IN MEMORIAM

TALAMONA 6 novembre 2015 commemorazione della festa del 4 Novembre

UN RICORDO DEI CADUTI PER LA PATRIA E PER LA LIBERTA’
Come ogni anno, Talamona ricorda una pagina importante della Storia. Una pagina fatta di grandi ideali e di enormi sacrifici. Talamona ogni anno commemora il 4 novembre, una festa nazionale in onore delle forze armate e ad imperituro ricordo dei caduti di ogni guerra e lo fa anche grazie alla collaborazione del Gruppo Alpini che ogni 4 novembre (oppure ogni domenica immediatamente successiva) organizza una giornata conviviale al proprio tempietto, per ritrovarsi tutti uniti nel ricordo del passato ad apprezzare la pace del presente. Quest’anno l’evento che chiamerà a raccolta la comunità sarà di fronte al monumento dei caduti. Cio che non cambia è il fatto che, come avviene da circa tre anni a questa parte, anche la Casa Uboldi, in concomitanza con queste giornate, dedica una delle sue ormai proverbiali serate del venerdì ad approfondimenti su questa ricorrenza, dunque a riflessioni sulle due guerre mondiali, memorie e testimonianze e di conseguenza sui valori della patria, della pace e della libertà. Eccoci dunque ancora qui questa sera a partire dalle ore 20.30 per un nuovo viaggio nel passato “tutti qui così numerosi e soprattutto tanti giovani per onorare, per rendere un omaggio in più alle migliaia di eroi che hanno sacrificato il bene supremo dell’uomo, cioè la vita, affinchè oggi tutti noi si possa vivere in pace” così l’assessore alla cultura Lucica Bianchi ha presentato, dopo i doverosi ringraziamenti di rito, questo nuovo evento che comprende anche la partecipazione degli allievi della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo Giovanni Gavazzeni di Talamona attraverso disegni da loro realizzati e presentati, messi in mostra insieme ad una selezione di disegni eseguiti nell’arco degli ultimi trent’anni dagli ormai ex allievi del medesimo istituto.
Saluto del sindaco Fabrizio Trivella
A questo punto la parola è passata momentaneamente al sindaco di Talamona Fabrizio Trivella che ha manifestato la sua gioia di fronte a tanta numerosa partecipazione popolare, soprattutto per la presenza delle giovani generazioni “questa sera ripercorreremo delle pagine molto importanti della nostra Storia che è fondamentale continuare a ricordare” ha esordito il sindaco che tra le altre cose ha ricordato come il 4 novembre non significa per l’Italia solo la cessazione delle ostilità con l’Austria e la vittoria, ma anche, proprio grazie a tale vittoria, il definitivo raggiungimento dei suoi confini storici (in realtà non proprio definitivo perché dopo il secondo conflitto mondiale, proprio in quelle stesse zone sono state apportate ai confini italiani ulteriori modifiche che a tutt’oggi perdurano ndr) e cio significa che per l’Italia il 4 novembre è festa nazionale, data in cui in seguito è stata istituita la giornata delle forze armate proprio in ricordo dei tanti soldati periti nel raggiungimento dell’unità nazionale, per la libertà di questa patria costruita con tanta fatica “il ricordo dei soldati caduti deve essere in primo luogo un inno alla pace” ha proseguito il sindaco che ha voluto poi condividere con gli astanti un aneddoto personale risalente ai suoi vent’anni. Il nonno alpino lo portò con sé ad una riunione di suoi commilitoni che si erano persi improvvisamente di vista all’indomani dei fatti dell’8 settembre 1943. Non tutti purtroppo erano li a ricordare. C’era chi non ce l’aveva fatta a scappare e tornare a casa, chi non si era salvato. Quelli che c’erano però, ricordavano con trasporto quanto avevano vissuto anche a nome di chi non c’era più. “questa esperienza è stata molto importante per me per toccare con mano quello che altrimenti sarebbe rimasto solo un racconto indiretto di eventi che per me, così come per tutti i più giovani, di allora e ancor più di adesso, sarebbero rimasti eventi lontani di cui non sarebbe stato possibile comprenderne la vera entità. Spero che questo evento aiuti a comprendere il valore del sacrificio per la patria e per la pace”
La Grande Guerra. Un video per ricordare
A questo punto l’assessore Lucica Bianchi ha ripreso la parola e ha proposto la visione di un video. Le immagini dei soldati lanciati all’attacco tratte da video originali di repertorio erano intervallate dal racconto degli eventi fondamentali del conflitto sul fronte alpino. Si riporta qui di seguito il testo che scandiva le immagini (non eccessivamente crude per non urtare la sensibilità dei presenti ha poi specificato l’assessore).
L’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria il 24 maggio 1915. Il comando delle forze armate italiane fu affidato al generale Luigi Cadorna. A partire dal 15 maggio 1916 l’esercito austriaco intraprende una vasta operazione militare passata alla storia come strafexpedion. A luglio Cadorna prepara una nuova offensiva sulla sponda destra dell’Isonzo nei pressi di Gorizia. Il 9 agosto si svolge la battaglia di Gorizia. L’attacco provocò la morte di 21.630 soldati italiani e 52.940 feriti. Il 24 ottobre 1917 inizia la battaglia di Caporetto. L’esercito austro-tedesco avanza per 150 km in direzione della pianura. Le truppe italiane, impreparate ad una guerra difensiva e duramente provate dalle precedenti battaglie dell’Isonzo, non ressero l’urto delle forze nemiche e dovettero ritirarsi fino al fiume Piave. Cadorna aveva imputato l’esito infausto della battaglia alla viltà dei suoi soldati, ma all’indomani della disfatta venne sostituito con Armando Diaz. Dopo Caporetto le operazioni belliche si concentrarono sull’altopiano di Asiago, sul monte Grappa e lungo il Piave. Il 29 ottobre 1918 l’Austria chiede l’armistizio, il 3 novembre un reparto di bersaglieri sbarca a Trieste. Il 4 novembre il generale Armando Diaz annuncia la vittoria.
Dopo questa cronaca, intervallata dalle immagini e accompagnata da un sottofondo musicale al tempo stesso malinconico e solenne, il video si conclude con l’audio originale del proclama di Armando Diaz.
Intervento dell’assessore Lucica Bianchi
Stasera parleremo di guerra, parleremo di eroi, parleremo di valori, ma soprattutto parleremo della vita perché le migliaia di giovani eroi erano soliti scrivere, nei loro diari, nelle loro lettere, nei loro testamenti che un soldato che muore per la patria non è mai morto. La guerra che scoppiò nel 1914 fu un avvenimento nuovo nella storia dell’umanità perché fu la Prima Guerra Mondiale, una guerra che vide lo scontro di tutti i grandi stati che metteranno le loro capacità produttive nel campo dell’industria moderna e della tecnica per preparare strumenti di offesa e difesa. Fu una guerra di massa, combattuta per terra, per mare e nell’aria con l’impiego di armi mai usate prima: carri armati, aerei, sommergibili, gas e con il ricorso a nuovi mezzi di lotta economica e psicologica. Viene combattuta dai belligeranti sino all’esaurimento delle forze. una guerra le cui vittime e i cui danni andarono ben oltre qualsiasi calcolo previsto e finì col portare radicali sconvolgimenti all’economia internazionale, alla geografia mondiale aprendo così la via a ripercussioni e conseguenze che dureranno a lungo anche nel dopoguerra. L’umanità deve mettere fine alla guerra oppure la guerra metterà fine all’umanità. Ho scelto queste parole, che possono sembrare bibliche, perché biblico sotto molti aspetti fu l’evento della Grande Guerra. Parliamo di cinque anni di ostilità, cinque anni di conflitto mondiale che sembrano essere stati dimenticati troppo in fretta, oscurati dalla successiva Seconda Guerra Mondiale studiata, trattata e documentata, ricordata quasi ad oltranza da tutti i media ed è un grave peccato nonché errore, perché la Prima Guerra Mondiale ha gettato quasi tutte le basi della seconda, creando i presupposti per la nascita di movimenti politici e avvenimenti storici che hanno segnato il futuro, di dittature che hanno avuto un ruolo predominante nell’arco di tempo che va dal 1920 al 1945 e in alcuni paesi anche oltre. Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiara guerra all’Austria-Ungheria. Comincia così per l’Italia una guerra senza precedenti nella sua Storia, una guerra mondiale con ben ventuno Paesi coinvolti. Nel 1915 un soldato dal fronte occidentale il cui nome non ci è mai stato dato sapere scriveva la sua ultima lettera a casa e nel finale di questa lettera si legge: se romperete il patto con noi che moriamo oggi, noi non riposeremo mai, anche se spunteranno papaveri su tutti i campi della Terra. Allora credo che sia doveroso per noi ricordare, riflettere, fermarci un attimo, giusto il tempo per rivolgere un pensiero, un semplice pensiero a questi eroi perché i nomi incisi su tutti i monumenti e anche sul nostro monumento dei caduti non sono solo parte di un elenco, ma sono dei giovani che hanno offerto la loro vita, il loro sangue, affinchè oggi, quei nobili ideali che hanno animato il loro coraggio possano animare le nostre vite. Il 4 novembre 1918 segnò la fine di una lunga guerra che aveva insanguinato tutta l’Europa. L’Italia vi aveva partecipato per liberare le province di Trento e Trieste, per ristabilire quindi i suoi confini la dove la natura li aveva già segnati naturalmente con una corona di meravigliose montagne. Più di seicentomila soldati italiani morirono e alla loro memoria ogni comune dedicò un monumento o una lapide che ne reca incisi i nomi per sempre. Oggi onoriamo quei nomi, quei caduti, visitiamo questi monumenti leggiamoli quei nomi. Sono stati scritti per mantenere viva la memoria di chi è morto per dare una patria più grande e gloriosa tutta unita entro le linee che le Alpi scintillanti di ghiacci e i mari azzurri di acque profonde hanno per essa tracciato. Fermiamoci ogni tanto davanti al monumento, al nostro monumento, leggiamo i nomi su di esso incisi, ascoltiamo ogni tanto la voce dei giovani soldati talamonesi che dalla lapide del monumento a loro dedicato chiedono soltanto una cosa. Non essere dimenticati. Per tutte le vittime della guerra, per tutti gli eroi oggi il nostro ricordo e il nostro amore sono vivi e profondi.
La professoressa Maria Luisa Silipo e i suoi piccoli artisti in erba
È venuto ora il momento degli alunni della scuola media che “attraverso l’espressione artistica e il loro impegno molto sentito” ha introdotto l’assessore “ci tenevano a portare il loro tributo, il loro saluto di onore, di rispetto e di amore”. Ad introdurre i ragazzi la loro insegnante di arte Maria Luisa Silipo che li ha accompagnati in questo percorso di trasfigurazione della guerra nell’arte. “il lavoro che hanno svolto quest’anno gli allievi dell’Istituto Gavazzeni” ha spiegato la professoressa “ha colto i sentimenti che avrebbero potuto provare i reduci nel ritrovarsi oggi quindi da un lato la gioia di ritrovare le persone care ancora in vita, la fine della guerra, il ricongiungimento con la famiglia, ma dall’altra parte i ricordi dolorosi che rimarranno sempre impressi nel loro cuore e nei loro occhi. I ragazzi con molta sensibilità hanno colto questi sentimenti e li hanno espressi attraverso delle tavole grafiche” queste tavole sono state presentate dai ragazzi stessi o dalla professoressa. Eccone la carrellata. I lavori più significativi scelti tra quelli dei ragazzi di terza e di seconda.
Per prima la tavola di Giacomo Mario Menegola, una sorta di manifesto per la pace che lui stesso ha brillantemente spiegato.

