L’ILLUMINISMO

ALLA SCOPERTA DEL MOVIMENTO INTELLETTUALE CHE SECONDO MOLTI STORICI HA ISPIRATO LA RIVOLUZIONE FRANCESE     

                                                                                                                                                                       di Antonella Alemanni

L’Illuminismo è un movimento letterario culturale e filosofico nato nel Settecento (per questo definito il secolo dei lumi) un movimento che si fonda sull’uso della ragione come strumento di conoscenza, come luce per liberare l’uomo dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione. Secondo i filosofi esponenti di questo movimento i secoli medievali precedenti hanno rappresentato un’era dominata dall’oscurantismo e dalla religione, una scappatoia dell’uomo per spiegare fenomeni che in altro modo non riesce a capire e per lenire l’ancestrale timore verso la morte.

A tutt’oggi la conoscenza presenta dei limiti e possedere più o meno conoscenza può fare la differenza tra il condurre un’esistenza il più possibile libera e consapevole e l’essere strumentalizzati, plagiati e sfruttati, calpestati nei propri diritti.

Fin dall’inizio il desiderio di conoscere e capire il mondo che ci circonda ha rappresentato uno dei tratti distintivi della nostra specie umana, un desiderio che, in mancanza di strumenti idonei, ricorre, per essere appagato, a spiegazioni fantastiche. È il caso ad esempio della mitologia: fin dai tempi più remoti ogni civiltà ha avuto il suo corpus di racconti mitologici e il suo pantheon di divinità, l’ira delle quali era posta sempre alla base dei fenomeni naturali più catastrofici come temporali, terremoti, frane, inondazioni, un’ira che andava placata seguendo specifici rituali e codici di comportamento condivisi, più o meno volontariamente, da tutti gli appartenenti ad una singola civiltà. La religione cristiana che ha dominato i secoli medievali altro non è che un’evoluzione delle mitologie antiche. Ogni cristiano crede che tutto dipenda dalla volontà di Dio che impone rituali e codici di comportamento soprattutto attraverso i concetti di virtù e peccato.

Il movimento illuminista nasce con lo scopo di rinnegare tutto questo, di porsi in netta rottura col passato, di stimolare gli individui a pensare ognuno con la propria testa liberandosi così dallo stato di minorità. Fu Immanuel Kant col suo capolavoro CRITICA DELLA RAGION PURA a porre per la prima volta le basi teoriche del movimento illuminista e ad introdurre fra l’altro il concetto di minorità inteso come l’incapacità di avvalersi pienamente e autonomamente del proprio intelletto.

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Immanuel Kant

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Immanuel Kant- Critica della ragion pura

Non a caso il termine minore è usato ancora oggi per indicare coloro i quali non hanno raggiunto una piena maturità intellettuale e dunque sociale, giuridica e politica, un traguardo fissato al compimento dei 18 anni e spesso convalidato dal sostenimento dei cosiddetti esami di maturità. In realtà il concetto di minorità e quello di maturità non possono essere inquadrati nello stesso modo per ogni individuo. Esse dipendono dall’intelligenza, da come essa viene espressa, dal carattere e dalla capacità decisionale.

Quasi tutti gli storici sono concordi nell’affermare che alla base dei fermenti che portarono allo scoppio della Rivoluzione Francese ci siano proprio le idee esposte dal movimento illuminista in particolare l’opera di Rousseau.

Jean-Jacques Rousseau

Jean-Jacques Rousseau

Dietro alle sommosse popolari infatti si nascondeva una massiccia campagna di indottrinamento da parte dei borghesi colti (quella che poi sarebbe diventata la classe media, quella che allora in Francia faceva ancora parte del terzo stato, ma i cui componenti potevano svolgere professioni di prestigio come quella di avvocato; avvocato era ad esempio Robespierre), attraverso cui tutto il popolo prese gradualmente coscienza di sé e dei propri diritti.

LA SOCIETA’ FILARMONICA DI TALAMONA

Ricordi, episodi, personaggi, e magari anche un po’ di storia spicciola.

Guido Combi (GISM)

” Ancöo l’è ‘l dì ‘lla  Noso, la festo dul paiis…e ‘l suno la bando, la fèsto l’è grando... così canta il Gustavo Petrelli in una sua canzone dedicata a  “Ul dì ‘lla Noso”.

E alla nostra  unica, nel suo genere, grande  festa  della nascita della Madonna, a cui è dedicata la nostra grande novecentesca chiesa, tutti i Settembre, di ogni anno, non manca mai  “la müsico” alla processione religiosa e, per l’occasione, prepara un concerto in piazza o in auditorium.

Perchè, comunemente,  a Talamona, “la bando” è chiamata “la müsico”.

Viene cioè  identificata con il nome dell’arte che esprime con i suoi strumenti e per  la quale è stata fondata.

Il corpo musicale talamonese è una gloriosa  libera associazione, nata nel lontano 1870, si ritiene per volontà dell’ illustre  ing. Clemente Valenti, di cui campeggia un grande ritratto  su una parete della sala prove, posta al piano terra del Palazzo Comunale.

O meglio, c’era quando anch’io facevo parte dei musicanti, fino al 1961 e penso che sia rimasto al suo posto.  Pare però che qualche fonte abbia dei dubbi e attribuisca le origini a un gruppo di fondatori. Qui però non voglio indagare, anche perchè la “questio” è tutt’altro che semplice e, pare, manchino documenti certi,  il mio intento è solamente quello  di  riportare alla memoria aspetti ed episodi della vita della banda e dei suonatori e ricordare maestri e suonatori.

La sala prove.

La sala prove non è sempre stata nell’edificio comunale, dove, dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso, , le è stato riservato un apposito locale che potesse contenere gli strumenti, i leggii, le sedie, gli armadi per l’archivio delle partiture, più tardi, anche il palco che viene portato fuori per i concerti, e soprattutto dove gli allievi potessero partecipare alle lezioni e i suonatori effettivi   riunirsi una o due volte alla settimana per le prove, necessarie per preparare i concerti e le uscite per le processioni religiose, le manifestazioni civili e le trasferte, cioè  “i servizi”.

Il palazzo comunale è stato costruito alla fine degli anni 50 del secolo scorso, quando l’Amministrazione Comunale ha deciso che il piano terra della casa arcipretale, dove  erano posti gli uffici comunali, non  era più sufficiente. E’ da allora che la banda ha una sede stabile e bella. Prima aveva cambiato diverse sedi. Quando ho iniziato come suonatore, nel 1955, la sede era in una casa privata che si trova,  appena sopra la piazza Don Cusini, in via Valenti,  sul lato sinistro salendo, di fronte all’entrata della casa dei canonici; precedentemente era stata in Piazzetta, nel cortile interno della casa Mazzoni, al quale si accede  passando sotto un androne decorato. Ancora prima, quando ero piccolo e mio padre mi portava alle processioni, ricordo che era in un locale a fianco degli uffici comunali al piano terra dell’arcipretura. I suonatori infatti si trovavano in sala prove, prima di uscire per il servizio religioso, per accordare gli strumenti, prendere i libretti delle marce religiose, e  tutti gli strumenti come i bassi, il tamburo, i piatti ecc.

