IL RATTO DI ELENA

 

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GUIDO RENI, Il RATTO DI ELENA, 1631, Museo del Louvre, Parigi.

Nel 1627 il re di Spagna Filippo IV commissionò a Guido Reni un Ratto di Elena destinato ad ornare, accanto ad altri capolavori della pittura italiana, spagnola e fiamminga, il Salon Nuevo dell’Alcàzar di Madrid. Reni, confidando nella magnificenza del sovrano, si rifiutò di fissare un compenso, ingaggiando una prova di forza con la monarchia spagnola. Il risultato fu la rottura: il dipinto venne quindi offerto a Maria de’ Medici, regina madre di Francia, che lo acquistò subito prima del fallimento della congiura da lei ordita contro Richelieu. La regina dovette lasciare la Francia nel 1631, e del Ratto di Elena si persero le tracce per oltre dieci anni. Ma un suo ‘doppio’, realizzato da un allievo nella bottega del maestro, comparve a Roma nel 1632, e fu come se si trattasse dell’originale del ‘divino’Guido. Solo dopo la morte di Maria de’ Medici, nel 1642, l’originale ritornò sulla scena; e fu un ritorno trionfale. La storia del Ratto di Elena, il dipinto più noto e costoso del secolo, subito celebrato da letterati e intendenti d’arte, non è solo illuminante del diverso e sempre mutevole concetto di originale e copia, ma deve anche essere letta sullo sfondo storico della guerra dei Trent’anni: il mancato arrivo nella Madrid di Filippo IV e il suo successivo approdo nella Parigi di Luigi XIV costituisce quasi una metafora dei cambiamenti dei rapporti di forza in atto tra le due maggiori potenze dell’epoca.

 

LA SACRA SINDONE

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La Sindone è un documento la cui unicità e irripetibilità dell’immagine è sconvolgente. L’uomo della Sindone è lì, muto, a farci discutere. Presenza enigmatica che attualizza un evento bimillenario.

Il credente è del tutto libero e sereno nella ricerca-ha sottolineato il cardinale Giovanni Saldarini, arcivescovo di Torino e custode della Sindone-mentre l’incredulità potrebbe trovarsi a disagio se, sulla base degli esami storico-scientifici, dovesse essere obbligata a comporsi con la convinzione di avere in mano il vero lenzuolo in cui Cristo fu avvolto. 

C’è da considerare che l’accettare o meno l’autenticità della Sindone è proporzionale alla conoscenza delle problematiche ad essa connesse. Il primo approccio di una persona colta ma disinformata nel campo specifico, è forzatamente scettico. Poi, se si supera questo rifiuto iniziale e si approfondisce l’argomento, subentrano il dubbio, la possibilità, lo stupore, la commozione. E’ questo il percorso di tanto studiosi, che dopo aver piegato la mente all’evidenza, hanno piegato le ginocchia alla preghiera.

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E’ questo il percorso cui viene invitato il lettore, alla luce di notizie documentate. Scrive il cardinale Saldarini: Comunque sia prodotta la Sindone-è bisognerà pure che questo unicum storico-scientifico, oggi più sorprendente che mai, sia spiegato positivamente dalla scienza attraverso una ricerca interdisciplinare concorde e interiormente libera-per chi la guarda e nello stesso tempo legge i Vangeli è inevitabile l’impressione che offra la descrizione figurativa di quanto essi narrano. 

La Sindone ci interpella e ci inquieta. Perciò merita di essere considerata dono di Dio alla Chiesa: il mistero della sua origine continua a richiedere atteggiamento di umiltà e di ricerca, spirituale e storico-scientifica.

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La parola “sindone”deriva dal termine greco sindon (tela di lino), che veniva usato nell’antichità per definire una porzione di panno destinato ad un determinato uso, ad esempio un lenzuolo. La Sindone, conservata a Torino da più di quattro secoli, è un grande pezzo di stoffa rettangolare, che misura 4,36 m di lunghezza e 1,10 m di larghezza. Il tessuto, consistente e robusto, è di lino puro di colore giallastro. Dal 1534 è cucito e impunturato su una tela bianca d’Olanda applicata come fodera di sostegno dopo l’incendio del 1532; quest’incendio provocò le bruciature che percorrono tutto il lenzuolo e sembrano incorniciare la doppia figura umana, frontale e dorsale, che vi si scorge.

All’inizio la Sindone era probabilmente più lunga di circa 30 cm: si hanno varie notizie di asportazioni di piccoli frammenti, distribuiti a chiese e monasteri come reliquie. Un bordo di raso azzurro segue il perimetro del lino. Lungo il lato superiore della Sindone, disposta come vuole la tradizione, e cioè con l’immagine frontale del corpo a sinistra di chi guarda, fu cucito nel 1868 dalla principessa Maria Clotilde di Savoia un telo di raso rosso che viene stesso a proteggere l’immagine quando il lenzuolo è riposto nel reliquiario.

