrabbiò e il resto è storia. Una storia che lascia spazio anche alla leggenda, una leggenda che vuole che il nostro burro sia arrivato anche a Calcutta. In realtà era successo che una ditta londinese che commerciava anche a Calcutta avesse avanzato questa proposta, ma non se ne fosse fatto nulla poi. Sempre da Londra giunsero proposte per modernizzare la produzione, per adeguarsi ai gusti della gente che apprezzava i formaggi grassi, per fare i quali però bisognava non produrre il burro che era il prodotto di punta. Si pensò allora di innovare il burro, creando il burro salato. Da Londra avevano preparato le etichette, Valenti ha preso contatti coi direttori di latteria, ma gli allevatori non volevano saperne. C’è sempre nella popolazione questa tendenza a bloccarsi di fronte alla prospettiva di fare i salti di qualità veri e propri. Ma non si può non dare comunque merito al Valenti e all’avventura della latteria senza la quale noi tutti oggi saremmo molto diversi.

Non ho potuto fare a meno di pensare, mentre ascoltavo, a come il latte in questa storia abbia assunto un’ulteriore motivazione per essere definito fonte di vita. Non solo perché nutre gli infanti, ma perché l’ha resa migliore a tutti e a tutti ha dato l’opportunità di essere migliori.

Antonella Alemani

TALAMONA SCRIGNO DI CULTURA. SCORCI DI NOVECENTO IN VALTELLINA

TALAMONA 18 settembre 2015 la prima delle due serate dell’iniziativa TALAMONA SCRIGNO DI CULTURA

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SCORCI DI NOVECENTO IN VALTELLINA ATTRAVERSO LA SCRITTURA DI INES BUSNARDA LUZZI E IL CANTO CORALE

UN SAGGIO DELLA DOTTORESSA FAUSTA MESSA E UN PICCOLO CONCERTO DEL CORO VALTELLINA PER UNA CELEBRAZIONE DELLA NOSTRA IDENTITA’ DI POPOLO

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Con la nuova amministrazione, vecchie iniziative di successo riaprono i battenti. E così eccoci qui stasera alla Casa Uboldi alle ore 20.45 a furor di popolo per la prima di due nuove serate nell’ambito dell’iniziativa delle giornate europee per il patrimonio, un’occasione unica per chi vi aderisce di riscoprire e valorizzare tutti quegli elementi che vanno a costruire e mantenere salda l’identità di un territorio e del popolo o dei popoli che lo abitano. Ed ecco che Talamona quest’anno in occasione di questa iniziativa si trasforma in uno scrigno di cultura “che si apre mostrando i suoi tesori” ha commentato l’assessore alla cultura Lucica Bianchi in chiusura di questa serata. Ma cominciamo da principio. Il tesoro che questa sera Talamona e tutta la sua comunità hanno voluto ricordare a se stesse non è un patrimonio immateriale o un capolavoro artistico (tutte cose peraltro molto importanti) bensì una persona, una persona che purtroppo non c’è più, ma che per più di una generazione di talamonesi ha significato molto, determinandone l’istruzione e la formazione. Stiamo parlando di Ines Busnarda Luzzi, colei alla quale è intitolata la nostra biblioteca e alla quale erano già state dedicate serate in un periodo in cui l’intera struttura della Casa Uboldi era ancora, per così dire, in rodaggio. Ed eccoci ancora qui tutti a ricordare di nuovo la figura di questa maestra che è stata anche una notevole scrittrice nonché un’istituzione socio culturale per Talamona che divenne sua patria d’adozione dopo il matrimonio.

Questa sera di fronte ad una platea di tutte le età  la dottoressa Fausta Messa (docente di materie letterarie in un liceo sondriese nonché direttrice dell’Istituto Sondriese per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea) ha esposto i contenuti del suo saggio su questa importante figura pubblicato in un quaderno di studi intitolato SCORCI DI NOVECENTO IN VALTELLINA edito proprio dallo stesso istituto diretto dalla dottoressa Messa. Un saggio attraverso il quale è stato possibile scoprire (o riscoprire a seconda se si conosceva già la maestra Ines come tutti la chiamavano) la vita di questa donna, le sue opere tratte sempre dal suo vissuto personale e dalle memorie della sua terra. “libri dei quali non bisogna guardare la quantità quanto piuttosto il messaggio che sta dietro la sua produzione” ha esordito l’assessore alla cultura Lucica Bianchi introducendo l’intervento della dottoressa Fausta Messa “questa sera faremo appunto un viaggio alla scoperta di questo messaggio. Parlando proprio l’altro giorno con la dottoressa Messa, le riflessioni fatte in merito ci hanno portato sul territorio dell’Umanesimo. L’abbiamo chiamato così per esprimere quello che di più umano, di più profondo ognuno di noi può trovare negli scritti di Ines Busnarda Luzzi” a questo punto la parola è passata ufficialmente alla dottoressa Fausta Messa per il suo intervento suddiviso in più parti.

Ines Busnarda Luzzi una scrittrice di montagna

Buonasera a tutti sono molto contenta di essere qui stasera ad omaggiare questa scrittrice che mi ha molto colpito quando ho letto le sue opere proprio nella biblioteca a lei intitolata. UNA SCRITTRICE DI MONTAGNA è il sottotitolo del mio saggio intitolato ATTRAVERSO LA SCRITTURA DI INES BUSNARDA LUZZI. Qualcuno si chiederà come mai ho scritto questo saggio e poi l’ho pubblicato in un quaderno dedicato agli studi sulla Resistenza. Ho pensato che fosse giusto perché, leggendo i libri di Ines Busnarda Luzzi e avendola anche conosciuta avendo conosciuto la figlia Giulia qui presente stasera tra il pubblico, ho pensato fosse doveroso renderle questo omaggio in virtù del suo impegno civile, sociale e culturale nei confronti della sua comunità. Lei credeva profondamente nei valori della Resistenza, quei valori che sono stati declinati nei principi fondamentali della nostra Costituzione, credeva molto nella giustizia, nel cammino che la Storia deve fare verso la giustizia, perché purtroppo questo cammino è sempre aperto e la fine di questo cammino ancora non si vede. Mi sembrava quindi giusto fare questo studio e pubblicarlo su questo quaderno, un quaderno speciale perché è uscito nel trentennale dell’Istituto ed è dedicato a una donna sindacalista e al suo interno contiene vari saggi dedicati a donne: donne semplici, donne colte, comunque tutte unite dall’ideale dell’istruzione e dell’educazione perché tutte sono state maestre, chi di sartoria, chi maestra elementare, comunque tutte innamorate della cultura e soprattutto animate dal desiderio di comunicarla. È molto bello a proposito che in queste serate si celebri la cultura perché mi sembra che Ines sia stata una signora della cultura, un’animatrice culturale, una dispensatrice di cultura, sia della cultura alta, che lei ha sempre amato fin da quando era bambina e sui banchi di scuola ha cominciato a leggere e a scrivere dimostrando fin da subito la sua vocazione per la scrittura, sia la cultura contadina, agropastorale che lei ha riscoperto in età adulta.

Dalla costiera dei Cech al Mondo attraverso uno sguardo femminile

Io anni fa avevo letto CASE DI SASSI nell’edizione del 1982. Adesso mi è capitato di rileggere l’edizione successiva che credo sia del 1984 e ho trovato una pagina che non avevo visto precedentemente che mi ha dato la conferma di alcune cose che avevo già intuito. Scorrendo la bibliografia messami a disposizione dalla figlia di Ines insieme a queste splendide fotografie di famiglia, avevo visto che Ines aveva scritto in maniera molto viva soprattutto a partire dagli anni Ottanta. Aveva scritto anche precedentemente, ma il corpus più significativo della sua opera lo si ritrova proprio a partire dagli anni Ottanta e così avevo pensato: Ines era ormai in pensione dal 1978, i suoi figli erano grandi e poteva dedicarsi maggiormente alle sue passioni e avrà voluto scrivere, ma scrivere, ma scrivere che cosa? Evidentemente all’improvviso Ines si era resa conto che quel mondo da cui lei proveniva, quel mondo che l’aveva fatta crescere e maturare, diventare donna e maestra, quel mondo non c’era più, era sparito, perché ormai anche i piccoli paesi di montagna si spopolavano, non c’era più un’economia basata sull’agricoltura e sull’allevamento, soprattutto in montagna. Allora, ho pensato, le sarà sorta dentro l’onda dei ricordi e di tutte le narrazioni che la sua prima maestra ed educatrice, sua madre, nel corso della vita le aveva fatto e probabilmente Ines ha sentito il bisogno e il dovere morale di far rivivere quel mondo, un mondo durissimo, nei confronti del quale Ines non aveva nessuna nostalgia, un mondo che non aveva nessuna voglia di riproporre ai giovani quel modello di vita che lei aveva vissuto e da cui in un certo senso aveva anche cercato di scappare studiando, diventando maestra e quindi spezzando quella catena che sembrava appunto costringere tutti gli abitanti del suo paese di Naguaredo, ma anche tutti gli altri paesi di montagna, a restare legati al lavoro durissimo di quei pochi appezzamenti di terreno che si riusciva a strappare e a dedicarsi all’allevamento riuscendo semplicemente a sopravvivere. Si lavorava moltissime ore senza riuscire ad accumulare molto di più dello stretto necessario. Dunque a distanza di tanti anni Ines sente il dovere morale di trasmettere ai giovani un mondo che non c’è più, un mondo difficile nei confronti del quale però bisogna essere riconoscenti. Se noi tutti ora stiamo meglio e siamo riusciti a raggiungere determinati traguardi di cultura e civiltà lo dobbiamo infatti anche a tutti quei nostri antenati che si sono sacrificati così tanto proprio per mantenere la terra e per trasmetterla poi in eredità ai loro figli tant’è vero che Ines scrive (tratto da CASE DI SASSI ndr) nella dolce e tribolata terra di Naguaredo passava in quel tempo la mia fanciullezza e quella dei miei coetanei. Ma l’adolescenza ci separava, portava i maschi a Roma a fare i commessi di bottega e lasciava noi ragazze a coltivare insieme ai genitori campi, prati e selve belli all’apparenza sino alla poesia, ma succhiatori di energie e di sudori, tanto che senza quel contributo proveniente dalla forza delle braccia di giovani ed anziani rimanevano aridi e selvaggi come ora sono diventati. Tutto è diventato arido, ci dice Ines, selvatico perché nonostante la scienza ecologica venga insegnata a scuola e sia diventata di moda non ci sono più i pastori, le donne pastore e gli agricoltori di montagna che tengono pulita la terra, che raccolgono la legna caduta per terra e liberano i sentieri da erbacce e sterpi. Tutto è inselvatichito, il bosco avanza e si riappropria dei vecchi pascoli. Scrive ancora Ines in quel tempo nessuno di noi, giovani ed anziani, avrebbe potuto supporre che si potesse abbandonare quella terra a se stessa, che potesse venire il tempo in cui non si vangasse, non si seminasse, che si potesse fare a meno di coltivare e raccogliere i cereali che ci davano pane e polenta, che sarebbe venuto il tempo in cui molte specie di uccelli sarebbero emigrate per sempre dalla nostra terra, che i prati non si sarebbero più falciati ne che non ci sarebbe più stata una mucca in tutto il paese che con il suo bronzino dal suono d’argento vi avrebbe pascolato d’autunno. Quindi rendendosi conto di questo  Ines decide di ripercorrere a ritroso quel mondo, di ritrovare se stessa bambina. Lei ormai è una donna adulta, un’insegnante a riposo, non è più quella persona che viene da quel mondo però fa lo sforzo di ritrovare se stessa bambina e lo sguardo con cui lei bambina si rivolgeva a quel mondo.

Raccontare per vivere: le parole come atto d’amore e di educazione tra madre e figlia

Sicuramente, e io questo l’ho percepito moltissimo, la voce narrante che è scaturita dentro al suo cuore nel suo ricordo era la voce della sua mamma, un personaggio che è la voce narrante e protagonista del capolavoro di Ines intitolato NASCERE SOTTO UNA STELLA. In questo libro Ines chiama sua madre Erminia. I personaggi del libro sono tutti reali, ma Ines, per una sorta di pudore personale e di rispetto verso i compaesani, attribuisce a ciascuno uno pseudonimo. Il libro da anni non è più ristampato ed è diventato introvabile, ma per molte persone è stato ed è ancora significativo per ritrovarci dentro ognuno la storia dei propri “vecchi”. Leggendo questo libro ho dunque capito che il flusso del racconto, il narratore primario è proprio la madre. Io immagino che, nella durezza della vita che la madre di Ines aveva condotto, forse l’unica consolazione e svago era raccontare e confidarsi con sua figlia e in questo modo insegnarle e prepararla alla vita con un’educazione molto severa e intransigente perché la vita è dura e i giovani devono essere attrezzati per affrontarla. Questo è ancora, io ritengo, un grande insegnamento di Ines Busnarda Luzzi: l’educazione deve essere severa, non si può essere blandi perché altrimenti, anche se non viviamo più sui monti, la vita ovunque ci mette di fronte a delle prove nonostante la tecnologia e le comodità cui ci siamo abituati.

La memoria materna: essere donna, essere uomo, l’amore

Dunque tutta la memoria materna nutre il racconto di Ines. La madre che l’aveva sempre sostenuta nel suo desiderio di studiare e che aveva poi felicemente salutato la sua unione con un professore di matematica anch’egli proveniente dal mondo contadino. La memoria materna per Ines prende corpo soprattutto nel già citato romanzo NASCERE SOTTO UNA STELLA di cui ora leggerò l’incipit, secondo me un inizio di romanzo veramente riuscitissimo e molto raffinato. Ines dopo aver raccolto i materiali preparatori e i suoi ricordi in CASE DI SASSI pubblicato nel 1982 si cimenta poi con questo romanzo in una prova molto più difficile che è la stesura appunto di uno scritto letterario e anche di un certo spessore una saga familiare il cui inizio è molto denso: come al solito si svegliò al primo nghenghe della bambina. Doveva essere ancora presto e doveva aver dormito ben poco data la fatica e la sofferenza che le procurava quel risveglio. Il cuore le mancava e la mente le oscillava paurosamente fra realtà e sogno tuttavia, prima che la piccola riprendesse i vagiti Erminia riuscì a muoversi e spostarsi a destra sull’orlo del letto cercando di non pesare troppo sul saccone di grano turco per non farlo scricchiolare. Scivolò verso i piedi del letto e strisciò fuori tastando il pavimento coi piedi nudi evitando di toccare la culla. Quando fu in piedi la toccò con le mani, la guardò lungo gli orli ondulati fino ai pomelli degli angoli e si orientò verso la vocetta che stava diventando acuta, avvolse l’esserino nelle coperte, la strappò dal pagliericcio e se la strinse al petto. La bimba sentendosi muovere ed avvertendo la presenza della madre per un attimo tacque. Erminia cercò con i piedi i suoi zoccoli. Il pavimento di calcestruzzo era gelido come tutto l’ambiente intorno. Li trovò ma nell’infilarseli i chiodi dell’uno batterono contro quelli dell’altro. Erminia s’irrigidì tutta, trattenendo il respiro. La voce insonnolita, ma già un po’ stizzita di suo marito la sciolse e le bruciò il cuore. – eri già fuori? Non si può più dormire qui! Chi lavora avrebbe il diritto di dormire! Non sei capace di regolarla in modo da farla dormire una notte? Cos’ha in corpo quella lì?- Erminia sentiva bollirsi dentro rabbia e dolore, ma siccome era più il dolore le si formò un nodo alla gola e la voce le uscì strozzata – è che ha fame, non ho potuto darle latte a sufficienza, ora provo ancora tu dormi, vedrai che poi dormirà anche lei-. A questo punto Erminia cerca di allattare la bambina. In casa non avevano una mucca da latte, non avevano niente e lei era devastata dalla mastite che le faceva uscire dal seno più sangue che latte e rendeva l’allattamento molto doloroso. Dunque Erminia è disperata. La porta della stanza si aprì con un lieve cigolio. Batté contro la parete –allora? Non vuole mangiare o non ne hai?- scattò aspro il marito. Erminia sobbalzò al rumore e alla voce improvvisa –ohimè lei succhia poverina ha fame- rispose – ma io sono tutta una piaga e ne esce più sangue che latte- -ho capito- disse ironico lui –nemmeno a latte sei buona-. Ecco come questo inizio fa capire quale modello di uomo e di donna Ines interiorizza. L’ambiente era aspro e duro per tutti e il matrimonio non era certamente basato sugli affetti, sullo scambio di sentimenti, sul prendersi cura l’uno dell’altra, sulla tenerezza. Tutti questi sentimenti emergono un poco tra gli anziani e coi bambini, ma non più di tanto. Tra marito e moglie c’era una sorta di contratto economico e un aiutarsi l’un l’altro per lavorare e per venirsi incontro nelle fatiche domestiche e della campagna per poter tirare avanti e sopravvivere alla miseria perché la miseria era dura e il destino dei maschi già a dieci-dodici anni era quello di andare via di casa presto per andare nelle città a lavorare ed essere impiegati come garzoni per sedici ore al giorno e pagati pochissimo, perché pur essendo la montagna già spopolata (il paesello di Naguaredo aveva all’incirca cento abitanti nel 1920) la terra non era sufficiente a sfamare tutti e dunque i maschi dovevano andare a lavorare a bottega in qualche grande città, Roma soprattutto, per riuscire ad accumulare una miseria e mentre erano via alleggerivano l’economia famigliare. Per quanto riguarda le bambine facevano la scuola dell’obbligo. Le più fortunate riuscivano ad arrivare in quarta elementare, qualcuna in quinta, ma poi anche il loro destino era quello di lavorare. Persino i giochi dei bambini avevano in fin dei conti una finalità pratica. Ines descrive questi giochi in CASE DI SASSI giochi che in qualche modo dovevano abituare i bambini alla durezza della vita, abituarli ad andare poi col bestiame al pascolo, andare a raccogliere i funghi, i mirtilli, la legna. Momenti di vero e proprio svago non ce n’erano mai, ma tutto era finalizzato all’utile, anche il rapporto con la natura che era un rapporto lavorativo, un rapporto che ne permetteva il mantenimento. In cambio della fatica dell’uomo la natura restituiva i suoi tesori e tutto si manteneva grazie a questo ciclo armonico fatto di povertà e di durezza che inquadrava anche i rapporti tra le persone, tra uomo e donna, le dinamiche famigliari. Il padre di Ines ad un certo punto emigra nel Connecticut per cercare un lavoro migliore rispetto a quello che il territorio poteva offrire, lasciando la madre sola ad occuparsi di tutto. Questa madre diventa un modello di donna tenace di montagna che lavora senza risparmiarsi anche più di uomo in campagna in casa in giro facendo quel che serve e grazie a questo suo impegno riesce a comprare una mucca che apporta latte e un maggior benessere in casa. Nonostante l’economia in casa cresca il sistema educativo è sempre rigido perché le difficoltà della vita sono sempre in agguato il padre al suo ritorno sarà severissimo e non perdonerà momenti di svago. Ines però vuole studiare appoggiata dalla madre. Quando anche il padre tornerà dall’America riuscirà a frequentare la quarta poi la quinta poi ad intraprendere il percorso che la porterà a diventare maestra e ad uscire dall’atavico cerchio di fatica che aveva sempre caratterizzato la vita dei suoi avi.