Gli strumenti

Senza gli strumenti, la banda non esiste, quindi nemmeno i suonatori esisterebbero, e questo significa che strumenti e suonatori costituiscono un “unicum” inscindibile. I suonatori devono imparare a suonare gli strumenti e tenerli bene, curarli, pulirli, oliarli, perchè costano. Quando la banda si esibisce, gli ottoni devono essere ben lucidi e bisogna stare attenti che non siano ammaccati. Per questo, ogni suonatore è molto affezionato al proprio strumento, anche se non è di sua proprietà. Ci sono infatti degli strumenti, che a causa del loro costo, delle loro dimensioni e del fatto che vengono usati esclusivamente in banda, non sono di proprietà personale, ma del corpo musicale che li fornisce gratuitamente ai singoli suonatori che scelgono di suonarli, o almeno era così ai miei tempi. Sono (chiedo perdono se non uso con esattezza i termini tecnici completi, ma è per essere capito da tutti, anche dai non specialisti): il basso, cioè il flicorno basso o tuba, che una volta era a forma di cerchio e il suonatore lo portava  a tracolla, infilandovi  la testa e appoggiandolo su una spalla, con il bocchino a portata della bocca e la “tromba” in alto rivolta in avanti; il flicorno contralto, comunemente chiamato genis.; il flicorno baritono, detto bombardino o anche eufonio; il trombone; il tamburello (roll in talamonese) e la grancassa (ul tàmbür). Gli strumenti come il flauto, il clarinetto, l’ottavino (il clarinetto piccolo),  il flicornino (tromba piccola), la tromba, il sassofono soprano e il contralto, normalmente erano e sono di proprietà del suonatore. Il sassofono tenore, a volte sì a volte no, come il baritono e il basso e il trombone. Io suonavo il clarinetto, da primo, come eredità di famiglia, infatti mio padre lo suonava. Un bel giorno però, il maestro mi dà  in mano un sax tenore e mi dice che devo imparare a suonarlo entro un mese, in quanto avevamo il concerto e bisognava aiutare il settore dei bombardini col contrappunto, che era piuttosto debole, perchè erano in pochi. In questo caso, lo strumento era di proprietà della banda. L’ho suonato per alcuni anni, tenendolo a casa anche per potermi esercitare, e poi l’ho restituito. Era uno strumento in ottime condizioni e con un ottimo suono, anche se era passato da più mani, perchè ciascun suonatore che l’aveva usato l’aveva tenuto con la massima cura.

I clarinetti e le trombe si distinguevano in primi e secondi, secondo la bravura e la preparazione di ciascuno. Era però importante anche l’anzianità di servizio. C’erano poi dei suonatori, di solito i migliori, che all’occorrenza facevano i solisti, (come oggi)  quando era richiesto dalla partitura appositamente scritta. In prevalenza erano: l’ottavino, il clarinetto, il flicornino, la tromba, il trombone e il bombardino.

A proposito di strumenti, non tutti  conoscevano il loro nome e la loro funzione.  Nel 1938, in occasione dell’entrata del nuovo prete,  la nostra  banda, a piedi, è salita a Campo  con gli strumenti in spalla, per accompagnare la processione e rallegrare la festa  eseguendo alcune marcette  sul sagrato. Quando è arrivato l’Austìn con il  tamburo sulle spalle dal gruppo dei bambini   se sente uscire una voce squillante che grida: “Pà uarda  i gaa scià ‘l penacc.”  E subito dopo, quando arriva il Caldirola col roll: “ I gaa scià daa ‘l penagii”.

Non avendoli mai visti, i bambini, avevano creduto che la grancassa e il tamburello,  fossero i due recipienti che conoscevano benissimo e che usavano a casa loro per fare il burro. A quei tempi i bambini scendevano raramente da Tartano.

La scuola

Come si impara a suonare uno strumento? Prima bisogna imparare a leggere la musica: le note, il loro valore, gli accidenti (diesis e bemolle), le chiavi, i tempi… Quindi bisogna studiarla.

Ai miei tempi, anche perchè la banda non aveva tanti finanziamenti per pagare  il maestro, interveniva il Ministero della Pubblica Istruzione che istituiva i Corsi di Avviamento musicale. Erano corsi annuali, affidati di solito al maestro della banda, che veniva  retribuito con il finanziamento che veniva dato al Corpo musicale. Essendo i corsi per tutti, poteva iscriversi chiunque, senza limiti di età. Quando ho frequentato io, eravamo una ventina di iscritti, le lezioni venivano effettuate alla sera, in casa del maestro, che era il Franco Pasina, perchè la sala musica era fredda. Dopo un inizio promettente, già nelle prime lezioni iniziarono gli abbandoni, vuoi per impegni di lavoro, vuoi per la difficoltà, per alcuni, di riprendere a studiare, dopo magari diversi anni da quando avevano lasciato la scuola. Allora si finiva la scuola con la quinta elementare o al massimo con le post elementari, e poi si andava a lavorare. Io ero l’unico studente e quindi anche quello da cui il maestro pretendeva di più. I corsi musicali erano sottoposti alla vigilanza del Direttore Didattico, che allora risiedeva ad Ardenno, e che ogni tanto veniva fare la sua ispezione. Alla fine, partecipava, anche con un suo rappresentante se non sapeva di musica, agli esami finali sul solfeggio e sull’apprendimento dello strumento, per poter fare  la relazione che giustificasse il finanziamento. Se arrivava l’autorizzazione, venivano tenuti anche corsi di secondo e di terzo livello. Un corso durava sei mesi. Erano i maestri che si incaricavano di preparare le nuove leve, per sostituire i suonatori che abbandonavano o erano poco presenti soprattutto per problemi di lavoro. Molti emigravano. Col maestro Ruman, che  amava tanto la musica, voleva che fosse eseguita alla perfezione e perciò era molto severo, mi diceva mio padre, che gli allievi dovevano studiare il solfeggio per almeno sei mesi sul metodo Bona, che viene usato ancora oggi, poi finalmente potevano imparare lo strumento. Gli iscritti erano quasi sempre un buon numero, ma la maggior parte si perdeva per strada. Del mio corso, su una ventina di iscritti, siamo entrati in banda in cinque o sei. Eravamo nel 1954. Io poi sono entrato  l’anno dopo i miei compagni, perchè mio padre non voleva che la banda mi portasse via tempo allo studio.

Se ricordo bene, la preparazione musicale non era così accurata come oggi e i metodi diversi: c’era sempre la necessità di rimpolpare l’organico in fretta. Appena uno si arrangiava un po’ con lo strumento, veniva messo in banda. Poi si  perfezionava con l’esercizio.

L’organico

Il numero dei suonatori effettivi, da quanto mi ricordo, era abbastanza ridotto: si aggirava sulla trentina. Raramente arrivava a quaranta, quando rientravano gli emigranti, e coloro che lavoravano lontano. Non sempre i vari settori strumentali erano completi e questo imponeva al maestro la scelta di brani adatti alla formazione. C’è da dire che, come piccola banda, aveva una preparazione di tutto rispetto. Appena prima che entrassi tra i suonatori, aveva partecipato a un concorso musicale per bande, se non ricordo male, a  Bormio e si era classificata al secondo posto, appunto nella categoria delle piccole formazioni bandistiche. In seguito ha partecipato a vari concorsi, ottenendo sempre ottimi riconoscimenti.  Inutile dire che allora l’organico era esclusivamente maschile e formato fa adulti. L’età minima del suonatori era comunque attorno ai  16/17 anni.