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Il disegno raffigura dei ragazzini che fanno il girotondo intorno ad un falò e indossano delle magliette su cui sono riportate le bandiere degli stati partecipanti alle due guerre mondiali, ognuno la maglietta della sua nazione. Nel falò brucia la bandiera del nazismo, a simboleggiare la fine della dittatura e di ogni ostilità in Europa, in più bruciano due fucili, simbolo ognuno di ciascuno dei due conflitti. Sopra i ragazzi sorge un sole che rappresenta l’unione europea con al centro una colomba che testimonia il lungo periodo di pace che l’Europa sta vivendo dalla fine del secondo conflitto mondiale e ha simboleggiato l’istituzione dell’Unione Europea. A sinistra troviamo il monumento per i caduti di Talamona con lo stemma del comune e la bandiera italiana che reca la scritta NON DIMENTICARE riferita alle guerre e ai caduti.
A seguire il disegno di Simone Riva presentato dalla professoressa

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Sono raccolte alcune immagini della guerra e dei simboli di pace che sintetizzano il tema trattato in modo stilizzato e personale.
È stato poi il turno della piccola Nives presentare il suo disegno

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Questo disegno rappresenta due mani che si stringono e insieme formano un tronco d’albero forte e resistente, un albero della pace che da come frutti l’amore, la comprensione e la generosità verso gli altri. Il simbolo deriva dalla copertina di un album dei Nomadi intitolato MA NOI NO. Di questo album particolarmente significativa è la canzone I RAGAZZI DELL’ULIVO che parla dei bambini e dei ragazzi vittime delle guerre dei grandi.
Ecco ora il disegno di Claudia e così come lei lo ha raccontato.

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In questo disegno è rappresentato l’occhio del reduce di guerra al cui interno è rappresentata una vita nuova di speranza e felicità senza più dolore, ma con un albero spoglio ad indicare l’impossibilità di dimenticare quanto si è vissuto. anche i colori intorno all’occhio disegnato vogliono essere un simbolo di speranza futura di felicità e gioia
Il disegno di Karima raccontato da lei

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Nel disegno è rappresentato il mondo che si vede dall’universo in cui regna la pace simboleggiata dalla colomba e dall’arcobaleno che scaccia via con la pioggia tutti i ricordi negativi che in qualche modo restano comunque, nonché dalle mani che si uniscono in un gesto di fratellanza formando un cuore.
Il disegno di Matteo raccontato dalla professoressa

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È qui rappresentata una pagina e attraverso il disegno della penna antica si vogliono simboleggiare tutti i soldati che hanno scritto una pagina della Storia con il loro sangue
E ora quello di Leonardo Perlini sempre raccontato dalla professoressa

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Si rappresentano qui due lacrime. In una, quella colorata, c’è la gioia e quindi il ritorno alla vita dei reduci mentre nell’altra grigia ci sono i ricordi della guerra appena trascorsa e dunque il dolore per quanto è accaduto.
A seguire il disegno presentato da Laura e Sofia

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Un cannone che spara fiori come simbolo di pace semplice ma significativo. Un altro simbolo di pace è la colomba che porta un fiore nel becco. Sul cannone è posto come memoria un cappello degli alpini e in una pergamena sopra compare la scritta riportata al tempietto degli alpini.
Il disegno di Sebastiano Simonetta presentato sia dalla professoressa che da lui stesso

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Un lavoro significativo che simboleggia il dipanarsi dei ricordi e degli eventi come se fossero le scene di un film riavvolte in una bobina che rappresenta anche in questo caso una sorta di ruota della pace che capovolge il corso degli eventi. In bianco e nero sono rappresentati i ricordi relativi alla guerra mentre a colori la nuova vita in epoca di pace. Un contrasto, quello tra guerra e pace, tra vita e morte, caratterizzato anche dalla scelta dei colori sullo sfondo.
In ultimo il disegno di Benedetta (purtroppo non tutti i disegni esposti sono stati commentati, ma alcuni erano comunque molto eloquenti).

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Il disegno illustra la famosa canzone di Fabrizio De Andrè LA GUERRA DI PIERO un testo molto impegnativo, che mette in luce il fatto che, per la maggior parte degli uomini coinvolti nella guerra, non c’è onore o riconoscimento individuale o anche solo una sepoltura degna, migliore di un campo su cui crescono i papaveri. La maggior parte dei soldati non ha un’identità a noi nota e nemmeno una croce che ricorda il luogo dove sono caduti, dove sono sepolti. Il soldato della canzone incarna la follia della guerra. Vede un nemico, vuole colpirlo guardandolo negli occhi, ma viene a sua volta colpito e ucciso dal nemico stesso restando nel campo dov’è caduto su cui crescono i papaveri.
La canzone LA GUERRA DI PIERO è stata recitata da tutti i ragazzi in cerchio. Qui di seguito si riporta il testo.
Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma son mille papaveri rossi

lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente

così dicevi ed era inverno
e come gli altri verso l’inferno
te ne vai triste come chi deve
il vento ti sputa in faccia la neve

fermati Piero , fermati adesso
lascia che il vento ti passi un po’ addosso
dei morti in battaglia ti porti la voce
chi diede la vita ebbe in cambio una croce

ma tu no lo udisti e il tempo passava
con le stagioni a passo di giava
ed arrivasti a varcar la frontiera
in un bel giorno di primavera

e mentre marciavi con l’anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore

sparagli Piero , sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra a coprire il suo sangue

e se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore

e mentre gli usi questa premura
quello si volta , ti vede e ha paura
ed imbraccia l’artiglieria
non ti ricambia la cortesia

cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chiedere perdono per ogni peccato

cadesti interra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato un ritorno

Ninetta mia crepare di maggio
ci vuole tanto troppo coraggio
Ninetta bella dritto all’inferno
avrei preferito andarci in inverno

e mentre il grano ti stava a sentire
dentro alle mani stringevi un fucile
dentro alla bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole

dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.
Secondo intervento di Lucica Bianchi
All’assessore Lucica Bianchi il compito di ringraziare l’impegno di questi ragazzi e di apprezzare il loro sguardo fresco e ancora in gran parte disincantato su un passato duro e difficile. La presenza dei ragazzi ha indotto l’assessore a riflettere su un episodio specifico della Grande Guerra, quello dei ragazzi del 99 cioè nati nel 1899 e coscritti per la chiamata alle armi durante le fasi ultime e più critiche del conflitto quando molti di loro non avevano neppure 18 anni.
I ragazzi del 99. Un video per ricordare.
Anche per questo ricordo è stato utilizzato un video. Immagini con testi e musiche sono sempre il modo migliore per imprimersi nel cuore un messaggio, una storia, specie se chi ascolta è molto giovane e coltiva molto questi nuovi linguaggi.
Questo video illustra soprattutto luoghi, monumenti, bassorilievi, in particolar modo a Bassano del Grappa, teatro principale della vicenda. Si riporta qui di seguito il testo in sovraimpressione sul video che racconta brevemente e con enfasi (anche retorica) questa storia.
Nel 1917 la chiamata. Dal 10 novembre al 31 dicembre di quell’anno si verificarono le prime battute di arresto per l’esercito che resero necessari questi ulteriori arruolamenti. In seguito ad un proclama del comando supremo dell’esercito italiano i ragazzi del 99 ebbero il loro primo battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico… in un superbo contrattacco hanno trionfato! Alcuni battaglioni austriaci che avevano osato varcare il Piave sono stati annientati. 1200 i prigionieri catturati e alcuni cannoni presi dal nemico sono stati riconquistati. In quest’ora suprema di dovere e onore nella quale le armate con fede salda e cuore sicuro arginano sui monti e sul fiume l’ira nemica che l’esercito sappia che i nostri fratelli della classe 1899 hanno dimostrato di essere degni del retaggio di gloria che su di essi discende. Un sottoufficiale dichiarò di aver osservato le loro mani grandi e robuste avvezze ai lavori pesanti, mani da figli di contadini falegnami e artigiani e i volti pieni dell’ingenua spontaneità della loro giovinezza. Non esistono dati certi riguardo ai giovani soldati caduti sui campi di battaglia, ma il ricordo di questi giovanissimi combattenti resta scolpito nella memoria popolare. Tra questi ragazzi il più longevo è stato Delfino Borroni, scomparso nel 2008.
Un racconto fantastico… se si dimentica che in fin dei conti si tratta di giovani poco più che adolescenti mandati direttamente al macello.
Commiato
All’assessore Lucica Bianchi l’onere anche dei saluti conclusivi. “vorrei che tutti vedessero questa serata non come conclusione di un evento, ma come un anticipo della giornata di domenica quando tutto il paese renderà onore agli eroi talamonesi caduti” ha dichiarato l’assessore prima di leggere alcuni passaggi di un piccolo libro di memorie di guerra scritto da Buongiorno Tasca che racconta le gesta della brigata Pavia, una delle più rinomate, ma anche e soprattutto le gesta di coloro che furono soldati sul campo dell’onore per dare a noi una patria più grande e ricordarli non solo è un sacro dovere per il tributo di gratitudine che dobbiamo loro, ma è una nostra necessità di vita interiore. Come le gole arse dalla calura cercano le limpide fontane per abbeverarsi e ristorarsi così l’anima nostra ha sete di luce brama di forza e di bisogno di esempi che sospingano e sollevino nelle dure prove della vita e lo preparino alla prova che un domani la patria minacciata può chiederci, quella dell’ultimo sacrificio. Dobbiamo quindi prepararci ad essere forti perché soltanto se riusciamo ad essere forti riusciamo ad essere liberi. Dopo questa lettura il ringraziamento ai ragazzi e a tutti coloro i quali sono intervenuti a questa serata partecipata.
Beata l’epoca che non avrà bisogno di eroi. È una frase che si sente spesso dire. Finora un’epoca simile non è ancora arrivata. Ogni epoca ha avuto i suoi eroi mitici o storici che fossero e ognuno ha avuto la sua celebrazione. Questi eroi di epoca in epoca sono andati ad accumularsi e chissà che le memorie che hanno creato con le loro gesta non possa contribuire a costruire piano piano un mondo che ricorderà si ancora gli eroi del passato ma che esso sia un passato lontano e non si abbia più da piangere nuovi eroi nel presente e soprattutto nel futuro. Un’epoca in cui gli eroi potranno riposare in pace il sonno dei giusti con la serena consapevolezza che il mondo non avrà mai più bisogno di invocarli e che le file di coloro che sono caduti non si ingrosseranno più.

                                                                                              Antonella Alemanni

 

foto gallery

 

 

UOMINI SULLE VETTE DELLA STORIA

TALAMONA 7 novembre 2014 alla Casa Uboldi un importante centenario

 

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MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA

Nel corso della storia la percezione del tempo è cambiata moltissimo. Agli albori della terra il tempo era scandito dalle ere geologiche e dunque cento anni non contavano nulla. Anche per molto tempo dopo la comparsa dell’uomo e per buona parte dell’età antica nell’arco di cento anni non succedeva molto. È stato in secoli più recenti che la storia ha cominciato a subire un’accelerazione sempre più inarrestabile al punto che si può dire che sono successe più cose negli ultimi cento che nell’arco di tutti i secoli precedenti messi insieme. Cento anni fa il mondo era in guerra ed era un mondo che oggi, che siamo qui a ricordare quell’evento (alla casa della cultura a partire dalle 20.45) ci appare come lontano. “è incredibile ritrovarsi qui dopo cento anni a ricordare la guerra” ha esordito Simona Duca, ex assessore alla cultura, ora volontaria presentatrice nonché curatrice di questa serata “ma come ci siamo arrivati a questa sera? A caso in corridoio parlando si è osservato che quest’anno cade il centenario della grande guerra e non è proprio possibile non organizzare qualcosa in proposito. Ma cosa? Si potrebbe coinvolgere il coro coi canti di guerra e gli alpini che, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, della  guerra sono stati gli assoluti protagonisti? Detto, fatto, come gruppo della biblioteca ci siamo messi d’impegno per organizzare questa serata” una serata fatta di racconto accompagnato da una presentazione arricchita con le foto tratte dal sito del museo della guerra di Cividale del Friuli da brani tratti da film e documentari, da una piccola mostra allestita al piano terra e ovviamente dai canti del Coro Valtellina.

 

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Prima guerra mondiale una introduzione

“Ci sono principalmente due immagini che mi vengono in mente pensando alla prima guerra mondiale” ha cominciato a raccontare Simona Duca “la prima è la classica scena dell’esame di terza media e del ragazzino che racconta la guerra come argomento a piacere e lo fa enumerando date e fatti in modo un po’ sommario. La seconda immagine è sempre scolastica ed è quella del profondo divario tra il racconto (principalmente appunto un catalogo di date e fatti) che viene fatto a scuola della guerra e i fatti così come realmente andarono. Parlando con gli alpini (a questo punto Simona Duca ha mostrato un raccoglitore di vecchi temi scolastici ndr) emerge ad esempio una sfumatura della guerra che a scuola non salta mai fuori. Negli anni passati è capitato che i reduci di guerra andassero nelle scuole e parlassero delle loro esperienze personali, offrendo testimonianze molto vivide nonostante fosse passato un po’ di tempo. Da queste  testimonianze emergevano sostanzialmente quattro parole chiave: fame e sete (contano come una visto che vanno di pari passo ndr) pidocchi, freddo, morte. Tutto girava intorno a queste condizioni di indigenza, ben altra cosa rispetto alle lezioni nude e crude che lo scolaro deve mandare giu. In cento anni in racconto della guerra è mutato tantissimo. Tanti nomi diversi (Grande Guerra, Prima Guerra Mondiale solo perché poi c’è stata la seconda, quarta guerra d’indipendenza per gli Italiani che hanno poi annesso Trento e Trieste, Grande Guerra Patriottica per i russi che nel frattempo hanno organizzato una rivoluzione bolscevica contro l’impero zarista, guerra di posizione, di trincea, inutile strage, guerra fratricida secondo papa Benedetto XV) e tanti modi diversi di presentarla. Il nome più significativo però è Grande Guerra che racchiude appieno il suo significato di guerra totale, di ultima guerra antica e prima guerra moderna, che ha coinvolto non solo chi combatteva direttamente, ma anche i civili sui fronti interni. Ed ecco come questa sera siamo qui a cercare di mettere insieme le date con la vita vissuta, la grande storia con la piccola.

Talamona ai suoi prodi

È venuto ora il momento del primo intermezzo musicale offerto dal coro Valtellina prima di riprendere il nostro racconto partendo dalla fine, dai morti che la guerra si è lasciata indietro, in particolar modo quelli di Talamona, in quanto comunque Talamona è stato uno dei primi comuni a dedicare un monumento ai suoi caduti. “leggendo questi nomi si percepisce la guerra meno lontana” ha proseguito Simona Duca “infondo l’abbiamo vissuta anche noi in diretta da casa nostra”

Tutto ebbe inizio…

“Come cominciò tutto? Sembrerebbe che tutto parta da una scintilla in quel dei Balcani. Viene ucciso l’erede al trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando l’ultimo di una serie di omicidi eccellenti di regnanti da parte di anarchici che già da tempo facevano scalpore in Europa (Umberto I e la principessa Sissi tanto per citare i più noti) ed è la goccia che fa traboccare il vaso, l’inizio di una situazione che sfugge sempre di più al controllo in un clima dove la guerra già era nell’aria e la gente già si divideva in chi la temeva e in chi invece a tutti i costi la voleva. La storiografia oggi sta un po’ rivalutando questi fatti e tra le cause della prima guerra mondiale viene annoverata anche la guerra di Libia degli italiani. L’imperialismo che raggiunge il suo apice e si avvia al suo crollo.

Estate 1914

Siamo ancora alla mobilitazione degli eserciti a quando tutti credono di sapere con sicurezza i pronostici della guerra, chi è più forte e vincerà, quanto durerà, cioè pochissimo, tutti sono ottimisti circa l’esito che avrà la guerra per loro i giornali si riempiono di proclami idealistici e grondanti di retorica riguardo al valore della patria eccetera, eccetera insomma un sacco di bugie sulla necessità di una guerra giusta tanto per convincere la gente per spronare gli arruolamenti (che sono comunque obbligatori).