Vivere per raccontare: dalla memoria alla storia alla civiltà

Mentre la madre di Ines aveva raccontato per sopravvivere, per avere un appoggio affettivo, Ines, secondo me, a partire da un certo periodo della sua vita, vive per raccontare quindi il suo racconto si costruisce sul filo della memoria però non si limita a questo perché per lei la memoria non è nostalgia non si ferma al desiderio di rievocare i bei tempi andati dimenticandosi delle sofferenze come spesso succede. Quella di Ines è una memoria che si potrebbe definire militante, educatrice, la memoria di una donna di cultura, insegnante che è sempre insegnante in ogni momento della vita e che dunque dalla memoria passa alla riflessione sulla Storia per cercare di capire se davvero la storia porta verso il progresso. La Storia è allontanamento dalla barbarie e avvicinamento alla civiltà oppure è regresso? Ines riflette molto su questo tema e lo fa attraverso un altro romanzo, in verità piuttosto breve, intitolato E NOI PAGHIAMO, ambientato durante la seconda guerra mondiale e in particolar modo durante la Resistenza a Naguaredo e poi una parte anche nel primo dopoguerra. Un libro scritto con grande equilibrio probabilmente con l’aiuto di Giulio Spini. Negli archivi dell’Istituto della Resistenza a Sondrio è emersa una lettera che Giulio aveva mandato a Ines e dalla quale si comprende che lei aveva mandato una bozza del libro chiedendo consigli. Giulio Spini ha per questo romanzo gli stessi giudizi che ho avuto io. Ne parla di un romanzo ben scritto, equilibrato, ma che necessita di un maggiore sviluppo dei dialoghi e manca del pathos del romanzo NASCERE SOTTO UNA STELLA forse perché meno partecipato, forse perché Ines punta maggiormente sull’indagine storica (col risultato di creare anziché un romanzo quella che oggi si chiamerebbe una docufiction ndr) sulla riflessione appunto. Ines presenta la Resistenza in questo romanzo con tutto il dramma di una vera e propria guerra civile che comporta morte, famiglie distrutte, paesi che perdono quasi del tutto i loro abitanti in special modo i piccoli paesi. La guerra civile è ancora peggio perché va ad intaccare il senso di comunità molto forte e importante in questi mondi rurali. La vita dura richiedeva spessissimo a queste genti di lavorare insieme di aiutarsi di essere comunità ad esempio durante la fienagione, la potatura, i raccolti, le semine, quando qualcuno si ammalava fare anche la sua parte. La Resistenza fa si che bisogna per forza schierarsi o coi partigiani o coi nazifascisti e questo crea un clima di tutti contro tutti che cozza letteralmente contro il fatto di sentirsi fortemente appartenenti ad una comunità sebbene con tutti gli screzi del caso. Una figura emblematica da questo punto di vista che compare nel libro è la figura storica di don Giuseppe Cantone parroco di Roncaglia che si schiera con la Resistenza ma è pieno di dubbi, soprattutto quando entra a diretto contatto con la violenza presente da entrambe le parti. Una violenza che però nell’ambito dell’antifascismo è determinata da un progetto superiore e umano, da ideali di libertà eccetera cosa che il nazifascismo non è anzi è l’esatto opposto. Dunque schierato con dolore dalla parte dei partigiani si ritroverà partecipe di episodi drammatici, tra cui uno che non è raccontato nel libro di Ines, l’episodio di due partigiani giustiziati perché sorpresi a rubare per i quali don Cantone ha offerto invano la sua vita. Per quanto riguarda Ines invece le è capitato di assistere all’esecuzione di una ragazza accusata di essere una spia. Nel suo libro racconterà questi fatti facendone una lettura da storica e da insegnante per consegnare una lettura della Resistenza come portatrice di pacificazione nazionale soprattutto attraverso la stesura della Costituzione. In particolare Ines pone l’accento su una vicenda che ha toccato praticamente tutte le famiglie della Valtellina che è quella dei deportati militari. Quattro o cinquemila giovani più o meno nel nostro territorio fatti prigionieri soprattutto dopo l’8 settembre una vicenda di cui anche altri scrittori locali più recentemente hanno parlato. Di questi giovani per molto tempo le famiglie non hanno saputo più nulla. Ines ad esempio racconta la storia di Giacomo la cui mamma Amalia, anziana del paese che narra la vicenda poi alla stessa Ines molti anni più tardi. Giacomo rientra in paese e fa l’esperienza di molti reduci in quegli anni che ritornano e sono sconvolti per come sono accolti, come dei traditori, sconvolti dal fatto che la guerra ha devastato persino i loro piccoli paesi di montagna. Era arrivato in Italia dopo innumerevoli sfibranti tappe che in quel momento non voleva ricordare. In ogni luogo dove si era fermato aveva visto miseria e distruzione ed ogni volta aveva pensato a quando, varcato il confine, avrebbe potuto lasciare indietro quelle visioni squallide e deprimenti. Ma anche in Italia aveva trovato distruzioni e gente che cercava di cavarsela alla men peggio e a Narosa (cioè Naguaredo nota della professoressa durante la lettura riportata ora da chi scrive) non poteva immaginare che anche lassù avrebbe trovato un disastro simile. Guerra si, ma apocalisse no. Intanto camminava, era stanco, ma camminava per la strada che entrava nella notte per arrivare alla sua Narosa. Un paio di persone lo oltrepassarono, gli dettero uno sguardo ed affrettarono il passo. Giacomo prese tutte le accorciatoie che conosceva. Era contento che fosse notte, preferiva non essere visto da gente che lo conosceva. Un paio di giorni prima non avrebbe pensato così, ma giunto in Italia, dal modo in cui veniva guardato, aveva preso coscienza della precarietà del suo aspetto. Domani, dopo che si fosse lavato bene, vestito da cristiano, mangiato a sufficienza sarebbe stato un altro. Forse la mamma aveva avanzato un po’ di minestra oppure gli avrebbe preparato un’insalata di verze crude che avrebbe mangiato col pane, tanto pane e non gli importava che fosse raffermo o ammuffito gli bastava che fosse pane, bianco o nero faceva lo stesso. Il pane e la polenta erano nei sogni di questi soldati che avevano patito moltissimo la fame e tornano dai campi di concentramento dimagriti di trenta-quaranta chili. Il primo impatto con il paese fu un profumo caro e stuzzicante che si era disperso nel labirinto della sua fame fatta di sapori e profumi di cui non ce n’era uno che non fosse falso e illusorio. Quello che ora sentiva era un profumo sicuro di cibi che d’ora in poi sarebbero esistiti anche nella realtà, odore fragrante di bruciato  

Il mondo perduto della società agropastorale: la Storia tra progresso e barbarie, guerra, emigrazione, paura, lotte sociali e diritti.

La Storia ha visto lo spopolamento delle montagne e la scomparsa di un mondo che oggi non esiste più se non forse in luoghi sperduti di altri continenti. Un mondo scomparso dapprima per via delle emigrazioni e delle guerre poi con le dittature, le persecuzioni, gli scontri sociali. Una storia che, pur attraverso tante fatiche, ha portato alla conquista dei diritti, quelli ben declinati nella Costituzione che però non possono considerarsi una conquista definitiva. Ines infatti è sempre stata dalla parte dei più deboli, delle donne, sempre e comunque proiettata verso il futuro pur comprendendo l’importanza di non dimenticare il passato. Ha scritto ad esempio una raccolta di racconti CLAUDINA DELLE ERBE in cui presenta molti tipi di donne di montagna di città ma sempre ascrivibili ad una comune tipologia di donna interiorizzata e ingabbiata nel ruolo di mater dolorosa. Ines vuole sottolineare questa condizione della donna incapace di avere dall’altro sesso il meritato riconoscimento. Un mondo raccontato con partecipazione, ma ripetiamolo, senza nostalgia di quando si scriveva con penna e calamaio. Ines aveva imparato ad usare il computer e usava la tecnologia.

E noi paghiamo: il racconto della Seconda Guerra Mondiale della Resistenza e del Dopoguerra dalla visuale di un piccolo villaggio sulla costiera dei Cek

Ho già anticipato prima alcuni brani di questo libro che ci permette di passare dalla riflessione sulla Storia alla civiltà al fatto che l’epopea dolorosa della guerra di liberazione, i partigiani e i reduci non ricevono il giusto spazio nelle coscienze e nel ricordo di cio che è stato. Ines in questo senso va controcorrente nelle sue opere e si dimostra progressista.

La poetica: la scrittura come insegnamento di moralità e di stile

Essendo un’insegnante di lettere mi interessava analizzare la scrittura di Ines non solo il Mondo e la cultura che lei fa affiorare nei suoi libri, ma anche lo stile, la poetica appunto. Poetica significa la visione personale di ciascuno scrittore circa la letteratura e la scrittura e lo stile personale utilizzato per trasmettere questa sua visione del mondo. Secondo me la scrittura per Ines è sempre stato insegnamento. Ines è sempre insegnante anche quando scrive e proprio per questo fa delle scelte particolari di lessico e di sintassi. Lei, come tutti gli insegnanti e genitori che si sono formati negli anni Cinquanta ritiene che il dialetto sia uno svantaggio e che ai bambini vada insegnato l’italiano corretto perché, come poi dirà anche don Milani successivamente negli anni Sessanta, essere fuori dalla vita nazionale significa essere fuori socialmente e svantaggiati. Dunque Ines fa una scelta di italiano standard pur ambientando le sue storie in tempi e luoghi dove si parlava prevalentemente dialetto, una scelta che va a scapito del realismo di cio che poi viene raccontato e della creazione autentica dei personaggi, ma una scelta dettata dalla consapevolezza che usando il dialetto con l’andar del tempo i suoi libri non sarebbero più stati capiti, una scelta dettata dal voler essere maestra di italiano anche quando fa la scrittrice.

Case di sassi: di strumenti, di tecniche, un modello educativo

Questo libro di cui ho già parlato non è un romanzo, ma una raccolta di memorie su persone, luoghi e fatti della sua infanzia che secondo me fungono da materiale preparatorio per la stesura del romanzo NASCERE SOTTO UNA STELLA cui si aggiunge una seconda parte forse dettata da richieste avute a Talamona di raccontare la vita di un tempo, gli antichi mestieri e la scuola. Accogliendo queste richieste Ines trasmette un mondo di saperi, strumenti e tecniche che appartengono ad un mondo che ormai non c’è più e dunque queste tecniche ormai sono andate perdute. Ma non solo questo mondo di saperi, di competenze, che permettono a chi ne fa parte di riuscire a sopravvivere praticamente con nulla, o comunque con quel poco che la natura offre, cosa che non riesce più a nessuno oggi nel cosiddetto mondo moderno, un mondo in cui tutti sanno fare tutto o comunque tutto il necessario per la sopravvivenza, un mondo che si pone anche come un modello educativo, un mondo su cui Ines, pur senza rimpiangerlo, riflette. Riflettendo sul modello educativo ricevuto e sui nuovi modelli educativi della moderna pedagogia dovuti anche e soprattutto ad un più generale cambiamento dei sistemi di vita entrati in vigore a partire dagli anni Settanta e Ottanta e operando una sorta di comparazione, Ines si è resa conto che, se nel passato c’era troppa durezza, troppo autoritarismo ora si va invece verso un eccesso di lassismo, un eccesso contrario e dunque forse valeva la pena ripercorrere queste vie per avere un modello di moralità. Dunque credo che la sua scrittura avesse questo scopo, quello di essere una scrittura educativa e di denuncia dettata dal bisogno di giustizia, una scrittura a tesi che non si trova nei romanzi autobiografici, ma nei testi di riflessione. Una scrittura che risponde alla necessità di analizzare un argomento, un problema per trovare razionalmente delle soluzioni o comunque di denunciare come quando prende a cuore la condizione femminile, ma anche, in un altro libro intitolato CHIUSURA ANTICIPATA la condizione degli anziani in casa di riposo sfiorando anche il tema del suicidio raccontando di un uomo che fa questa scelta nel momento in cui si sente sradicato dal suo mondo e dai suoi affetti. Una denuncia contro una società sempre più individualista e spietata nei confronti della fragilità, ricca, ma foriera di solitudine e disagio. Una denuncia che risponde ad un bisogno di giustizia.

L’impegno civile: una serena e operosa vecchiaia al servizio della propria comunità

Gli ultimi anni della sua vita vedono Ines particolarmente impegnata nella scrittura e nella divulgazione di temi storiografici. Gli interessi maggiori Ines li riversa sulla Storia e sulla Scienza e lei mette la sua operosità a disposizione della comunità.

Conclusioni

A questo punto, come conclusione del suo intervento la dottoressa Fausta Messa ha presentato più ampliamente il volume che contiene la storia di Ines Busnarda Luzzi così ampliamente rievocata questa sera. In questo quaderno Ines si trova in buona compagnia. Nel quaderno 11-12 dell’Istituto Sondriese di studi sulla Resistenza sono infatti contenuti altre storie interessanti: quella di Angela Samaden, una giovane che, attraverso lo studio, diventa maestra e ispettrice scolastica e dunque si emancipa socialmente; la storia di Rosa Da Sogno, maestra proveniente da una famiglia borghese madre di un grande economista; la storia di Rosa Genoni; quella dell’ospedale psichiatrico di Sondrio; quella di una maestra di 74 anni che ritrovandosi senza pensione è costretta a fare l’accattona e rischia di essere arrestata finchè il ministro credaro si interessa al suo caso e riesce a farle avere la pensione. Insomma un contenuto pienamente aderente al titolo SCORCI DI NOVECENTO IN VALTELLINA  raccontati da questo istituto da trent’anni con passione e contando su esigue risorse (come chiunque fa cultura in Italia ndr) per trasmettere a tutti il nostro patrimonio civile e culturale attraverso le testimonianza e la divulgazione dei valori della Costituzione.

Non è senza una certa partecipazione emotiva che ho ascoltato questa piccola conferenza, con la consapevolezza che la mia vita di oggi, la possibilità di acquistare libri, di informarmi, di scegliere se sposarmi e avere figli oppure no, deve molto a queste figure che per prime nel nostro territorio hanno lottato per affermarsi, figure che dovrebbero entrare nella grande Storia. È curioso ad esempio il fatto che Ines Busnarda Luzzi e Grazia Deledda siano partite più o meno dagli stessi presupposti, ma la prima è rimasta confinata nel suo territorio mentre la seconda è riuscita a diventare sinora l’unica donna italiana a vincere il Nobel per la letteratura, così come è curioso che le opere di Ines non vengano più ristampate e non conoscano più diffusione.

Concerto del coro Valtellina

È venuto ora il momento di ascoltare una scelta di brani del coro Valtellina che, un po’ come i racconti di Ines Busnarda Luzzi ci riportano ad un mondo scomparso che rivive nel canto in sei canti scelti appositamente dal coro per allinearsi con lo spirito di questa serata come LA VALTELLINA che è un vero e proprio inno alla terra UL PRA DE FIUR che racconta le storie d’amore di una volta così come LE MASCHERE che narra di quando si approfittava dei travestimenti del carnevale per incontrarsi clandestinamente, DANZA MACABRA ispirata alla leggenda dei cavalieri che ballarono con le fanciulle di San Giorgio e al mattino si trasformarono in ossa e infine LA VALLE e LA CANZONE DEL BOSCAIOLO finestre su di un mondo ormai scomparso. Una conclusione degna di questa serata offerta dal coro che, partendo da Talamona è diventato col tempo rappresentativo di tutta la Valtellina. Una conclusione durante la quale non sono mancati ulteriori tributi e onori alla protagonista indiscussa di questa serata.

Antonella Alemanni

LUGLIO TRA LE STELLE

TALAMONA dal 3 al 31 luglio la Casa Uboldi diventa planetario

 

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UN’INTRODUZIONE ALL’ASTRONOMIA A CURA DI CESARE VOLA, PROFESSORE DI FISICA

L’astronomia è una tematica che ancora mancava nel vasto e variegato catalogo di tutte quelle affrontate nel corso di questi circa tre anni di attività della Casa della Cultura. Una tematica che si presta molto bene alle sere d’estate quando (temporali e nuvole permettendo) il cielo è limpido e l’aria è piacevolmente fresca e si può star fuori sino a tardi a meditare sull’infinito. Il cielo è legato all’umanità si può dire in maniera trasversale, attirando sia persone che lo scrutano per cercare di comprenderne i misteri e le dinamiche (astronomi, astrofisici e studiosi affini) sia persone che si limitano a contemplarlo per cantarne la bellezza e le emozioni che suscita (poeti e artisti, ma anche innamorati). Nel corso di queste sere di luglio, alla Casa Uboldi, ci si è concentrati soprattutto sull’indagine scientifica del cielo, resa in modo semplice e chiaro da Cesare Vola, che questi argomenti è abituato per mestiere ad insegnarli a platee di studenti e dunque sa come attirare e tenere ben desta l’attenzione anche in chi trova ostici tali argomenti. Sfidando dunque la possibilità di una diffidenza verso la tematica, il periodo che di solito la gente utilizza per le vacanze estive, Cesare Vola ha ottenuto la possibilità per quest’anno di prolungare l’apertura della Casa Uboldi (che di solito chiude con le serate nel mese di giugno) e parlare, nel corso dei cinque venerdì di luglio a partire dalle 20. 45 circa, dei misteri del cielo, degli argomenti essenziali per formare un’introduzione all’astronomia accessibile a tutti, salutata da un discreto successo di pubblico.

