CASTELLO DI SAMMEZZANO

7111_594197520692521_7357855451211716828_n

 

Il CASTELLO DI SAMMEZZANO, Leccio,comune di Reggello, a circa trenta chilometri da Firenze. Un capolavoro che nei secoli ha visto il passaggio, al suo interno, di Carlo Magno, della famiglia fiorentina dei Gualtierotti, dei Medici, degli Ximenes d’Aragona e dei Panciatichi. Sembra che il Castello di Sammezzano abbia ospitato al suo interno, nel 780, Carlo Magno accompagnato dalla moglie e dal figlio ma anche il Re Umberto I. Molti secoli più tardi l’edificio passò in mano alla famiglia fiorentina dei Gualtierotti fino al 1488. Successivamente passò tra le proprietà di Bindo Altoviti e tra quelle di Giovanni de’ Medici. Nel 1564 il Granduca Cosimo I creò la cosidetta bandita di Sammezzano, un vasto territorio corrispondente a gran parte dell’attuale territorio del comune di Reggello, all’interno del quale era proibito pescare o cacciare senza permessi. Cosimo I lo donò poi al figlio Ferdinando, futuro Granduca. Nel 1605 il castello di Sammezzano fu acquistato dagli Ximenes d’Aragona e passò poi in eredità nel 1816 ai Panciatichi. L’aspetto attuale del Castello, lo si deve a Ferdinando Panciatichi Ximenes d’Aragona, nella duplice veste di committente ed architetto che, dal 1853 donò all’edificio lo stile moresco. Infatti la facciata ricorda molto il Taj Mahal e all’interno, le sale decorate da stucchi, sono ispirate all’Alhambra di Granada. Anche la Casa Guardia situata nel parco di Sammezzano, è stata progettata sempre dal Panciatichi mantenendo lo stile del castello.All’interno del castello sono presenti 365 sale, una per ogni giorno dell’anno. Tra le sale troviamo la Sala Bianca, la Galleria fra la Sala degli Specchi e l’ottagono del Fumoir, la Sala dei Pavoni, dei Gigli, delle Stalattiti, dei Bacili spagnoli, degli Amanti e anche una piccola cappella. In questi spazi, concatenati e ampi, si nascondono nicchie, angoli e aperture. E ancora finestre, colonne e percorsi labirintici. Ma anche capitelli, archi, volte a ventaglio e cupole. Ogni stanza è diversa dall’altra, nessuna si ripete e mostra la propria originalità.

 

 

 

Lucica Bianchi

LA DONNA DI SCARLOTTA

 

988845_600977250014548_4693256140232792921_n

John Atkinson Grimshaw, Elaine,1877,collezione privata

“The lady of Shalott” è un poema romantico scritto dal poeta inglese Alfred Tennyson. Come altri poemi iniziali dell’autore – Sir Lancelot and Queen Guinevere e Galahad – questo rielabora il soggetto arturiano basato su fonti medievali e introduce alcuni temi che si realizzeranno con maggiore compiutezza in Idilli del re dove viene raccontata la leggenda di Elaine.Il poema, del quale Tennyson scrisse due versioni, una nel 1833, composta di venti strofe, e una nel 1842 di diciannove strofe, è basato probabilmente su una storia di Thomas Malory: La Morte d’Arthur, riguardante Elaine di Astolat, una donna che si innamora di Lancillotto, ma muore di dolore non potendo essere corrisposta. In ogni caso lo stesso Tennyson affermò che il poema era basato su una novella italiana del tredicesimo secolo intitolata Donna di Scalotta, incentrata sulla morte della ragazza e sulla sua accettazione a Camelot piuttosto che sul suo isolamento nella torre e sulla sua decisione di partecipare al mondo esterno, due elementi non menzionati nella Donna di Scalotta.
La donna del poema di Tennyson vive in una torre sull’isola di Shalott, in un fiume vicino a Camelot. È vittima di una maledizione: è destinata a morire non appena avrà guardato verso Camelot. Così guarda all’esterno attraverso uno specchio, e tesse ciò che vede in una tela magica. Sebbene sia tentata dall’osservare la vita reale che c’è fuori dalla sua finestra, sa che se lo facesse andrebbe incontro alla fine della propria vita. Un giorno, tuttavia, vedendo Lancillotto attraverso il suo specchio, capisce come non era mai successo prima quanto è stanca della sua esistenza, destinata com’è a guardare il mondo solamente attraverso ombre e riflessi.La Dama di Shalott soccombe così alla tentazione e guarda direttamente fuori mentre Lancillotto cavalca sotto la torre cantando, e i suoi occhi si appoggiano su Camelot.A questo punto lascia la torre, trova una barca sopra la quale scrive il suo nome, e si lascia trasportare verso Camelot, lungo il fiume, cantando una canzone triste e spegnendosi cantando.

 

Lucica Bianchi

 