La ninna nanna di Trilussa

Ma c’è chi dopo solo un mese ha capito l’antifona ed è Trilussa, poeta satirico romano che scrive in dialetto e che in questa occasione ha scritto una ninna nanna che è stata in seguito musicata, cantata, proposta in vari spettacoli. Questa sera abbiamo ascoltato la versione di Gigi Proietti. In questa canzone compaiono spiritelli vari della tradizione popolare, comunemente chiamati in causa in simili circostanze, ma anche i protagonisti principali della Grande Guerra Guglielmone (cioè Guglielmo II il kaiser di Germania) e Cecco Beppe (cioè Francesco Giuseppe, imperatore austriaco con cui gli italiani hanno a che fare già dal lontano 1848 ai tempi delle cinque giornate di Milano e via via tutto il Risorgimento e le guerre di indipendenza) avversari in guerra anche se parenti (per la precisione cugini, entrambi nipoti di Vittoria d’Inghilterra, altra contendente in causa, poiché tutti i regnanti erano parenti in Europa, ma c’è voluta l’Unione Europea per sancire la pace della serie parenti serpenti all’ennesima potenza ndr). È l’impero d’Austria quello con cui l’Italia ha avuto maggiormente a che fare durante la guerra, un impero e un imperatore ormai molto vecchi, contro il quale è stata indetta quella che la propaganda chiamava guerra di civilizzazione (per dire che gli austriaci erano i barbari) che però di fatto è stata un massacro. Il fatto è che si tenta molto spesso di ridurre la storia a una lotta tra buoni e cattivi, ma poi si finisce sempre con lo scoprire che non è mai ben chiaro dove stanno gli uni e dove gli altri.

Regnanti guerrafondai popolo indignato

La decisione di entrare in guerra si è rivelata non scevra da conseguenze spiacevoli per i nostri regnanti europei. È capitato ad esempio che Vittorio Emanuele si sia visto recapitare lettere minatorie e molto offensive dalle madri degli arruolati costretti a partire. Tra gli sconvolgimenti della Grande Guerra c’è stato anche questo: esponenti del popolo che scrivono direttamente al re insultandolo e minacciandolo (anche se, a ben guardare, la storia non è poi così scevra di precedenti anche più gravi ndr).

La guerra, una questione di soldi

A fronte di chi ci ha rimesso la vita, per molti la Grande Guerra ha costituito un buisness da cui ha guadagnato (questo infondo è uno dei motivi per cui si sono sempre fatte e si continuano a fare le guerre ndr) tutti gli altri erano semplicemente carne da cannone, pedine sulla scacchiera degli intrallazzi del potere dei parenti serpenti che regnavano in Europa, che avevano costruito attraverso i secoli persino le loro stesse parentele solo per interesse politico. Dopo la Guerra gli imperi crolleranno, non ci sarà più motivo di scontro, i parenti serpenti si riappacificheranno e a raccogliere i cocci resterà il popolo. In Africa esiste un proverbio che descrive molto bene questa situazione quando due elefanti combattono, a soffrire è l’erba.

La guerra in Italia

Come dicevamo la guerra è stata raccontata in molti modi diversi. C’è chi ci ha persino scherzato su. I soldati dovevano pur trovare una piccola scappatoia per non lasciarsi sopraffare totalmente dalla disperazione in cui si sono trovati immersi. Due tenenti degli alpini con disegni e frasi hanno messo insieme un libro intitolato LA GUERRA E’BELLA MA SCOMODA che è uscito nel 1935 e che questa sera ha fatto bella mostra di sé nel vasto campionario offerto dalla biblioteca, scelto tra la vastissima letteratura di guerra che comprende diari, reportages e romanzi per tutte le età nonché studi storici a posteriori. Da questo campionario emerge come l’entrata in guerra venne accolta festosamente dalla popolazione nel cosiddetto maggio radioso (il 24 maggio 1915) parate, cortei, giornali dai titoli altisonanti, un entusiasmo da cui molti sono stati travolti, salvo poi ritrovarsi faccia a faccia con la vera realtà del fronte senza poi nemmeno sapere alla fine il motivo di tutto questo. L’Italia di allora era principalmente rurale, la gente viveva nelle campagne e non era a conoscenza dei grandi accadimenti, non aveva una prospettiva nazionale, ne tantomeno internazionale, pensavano solo a coltivare la terra e tutto cio che sapevano della chiamata alle armi era che avrebbe tolto braccia ai campi. Perdipiù gli italiani erano stati neutrali per un anno e dunque tutti questi proclami a difesa della nazione che venivano diffusi risultavano, alla luce di cio, ancor più strani.

Italia doppiogiochista

Bisogna a questo punto fare un passo indietro, riprendere la prospettiva internazionale. La mobilitazione degli eserciti in seguito all’attentato di Sarajevo vede la formazione di due schieramenti contrapposti. Da un lato la triplice intesa che vede alleati Francia, Russia e Inghilterra e dall’altro i cosiddetti imperi centrali tedesco e austriaco che formavano una triplice alleanza di cui avrebbe dovuto far parte anche l’Italia la quale però, al momento, si manteneva neutrale e anche quando poi si decise ad entrare in guerra fino all’ultimo non seppe da che parte stare. Si può tranquillamente dire che alla fine si vendette al miglior offerente. Fece trattati con entrambi gli schieramenti per capire cosa ci avrebbe guadagnato in caso di vittoria in termini di conquiste territoriali. Gli alleati che alla fine l’Italia si scelse furono quelli che fecero le offerte più ghiotte in sostanza (che poi non mantennero del tutto). Ed ecco come una volta stabiliti definitivamente i nemici, essi divennero barbari invasori da combattere con ogni mezzo con l’aiuto della popolazione contadina convinta a suon di lusinghe (quando in tempo di pace della sorte dei contadini a chi comandava non gliene importava nulla).

Guerra totale

Mai come in questo momento storico la guerra ha coinvolto davvero tutti persino quelli che restavano a casa. Solo parlando dei soldati solo 1 su 7 finiva direttamente in prima linea, tutti gli altri erano invece ausiliari (per esempio addetti al rancio e alle cucine). Per chi restava a casa tutto girava comunque intorno alla guerra: l’economia, la società, la cultura. Le donne diventavano i capifamiglia, dovevano occupare i posti di lavoro che gli uomini partendo avevano lasciato vuoti, i bambini giocavano a fare i soldati quando non dovevano lavorare anche loro oppure venivano arruolati per davvero in alcuni casi. Ognuno diventava come il meccanismo di un ingranaggio.

24 maggio 1915 a Bormio

Non dappertutto si registrava la stessa percezione della guerra o del fatto di esserci entrati. Ad esempio a Bormio successe che fu colui che portava la posta coi carri verso lo Stelvio ad accorgersi degli insoliti movimenti dei soldati austriaci che fecero capire che la guerra era in atto anche per noi.

Vita al fronte un primo accenno

Fin da subito il governo cerca di prodigarsi affinchè la vita al fronte risulti il più confortevole possibile per i nostri soldati. Ed ecco come a tal scopo vengono emanate tutta una serie di regole tra cui quella che dal 25 maggio non si venderanno più all’estero i pomodori perché verranno mandati ai soldati.

Intanto a casa…

Come si diceva prima la guerra e la propaganda di guerra coinvolse tutti indipendentemente dall’età e dallo status sociale. Persino le letture per bambini (come il CORRIERE DEI PICCOLI) vennero infarcite di inneggiamenti alla guerra, tra i libri più popolari c’era IL PICCOLO ALPINO (in realtà uscito dopo la guerra basato su testimonianze autentiche di ragazzini che si trovarono davvero al fronte un po’ per circostanza e un po’ perché erano stati spinti a sognare la guerra) e in ogni caso i bambini vennero impiegati come ausiliari nelle fabbriche insieme alle loro madri. In queste fabbriche, come sui campi di battaglia, vigeva un regime militare. Tutte le conquiste sindacali, a cominciare dal diritto di sciopero, vennero sospese, gli orari stabiliti in base alle emergenze e capitava persino che i ragazzini che si dimostravano indisciplinati in fabbrica venissero inviati al fronte (ma solo al di sopra di una certa età al di sotto invece si veniva multati).

La donna in guerra

Paradossalmente fu la guerra a dare ulteriore slancio alle lotte femminili per la parità. Le donne con la chiamata in guerra di padri mariti e fratelli si ritrovarono a far tutto da sole e per molte questa fu l’occasione in cui divenne chiaro una volta per tutte come non fosse poi così vero che le donne dovevano per forza essere sottomesse e dipendenti dagli uomini. Le donne si ritrovarono a occuparsi dei figli, dei campi e a lavorare nelle fabbriche. Troviamo delle donne anche tra le truppe ausiliarie dell’esercito. C’erano le lavandaie, le crocerossine, quelle che lavoravano nelle fabbriche di armi e munizioni le cosiddette madrine di guerra che corrispondevano con i soldati dando loro un non indifferente supporto psicologico (potevano essere fidanzate, madri, sorelle, ma anche no) e le prostitute. Ci furono anche quelle che combatterono effettivamente e che divisero praticamente in due gli alti comandi: da un lato i tradizionalisti scandalizzati e dall’altro quelli che vedevano la cosa dal lato pratico, più donne combattevano e morivano, più uomini si risparmiavano che potevano essere poi mandati al macello a loro volta e inoltre il rancio delle donne morte si poteva utilizzare per gli uomini ed era tutto di guadagnato. Uomini e donne con la guerra diventarono indifferentemente carne da cannone e forse questo fu l’aspetto meno nobile della raggiunta parità se non si considera il premio di consolazione, costituito dalle medaglie al valore, che entrambi i sessi poi ricevettero come ricompense per azioni eroiche (per tutti gli altri c’erano le medaglie coi santini che davano le madri prima della partenza). Azioni eroiche che per le donne potevano essere guidare le ambulanze sotto bombardamenti e scariche di proiettili oppure arrampicarsi su per le pendenze per portare i rifornimenti ai soldati dove nemmeno i muli arrivavano.