 

universo

Venerdì 3 luglio 2015: il cielo a occhio nudo, pianeti e costellazioni

In un percorso di introduzione all’astronomia non si può cominciare che parlando del cielo a occhio nudo, sebbene la serata, funestata da un temporale, non si prestasse a tale argomento. “mi è sempre piaciuto osservare il cielo, studiarlo” ha dichiarato Cesare Vola introducendo la sua lezione “ed ecco che stasera vorrei cominciare proprio da questo. La cosa fondamentale da sapere, quando si osserva il cielo cercando di capire cio che succede, è che per fare cio il cielo va osservato per anni, tutte le sere un poco per volta e fare come facevano gli antichi”. Gli antichi infatti, fin dalla preistoria hanno osservato il cielo, costruendo persino dei rudimentali osservatori con le pietre dette megalitiche, perché molto grandi (come ad esempio Stonehenge). Con questi osservatori (rudimentali si, ma molto precisi tanto che alcuni studiosi hanno definito Stonehenge un computer di pietra) gli antichi osservavano le stelle “perché sin da allora si era capito che le stelle nel cielo si muovono” ha proseguito Cesare Vola “gli antichi avevano la percezione di essere fermi mentre tutto intorno a loro nel cielo si muoveva. È normale pensare di essere fermo, avere questa sensazione e dunque stando fermi gli antichi contemplavano il cosiddetto firmamento. Ma mentre gli antichi potevano contare soltanto sui loro occhi per vedere le stelle, noi al giorno d’oggi disponiamo di programmi facilmente scaricabili sul computer. Questa sera useremo un programma chiamato STELLARIUM che permette di rimuovere l’atmosfera (che filtra la luce del sole e dunque ostacola la visione del cielo) e la terra e permette di impostare un luogo da cui osservare il cielo e una data, senza dover aspettare ogni notte per anni o le condizioni atmosferiche favorevoli come dovevano fare gli antichi e come si è dovuto continuare a fare fino a tempi più vicini a noi” mentre spiegava Cesare Vola ha impostato lo stellarium sul cielo visto in quel preciso momento da Parigi e ha portato l’attenzione sulla costellazione del Gran Carro “la costellazione più facile da osservare” ha detto prima di passare alla spiegazione vera e propria “la prima cosa che possiamo osservare, è che le stelle nel cielo stanno sempre, una rispetto all’altra nella stessa posizione ed è per questo che gli antichi ad un certo punto si sono inventati le costellazioni” poi tornando a concentrarsi sull’Orsa Maggiore (altro nome del Gran Carro) ha aggiunto che “bisognerebbe osservarla per tutta la notte dalle nove della sera fino alle nove della mattina per vedere che succede. Qui e ora possiamo effettuare la stessa osservazione con questo programma mandando avanti i minuti” a questo punto si è osservata la volta celeste che ha cominciato a ruotare pian piano. Spostandosi pian piano nella volta celeste attraverso il programma con mouse e cursori è stato possibile ad un certo punto visualizzare accanto al Gran Carro o Orsa Minore il Piccolo Carro o Orsa Minore, importante perché tra le stelle di cui questa costellazione è formata troviamo la famosa Stella Polare, l’unica che mantiene in cielo una posizione fissa mentre tutte le altre stelle le ruotano intorno “in montagna prendendo come riferimento un albero o una roccia e stando a guardare il cielo per almeno un paio d’ore questo fenomeno di rotazione si nota bene anche se dopo un po’ stordisce. Gli antichi si ammattivano osservando questo fenomeno cercando di capire come e perché succedeva. Cercando di trovare una spiegazione al fenomeno, gli antichi elaborarono il concetto di volta celeste, una sfera che sta tutt’intorno alla Terra. In questa volta celeste la Stella Polare occupa una posizione esattamente sopra la Terra mentre sotto intuivano la presenza di altre stelle che non potevano vedere. Ma come se la immaginavano la Terra gli antichi? Rotonda o piatta? Ancora oggi c’è una società anglosassone (con tanto di sito Internet) che sostiene che la Terra è piatta. Gli antichi invece, soprattutto i Greci, nell’elaborare il loro modello, hanno considerato la Terra come una sfera circondata dalla sfera del firmamento. Ma chi muove le stelle contenute in questo sistema di sfere che hanno ideato? Il motore immobile, cioè una sorta di divinità (che per i cristiani più avanti sarebbe stato semplicemente Dio) che fa girare le stelle una volta al giorno”. Queste stelle sono chiamate fisse perché pur ruotando, lo fanno, come è già stato detto, mantenendosi sempre nella stessa posizione, e dunque in qualche modo ferme, una rispetto all’altra. “ma oltre alle stelle fisse esistono anche le stelle mobili, i pianeti (che gli antichi chiamavano comunque stelle perché non avevano un’idea precisa di quello che vedevano), che percorrono il cielo passando da una casa dello Zodiaco all’altra. Lo Zodiaco è un insieme di costellazioni che percorrono un cerchio in cielo, intorno alla Terra e per la maggior parte non sono facili da osservare, perché composte di stelle per la maggior parte poco luminose. Da qui dove ci troviamo alcune si possono osservare puntando lo sguardo verso sud” a questo punto Cesare Vola ha mostrato tramite lo stellarium la posizione delle costellazioni dello Zodiaco e dei pianeti sulla volta celeste “Venere e Giove li vediamo vicini” ha detto e ha parlato di un fenomeno avvenuto nei giorni immediatamente precedenti, una particolare congiunzione tra questi due pianeti che qualcuno ha definito, molto romanticamente, bacio “questo succede perché i pianeti seguono traiettorie mobili, diverse da quelle delle stelle, costanti e regolari. Ma mobili rispetto a che cosa? Rispetto alla posizione che occupano in riferimento alle costellazioni dello Zodiaco. Si spostano da una costellazione dello Zodiaco all’altra”. Per spiegare meglio il concetto Cesare Vola ha utilizzato un’altra funzione dello stellarium che permette di selezionare uno specifico corpo celeste e di seguirne il percorso in cielo rispetto a tutti gli altri. Ha selezionato Marte. “in questo momento Marte si trova nei Gemelli, una costellazione che si vede abbastanza bene perché ha due stelle luminose, Castore e Polluce, e perché si trova sopra l’Orsa Maggiore” facendo passare velocemente i giorni impostando di volta in volta varie date col programma si è potuto osservare come e dove Marte si spostava. Gli antichi per osservare questa stessa cosa dovevano pazientare notte dopo notte talvolta lottando contro condizioni atmosferiche avverse, prendendo dei riferimenti da Terra. “ecco come gli antichi sono arrivati ad elaborare il sistema composto da un gran numero di  stelle fisse e sette stelle mobili: il Sole, la Luna, Mercurio, Giove, Venere e Saturno. Ecco come, sul nostro stellarium, man mano, Marte si sposta, arriva in Cancro (non visibile a occhio nudo se non in alta montagna col cielo limpidissimo), viene superato da Mercurio… si può osservare che ogni pianeta si sposta da una costellazione dello Zodiaco all’altra, ma ognuno lo fa in modo diverso, ognuno seguendo una propria traiettoria, una propria velocità. Si può notare una stella mobile che si sposta molto più veloce delle altre, ed è la Luna che compie un giro completo nell’arco di un mese, circa 28-30 giorni”. Osservando il cielo con lo stellarium si è potuto notare come, tra i dodici segni dello Zodiaco molto noti, perché sono anche quelli usati per gli oroscopi (dei quali in chiusura si è parlato) c’è una tredicesima costellazione che compie un cerchio nel cielo Ophiucos “cui qualcuno si riferisce sui giornali come ad un tredicesimo segno Zodiacale” intanto Marte sullo stellarium ha continuato a mostrare il suo percorso e a un certo punto è tornato indietro “perché? Gli antichi impazzivano cercando di rispondere a tali quesiti, cercando di spiegare in particolar modo questo strano comportamento delle stelle mobili, chiamato moto retrogrado, in base al quale, ad un certo punto si fermano e tornano indietro (ad eccezione del Sole e della Luna che non compiono questo tipo di moto). Dopo Marte l’attenzione è stata puntata sulla Luna e poi su Mercurio (che dalla Terra non si potrà mai vedere, perché è troppo vicino al Sole e dunque lo si può intravedere o al tramonto o all’alba. Un altro pianeta che non si allontana troppo dal Sole (nel senso che non è mai al suo opposto, ma a differenza di Mercurio lo si vede perfettamente, anzi è l’oggetto più visibile e luminoso del cielo notturno dopo la Luna) è Venere, che gli antichi chiamavano astro del mattino e della sera perché è l’ultima a scomparire al mattino e la prima a comparire alla sera (per qualche popolo si trattava di una stessa stella, per altri invece due stelle diverse). Per un po’ Cesare Vola è andato avanti a mostrare lo stellarium riportandoci in qualche modo indietro nel tempo, alle lunghe notti contemplative degli antichi che cercavano di spiegarsi quello che osservavano. Gli antichi però partivano dal presupposto di essere fermi al centro della volta del firmamento ed è su questo principio che basavano tutte le loro osservazioni e le conseguenti deduzioni. “ma la Terra è ferma o si muove?” ha domandato a questo punto Cesare Vola provocatoriamente “il primo che ha affermato che anche la Terra si muove è stato Pitagora di Crotone in Calabria (famoso soprattutto per il teorema geometrico che porta il suo nome ndr) il primo a formulare un primo embrione di teoria eliocentrica (Sole fisso al centro e Terra che gli gira intorno). In realtà credevo che il primo nella storia a sostenere l’eliocentrismo fosse stato  Aristarco da Samo, ma secondo Cesare Vola più di uno studioso giunse a questa conclusione in maniera indipendente il più famoso dei quali resta Pitagora. Questi studiosi restarono comunque in minoranza rispetto a chi sosteneva l’idea della Terra ferma. Qualunque sia l’idea di partenza, il problema resta comunque il doversi spiegare questi moti dei pianeti, il fatto che Mercurio e Venere non si allontanano mai troppo dal Sole e che gli altri pianeti ogni tanto tornano indietro. Una prima teoria sul moto dei pianeti venne elaborata da Tolomeo che la scrisse in un libro oggi conosciuto coma l’Almagesto, ma che in origine si intitolava MATEMATIKE SINTAXIS (cioè sintassi matematica; la parola almagesto deriva invece da una commistione di arabo e greco: magesto deriva dalla parola greca magno cioè grande, mentre al è l’articolo arabo, questo perché questa opera che era andata perduta in Occidente nel Medioevo venne recuperata dagli Arabi), una visione che ispirò anche Dante, che influenzò la cultura occidentale per moltissimo tempo. Tolomeo introdusse il concetto di epiciclo, disse cioè che i pianeti descrivono un’orbita intorno alla Terra chiamata deferente e una più piccola chiamata epiciclo stando attorno ad un asse immaginario che congiunge la Terra e il Sole. I pianeti compiono contemporaneamente questi due tipi di moti. Con questa spiegazione i conti sembrano tornare. “Quello che conta in astronomia è far si che i conti tornano” ha puntualizzato ad un certo punto Cesare Vola “finchè si ha una teoria che fa quadrare tutto la si considera efficace e valida. Nel momento in cui qualcosa comincia a non tornare bisogna elaborare un’altra teoria. Questa teoria di Tolomeo ha funzionato bene finchè gli antichi davano per scontato che la Terra fosse ferma ed erano sicuri che la Terra fosse ferma, spiegando questa loro sicurezza con esempi che a noi oggi potrebbero sembrare stupidi, ma che allora non venivano percepiti come potremmo percepirli oggi. Si diceva ad esempio che la Terra doveva essere ferma perché se non lo fosse stata gli oggetti cadendo si sarebbero spostati all’indietro perché la Terra si muoveva sotto di essi. Questo problema per molto tempo è stato il più importante e spinoso della scienza. I sostenitori della teoria eliocentrica non sono mai stati presi seriamente in considerazione e dunque questa idea è stata praticamente dimenticata finchè nel Cinquecento arrivò Copernico, uno scienziato polacco, che come gli antichi provò a mettere in matematica il cielo, perché infondo l’astronomia non è altro che questo, mettere il cielo in matematica e vedere se i conti tornano, se i calcoli matematici e i modelli trovano una perfetta corrispondenza con cio che si osserva effettivamente. Copernico dunque elaborò questo modello eliocentrico presentandolo come semplice ipotesi matematica, soprattutto per non incorrere nelle ire della Chiesa. In realtà in ogni epoca chi ha provato a presentare idee diverse da quelle che la maggioranza credeva non solo non è stato ascoltato o creduto, ma ha rischiato di essere ucciso. Un tale Anassagora ad esempio una volta ebbe a dire che il Sole non poteva essere trasportato in un carro (come vuole invece la mitologia greca ndr) perché le sue dimensioni reali (e non quelle che apparivano guardandolo da lontano ndr) erano pari se non maggiori a quelle del Peloponneso. Nessuno sa bene che fine fece Anassagora, ma le poche fonti a disposizione su questa storia non tramandano buone notizie”. Ecco perché lo stesso Copernico non si volle esporre troppo. Tuttavia anche nella sua teoria alcune cose non tornavano. Il problema risiedeva nelle orbite dei pianeti che Copernico riteneva fossero circolari, anche se questo creava inesattezze nei suoi calcoli, tenendo anche conto dei moti della Terra di rotazione e rivoluzione che rendevano difficile determinare con esattezza la posizione degli astri nel cielo. “in compenso però Copernico ha spiegato bene i moti retrogradi che non sono altro che il risultato del moto della Terra in relazione agli altri pianeti. La Terra segue anch’essa il suo itinerario nel cielo tra le case dello Zodiaco ha anch’essa una sua velocità e una sua traiettoria che la porta ad un certo punto a superare gli altri pianeti che perciò visti dalla Terra, sembrano tornare indietro. Ma se la Terra si muove perché non ce ne accorgiamo? Ancora oggi c’è chi mette in discussione il fatto che la Terra gira intorno al Sole. Galileo trovò però una soluzione al problema ideando quello che è il primo embrione della teoria della relatività. Galileo prese come esempio le navi: esse si muovono indubbiamente, ma stando su una nave, in condizioni normali non si ha la sensazione di muoversi (il che spiega anche il mal di mare e in epoca più moderna il mal d’auto che viene proprio perché ci si muove mentre si ha la sensazione di stare fermi e a qualcuno questo fa un brutto effetto ndr) e così con la Terra. Questo sembrava dare una risposta definitiva a chi pensava che la Terra doveva essere per forza ferma. Il bello della scienza è che tutto quasi sempre nasce e si sviluppa attraverso il dibattito, purtroppo quasi mai amichevole. Galileo si trovò perseguitato dall’Inquisizione e dovette abiurare cioè rinnegare le sue idee e fare penitenza per averle sostenute. Indipendentemente da tutto questo restava comunque da risolvere il problema delle orbite circolari che non davano una posizione esatta dei pianeti in cielo, ma solo approssimata. A risolvere questo ulteriore problema ci pensò Keplero con le sue tre leggi, la prima delle quali afferma che le orbite dei pianeti non sono affatto circolari, ma ellittiche. Ma l’occupazione principale di Keplero era fare oroscopi ed ecco perché era particolarmente preoccupato di determinare con esattezza le posizioni degli astri ed ecco perché osservando il cielo minuziosamente è riuscito ad arrivare all’enunciazione delle sue tre leggi. Gli astrologi moderni, si basano ancora sui calcoli di Keplero, non guardano più il cielo e sbagliano tutto. I conti dunque sembrerebbero tornare apparentemente. In seguito Newton mettendo insieme le idee di tutti questi studiosi che lo hanno preceduto creerà la fisica newtoniana raccolta in un compendio intitolato PRINCIPIA MATHEMATICA basato sull’Almagesto di Tolomeo, la geometria di Euclide, le idee di Copernico, Galileo e Keplero (Newton ebbe a dire che reputava se stesso come un nano sulle spalle di giganti ndr) una fisica fondamentale che costituirà una pietra miliare della scienza valida per i successivi due secoli finchè non è sorto un altro problema. Il problema di dimostrare che la Terra ruota effettivamente. Il fatto di dire che la Terra ruota oppure no non è mai uscito dal campo delle ipotesi, dei calcoli, delle astrazioni finchè nel 1850 non ci fu l’esperimento del pendolo di Foucault. Prima di questo esperimento solo Galileo era convinto di avere la prova certa della rotazione terrestre ritenendo che le maree ne fossero un effetto (non voleva credere alla teoria dell’influenza della Luna che già qualche suo contemporaneo ipotizzava). Su internet si possono trovare video che dimostrano questo esperimento che però per funzionare non deve essere compiuto all’equatore o nelle sue vicinanze, dove il movimento del pendolo è talmente rallentato da sembrare praticamente fermo (ai poli invece è velocissimo, il tutto si svolge nell’arco delle ventiquattro ore) un esperimento che comunque si basa sui ragionamenti e i dibattiti dei secoli precedenti che facevano quadrare i conti sia con la Terra ferma che con la Terra in movimento. Il fatto è che anche se torna tutto quello che è vero si può dimostrare e con l’esperimento di Foucault la rotazione terrestre si poté dimostrare, calcolandone persino la velocità in base alla latitudine. E con questo la prima lezione di astronomia con l’ausilio dello stellarium e di presentazioni interattive, si è conclusa lasciando spazio alle domande e alle osservazioni del pubblico. In questo frangente si è potuto scoprire fra l’altro quanto la scienza e i suoi protagonisti spesso siano ammantati di leggenda (ad esempio l’esperimento di Galileo sulla Torre di Pisa e gli specchi ustori di Archimede) e si è potuto capire che gli oroscopi moderni non vanno presi in considerazione perché gli astrologi moderni non guardando più il cielo non sono più in grado di attribuire il giusto segno a ciascuno. Il segno infatti è la posizione del Sole nel cerchio dello Zodiaco al momento della nascita. Per calcolarla bisogna prima di tutto osservare il cielo e tenere conto di un fenomeno chiamato precessione degli equinozi. Il non averne tenuto conto fa si che nessuno è del segno che pensa di essere e questo si è potuto verificare facilmente con lo stellarium inserendo la posizione del Sole nel giorno di nascita dei presenti che volevano togliersi questa curiosità. Il fatto è che una volta astronomia e astrologia erano un’unica scienza che si proponeva sia di spiegare gli altri che di capire eventuali influenze di questi sulla Terra e sulla vita. Ad un certo punto questi due rami si sono divisi fino ad arrivare ad oggi. L’astrologia non è più una scienza perché gli astrologi non si sono aggiornati rispetto a Keplero e non sanno più guardare il cielo.