LA ZATTERA DELLA MEDUSA

1517563_603965536382386_4168688415445020030_n

THEODORE GERICAULT, LA ZATTERA DELLA MEDUSA, 1819, Museo del Louvre

Completato quando l’artista aveva soltanto 27 anni, il dipinto rappresenta un momento degli avvenimenti successivi al naufragio della fregata francese Méduse, avvenuto il 5 luglio 1816 davanti alle coste dell’attuale Mauritania, a causa di negligenze e decisioni affrettate da parte del comandante Hugues Duroy de Chaumareys che, oltre a non navigare da circa venticinque anni, non aveva una buona conoscenza di quelle acque cosa che portò la fregata ad incagliarsi sul fondale sabbioso. Oltre 250 persone si salvarono grazie alle scialuppe, le rimanenti 147, la ciurma, dovettero essere imbarcate su una zattera di fortuna, lunga 20 metri e larga 7, e di queste soltanto 13 fecero ritorno a casa. L’evento generò uno scandalo internazionale, provocando la caduta del governo. L’opinione pubblica si schierò anche contro la monarchia francese, in particolare contro il re Luigi XVIII, reo di aver nominato a quell’incarico il capitano. Géricault scelse accuratamente il soggetto del suo primo grande lavoro, una tragedia che stava avendo risonanza internazionale, per alimentare l’interesse di un pubblico quanto più vasto possibile e per lanciare la sua carriera. Scrupoloso e attento ai dettagli, l’artista si sottopose ad un intenso periodo di studio sul corpo umano e sulla luce, producendo moltissimi disegni preparatori, intervistando due dei sopravvissuti e costruendo un modellino del naufragio. Come aveva previsto, il dipinto una volta esposto al Salon di Parigi del 1819 generò diverse controversie, attirando in misura uguale commenti positivi e feroci condanne. Solo in seguito venne rivalutato dalla critica, che lo riconobbe come uno dei lavori destinati ad incidere di più sulle tendenze romantiche all’interno della pittura francese.Acquistata dal Louvre subito dopo la prematura morte dell’autore a trentatré anni, La zattera della Medusa, nelle sue scelte formali (la teatralità e l’intesa emotività della scena) e di contenuto (l’episodio vicino ai contemporanei dell’autore) rappresenta uno spartiacque e un punto di rottura con l’allora preponderante scuola neoclassica, tesa al perseguimento dell’ideale di emotività contenuta e catalizzata dall’arte greca, e un’icona del Romanticismo, arrivando a influenzare i lavori di artisti come Eugène Delacroix, William Turner, Gustave Courbet e Édouard Manet.

Graffiti , arte e disperazione.

nopenguinsincalifornia

suburban leftovers
Qual è il primo cartello stradale dove mettereste per rabbia il vostro nome pasticciando il cartello se in un paese non vi volessero ? Forse un divieto di accesso ?

keith2
Keith Haring , grande writer e pittore poi, morto giovanissimo

keith-haring-art

Contemporary Art Auction
Jean Michel Basquiat , grande writer e pittore, morto giovanissimo

DSC_3838

graffiti

DSC_3806

graffiti

DSC_5759-001

suburban leftovers on an ancient villa

DSC_3807

suburban leftovers

Abito in provincia di Milano in uno di quei paesotti della cintura suburbana che hanno visto negli anni 60 esplodere industria ed edilizia selvaggia e aumentare con l’immigrazione prima veneta e bergamasca e poi meridionale la popolazione di  più dieci volte in una cinquantina d’anni.

I segni del degrado e della speculazione edilizia sono evidentissimi, molto più che in comuni relativamente più lontani dalla città .

Adesso si è aggiunta anche l’immigrazione straniera , ancora più disperata di quella interna e la crisi economica picchia duro su tutti i ceti meno abbienti , soprattutto sui giovani.

Nei primi anni 70 ebbi…

View original post 510 altre parole

LA DAMA CON L’ERMELLINO

Il sonetto di Bernardo Bellincioni
“Sopra il ritratto di Madonna Cecilia, qual fece Leonardo”.

10670027_10152507282539807_9014244428804627304_n

Di che ti adiri? A chi invidia hai Natura
Al Vinci che ha ritratto una tua stella:
Cecilia! sì bellissima oggi è quella
Che a suoi begli occhi el sol par ombra oscura.
L’onore è tuo, sebben con sua pittura
La fa che par che ascolti e non favella:
Pensa quanto sarà più viva e bella,
Più a te fia gloria in ogni età futura.
Ringraziar dunque Ludovico or puoi
E l’ingegno e la man di Leonardo,
Che a’ posteri di te voglia far parte.
Chi lei vedrà così, benché sia tardo, –
Vederla viva, dirà: Basti a noi
Comprender or quel eh’ è natura et arte.
(1493)

L’opera è uno dei dipinti simbolo dello straordinario livello artistico raggiunto da Leonardo durante il suo primo soggiorno milanese, tra il 1482 e il 1499. L’opera, della quale si ignorano le circostanze della commissione, viene di solito datata a poco dopo il 1488, quando Ludovico il Moro ricevette il prestigioso titolo onorifico di cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino dal re di Napoli.L’identificazione con la giovane amante del Moro,Cecilia Gallerani ,si basa sul sottile rimando che rappresenterebbe, ancora una volta, l’animale: l’ermellino infatti, oltre che simbolo di purezza e di incorruttibilità (annotava lo stesso Leonardo che “prima si lascia pigliare dai cacciatori che voler fuggire nell’infangata tana, per non maculare la sua gentilezza”, cioè il mantello bianco), si chiama in greco “galé”, che alluderebbe al cognome della fanciulla.La scritta apocrifa (“LA BELE FERONIERE / LEONARD D’AWINCI”) ha anche fatto ipotizzare che l’opera raffiguri Madame Ferron, amante di Francesco I di Francia, ipotesi oggi superata.Esiste poi un’interpretazione, poco seguita ma interessante per capire la molteplicità di suggestioni che ha generato il ritratto, secondo cui l’opera sarebbe una memoria della congiura contro Galeazzo Maria Sforza: la donna effigiata sarebbe sua figlia Caterina Sforza, con la collana di perle nere al collo della dama che alludono al lutto, e l’ermellino un richiamo allo stemma araldico di Giovanni Andrea da Lampugnano, sicario e uccisore nel 1476 dello Sforza.

A quanto se ne sa, è oggi l’unico  dipinto di Leonardo  di proprietà privata; appartiene infatti alla collezione iniziata due secoli fa dalla principessa Izabela Fleming Czartoryska, raffinata intellettuale protettrice delle belle arti, nonché fervente patriota polacca, e ora in possesso del  principe Adam Karol, suo discendente. La preziosa tavola ha seguito nei due secoli scorsi le vicissitudini politiche della Polonia,  viaggiando continuamente da una città all’altra per tutta l’Europa alla ricerca di luoghi sicuri. Nel 1940 venne nascosta nei sotterranei del Castello, insieme ad altri quadri della collezione, ma i nazisti la ritrovarono poco prima che i l’Armata Rossa rioccupasse la Polonia, e il governatore tedesco di Cracovia, Hans Frank (poi processato a Norimberga per crimini di guerra e condannato a morte per impiccagione), fece trasferire tutta la collezione in Slesia, dove fu recuperata dagli Alleati, che la riconsegnarono al legittimo proprietario. La tavola, prima dell’attuale collocazione,  era esposta  al  Czartoryski  Muzeum, sempre a Cracovia. La dama con l’ermellino, insieme al Ritratto di musico dell’Ambrosiana e alla cosiddetta Belle Ferronière del Louvre, testimonia il notevole salto qualitativo, stilistico e “scientifico” che caratterizza il primo periodo milanese dell’attività artistica di Leonardo, che culminerà con il Cenacolo del refettorio di  Santa Maria Delle Grazie.