Una guerra da cani e non solo

Non furono soltanto gli umani ad essere impiegati in guerra, ma anche gli animali. I tradizionali cavalli che fin dalla notte dei tempi accompagnarono l’uomo nelle sue guerre e che qui vennero forse impiegati per l’ultima volta nella Storia. I piccioni viaggiatori che portavano messaggi o venivano dotati di apparecchi per effettuare dei rilevamenti dietro le linee nemiche. I cani che andavano a cercare i dispersi in azione, vivi o morti, che accompagnavano gli alpini come portaordini e quando erano di taglia grossa combattevano proprio. I muli che portavano i rifornimenti. Le mascotte dei vari reparti. Questi animali diventarono particolarmente fondamentali dopo la guerra, quando venne raccontata al cinema dal loro punto di vista nel tentativo di trarne dei racconti il più possibile edulcorati. Rin Tin Tin (che è esistito davvero, era un cucciolo raccolto da un soldato in Francia e portato in America dove esordì prima nei circhi e poi al cinema finendo per morire sul set di un film) Lassie, Furia cavallo del West. Attraverso le loro avventure la guerra entrò ad Hollywood per la prima volta. Ma ci furono anche animali che ricevettero medaglie e riconoscimenti come gli umani. Un cane di nome Garnian venne nominato penna nera dagli alpini dopo essere stato ferito a Masarè e raccolto dagli alpini.

Parlando di animali in guerra bisogna citare anche quelli che non furono dei buoni compagni utili per i nostri soldati, anzi tutt’altro. I pidocchi che ti infestavano dopo poche ore in trincea,le pulci, le zecche, i topi. Uno dei passatempi preferiti dei soldati era spidocchiarsi o mettere i vestiti a contatto con l’aria fredda per far morire i pidocchi i quali però a contatto con la pelle calda miracolosamente risorgevano. Furono proprio questi animali molesti i più vicini ai nostri soldati.

 

I giornali di guerra

La guerra è stata raccontata dalla carta stampata principalmente in due modi. Con il linguaggio della propaganda che non faceva capire la realtà delle cose e con il linguaggio della satira. Era il governo a scegliere i giornalisti che potevano scrivere di guerra e ne sceglieva pochi per poterli controllare. Era necessario che lo spirito patriottico e positivista che aveva animato tutti all’inizio non venisse meno ed era necessario che si continuasse a parlare della guerra in termini sensazionalistici per mantenere alto il morale di tutti. Dunque a questi giornalisti veniva imposto dall’alto cosa scrivere e come scriverlo. Esemplare la copertina de LA DOMENICA DEL CORRIERE che pochi mesi prima di Caporetto rappresenterà i soldati più vigorosi che mai pronti a respingere il nemico. Per quanto riguarda la satira erano gli stessi soldati lontani dalla prima linea che se ne occupavano puntando soprattutto sulle vignette visto l’analfabetismo diffuso. Le vignette erano soprattutto volte a schernire gli alti comandi che facevano la guerra a distanza con spavalderia, mandando avanti i soldati. Venivano indetti persino dei concorsi che richiedevano di rappresentare i momenti  salienti della guerra. Questi dipinti dal punto di vista artistico sono notevoli, ma non raccontano la verità.

La partenza per il fronte

Ordunque raccontiamola noi ora questa verità sulla vita nelle trincee sui patimenti del fronte cominciando dal principio cioè dalla partenza. Per molti era la prima volta nella vita che lasciavano il loro paesello dove lavoravano come contadini. Le tracce di questi momenti dolorosi sono sopravvissute all’interno di diari e lettere. Solitudine, distacco, lasciare il mondo che si è sempre conosciuto per andare verso l’ignoto, magari senza nemmeno la speranza di tornare. In guerra si viene uccisi, si muore per le condizioni in cui ci si trova perché viene a mancare tutto, anche lontano dall’azione vera e propria i cecchini erano sempre in agguato. La parola cecchino venne coniata proprio in questa occasione. In origine significava soldato di Cecco Beppe (cioè Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria-Ungheria) e poi è entrato nel linguaggio comune per designare i cosiddetti tiratori scelti che sparano a distanza nelle azioni di polizia o che in guerra compiono agguati.

Vita di trincea

La vita di trincea è stata forse la vera svolta per l’unità d’Italia. In guerra tutti insieme si ritrovarono soldati che provenivano da diverse zone del Nostro Paese, ognuno  si portava dietro il suo dialetto, ma tutti cercavano di parlare un po’ d’italiano per capirsi, per fare amicizia per farsi coraggio, per darsi una mano quando ad esempio i soldati analfabeti dovevano farsi aiutare da altri a mandare notizie a casa. Dal film UOMINI CONTRO di Francesco Rosi vediamo uno spaccato realistico di questi dialoghi, di questi momenti di cameratismo, particolarmente preziosi prima dei veri o presunti attacchi. Perché era l’attesa dell’attacco più che l’attacco stesso a mettere alla prova i nervi dei soldati, i quali infatti venivano tenuti su di morale con razioni di cognac e cioccolato, probabilmente perché solo dei soldati ubriachi avrebbero trovato il coraggio di attaccare effettivamente. L’attesa era tanto più snervante quanto più si svolgeva nel fango nel freddo, accanto ai cadaveri. Quelle che vennero inizialmente costruite come dei veri e propri fortini su tre linee non funzionavano in maniera così perfetta come voleva la teoria. I soldati lavoravano mattina e sera con impegno per costruirle quando non combattevano, ma di certo il terreno non aiutava. Dentro questi buchi, le cui strutture spesso non tenevano, era l’inferno, si viveva come uomini delle caverne oppure ci si lasciava vivere. Questi aspetti fanno capire come questa guerra sia stata in primo luogo una guerra psicologica certo non per tutti allo stesso modo. Gli alti comandi tutto questo logoramento praticamente non lo sentivano. Ma che cosa sapevano effettivamente della guerra gli alti comandi? Da alcune testimonianze dirette emerge che al corso bisognava imparare solo un po’ di tattica di base che non era nemmeno determinante ai fini della promozione. Se i comandi fossero stati lasciati ai gradi più bassi la faccenda sarebbe senz’altro stata risolta meglio e più in fretta. I soldati infatti imparavano tutto sul campo e la geografia dettagliata dei luoghi attraversati non la scordavano più. Il generale delle truppe italiane, Luigi Cadorna, aveva diffuso un libricino intitolato ATTACCO FRONTALE E ADDESTRAMENTO TATTICO. In pratica il comandamento di Cadorna con qualunque tempo e in qualunque circostanza era sempre quello di attaccare e chissenefrega se la gente moriva se il risultato era una strage per pochi metri che poi magari venivano persi subito dopo in eventuali contrattacchi successivi. Sempre attaccare a testa alta come dei veri uomini d’onore e non strisciando per terra come bestie. Cadorna era il vero nemico dei soldati italiani e non gli austriaci, i quali dal canto loro si rendevano conto delle inutili stragi e intimavano spesso durante gli attacchi ai soldati italiani di tornare indietro durante gli attacchi per non farsi ammazzare così inutilmente. Ma i soldati italiani non potevano tornare indietro, perché sarebbero stati puniti. I morti che non fece la guerra, che non fece il nemico (i cecchini che miravano a quelli che si sporgevano, a quelli che fumavano specie di notte, agli addetti al rancio e alle cucine in modo tale che così facendo si tagliavano i viveri a tutti), che non fecero le azioni militari (i nemici avevano la mitragliatrice che pare uccidesse ottomila uomini al minuto in media, mentre gli italiani avevano i fucili modello 1891 che si inceppavano), li fece la cosiddetta giustizia militare volta al mantenimento della disciplina. Si partiva da pene più lievi come turni extra di lavori o di guardia a chi non teneva pulita la trincea o non si preoccupasse di fare il modo che le fortificazioni reggessero (cosa che non dipendeva comunque dai soldati se non fino a un certo punto, ma più dipendeva dal terreno che non assorbiva la pioggia che in certi periodi cadeva copiosa così si formava il fango che intrappolava tutti gli odori) fino ad arrivare alle pene di morte per atti di vigliaccheria come potevano essere appunto quelli di chi tornava indietro, di chi cercava di scappare e farsi catturare come prigioniero, di chi si sparava per essere mandato all’ospedale lontano da dove si combatteva, chi si ribellava e diceva chiaro e tondo di non voler più combattere. C’era un sistema chiamato decimazione. Per ogni atto considerato di vigliaccheria o più in generale di indisciplina, se non si trovava il colpevole o i colpevoli, venivano estratti a sorte un soldato ogni dieci e tutti gli estratti fucilati. Capitava che con questo sistema finissero fucilati anche coloro i quali erano magari entrati in servizio quel giorno stesso ed era palese che non c’entrassero nulla con le accuse. Un soldato su ventiquattro ora della fine della guerra aveva avuto problemi col tribunale, uno su diciassette era stato ucciso col metodo della decimazione.