Venerdì 10 luglio: la meccanica celeste, il sistema solare

Prima di cominciare questa nuova lezione un piccolo riassunto della puntata precedente ricordando cio che si può osservare nel cielo e le idee e le conoscenze che gli uomini nel corso dei secoli e dei millenni hanno ricavato da queste osservazioni dapprima avendo come punto di riferimento esclusivamente la visione dalla Terra, in seguito basandosi sui calcoli e altre prospettive. Un altro giro tra le stelle e i pianeti sullo STELLARIUM per osservarne il moto. Partendo da qui Cesare Vola ha introdotto la nuova lezione spiegando che lo studio del cielo dal punto di vista della Terra consiste essenzialmente nella misurazione di angoli dopo aver preso dei punti di riferimento precisi che possono essere alberi o rocce solitamente. L’angolo si deve formare tra la nostra posizione sul piano orizzontale e quella dell’oggetto, una linea verticale chiamata azimut che congiunge il piano orizzontale all’oggetto in cielo tramite questa linea verticale ideale che si costruisce aiutandosi coi riferimenti cui si accennava prima. Da questo punto Cesare Vola è partito per ricollegarsi al punto in cui la lezione dell’altra volta è terminata: le leggi di Keplero. Sono in tutto tre e partono dal presupposto che il Sole è fermo al centro, mentre i pianeti gli girano attorno descrivendo delle orbite che già la scorsa volta si è detto essere ellittiche. Un presupposto che funziona immaginando non di essere sulla Terra bensì al di fuori e guardare da fuori, dall’alto, quello che succede. Keplero però le formulò misurando gli angoli e dopo complessi calcoli ed osservazioni notte dopo notte. Così non solo giunse alla conclusione che le orbite dei pianeti sono ellittiche, ma a questo principio ne fece seguire altri due. Il secondo principio afferma che un pianeta spazia aree uguali in tempi uguali cioè il pianeta impiega lo stesso tempo a coprire vari tratti del suo percorso, un principio che richiede, per essere capito, complesse misurazioni e osservazioni. Il terzo principio afferma infine che i quadrati dei tempi di rivoluzione (cioè del giro completo che il pianeta effettua intorno al Sole) è proporzionale al cubo della distanza media dal Sole del pianeta stesso “il che vuol dire” ha chiarito Cesare Vola “che più un pianeta è lontano dal Sole, più gira lentamente, come abbiamo avuto occasione di osservare anche grazie allo STELLARIUM”. Ma l’aver scoperto questi tre principi non è sufficiente a Keplero per comprendere pienamente il mistero della meccanica celeste. Sarà in seguito Newton a compiere maggiori progressi in tal senso. Newton scopre infatti le forze, una grandezza fisica che in realtà non ha una vera e propria definizione e non si può nemmeno vedere. Cio che si riesce a vedere è il moto, è l’angolo, tutto cio che è possibile determinare sono posizioni e tempi. “però Newton si inventa questa forza” ha spiegato ancora Cesare Vola “si inventa questa idea secondo cui gli oggetti celesti sono attratti l’un l’altro da queste forze misteriose. Questa idea ha a che fare con la leggenda della mela che gli cadde in testa. Fatto sta che supportando questa sua idea con una moltitudine di calcoli complicatissimi Newton è giunto ad importanti scoperte, ha potuto tra l’altro spiegare meglio le leggi di Keplero che secondo Newton sono in qualche modo giustificate dalla forza di attrazione da lui scoperta. Quel che restava da capire era perché un oggetto che cade dritto verso il basso, come la fantomatica mela, e un pianeta che percorre la sua orbita, possono essere soggetti alla stessa legge, influenzati dalle medesime forze. i due tipi di moto appaiono completamente diversi e dunque non ha senso che la forza che attrae sia la medesima. Newton ha ragionato per molti anni di seguito per arrivare ad elaborare teorie che oggi a scuola si spiegano in pochi minuti, al massimo poche ore di lezione, basandosi anche sugli studi di chi lo ha preceduto. La conclusione è che gli oggetti cadono dritti verso il basso perché sono fermi invece il pianeta tende a cadere verso il Sole ma il suo moto rotatorio gli fa descrivere un orbita ed è come se continuasse a cadere all’infinito” si potrebbe fare un semplice esempio per chiarire meglio il concetto ci provo ora io in virtù del mio passato di quasi astrofila. Dunque pensiamo ad un elicottero. Perché vola e non cade? Cosa lo tiene sospeso per aria? Il moto rotatorio dell’elica. Proviamo a spegnere il motore e a far fermare le eliche quando l’elicottero è ancora in aria e cadrà esattamente come una mela dall’albero. Ecco come la medesima forza, la forza di gravità (supportata probabilmente anche dal principio di inerzia secondo cui un oggetto tende naturalmente all’immobilità o al moto rettilineo uniforme finchè non sopraggiungono altre forze a modificarne lo stato iniziale, ma questo non è stato detto e dunque non ne sono proprio del tutto) agisce in modi che sembrano completamente diversi ed ecco come i pianeti si trovano a compiere movimenti ellittici di rotazione intorno al Sole. A questo punto è meglio tornare a concentrarsi sulle spiegazioni di Cesare Vola che per illustrare meglio come le orbite dei pianeti si compiono, si influenzano tra loro anche in base alla velocità del moto ha fatto delle simulazioni con un programma del computer, simulazioni che tra l’altro mostrano come un razzo fatto arrivare ad una certa distanza dalla Luna possa essere sparato come un proiettile a grandi distanze nel Cosmo (con una manovra chiamata fionda gravitazionale). In questo modo sono state mandate le sonde a perlustrare il Sistema Solare e oltre (e sarà così che invieranno le future missioni su Marte? Chissà! Ndr), in questo modo la Nasa fa tutti i calcoli delle sue missioni. Ci si basa sulla posizione dell’oggetto, sulla sua velocità e si è in grado di capire, con una discreta approssimazione, tutto quello che succede. Allo stesso modo gli astronomi calcolano la probabilità di possibili impatti con comete e asteroidi (come Aphopis che nel 2029 passerà molto vicino alla Terra; qualcuno all’inizio aveva calcolato che avrebbe impattato con essa con un’ energia pari a ottanta bombe atomiche, finchè nuovi calcoli hanno un pochino ridimensionato la cosa) i quali però, a causa delle ridottissime dimensioni rispetto ad altri corpi celesti, descrivono orbite dalle traiettorie stranissime, addirittura iperboliche a volte, che le portano addirittura in alcuni casi a sciogliersi dentro il Sole o a disintegrarsi a contatto con le atmosfere dei pianeti vicino cui transitano. Tramite questo programma si è potuto osservare anche come le orbite ellittiche dei pianeti siano in realtà molto ampie, tanto da essere praticamente indistinguibili da vere e proprie orbite circolari. Ma tutto questo oggi non sarebbe stato possibile se non fosse esistito Galileo ormai più di quattro secoli fa e non avesse inventato il suo famosissimo cannone occhiale, detto anche cannocchiale, tramite il quale egli poté osservare i corpi celesti (che da quel momento smisero di apparire come puntini nel cielo per rivelarsi come delle sfere) più da vicino scoprendone le imperfezioni, una cosa impensabile fino a quel momento. La sfera celeste e tutto quanto in essa contenuto al di fuori della  Terra veniva ritenuto perfetto, un principio teologico prima ancora che filosofico. Ora esistono i programmi del computer che permettono di scrutare il cielo di vedere tutto da vicino, ma Galileo dovette fare tutto solo con l’ausilio del suo strumento e finì col diventare cieco. Tra l’altro di primo impatto nemmeno capiva cio che vedeva: gli anelli di Saturno con qualche puntino intorno (i suoi satelliti più grandi), un po’ più chiaramente i satelliti maggiori di Giove che egli chiamò lune Medicee in omaggio dei suoi protettori fiorentini, le macchie solari (che solo oggi sappiamo essere zone più fredde di appena 2000° rispetto alla superficie del Sole, ma continuiamo ad ignorare perché si formano e anche perché continuano ad apparire e scomparire in cicli di circa undici anni; qualcuno pensa sia dovuto ai campi magnetici, ma è solo un’ipotesi). Galileo osserva tutto questo col suo strumento fatto di lenti di vetro che fanno si che la luce vi passi attraverso e questo deforma l’immagine e più lo strumento è grande più il difetto si nota. Un difetto che sarà Newton ad ovviare, introducendo, al posto delle lenti di vetro, degli specchi, un principio su cui ci si basa ancora oggi per costruire telescopi di proporzioni gigantesche sulle cime dei monti, molto costosi e in grado di scrutare lo spazio profondo. Ma tutto questo senza Galileo non sarebbe mai accaduto. Non avremmo mai avuto siti specifici per osservare i movimenti delle macchie solari se Galileo non si fosse bruciato gli occhi per osservarle per primo illudendosi di schermare la vista con un  semplice vetro affumicato. Galileo inoltre scoprì che osservando il Sole non solo poteva seguire i movimenti delle macchie, ma anche i transiti dei pianeti. Galileo si concentrò soprattutto sui transiti di Venere e scoprì che anche questo pianeta aveva le sue fasi, come la Luna. Concentrandosi invece più attentamente sui satelliti di Giove scoprì che quelli più interni, quelli più vicini al pianeta con le loro orbite, stanno ad una distanza che è ciascuna doppia rispetto a quella del satellite precedente  “nella fisica quando si riscontrano simili coincidenze, c’è anche per forza un motivo, un principio alla base che la spiega” ha puntualizzato Cesare Vola “ma lo vedremo dopo” ed è così passato ad introdurre un altro affascinante problema che però non ha a che fare direttamente con le osservazioni di Galileo “vicino alla fascia degli asteroidi tra Marte e Giove” ha spiegato “ve ne sono una parte che seguono Giove e un’altra che lo precede. Perché? La meccanica celeste consiste proprio nella risoluzione di problemi di questo genere. Tra l’altro nella fascia degli asteroidi” ha proseguito Cesare Vola con una piccola digressione “si trova Cerere scoperto da un nostro conterraneo, Giuseppe Piazzi di Ponte nel 1803” un asteroide che in anni recenti è stato promosso a pianeta nano o pianetino. Dopo questa curiosità Cesare Vola ha posto un’altra questione riguardante gli anelli di Saturno “Saturno non è l’unico pianeta ad avere anelli” ha detto “Tutti i pianeti esterni (i cosiddetti giganti gassosi ndr) dunque anche Giove, Urano e Nettuno, hanno intorno sistemi di anelli. Però Saturno è l’unico che li ha così belli. Sono composti principalmente da polveri e quello che dobbiamo chiederci è perché questi anelli si sviluppano in questo modo” prima di rispondere a queste domande è però venuto il  momento di conoscere un po’ i pianeti del Sistema Solare. Mercurio, il più vicino al Sole; Venere,inizialmente ritenuto un oggetto celeste interessante, considerato quasi un gemello della Terra, ma con una temperatura di 400°, un’atmosfera densa per la maggior parte composta di anidride carbonica e composti solfurei (che generano piogge acide), densa al punto da esercitare una pressione intollerabile (pari a 100 atmosfere in questo caso intese come unità di misura della pressione) sui corpi che la attraversano, comprese le sonde che vi vengono inviate e che bisogna studiare in modo che siano resistentissime; Giove il pianeta più grande del Sistema Solare, che è stato sul punto di diventare un secondo Sole, un gigante gassoso che ha ben in evidenza una enorme macchia rossa che altro non è che una zone di tempeste ininterrotte da circa trecento anni secondo le stime degli astronomi, una macchia che col tempo può variare leggermente nelle dimensioni e qualcuno ipotizza potrebbe un giorno sparire del tutto; Urano che si può vedere dalla Terra seppur con difficoltà; Nettuno tutto blu con una macchia scura che, come nel caso di quella rossa di Giove è zona di tempeste. Dopo i pianeti è venuto il momento di scoprire le comete, quelle che compiono transiti ricorrenti. La più famosa è quella di Halley che passa nei nostri cieli ad intervalli abbastanza regolari di 75 anni. Più che sulle comete l’attenzione si è concentrata sulle orbite particolari che condividono anche con Plutone recentemente declassato da pianeta a pianetino, orbite definite eccentriche, in questo caso non intendendo questa parola come sinonimo di strano o stravagante, ma a significare il centro spostato. Tra le comete quella un po’ meno eccentrica è la Churyumov- Gerasimenko, recentemente visitata dalla sonda Rosetta e con un’orbita più interna ed è questo a renderla meno eccentrica. Tra l’altro per mandare la sonda Rosetta sulla cometa tramite un percorso complicatissimo ci si è dovuti basare sui calcoli e le simulazioni cui si accennava osservando quel programmino di simulazioni e del calcolo delle orbite, che tra l’altro se calcolate in modo preciso non si rivelano affatto perfettamente ellittiche e questo succede proprio in virtù delle forze di attrazione reciproca cui si è precedentemente che fanno si che quando due oggetti celesti (o anche un oggetto celeste e una sonda che una volta in cielo è soggetta alle medesime leggi) si trovino a passare a distanze relativamente brevi questo in quell’istante influenza la traiettoria delle loro orbite che modificano più o meno leggermente il loro percorso (un principio di iterazione chiamato precessione del perielio). Quando i corpi non sono due ma tre il problema delle reciproche influenze si complica ulteriormente e diventa un problema detto appunto a tre corpi che ci riporta alla questione degli asteroidi vicino a Giove che un po’ lo seguono e un po’ lo precedono. Abbiamo Giove e il Sole che si influenzano reciprocamente e questo fa si che i corpi che vi ruotano attorno si posizionano in specifici punti detti lagrangiani. Gli asteroidi occupano esattamente quelle posizioni perché sono i loro punti lagrangiani. Si sono posizionati li subendo le influenze dell’orbita di Giove nell’arco di milioni di anni. Abbiamo già detto come anche i pianeti si influenzino tra loro ed è in virtù di queste influenze che, sapendo fare i calcoli giusti, qualcuno ha scoperto pianeti fino a quel momento sconosciuti sulla base delle interferenze  alle orbite dei pianeti conosciuti. Nettuno è stato scoperto così come ipotesi teorica prima di essere effettivamente visto, osservando strani spostamenti dell’orbita di Urano. A calcolare l’ipotesi dell’esistenza di Nettuno fu uno scienziato di nome Le Verrier. Allo stesso modo qualcuno, osservando strani spostamenti e irregolarità nell’orbita di Mercurio ha ipotizzato l’esistenza di un pianeta più interno, tra Mercurio e il Sole, che qualcuno ha chiamato Vulcano  e che alcuni sostengono di avere visto osservando i famosi transiti sul Sole, ma della cui esistenza in realtà non vi è alcuna prova. È un fatto però che l’orbita di Mercurio presenti delle stranezze e che questo sia un bel problema da risolvere, perché è una questione che non rispetta la meccanica di Newton, meccanica che invece spiega, basandosi sul problema a più corpi, le reciproche influenze, determinate con calcoli complessi, perché i satelliti di Giove cui si accennava prima occupano esattamente quelle posizioni intorno al pianeta e perché gli anelli di Saturno assumono quella morfologia. Conoscendo queste leggi ed essendo in grado di trarne le giuste conclusioni e dunque i giusti calcoli si possono fare previsioni molto accurate sui moti degli oggetti celesti, anche quelli irregolari, a distanza di molto tempo. Ecco come gli astronomi possono prevedere anche eventuali impatti o impatti sfiorati come quello dell’asteroide Aphopis tra 15 anni che anche se pare, secondo i più recenti calcoli eseguiti non colpirà la Terra, non ha un nome molto rassicurante. Aphopis era infatti il serpente contro cui Ra il dio del Sole egizio, doveva lottare transitando con la sua barca (in compagnia tra l’altro del dio Thot e della dea Bastet) nelle terre della notte. Secondo gli Egizi, se Aphophis avesse ucciso Ra il Sole non sarebbe mai più sorto. Dunque chiamare così un asteroide sa un po’ di Apocalisse, anche se non dovesse succedere nulla come gli scienziati più recentemente hanno concluso con un esiguo margine di errore tenendo conto del tracciato delle orbite delle influenze e dunque delle variazioni delle stesse. Per rinfrancarsi un po’ da previsioni apocalittiche e teorie complesse c’è stato spazio per fare un bel gioco, il gioco dei pianeti. Le persone dovevano imitare il moto dei pianeti intorno al Sole e non è stato un gioco fine a se stesso perché giocando si è avuto modo di affrontare in modo divertente altri concetti concernenti il tema della serata. Innanzitutto poter verificare in modo pratico la meccanica celeste ha permesso di comprenderla meglio (scoprendo tra l’altro che, per quanto riguarda Venere, i curiosi effetti dei suoi movimenti rotatori, fanno si che un giorno sia più lungo di un anno) e inoltre si è potuto capire alcune dinamiche del rapporto Terra- Luna di come si influenzino a vicenda generando sulla Terra il fenomeno delle maree, in parte  condizionato dall’inclinazione della Terra che ruota anche intorno al baricentro tra la Terra e la Luna. Poi s’è capito che la Luna fa un giro in un mese e ci impiega lo stesso tempo sia a girare su se stessa che girando intorno alla Terra dunque mentre la Luna gira il Sole fa in tempo a ruotare su se stesso trenta volte. La Luna gira mostrando sulla Terra sempre la medesima faccia. Perché? In parte perché anche la Terra compie i suoi moti di rotazione e di rivoluzione e lo fa in tempi diversi rispetto alla Luna, ma non si tratta semplicemente di questo. Il movimento delle maree fa si che il movimento rotatorio della Terra sia progressivamente più rallentato finchè un giorno anche la Terra mostrerà la stessa faccia alla Luna. Al tempo dei dinosauri i giorni duravano 16 ore ed è stato questo progressivo rallentamento della Terra a far si che si sia poi arrivati a 24 anche perché pian piano la Luna nel tempo aumenta la sua distanza dalla Terra. L’ultima parte della serata è stata dedicata alle domande e allo scambio di impressioni e osservazioni e ad approfondire le ultime scoperte riguardanti Europa, una delle lune medicee di Giove scoperte da Galileo, una palla di ghiaccio al di sotto del quale le sonde hanno recentemente rilevato acqua liquida soggetta a maree molto potenti per via della forte influenza di Giove. Questi movimenti creano camini di acqua calda che sulla Terra si trovano in prossimità di vulcani sottomarini e sono l’habitat ideale di batteri termofili, che cioè prosperano ad alte temperature e dipendono per vivere dalle sorgenti calde e non dal Sole. Ebbene si crede che su Europa la vita si sia sviluppata in questo modo, forme di vita che basano le reazioni chimiche del loro metabolismo sulle fonti di calore. Europa è l’unico luogo del sistema solare al di fuori della Terra dove è realmente più probabile trovare la vita (va detto che cercare la vita nell’universo non implica per forza aspettarsi di trovare animali superiori o forme di civiltà progredite, perché anche i microrganismi sono vita ndr). Il problema è che questa vita si troverebbe sotto uno strato di ghiaccio spesso centinaia di chilometri che rende molto difficile capire cosa c’è realmente sotto. E con queste ipotesi affascinanti di vita extraterrestre e dubbi circa la natura finita o infinita dell’Universo (che forse si avrà modo di approfondire prossimamente ndr) si è conclusa questa seconda lezione di astronomia.