Lucica Bianchi

L’UMANITA’ DI CRISTO NELL’ESTETICA RINASCIMENTALE

http://www.ambrosiana.eu/…/Ar…/20141119_III-Lettura_Arte.pdf

 

Immagine 1

Mercoledì 26 novembre giunge il terzo appuntamento con le Letture d’arte presso la Pinacoteca Ambrosiana.
Il tema dell’incontro vede il Rinascimento vestirsi di raffinati contenuti cristologici, indagati dalla storica dell’arte Federica Spadotto nella prospettiva del confronto.
I codici estetici di questo fondamentale periodo verranno messi in relazione con gli omologhi medioevali ed i futuri esiti controriformisti, in una prospettiva d’indagine iconologica densa di fascino e significati « non sospetti ».
L’ampio excursus attraverso i capolavori di Bramantino, Bernardino Luini e Tiziano conservati nella Pinacoteca, si accompagnerà al confronto con esemplari nordici contemporanei, nello spirito di un redivivo classicismo pervaso di cristianità.
Presiede Mons. Franco Buzzi, Prefetto dell’Ambrosiana.
http://www.ambrosiana.eu/cms/letture_d_arte-2317.html
Segreteria di progetto « Letture d’arte »
(dr. Fabrizio Dassie)
Informazioni:
letturearteambrosiana@gmail.com

 

2.-Madonna-in-Trono

BRAMANTINO, Madonna col Bambino, Santi Ambrogio e Michele, Pinacoteca Ambrosiana

 

 

SANTUARIO DI TIRANO

10628014_570196976425909_6712696300614207656_n

“BENE AVRAI”

Il Santuario di Tirano sorge proprio nel punto dove, il 29 settembre 1504, festa di S. Michele, la Vergine Maria apparve al beato Mario Homodei, salutandolo con le parole: “Bene avrai” e chiedendo espressamente la costruzione di un tempio in suo onore con la promessa di salute spirituale e corporale a chi l’avesse invocata. L’immediato consenso creatosi intorno all’apparizione indusse le autorità di Tirano a chiedere alla Curia di Como l’autorizzazione per la costruzione del santuario. Questa fu subito concessa. Infatti il 10 ottobre 1504, undici giorni dopo l’evento, Guglielmo Cittadini, vicario del vescovo di Como, cardinale Antonio Trivulzio, autorizzava, con il permesso di celebrare la messa, la costruzione di una basilicam seu ecclesiam in onore della Vergine, sul luogo dell’Apparizione, dove già era stata eretta con frenetico zelo una cappella. Neppure sei mesi dopo l’apparizione, esattamente il 25 marzo 1505, fu posta la prima pietra. Presunti architetti i fratelli Rodari, Tommaso, Giacomo, Donato e Bernardino, originari di Maroggia sul lago di Lugano, nel Canton Ticino della Svizzera. Nel 1513 la chiesa era già officiata, anche se incompleta. Numerosi maestri d’arte, nei secoli successivi, gli diedero l’attuale bellezza e ricchezza artistica. La veridicità dell’apparizione, supportata dall’immediato verificarsi di miracoli, indusse la gente a sollecitare l’edificazione del tempio e rappresentò un’occasione per manifestare più apertamente la religiosità e la profonda devozione mariana di quella terra. La gente contadina era per lo più abituata a vivere l’esperienza religiosa anche negli episodi della vita quotidiana: è facile capire come spontaneamente corresse a quel luogo benedetto e poi alla cappella per i problemi di tutti i giorni, e il compiersi dei miracoli non poteva che accrescere questo fenomeno. Il santuario di Tirano è stato un punto di riferimento importante per i valligiani, soprattutto durante l’occupazione e le guerre, e la devozione alla Madonna come protettrice della valle e simbolo della sua libertà si è sicuramente andata consolidando nel tempo. Ora come allora il santuario è meta di numerosi pellegrini e turisti che, come recita la formella in marmo (1534) apposta sopra il portale principale del tempio, affidano alla Vergine Maria con cuore sincero le proprie preghiere. Qui, in questo santuario, ogni giorno accorrono i devoti per deporre ai piedi della Vergine gioie, speranze e sofferenze e per avere salute e consolazione.

VIDEO DEL SANTUARIO

Notizie storiche. Le prime notizie storiche documentate risalgono al secolo XI. Un documento del 1073 parla del castello del Dosso, costruito dalla famiglia Omodei; in seguito Tirano si costituisce in Comune, quindi è sottoposto alla Signoria dei Capitanei, dei Visconti e degli Sforza di Milano. Lodovico il Moro fortifica Tirano con una nuova cerchia di mura, con tre porte e con il nuovo castello di Santa Maria. Proprio in quel periodo, politicamente e religiosamente tanto agitato, avviene l’apparizione prodigiosa della Madonna che, con la costruzione del Santuario, rende celebre la città e l’intera regione.

Don Simone Cabassi, parroco di Tirano, l’8 settembre 1601 ne descrive per primo la storia:

Il giorno di San Michele29 settembre 1504, un contadino “di santa vita e religiosi costumi”, di nome Mario, della nobile famiglia degli Omodei, esce di casa prima dello spuntar del sole, per andare nella vigna a raccogliere alcuni pochi frutti, quando improvvisamente, ha l’impressione che le cime dei monti siano illuminate da una nuova strana luce.

Mentre incerto si domanda da dove provenga tanto chiarore, si sente alzare da terra e trasportare in un piccolo orticello, coltivato in quella zona solitaria. Deposto a terra, gli si presenta davanti agli occhi una fanciulla, dall’apparente età di 14 anni, o poco più, con una veste candidissima, dalla quale Mario comprende provenire la strana luce che lo avvolge. La fanciulla, circondata da una moltitudine di angeli, gli rivolge la parola, chiamandolo per nome «Mario! Mario!». Il buon Mario, rincuorato, risponde «Bene?». «Bene avrai!» riprende la fanciulla.