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Un esperto tessile, Virgilio Timossi, esaminò la Sindone nel 1931: constatò che il lino presenta una manifattura rudimentale. La conferma venne da Silvio Curto, incaricato di Egittologia all’Università di Torino, sovrintendente alle Antichità Egizi, il quale dal 16 al 18 giugno 1969 fece parte di una commissione di esperti che studiò la Sindone per incarico del cardinale Michelle Pellegrino, arcivescovo di Torino. Il lino usato per la fabbricazione della Sindone fu filato a mano. Ogni filo del tessuto, composto di 70-120 fibrille, presenta un diametro variabile e la torcitura “Z”, in senso orario, opposta a quella “S”, antioraria, più comune nell’antico Egitto. Questo elemento fa pensare ad un’origine siro-palestinese: lini con torcitura “Z” sono stati infatti rinvenuti a Palmyra (Siria), Al-Tar (Iraq) e nel deserto della Giudea. L’intreccio del tessuto, anch’esso irregolare, fu realizzato con un metodo arcaico su un telaio manuale molto rudimentale. Esso presenta salti di battuta ed errori.

La Sindone potrebbe risalire benissimo al sec. 1 d.C., dato che, in antiche tombe egizie (Beni Assan, 3000 a.C.), si trovano già raffigurati telai idonei a produrre tale tipo di tela. Il lino veniva tessuto dagli Egiziani in teli di grandi dimensioni. Per quanto riguarda i lenzuoli funebri, è normale che venissero rapidamente distrutti dalla stessa decomposizione dei corpi. In Egitto invece, la mummificazione del corpo e l’applicazione di molteplici bende e fasciature hanno assicurato la conservazione di alcuni lenzuoli tombali.

Un lenzuolo che risale al 1996-1784 a.C., lungo sette metri e stretto come la Sindone, si trova nel Museo egizio di Torino ed è perfettamente conservato. La tela di lino, secondo Curto, fu il tessuto egiziano per eccellenza fino al 111 sec. d.C. E’ probabile che durante la prigionia in Egitto, gli Ebrei abbiano imparato bene l’arte della tessitura. Curto però fa una distinzione sul tipo di “impianto” del tessuto. I panni egizi, infatti, sono quasi tutti lavorati “a tela” ortogonale; il tessuto “a spina di pesce”, invece, è di origine mesopotamica o siriaca. Ai tempi di Gesù questa tecnica era diffusa nell’area medio-orientale ed era largamente usata in Siria. Il tessuto della Sindone deve essere dunque arrivato in Palestina da regioni limitrofe come la Siria, Mesopotamia.

Il famoso scrittore Italo A. Chiusano nota che la figura umana visibile sull’antico lino conservato a Torino non rientra in alcuna stile artistico; nessuno avrebbe potuto realizzare un’opera simile, in nessuna epoca. Ogni immagine del mondo-sottolineava Chiusano-, dai graffiti preistorici ad oggi, reca tracce evidentissime dello stile di chi l’ha fatto, o dell’epoca in cui è nata. C’è un Cristo Romano, un Cristo Gotico, un Cristo Roccocò, un Cristo Astratto. La sacra Sindone, non soltanto non può essere un dipinto, ma non può essere opera né di un francese, né di un bisantino, né di un gotico. Infatti, tutte le altre immagini create dall’uomo, da quelle delle grotte di Lascaux o di Altamira, fino alle creazioni di Picasso o di Salvator Dal’, recano sempre lo stile di un’epoca e di una personalità artistica, mentre la Sindone si sottrae del tutto a questo “sigillo” culturale e formale. 

E’ molto difficile scrivere la parola “fine” quando si parla della Sindone. Resta la domanda: “E voi, chi dite che io sia? ” ( Marco 8,29-30)

Per questo la Sindone-ha ricordato Lamberto Schiatti, sacerdote e giornalista- continua ad appassionare l’opinione pubblica, sfidando la scienza e provocando credenti e non-credenti con il fascino di un ,mistero che ciascuno lo vorrebbe definitivamente svelato. Nel silenzio della morte, L’Uomo della Sindone interpella l’umanità come il Cristo duemila anni fa: “E voi, chi dite che io sia?

Noi sappiamo-ha affermato il cardinale Ballestro-, che nella Sacra Sindone l’immagine misteriosa dell’Uomo crocifisso è sconvolgente. E’un segno al quale possiamo fare riferimento per rendere più viva la nostra meditazione sulla passione e la morte del Signore.

Cosi Giovanni Paolo 11 ha definito la Sindone: Una reliquia insolita e misteriosa, singolarissimo testimone-se accettiamo gli argomenti di tanti scienziati-della Pasqua, della Passione, della Morte e della Resurrezione. Testimone muto, ma nella stesso tempo sorprendentemente eloquente!.

In quella carne miserabile-rifletteva lo scrittore Francois Mauriac-, uscito dal un abisso di umiliazione e di tortura, Dio risplende con una grandezza dolce e terribile e quel volto augusto richiama l’adorazione forse ancor più dell’amore.

E’ nudo. Tutto ha dato per redimerci.

E’ muto. Parlano per Lui le Sue pieghe.

Ci guarda con gli occhi chiusi da dietro quel lino che un giorno ha attraversato. E così ci accoglierà quando noi, a nostra volta, lo attraverseremo.

Lucica Bianchi

LETTURE D’ARTE IN BIBLIOTECA AMBROSIANA

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Riprendono a Settembre gli Incontri in Ambrosiana per le Letture nella Sala delle Accademie, dalle 18:00 alle 20:00.