Venerdì 17 luglio 2015: stelle, galassie e nebulose

La lezione questa sera è cominciata ricordando l’arrivo della sonda Horizon su Plutone “un pianeta ancora tutto da scoprire” ha spiegato Cesare Vola “una palla di ghiaccio, roccia e metano. La sonda ha percorso 9 miliardi di chilometri e ha impiegato nove anni per arrivare su Plutone attraverso le varie manovre di salti e orbite influenzate che abbiamo visto l’altra volta col programmino di simulazione al computer. Plutone è un pianeta più piccolo anche della Luna e possiede un pianeta gemello, Caronte”. Parlando delle dimensioni e della distanza di  Plutone dalla Terra si è introdotto l’argomento di questa serata, le stelle “che sono molto più grandi e molto più lontane dalla Terra” ha sottolineato Cesare Vola che ha introdotto il discorso delle dimensioni attraverso un filmato di YOU TUBE che mette a confronto vari oggetti celesti, partendo dalla Luna sino ad arrivare alla più grande stella conosciuta, il Cane Maggiore “osservando il Sole col telescopio, lo si vede di forma sferica e dunque arbitrariamente si crede che tutte le stelle abbiano questa forma” spiegava Cesare Vola mentre sul video sfilavano oggetti celesti sempre più grandi “in realtà osservando le stelle più lontane anche coi più potenti telescopi, si possono osservare solo puntini luminosi e dunque non si è sicuri se quei puntini siano effettivamente sferici. La forma sferica per queste stelle molto grandi e molto lontane è una rappresentazione convenzionale sulla base di calcoli e ipotesi che, sulla base della luce che proviene dalla stella osservata, cerca di ricostruirne le dimensioni e la distanza prima di tutto”. Le distanze, in proporzione, più facili da determinare, sono quelle all’interno del Sistema Solare. Per misurare la distanza del Sole dalla Terra ad esempio si osservano i transiti di Venere, “si misura il tempo impiegato da Venere per i suoi transiti e si usa questo dato come punto di partenza per tutta una serie di calcoli” ha detto Cesare Vola “e va da se che il Sole è la stella che si conosce meglio. Ma misurando i transiti di Venere o comunque di un pianeta sul Sole bisogna prima conoscere la distanza su quel pianeta. Bisogna utilizzare gli angoli. Il pianeta diventa il vertice di un angolo i cui lati si dipanano da due punti precisi della Terra dei quali si conoscono esattamente posizione e distanza tra loro in modo da calcolare l’ampiezza dell’angolo sulla base del quale si determina la distanza del pianeta utilizzata a sua volta per calcolare la distanza dal Sole”. Ma quando ci si spinge oltre il Sistema Solare e si comincia a calcolare la distanza delle stelle? “anche su grandi distanze, l’unità di misura restano gli angoli” ha seguitato a raccontare Cesare Vola “bisogna osservare la stessa stella in due periodi diversi dell’anno, tenendo conto del fatto che la Terra e il Sole hanno una loro orbita e che questo fa si che quando osserviamo una stella non la vediamo sempre nello stesso punto del cielo e dunque bisogna tenere conto del risultato di più osservazioni. L’enorme distanza delle stelle è un qualcosa che già i Greci antichi intuivano. Qualcuno intuiva già che la Terra non fosse ferma al centro, ma altri provavano sgomento nel pensare quanto fosse difficile determinare le esatte dimensioni della cosiddetta sfera del firmamento che a quei tempi si pensava circondasse la Terra”. A questo punto si è passati a fare una sorta di campionario delle stelle un po’ più note a cominciare naturalmente dal Sole con le sue famose macchie. Stavolta Cesare Vola è riuscito a mostrare quel famoso video della NASA che illustra i movimenti delle macchie solari che non solo si spostano, ma appaiono e scompaiono, quel video che, nel corso della scorsa lezione non si è riusciti a vedere “le macchie ricordiamo hanno un ciclo di 11 anni articolato in più fasi” ha puntualizzato Cesare Vola mostrando la superficie del Sole sul video “si parte dalla prima fase senza macchie finchè se ne formano sempre di più. Dopo aver raggiunto il picco massimo al quinto anno, pian piano iniziano a scemare”. Gli astronomi hanno documentato questi cicli a partire dal 1760 e oggi esistono dei grafici precisi che illustrano questi dati e che Cesare Vola ha mostrato  subito dopo il video “studiando questi grafici si cerca di capire meglio il fenomeno” ha detto “ma l’unica ipotesi che è stata avanzata a riguardo è che hanno a che fare coi campi magnetici. Il Sole ha tanti poli al suo interno e dunque il suo magnetismo è instabile. Le macchie solari potrebbero essere un fenomeno legato a questa instabilità. Le macchie così come il vento e le tempeste solari (che occasionalmente arrivano sino ad investire la Terra interferendo con il suo campo magnetico ndr). C’è chi si specializza nello studio delle macchie solari, contandole, catalogandole”. Questo per quanto riguarda la superficie del Sole. Andando più in profondità, sino ad arrivare nel cuore del Sole, nel suo nucleo, si scopre il fenomeno della fusione nucleare. Un fenomeno che ha a che fare con degli elementi chimici che conosciamo anche sulla Terra “tanto per cominciare l’idrogeno” ha detto Cesare Vola “la parola deriva da hydro cioè acqua e genesi perché combinandosi con l’ossigeno, bruciando con l’ossigeno genera l’acqua. L’idrogeno è l’elemento più semplice e leggero di tutto l’universo. Gli atomi degli elementi più semplici nei nuclei delle stelle si combinano per formare atomi di elementi sempre più complessi ed è dalle stelle dunque che si sono formati tutti gli elementi naturali classificati nella tavola periodica fino ad arrivare al  più pesante che è l’uranio. Dall’idrogeno in primo luogo si origina l’elio un gas nobile (i gas nobili non si combinano con altri elementi e hanno molecole composte da un solo atomo già stabile di per sé ndr) e questo è il primo passaggio fondamentale della fusione, quello che avviene all’interno del Sole. Ma in alcune stelle la fusione va avanti anche nei passaggio successivi ed ecco perché si può dire che la materia si sia formata dentro le stelle, quella di cui anche noi siamo fatti” si può proprio dire che siamo figli delle stelle senza che questo sia inteso come metafora. Al di fuori del Sistema Solare, le stelle più vicine sono quelle del sistema di Alfa Centauri tra cui Proxima Centauri, definita proxima perché in assoluto è quella più vicina alla Terra subito dopo il Sole “dalla Terra questo sistema di stelle è visibile solo nell’emisfero sud (sta in prossimità della Croce del Sud che indica tale punto cardinale con esattezza nel cielo così come, nel nostro emisfero boreale, la Stella Polare indica esattamente il Nord ndr) oltre ad essere il sistema più vicino questo sistema è anche uno dei più semplici al di fuori del nostro” ha continuato a raccontare Cesare Vola “è infatti composto di tre stelle, quando ci sono sistemi che ne possono contare anche sei o più. La luce (che viaggia a circa 300 mila kilometri al secondo ndr) ci impiega quattro anni per raggiungere queste stelle che girano ciascuna attorno al suo baricentro e sono molto simili al Sole, non molto più grandi, con piccole variazioni di peso tra loro, osservabili anche con un cannocchiale che permette di vedere i loro movimenti verso il basso e verso l’alto rispetto al baricentro e come i loro movimenti nel tempo variano, una variazione che si palesa solo dopo molte osservazioni costanti. Il sistema di Alfa centauri è dunque composto da queste due stelle simili al Sole che ruotano ognuna intorno al proprio baricentro una verso l’alto e una verso il basso variando i loro movimenti nel tempo, ma anche da una terza stella, Proxima Centauri, poco luminosa e con un’orbita molto lontana rispetto alle due stelle che formano il sistema binario. La cosa interessante recentemente scoperta è che queste stelle hanno dei pianeti che girano loro intorno, osservabili sempre attraverso i transiti sulle stelle stesse, pianeti che potrebbero essere abitabili”. È una delle questioni più affascinanti dell’astronomia moderna quella dei pianeti extrasolari, tra i quali si cerca in modo particolare quelli più simili alla Terra, quelli abitabili o che potrebbero essere addirittura già abitati, magari da civiltà evolute. Durante la serata c’è stato modo di fermarsi a riflettere su tali questioni. È un fatto che nel corso dell’ultima decina di anni sono stati scoperti e catalogati, in vari sistemi stellari anche molto lontani, migliaia di pianeti (di cui puntualmente si è sempre data notizia nelle riviste specialistiche: ricordo ad esempio di aver letto, credo sia stato l’anno scorso o due anni fa, della scoperta di un pianeta fatto tutto di diamante, per non parlare poi dei vari Kepler numerati in serie che pare avrebbero condizioni ottimali per la vita ndr) “i transiti dei pianeti sulle rispettive stelle” seguitava intanto a spiegare Cesare Vola “fanno si che in quel frangente la stella sia un po’ meno luminosa e che riprenda la sua luminosità consueta al termine del transito. Tenendo conto di cio si effettuano tutte le misure del caso che sono sempre estremamente precise. In questo modo all’inizio si trovavano solo pianeti grandi e poi si sono cominciati a trovare anche pianeti piccoli. A tutt’oggi tra stelle e pianeti si è scoperta un’infinità di oggetti celesti. Quel che preme agli scienziati è trovarvi l’acqua e, se non la vita, almeno condizioni  con essa compatibili anche se comunque, essendo pianeti lontanissimi, sarebbe impossibile per noi andarci”. Ma studiare le stelle implica solo calcolarne la distanza dalla Terra e scoprire se capita, pianeti che vi orbitano intorno? “molti studi dipendono dall’osservazione di questi puntini luminosi come a noi appaiono le stelle” ed è con queste parole che Cesare Vola ha introdotto un nuovo punto della lezione di questa sera che ha a che fare con la luce “la luce bianca che passa attraverso un prisma si scompone nei colori dell’arcobaleno. Ma cosa succede quando è la luce di una stella, quando ad illuminarsi è ad esempio l’idrogeno a seimila gradi centigradi? Succede che l’idrogeno rivela delle barre di luce, la quale non contiene tutti i colori. Queste barre si dispongono una di fianco all’altra a formare quello che viene definito spettro. Per ogni elemento però, queste barre si dispongono in modo diverso. Si può dire dunque che lo spettro sia la firma dell’elemento, la sua impronta digitale, che permette di identificarlo e distinguerlo dagli altri in modo inequivocabile. Studiando gli spettri presenti su una stella attraverso la sua luminosità si può dunque capire di che cosa è fatta. L’elemento presente in maggiore quantità è sempre l’idrogeno, ma cio non esclude la presenza di altri elementi. Studiando gli spettri però si può anche osservare che le stelle si evolvono nell’arco di miliardi di anni perché un po’ alla volta l’idrogeno va diminuendo l’elio va aumentando e poi compaiono gli elementi più pesanti, quello cui si accennava prima finchè alcune stelle al loro interno possono avere anche del carbonio e tutti gli elementi, per cui studiando gli spettri si vedono come le stelle sono fatte e come cambiano nel tempo. Se l’idrogeno è la benzina contenuta nelle stelle, man mano che si consuma la stella cambia e può anche morire, spegnersi. Il nostro Sole brucia idrogeno da cinque miliardi di anni, ora è stabile e potrebbe bruciare idrogeno ancora per altri cinque miliardi dopo i quali si trasformerà in una gigante rossa espandendosi e inglobando vari pianeti interni tra cui si pensa anche la Terra, ma gli studiosi non ne sono del tutto certi (certo è che anche se non verrà distrutta, non potrà non subire notevoli variazioni climatiche ndr). Il cielo contiene stelle di varie età molto vecchie e molto giovani. Le più vecchie sono le nane bianche arrivate praticamente alla fine della loro vita, la cui luminosità è dovuta al loro calore residuo, che si consumerà del tutto nell’arco di decine di migliaia di anni e le cui dimensioni sono praticamente quelle di un piccolo pianeta per via della materia che si è compattata al suo interno. Quando una stella si spegne del tutto diventa nana nera, ma ancora non ce ne dovrebbero essere in cielo (e anche se ci fossero non emettendo luce sarebbe difficilissimo vederle ndr)”. Gli scienziati dunque sanno determinare il ciclo delle stelle in base alla loro luminosità agli elementi, che le compongono, le dimensioni, il colore della superficie (a proposito le stelle rosse sono più fredde di quelle azzurre; anche se percepiamo l’azzurro come colore freddo e il rosso come colore caldo in realtà è vero il contrario e lo si potrebbe verificare surriscaldando un pezzo di metallo: quando comincia a surriscaldare è rosso, se continuiamo a somministrare calore diventa azzurro; con le stelle è lo stesso ndr). Ci sono stelle che hanno cicli molto brevi. Si accendono improvvisamente in cielo e altrettanto improvvisamente si spengono. A queste stelle gli scienziati danno il nome di nove cioè stelle nuove. “La NASA ha fotografato ad esempio i resti di una nova (diventata ora una coloratissima nebulosa ndr) risalente al 1054 e documentata storicamente ad esempio dai cinesi”. Ha raccontato Cesare Vola. “Attraverso gli antichi documenti gli scienziati hanno capito il punto da cui è stata osservata e li hanno puntato i loro strumenti osservando appunto la nebulosa formatasi dopo la morte della stella. Le stelle bruciano idrogeno finchè si spengono e cominciano a collassare mentre continuano a girare su se stesse aumentando la velocità man mano che collassano ed espellendo materia la materia di cui è fatto tutto cio che conosciamo. Si tratta di argomenti molto vasti e questo fa si che sia impossibile che oggi esista lo studioso eclettico che si interessa di un po’ di tutto, perché se ogni argomento è vastissimo il tutto diventa molto complicato”. Immensi raggruppamenti di milioni e milioni di stelle formano le galassie. La nostra è la Via Lattea, quella più vicina a noi è Andromeda che si osserva nel cielo nei pressi della costellazione omonima. Cesare Vola l’ha individuata sullo STELLARIUM. Andromeda dista a due milioni di anni luce da qui. Così come le macchie solari, le stelle e i pianeti extrasolari, anche le galassie vengono catalogate. Di ogni oggetto celeste bisogna capire la distanza e la posizione anche rispetto ad altri oggetti. “c’è  stato un astronomo che ha cercato di capire se le galassie ruotano su se stesse” ha raccontato Cesare Vola mentre mostrava Andromeda sullo STELLARIUM “e per farlo ha confrontato le fotografie delle galassie scattate in momenti diversi. In tempi più recenti altri scienziati hanno scoperto che questa galassia contiene una moltitudine di stelle e su questa scoperta hanno realizzato un video” Cesare Vola lo ha mostrato “Andromeda è una galassia simile alla nostra, più o meno delle stesse dimensioni” ha poi continuato a raccontare “e poiché la luce ci mette due milioni di anni per raggiungerla noi la vediamo com’era due milioni di anni fa (se su Andromeda ci fosse una civiltà intelligente in grado di scrutare la Terra con un potente telescopio, la vedrebbe ancora abitata dagli uomini primitivi ndr). Questo ci fa capire l’enorme difficoltà di poter ipotizzare lunghi viaggi nello spazio per equipaggi umani. Pensiamo all’esempio di prima di Plutone. La luce da Plutone a qui impiega un’ora per fare il percorso, la sonda ci ha impiegato nove anni. Ed è dunque fuori dalla nostra portata pensare di raggiungere un oggetto celeste, che la stessa luce, che è la cosa più veloce che c’è, impiega due milioni di anni per raggiungere. La via Lattea e Andromeda hanno un diametro di circa centomila anni luce (Andromeda ha una forma più allungata ndr). Anche la via Lattea si può vedere dal cielo, in alta montagna, un braccio della via Lattea come una striscia bianca (che è il motivo per cui la nostra galassia ha questo nome: i Greci antichi credevano che i coppieri degli dei avessero rovesciato latte in cielo; del resto anche la stessa parola galassia deriva dal termine greco per latte ndr). Un’altra galassia più piccola che si può osservare in cielo è la nube di Magellano così chiamata perché fu Magellano ad avvistarla la prima volta sottoforma di macchia bianca quando giunse nei mari del sud. Ma di galassie su internet se ne trovano moltissime di tante forme anche bizzarre” Cesare Vola ne ha mostrata anche una a forma di sombrero. Tornando però alla nostra galassia bisogna dire che noi, lungi dall’essere al centro dell’universo, non siamo nemmeno al centro della nostra galassia, bensì in posizione periferica, in uno dei suoi bracci più esterni (essendo la nostra galassia a forma di spirale ndr) e la nostra galassia è solo una delle tante galassie (milioni!) che fa parte di un ammasso, che fa parte di un superammasso eccetera. Cesare Vola ha mostrato la foto di un insieme di galassie, uno spunto per molteplici riflessioni. Questa immagine da innanzitutto l’idea del gran numero di galassie presenti nell’universo e della loro distanza.  Bisogna considerare che mostra una piccola parte di cielo e dunque se una piccola parte di cielo contiene tutte queste galassie figuriamoci il totale quanto può essere, un numero incalcolabile che si aggira intorno ai 100 mila miliardi “tutte queste galassie sono distribuite come all’interno di una spugna” ha spiegato ancora Cesare Vola “gli spazi pieni della spugna sono gli ammassi di galassie che si diffondono come a formare delle righe che lasciano spazi vuoti, i buchi della spugna. Ma come si fa a dire quanto è distante una galassia? Qui entra in gioco l’effetto doppler, un effetto osservabile anche dalla Terra col suono dell’ambulanza che diventa più forte man mano l’ambulanza si avvicina e diminuisce man mano l’ambulanza si allontana. Le onde si allargano. La stessa cosa che avviene col suono avviene con la luce. Gli spettri degli elementi, la luce delle stelle tende a spostarsi verso il rosso verso la lunghezza d’onda dello spettro della luce visibile compreso nella gamma del rosso (lo spettro della luce visibile è l’arcobaleno che parte col rosso, lunghezza d’onda più lunga e finisce col blu, più corta ndr) e questo significa che se gli oggetti celesti si comportano così si allontanano. L’effetto doppler permette di capire se le galassie si allontanano o si avvicinano e tutte quelle osservate si allontanano perché la loro luminosità diminuisce nel tempo. Questa è la prova principale a supporto di chi sostiene la teoria dell’universo in espansione, la quale però è solo una deduzione teorica sulla base dei dati, degli spettri ma anche dei movimenti delle stelle, deduzioni che si cerca di supportare coi calcoli, che danno vita a teorie e discussioni. Se le galassie si allontanano sembra logico dedurre che ci sia stato un punto di partenza (il famoso puntino che ha subito la primordiale esplosione conosciuta come big bang? Ndr), un’idea che però risulta molto problematica, è stata discussa e continua ad esserlo. Questo argomento però è stato oggetto della lezione successiva. Ma gli alieni esistono?” questa domanda di Cesare Vola ha dato il via, nell’ultima parte della serata, a tutta una serie di divagazioni e scambi di idee sfociate nel filosofico e nel fantascientifico “considerando l’immensità di stelle e pianeti esistenti (sicuramente molto di più di quelli effettivamente trovati ndr) ci dovrà pur essere una civiltà intelligente?” io a questo punto ho osservato che si potrebbero teoricamente esserci, ma se ce ne stiamo ognuno a casa propria non sarà facile sperare in qualche contatto “ma si può viaggiare da una stella all’altra?” ha chiesto ancora Cesare Vola e a me è venuto in mente di far notare l’ipotesi dell’esistenza di tunnel spazio-temporali su cui hanno fatto anche dei film “per come noi oggi conosciamo le leggi della fisica, viaggiare da una stella all’altra è impossibile” ha chiarito Cesare Vola “proprio per quel che abbiamo visto prima circa il lasso di tempo enorme che richiederebbero che va ben oltre il tempo dell’intera esistenza umana. ma forse in futuro… e questo ci riporta alla questione alieni. Potrebbe essere che da qualche parte lassù esista una civiltà che rispetto a noi per quanto riguarda le conoscenze, la tecnologia, sia avanti rispetto a noi di migliaia o anche di milioni di anni e dunque potrebbe essere effettivamente in grado di compiere viaggi interstellari e arrivare fin qui? C’è un progetto della NASA che ha lo specifico scopo di cercare tracce di civiltà intelligenti nello spazio, il progetto SETI che si avvale di apparecchi particolari i radiotelescopi. Se esistesse una tv aliena o qualunque apparecchio artificiale inventato dagli alieni, questi strumenti potrebbero captarne i segnali, trasmetterli alla Terra e permettere di calcolarne la posizione esatta. Per far questo bisogna che i dati dei vari radiotelescopi sparsi per il mondo siano messi a confronto e analizzati accuratamente. Del progetto SETI c’è anche un programma su internet che permette anzi invita tutti a partecipare a questa ricerca” questi spunti di riflessione lanciati da Cesare Vola hanno stimolato oltremodo il pubblico. C’è chi ha manifestato idee complottiste dichiarando che la NASA non divulga tutto, c’è chi ha manifestato granitiche certezze circa la natura infinita dell’universo, perché si è chiesto “l’universo è contenuto dove?”e qui già s’è anticipato l’argomento della prossima volta, la cosmologia, la relatività generale che cambia il concetto di geometria ammettendo che un oggetto che va sempre avanti può tornare al punto di partenza (questo concetto sta alla base della particolare curvatura della luce che si osservava in quella foto degli ammassi di galassie), un argomento che dovrebbe spiegare anche la particolare forma dell’universo, rotonda in quattro dimensioni, un argomento che si può capire aprendosi a nuove forme del pensiero e abbandonando gli schemi comuni. C’è chi poi la questione degli alieni l’ha esaminata sotto la lente della riflessione filosofica, dicendo che anche nel caso degli alieni, quando ci si pone la domanda esistono o no bisogna aprirsi a nuove vie del pensiero, a nuove forme di consapevolezza, una consapevolezza che infondo è cambiata già molte volte nel corso della Storia, una consapevolezza che tiene conto del mistero della vita, che non si è ancora riusciti a definire e che non è detto che in tutto l’universo segua le stesse regole che segue qui “prendiamo ad esempio il DNA” ha spiegato Cesare Vola “la doppia elica gira verso destra, ma potrebbero esistere forme di vita su altri pianeti, ma anche qui sulla Terra dove la doppia elica gira verso sinistra e quelle forme di vita sarebbero completamente diverse da noi tanto che non potremmo nemmeno mangiarle” a questo punto non ho potuto proprio evitare di riferire la teoria del multi verso o degli universi paralleli, che per ora esiste come ipotesi, ma qualcuno sta dimostrando o cercando di dimostrare con una mole immensa di calcoli complicatissimi. Secondo questa teoria esistono universi paralleli che potrebbero persino basarsi su una fisica totalmente diversa che noi non possiamo assolutamente immaginarci, universi dove la vita si basa anziché sul carbonio sul silicio (che qui invece è la base della chimica inorganica) universi senza vita oppure universi con Terre parallele su cui si avverano le alternative che qui non si verificano, dove per esempio i dinosauri non si sono estinti o dove Hitler ha vinto la seconda guerra mondiale, universi dove esiste per ciascuno un alter ego che compie le scelte alternative rispetto a quelle compiute qui. La famosa storia con i se. Se ci fosse un numero infinito di universi paralleli tutti i se sarebbero egualmente possibili. “qui però limitiamoci alla scienza a cio che si può misurare, verificare, a quello che potrebbe essere possibile” ha osservato Cesare Vola che però, incalzato da altre osservazioni come quella di qualcuno che ha chiesto “può il filosofo arrivare dove non arriva lo scienziato?” ha considerato che certo col pensiero si può arrivare molto lontano. L’ultima riflessione prima di terminare ha riguardato il rapporto tra filosofia e scienza. Oggi sembrano due discipline incomunicabili, ma infondo la scienza è nata da una costola della filosofia. Quella che noi chiamiamo scienza per molto tempo è stata conosciuta come filosofia naturale. I filosofi Greci dissertavano anche di natura e cosmo, come abbiamo già avuto modo di vedere e Galileo anche si definiva un filosofo naturale. Non c’era un confine tra le discipline del sapere e la scienza è stata per molto tempo speculativa. È con Galileo che nasce il principio secondo cui si può definire scientifico quello che può essere verificato con un preciso metodo ed esperimenti ripetibili perché altrimenti col pensiero tutto è teoricamente possibile e non si scoprirebbe più niente. Osservando e misurando si nota ad esempio che una delle regole universali di natura e cosmo segue la sezione aurea identificata con la bellezza e la perfezione del creato soggetto alle stesse leggi universali sia sulla Terra che al di fuori di essa.