«Vai a Tirano, e chiedi a quella gente di costruire, in questo luogo, una chiesa per il culto del Signore ed in onore del mio santo Nome».

A Mario, preoccupato per l’incarico ricevuto, che teme di non essere creduto dai compaesani, la fanciulla assicura che, se non crederanno, la pestilenza che al presente affligge il bestiame, si estenderà anche alla popolazione. Come segno dell’autenticità delle sue parole, gli annuncia la guarigione del fratello Benedetto che ha appena lasciato infermo. Terminato il colloquio, la visione scompare lasciando un’intensa fragranza di soavi profumi.  Fattosi giorno, Mario, colmo di meraviglia, si precipita nella chiesa parrocchiale dedicata a San Martino,nella quale i fedeli stanno assistendo alla celebrazione della prima Messa, ed annuncia loro a gran voce quanto la Madonna gli ha comunicato. Dopo un primo iniziale momento di incredulità e di incertezza, i fedeli corrono alla casa di Mario, dove constatano la guarigione del fratello Benedetto che ormai credevano morto, e che invece li accoglie, in piedi, senza febbre, con solo una leggera debolezza dovuta alla lunga malattia.

Il 25 marzo del 1505 vengono gettate le fondamenta del Santuario di Nostra Signora di Tirano, su un terreno appartenente a un capitano degli Sforza. Molte furono le grazie ricevute dalla popolazione, tanto che nella sacrestia è conservato un “libro dei miracoli” che riferisce con minuziosi particolari i prodigi avvenuti nel periodo 1504-1519.

Ma proprio in questo periodo, anche i contrasti religiosi coi Grigioni si vanno acuendo e conducono alla sanguinosa rivolta del 1620, che sfocia, la mattina del 19 luglio, nella strage dei riformati che si estende poi per tutta la Valle. La mattina del 11 settembre gli Svizzeri prendono d’assalto Tirano. Ma i Valtellinesi, sostenuto il primo urto, escono in campo aperto e la battaglia si svolge con sorti alterne; alla fine gli Svizzeri sono sopraffatti e lasciano sul campo numerosi morti, tra i quali gli stessi comandanti. Gli storici riferiscono che in quel giorno la statua di bronzo di San Michele arcangelo, posta sulla cupola del Santuario, fu vista roteare su se stessa e brandire la spada di fuoco contro il campo avversario.

 

 

Lucica Bianchi

LA SALIERA DI FRANCESCO I

 

10698631_596636553781951_8592643468143360019_n

Benvenuto Cellini,Saliera di Francesco I,1540-1543,ebano, oro e smalto,Kunsthistorisches Museum, Vienna

LA SALIERA DI FRANCESCO I è un’opera scultorea in ebano, oro e smalto, realizzata da Benvenuto Cellini al tempo del suo soggiorno in Francia, tra il 1540 e il 1543. Di piccolo formato (è alta 26 cm), è considerato universalmente il capolavoro d’oreficeria dell’artista.In Francia, Cellini trascorse uno dei momenti più prolifici e sereni della sua esistenza. Rassicurato da una presenza così colta e disponibile come quella di re Francesco I,sempre pronto a fornire materiali preziosi come il bronzo o l’argento per accontentare i bisogni artistici del nuovo arrivato, Cellini era consapevole di vivere un momento che mai avrebbe potuto ripetersi.Il progetto iniziale della saliera era tuttavia di parecchi anni antecedente al soggiorno francese dell’artista. Cellini ricevette infatti una commissione simile dal cardinale Ippolito d’Este che aveva richiesto allo scultore una saliera “che avrebbe voluto uscir dall’ordinario di quei che avean fatto saliere”. Per indirizzarlo sul tema, il cardinale avrebbe interpellato due colti letterati come Luigi Alamanni e Gabriele Cesano affinché potessero consigliargli l’iconografia più opportuna.Benvenuto, sebbene leggermente influenzato da alcuni suggerimenti del Cesano, finì col progettare l’opera interamente da solo, ribadendo il concetto di “fare”, tipico degli artisti, contrapposto all’astratto “dire” dei letterati. L’artista eseguì quindi un modello in cera della saliera, purtroppo a noi non pervenuto, che avrebbe suscitato la meraviglia del cardinale e dei suoi consiglieri. Ippolito, stupito dalla complessità dell’invenzione, rifiutò di mettere in pratica un simile progetto, giudicandolo troppo costoso e meritevole solo di un committente come Francesco I.

 

 

 

(notizie tratte da articoli di giornali dell’epoca)

“Il 2 maggio 2003 il Kunsthistorisches Museum di Vienna subì un furto clamoroso: durante la notte i ladri riuscirono a raggiungere dal tetto, attraverso un’impalcatura, il primo piano dell’edificio, a entrare nelle sale eludendo il sistema di allarme e a trafugare indisturbati una fra le opere più importanti lì custodite: la Saliera d’oro di Benvenuto Cellini.
Il prezioso oggetto, progettato nel 1540 per il cardinale Ippolito d’ Este ma realizzato solo tre anni dopo alla corte del re Francesco I di Francia, è considerato uno dei capolavori della scultura rinascimentale e l’unica oreficeria del maestro italiano giunta fino ai nostri giorni.
A causa della notorietà della scultura e del fatto che altre importanti opere d’arte collocate nella stessa sala erano state ignorate dagli intrusi si pensò immediatamente a un furto su commissione, ideato da un collezionista senza scrupoli, oppure organizzato da una banda di malviventi per estorcere denaro; in effetti qualche mese dopo i mezzi d’informazione diffusero la notizia dell’arrivo di una lettera contenente una richiesta di riscatto unita a polvere d’oro grattata dal capolavoro.
E’ però passato molto tempo dal misterioso furto e nel museo la teca che dovrebbe accogliere la Saliera è ancora vuota.”