Le “Letture d’Arte” sono proposte  per meglio conoscere opere, temi e particolari della Pinacoteca Ambrosiana.  Gli Incontri in Ambrosiana, e per tutte le Letture, sono aperti gratuitamente al pubblico, per arricchire la Città. Si svolgono mensilmente e sono preparati da un opuscolo di Sala che ne anticipa i contenuti.  In ogni incontro è presente un moderatore per favorire gli interventi e la partecipazione del pubblico. Per il pubblico lontano sarà disponibile l’edizione in e-book degli opuscoli di Sala.
Per un rapporto “Incontri” ed istituzioni educative e formative,
opera uno specifico Segretariato, cui rivolgersi direttamente,
anche in Sala:   E
lena Girolimetto e Sara Pozzi.

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L’INFINITA MUSICA DEL VENTO

TALAMONA 18 settembre 2014 presentazione di un libro alla casa Uboldi

 

IL LIBRO SCRITTO DA LORENZO DELLA FONTE INTRODUCE AD UNA FIGURA POCO CONOSCIUTA SOSPESA TRA STORIA E LEGGENDA

 

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L’infinita musica del vento. Un titolo simile su una locandina fa pensare che l’evento cui ci si riferisce è un evento musicale. Di certo di musica si parlerà molto questa sera. L’infinita musica del vento è però quella di un libro, scritto da Lorenzo Della Fonte che questa sera, coadiuvato da Donatella Quadrio, ci trasporterà sulle ali del vento attraverso un’avventura umana straordinaria. Così Simona Duca, ex assessore alla cultura, ha introdotto l’evento di questa sera alle ore 20.45, seguito da un nutrito pubblico, per poi passare la parola a Della Fonte il quale, dopo i ringraziamenti di rito alla biblioteca di Talamona e al suo staff, alla libreria di Alice, al Maestro Boiani della Filarmonica di Talamona e alla Maestra Rizzi del coro (che hanno spostato le prove per essere presenti questa sera) e appunto alla signora Donatella Quadrio “metà talamonese e metà di Berbenno, con la quale proprio a Berbenno mesi fa feci una presentazione di questo libro, critica eccellente e avida lettrice che non conoscevo prima di imbarcarmi nell’avventura di questo libro” è passato ad introdurre il suo libro che narra la storia in parte romanzata, ma assolutamente vera di Francesco Scala, clarinettista vissuto all’incirca a metà Ottocento che nel 1841 si imbarca su un mercantile in partenza da Napoli diretto verso Washington. Il libro dunque è diviso in tre parti. La prima è ambientata nella Napoli dei Borboni, la seconda durante la traversata in mare e la terza in America. “è stato molto difficile trovare informazioni su questo personaggio” ha dichiarato l’autore “esistono poche fonti storiche certe. Per esempio nessuno conosce il motivo vero per cui Francesco Scala decise ad un certo punto di imbarcarsi per le americhe, ho dovuto cercarmi un pretesto inventato, ma che potesse essere in qualche modo plausibile” qual è questo pretesto lo si è scoperto nel corso dell’efficace presentazione, ma intanto la parola è passata a Donatella Quadrio, che ha presentato l’opera come “un meccanismo a molle e ad ingranaggi i quali devono stare al loro posto esattamente come gli strumenti musicali. Questo libro ha ingranaggi che marciano a partire dal titolo dalla sua musicalità e in generale si rivela essere un racconto molto vivace. Come già anticipato dall’autore un racconto diviso in tre parti ricostruite con grande fedeltà storica, dalla Napoli dei Borboni che allora era un centro di eccellenza della cultura europea prima che arrivassero i piemontesi a farne scempio, passando dalla rocambolesca traversata che comprende l’episodio di un attacco pirata (i pirati soprattutto di nazionalità africana in quel momento furono combattuti per tre anni dalla marina americana) fino ad arrivare agli episodi americani narrati con le atmosfere degli western di una volta. Un libro che si può definire un romanzo storico con un linguaggio elegante quasi old fashion, dalla struttura moderna, ma con un personaggio superclassico. Un romanzo da una parte biografico che ricostruisce la storia di questo straordinario personaggio Francesco, che poi una volta fatta fortuna in America si chiamerà Frances, ma parallelamente un romanzo musicale non solo nei sensi del linguaggio, ma perché inframmezzato da una serie di interludi, ciascuno con una sua particolare tonalità che raccontano in modo rigoroso l’evolversi della musica, degli strumenti, delle tonalità, un libro insomma godibile, per tutte le età, ma dal quale si può anche imparare perché infondo è anche per questo motivo che si legge no? Un libro che mostra la profondità della cultura musicale del Maestro Della Fonte” che ha ripreso a questo punto la parola “ritenevo importante per lo sviluppo stesso del romanzo parlare delle innovazioni degli strumenti musicali che hanno avuto luogo proprio in quegli anni e che hanno permesso un salto di qualità dalla musica più datata, di stampo Settecentesco ad una musica più moderna, un salto di qualità che coinvolgerà anche le bande” “insomma” ha ancora sottolineato Donatella Quadrio “un romanzo delicato con una sua grazia e liricità che lungi dall’essere gratuite vogliono dimostrare qualcosa. Interessante per esempio il modo in cui Rossini (uno dei tanti grandi che si incontrano tra le pagine di questo romanzo) viene qui reso con la sua passione per i tartufi e con l’episodio dove lo si trova a Parigi a suonare per pagarsi un allevamento di maiali. Un romanzo storico popolare che affronta tematiche sociali come la povertà e l’emigrazione passando attraverso la storia della musica. Un romanzo che racconta in modo specifico come le bande, partite come complessi di serie B nell’immaginario pubblico siano riusciti con fatica a conquistarsi una loro dignità. Esemplare a questo proposito l’interludio che racconta di un grande compositore, Henderson, che scrive un overture che non si riesce a vendere. Interpellato a riguardo Henderson risponde che non vuole che il suo pezzo finisca per essere acquisito dalle bande perché le bande suonano male. Gli viene ribattuto che non sono le bande che suonano male, ma che non vengono date alle bande occasioni per esprimersi al meglio e maturare. Un’altra curiosità che si trova nel libro riguarda il pregiudizio che vuole i componenti delle bande e soprattutto i maestri sempre ubriachi” “il grande merito di Francesco Scala è stato proprio questo” ha ripreso Della Fonte “quello di essere arrivato, anche per fortunata coincidenza, al momento giusto in un Paese che in quel momento non aveva cultura, era un Paese ancora in formazione, giovane, in cui città come Washington valevano come i nostri villaggi valtellinesi. I primi centri che si stavano formando erano altri, Boston ad esempio. Li si sono formati i primi fermenti di un Paese che, proprio perché mancava di una cultura propria, ne era affamato. Sul piano musicale a soddisfare questa fame è arrivato, con ottimo tempismo, Francesco Scala che ha fatto conoscere la musica europea in America finendo col diventare direttore della banda dei Marines di Washington. Lincoln addirittura creerà il titolo di maestro di Banda apposta per lui. Lincoln è stato amico personale di Scala così come lo furono altri otto presidenti (tra cui anche Jefferson, creatore della banda dei marines) e delle loro mogli deputate proprio alla gestione degli eventi soprattutto musicali.Anche per questo, per tali notevoli vicissitudini oltreché per meriti personali questa figura merita di essere conosciuta da un pubblico più vasto possibile” a questo punto il Maestro Della Fonte ha accompagnato il suo racconto con una serie di immagini raccolte durante la lunga ricerca, durata un anno, per questo libro, materiale reperito via internet attraverso contatti con esponenti del corpo dei Marines e con i bibliotecari del Congresso presso cui Scala è sepolto insieme ai grandi nomi della politica americana.