 

 

Venerdì 24 luglio 2015: curvatura dello spazio buchi neri e big bang

Come ogni venerdì, anche questa sera sono arrivata un po’ prima alla lezione e non ho potuto fare a meno di commentare l’argomento di cui si sarebbe parlato, ricollegandomi alla teoria del multi verso che mi è capitato già l’altra volta di esporre. “pare che i buchi neri siano il portale di accesso tra un universo e l’altro” ho detto “e pare che già Giordano Bruno avesse postulato per primo questa teoria e che per questo sia stato mandato al rogo” “non è esatto” ha risposto Cesare Vola “Giordano Bruno è stato il primo ad ipotizzare che le stelle non erano soltanto puntini nel cielo, ma oggetti celesti simili al nostro Sole, molto lontani, ciascuno dei quali avrebbe potuto potenzialmente avere nella propria orbita altri pianeti, anche simili alla Terra, anche abitati” e tramite quest’ultima considerazione ha cominciato ad anticipare la scoperta di un nuovo pianeta di cui avrebbe parlato durante la lezione, il pianeta Kepler 452b. i pianeti più recentemente scoperti si chiamano tutti Kepler perché Kepler è il nome del satellite che li ha scoperti osservandone i transiti sulle loro stelle. “è un lavoro che dalla Terra ormai non si fa più” ha spiegato Cesare Vola “perché l’atmosfera scherma”. Intanto la gente arrivava così la serata è potuta ufficialmente cominciare.

“stasera lo scopo sarà cercare di comprendere in primo luogo il concetto di curvatura dello spazio” ha esordito Cesare Vola “ma prima occupiamoci per un momento della notizia del giorno, la scoperta del pianeta Kepler 452b qui mostrato con un’immagine artistica e non necessariamente reale, perché un pianeta distante migliaia di anni luce lo si può individuare, ma non vedere esattamente com’è fatto. Per riuscire ad osservare i transiti di un pianeta lontano bisogna che anche la Terra si trovi allineata sullo stesso piano dell’eclittica della stella che si sta osservando e bisogna che il pianeta da osservare transiti tra la Terra e la sua stella mentre si trovano sullo stesso asse. Ci sono poche probabilità che questo avvenga eppure, nell’arco di circa una quindicina d’anni, sono stati già scoperti migliaia di pianeti extrasolari e questo significa che in cielo, complessivamente ce ne sono una quantità infinita. In particolare quest’ultimo pianeta ha fatto notizia per via delle sue molte somiglianze con la Terra: le dimensioni di Kepler 452b sono solo di poco più grandi rispetto a quelle della Terra, la distanza dalla sua stella è quasi identica alla distanza Terra-Sole e così la sua orbita intorno alla stella. Questo pianeta potrebbe avere acqua liquida, la vita, una civiltà che potrebbe essere più avanzata della nostra. Di certo c’è che è il pianeta più simile alla Terra finora scoperto nello spazio a 1000 anni luce di distanza”. Esaurita la notizia del giorno, Cesare Vola ha riportato l’attenzione sul concetto di curvatura. In ogni punto di una curva, la curvatura è il valore del raggio della circonferenza che approssima la curva “dunque più la curva è dritta, più la circonferenza è ampia, un concetto valido ragionando in una dimensione dove si può andare solo avanti o solo indietro, ma sempre dritti. In due dimensioni non si avranno cerchi, ma sfere, che però vanno sempre concepite come superfici che non contengono nulla al loro interno”. Per riflettere meglio su come cambia la percezione della realtà e soprattutto i principi matematici su cui si basa in base alle dimensioni di cui si tiene conto, Cesare Vola ha mostrato un vecchio cartone animato che ha per protagonista un bambino che viaggia nello spazio. In questo episodio in particolare, il bambino giunge su un mondo piatto abitato da esseri a due dimensioni che si muovono come figure animate su un foglio di carta, come figure piane in altre parole e di cui il bambino, che invece come tutti noi vive in una realtà a tre dimensioni che comprende anche la profondità, riesce a vedere il corpo al loro interno. Per questi omini la loro realtà che a noi sembra molto strana è la normalità. Allo stesso modo noi potremmo apparire strani a degli esseri che vivono in realtà comprendenti quattro o anche più dimensioni. Tutto questo per dire che la realtà che percepiamo non è necessariamente, la realtà vera e che non si riesce a comprendere pienamente tutto l’esistente. Se non si può percepire con i sensi tutto cio che realmente esiste nel Cosmo, si può però provare a ragionarci in modo astratto. “I primi a provarci sono stati i matematici” ha raccontato Cesare Vola mentre sullo schermo si muovevano gli omini piatti “costruendo dei modelli basati su ragionamenti complessi basati su una geometria di quattro dimensioni, ipersfere e quant’altro. Ma prima di arrivare a questo bisogna aver chiaro il concetto di retta e come si può determinare che una cosa è dritta. Le nozioni scolastiche di geometria ci dicono che la linea retta è il percorso più breve per unire due punti. Misurando due elementi bisogna misurare il tempo impiegato a coprire la distanza tra loro. Sarà dritto il percorso che consente di impiegare meno tempo. Sulla Terra si può fare questo esperimento con le corde. Nello spazio bisogna usare come riferimento, la luce che ha una velocità costante di 300 mila kilometri al secondo e non per nulla l’anno luce, cioè la distanza percorsa dalla luce in un anno, è l’unità di misura delle distanze nello spazio, che implica allo stesso tempo anche la misura del tempo degli ipotetici tempi di percorrenza da un oggetto celeste all’altro, considerando che tali oggetti non sono mai fermi. Dunque nello spazio una linea è dritta, è retta, quando corrisponde al percorso più breve compiuto dalla luce. Una linea dritta per noi è sempre dritta sia su un foglio che nello spazio reale, perché sebbene percepiamo le tre dimensioni e dunque la profondità, non percepiamo la curvatura e dunque ci muoviamo sulla Terra come se fosse una superficie piana (motivo per cui c’è gente che ha pensato e che continua a pensare tutt’ora che la Terra è piatta ndr). Solo guardando dall’esterno si può dire se una superficie è curva o piana. Dall’interno bisogna basarsi sulle leggi geometriche. Sul piano vale la geometria euclidea secondo cui la somma degli angoli interni di un triangolo è 180° mentre la somma degli angoli interni di un quadrilatero è 360° e secondo cui vale il teorema di Pitagora (la somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa ndr). Sulla sfera curva la geometria euclidea non funziona. Sulla sfera curva si ottengono quadrati storti e triangoli con angoli interni di 90° e cerchi con raggi maggiori rispetto a come sono sul piano. Le superfici curve inoltre non sono per forza sfere, possono avere le forme più svariate e bizzarre. Per duemila anni si è creduto di poter applicare nell’osservazione del cielo le leggi della geometria euclidea basata sui quattro postulati di Euclide cioè enunciati dati per veri che però sono il frutto di un’astrazione verificabile sul piano. Einstein sarà colui che elaborerà equazioni molto complicate per confutare queste teorie, basate su geometrie non euclidee e su uno spazio curvo in tre dimensioni che per essere ben compreso andrebbe guardato dal punto di vista della quarta dimensione tenendo presente che le regole variano punto per punto nello spazio, che lo spazio forma un sistema unico con il tempo e che questo sistema è curvato dalla gravità ed è determinato dalla posizione e dal movimento delle masse. Misurando il raggio e la superficie di una sfera si può cominciare a capire la curvatura terrestre. La sfera del modello geometrico è però un’approssimazione perché la si considera vuota al suo interno, cosa che la Terra non è. Dunque la geometria euclidea è un approssimazione valida solo in condizioni di gravità zero che diventa sempre meno vera man mano la gravità aumenta. La conferma di tali principi richiede però delle misurazioni di una precisione difficile da ottenere. Nello spazio si può osservare che le rette si incurvano e che i corpi celesti deviano la luce in base alla loro massa, proprio come ha teorizzato Einstein e come verificò nel 1919 Arthur Eddigton (uno dei maggiori astrofisici inglesi del ventesimo secolo; fu proprio lui non solo a verificare, ma anche a diffondere le idee di Einstein e a proporre il limite che porta il suo nome che corrisponde alla luminosità massima che può avere una stella con una data massa, senza che essa inizi a perdere gli strati più alti della propria atmosfera ndr) osservando le stelle vicino al Sole durante un’eclisse solare e trovandole spostate. Sulla base di questa curvatura Einstein determina anche il fenomeno della lente gravitazionale secondo cui se dalla Terra si osservano due galassie poste una dietro l’altra per effetto della curvatura della luce la galassia dietro appare come una grossa lente con quella davanti al centro. In realtà Einstein pensava che la curvatura della luce avrebbe reso invisibile la galassia dietro, ma su questo dettaglio si sbagliava. Non si sbagliava però nel definire lo spazio curvo e nel dire che gli oggetti celesti che lo occupano ne influenzano la curvatura. Tutto questo è compreso nella sua cosiddetta teoria della relatività che ha una spiegazione anche per le strane orbite di Mercurio che non necessita di chiamare in causa un pianeta misterioso. Se le orbite di Mercurio non rispondono alle teorie di Newton, corrispondono alla relatività di Einstein che non solo teorizza la curvatura dello spazio, ma anche quella del tempo. È Einstein ad affermare per primo che il tempo è relativo e non è lo stesso per tutti e lo fa prendendo ad esempio due razzi che viaggiano a velocità diverse. Ognuno contiene un orologio che manda un impulso ad un intervallo prestabilito di tempo. L’impulso dai due razzi non giunge nel medesimo istante sebbene gli orologi siano stati tarati allo stesso modo e sebbene l’intervallo di tempo sia lo stesso sui due razzi. Più il raggio viaggia veloce e più gli impulsi che manderà saranno vicini uno all’altro nel tempo. Il tempo di ciascuno si modifica se confrontato con altri e se si considera l’accelerazione di gravità. Galileo aveva già cominciato a capirlo osservando le navi, ma ci è voluto Einstein per dare la spiegazione definitiva (tenendo conto che nella scienza nulla è definitivo ndr) arrivando ad elaborare il concetto di spazio-tempo che più è curvato più fa si che il tempo scorra lentamente, un concetto che nella relatività speciale è spiegato col paradosso dei gemelli (uno dei due gemelli parte per un viaggio nello spazio alla velocità della luce o molto prossima ad essa un viaggio andata e ritorno sempre a questa velocità. Rientrando sulla Terra al termine del viaggio lui non sarà cambiato, ma troverà il suo gemello invecchiato ndr) e che fa si che in movimento, anche tenendo conto dell’effetto doppler cambi il colore della luce, perché varia la sua frequenza”. Parlando di deformazione dello spazio tempo non si può non parlare di buchi neri (Einstein li postulò in teoria, ma è stato Stephen Hawking a scoprire che esistono davvero anche se praticamente non si riesce ad osservarli ndr). “in realtà furono diversi scienziati a teorizzare il concetto di buchi neri e a proporre modelli matematici atti a dimostrarli, Poincaret, Lorentz, Oppenehimer, per citarne alcuni” ha puntualizzato Cesare Vola “i buchi neri sono oggetti celesti misteriosi perché assorbono anche la luce. Tutte le masse attraggono la luce, ma la massa di un buco nero è talmente forte che più che attrarre fagocita e in un buco nero tutto può entrare ma nulla può uscire” Cesare Vola ha proiettato l’immagine artistica di un buco nero che si troverebbe nella nube di Magellano “all’interno di un buco nero il tempo è fermo è c’è sempre quella linea di confine oltre la quale il buco nero risucchia tutto. Al di sopra di quella linea ci si può ancora sottrarre dall’orbita di un buco nero al di sotto no. Se ci si trova al di sotto della linea si vede l’universo scorrere velocissimo, se ci si trova al di fuori si vede un oggetto cadere in continuazione senza superare mai quella linea perché man mano si avvicina il tempo rallenta finche ad un certo punto si ferma. Questo concetto è stato teorizzato dai calcoli complicati di uno scienziato di nome Sharzscild che ha coniato, per il fenomeno stesso il nome di orizzonte degli eventi. Ma come si osserva tutto questo? Attraverso la luce che il buco nero cattura e che gli orbita intorno emettendo raggi X  prima di essere fagocitata oppure attraverso l’influenza che esercita sugli oggetti celesti che si trovano vicini. Si osservano stelle che ruotano intorno ad oggetti scuri e molto massivi e quelli potrebbero essere dei potenziali buchi neri che si originano per effetto della curvatura. Per essere sicuri bisognerebbe però poter mandare una sonda e studiarli da vicino. Oltre a quello della nube di Magellano altri buchi neri in qualche modo famosi si trovano all’interno delle costellazioni del Cigno e del Sagittario, ma in realtà ogni galassia avrebbe il suo buco nero supermassiccio al centro che ne determinerebbe la rotazione. Quello che conta però è quello che si può misurare e non è ancora possibile effettuare delle misurazioni che permettono di capire se i buchi neri sono realmente come li si immagina. Anche il raggio di  Sharzscild e l’orizzonte degli eventi sono più dei postulati che delle teorie reali e infondo la fisica tende a voler credere troppo nelle sue teorie”. Ecco come parlando di teorie, siamo giunti, nell’ultima parte della serata ad esaminare le teorie più affascinanti, quelle che dovrebbero spiegare come tutto cio di cui si sta parlando da quattro venerdì sera a questa parte e che ha tolto il sonno a molti scienziati nel corso dei secoli, ha effettivamente avuto inizio. Non si poteva proprio non parlare del Big Bang il grande scoppio, anch’esso però rappresentato sempre più artisticamente che realmente “attraverso immagini che presuppongono l’esistenza di un centro che invece nel Big Bang non c’è” come ha puntualizzato Cesare Vola “così come non c’è un centro dell’Universo dove tutto è sparso omogeneo e isotropo su scala opportunamente grande dove per omogeneo si intende tutto uguale più o meno e per isotropo che cio che si osserva non cambia se cambia la direzione da cui viene osservato. Nello spazio le galassie sono distribuite in modo uniforme come su una spugna, come se l’universo fosse un insieme di tanti granelli immobili tra loro immersi in uno spazio che si espande (come se fosse un palloncino che si gonfia ndr) un’idea che però non piaceva ad Einstein che propendeva per un universo stazionario. Per dimostrare questa teoria ha persino calcolato una costante cosmologica, ma questo poi col tempo si è rivelato essere un errore perché i calcoli dimostrano che lo spazio (e non gli oggetti celesti in esso contenuti) si muove, si espande o si contrae ed è un fenomeno che si può osservare tramite i già nominati spettri stellari e l’effetto Doppler che sarà tanto maggiore, quanto più la galassia o  comunque l’oggetto celeste si allontana velocemente. A scoprire questo per la prima volta fu Hubble lo scienziato (da cui il famoso telescopio spaziale ha preso nome ndr). Figlio di un avvocato avrebbe dovuto, secondo i voleri paterni diventare avvocato a sua volta, ma egli volle diventare astronomo e divenne un grande astronomo che scoprì appunto come tramite l’effetto Doppler si potesse determinare l’allontanamento (fuga verso il rosso) o l’avvicinamento (fuga verso il blu) in base alla distanza fra le galassie stesse”. Alla fine la teoria dell’universo in espansione venne accettata anche da Einstein che riconobbe i suoi errori in tal senso. Ma prima di arrivare a questo Cesare Vola ha presentato un altro scienziato “Lamaitre un gesuita belga il primo a concepire l’idea di un Big Bang, una teoria scientifica che in qualche modo cerca di avvalorare la creazione in cui credono i cattolici. Lemaitre afferma che l’Universo in espansione si è originato a partire da un atomo primordiale all’inizio del tempo e dello spazio, un’idea che fa inorridire gli atei e i materialisti. Se l’universo fosse bidimensionale questa teoria si può facilmente rappresentare col palloncino che si gonfia. L’universo è tridimensionale però e le galassie si allontanano a velocità che possono raggiungere quelle della luce e c’è addirittura chi pensa che alcune galassie si allontanano ad una velocità tale che la luce non le può raggiungere e non si potranno dunque mai osservare ed ecco come in questo senso si può trovare un nuovo significato per il termine di orizzonte degli eventi, intendendo in questo caso una parte di universo che resterà sempre fuori dalla nostra portata”. A questo punto la cosa si è fatta complicata. È venuto il momento di capire quale potrebbe essere la geometria dell’Universo. L’equazione di Einstein fornisce tre possibilità di risposte. L’Universo può essere sferico e finito oppure infinito nei due modelli iperbolico e piano oppure simile ad un ipercilindro. Tre modelli che si basano sulla densità della materia e sulla curvatura che fa si che la somme degli angoli interni di un triangolo cosmico sia sempre maggiore di 180° tanto più maggiore quanto maggiore è la curvatura. L’equazione però prevede anche che il sistema spazio tempo abbia avuto un inizio dunque Lemaitre affermava sulla base di questo che prima di quell’inizio non esisteva nulla. Un altro scienziato Fred Hoyle (matematico, fisico e astronomo britannico, noto al grande pubblico soprattutto per le sue argomentazioni non convenzionali e per svariate teorie non ortodosse entro la comunità scientifica ndr da Wikipedia) ha proposto invece il modello di un Universo fondamentalmente uguale a se stesso all’interno del quale le galassie si espandono perché nel vuoto si creano degli atomi. Per far funzionare questa teoria sono sufficienti pochissimi atomi e questo esclude il problema dell’inizio dell’Universo che Hoyle escludeva categoricamente. Fu proprio lui durante una trasmissione radiofonica a coniare il termine Big Bang in senso dispregiativo come per dire che si trattava di un’idiozia. Tutte queste teorie funzionano e per dire qual è quella vera ci si potrebbe affidare alle conferme sperimentali. A questo punto non ho potuto evitare di  fare una piccola riflessione su quanto è stato detto, sull’Universo visibile che è solo una piccola parte del tutto, sui buchi neri che si originerebbero dal collasso di stelle di neutroni, stelle talmente dense di materia che un cucchiaino di tale stella peserebbe tonnellate e dunque in qualche modo i buchi neri sarebbero lo stadio finale dell’evoluzione di stelle che evolvendosi hanno acquisito sempre più massa e densità. Nella parte finale della serata ognuno ha avuto modo di poter dire la sua. Qualcuno ha letto il libro SETTE BREVI LEZIONI DI FISICA e ha voluto condividere qualche riflessione in merito, qualcuno ha tirato in ballo la teoria delle stringhe. C’è stato anche il modo di tornare sulla teoria del multi verso e di assimilare i buchi neri a passaggi spaziotemporali tra un universo e l’altro e di riflettere su come la teoria del multi verso sta alla base della possibilità di viaggiare nel tempo tenendo conto che tornando nel passato c’è sempre la possibilità di alterarlo (il famoso paradosso del nonno secondo cui se torni indietro nel tempo e uccidi tuo nonno giovane oppure tua madre incinta di te tu praticamente non esisti più da nessuna parte ne nel passato dove non sei ancora nato ne nel tuo presente ndr) e dunque se si pone per vera la teoria del multi verso e ancor più quella del multi verso infinito secondo cui si formano universi in continuazione come bolle di sapone i paradossi relativi ai viaggi nel tempo si possono spiegare col principio secondo cui non si torna allo stesso presente da cui si è partiti, ma in un universo parallelo creatosi sulla base delle alterazioni messe in atto durante la permanenza nel passato, anche involontariamente. Ma prima di parlare di ciò, un’ultima considerazione sulle varie teorie e sulle loro possibili conferme sperimentali. “l’Universo è grande, secondo le ultime ipotesi 130 miliardi di anni luce e l’Universo visibile copre uno spazio di circa 15 miliardi” ha precisato Cesare Vola rispondendo alle mie riflessioni “beh se è infinito  e si espande di continuo è inutile misurarlo” ho ancora osservato io. Detto cio è venuto il momento di parlare della scoperta della radiazione cosmica di fondo teorizzata e scoperta da due scienziati di nome Penzias e Wilson. Questa radiazione cosmica identica da qualunque punto dell’Universo la si ascolta è molto importante perché rappresenta la conferma sperimentale del Big Bang, una sorta di eco di questo grande botto primordiale che continua a giungere sino a noi dovuto al nucleo originario di plasma di atomi di idrogeno che emettevano energia elettromagnetica. Questo però non implica che ci sia stato un centro, il centro non c’è e questo rende difficoltoso il problema dell’inizio per il quale Cesare Vola stasera ha proposto alcune soluzioni divertenti giusto per smorzare un tantino la difficoltà degli argomenti, ma in realtà una soluzione a questo problema ancora non è stata trovata. “che cosa ha generato il tutto?” ha chiesto “a meno che abbia senso porsi la domanda”. I cattolici spiegano il tutto con la creazione e fanno coincidere con essa il Big Bang. Ma i problemi non sono finiti e l’ultimo problema esaminato introduce a quello di cui si è parlato nell’ultima lezione. La materia oscura. Questa sera Cesare Vola ha fatto notare che per ogni particella di materia in teoria ne esiste una corrispondente di antimateria (quando si incontrano formano i raggi gamma), ma nel nostro Universo si registra un’abbondanza di materia e scarsità di antimateria sicché i conti non tornano e questo porta a pensare che la materia primordiale fosse soggetta a leggi della fisica che non conosciamo quelle che cercano di studiare al CERN ricreando condizioni che sono le più simili possibili a quelle del Big Bang tenendo conto che più ci si avvicina all’inizio più si è incerti “in conclusione dell’Universo si può dire con certezza che è grande che si espande e che ha un’età” ha spiegato Cesare Vola “età determinata da oggetti celesti chiamati quasar oggetti celesti molto luminosi e molto concentrati che si trovano a grandi distanze a miliardi di anni luce (qualcuno vede in essi l’universo primordiale ndr) e che sono ammassi di materia che fagocitano materia in continuazione emettendo grandi quantità di energia. In realtà l’Universo presenta continuamente questioni su cui indagare su cui discutere confrontando le varie opinioni. Tutta la scienza prosegue in questo modo”. Senza essere scienziati anche i presenti, come ho già avuto modo di dire, hanno voluto mettere le loro opinioni a confronto. Sono serate come queste che fanno apprezzare l’importanza della Casa Uboldi in grado a volte di rievocare la vivacità dei simposi greci delle corti rinascimentali e  dei salotti del Sette-Ottocento.