20 gennaio 2006 “E’ stato ritrovato un pezzo della famosa saliera.Si tratta di un tridente mobile che decora l’opera che quindi, secondo gli esperti, potrebbe non esser stata danneggiata.In una conferenza stampa il responsabile delle indagini Michael Braunsperger ha spiegato che esiste da ottobre un contatto con gli autori del furto, contatto tenuto finora segreto.I ladri hanno chiesto un grosso riscatto : 10 milioni di euro.Proprio in occasione del “contatto” era stato fatto ritrovare il pezzo dell’opera : era abbandonato in un sacchetto per surgelati dietro un pannello elettrico in un parco di Vienna.Ci sarebbe un identikit di un uomo coinvolto nella vicenda.”

22 gennaio 2006“Ritrovata la saliera.E’ stata recuperata ieri dalla polizia viennese la saliera d’oro di Benvenuto Cellini. La Polizia ha rinvenuto la saliera in una scatola sepolta in un bosco vicino a Zwettl, nei dintorni di Vienna.E’ stata fermata una persona sospettata del furto.Il valore stimato della saliera è di 50 milioni di euro, il riscatto richiesto era stato di 10 milioni di euro.”

 

Lucica Bianchi

IN BICI DALLA VALTELLINA AL MAR CASPIO

 

Viaggi-novembre-2014

 

TALAMONA 13 novembre 2014 riapre la serie dei viaggi in biblioteca

viaggi-in-biblioteca-T-QIpB9I

 