Per fortuna, più tardi, sono arrivate le ragazze (la prima, nel 1974 è stata Alda Luzzi) e i giovanissimi, tanto che oggi  formano anche un complesso autonomo. Ma questa è cronaca di  oggi.

I presidenti

Nel periodo dal 1954 al 1961, in cui ho suonato nella banda e anche prima, che io ricordi, il personaggio centrale, il più importante, è sempre stato il maestro. Il presidente c’era, si sapeva chi era, di solito un suonatore anziano e autorevole, ma non rivestiva particolare importanza finché, nel 1972,  venne nominato, il primo presidente non suonatore, Antonino Caruso, siciliano che si era innamorato di Talamona e in particolare del Corpo Musicale. Ha accettato di assumere la presidenza e aveva già in mente parecchi programmi. Mi ricordo che, nei nostri incontri, mi parlava di quello che intendeva organizzare. Io avevo lasciato il servizio effettivo, come suonatore, perchè mi ero trasferito a Sondrio per lavoro (e per matrimonio), e avevo continuato nella banda del capoluogo, prima come suonatore poi come presentatore. Antonino mi  chiedeva periodicamente di presentare i concerti che la banda  eseguiva nel teatro dell’Oratorio e nel nuovo auditorium e io accettavo volentieri  come prima, quando me lo chiedeva mio padre, che ci teneva  tanto. Non sto a elencare tutto quello che il nuovo presidente ha fatto, perchè è  egregiamente documentato del sito web, e nella pubblicazione del 1990, celebrativa del 120°. Qui voglio solo mettere in evidenza il fatto che il presidente Caruso ha aperto la banda al contatto e alla collaborazione  con altre realtà, come la grande tradizione bandistica siciliana, portando i suonatori nel suo paese natale, stabilendo duraturi rapporti di amicizia tra le bande e personali. Certamente ha innovato per il corpo musicale di Talamona la funzione del presidente, dando una svolta decisiva. Un’ultima annotazione riguarda la sua preoccupazione che restasse qualcosa di scritto delle tappe della vita della banda e per questo ha curato l’edizione di due pubblicazioni: la prima per i 120 anni di vita nel 1990, dalla quale ho attinto parecchie notizie storiche, nella quale c’è una bella poesia in dialetto sui suonatori e la banda dul Rinu Petrèl (Puchét), e la seconda del 2000, celebrativa del 135° di vita della benemerita Società Filarmonica Talamonese. Prima ce n’era stata una edita in occasione del centenario nel 1970.

Il corpo musicale da lì in poi non poteva che progredire come ha fatto.

 Personaggi

Ho già detto che il personaggio principale è sempre il maestro, perchè soprattutto su di lui grava la responsabilità della preparazione musicale e quindi del prestigio del corpo musicale. Ci sono però anche i suonatori che hanno caratterizzato la vita della banda. Famiglie di musicanti che per generazioni, con passione, ne hanno tenuto alto l’onore. E  con legittimo orgoglio.

I Giàm, i “Sigifrédu”, i Puchècc, i Tunèlo,  e poi i suonatori longevi come mio padre, ul Batisto casèer, ul Guidu Gepì, ul Gutardu Pasina, ul Mudiulìn, che hanno prestato servizio fin verso gli ottant’anni, con una presenza sempre assidua alle prove. Ricordo che per noi giovani erano i punti di riferimento e un grande esempio di attaccamento. Di ognuno di essi bisognerebbe scrivere un elogio particolare. Forse ora il lettore può capire perchè scrivo questi ricordi: perchè penso che solo quello che è scritto rimane, oltre il ricordo personale.

I ricordi si affievoliscono nel tempo e spariscono con il venir meno delle figure storiche e di chi è vissuto loro vicino, condividendone le esperienze.

Anche adesso c’è chi nella banda milita da lunghi anni, dai miei tempi. Sono: il Franco Libera, storica prima tromba, che pur essendo mio coscritto, è entrato in banda prima di me, a continuare la tradizione familiare del padre Sigifredo e dei due fratelli, uno dei quali, l’Angelo, benemerito maestro per tanti anni, e l’eterno Cèci, il Celso Bedogné, ora meritatamente vice presidente, altro storico bombardino, perno indiscusso e prezioso del settore di contrappunto. La loro passione, la loro dedizione e il loro attaccamento alla banda sono infiniti. Quali esempi migliori per i giovani?

Se guardiamo le fotografie storiche pubblicate sul sito della Società Filarmonica, di personaggi ne troviamo altri di pari valore di quelli citati e chiedo scusa se ne ho dimenticato qualcuno. Vorrei che questi rappresentassero tutti.

C’è ancora una figura, però, che, se non venisse qui ricordata, verrebbe sicuramente dimenticata e che già ora molti talamonesi non sanno che ha fatto parte della banda. Non era un suonatore vero e proprio, ma era un membro effettivo: portava, ul tàmbür, quello grosso, la grancassa, per intenderci, nelle processioni, nei funerali e sempre quando  la banda marciava: lo portava sulle spalle e non mancava mai. Si chiamava Agostino Tirinzoni, per tutti l’Austìn. Quando aveva deciso di entrare nella banda, l’Austìn voleva suonare il basso. Però non ce l’aveva fatta, perchè  il solfeggio si era rivelato uno scoglio insormontabile, perciò, volendo comunque  entrare al far parte dell’organico, ha chiesto di fare il portatore del tamburo. E così è stato per 25 anni.

Per tanti anni è stata una figura familiare e amata da noi suonatori. Non alto e piuttosto tozzo di corporatura, faceva il contadino: le sue braccia forti  e il viso cotto dal sole lo dimostravano, e del contadino aveva anche la pazienza e la tenacia e pure la giovialità. Abitava in fondo a Ranscìgo e, nonostante non avesse bisogno di provare, spesso era presente alle prove serali e, bonariamente, richiamava qualche giovane che si distraeva.

Quando c’erano i servizi, come le processioni, partiva presto da casa con il berretto in testa, “ul capél de la müsico”, portato con fierezza, e con la sua andatura traballante, si avviava verso la piazza. Era sempre il primo, davanti alla porta della scuola. Il suo compito, che non so a quando risale, perchè io l’ho sempre visto nella banda fin da quando ero piccolo, era quello di portare la grancassa: ul tàmbür, e l’ha portato fino in tarda età.

Per mezzo di una larga cinghia, fissata su due punti della struttura della cassa, passata sul torace di traverso, poco sotto l’altezza delle spalle, dopo averla infilata dalla testa, la sosteneva verticalmente sulla schiena, mentre il “Tunèlo” batteva ritmicamente sulla pelle lateralmente e sul piatto fissato sopra. Quando si suonava marciando, nelle processioni, nei funerali e nelle feste civili come il 4 di novembre, marciava anche lui con noi e teneva egregiamente il passo sintonizzato con il ritmo del pezzo: più lento nelle marce religiose e nella marce funebri, più veloce in quelle militari. La sua andatura regolare, facilitava la lettura della parte fissata sopra e il battere ritmato dei colpi. Col Tunèlo formava una coppia indivisibile. La sua posizione era in coda al gruppo. Sempre molto concentrato, era sempre presente anche ai concerti in piazza. Era lui, ovviamente, che portava lo strumento in piazza, lo poneva sull’apposito trespolo di sostegno e si piazzava sul lato opposto a quello del suonatore, impettito e fiero della sua posizione e di far parte della banda.