La prima foto ritrae la banda dei Marines nel 1864 quando Scala era in America già da tredici anni. È questa la prima foto ufficiale della banda dei marines dove compare Scala che suona il clarinetto e un ancora giovanissimo, praticamente bambino John Philip Susa, forse il più grande autore di marce “dal libro Scala può apparire come un personaggio fittizio” ha spiegato Della Fonte “ed ecco come vederlo qui ritratto in foto, capire che è realmente vissuto, costituisca una grande emozione, capire come la sua vita ricercando la fortuna sapendo di trovarla (per via di quel discorso che si faceva prima sulla cultura, sulla fame di cultura che ben accoglieva chiunque sapesse soddisfarla) sia stata una vita reale e straordinaria”

La seconda immagine mostra un ritratto di Scala di corporatura non molto imponente così come nessuno se lo immaginerebbe mai leggendo il libro. Nel ritratto ha in mano un clarinetto piccolo strumento del quale divenne un grande virtuoso venendo appunto da una grande tradizione, quella del Teatro San Carlo di Napoli, il maggior centro di eccellenza della musica europea ancor più della Scala di Milano. Se alla Scala di Milano la gente entrava portandosi da mangiare e spesso si intratteneva in chiacchiericci al San Carlo il pubblico entrava con lo specifico intento di ascoltare la musica. È a questo punto che ritorna la questione sul perché Scala abbia deciso di lasciare questa Napoli così sviluppata, paradiso dei musicisti. “nel libro ho immaginato che Scala fosse allievo del grande clarinettista Ferdinando Sebastiani, cosa plausibile” ha ripreso Della Fonte “ho immaginato che ad un certo punto Sebastiani si dimette dall’incarico di direttore d’orchestra del San Carlo e che viene indetto un concorso per sostituirlo, un concorso cui Scala partecipa, ma che è pieno di imbrogli e che Scala non vince ed è per questo che deciderà di imbarcarsi per le americhe.

La terza immagine riporta un censimento della città di Washington dove Scala è registrato con la moglie e sette figli. In realtà avrà in tutto venti figli da due mogli diverse la prima delle quali lo lascia vedovo in circostanze sconosciute mentre la seconda gli sopravvivrà avendola lui sposata quindicenne alla matura età di quarant’anni. Su questo personaggio esistono pochi documenti tra cui una cronaca dei suoi funerali svoltisi nel 1903 (è morto ad ottant’anni) e un’intervista rilasciata negli ultimi anni della sua vita nella quale racconta aneddoti personali e familiari, intervista sulla quale si è tornati in seguito.

La quarta immagine riporta un acquarello che è stata pretesto per raccontare qualche aneddoto cui si è fatto cenno poc’anzi. Scala prima di diventare direttore della banda dei marines è stato piffero maggiore e poi majur nelle parate militari prima che lo promuovesse Lincoln.