RESOCONTO DI DUE VIAGGI AVVENTUROSI, INNO ALLA LIBERTA’ E AL PIACERE DELLA SCOPERTA

Dopo il grande successo della prima edizione e dopo molte traversie e disguidi nella passata stagione, rieccoci finalmente qui questa sera alla casa Uboldi a partire dalle ore 20.45 con la seconda edizione dei viaggi in biblioteca, uno degli eventi che ha contribuito maggiormente a far avvicinare il pubblico alla biblioteca e a renderla viva. Ad aprire i battenti presentando il primo viaggio della nuova edizione sono stati Fabio Fanoni e Andrea Caocinati che hanno voluto dare un assaggio delle loro traversie al pubblico attraverso uno sketch. Hanno finto di essere in un bar e di non riuscire a farsi capire dalla cameriera. È a questo punto che è entrata in scena Simona Duca ex assessore alla cultura e da sempre presentatrice degli eventi della biblioteca, che anche questa sera ha introdotto brevemente gli ospiti lasciandogli poi immediatamente tutto lo spazio necessario. In realtà questa sera Fabio e Andrea hanno presentato due viaggi o meglio uno stesso viaggio in due tempi. La prima parte di questo viaggio risale al 2010 ed è stata compiuta da Fabio in compagnia di Emanuele Rusconi, da Sondrio ad Istanbul, mentre la parte effettuata con Andrea ha avuto luogo lo scorso anno e da Istanbul si è arrivati sino in Azerbaijan. Andrea e Fabio hanno definito il loro viaggio cicloturistico sottolineando la parte importante che ha avuto la componente avventurosa e l’utilizzo della bicicletta, un tipo di viaggio che richiede una certa preparazione atletica, ma anche geografica dei luoghi e dei percorsi da svolgere nonché naturalmente un grande spirito di adattamento. Un viaggio che ricalca in parte quello effettuato da Rumiz Rigatti e Altan nel 2000. Un viaggio effettuato seguendo strade poco trafficate e percorsi fuori mano. Del resto anche la meta è di gran lunga molto al di fuori del solito circuito turistico. L’Azerbaijan è una repubblica caucasica affacciata sul Mar Caspio (che poi sarebbe un lago, il più grande del Mondo ed è chiamato mare appunto solo in virtù della sua estensione). Un viaggio che parte da Piazza Garibaldi a Sondrio e arriva all’Aprica seguendo la direzione di Carona  per prendere poi la decauville che da Caprinale porta all’imbocco della val Belviso. Un viaggio dove le avventure gli imprevisti e la componente rocambolesca si fanno sentire fin da subito. I nostri eroi si sono infatti persi nei boschi di quella zona, ma hanno anche avuto l’opportunità di fare qualche incontro interessante. A Edolo hanno incontrato Jan, un altro ciclista avventuroso in giro per l’Europa da un paio di mesi. Giunti in Veneto hanno costeggiato Bassano del Grappa, un borgo sulle rive del Brenta che conserva parecchie memorie della Grande Guerra e giacché c’erano hanno pensato di fare una piccola deviazione a Venezia dopo aver costeggiato il Brenta fino a Piovego, nei pressi di Padova. Peccato che Venezia non è una città per ciclisti: canali e scalini senza nemmeno una rampa apposita, turisti incuriositi e divertiti, ma almeno la cena rimediata a base di patate. “ho capito a quel punto perché un ragazzo che avevamo incontrato pochi chilometri più indietro quando gli abbiamo raccontato il nostro viaggio e gli abbiamo detto che volevamo andare in direzione di Venezia si è messo a ridere” ha detto Fabio che poi ha continuato il racconto “L’indomani proseguiamo di nuovo verso Est, cercando il più possibile di evitare le strade secondarie, anche se non sempre ci siamo riusciti”. Verso est i nostri giungono ad Aquileia città romana che ebbe un pessimo incontro ravvicinato con Attila, re degli Unni e flagello di Dio e qui in questa città ricca di storia, incontrano Tonio “cicloturista solitario, partito dalla Spagna e diretto a Istanbul. Lui aveva in programma di seguire la costa fino a Dubrovnik e allora ci siamo dati appuntamento a Istanbul. Siamo arrivati un giorno prima di lui. Era così contento del suo carrellino che lo chiamava “el puta de carro”. Gli ultimi chilometri in territorio italiano ci portano a Trieste, dove salutiamo definitivamente il mar Mediterraneo” ed anche l’Italia perché a questo punto i nostri fanno il loro ingresso in Slovenia. “Per chi non la conosce, la Slovenia può essere considerata la Svizzera della penisola Balcanica: ordine,  pulizia, splendido paesaggio naturale, rispetto per l’ambiente, rispetto per i ciclisti, traffico praticamente inesistente. In altre parole: il paradiso della bicicletta. Da visitare”. Peccato che a questo punto i due ciclisti si trovano a dover affrontare un altro intoppo “Guasto al portapacchi e riparazione di fortuna con fil di ferro e fascette, in attesa di trovare un negozio per comprarne uno nuovo”. Ma questo comunque non ha precluso una visita in questi luoghi tanto splendidi. Tra le altre cose “Le tipiche caserme dei vigili del fuoco, riconoscibili, tra l’altro , per l’affresco di San Floriano, il loro santo protettore. La Slovenia è piccola e in meno di 3 giorni è già finita. Entriamo nella più caotica Croazia e in pochi chilometri siamo a Zagabria, la capitale. Abbandoniamo la città seguendo la Sava, che poi attraversiamo con un rudimentale ma efficiente traghetto di Leonardo. Strade deserte per via della festa nazionale. Poche pendenze e vento a favore ci permettono di fare 180 chilometri senza fatica”.  La Croazia appare come una terra poco urbanizzata. In particolar modo una regione, la Slavonia è fatta esclusivamente di villaggi da strada con le case disposte sui due lati senza un centro. “Nella parte più orientale” ha raccontato ancora Fabio “dove la Croazia si incunea tra Serbia e Bosnia, troviamo le segnalazioni dei campi minati. La guida turistica sconsiglia non solo il campeggio libero ma anche di uscire dalla strada. Noi però abbiamo pensato che questo luogo poteva essere ragionevolmente sicuro. Vukovar porta ancora i segni della guerra. La torre dell’acquedotto è rimasta li a testimoniare gli 87 giorni di assedio, tra agosto e novembre ’91. La città è tornata a far parte della Croazia soltanto nel ’98”. Dopo la Croazia, il viaggio è proseguito in Serbia “Ecco il Danubio, uno dei fiumi che più facilmente capita di incontrare girovagando per l’Europa.  Partendo dalla Valtellina, qualunque direzione si prenda compresa fra Nord e Sud-Est, prima o poi si incontra il Danubio. A Novi Sad ci concediamo un giorno di pausa. Abbandoniamo le bici in ostello e col treno raggiungiamo Belgrado. La città ci appare squallida, sporca e decadente. Non c’è nulla di interessante da visitare, a parte i musei che però quel giorno, essendo lunedì, erano tutti chiusi. Qui il Danubio incontra una nostra vecchia conoscenza: la Sava”. Ed ecco come a questo punto il racconto avventuroso dei due giovani si è arricchito anche di informazioni pratiche a beneficio di eventuali emuli “Un modo alternativo per avvicinarsi alla Turchia è quello di seguire la ciclabile del Danubio, che non esiste soltanto nel tratto Passau – Vienna, il più famoso, ma sembra essere ben segnalata in tutto il suo tragitto. Questo presenta almeno tre vantaggi: disponibilità di una cartografia dettagliata, facilità di orientamento e presenza di campeggi. E uno svantaggio: le zanzare. Le fontane non sono molto diffuse e, quando le si trovano, può capitare di dover aspettare il proprio turno”. Non tutte le città della Serbia sono deludenti come la sua capitale “A Niš, città molto attiva della Serbia meridionale, si sta svolgendo il Nišville Jazz Festival, un’importante manifestazione jazzistica che attira artisti da tutto il mondo. Non passa inosservata l’assonanza con la città americana di Nashville, uno dei centri più importanti per la musica. Sono andati avanti a suonare tutta la notte”. Gli ultimi chilometri in Serbia sono caratterizzati da lunghi tratti in salita “ma le pendenze non sono quelle indicate dal cartello. Saliamo al passo Ploca, scendiamo a Bela Palanka, risaliamo al passo Kruška e torniamo di nuovo in pianura, a Pirot. Caldo pazzesco, si inizia a sentire il Sud. Si sta bene in quota, se così si può dire perché non si raggiungono i 700 metri, e davanti a una fontana non si rinuncia a una sosta”. A questo punto si tratta davvero di compiere gli ultimi chilometri in Serbia e già si cominciano a vedere le prime indicazioni della meta. Intanto dalla Serbia i nostri eroi giungono in Bulgaria. Prosegue il racconto di Fabio “Dopo la frontiera abbandoniamo la strada principale e proseguiamo verso la