Teneva ben fermo il tutto, mentre la mazza  dul Tunèlo batteva sulla pelle tesa  del grande tamburo e il piatto tenuto saldo nella mano sinistra  per mezzo di una apposita cinghia, batteva il tempo sull’altro piatto di ottone fissato sopra, vicino alla partitura.

Solo più tardi i piatti vennero tenuti e suonati da un singolo suonatore, che li  portava verticali davanti a sé, pronto  a batterli uno contro l’altro e a farli vibrare sonoramente.

In qualche foto storica troviamo anche lui: l’ Austìn.

I maestri

Non mi dilungo sui maestri, perchè il sito che ho già citato delinea le loro figure molto bene dal Zèpinin, fino all’attuale maestro Boiani. Mi permetto un’unica annotazione, che mi pare importante e che caratterizza, a mio parere la storia del Corpo Musicale. I maestri, dal primo fino all’Angelo Libera, che è stato quello che ha portato avanti l’incarico per un periodo di tempo superiore ad ogni altro, non hanno potuto frequentare corsi specialistici di tipo musicale istituzionalizzati di livello superiore come il Conservatorio. Erano dei grandi appassionati, che in generale, per proprio conto hanno, prima approfondito lo studio del proprio strumento e poi si sono formati con grande impegno per la direzione della banda studiando privatamente a volte con qualche maestro esterno.

I risultati sono stati pari all’impegno e alla costanza e si possono vedere scorrendo la storia. Sono riusciti, tutti, a preparare i tanti suonatori e a portarli a esecuzioni di assoluta eccellenza.

Dal punto di vista musicale, con il compianto maestro Corti, il primo diplomato al Conservatori e con  l’impegno del presidente Caruso, dal punto di vista organizzativo, però si è entrati nella fase moderna, caratterizzata da una grande crescita della preparazione: musicale e numerica. L’istituzione della Scuola di musica e la formazione della Banda Giovanile, come gruppo autosufficiente dal punto di vista musicale, lo dimostrano ampiamente. Da tutto questo non possono venire che ottimi frutti e meritati successi.

La divisa

Se scorriamo le foto storiche, possiamo vedere che non c’erano divise, come oggi.

Che distingueva i suonatori era il berretto “ul capél de la müsico”. Nel 1970, si è riusciti finalmente a dotare la banda di una bella divisa, come quelle più grandi e più ricche di Sondrio e Morbegno. La mia prima divisa  l’ho avuta quando ho iniziato a suonare appunto a Morbegno e a Sondrio. Anche le bande degli altri paesi erano nelle stesse condizioni della nostra.

Si capisce come i soldi erano sempre pochi e i suonatori pensavano all’essenziale: a fare della buona musica per loro soddisfazione e dei loro affezionati compaesani e per onorare il nostro paese e tutte le manifestazioni a cui partecipavano.           (continua)

 

 

 

seconda parte

Alcuni episodi

La bandéto

Non tutti ricordano, se non chi li ha vissuti, che nella storia della banda ci sono stati anche episodi e momenti di tensione, non comunque all’interno tra i suonatori o tra suonatori e maestro.

E forse non tutti sanno che alcuni suonatori, più o meno sotto la decina, formavano,  e ancora formano, quella che era chiamata “la bandèto”, la piccola banda.

Eravamo, se ricordo bene, subito dopo il 1950 e nei giochi delle bocce, dietro l’osteria del Sigifredo, che si trovava, sü ‘n summ a la munto” , dove ora c’è la piazzetta con la banca, il Partito Comunista aveva organizzato una delle prime feste dell’Unità.

E chi è stato chiamato a rallegrare la festa? La bandetta.

La festa è andata bene, ma il bello è venuto subito dopo.

I suonatori che accompagnano con i loro strumenti le funzioni religiose, sono andati a suonare per l’anticristo?   Apriti o cielo!  La condanna è  arrivata senza appello, da parte dell’arciprete, che  dal pulpito ha tuonato contro i reprobi. In paese se ne è parlato per parecchio tempo, anche perchè è arrivata subito la proibizione per la banda di accompagnare le processioni.

Non si mischia il diavolo con l’acqua santa!

La banda era stata identificata con la bandetta. I dirigenti, ovviamente non hanno preso le distanze, né tanto meno hanno sconfessato l’operato dei suonatori. I “trasgressori” facevano parte della banda e quindi andavano difesi. Infatti, il presidente che era il Gottardo Pasina, i consiglieri e  i più anziani suonatori, come mio padre, che si sentivano offesi, dall’atteggiamento dell’arciprete, che aveva  pubblicamente condannato i traditori, hanno tentato di ricomporre i rapporti, andando in arcipretura per chiarire che la banda, anche se faceva i servizi religiosi, non era al servizio unicamente della Chiesa. Essendo una libera società, nata col preciso scopo di essere al servizio di tutti, non poteva accettare legami e condizionamenti da nessuno. L’arciprete, però, non volle sentire ragioni, non trattò molto bene gli ambasciatori e la condanna restò per un anno, durante il quale i talamonesi non sentirono le note delle marce religiose, nemmeno “ul dì ‘lla Noso”. Questo episodio, che ho raccontato come una curiosità, quasi folcloristica, della vita della banda, oggi fa sorridere coloro che lo leggono e che non c’erano allora, perchè ritengono il comportamento della bandetta del tutto legittimo e quello dell’arciprete, eccessivo e, aggiungo, prevaricatore. Allora invece il fatto è stato fonte di tensioni non indifferenti che solo il tempo ha ricomposto, calmando gli animi. Io poi l’ho vissuto in casa, con mio padre, che non sopportava questo tipo di imposizioni, men che meno alla “sua” banda, arrabbiatissimo (mi pare che della bandetta incriminata  facesse parte anche lui) e mia madre che cercava di calmarlo pur senza osare dare tutte le ragioni all’arciprete e  tutti i torti alla bandetta, e quindi a mio padre.  Cercava da medégà, di metter pace.

Sempre per chi non c’era, ricordo che eravamo in un periodo, subito dopo la guerra,  in cui c’era una contrapposizione netta e fortissima tra la Chiesa che sosteneva, anche elettoralmente, il partito della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, che a Talamona aveva la maggioranza assoluta, come in tutta la Valtellina e la Valchiavenna, e il Partito Comunista Italiano e coloro che vi aderivano. C’era una condanna senza appello nei confronti di tutto quello che dicevano e facevano i comunisti, quindi anche della Festa dell’Unità e di chi vi partecipava.

Per fortuna almeno da questo punto di vista abbiamo superato quei tempi e la banda può esercitare la sua libertà di scelta: sempre. Come deve essere, per tutti.

 

 

 

Ul Venardì Sant

Il secondo episodio riguarda ancora il rapporto della Banda con il parroco, ma, questa volta, senza, sfondi politici.