Alla fine giungeva anche il momento di fare la conta di tutti questi morti e i numeri fanno davvero spavento. Cifre a sei zeri tra morti feriti e mutilati. Curioso da questo punto di vista un aneddoto capitato ad Albert Swaizer premio Nobel per la pace negli anni Cinquanta nonché medico tedesco che durante gli anni della guerra si trovava a gestire un ospedale da lui aperto in Congo. Un giorno si trovò a parlare col figlio di un capotribù che stava curando. “Quanti ne sono morti in guerra?” chiese l’indigeno “dieci?” “si forse dieci” rispose il medico” “il tuo capotribù deve essere molto ricco per riuscire a risarcire le famiglie di dieci soldati” certo fa pensare che un cosiddetto selvaggio, il cui popolo non sarà stato certo immune dalla cosiddetta missione civilizzatrice dell’uomo bianco solo il secolo prima, si scandalizzi per il sacrificio di dieci uomini, mentre la cosiddetta civiltà europea si sia trovata senza batter ciglio un bilancio di morti a sei zeri senza contare quelli che sopravvivevano si fisicamente, ma erano segnati a vita dentro e quelli che si trovavano a subire le conseguenze di interventi di soccorso non idonei perché molto spesso i medici e le infermiere di guerra dovevano addestrarsi sul campo per capire le cure adeguate. I primi tempi ci si trovava gli ospedali pieni di uomini con ferite spaventose e l’amputazione era il metodo più praticato per cercare di salvare la vita dei soldati, che comunque morivano lo stesso per le condizioni igieniche precarie, per gli interventi condotti senza anestesia o con anestetici rudimentali. Molti di questi menomati fisici, ma soprattutto mentali vennero tenuti nascosti, spacciati per morti alle famiglie e rinchiusi in discutibili strutture, non certo per prendersi cura di loro. In guerra il mestiere più duro pare fosse proprio quello del barelliere perché si stava a contatto col dolore, coi lamenti, con tutta la reale crudeltà della guerra, coi cadaveri fatti a pezzi, coi soffocati dal gas. In guerra si moriva anche solo perché non si riusciva ad andare a recuperare sempre in tempo i feriti rimasti sul campo di battaglia o perché non tutti erano abituati all’ambiente di montagna e cadevano nei crepacci.

Le conseguenze sui civili

Gli attacchi e le azioni di guerra si ripercuotevano anche sulla popolazione. Dopo gli spari e i bombardamenti di interi villaggi e paesini non restavano che cumuli di macerie con relativi cumuli di cadaveri degli abitanti che tra le macerie restavano intrappolati.

Le armi della guerra

Dal punto di vista dell’invenzione e dell’introduzione di nuove armi questa guerra si può definire moderna. La regina degli armamenti è stata senz’altro la già citata mitragliatrice, ma poi c’erano i gas, le relative maschere antigas, fucili e baionette, bombe di vari tipi, i carri armati, lanciafiamme. Per il trasporto di tutti questi armamenti vennero utilizzati carri, treni, biciclette. Per la prima volta comparve l’aviazione militare che, sebbene ancora ai suoi primordi, contava già i suoi eroi primo fra tutti Francesco Baracca, eroe di Vittorio Veneto abbattuto dalla contraerea austriaca il cui aereo si distingueva per il simbolo di un cavallino rampante nero su fondo giallo che sarà poi adottato dalla scuderia di auto da corsa di Enzo Ferrari. Nonostante queste avanguardie sopravvivevano ancora retaggi di secoli precedenti come le armi bianche (mazze ferrate come quelle di epoca medievale) e persino armature, pinze, tagliole.

Lettere dal fronte

Con la guerra le persone scoprono la scrittura. Volantini, biglietti, vere e proprie lettere e diari privati. La scrittura è un vero e proprio mezzo di sopravvivenza o meglio un modo per continuare a sentirsi vivi, per continuare ad avere in qualche modo un legame con casa propria, con la dimensione dei propri affetti. Tra le punizioni disciplinari c’era il blocco della posta, tale era l’importanza fondamentale che questa aveva. Cadorna rischiò di essere ucciso con un atto di ribellione quando bloccò la posta che dunque venne immediatamente ripristinata. Nelle lettere i soldati parlavano di quello che vivevano, le loro emozioni e poi chiedevano notizie di coloro che avevano lasciato, della vita dei campi, di chi nasceva, di chi si sposava, dei propri cari, mandavano i saluti a genitori, fidanzate, mogli, figli, mandavano parole d’amore, mettendo in imbarazzo quelli che scrivevano e leggevano per conto degli analfabeti (i più imbarazzati erano ovviamente i cappellani militari). Quanto si scriveva dipendeva dai momenti. Le fasi di quiete permettevano lunghe divagazioni, mentre tra un attacco e l’altro necessitava essere sintetici. Le foto sulle cartoline rappresentavano i soldati in ordine con le divise ben curate pronti all’assalto oppure potevano essere cartoline pornografiche che i soldati tenevano per loro. I momenti di quiete erano rappresentati dalla visita del barbiere dai permessi di allontanamento durante i quali si sperava di incontrare qualche ragazza, il momento del rancio (con qualche concessione di veri e propri pranzi sotto le feste natalizie) la possibilità di lavarsi con la neve, momenti per prendere un po’ di sole, un po’ d’aria. In tempi normali cose come queste si vivono con noncuranza, si danno per scontate, ma in guerra quando puoi morire da un momento all’altro e nel frattempo languisci tra fango cadaveri, topi e tutto quello che si è detto prima, quando bisogna inerpicarsi su per pendii scoscesi con scarpe di cartone, la parola scontato non esiste. Le truppe avevano in dotazione anche delle radio, ma dovevano farle funzionare a pedali. Pedalando si otteneva l’energia elettrica necessaria a ricevere le trasmissioni radio, soprattutto canzoni. Esse sono forse la testimonianza più viva della guerra, perlomeno quelle non ufficiali, quelle non approvate dalla propaganda, quelle che chi le cantava poteva essere punito (perché prendevano in giro Cadorna e gli alti comandi), quelle che venivano dal cuore, alcune delle quali riprendevano vecchi canti di minatori. VOLA COLOMBA che vinse una delle prime edizioni di San Remo, nacque così. Inizialmente non si parlava di colombe, ma di rondini e i soldati rivolgevano in questo canto un pensiero alle fidanzate rimaste a casa. O’SULDATO INNAMORATO pure nacque nelle trincee prima di diventare un pezzo forte della musica napoletana. Per quanto riguarda le canzoni propagandistiche erano stereotipate e noiose. Non mancavano inoltre i canti di Natale durante le messe in cappelle improvvisate (altro momento prezioso nella vita di trincea) ed è proprio uno di questi canti che a questo punto della serata il Coro Valtellina ci ha fatto ascoltare.

La guerra bianca

Tra tutti i nomi dati a questa guerra, l’epiteto di bianca voleva sottolineare, almeno per quanto riguarda italiani e austriaci, il fatto di aver combattuto in alta montagna tra la neve e i ghiacciai dove spesso scavavano trincee chiamate città di ghiaccio più calde rispetto all’ambiente esterno e illuminate dalla neve che rifletteva bene la luce. Ma come ci si riparava in definitiva dal freddo? Bevendo alcoolici che però ghiacciavano soprattutto il vino e dovevano essere tenuti sotto le ascelle o tra le gambe una notte intera per farli sciogliere. Dovendo mettere gli alcoolici tutti insieme per farli sciogliere si formavano strani coktail alchè non si sapeva più effettivamente cosa si beveva.

La disfatta di Caporetto

In seguito a questa disfatta anzi già fin dall’arrivo a Caporetto qualcuno cominciò a gridare al tradimento. Tradimento di chi? Ovviamente gli alti comandi subito a dare la colpa ai soldati, senza considerare che il generalissimo Cadorna, durante i combattimenti di Caporetto, mentre la guerra infuriava più violenta che mai, aveva trovato il tempo e la spensieratezza di andarsene al cinema a Udine. Perdipiù i generali rimasti attivi avevano completamente stravolto gli schemi di battaglia, mandando avanti gruppi sparsi di vedette volte a creare situazioni di disturbo. Tra queste vedette c’era pure Rommel, la volpe del deserto nel conflitto successivo qui alleato austriaco. La disfatta di Caporetto non si distinse tanto per la gran baraonda di ordini non chiari e di azioni confuse, ma perché arrivati a questo punto il governo italiano rischiava davvero di perdere la faccia, avendo collezionato dall’unità sino a quel momento uno smacco dietro l’altro. È stato possibile salvare il salvabile soltanto restando in difesa. A quel punto c’è stata la ripresa e la lenta risalita verso il Piave.

L’arrivo al Piave

Dai canti di guerra sembra che il Piave sia stato conquistato tutto in una notte. In realtà è stato un cammino lungo e faticoso, bisognava ricompattare le truppe, accogliere i nuovi reparti inviati, passare attraverso villaggi e paesi. Nel frattempo la vita andava avanti, c’era chi diventava padre e non poteva o non si ricordava di registrare subito il figlio all’anagrafe. La cosa più importante è che nel corso delle azioni di guerra l’atteggiamento verso il nemico era cambiato. I barbari invasori degli inizi erano diventati uomini come noi e tutto questo era semplicemente una guerra di morti di fame contro morti di fame. Anche questo aspetto cominciava ad emergere nelle poesie e nelle canzoni e dai comportamenti. Al di fuori dei momenti più concitati della battaglia si sparava sempre meno perché ci si rendeva conto che quella non era più guerra, ma assassinio a sangue freddo di uomini contro altri uomini.