capitale su una strada di pavé. Mentre in Serbia il cirillico sta scomparendo, qui è ancora molto diffuso tanto che anche le insegne commerciali si sono piegate a questa calligrafia. C’è anche una piazza dedicata a Garibaldi. E’ stata inaugurata  il 13 giugno 2010 in occasione dell’allora primo ministro (che non voglio citare altrimenti mi viene la dermatite…) Le pianure della Slavonia sono ormai un lontano ricordo. Qui dominano le salite, che superano i 1300 metri, e il caldo. Bisogna alzarsi sempre più presto alla mattina. Di notte in città si fa fatica a dormire. Meglio accamparsi con la tenda in mezzo alla campagna, qui non dice niente nessuno. I carretti a cavallo sono molto più diffusi rispetto al resto della penisola balcanica e la ferrovia ha vinto il diritto di passaggio sulla strada. Ci fermiamo per uno spuntino davanti a una casa e veniamo accolti dai sui abitanti, che ci riempiono le borse di verdura”. A questo punto l’arrivo a Plovdiv, una delle città più antiche della Bulgaria. “Non mancano però gli esempi di pessimo abbinamento tra il nuovo e il moderno. Qui abbiamo uno stadio del II secolo dopo cristo con al centro un edificio indefinibile. Finalmente mi decido a cambiare il portapacchi. Il fil di ferro non teneva più”. Da qui cominciano gli ultimi chilometri in Bulgaria “Poco prima del confine, abbandoniamo la strada principale per Edirne, che entra direttamente in Turchia, e facciamo una piccola deviazione in Grecia. 40 chilometri su una strada a 4 corsie completamente deserta. In pratica un’enorme pista ciclabile. L’ingresso in Turchia segna l’ingresso in  un’altra religione. Seppur diffuse anche in Bulgaria, le moschee qui diventano l’architettura dominante.  Per chi viaggia in bicicletta, sono la garanzia di trovare acqua in abbondanza. L’interno è piuttosto spoglio: non ci sono panche, non ci sono altari, non ci sono nemmeno quadri o affreschi che raffigurano persone. Solo tappeti e scritte decorative. Su una cosa sono precisissimi i turchi: l’orario delle preghiere. Variano di giorno in giorno e vengono stabiliti in base alla posizione geografica (latitudine e longitudine) della moschea. Questo perché fanno riferimento alla posizione del sole. Come vedete, si inizia anche molto presto al mattino, giusto per rovinare il sonno ai cicloturisti che alloggiano nei paraggi. Per essere sicuri che nessuno dorma, fanno scoppiare un grosso petardo e passano per le strade con dei tamburi. Poi arriva il canto del muezzin. Qui iniziano i problemi. Io capisco che il corano vieti ai propri fedeli il consumo di alcol, ma se io non sono mussulmano non posso bermi una birra?  Qui ho dovuto litigare per averne una. Il ristoratore è andato a comprarla in un altro negozio perché non era nel menu. Però mi ha imposto di tenerla nascosta nel sacchetto di carta, come se non si vedesse che si tratta di una birra. Emanuele si è subito adeguato bevendo Ayran. Vicino a Edirne c’è un antico complesso ospedaliero costruito dal sultano Bayezit II nel 1400. Comprendeva una moschea, l’università di medicina e la zona per i malati psichiatrici, che venivano curati con la musica. Ogni patologia aveva la sua. Oggi ospita il museo della salute. Poiché siamo in anticipo sulla tabella di marcia decidiamo di fare una deviazione verso Est per raggiungere il mar Nero e costeggiarlo fino al Bosforo. Eccoci arrivati al mare. Qui siamo a Kiköy, piccolo villaggio di pescatori e meta di turisti locali. Mentre due gatti fanno la guardia alle biciclette… ci concediamo  un pranzo tipico turco sulla terrazza panoramica di un ristorantino affacciato sul mare. Poi cerchiamo di imparare le regole della Tavla (da noi chiamato backgammon), il gioco più diffuso in Turchia. Il barista ci affianca due clienti, che ci suggeriscono le mosse. In realtà sono loro a giocare, noi ci limitiamo a muovere le pedine e lanciare i dadi. Riprendiamo il viaggio ma ci accorgiamo che non è possibile seguire la costa. Le strade finiscono all’improvviso. La nostra mappa al 700 mila di venti anni fa non è attendibile. Ripieghiamo verso sud e arriviamo a Catalca, meta ciclistica di questo viaggio. Da qui a Istanbul proseguiamo in treno, risparmiandoci una trentina di chilometri di traffico selvaggio. Molte persone sconsigliano di entrare a Istanbul in bicicletta. Si perde un po’ il fascino dell’arrivo in bici ma se ne guadagna in salute. La foto davanti al ponte di Galata la facciamo lo stesso”Ed è a questo punto che comincia la seconda parte del viaggio, quella compiuta lo scorso anno con Andrea da Istanbul all’Azerbaijan.Durante il viaggio vediamo numerose piantagioni di nocciole. Mi sono informato: L’80% della produzione mondiale di nocciole proviene dalla Turchia. Il 30% della produzione turca viene acquistata dalla Ferrero. Fatti due conti: almeno una nocciola su quattro, nel mondo, finisce nella Nutella (il secondo fenomeno di consumo di massa dopo la Coca Cola). La strada comincia a essere eccessivamente trafficata. Non ha senso proseguire in questo modo, è soltanto pericoloso. A Giresund riesco a convincere Andrea a prendere un autobus per Trebisonda. Ci godiamo quindi un giorno di riposo in questa città. Dopo un po’ di relax all’Amman, dove c’è un omone peloso che ti massaggia su un letto di marmo, assaggiamo il Kuymach, piatto tipico di Trebisonda. Stessi ingredienti della polenta taragna, ma con un rapporto burro/farina 11 volte superiore… Anziché proseguire lungo la costa, ancora troppo trafficata, decidiamo di fare gli ultimi chilometri di Turchia passando dall’entroterra. Per scavalcare la catena montuosa bisogna risalire una valle, chiamata valle del te. Questa pianta è infatti coltivata in tutta la parte bassa della valle. La strada sale inizialmente tranquilla, poi diventa man mano sempre più impervia. Il paesaggio ricorda un po’ le nostre Orobie.  Se cancellassimo le moschee e le piantagioni di te potremmo dire di essere in val Gerola o in val di Tartano. Più si sale e più le sponde diventano ripide. Siamo preoccupati perché non riusciamo a trovare 2 metri quadri di piano per piantare la tenda. Arriviamo a un posto di blocco. Spieghiamo che stiamo cercando uno spazio per piantare la tenda. Ci dicono che più avanti è peggio e ci invitano a restare con loro. Possiamo stendere i sacchi a pelo in uno sgabuzzino di servizio. Al cambio della guardia ci portano la cena mentre alla mattina ci preparano la colazione e ci riempiono le borse di marmellatine e pane che puzza di gasolio. Passiamo buona parte della serata a bere te e tentare di giocare a carte.  Da qui in avanti, per quasi 300 km, il paesaggio è dominato dalla un susseguirsi di dighe, alcune già costruite, altre in fase di costruzione. 13 in totale. La più grande sta per essere realizzata a valle di Yusufeli (paese di 6000 abitanti che verrà sommerso). Questa diga ha un’altezza di 270 metri e una capienza di 2.3 miliardi di m3 (19 volte la diga di Cancano II) e sarà la più grande di tutta la Turchia. Questo avrà un impatto devastante dal punto sociale (18 villaggi e 15 mila case distrutte), biologico (35 specie endemiche animali e vegetali) ambientale e archeologico. Però consentirà la produzione di 2 mila GWH all’anno”. Finalmente dopo mille traversie l’arrivo in Georgia “Torniamo su strade più tranquille e raggiungiamo la capitale: Tbilisi. Ponte della Pace, costruito da Michele De Lucchi ma chiamato dai georgiani ponte Always, dal nome di una nota marca di assorbenti. A Tblisi non c’è nulla di dritto. Tutto pende: pareti, balconi, soffitti. A camminare in ostello sembrava di essere ubriachi”. Da qui le ultime falcate verso l’Azerbaijan dove grazie al racconto di Fabio e Andrea abbiamo avuto questa sera la possibilità di conoscere meglio un Paese di cui molti nel Mondo forse ignorano persino l’esistenza. Curiosità sul presidente della Repubblica Heydar Aliyev che “Ha dominato la politica azera per 30 anni, è stato presidente dell’Azerbaijan per gli ultimi 10 anni della sua vita (1993 – 2003). E’ succeduto il figlio, con criticate elezioni presidenziali in cui era l’unico candidato. Ha fatto guadagnare all’Azerbaijan il primato di nazione più corrotta del mondo” e su una bandiera da record “Il 2 settembre 2010 questo pennone di bandiera è entrato nel Guinness per essere il più alto del mondo (162 metri). Meno di un anno più tardi (31 agosto 2011) in Tagikistan, ne hanno costruita più alta di 3 metri. Quella bandiera sembra piccola ma ha una superficie di 1800 m2 (60 x 30)”