Era il 1955 o 56, il Venerdì Santo. Come sempre, alla sera si svolgeva la solenne processione con il  feretro del Cristo Morto portato dai coscritti; tantissima la gente: Azione Cattolica, Confratelli, Figlie di Maria. In coda, tutta la fila dei fedeli e ovviamente  la banda, che poco davanti al feretro, esegue, marciando le marce funebri, che notoriamente, data la loro solennità, hanno un ritmo molto lento. Stavamo suonando, camminando a ritmo con il nostro passo cadenzato e solenne, io ero in prima fila con mio padre al fianco, concentrato sulla parte, il maestro camminava davanti a fianco, dopo aver dato l’attacco, quando l’arciprete, sempre lo stesso del primo episodio, che non era il celebrante, ma si preoccupava che i fedeli seguissero con devozione, ci si presenta davanti e si mette a dire “ Su, su, più svelti! Dovete camminare più svelti!”  Lui era preoccupato, perchè  durante  l’esecuzione delle marce, il nostro passo, molto più lento di quello della colonna processionale, provocava  dei distacchi tra i gruppi, creando dei vuoti. Ma noi che ci potevamo fare? Da quando la banda suonava nelle processioni e nei funerali era sempre stato così. Per noi la richiesta, per non chiamarlo ordine, era una novità, Il maestro, cerca di spiegare all’arciprete che non è possibile andare più in fretta, ma lui non vuol sentire ragioni e continua a insistere che dobbiamo accelerare il passo.

Il maestro Franco allora, alza le braccia, con la bacchetta nella mano destra, in modo che tutti noi, anche quelli in coda al gruppo, lo vedessimo bene, dirige per un momento la marcia, dando il ritmo e poi al momento giusto, al termine di un fraseggio, abbassa di colpo la bacchetta.

Noi sapevamo che quello era il segnale che il pezzo era finito e tutti assieme cessammo di suonare. A quel punto, aumentammo il passo, con gli strumenti in mano. Qualcuno, sottovoce, sosteneva che  avremmo dovuto uscire dalla processione, ma prevalse il buon senso, nonostante l’indignazione, e seguimmo la funzione fino al rientro in chiesa con gli strumenti muti, ma senza gesti plateali.

Questa volta non ci furono prediche infuocate, ma furono i suonatori che si rifiutarono di fare servizio nelle processioni, a meno delle scuse da parte dell’autorità ecclesiastica.

Mio padre, che conosceva l’arciprete prima ancora che fosse nominato a Talamona, si sforzò di vincere i suoi sentimenti di ribellione e di fare da paciere nella controversia.

Infatti le cose andarono ancora una volta a buon fine, anche se non proprio subito, ma con la promessa che non ci sarebbero stati mai più interventi del genere. E la banda tornò a svolgere le sue funzioni, cioè a onorare con la sua musica sacra le processioni, dando loro maggior solennità.

Eseguire la musica sacra, non è il miglior modo di pregare?

Penso che questi due episodi sarebbero piaciuti anche a Giovanni Guareschi  e avrebbero potuto trovare degnamente un loro posto nelle vicende  di Don Camillo e Peppone .

 

La Cavalleria leggera

Il terzo episodio che voglio raccontare è di tutt’altro genere rispetto ai primi due.

Diciamo che è stata una occasione in cui, appena prima di completare la mia preparazione musicale per entrare in banda, ho imparato  qualcosa di nuovo, che andava ad aggiungersi alle altre nozioni sulla musica che stavo studiando, e da una persona che non faceva nemmeno parte della banda.

Stavo assistendo al concerto in piazza, che si teneva davanti all’osteria de la “Cèco”,  di fronte la cà dul Ratìn e di fianco la posta. C’era in programma, tra  gli altri pezzi, un cavallo di battaglia, che in seguito ho suonato tante volte anch’io, molto bello e orecchiabile:  la celebre ouverture de “La Cavalleria Leggera” del compositore austriaco  Franz von Suppè.

Di fianco a me c’era il Vittorino Zuccalli, il quale, ho poi appreso dopo perchè l’aveva detto lui stesso, aveva prestato servizio militare nella cavalleria.

Appena la banda ha iniziato a suonare, a voce bassa, ha incominciato a commentare il pezzo a un suo amico vicino e ha continuato man mano che l’esecuzione procedeva, fino alla fine. Io, vicino ero tutto orecchi. Il Vittorino spiegava come le varie parti dell’ouverture,  per mezzo della melodia e del l’armonia congiunte,  raccontavano quello  che lo squadrone di cavalleria  stava facendo: il trotto quando usciva dalla caserma, che poi  si trasformava in galoppo, alla fine diventava la carica dei cavalleggeri, l’infuriare della battaglia, la sua fine  con la tristezza nel ricordo dei caduti e, infine, il rientro triste dello squadrone negli acquartieramenti.

Grazie al Vittorino, ho capito allora che la musica non esprime solo sentimenti con cui ci si può immedesimare, ma che può anche descrivere fatti e avvenimenti. Basta saperli leggere nelle note. Molte musiche di Verdi sono di questo tipo. Da allora, ogni volta che mi capitava di illustrare al pubblico, in qualità di presentatore, questo pezzo, e l’ho fatto anche a Talamona con la nostra banda, riprendevo questa descrizione tale e quale. E devo dire che molti ascoltatori, dopo il concerto, mi dicevano che avevano seguito e capito meglio la ”Cavalleria leggera”. E questo, grazie al Vittorino Zuccalli.

 

 Albaredo, tanti anni fa’

Tutti sanno dov’è Arzo e dov’è Albaredo. Ma quanti conoscono la strada per andarci a piedi? E quanto tempo si impiega? Oggi basta prendere l’auto, andare a Morbegno, prendere la strada per  il Passo San Marco, salire al tempietto degli alpini e dopo non molto si è “in Ars”, poi a Val  e, in breve in Albarìi.

Ma una volta non era così, anche se la strada da Morbegno c’era già: sterrata, ma c’era. Era la Strada Priula, che risale al 1593, costruita da Alvise Priuli, podestà di Bergamo, nominato dalla Serenissima Repubblica di Venezia, per unire Bergamo con Morbegno attraverso il Passo di San Marco, il più basso delle Alpi Orobie.

Non credo però, che queste notizie interessassero molto ai nostri musicisti della Banda di Talamona, quando, per festeggiare San Rocco, a ferragosto, vennero chiamati a suonare in processione nella festa del patrono, ad Albaredo, e a rallegrare poi la  festa  con l’esecuzione di valzer, mazurke, marce in piazza davanti a qualche osteria. La banda infatti veniva chiamata spesso in occasione di simili manifestazioni nei paesi vicini, e non c’era il pullman.

Quindi, strumenti in spalla, di buon’ora, il gruppo dei suonatori si avviò, passando per Urtèsido, verso Arzo, prendendo la scorciatoia, e poi sulla strada sterrata, verso Albaredo per arrivare a tempo per la Meso Grando e la processione. Le marce religiose sono lente e non fanno soffiare, ma suonare e marciare contemporaneamente, sulle strade in salita di Albaredo provoca un fiatone che non vi dico. Un po’ come cantà e purtà la cruus. E soffia, soffia, secca la gola, ma in processione non la si può bagnare. Dopo sì però. E non con l’acqua di fonte. Per cui finita la processione, il pranzo, a base di polenta taragna col Bitto, viene annaffiato a dovere e la gola riprende la sua normale lubrificazione. I suonatori a questo punto sono pronti per il pomeriggio di allegria in musica: non sempre ad Albaredo sale la banda. Si susseguono quindi altre sonate, allegre questa volta, a base di valzer, mazurke, marce…che però fanno ancora seccare la gola. La pinta che girava provvedeva alla normale lubrificazione ancora una volta. Il risultato  fu che il ritorno, sempre a piedi, con le scarpe della festa, per le selve da Arzo passando per  Muntmàrs, un po’ anche  a causa delle scarpe con la suola liscia, vide qualcuno dei più anziani e non solo loro, a causa anche dell’incipiente oscurità, fare dei solenni ruzzoloni fuori dal sentiero, ammaccando  pure qualche strumento tra gli ottoni, vista anche l’ora tarda.