Proprio un biglietto autografo di Lincoln è l’immagine proiettata successivamente ed è a questo biglietto che è legato un aneddoto che Scala avrebbe raccontato nella famosa intervista di cui si diceva un aneddoto riguardante il fratello Raffaele (durante l’intervista Scala non disse mai il nome del fratello, Della Fonte lo scoprirà dopo molte affannose ricerche) che dopo pochi anni lo raggiunge in America e si arruola durante una guerra in Messico. Rimasto ferito chiede a Francesco Scala di intercedere per lui presso il Presidente per farsi promuovere ed allontanare dal fronte. Scala inizialmente non vuole, ma il fratello insiste e allora lui ottiene il tanto agognato documento per il fratello. Dopo molti anni scoprirà che il fratello non lo avrà mai utilizzato talmente prezioso lo considerava con la firma autografa di Lincoln il quale tra l’altro incrocerà i destini della famiglia Scala anche il giorno in cui verrà assassinato. Nel teatro dove gli spararono si metteva in scena un’opera di Shakespeare accompagnata da un’orchestra nella quale suonavano i fratelli della seconda moglie di Scala. Questa è solo una delle tante coincidenze che Della Fonte troverà nel suo viaggio di conoscenza tra archivi, siti internet e faldoni. Un viaggio durato tre anni per la stesura e uno per la ricerca nei ritagli di tempo della sua attività di maestro di musica. Un viaggio cominciato durante un soggiorno in Giappone. In quell’occasione a Della Fonte venne in mente di rieditare una sua opera precedente, un saggio tecnico utilizzato come testo di studio nelle scuole di musica ormai fuori catalogo. In quel libro un trafiletto parlava già di Scala. Della Fonte volle saperne di più e cominciò a fare ricerche che lo appassionarono sempre di più al punto che al momento di terminare il libro e congedarsi dal personaggio ne fu commosso. “da sottolineare come il momento della morte di Scala sia accostato ad una fuga essendo quell’ultimo capitolo del romanzo intitolato FUGA SUL TEMA DI PIU’ PRESSI A TE che venne suonata ai funerali di Scala, ma anche, anni dopo, dall’orchestra del Titanic mentre la nave affondava” hanno raccontato insieme Della Fonte e Quadrio “un personaggio che” ha proseguito ancora una volta Della Fonte “può costituire un grande modello per tutti i giovani che verranno a conoscerlo, anche e soprattutto spero, attraverso il mio libro. È grazie anche a lui che gli Stati Uniti d’America sono passati dal non avere una cultura ad essere un modello di eccellenza dove la musica è radicata nella formazione scolastica e personale di ognuno. In America chiunque sa suonare almeno uno strumento e i manuali di musica sono molto diffusi perché diffusa è la concezione che la cultura deve essere patrimonio di tutti da diffondere a più persone possibile” “il problema della Vecchia Europa” ha sottolineato la signora Quadrio “consiste nell’avere eccellenze, ma nell’essere poco comunicativi ed efficaci quando si tratta di farle conoscere. La cultura degli States è molto più disinvolta. Un quartiere non funziona, è degradato o altro? Lo si butta giù senza tanti complimenti e si riedifica. C’è crisi? La quando c’è crisi si stampano dollari, qui si aumentano le tasse. I problemi tra loro li hanno risolti una volta per tutte con la guerra di Secessione noi i nostri continuiamo a portarceli dietro” “una disinvoltura che ha le sue radici proprio negli anni che sono stati teatro dell’avventura umana di Francesco Scala” ha ripreso Della Fonte “e che si è sviluppata su un impalcatura culturale ben riassunta nel termine WASP coniato dagli americani per indicare come doveva essere il perfetto americano: bianco, anglosassone e protestante. Il libro tocca anche questi temi, la Guerra di Secessione è stato un massacro su ampia scala, forse la prima guerra moderna in anticipo sui tempi rispetto alla Prima Guerra Mondiale. Da tutto questo è nata la cultura americana ed è stato appassionante per me capire e rendere nei vari interludi, questo cammino, il percorso che ha portato la cultura musicale europea in America anche attraverso Scala ma non solo. La musica tutti la amano, ma non tutti la capiscono e non tutti sanno il suo percorso evolutivo, la progressiva raffinazione degli strumenti e delle sonorità. Attraverso la storia di Scala si può conoscere ad esempio l’evoluzione dello strumento da lui suonato, il clarinetto, il più importante all’interno di un organo bandistico col quale ha realizzato l’inno dei marines su adattamento di un’opera di Hoffenback. In quegli anni la banda dei marines era la più importante anche se esistevano bande di altri reggimenti si trattava ancora di realtà minori e poi cominciavano a formarsi le prime bande civili professionistiche, come quelle dell’irlandese Gilmore che fu grande avversario di Scala e come lui seppe sfruttare il particolare momento storico (totalmente scevro dalle complicazioni di oggi) per diventare ricchissimo con la musica, o come quella del già citato Susa, che divenne il maggior esponente ed interprete della musica per banda. Insomma un racconto costituito da un amalgama di musica, storia, epica e humor (esemplare da questo punto di vista l’episodio della traversata oceanica durante il quale Scala si accorse di soffrire di mal di mare e ritirò dunque la sua richiesta di adesione alla marina per arruolarsi nei marines) che ha animato una serata vivace dalla quale Simona Duca ha saputo trarre un efficace insegnamento “se volete conoscere bene la storia leggete romanzi”

Antonella Alemanni

 

 

Lorenzo Della Fonte (Sondrio, 1960) è musicista, compositore e insegnante al Conservatorio di Torino. Gira il mondo come direttore di orchestre di fiati o, come si diceva una volta, di bande. Studioso del repertorio originale per fiati, è autore del fortunato saggio “La Banda: Orchestra del nuovo millennio”.