Venerdì 31 luglio 2015: materia ed energia oscura, cosmologie tra scienza e fantascienza

Materia ed energia oscura sono due concetti diversi, ma egualmente sfuggenti che riguardano gli ultimi vent’anni della ricerca cosmologica. Così ha esordito questa sera Cesare Vola per dare l’avvio a quella che si è rivelata essere la serata più interessante di tutto il ciclo, se non altro perché si è trattato di tematiche per così dire ancora aperte, caratterizzate più da interrogativi che da certezze, su cui dunque l’uomo è stimolato a riflettere. “una tematica di cui appunto per ora si percepisce solo il fascino senza comprenderla realmente, tanto da utilizzarla arbitrariamente come titolo per un film” ha spiegato ancora Cesare Vola “ma è dunque possibile capire realmente di che cosa si tratta? Cominciamo dalla materia oscura. Che cosa si intende con questa denominazione?” per introdurre il concetto Cesare Vola ha parlato nuovamente delle galassie e del fatto che ruotano su se stesse, compiendo una rotazione completa in intervalli di tempo fissi e misurabili. La nostra galassia, la Via Lattea, ad esempio compie una rotazione completa su se stessa nell’arco di 250 milioni di anni. “in realtà non si potrà mai osservare una galassia ruotare” ha puntualizzato Cesare Vola “perché si tratta di movimenti rotatori lentissimi. È interessante notare come la galassia ruota, come si comporta la materia di cui è costituita durante la rotazione. Al centro la galassia ruoterà più in fretta e man mano ci si allontana dal centro sempre più lentamente. Questo almeno è cio che ci si aspetterebbe. Per rilevare la rotazione di una galassia ci si basa ancora una volta sull’effetto doppler e le righe spettrali che dovrebbero mostrare una parte della galassia che si avvicina all’osservatore e un’altra parte che si allontana. Ci si può basare soltanto sulla luce dunque e sui suoi effetti per misurare la rotazione di una galassia e per rilevare i comportamenti della materia al suo interno dovuti alla rotazione stessa. Ed ecco come in questo modo si nota come in realtà non avviene cio che ci si aspetterebbe. In realtà si osserva che la materia esterna di una galassia gira molto più velocemente rispetto a quanto ci si aspetterebbe in teoria, addirittura gira più velocemente nella parte esterna piuttosto che in quella interna e, se si considera la teoria che conosciamo, questo è assurdo. Noi sappiamo che la velocità di rotazione dipende dalla vicinanza da un centro, perché maggiore è la vicinanza del centro, maggiore è l’attrazione che esso esercita e dunque maggiore è la rotazione. Lo si osserva ad esempio con i pianeti del Sistema Solare: Mercurio, che è il più vicino al Sole, è quello che ruota molto più velocemente, mentre Plutone, il più esterno, è quello che ci impiega più tempo a girare intorno al Sole. Ma con le galassie non avviene tutto questo, non lo si osserva eppure il principio dovrebbe essere il medesimo. Ecco come i fisici, per provare a spiegare questo assurdo, hanno introdotto il concetto di materia oscura, un alone oscuro che circonda la galassia e in qualche modo ne perturba il moto, giustificando così le discrepanze che si osservano e che contraddicono la legge della gravitazione. La materia oscura infatti rende uniforme la materia dentro la galassia che dunque non ruota più intorno al suo centro, ma ruota dentro questo alone oscuro e risente dell’attrazione gravitazionale di quest’ultimo che farebbe girare più velocemente l’esterno. Ovviamente l’alone è definito oscuro perché non è possibile osservarlo. Gli scienziati lo ipotizzano perché la sua presenza fa tornare i conti che non tornano, ma nessuno può ancora portare conferme sperimentali della sua esistenza effettiva. Questa strana materia oscura non riflette la luce e passa attraverso la materia ordinaria senza produrre effetti significativi (se si esclude ovviamente cio che è stato appena detto sulla strana rotazione delle galassie) potrebbe essercene persino sulla Terra, ma non si può percepirla, accorgersi che c’è  perché non interagisce con noi, ma neanche con la luce (in realtà però se fa ruotare in modo strano le galassie un qualche tipo di iterazione la dovrà pur avere no? Ndr). Dunque secondo gli scienziati dovrebbe esistere questo tipo di materia che, a differenza della materia ordinaria non si aggrega, non è polvere, non va a formare corpi celesti è diffusa per lo spazio e le particelle di cui sarebbe fatta (o qualunque cosa sia che la compone) non interagiscono nemmeno tra loro. Ecco perché al momento può essere solo un’ipotesi, un qualcosa che gli scienziati immaginano senza sapere se esiste davvero. Al CERN stanno provando a mettere a punto esperimenti specifici per individuarla osservando eventuali comportamenti anomali delle particelle di materia ordinaria. Se esistesse davvero, secondo gli scienziati, sarebbe addirittura in percentuale di molto maggiore rispetto alla materia ordinaria. La materia oscura precisamente costituirebbe il 22% dell’esistente contro circa il 4% della materia ordinaria compresa di corpi celesti e gas intergalattici. Analoghi studi si effettuano nel campo dell’energia e si arrivati in tal modo a scoprire l’esistenza dei neutrini e a ipotizzare l’energia oscura che costituirebbe addirittura il 74% dell’esistente” Per introdurre il concetto di energia oscura Cesare Vola ha parlato delle supernovae, stelle che si accendono improvvisamente nel cielo e muoiono in seguito ad enormi esplosioni “le supernovae si formano a partire da una nana bianca (che dovrebbe essere una stella giunta ormai alla fine della sua vita come già detto nel corso delle serate precedenti ndr) che accumulano sempre più materia, sempre più concentrata, sino ad innescare la fusione del carbonio ed emettendo una gran quantità di luce sempre la stessa in qualunque punto si trova. Misurando quanta luce arriva effettivamente sulla Terra si può stimare la distanza di questi oggetti celesti nonché la distanza della galassia che le ospita. Quello che si scopre è che le galassie si allontanano ad una velocità sempre maggiore le une dalle altre e questo è un altro assurdo che contraddice la legge della gravitazione universale. La forza di gravità dovrebbe infatti tenere insieme le galassie che dunque si dovrebbero allontanare a velocità molto lenta. Ancora una volta quello che si osserva contraddice la teoria e ancora una volta i fisici devono ipotizzare un qualcosa che giustifichi questa espansione, che faccia tornare i conti e questo qualcosa è l’energia oscura ed è in virtù dell’esistenza di questa energia che l’universo si espanderebbe sempre più velocemente. Ipotizzare la materia e l’energia oscura influenza le teorie del big bang. Si parte da un punto che è l’inizio dello spazio ma anche del tempo e si ipotizza una grande esplosione che ha innescato una rapidissima espansione che continuerebbe tutt’ora. In realtà però quel che si osserva non è così lineare. Si tratta comunque di teorie nuove in discussione da circa una decina d’anni. il bello della scienza è che non si arriva mai si pensa di aver raggiunto un traguardo, ma poi si scopre qualcosa di più preciso che rimette tutto in discussione” a questo punto non ho potuto fare a meno di intervenire osservando che “nella scienza ogni risposta genera almeno dieci domande” “fino a dieci anni fa i fisici erano convinti che l’espansione dell’universo dovesse rallentare” ha ripreso a spiegare Cesare Vola “ma le misurazioni più precise che hanno portato ad ipotizzare la materia oscura e l’energia oscura hanno mostrato un’altra realtà. Nuove osservazioni potranno forse in futuro portare a nuove teorie. Fino a vent’anni fa la questione cruciale della cosmologia era capire se l’universo si espande all’infinito oppure si espande fino a un certo punto e poi torna indietro (addirittura collassando su se stesso fino a tornare al puntino iniziale ndr). Si cercava di rispondere a tali domande compiendo studi sulle masse dei neutrini. Ora invece si vagliano nuove realtà oscure e non è possibile prevedere cosa succederà. Queste nuove frontiere hanno dimostrato l’infondatezza di vecchi problemi e l’inutilità degli esperimenti compiuti per cercare di risolverli. Quel che si può dire di sapere è che il big bang è avvenuto circa tredici miliardi di anni fa e che per ora l’universo si espande ed è finemente regolato perché il contrario renderebbe impossibile la nostra esistenza. Le leggi della fisica che regolano l’universo si basano su alcune costanti fondamentali che se cambiate anche di poco darebbero origine a realtà completamente diverse che non potremmo neppure immaginare, realtà dove la vita non esisterebbe, perlomeno non come la conosciamo. Per esempio abbiamo la costante gravitazionale, la velocità della luce, la costante di Plank. Non c’è un motivo per cui esistono queste costanti esistono e sono esattamente così, ma è cio che determina la nostra stessa esistenza. Esiste ad esempio la costante di epsilon che se leggermente più piccola farebbe si che potrebbe esistere solo l’idrogeno, mentre se fosse più grande farebbe collassare anche l’idrogeno, fuso tutto immediatamente dopo il big bang. Ecco come variando le costanti potrebbero esistere universi, senza vita o comunque meno interessanti o addirittura niente del tutto” Qualcuno ha chiesto se potrebbe esistere un universo senza materia. Se manca la materia ci si immagina il nulla assoluto e dunque un universo senza materia sarebbe ben difficile da concepire. “tutto cio rende la vita solo il frutto di una probabilità remotissima, una anomalia quasi che qualcuno spiega e ha spiegato per molto tempo con l’esistenza di Dio che ha voluto espressamente la vita oppure con l’ipotesi che esista un’infinità di universi nei quali tutto è possibile e in cui la vita è solo una delle infinite possibilità che potrebbero verificarsi e si verificano”. Qualcuno dice anche che queste teorie non necessariamente si escludono a vicenda che un’intelligenza cosmica anziché concepire un solo universo possibile ne possa concepire un numero infinito. Già Einstein infondo si domandava se Dio giocasse o meno a dadi con l’Universo e dunque se fosse tutto davvero totalmente casuale o se alla base di questa apparente casualità fosse già tutto predisposto in qualche modo. Ci vuole comunque un qualcosa alla base per giustificare tutto questo indipendentemente dalle credenze personali “la gente ha bisogno di certezze” ha osservato Cesare Vola “non vuole avere a che fare con ciò che pone dubbi, che costringe a pensare a chiedersi se le cose stanno in un modo o in un altro. Si preferisce la sicurezza di cio che è affidabile, solido, che regge ad ogni dubbio, ad ogni precisazione, qualcosa che al contempo non metta in evidenza la grande ignoranza di fondo nei confronti dell’esistente di come è davvero la realtà”. Questo discorso è stato il punto di partenza per l’ultimo argomento di questa serata: i nuovi modelli di cosmologia, tra cui quelli che prevedono più dimensioni rispetto a quelle che si pensano, come ad esempio la già accennata quarta dimensione punto di partenza per provare ad immaginare un modello a più universi anche infiniti, universi magari basati su ipercubi, ipersfere, cioè proiezioni di figure in tre dimensioni nella quarta dimensione, come si è già avuto modo di spiegare la volta scorsa “in una dimensione c’è solo una linea e ogni coordinata corrisponde ad un punto” ha rispiegato brevemente Cesare Vola rifacendosi al discorso della curvatura “la sfera è individuata da due punti che delimitano tutto e separano il dentro e il fuori. In due dimensioni avremmo esseri piatti di cui noi potremmo vedere l’interno e che non avrebbero concezione dell’esistenza di una terza dimensione. In due dimensioni il volume corrisponde alla superficie e la superficie a un punto. In tre dimensioni il volume corrisponde a qualcosa con un interno e un esterno e la superficie ad una figura piana. Nella quarta dimensione, che noi possiamo concepire solo come astrazione, ogni punto sarebbe individuato da quattro coordinate e la superficie corrisponderebbe ad un volume. In un universo in quattro dimensioni potrebbero esistere esseri che ci osservano che vedono l’interno del nostro corpo senza che per noi sia possibile percepirli. In un universo a più dimensioni si avrebbero ipersfere, ipercubi e l’iperspazio. L’universo che noi conosciamo, secondo alcuni, potrebbe essere un’ipersfera in 3D immersa in un iperspazio in 4D dove coesisterebbero altri universi in quantità infinita universi che sono come delle bolle di sapone che si formano continuamente. Ma tutto questo, così come la materia e l’energia oscura fa parte del campo delle ipotesi, sono problemi aperti, questioni su cui c’è solo un dibattimento privo di teorie che possono essere dimostrate o avvalorate da prove scientifiche. La scienza si evolve perché qualcuno propone delle idee che sembrano rivoluzionarie su cui poi si dovrebbe indagare” e a questo punto Cesare Vola ha portato l’esempio di Giordano Bruno che già tra il Cinque e Seicento affermava che l’universo è infinito che i puntini luminosi in cielo sono lontanissimi soli ognuno dei quali ha attorno il suo sistema di pianeti, idee che lo hanno portato al rogo “ed ecco come oggi si arriva ad ipotizzare l’esistenza di più universi e più dimensioni. È necessario però distinguere tra cio che è certo, che è provato e dunque reale e inconfutabile e cio che è solo un’idea, un’ipotesi che è stata pensata, ma non confermata e che dunque potrebbe anche non essere vera. Tra queste ipotesi la possibilità che esistono più diversi che potrebbero essere tra loro interconnessi oppure no, di cui alcuni potrebbero essere chiusi, alcuni potrebbero espandersi all’infinito, altri contrarsi, altri espandersi e contrarsi alternativamente. Ma sono solo idee”. Del resto anche il nostro universo non lo conosciamo tutto per intero, ma cio che si conosce che si osserva che si studia è solo una parte. “in ognuno di questi universi le costanti di cui si diceva prima sono diverse e questo farebbe si che ogni universo si basi su principi fisici diversi da quelli che regolano gli altri universi. Si creano tanti universi ognuno coi suoi principi e le sue costanti e nell’infinità casualmente troviamo anche quello in cui noi viviamo” e qui ritorna il dilemma se Dio gioca o meno a dadi con l’universo “in realtà questi universi infiniti e casuali hanno comunque ognuno delle regole” ha precisato Cesare Vola “se non gioca a dadi gioca a scacchi” ho allora osservato io. Un gioco apparentemente casuale e complesso, ma con delle regole ben precise che bisognerebbe solo capire che valgono per cio che noi conosciamo, ma non per tutto “in fisica contano molto le teorie che predicono cio che noi ancora non sappiamo” ha ripreso a spiegare Cesare Vola “una teoria che si presta ad essere indagata per trovarne le prove effettive e che dimostra che si sono capite davvero le cose. Ecco che qualcuno propone l’esistenza di tunnel che collegano i vari universi o varie parti dello stesso universo (i buchi neri? I wormole? Peraltro entrambi ipotizzati da Einstein ndr) o di buchi neri dove la materia entra e in qualche modo torna nel passato, così l’universo si rigenera in continuazione e non può mai invecchiare in un ciclo continuo che lo rende in qualche modo stabile. Questa teoria prevederebbe l’esistenza dei buchi bianchi che sarebbero i quasar, tutto cio che resta dell’universo primordiale, la parte dei wormole che rigetta indietro la materia nel passato e l’energia, tutto cio che proviene dai buchi neri che fagocitano tutto, tanto che si riesce ancora ad osservarli questi oggetti così lontani che risalgono addirittura a poco dopo il big bang. Qualcuno invece ha proposto l’esistenza di tunnel spaziotemporali che vanno avanti e indietro non solo nello spazio, ma anche nel tempo (perché la teoria del multi verso secondo alcuni ha molto a che fare con la possibilità reale di poter un giorno viaggiare nel tempo che altro non sarebbe che una dimensione, la quarta dimensione secondo alcuni, cio che ci permette realmente di percepire l’esistente secondo altri ndr)” Se tutto questo fosse vero potrebbe un giorno risolvere il problema delle distanze che attualmente rendono impossibili eventuali viaggi interstellari anche solo verso i pianeti più vicini “su queste teorie ci hanno fatto il film INTERSTELLAR” ha osservato Cesare Vola “e continuando a parlare di teorie bizzarre, ce n’è una che è stata pubblicata su LE SCIENZE di dicembre 2014 che afferma che il big bang non sarebbe altro che l’implosione di una stella in 4D della quale il nostro universo sarebbe semplicemente una proiezione. Si stanno accumulando troppe teorie. Di giusta però ce n’è una e forse dovrebbero concentrarsi di più per capire qual è. La speculazione, il pensare a delle ipotesi a nuove idee è sempre un gioco divertente. Il problema è che nella scienza ci vogliono le prove non basta semplicemente pensare, perché nel corso della storia la gente ha pensato a molte cose. Nel corso del tempo molte leggi e teorie sono state effettivamente dimostrate e dunque molte altre in futuro se ne potrebbero ancora dimostrare” . Per concludere la serata Cesare Vola ha proposto una carrellata di teorie molto bislacche, come ad esempio la società della Terra piatta, questa associazione che tramite pubblicazioni e siti internet diffonde l’idea che in realtà la Terra sarebbe un disco piatto e riuscirebbe a giustificare ogni argomentazione in favore di quest’idea antica nonostante queste persone vivano in questo secolo di tecnologie prendono l’aereo e, appunto, usano internet. C’è inoltre l’idea che tutto cio che noi siamo, che vediamo intorno a noi, non sarebbe altro che una simulazione al computer. Questa idea si origina dal fatto che attualmente si è in grado di creare effettivamente dei mondi al computer, dei mondi che al loro interno hanno un senso e questo ha fatto si che qualcuno si sia chiesto se anche la nostra di realtà infondo non sia altro che una realtà virtuale, come quelle che si creano. Io conoscevo una variante di questa teoria che non chiama in causa i computer, ma la mente. Secondo questa teoria niente esiste davvero. Noi tutti il nostro mondo, il cosmo siamo pensieri dentro la mente di qualcuno, dei sogni addirittura. Noi esistiamo perché qualcuno pensa a noi e la nostra vita è un pensiero, l’astrazione di una mente che nel suo mondo, nella sua realtà potrebbe essere esattamente come noi, non è detto che sia una divinità che crea o un essere superiore, potrebbe essere come uno scrittore quando inventa una storia con dei personaggi eccetera. Su cose del genere si potrebbe andare avanti a discutere all’infinito, ma nel corso della serata c’è stato ancora il tempo giusto per dei chiarimenti di concetti espressi nelle serate precedenti e che qualcuno si è perso perché non è venuto oppure di concetti di questa sera. Qualcuno si è chiesto se la forza tanto nominata in STAR WORS fosse in qualche modo assimilabile ai concetti di materia ed energia oscura e se tali concetti si dovessero considerare fisici o non fisici. Secondo Cesare Vola la forza di STAR WARS è un qualcosa di intelligente più assimilabile al divino, mentre la materia e l’energia oscura (per altro teorizzate vent’anni dopo STAR WARS) sono più inerti. Queste tematiche possono facilmente sfociare nella fantascienza così come nella filosofia, nella speculativa.