Il buio e il vino, rendevano poco visibile il sentiero con tutte le conseguenze del caso.

I più giovani però hanno recuperato strumenti e suonatori, portando a casa tutti più o meno sani e salvi.

Cose d’altri tempi, che oggi non capitano più.

Questo episodio, che a quanto pare non fu l’unico, me lo raccontava mio zio Battista casèer e lo confermava mio padre.

 

Ancora a Campo Tartano

Dopo l’episodio del 1938, citato nella prima parte di questo articolo, voglio terminare questa carrellata di raccontini brevi, ricordando un’altra uscita a Campo, avvenuta nel 1927, in un’occasione particolare (la banda era già salita nel novembre del 1926 per accompagnare  il funerale del vecchio parroco). Si trattava della elezione a parroco di Don Beniamino Stropeni, avvenuta dopo la morte del  parroco Don Giuseppe Foppoli. Don Beniamino era stato mandato a Campo dal Vescovo in qualità di curato, nell’Agosto 1926, il parroco era morto nel novembre, ma per diventare parroco non bastava la nomina vescovile, in quanto un’antica consuetudine (oggi non più in vigore) richiedeva l’approvazione da parte dei capifamiglia, mediante la “votazione del fagiolo”.  Ricordo che eravamo in pieno regime fascista e data la sua posizione non proprio favorevole, i simpatizzanti del regime non erano molto d’accordo sulla sua nomina. Ma i parrocchiani ormai l’avevano apprezzato per la sua rettitudine e per la correttezza nello svolgimento della sua missione pastorale sempre vicina a tutti. Fu così quindi che fu eletto a grande maggioranza con 131 fagioli bianchi deposti nell’urna contro 12 neri, su 143 votanti. Dopo due o tre mesi di ritardo, finalmente era giunto anche il “placet” del Prefetto e quindi Don Benamino era parroco a tutti gli effetti.  Era passato un po’ di tempo dalla votazione, gli  oppositori si erano ritirati in buon ordine e  per festeggiare la sua elezione definitiva fu invitata la nostra banda per un concerto in piazza, proprio da loro.

Ecco come riferisce Giulio Spini nel suo libro “Diario di un parroco di montagna” (1), mettendo le parole in bocca a don Beniamino che racconta:” …Ho, saputo, infatti, che furono proprio loro, a far salire da Talamona, a proprie spese, la banda musicale per il concerto serale sul sagrato, il giorno stesso del mio successo ”elettorale”.

Già, un magnifico concerto, nella sera primaverile, fresca e limpidissima, con la luna alta sulla valle. Verso la fine, mi fu dedicata una marcia trionfale, composta dal maestro di banda (a Talamona hanno talento e passione straordinaria per la musica). Accanto a me era seduto mio padre, che nei momenti di commozione si tormentava, ora uno ora l’altro , i grossi baffi, per non farsi scoprire. Ma gli occhi erano lucidi e assorti.

Appena, però, il maestro annunciò di sorpresa che l’ultimo pezzo era in suo omaggio, non riuscì a contenersi e ascoltò il Coro del Nabucco col fazzoletto sugli occhi. Quando mai, nella sua ormai lunga vita di modesto contadino del lago, era stato al centro dell’attenzione così pubblica ed emozionante, tutta per lui? Riuscì appena a mormorarmi in un singhiozzo: -Se fosse qui la mamma…”

Questo episodio dimostra come la musica ispira sentimenti umani di una delicatezza unica, soprattutto in coloro che la suonano.

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Ho scritto queste notizie, perchè la banda è fatta di molti avvenimenti, lieti e meno lieti, e molti dei lettori non le conoscono in quanto, beati loro, sono giovani e non le hanno vissute, e mi riferisco anche ai suonatori,  e molti, forse, le hanno dimenticate.

Se non le avessi scritte, sarebbero andate perse.

E’ troppo lungo il pezzo? abbiate pazienza, ma i ricordi sono come le ciliegie: uno attira l’altro, quando la memoria funziona. Mi sono permesso di ricordare anche avvenimenti forse spiacevoli, citando i protagonisti, essendo passato tanto tempo e non essendo più in vita  i protagonisti. Anche questi fanno parte della vita della nostra gloriosa  “Müsico”, con la emme maiuscola, a cui faccio tanti auguri, come antico suonatore, anche se non compaio mai nelle foto.

Altre notizie ci sarebbero da riportare. Chi fosse curioso di conoscerle, può leggerle in parte  nel mio articolo, pubblicato sul libro che ha ricordato i 120 anni della Società Filarmonica, nel 1990, voluto dal presidente Antonino Caruso, altrimenti può far parlare il Céci, memoria storica de   la Müsico.

La storia completa e aggiornata del corpo musicale, la trovate nel sito  “Società Filarmonica- Talamona”.

 

Nota: (1) Il brano su Campo è tratto dal volume: Giulio Spini “Diario di un parroco di montagna” -Cooperativa editoriale Quaderni Valtellinesi – Sondrio- 2013. Stampa Lito Polaris Sondrio

 

 

 Guido Combi

 

CURIOSANDO – LA SAGGEZZA DEGLI ANTICHI

Chi fu il primo ad enunciare la teoria eliocentrica, a sostenere cioè che la Terra ruota intorno al Sole?

Fu Aristarco di Samo un brillante astronomo che visse e studiò ad Alessandria  d’Egitto tra il IV e il III secolo a.C. (dunque ben diciannove secoli circa prima di Niccolò Copernico e Galileo Galilei) del quale ci è pervenuta integralmente una sola opera, che riguarda le misurazioni con cui stimò, con un piccolo margine di errore, la distanza tra la Terra il Sole e la Luna. Per quanto riguarda l’opera che riporta la teoria eliocentrica essa è pervenuta solo attraverso citazioni di altri studiosi coevi e successivi.

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Aristarco di Samo ritratto in un dipinto seicentesco

 

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Terra, Luna e Sole durante una quadratura

 

Chi fu l’inventore della prima macchina a vapore della Storia?

Fu Erone di Alessandria brillante scienziato ed inventore (che, al pari di Archimede di Siracusa si può definire una sorta di Leonardo da Vinci dell’antichità) vissuto nel I secolo d. C. (dunque diciotto secoli prima di James Watt e della Rivoluzione industriale). La sua invenzione si chiamava Eliopilia (sfera di Eolo) conosciuta anche come motore di Erone. Si trattava di una sfera cava di rame alla quale erano collegati due tubi cui uno saldato alla sfera e l’altro staccabile per poter riempire la sfera di acqua. Una volta riempita la sfera l’acqua si riscaldava con una fiamma e produceva un moto opposto a quello dei getti di vapore prodotti dal riscaldamento stesso.