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I QUATTRO CONTINENTI

 

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Rubens, I Quattro Continenti, Kunsthistorisches Museum, Vienna.

PIETER PAUL RUBENS è senza dubbio il più grande dei pittori fiamminghi del Seicento. La sua formazione, avvenuta principalmente in Italia tra il 1600 e il 1608, fu estremamente varia e complessa. Durante un primo soggiorno a Venezia si appasionò alla pittura tonale e si esercitò copiando le opere di Tiziano, Tintoretto e Verronese. In seguito si trasferì a Mantova, a Genova e, infine, a Roma. Ritornato nelle Fiandre, Rubens mise subito a frutto le esperienze maturate in Italia riuscendo a conciliare la minuta analisi dei particolari, tipica della tradizione flamminga, con il colore e il disegno italiani. L’opera “I Quattro Continenti” rientra nei temi mitologico-allegorici cari alla maggior parte della ricca produzione rubensiana, all’interno della quale primeggiano le composizioni di grande formato, sempre animate da un convulso agitarsi di personaggi e caratterizzate da colori intensi e pastosi, che plasmano le figure con drammatica teatralità.I Quatro continenti sono rappresentati da altrettante figure femminili, ciascuna delle quali è accompagnata da un personaggio maschile raffigurante il maggior fiume di quella determinata regione geografica. Ecco dunque l’Europa che abbraccia il Danubio, in alto a sinistra; la nera Africa con il Nilo, di spalle al centro; l’Asia che si appoggia al Gange, all’estrema destra, e infine, la piu giovane America con il Rio delle Amazoni, in alto al centro. Le loro monumentali nudità sono mese in evidenza dall’uso di un colore evidentemente ispirato dal tonalismo veneto. Rubens si dimostra una vera e propria forza della natura, capace di animare le proprie tele di un moto perenne e convulso, nel quale i temi eterni del mito sembrano prendere miracolosamente vita e credibilità. Scrive l’artista: “Il mio talento è così fatto che nessuna opera, per quanto vasta possa essere per la quantità e la varietà delle cose da rappresentare, ha ancora superato il mio coraggio.”

 

 

Lucica Bianchi

LA BASILICA DI SANTA SOFIA (AYA SOFYA), ISTANBUL

 

 

 

È il monumento più importante e famoso di Istanbul, il gioiello non solo dell’età giustiniana ma di tutta l’architettura bizantina. Fu chiesa per 916 anni, moschea per altri 482; sconsacrata per ordine di Atatürk oggi è museo. Anche se il suo aspetto esterno non appare particolarmente bello, resta una delle testimonianze più importanti nella storia dell’umanità: non esiste un altro edificio bizantino che sia grande neppure la metà di questo, né fu mai imitata fino al XVI secolo, quando furono costruite le moschee ottomane, perché considerata un’opera miracolosa, condotta a termine soltanto grazie all’intervento divino. La sua storia è complessa: eretta in onore della Santa Sapienza (Hagia Sophia in greco e Aya Sofya in turco) dall’imperatore Costantino, ingrandita da Costanzo II, andò completamente distrutta nell’incendio del 404. Ricostruita da Teodosio II bruciò di nuovo durante la rivolta di Nika nel gennaio del 532, assieme ad altre chiese, alle terme, a parte del palazzo imperiale.L’imperatore Giustiniano ne decise la ricostruzione, ma con dimensioni e bellezza tali da superare il tempio di Salomone. Fu eretta in cinque anni e mezzo, vi lavorarono diecimila operai, e costò 180 quintali d’oro. Il 27 dicembre 537 Giustiniano in gran pompa, circondato dai dignitari di stato, si recò alla cattedrale su un carro tirato da magnifici cavalli. Ricevuto dal patriarca Nesso, assistette alla cerimonia di consacrazione e a un tratto, levate le braccia al cielo, gridò: “Gloria a Dio che mi ha giudicato degno di terminare quest’opera. Ti ho superato, Salomone!”.
Gli architetti furono Antemio di Tralles, famoso matematico, e Isidoro di Mileto, probabilmente scelti per esperienza pratica e conoscenze teoriche ma dei quali nessun altro edificio è conosciuto. Enormi erano le dimensioni di pianta (il rettangolo principale misura internamente 69,70 x 74,60 metri), eccezionali quella della cupola (31 metri di diametro) che per di più non poggiava su muri pieni ma era “sospesa nell’aria”, impresa mai tentata prima d’allora.E, narrano le cronache di Procopio, si deve all’imperatore la decisione di portare a termine la costruzione della cupola nonostante alcuni cedimenti strutturali che si erano verificati in corso d’opera. Procopio racconta anche dell’abbondanza di luce che pareva non provenire dall’esterno, ma prodursi dentro la chiesa: probabilmente le pareti sotto gli archi erano traforate e la luce, entrando, si rifletteva sulle grandi superfici a mosaico.