E finalmente Vittorio Veneto

A questo avvenimento è associata la data ben precisa del 4 novembre 1918 che tutt’ora si festeggia (così come il 24 ottobre 1917 per Caporetto), in realtà il giorno esatto era il tre, ma per festeggiare la vittoria s’è sparato per ventiquattr’ore. Ma come finì? Finì che per i primi tempi nessuno riusciva a riabituarsi alla pace, ai comportamenti normali di prima della guerra tipo andare a letto e togliersi le scarpe, camminare curvi e scoperti per strada e intanto i soldati per un po’ stavano ancora al fronte per tentare di ricostruire, strade, case ed argini.

La mostra a piano terra

Dopo questo racconto che mescola grande e piccola storia attraverso documenti, canti, film, letture di testimonianze dirette e la narrazione di Simona Duca è venuto il momento della mostra aperta negli orari della biblioteca grazie al gruppo alpini che l’ha allestita e al gruppo dei volontari che faranno i turni d’apertura fino a giovedì per permettere a scuole, gruppi e a chiunque si dimostri interessato di vederla. Una mostra nell’ambito della quale la storia è ancor più viva attraverso uno splendido reportage fotografico di Aldo Varenna digitalizzato che mostra la vita dei soldati momento per momento in modo che chi guarda le foto è come se fosse li a far guerra con loro a sentire il freddo, la paura i disagi, attraverso copie o originali dei giornali d’epoca, i dispacci, alcune lettere, i certificati di morte, l’annuncio della vittoria di Armando Diaz (che subentrò a Cadorna nel comando durante le ultime fasi del conflitto), attraverso teche che contengono cimeli davvero appartenuti a soldati che hanno combattuto quella guerra. Un piatto rotto, pale, picconi, bossoli, elmetti, gavette, borracce, coltellini, bottigliette. È soltanto così che ci si rende conto che la storia è vita e continua a vivere anche quando gli eventi che racconta sono passati da tempo.

Antonella Alemanni

A seguire photogallery della mostra

 

PRIMA GUERRA MONDIALE. EVENTI MILITARI NEL 1914

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Europa nella Prima Guerra mondiale 1914. Le frecce indicano le strategie d’attacco della Germania e l’Austro-Ungheria

I piani. L’iniziativa strategica  che segnò nel 1914 l’inizio della guerra fu presa dal comando militare tedesco, che in pratica controllava quello di Vienna, mentre nell’altro schieramento non esistevano né direzione di guerra comune, né, tanto meno, un comando unico. Il piano che il generale von Moltke (capo di SM tedesco e nipote del vincitore delle guerre del 1866 e del 1870) aveva ereditato dal suo predecessore von Schlieffen affidava alle deboli forze del comando di von Prittwitz nella Prussia Orientale e agli Austro-Ungarici l’incarico di contenere i Russi, mentre lo sforzo principale sarebbe stato operato immediatamente verso la Francia.

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Generale Alfred Graf von Sclieffen

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Generale  Helmuth Johannes Ludwig von Moltke

Il generale Joffre, autore del piano di difesa francese, aveva il comando dell’esercito francese. Nei riguardi dei Russi alleati, vi era soltanto un accordo di massima per il quale essi avrebbero attaccato non appena possibile nella Prussia orientale con il massimo dei mezzi per alleggerire la pressione tedesca sul fronte francese: il piano russo (affidato al granduca Nicola) era quindi subordinato a quello francese. Il piano austro-ungarico invece, prevedeva l’eliminazione rapida della Serbia e un attacco alla Russia dalla Galizia.

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Generale Joseph Joffre

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Granduca Nicola di Russia

Appena dichiarata la guerra ed iniziata la mobilitazione, il grosso delle truppe francesi furono ammassate lungo il confine tedesco.

La mobilitazione delle forze russe avveniva invece molto lentamente per la scarsezza di mezzi di trasporto e l’insufficienza di strade e ferrovie. Così la Germania poté riversare tutte le sue forze contro la Francia, per cercare di sconfiggerla rapidamente e poi dirigere contro la Russia sul fronte orientale. Per poter effettuare questo piano della guerra lampo, la Germania doveva evitare le potenti fortificazioni francesi costruite sul suo confine: perciò l’esercito tedesco invase il Belgio, che era neutrale, per assalire le truppe francesi alle spalle.

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L’entrata delle truppe tedesche in Bruxelles

I tedeschi dopo un mese di aspri combattimenti, giunsero a quaranta chilometri da Parigi, ma sul fiume Marna furono bloccati e respinti alla fine di una battaglia durissima.

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Mappa della prima battaglia della Grande Guerra – Fiume Marna, 5 settembre-12 settembre 1914

La non prevista resistenza ostinata dei Francesi fa fallire ben presto l’illusione della guerra lampo.

Questo succede perché scavando delle trincee e attendendo l’assalto del nemico il difensore è fortemente avvantaggiato sull’attaccante. Gli assalti ,infatti, sono ancora effettuate dal fante armato di fucile, che attacca  le mitragliatrici nemiche sistemate sui bordi della trincea e protette da un riparo ben munito.

Dopo la battaglia della Marna le truppe tedesche e franco-britanniche si fronteggiarono lungo una linea che andava dalla Manica alla Svizzera. La guerra di movimento si trasformò in guerra di posizione. I soldati furono costretti a vivere dentro trincee lunghe centinaia di chilometri, sotto le intemperie, su un fronte praticamente fermo.

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La Germania attacca sul fronte orientale. Nel frattempo a oriente, l’esercito tedesco riuscì ad occupare la Polonia dopo due vittorie ottenute presso i laghi Masuri e Tannenberg. Il fronte austro-russo, a sud, si estendeva per centinaia di chilometri, senza alcun avanzamento da parte dei combattenti. L’offensiva austriaca in Galizia venne arrestata dai Russi, i quali iniziarono qui una vigorosa controffensiva, obbligando il nemico tedesco ad abbandonare la zona, ripiegando sulla catena montuosa dei Carpazi. Nonostante il contrattacco del generale tedesco Mackensen (novembre-dicembre), il fronte si stabilizò sulla linea Memel-Gorlice, a occidente di Varsavia.

Sul fronte navale il primo scontro fra navi tedesche e inglesi si ebbe presso Helgoland il 28 agosto, e la battaglia si risolse a favore dell’ammiraglio inglese Beatty. Nel Pacifico occidentale la squadra tedesca di crociera di von Spee inflisse una dura sconfitta al largo di Coronel (1 novembre) alla squadra inglese di Cradock, ma fu poi annientata nelle battaglie nelle isole Falkland (8 dicembre)

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Vice-ammiraglio Maximilian Reichsgraf von Spee

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Contrammiraglio Cristopher George Cradock

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Mappa della battaglia di Coronel. In rosso sono indicate le navi inglese, in blu quelle tedesche.

Risultati. Alla fine del 1914, anche se il piano  di Moltke non era andato a buon fine, il territorio tedesco era stato tuttavia preservato dalla temuta invasione russa, anzi le truppe germaniche occupavano a occidente parte del Nord della Francia. Quanto all’Austria, il suo esercito non riusci a venire a capo della resistenza della Serbia, che anzi, dopo le vittorie del Cer in  Bosnia, e di Rudnik, liberò il suo territorio e riprese Belgrado (13 dicembre). I tedeschi persero a opera dei Giapponesi i possedimenti del Pacifico (caduta di Chiao-chou), il 17 novembre. La Francia era riuscita a fermare l’invasione tedesca, ma la perdita di una parte essenziale del suo territorio aveva diminuito il suo potenziale umano ed economico all’inizio di una guerra di cui non si intravedeva la fine, e che avrebbe richiesto sforzi senza precedenti.

                                                                                                                                                                 Lucica

LO SCOPPIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE. EVENTI POLITICI NEL 1914

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Foto: Europa all’inizio della Prima Guerra Mondiale

La guerra che scoppiò nel 1914 fu un avvenimento nuovo nella storia dell’umanità, perché fu la prima guerra “mondiale”, una guerra che  vide lo scontro di tutti i grandi Stati, che impegnarono le capacità produttive dell’industria moderna e le risorse della tecnica per preparare strumenti di offesa e difesa. Fu una guerra di massa, combattuta per terra, per mare e nell’aria, con impiego di armi mai usate prima(carri armati, aerei, sommergibili), e con il ricorso a nuovi mezzi di lotta: economica e psicologica. Venne combattuta dai belligeranti fino all’esaurimento delle forze, le vittime e i danni andarono ben oltre qualsiasi calcolo previsto, e finì con l’apportare radicali sconvolgimenti  all’economia internazionale, aprendo così la via a ripercussioni e conseguenze che durarono a lungo anche nel dopoguerra.

Causa occasionale della guerra fu l’assassinio dell’arciduca ereditario dell’Impero Austro-Ungarico Francesco Ferdinando e della consorte, avvenuto a Sarajevo il 28 Giugno 1914. L’Austria d’accordo con la Germania, attribuì al governo serbo la responsabilità dell’eccidio, e indirizzò a Belgrado il 23 Luglio un ultimatum con richieste inaccettabili.

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Foto: Corriere della Sera, Annuncio dell’eccidio di Francesco Ferdinando e della moglie Sofia.

Le dichiarazioni di guerra. La risposta serba all’ultimatum (25 Luglio), pur non essendo provocatoria, ma comunque accompagnata da una  mobilitazione generale dell’intero esercito, non accontentò l’Austria che dichiarò guerra alla Serbia(28 Luglio), prima che venisse formulata una qualsiasi proposta di mediazione voluta dall’Inghilterra. Nei giorni seguenti, il meccanismo degli accordi internazionali portò ad una rapida generalizzazione del conflitto.