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Erone di Alessandria

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Ricostruzione dell’eliopilia di Erone

È vero che ai tempi di Colombo la gente credeva che la Terra fosse piatta?

Assolutamente no. Sin dall’antichità era ben chiaro che la terra avesse forma sferica sebbene a questa conoscenza mancassero alcune lacune (oggi ad esempio sappiamo che chi si trova nella parte sottostante della sfera terrestre non cade per effetto della forza di gravità, lo stesso effetto che ci fa percepire l’orizzonte rettilineo). Ci fu chi, addirittura, con metodi empirici, seppe calcolare, con un trascurabile margine di errore, la circonferenza della Terra. Si tratta di Eratostene di Cirene vissuto ad Alessandria nel III secolo a.C. il quale osservò che il giorno del solstizio d’estate la luce del sole riusciva a penetrare fino in fondo in un pozzo di Siene (l’attuale Assuan) e che nello stesso giorno l’ombra di un obelisco di Alessandria formava un angolo di 7° e 10’ tra la posizione dell’osservatore e quella del sole nel cielo. Partendo da questi dati e sapendo che le due città sorgono all’incirca sullo stesso meridiano, Eratostene stimò la distanza tra le due città e attraverso una serie di misurazioni più complesse (basate su una campagna di misurazioni del territorio egizio voluta dai funzionari regi per fini fiscali) riuscì a stimare con straordinaria precisione la circonferenza della Terra.

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Eratostene di Cirene

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La dimostrazione di Eratostene

Antonella Alemanni

Fonti:

Wikipedia

Atlante di storia dell’astronomia a cura di Luigi Viazzo Demetra editore   

MICHELANGELO. “O notte, o dolce tempo”

Michelangelo Buonarroti

Michelangelo Buonarroti

Come può esser, ch’io non sia più mio?
O Dio, o Dio, o Dio!
Chi m’ha tolto a me stesso,
c’ha me fosse più presso
o più di me potessi che poss’io?
O Dio, o Dio, O Dio!
Come mi passa el core
chi non par che mi tocchi?
Che cosa è questo, AMORE,
c’al cor entra per gli occhi,
per poco spazio dentro par che cresca:
e s’avvien che trabocchi?

Michelangelo Buonarroti, “Che cosa è,questo amore

La tomba di Michelangelo Buonarroti si trova all’inizio della navata destra della chiesa di Santa Croce, a Firenze,appena varcata la porta principale della Basilica. Il monumento funebre fu progettato da Giorgio Vasari, amico e collaboratore di Michelangelo e autore della sua biografia nelle celebri Vite. 

La tomba di Michelangelo,Basilica di Santa Croce, Firenze

La tomba di Michelangelo,Basilica di Santa Croce, Firenze

Il busto è opera di Battista Lorenzi che scolpì anche la statua allegorica della Pittura, fiancheggiata dalla Scultura di Valerio Cioli e dall’ Architettura di Giovanni Dell’Opera.

L’affresco con la Pietà fu eseguito da Giovanni Battista Naldini.

Michelangelo Buonarroti era morto a Roma il 18 febbraio 1564, all’età di 89 anni. Il 20 febbraio 1564, il corpo di Michelangelo viene deposto nella Chiesa dei Santi Apostoli a Roma. Lionardo, il nipote organizza il trasporto della salma a Firenze, ma temendo di poter essere ostacolato,nasconde il corpo di Michelangelo in un rotolo di panni e lo carica su un barroccio con altra mercanzia così la salma dell’artista arriverà a Firenze tre settimane dopo, il 10 marzo 1564. Il corpo viene depositato nella compagnia dell’ Assunta, dietro San Pier Maggiore e due giorni dopo viene trasportato in Santa Croce ,di notte, dagli artisti dell’ Accademia, in mezzo ad una folla immensa, al lume delle torce. Il 14 luglio 1564, dopo numerosi rinvii, si svolgono nella Chiesa di San Lorenzo i funerali di Michelangelo dopo di che il corpo del grande artista fu collocato nella sua tomba in Santa Croce, dove tutt’ora riposa.

Lapide tomba di Michelangelo

Lapide tomba di Michelangelo

Michelangelo giace significativamente accanto al cenotafio di Dante, morto in esilio nel 1321 e sepolto a Ravenna. Lo scultore fu un grande ammiratore del sommo poeta, al punto di dedicargli due dei suoi sonetti e di aver pensato di progettare un monumento alla sua memoria.

O Notte, o dolce tempo, benchè nero, 
con pace ogn’opra sempre al fin assalta, 
ben vede e ben intende chi t’esalta, 
e chi t’onora ha l’intelletto intero. 
Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero, 
che l’umid’ ombra e ogni quet’appalta, 
e dell’infima parte alla più alta
in sogno spesso porti ov’ire spero. 
O ombra del morir, per cui si ferma
ogni miseria all’alma, al cor nemica, 
ultimo degli afflitti e buon rimedio, 
tu rendi sana nostra carn’ inferma, 
rasciugh’ i pianti e posi ogni fatica
e furi a chi ben vive ogni ira e tedio…

Michelangelo Buonarroti “O notte, o dolce tempo”

“Natura non soddisfa più dopo di lui, non potendola vedere con gli occhi grandi come i suoi”

                                                                                                                                                               J.W.von Goethe

Marta Francesca Spini, studentessa,Scuola Secondaria di Primo Grado

ADORAZIONE dei MAGI

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Leonardo da Vinci, Adorazione dei Magi, 1481-1482, olio su tavola,Galleria degli Uffizi, Firenze.

Nel 1481 i monaci di San Donato a Scopeto commissionarono a Leonardo un’Adorazione dei Magi da completare in giro di due anni. Leonardo studiò approfonditamente la composizione, lasciando vari disegni preparatori: uno della composizione generale, dove compare anche la capannuccia, conservato al Cabinet des Dessins del Louvre, uno dello sfondo, al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi e vari studi riconducibili alla zuffa di cavalli o alla posizione della Madonna e del Bambino.

Studio per l'Adorazione dei Magi, Cabinet des Dessins

Studio per l’Adorazione dei Magi, Cabinet des Dessins, Louvre

Studio per lo sfondo dell'Adorazione dei Magi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

Studio per lo sfondo dell’Adorazione dei Magi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe,Uffizi

Nell’estate del 1482, l’artista partiva per Milano, lasciando l’opera incompiuta. Quindici anni dopo, certi ormai dell’inadempienza di Leonardo, i religiosi si rivolsero a Filippino Lippi per ottenere una pala di analogo soggetto, pure agli Uffizi.

L’Adorazione di Leonardo nel frattempo era rimasta allo stato di abbozzo in casa Amerigo de’Benci, il padre di Ginevra de’Benci della quale Leonardo dipinse un famoso ritratto. Nel 1601 si trovava nelle raccolte di do Antonio de’Medici, e dopo la morte di suo figlio Giulio, nel 1670 approdò alle Gallerie fiorentine.