 

Lucica Bianchi

BUON COMPLEANNO ARIOSTO!

TALAMONA 8 settembre 2014 la stagione culturale riapre i battenti

 

UN INTENSO POMERIGGIO RICCO DI ARTE E CULTURA

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Ritratto di Ludovico Ariosto

L’8 settembre di 540 anni fa nasceva in quel di Reggio Emilia il poeta dell’ORLANDO FURIOSO Ludovico Ariosto, un compleanno che l’Associazione Bradamante (attiva in Valtellina dal 2008 nella riscoperta della figura e delle opere dell’Ariosto in particolar modo dei cicli ariosteschi affrescati a Palazzo Valenti a Talamona, a Palazzo Besta a Teglio e a Castel Masegra di Sondrio) non poteva non festeggiare unendosi ai festeggiamenti nazionali. È molto insolito che si festeggi il 540esimo anniversario di un qualcosa, ma in questo caso la scelta è stata determinata dalla necessità di impedire eventuali accavallamenti con i dovuti festeggiamenti che avranno luogo nel 2016 e che festeggeranno i 500 anni dell’ORLANDO FURIOSO, dell’apparizione dell’opera sulla scena letteraria.

 

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Prima edizione dell’opera “Orlando Furioso”

 

Un compleanno che a Talamona è stato festeggiato con un pomeriggio, si potrebbe quasi dire saturo di arte e cultura. Il contributo artistico è stato dato da un pittore locale, Gigi Valsecchi, nato a Milano, vissuto a Domaso e insegnante presso il Liceo Artistico di Morbegno dal 1994 fino al pensionamento forzato dovuto ad una grave malattia circa un anno dopo, che lo ha portato a vivere ora alla Casa San Vincenzo di Gravedona, qui in mostra con una sua antologica dei suoi migliori dipinti e di schizzi dal vero degli ospiti e del personale della struttura dove ora si trova a vivere. Una mostra vivida ed emozionante che l’Associazione Bradamante ha voluto parte della giornata di quest’oggi per ricordare la stima che l’Ariosto nutriva nei confronti degli artisti figurativi e in generale. Il contributo culturale è stato dato da due esimi professori, Alessandro Rovetta e Cristina Zampese con due conferenze sospese tra storia locale, storia generale, letteratura e arte e da Beatrice Pellegrini che ha presentato la sua tesi di laurea dedicata proprio ai cicli ariosteschi affrescati valtellinesi. Immancabile inoltre la coinvolgente lettura recitata di Elena Riva, presenza fissa di tutti gli appuntamenti organizzati dall’Associazione Bradamante che alla fine della ricchissima giornata ha offerto un buffet nei giardini di Palazzo Valenti.

Antonella Alemanni

A seguire la locandina coi prossimi appuntamenti.

 

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LEONARDO DA VINCI e il TRATTATO DELLA PITTURA

 

Trattato-della-Pittura

Quando, dopo la morte di Leonardo da Vinci, Francesco Melzi tornò in Italia, essendo stato nominato erede universale, portò con sé tutto quanto si trovava nelle stanze messe a disposizione del Maestro nel Castello di Amboise.

Il materiale ereditato consisteva essenzialmente nelle carte sulle quali Leonardo aveva per tutta la vita trascritto appunti e tracciato pensieri artistici e scientifici; come si può ben immaginare si trattava di una mole sterminata di fogli che interessavano i mille argomenti che nel corso della sua esistenza avevano occupato la mente di quello che ancora oggi è ritenuto il più grande genio mai apparso fra gli uomini.

Francesco Melzi tenne fedelmente con sé tutto il materiale, avendone grande cura fino alla morte, avvenuta nel 1570. Consultò e usò quel materiale per costituire il cosiddetto Libro di Pittura,noto anche come Trattato della Pittura di Leonardo, raccogliendo in un unico manoscritto-il Codice Vaticano Urbinate Latino 1270 della Biblioteca Apostolica Vaticana- scritti e pensieri sparsi del Maestro riguardanti la pittura, citando anche fogli che ora non sono più reperibili. Frutto del genio poliedrico di Leonardo, il “Trattato” è la summa del suo pensiero pittorico e rappresenta una delle espressioni più alte e significative del Rinascimento.

“La pittura si estende nelle superficie, colori e figure di qualunque cosa creata dalla natura, e la filosofia penetra dentro ai medesimi corpi, considerando in quelli le lor proprie virtú, ma non rimane satisfatta con quella verità che fa il pittore, che abbraccia in sé la prima verità di tali corpi, perché l’occhio meno s’inganna.”

L’ultimo decennio del secolo ventesimo sarà ricordato nella storia degli studi vinciani per la posizione centrale assunta dal Trattato o Libro di Pittura. Nel 1992 è apparso il libro di Claire J. Farago con un’analisi estesa e approfondita in direzione del testo e delle fonti dedicate alla prima parte del Libro, nota come “Paragone” o “Paragone delle Arti”. Nel 1995 viene stampata preso Giunti la nuova edizione, corredata di facsimile, del testo conservato nel Codice Vaticano Urbinate 1270, a cura di Carlo Pedretti e Carlo Vecce, cui viene restituita l’intitolazione appropriata di Libro di Pittura, dopo che, a partire dalla prima edizione (di un testo incompleto) del 1651, l’opera aveva acquisito il titolo di Trattato della Pittura. Nel 1989 era apparsa, per cura di Kemp e Walker una raccolta cospicua di scritti leonardeschi sulla pittura.