E con queste curiosità siamo giunti alla fine di questo appassionante racconto di un viaggio fatto di sogni, di avventure, di incontri memorabili, un viaggio che promuove l’incontro con culture diverse e che spesso appaiono come lontane e che insegna che dopotutto lo spirito degli antichi esploratori non si è spento del tutto alla faccia della crisi e del logorio della vita moderna. Un racconto che è stato ascoltato con grande gioia da un pubblico numeroso e partecipe. Davvero un buon inizio. Non si può che restare ad attendere la prossima meta.

Antonella Alemanni

 

.

 

 

 

La Lena: Ariosto’s Reflection on the Commodification of Human Experience

 

640px-Cristofano_dell'altissimo,_ludovico_ariosto,_ante_1568

Il giornale presenta l’articolo (in lingua inglese) della Dott.ssa Alessandra Brivio,col titolo “La Lena.Le riflessioni di Ariosto sulla mercificazione dell’esperienza umana”

Alessandra Brivio si e’ laureata in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Milano nel 2001, e ha poi conseguito il Master in Storia Europea presso la University of California, San Diego. Attualmente vive negli Stati Uniti dove insegna materie umanistiche presso la University of California, San Diego ed e’ nella fase conclusiva del corso di dottorato in Storia moderna. Alessandra e’ particolarmente interessata alla storia culturale e religiosa di Milano durante il dominio Spagnolo, ed in particolare alla credenza negli untori durante la peste del 1630.

 

La Lena: Ariosto’s Reflection on the Commodification of Human Experience

(per leggere l’articolo click sul link)

 

La Len-Ariosto’s reflections on the commodification of human experience

 

La Lena è la più felice commedia di Ludovico Ariosto,composta subito dopo il Sacco di Roma(1527). E’ritenuta la migliore commedia ariostesca, di ambientazione ferrarese e scritta in versi, caratterizzata da elementi comici e realistici che si inseriscono tra la ‘scena’ e la ‘città’. Rappresentata a Ferrara una prima volta nel 1528 (insieme al Negromante e alla Moscheta del Ruzante) e una seconda volta nel 1529, viene ripresa poi nel 1532 in un ciclo di spettacoli al quale partecipa anche Ruzante, con modifiche in alcune scene e l’inserimento di un nuovo prologo. Viene stampata in questa stesura definitiva nel 1535 in due edizioni legate alla prima stampa del Negromante (Venezia 1535) e poi in una nuova ristampa, presso Gabriele Giolito de’ Ferrari, nel 1551. La protagonista, Lena, esprime un’immagine comica che non attiva un meccanismo teatrale vero e proprio ma funge piuttosto da catalizzatore di difetti, sommando in sé le leggi aride dell’utile e dell’egoismo, dell’immobilismo e della mera ‘economicità’ della vita umana. In lei si sommano caratteri realistici inediti rispetto a quelli della ruffiana della commedia latina. La scena ferrarese è ricca di richiami concreti e di spunti interessanti per il pubblico che però, a differenza dei Suppositi, viene messo a contatto con una città che promana, nelle sue pieghe più sottili, un senso di malessere e di larvato pessimismo. Al centro della commedia vi è la vicenda del giovane Flavio, figlio di Ilario, innamorato di Licinia, figlia di Fazio. Per avere la fanciulla Flavio fa affidamento su Lena, ruffiana e vicina di casa, da tempo amante di Fazio. Complice della donna è il sordido marito Pacifico, mentre il regista delle operazioni è il servo Corbolo. Dopo alterne vicende segnate dai perversi disegni di Lena, la mezzana è condannata ad una frustrante sconfitta mentre Flavio e Licinia coronano il loro sogno d’amore. La struttura della fabula riduce al minimo il gioco degli incastri e degli scambi, concentrandosi sulla vicenda lineare dell’amore di Flavio per Licinia, senza superfetazioni narrative.

LA LENA.PLOLOGO

Ecco La Lena che vuol far spettacolo
Un’altra volta di sé, né considera,
Che se l’altr’anno piacque, contentarsene
Dovrebbe, né si por ora a pericolo
Di non piacervi; che ‘l parer de gli uomini
Molte volte si muta, et il medesimo
Che la matina fu, non è da vespero.
E s’anco ella non piacque, che più giovane
Era alora e più fresca, men dovrebbevi
Ora piacer. Ma la sciocca s’imagina
D’esser più bella, or che s’ha fatto mettere
La coda drieto; e parle che, venendovi
Con quella inanzi, abbia d’aver più grazia
Che non ebbe l’altr’anno, che lasciòvisi
Veder senz’essa, in veste tonda e in abito
Da questo, ch’oggi s’usa, assai dissimile.
E che volete voi? La Lena è simile
All’altre donne, che tutte vorrebbono
Sentirsi drieto la coda, e disprezzano
(Come sian terrazzane, vili e ignobili)
Quelle ch’averla di drieto non vogliono,
O per dir meglio, ch’aver non la possono:
Perché nessuna, o sia ricca o sia povera,
Che se la possa por, niega di porsela.
foto_Ludovico_Ariosto_52
Frontespizio (1588) per la commedia La Lena