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Foto: Corriere della Sera, Dichiarazione di guerra da parte d’Austria alla Serbia

La tesi tedesca, secondo la quale la guerra fosse un questione esclusivamente austro-serba, non poteva essere accettata dalle altre potenze, e i vari tentativi di mediazione per scongiurare il conflitto rimasero infruttuosi. Dopo che anche i Russi mobilitano il loro esercito (ostile all’Austro-Ungheria), la Germania dichiarò guerra alla Russia (1 Agosto alle ore 19.10) e alla Francia (3 Agosto alle ore 18.45). A sua volta la violazione della neutralità del Belgio e del Lussemburgo, avvenuta da parte delle truppe tedesche invadendo questi territori, vinse le ultime esitazioni inglesi, che dichiararono guerra alla Germania (4 Agosto).

I belligeranti del 1914 compresero dunque: da una parte, la Germania e l’Austro-Ungheria; dall’altra, la Serbia, il Montenegro, la Russia, la Francia, il Belgio e l’Inghilterra, a cui si aggiunse il Giappone (23 Agosto), alleato dell’Inghilterra, e che sperava di impadronirsi delle posizioni tedesche in Estremo Oriente. Dichiararono invece la loro neutralità, deludendo gli Imperi centrali, l’Italia (3 Agosto) e la Romania. In particolare l’Italia, legata alla Germania e all’Austro-Ungheria dalla Triplice Alleanza, giustificò il suo atteggiamento con la sua mancata consultazione da parte della Triplice e con il carattere aggressivo della guerra. La Germania riuscì però a ottenere l’alleanza della Turchia: già il 10 Agosto due incrociatori tedeschi, il Goeben e il Breslau , che si trovavano nel Mediterraneo, furono accolti nelle acque territoriali ottomane, anche se  la guerra alla Turchia venne dichiarata dagli Alleati soltanto il 5 Novembre.

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Foto: La nave da guerra “Breslau”

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Foto: La nave da guerra “Goeben”

La situazione internazionale

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Foto: L’assetto delle alleanze in Europa all’inizio della Prima Guerra Mondiale 

Negli ultimi mesi del 1914, i belligeranti si preoccuparono soprattutto dello sviluppo della macchina bellica tralasciando qualsiasi azione di tipo diplomatico o teso alla ricerca di nuove alleanze . Alcuni paesi, d’altra parte, si trovavano alle prese con difficili problemi interni, resi ancora più complicati dalla guerra: l’Inghilterra con l’applicazione dell’Home Rule (1) in Irlanda, e l’Impero turco con l’agitazione delle sue province arabe. Così pure l’inizio della guerra non permise all’opinione pubblica di misurare l’importanza di fatti rilevanti come l’apertura del Canale di Panama(2) in agosto e l’elezione di papa Benedetto XV, successore di Pio X a settembre.

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Foto: La mappa con il canale di Panama

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(1) Nel Regno Unito, l’Home Rule fa riferimento all’autogoverno, alla devoluzione o indipendenza dei suoi Stati costituenti, inizialmente l’Irlanda, poi Scozia e Galles.

(2) Canale artificiale lungo 81,1 km che unisce l’Oceano Atlantico con l’Oceano Pacifico.

                                                                          Lucica Bianchi

LE ORIGINI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

 

 

 

ventidi guerra Giulia

La prima guerra mondiale fu originata dalle complicazioni balcaniche, rese ancor più tragicamente complesse dall’orgoglio nazionalistico. L’imperialismo, per citare le parole di Lloyd George, fece “incespicare” la diplomazia, abbastanza mediocremente rappresentata in quei mesi in Russia, in Germania e soprattutto nell’Impero Austro-Ungarico, dove il conte von Aehrenthal, diplomatico esperto e abile a destreggiarsi, era stato sostituito alla sua morte avvenuta nel 1912, dal conte Leopold von Berchtold, che rasentava la nullità. La guerra dipese innanzitutto dall’antagonismo austro-russo in Oriente, conflitto di cancellerie, più che di popoli, che si disputavano la supremazia nei Balcani. Per di più, il carattere esplosivo di questo antagonismo si trovò a essere terribilmente aggravato dalla immensa diffidenza che Francesi e Tedeschi nutrivano reciprocamente.
L’arciduca Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe ed erede al trono, era fautore del trialismo, e vedeva l’unica possibilità di rinsaldare il trono vacillante con l’inserimento slavo nel sistema austro-ungarico. Congiurati panserbi, vedendo minacciate le loro aspirazioni, decretarono la sua morte. Esecutore materiale dell’attentato, preparato a Belgrado e compiuto a Sarajevo il 28 giugno 1914 fu Gavrilo Princip.
L‘Austria-Ungheria era risoluta a schiacciare la Serbia con una spedizione punitiva, spalleggiata o addirittura promossa dalla Germania, che voleva rimettere a galla un alleato sul punto di andare in sfacelo sotto la minaccia delle passioni nazionalistiche, anche a costo di scatenare un conflitto europeo se non si fosse potuto ovviare in altra maniera al pericolo incombente. Secondo Berlino, il momento sarebbe stato favorevole per una guerra contro la Russia e la Francia, nel caso che le operazioni austro-serbe non si fossero potute contenere.
Il conflitto austro-serbo, scoppiato il 28 luglio, dopo un ultimatum inaccettabile di Vienna, che implicava la rinuncia della Serbia all’indipendenza, si allargò in agosto in un conflitto austro-russo, che mise in movimento le alleanze minate da un antagonismo sempre più esacerbato: la Germania da una parte, la Francia dall’altra. Raymond Poincarè (1860-1934), il presidente della Francia, recatosi a Pietroburgo il 21 luglio 1914 per una visita programmata da lungo tempo, dichiarò che la Francia era fermamente risoluta a far onore “agli impegni imposti dall’alleanza “ nel caso in cui la Germania avesse dichiarato guerra alla Russia. L’Inghilterra, per contro, rifiutava nel modo più assoluto d’impegnarsi per un conflitto balcanico. Lo stesso giorno dell’inizio delle ostilità fra l’Austria e la Serbia, Londra propose di riunire una conferenza a quattro, per tentare la composizione del conflitto mediante l’intervento diplomatico delle potenze non direttamente interessate: Gran Bretagna e Francia, Germania e Italia. Il Berlino oppose un rifiuto. Il 29 luglio, Londra avviò negoziati diretti con Vienna, ma come pegno avrebbe dovuto occupare Belgrado. Il governo britannico, in cui i pareri erano discordi, esitava. Il 31 luglio Poincarè sollecitò a Giorgio V una dichiarazione categorica affinché gli imperi centrali non potessero “speculare sull’astensione dell’Inghilterra.” La risposta del sovrano, del 2 agosto, si limitò a dire che il governo britannico “avrebbe continuato a esaminare liberamente e lealmente, con l’ambasciatore francese Paul Cambon, tutti i problemi che concernevano gli interessi delle due nazioni.” Anche quando la guerra appariva ormai imminente, la Gran Bretagna rifiutava d’impegnarvisi prima di aver tentato ogni possibilità di salvare la pace.
Il cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg (1856-1921) sperava che l’Inghilterra si tenesse fuori da un eventuale conflitto franco-tedesco, e il 29 luglio promise all’ambasciatore britannico a Berlino che la Germania, in caso di vittoria non avrebbe cercato compensi territoriali in Europa a spese della Francia. Sir Edward Grey, pur avendo, il 31 luglio, informato l’ambasciatore della Germania che l’Inghilterra non avrebbe potuto conservare la propria neutralità in un conflitto generale, volle tentare fino all’ultimo di fermare il corso degli eventi. L’invasione del Lussemburgo e l’ultimatum al Belgio finirono per risolvere le ultime incertezze del governo di Londra, il quale il 3 agosto promise l’intervento della flotta inglese nel caso in cui una squadra tedesca avesse attaccato le coste o la marina da guerra francesi. Il 1° agosto Guglielmo II dichiarò guerra alla Russia, il 3°agosto alla Francia. Il Belgio fu invaso. “ La necessità non conosce legge”! proclamò Bethmann-Hollweg. Il 4 agosto l’Inghilterra, dopo aver intimato alla Germania di fermare l’avanzata delle sue truppe in territorio belga, entrò a sua volta nel conflitto.
Nei giorni successivi, la Gran Bretagna e la Francia dichiararono guerra all’Austro-Ungheria e la Serbia dichiarò guerra alla Germania. L’Italia aveva rinnovato il patto della Triplice Alleanza (Italia Germania Austro-Ungheria) nel 1912; tuttavia era legata alla Francia da un accordo segreto che contemplava, in determinate condizioni, la sua neutralità nel caso di una guerra tra Francia e Germania. La neutralità italiana, proclamata il 3°agosto, consentì alla Francia di ritirare la maggior parte delle sue truppe dislocate per la difesa delle Alpi. Lo stesso fece la Romania, sebbene avesse rinnovato anche lei l’alleanza con l’Austria nel 1913, e il 3 agosto 1914 rifiutò di unirsi in guerra alle potenze centrali, nonostante i tentativi di re Carol, tedescofilo e antifrancese, poiché non poteva disinteressarsi dei Romeni della Transilvania e del Banato, le due regioni incluse in territorio austriaco.
La guerra che cominciava, e che sarebbe passata alla storia come “La Grande Guerra” avrebbe dovuto essere molto breve, secondo l’opinione dei “benpensanti”; durò invece oltre quattro anni e fu guerra di movimento, guerra di trincea, guerra dei gas asfissianti, guerra di mezzi corazzati, logorante, “mondiale”.

Lucica Bianchi