Viene così data risposta alle attese degli studiosi di Leonardo di cui si era fatto interprete, nel 1982, Sir Ernst H. Gombrich nell’intervento con cui prese parte alle celebrazioni per il quinto centenario della venuta di Leonardo a Milano. In quella occasione Gombrich notava che le proposte e le osservazioni contenute nel Libro della Pittura erano state studiate meno compiutamente che non il corpus leonardesco degli studi anatomici o le sue ricerche di meccanica. E poneva tra le aspirazioni degli studiosi una nuova edizione del Libro che prendesse in esame “il rapporto tra teoria e pratica in Leonardo, il valore e lo scopo di ogni sua annotazione e la relazione esistente tra la sua concezione e la tradizione in cui si inserisce.”

I motivi di questa tardiva considerazione per la silloge allestita da Francesco Melzi devono essere ricercati nella diffidenza degli studiosi di fronte a una compilazione che ci dà, oltre le conoscenze, la misura dell’entità del lascito leonardesco che è andato perduto, se si considera che solo un terzo del materiale raccolto nel Libro della Pittura è attestato da autografi sopravvissuti. Tuttavia, la nuova attenzione concentrata sul Libro ha permesso di avvalorare l’ipotesi del Pedretti secondo cui la raccolta melziana che è ora il Codice Vaticano Urbinale Latino 1270, non sia stata semplice iniziativa postuma dell’allievo, ma sia stata iniziata insieme, tra maestro e discepolo, ospiti di Francesco I, negli ultimi anni di vita del Maestro. Le indagini di Carlo Vecce hanno inoltre dimostrato che il manoscritto Vaticano fu allestito con caratteristiche che fanno pensare all’intento dei suoi autori per una destinazione tipografica dell’opera.

Il primo capitolo del “Paragone”, che è l’atrio dell’intero Libro di Pittura, si pone la questione se “la pittura sia scienzia o no”. Alla domanda Leonardo risponde per un verso definendo “scienzia” in termini aristotelici, “Il discorso mentale il qual ha origine da suoi ultimi principi”, per un altro negando che abbiano verità le scienze che “principiano e finiscano nella mente”, senza il controllo dell’esperienza.

“Io credo che invece che definire che cosa sia l’anima, che è una cosa che non si può vedere, molto meglio è studiare quelle cose che si possono conoscere con l’esperienza, poiché solo l’esperienza non falla. E laddove non si può applicare una delle scienze matematiche, non si può avere la certezza.”.

E’ la posizione stessa di Leonardo. Se noi lo seguiamo nello svolgersi della sua attività e del suo pensiero su un filo cronologico, noi vediamo chiarissimo che il suo punto di partenza è la pittura: egli comincia a studiare l’anatomia per meglio rappresentare la figura umana (Codice Atlantico, foglio 444r-studi per un dispositivo di scavo, con studi anatomici del corpo umano); egli comincia a studiare la geometria a scopo di rappresentare la prospettiva dello spazio(Codice Atlantico, foglio 784-fondamenti della geometria e della pittura); i suoi studi sulle ombre sono in relazione alla sottigliezza del suo chiaroscuro ed anche i suoi studi di meccanica sono facile riconducibili  alla pratica delle botteghe artistiche fiorentine quattrocentesche (Codice Atlantico,foglio 816r-studi di meccanica, annotazioni su ombre e lumi e sulle nuvole).

E’ cosa straordinaria come in lui perpetuamente arte e scienza rampollino l’uno dall’altra, inesauribilmente; ma è altrettanto vero che proprio in lui si può cogliere alla radice, il diramarsi l’una dall’altra: diramarsi che in tutta la sua opera ci fa tornare al cepo originario, che costituisce anche l’avvio stesso all’autonomia della scienza e dell’arte.

“Se tu sprezzerai la pittura, la quale è sola imitatrice di tutte l’opere evidenti di natura, per certo tu sprezzerai una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme, aire e siti, piante, animali, erbe e fiori, le quali son cinte d’ombra e lume. E veramente questa è scienzia e ligittima figliola di natura, perché la pittura è partorita da essa natura, ma, per dire più corretto, diremo nipote di natura, delle quali cose partorite è nata la pittura; adunque rettamente la dimanderemo nipote di natura e parenti di Dio…”

 

 

a cura di Lucica Bianchi

(le citazioni in corsivo sono estratte dal Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci)

 

Biografia consultata:

A.Marinoni, op.cit.

A Marinoni, I manoscritti di Leonardo da Vinci e le loro edizioni in Leonardo Saggi e Ricerche, Roma, 1954

Claudio Scarpati, Leonardo scrittore, Vita e Pensiero Editore, Milano,2001

A.M.Brizio, Scritti scelti di Leonardo, Torino, 1952

Scritti di storia dell’arte in onore di Lionello Venturi, Vol I, De Luca Editore, Roma, 1956