E con questa serata si è concluso questo ciclo di aperture estive straordinarie della Casa Uboldi con un tema perfetto per le sere d’estate che già di per sé, almeno secondo me, maggiormente si prestano a maggiori meditazioni. Serate che, si può dire, hanno in tutti i sensi ampliato gli orizzonti di chi ha avuto la pazienza e la curiosità di stare ad ascoltare.

Antonella Alemanni

 

 

(galleria immagini da Google)

 

LA MUSICA AL CINEMA

 

 

TALAMONA dal 6 al 27 marzo 2015 un’iniziativa inedita della biblioteca

 

 

Cineforum

 

PICCOLO CINEFORUM TEMATICO CURATO DAI VOLONTARI DELLA BIBLIOTECA

Più e più volte durante le introduzioni o gli interventi conclusivi delle serate in biblioteca è stata sottolineata l’importanza versatile che la Casa Uboldi ha assunto nel corso del tempo per la comunità talamonese (o almeno per una parte di essa, quella che partecipa). Qualcuno ha osservato come più volte vi si può ricreare la stessa atmosfera delle società contadine quando gli unici svaghi consistevano nel ritrovarsi tutti insieme nelle stalle a raccontarsi storie o nelle locande per sentire anche le testimonianze dei viandanti. Il racconto è sempre stato sin dagli albori dell’umanità un modo per veicolare informazioni, scambiare idee e conoscenze. In qualche modo alla Casa Uboldi ci si è presi il tacito impegno di portare avanti queste tradizioni s si può dire che è in questo spirito che hanno avuto luogo tutte le serate che sono state proposte (o comunque molte di esse). Tradizione si, ma senza rinunciare alla tecnologia moderna (anche se non sempre necessaria) come presentazioni interattive di foto e video, slide, spezzoni di film. Ed è così che tra modernità e tradizione la vita culturale va avanti da ormai tre anni molto spesso grazie a proposte che nascono per caso e che toccano vari argomenti con varie modalità. Ed è così che per caso, durante una riunione del gruppo volontari, durante le quali si mettono a confronto le idee e si discutono anche proposte di esterni che vorrebbero intervenire, qualcuno ha proposto di realizzare un piccolo cineforum: si è parlato di tutto in biblioteca perché non dedicare un piccolo spazio anche al cinema? Certo non si sarebbe trattato di un cineforum come quello realizzato a Morbegno (questo anche solo per non “pestarsi i piedi” come si suol dire), ma un qualcosa più casereccio più nel nostro stile, cicli più brevi e tematici. In realtà ci è voluto un po’ prima che questa proposta venisse vagliata. In realtà ci sono state già in passato delle serate che hanno preso avvio dalla proiezione di film, documentari soprattutto (come un paio di serate organizzate dal gruppo RIFIU-TAL-0)  o film per bambini (per i quali non è pensabile però proporre un cineforum continuativo, più logiche sarebbero delle serate dislocate), ma non un cineforum vero e proprio, mirato, organizzato con questo specifico scopo.Poi Stefano Ciaponi, membro onorevole non solo del gruppo volontari della biblioteca, ma anche della filarmonica, ha cominciato a lavorare ad un breve ciclo della durata di un mese sul suo argomento preferito, la musica, mettendo insieme film che sanno dare una fotografia efficace non solo dei compositori di cui parlano, ma anche dell’epoca in cui sono vissuti. Ah quei secoli! Personalità eccelse che si incontravano, stringevano profonde amicizie o intense rivalità, ma comunque interagivano tra loro, discutevano, esprimendo ognuno la propria idea sulla musica (come ben si è visto nei film proposti) ma in generale su tutte le arti, le scienze. Secoli di invenzioni, scoperte, nuove teorie, di viaggi esplorativi alla continua ricerca di nuove terre, popoli, culture. Secoli di grandi fermenti dei quali oggi nella nostra epoca, rimane a malapena lo scheletro. Ed ecco come questo cineforum l’ho vissuto personalmente soprattutto all’insegna della nostalgia. Ed ora ecco qui la rassegna dei film proposti subito dopo il ciclo di viaggi di quest’anno come stabilito durante le riunioni dei volontari.

Venerdì 6 marzo 2015 AMADEUS di Milos Forman

Un film di cui tutti hanno perlomeno sentito parlare se non lo hanno visto. Un film che non punta tanto sull’aderenza storica quanto sulla sfarzosa rappresentazione della vivacità culturale di quell’epoca tra Illuminismo e Post barocco nonché delle personalità dei personaggi coinvolti (l’esuberanza di Mozart e l’invidia lacerante di Salieri). AMADEUS è tutto questo. Il racconto della vita e del genio di quello che è considerato il più grande musicista di tutti i tempi, ma dal punto di vista di colui che fu il suo più acerrimo rivale (sebbene con una certa dose di ammirazione), Salieri, la cui invidia lo porterà gradualmente alla pazzia. Un film che è soprattutto una non indifferente esperienza di visione e grazie al quale si può entrare nel vivo di grandi opere che hanno positivamente e indelebilmente segnato la cultura universale.

Venerdì 13 marzo 2015 IO E BEETHOVEN di Agniezska Holland

Ludwig Van Beethoven nasce a Bonn nel 1770 (il mio stesso giorno il 15 dicembre che coincidenza!) ed è considerato il più grande musicista e compositore di tutti i tempi secondo solo a Mozart il quale però è considerato talmente grande da essere unico e dunque inarrivabile persino per le classifiche. Pare che i due potrebbero essersi incontrati una volta nel 1787, quando Mozart aveva 31 anni e Beethoven 17, ma quest’ultimo a quell’epoca ancora non lasciava intendere chiaramente cio che sarebbe diventato. Se Beethoven non è passato alla Storia come un bambino prodigio lo è però passato per essere stato un grande innovatore della musica l’ultimo grande della musica classica e allo stesso tempo il precursore della musica romantica con innovazioni che hanno permesso alle sue opere di travalicare i tempi molte delle quali composte dopo il sopraggiungere della sordità ed è stato forse questo, il fatto di aver composto opere da sordo, a consacrarlo davvero come un grande genio. Nove sinfonie, fughe, sonate per piano e per quartetti d’archi e una sola opera lirica il FIDELIO che esalta l’amore coniugale. E pensare che lui non si è mai sposato e quando morirà nel 1827 a Vienna suo unico erede sarà il nipote Karl. Il film racconta proprio gli ultimi atti della vita di Beethoven (in modo romanzato), il suo declino più umano che artistico (se non si considera che alcune opere di quel tempo, considerate oggi le più geniali, vennero accolte con disgusto dalla società dell’epoca, come ad esempio la sua grande fuga) la sua personalità difficile e il rapporto un po’ ambiguo con la copista Anna Holz (che personalmente mi ha ricordato il rapporto che si crea tra il pittore Vermeer e la sua modella ne LA RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA). Un film che fa notare una maggiore sobrietà rispetto all’epoca di Mozart soprattutto per quanto riguarda i costumi, ma anche per una generale sobrietà e che propone comunque rimandi all’epoca precedente nonché allo stesso film su Mozart visto la scorsa settimana. È un caso che le scene finali della morte dei due artisti sopraggiunta mentre dettavano l’ultima opera sia molto simile nei due film?

Venerdì 20 marzo 2015 TUTTE LE MATTINE DEL MONDO di Alain Corneau

Un film completamente intriso di musica dove il personaggio principale è uno strumento oggi praticamente sconosciuto, la viola da gamba. È intorno ad essa che si muovono i drammi dei personaggi umani di questo film: un musicista, Saint Colombe, storicamente esistito ma del quale non si hanno notizie certe (nel film si dice che abbia aggiunto la settima corda della viola da gamba che fu ufficialmente adottata poi solo a Parigi ma non a Londra, che abbia introdotto nuove posizioni per tenere lo strumento e l’archetto, nuove armonie) anche perché la pellicola lo ritrae cupo e ritirato, in continuo rifiuto dei rapporti col Mondo e delle pressioni di chi lo vorrebbe musicista di corte, pervaso solo dalla missione di trasmettere la musica alle due figlie (che alleverà con freddezza) e dalla ricerca di un rapporto esclusivo con la musica, del suo valore assoluto, una ricerca che lo porterà a vedere il fantasma della moglie della cui morte lui non si è mai rassegnato. Un valore assoluto della musica che, negli ultimi anni della sua vita egli riuscirà a trasmettere all’altro protagonista (fittizio non storico) del film che fu suo allievo e ospite per anni (ebbe persino una relazione con la maggiore delle due figlie la quale, dopo il suo abbandono deperì e si suicidò) e che dopo essere divenuto musicista alla corte di Luigi XIV sentirà il bisogno di assimilare a pieno la concezione musicale del suo maestro. Un film che si propone come un apologo sulla musica e sul rapporto maestro-allievo.

Venerdì 26 marzo 2015 FARINELLI VOCE REGINA di Gérard Corbiau

Quando il proprio talento risiede in una voce cristallina d’infante capace di ammaliare e di toccare le corde più profonde del cuore fino a che punto si è disposti a sacrificarsi in nome di un simile talento? Il film di questa sera fornisce una possibilità di risposta raccontando la vita di Farinelli (nome d’arte di Carlo Broschi) il più grande cantante castrato della storia. Perché era appunto la castrazione il terribile prezzo da pagare per certi bambini dotati di voce angelica e abilità canore di modo che queste caratteristiche non svanissero con la pubertà. Un dramma che ha segnato irrimediabilmente molte vite, soprattutto tra i figli dei ceti più poveri, sottoposti a queste pratiche con la speranza che il loro talento li riscattasse dalla miseria (speranza non sempre ben riposta) vite che si cercava di tutelare imponendo, come condizione per effettuare la castrazione, il consenso scritto dei diretti interessati, i quali però perlopiù erano analfabeti e per nulla nelle condizioni di poter determinare il proprio destino. Sulle origini dell’usanza dei cantanti castrati il mistero è fitto. Si pensa che il tutto sia da ricondurre all’invettiva di San Paolo “le donne tacciano in chiesa” e dunque dalla necessità di sopperire alla mancanza di toni più acuti nei cori ecclesiastici, sacrificando per tutta la vita a questo scopo le migliori tra le voci bianche. Se questo può essere vero in ambito ecclesiastico non lo è però nei teatri dove si rappresentavano opere nelle quali comparivano sia donne che cantanti castrati. Il dibattito è aperto, ma certo arrivare alla soluzione non lenisce il dramma di chi ha dovuto subire tutto cio. Dramma che questo film racconta discretamente bene, soprattutto nelle scene finali. Farinelli nacque ad Andria nel 1705 e morì a Bologna nel 1782, figlio di un maestro di cappella del Duomo, la sua carriera musicale si sviluppo gomito a gomito col fratello Riccardo, considerato un discreto compositore, il cui unico strumento fu per tutta la vita la voce del suo eccezionale fratello che può essere considerata la vera protagonista del film (non purtroppo l’originale, ma una ricostruzione tecnica al computer, la sovrapposizione della voce di un soprano e quella di un controtenore), un film sontuoso che ben sa tracciare una fotografia della cultura di quell’epoca e che scava in modo abbastanza esauriente nella vita (anche amorosa nonostante la castrazione) del protagonista e di tutti i personaggi.

Ed è con questo film che si è conclusa la rassegna salutata da un pubblico non folto ma di affezionati che contribuiscono a rendere ancora più intimistica e raccolta l’atmosfera delle nostre serate. In realtà era previsto anche un quinto film di stampo più moderno rispetto a questi, un film ambientato nell’Inghilterra di Margareth Tatcher che racconta la storia di un gruppo di lavoratori che ha fondato anche una banda (cosa non così strana nei Paesi anglosassoni, dove l’insegnamento della musica, l’insegnamento vero, tecnico è considerato parte integrante della formazione individuale e non è relegata solo nei conservatori come in Italia) ma che a un certo punto rischia di perdere entrambi, lavoro e banda. Un film che, come mi ha spiegato Stefano Ciaponi (dandomi anche tutte queste informazioni a riguardo) non è stato proiettato per varie problematiche di tempistica, permessi e quant’altro. Un vero peccato che però non ha impedito il successo di questo primo esperimento per il quale bisogna ringraziare anche Luigi Scarpa, altro volontario, per i suoi personali riassunti dei vari film (si veda scheda qui sotto) ma soprattutto per gli aneddoti storici.

 

 

 

Schede presentazioni

Venerdì 13 marzo – “Io e Beethoven” di Agniezska Holland (2006)

Il film narra una vicenda di fantasia, seppure gli elementi biografici relativi a Beethoven siano reali.

La trama, in sintesi massima, è questa: siamo a Vienna, nel 1824. L’esecuzione della Nona Sinfonia è alle porte, ma Beethoven ha bisogno di un copista per terminare il lavoro. Il Conservatorio gli invia dunque il migliore tra i suoi allievi, Anna Holtz, una giovane studentessa di composizione. Nonostante le prime resistenze del proverbialmente burbero Maestro, alla fine Beethoven accetta l’aiuto della ragazza, che con sua sorpresa diventerà imprescindibile per l’esecuzione della sinfonia, essendo il compositore impedito dalla sordità pressoché totale.

Tutta la pellicola è incentrata sull’ultimo periodo di Beethoven. Dal punto di vista biografico viene dunque messa in risalto la sua sordità, mentre da quello musicale si sottolineano gli elementi rivoluzionari delle sue ultime composizioni, che in qualche maniera preannunciano l’atonalità e gli sperimentalismi del Novecento (si sentirà e si parlerà della “Grande Fuga”). Interessante la scena dove il compositore, costretto a letto da una malattia, detta alla copista la meravigliosa “Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito” – in modo lidio, stando all’indicazione dello stesso compositore – contenuta nel quartetto per archi n. 15, op.132, dove si mostra in parole e in musica il tentativo di Beethoven di esplorare regioni musicali al di là del sistema tonale.
Un altro elemento di rilievo nella narrazione è il rapporto di Beethoven col divino, che si configura in un panteismo nel quale la natura è il segno visibile della presenza di dio nel mondo (numerosi i dialoghi e le scene a questo proposito).

 

–          Venerdì 20 marzo – “Tutte le mattine del mondo” di Alain Corneau (1991)

Il vero protagonista del film è uno strumento musicale oggi estinto, la viola da gamba.
Si narrano le vicende di Marin Marais che, ormai anziano e affermatissimo musicista alla corte di Lugi XIV, ancorché profondamente insoddisfatto, ripercorre la sua vicenda umana e artistica. Marais racconta come in gioventù abbia fatto di tutto per farsi accettare quale allievo da Monsiueur de Sainte-Colombe, virtuoso della viola da gamba – personaggio realmente esistito, benché le informazioni sul suo conto siano scarsissime (sopravvivono ad oggi un pugno di sue composizioni e si crede che a lui si debba l’introduzione della settima corda sul basso di viola, ma non si hanno notizie certe né sul nome di battessimo né sull’anno di nascita e morte del musicista).
Viene dunque ritratto da vicino Monsieur de Sainte-Colombe. Si mostra come per tutta la vita rifiutò sempre gli onori e i numerosi incarichi offertigli presso la corte di Luigi XIV, ai quali preferì la vita solitaria nella campagna francese, dove passava le giornate suonando, circondato dalle sue figlie. La pellicola suppone che all’origine del disprezzo per il mondo di Monsieur de Sainte-Colombe stesse il dolore per la perdita della moglie, che mai avrebbe superato. Ci sono delle scene molto suggestive dove si mostra come, attraverso la musica, Sainte-Colombe riuscisse a rievocare il ricordo della compianta consorte.
Marais, dunque, nel racconto del suo singolarissimo apprendistato musicale, rende partecipe l’uditorio di quello che è il senso ultimo della musica così come lo ha appreso dal suo maestro, al di là delle parole, dei luoghi comuni e della vanagloria.

La colonna sonora del film è curata da Jordi Savall, musicista catalano al quale si deve la riscoperta in tempi odierni della viola da gamba e del suo repertorio.

 

–          Venerdì 26 marzo – “Farinelli, voce regina” – di Gérard Corbiau (1994)

La vita del celebre castrato Farinelli, al secolo Carlo Broschi, è ripercorsa per intero, dalla fanciullezza e gli studi a Napoli fino ai successi europei di Londra e Madrid. Al centro della vicenda, oltre alla voce straordinaria del più famoso dei castrati, è il dramma per la subìta castrazione, il complesso rapporto col fratello Riccardo, compositore spesso considerato mediocre, e la rivalità con Haendel. Una parte di rilievo spetta anche a Nicola Porpora, compositore napoletano, maestro di canto di tutti i più grandi castrati dell’epoca (fra gli altri, Caffarelli e il Porporino, oltre allo stesso Farinelli).
Una curiosità interessante riguarda le parti cantate della colonna sonora. Per ricreare la voce del castrato sono state registrate separatamente e poi sovrapposte al computer due diverse voci, quella di una soprano e quella di un controtenore (Derek Lee Ragin, uno dei rari esempi di voce maschile che al giorno d’oggi siano in grado di eguagliare la tessitura di un castrato).

 

 

Antonella Alemanni