La tavola di Leonardo, rimasta allo stato di monocromo, è quasi illeggibile per le vernici stese nei secoli. Da recenti indagini su un disegno preparatorio, un tempo appeso in Galleria come un quadro, si deduce un impianto prospettico complesso: un grandioso scenario composto da più episodi concatenati grazie a una sorta di moto continuo; un azione avvolgente popolata di uomini e animali che dovevano offrire di gruppo in gruppo quasi l’illusione d’una metamorfosi figurativa, densa anche di significati simbolici. Le rovine sul fondo, ad esempio, possono alludere alla caduta del paganesimo per l’avvento di Cristo.

Il tema dell'”Adorazione dei Magi” fu uno dei più frequenti nell’arte fiorentina del XV secolo, poiché permetteva di inserire episodi marginali e personaggi che celebravano il fasto dei committenti. Leonardo riusci a rivoluzionare il tema tradizionale sia nell’iconografia che nell’impostazione compositiva. Innanzitutto, come in altre sue famose opere, decise di centrare l’episodio in un momento ben preciso, ricercandone il più profondo senso religioso, cioè nel momento in cui il Bambino, facendo un gesto di benedizione, rileva la Sua natura divina agli astanti quale portatore di Salvezza, secondo il significato originario del termine “epifania”(manifestazione).

L’effetto è quello di uno sconvolgimento interiore di fronte al manifestarsi della divinità.

                                                                                                                                                                                                                                  Lucica

In Galleria nel 1670 dalla collezione di Antonio e Giulio de’ Medici, poi trasferita a Castello, torna agli Uffizi nel 1794.

SCULTURA NEL RINASCIMENTO – LA “PIETA'”

 

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Realizzata da Michelangelo alla fine dell’Quattrocento durante il suo primo soggiorno romano, la Pietà vaticana è una delle prime sculture dell’artista fiorentino. Gli fu commissionata dal colto cardinale francese Bilhères de Lagraulas, ambasciatore di Carlo VIII  e fu realizzata su modello dei dipinti e delle statue nordiche di medesimo soggetto.

Lo scultore crea un’opera di medie dimensioni e carica di eleganza, pathos e drammaticità sussurrata. La Madonna, coperta da un’ampia e drappeggiata veste e con le fattezze di una giovane donna che non ha conosciuto il peccato, tiene sulle ginocchia con dolcezza e rassegnazione il corpo senza vita del Figlio. Cristo, cinto in vita da un semplice velo, esprime attraverso il volto contratto e le membra abbandonate tutto il dolore e lo strazio di chi invece si è fatto carico delle brutture del mondo intero.

La Pietà, dettaglio con il volto di Cristo.

La Pietà, dettaglio con il volto di Cristo.

Il gruppo scultoreo, di forma piramidale, è realizzato con una perfezione tecnica e un’eleganza formale propri di Michelangelo e mostra una bellezza quasi ideale nei volti. I corpi sono modellati morbidamente e carichi di grazia e armonia, mentre i visi sono delicati e scolpiti finemente. 

La Pietà, dettaglio con il volto della Madonna.

La Pietà, dettaglio con il volto della Madonna.

 

C’è un’estrema compostezza nei gesti e nelle espressioni che conferisce solennità alla scena. Il dolore di una madre per la perdita del figlio, che qui si carica di valore universale, non è urlato né esibito con violenza, ma è trattenuto e racchiuso nell’infinita dolcezza e accettazione con cui la Madonna sorregge Cristo, ma questo gesto rende la sofferenza ancora più straziante.

La materia è levigata con estrema cura, tanto da dare alla superficie un aspetto lucido e quasi trasparente.L’opera è stata firmata  dall’artista per evitare false attribuzioni: sul busto della Madonna si legge infatti la dichiarazione orgogliosa: Michaelangelus Bonarotus florent(inus) faciebat. 

Inizialmente destinata dal suo committente alla chiesa di Santa Petronilla, la Pietà è oggi una delle maggiori attrattive della Basilica di San Pietro in Vaticano.

 

                                                                                                                                                                                                                                            Lucica

 

 

fonte: Guida alla Basilica di San Pietro, Città del Vaticano

CONCERTANDO DA DIECI ANNI

TALAMONA 8 febbraio 2014 un grande evento musicale alla palestra comunale

IL GRUPPO MUSICALE GAUDENZIO DELL’OCA FESTEGGIA I SUOI PRIMI DIECI ANNI DI ATTIVITA’ COL CONTRIBUTO DI UN OSPITE INTERNAZIONALE

Nato nel 2004 il gruppo musicale Gaudenzio dell’Oca ha come obiettivo quello di favorire e diffondere la conoscenza del repertorio musicale per orchestre e bande di fiati nonché in generale la crescita culturale. Composto inizialmente da 39 membri tutti residenti in provincia attualmente ne conta 55 e ha all’attivo 50 concerti nell’ambito dei quali sono stati proposti oltre 70 brani sotto la direzione di diversi maestri: Michele Brambilla dal 2003 al 2006, Armando Saldarini dal 2007 al 2009, Franco Arrigoni dal 2009 al 2011 e Savino Acquaviva a partire dal 2012.

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nella foto: L’associazione musicale “Gaudenzio Dell’Oca” durante il concerto di fine anno 2013.

Una carriera, quella del gruppo musicale, costellata di successi e riconoscimenti e che questa sera alla palestra comunale a partire dalle ore 21 festeggia il suo decennale con un evento musicale intenso e ricco di brani coinvolgenti e variegati che percorrono vari registri, dal drammatico, all’allegro, al cupo. A fare gli onori di casa l’assessore alla cultura della Comunità Montana di Morbegno Cristina Ferrè e il sindaco di Talamona Italo Riva in rappresentanza dell’intero Comune che, con la collaborazione della Filarmonica e dell’Unione sportiva talamonese, ha offerto lo spazio per poter allestire il concerto proprio qui nel nostro paesello, una precisa richiesta del gruppo Gaudenzio dell’Oca che proprio qui tenne il primo concerto e qui ha voluto tornare per festeggiare il decimo compleanno. Nei loro discorsi oltre agli omaggi al gruppo musicale ospite e ad una piccola introduzione alla serata anche la presentazione della rassegna CONCERTANDO 2014  di cui questa serata è il primo evento in calendario (al quale ne seguiranno 6: sabato 5 aprile alle ore 21 a Traona presso la chiesa di S. Alessandro; sabato 12 aprile alle ore 21 a Rogolo presso la chiesa di S.Abbondio; sabato 10 maggio alle ore 21 a Roncaglia presso la chiesa di S. Giacomo; sabato 24 maggio alle ore 21 a Morbegno presso il santuario di S M Assunta; domenica 25 maggio alle ore 21 ad Albosaggia presso la chiesa di S. Caterina e  sabato 21 giugno alle ore 21 ad Andalo in Piazza V Alpini). Una rassegna volta a far conoscere la musica, ma anche i nostri luoghi più belli dal punto di vista paesaggistico e culturale.

Ad aprire il concerto il brano TOCCATA di Girolamo Frescobaldi, che appare in una raccolta di sei pezzi per violoncello di Gaspar Cannavò che scrisse il brano di suo pugno attribuendolo a Frescobaldi perché è alle sue opere che si era ispirato. Hans Kindler il direttore della National Orchestral Symphony Opera riconobbe il valore della TOCCATA e la trascrisse per orchestra ripubblicandola poi nel 1942. Successivamente il brano è stato nuovamente trascritto nell’università del North Carolina nel 1956.

A seguire il brano SERENATE SULLA SOGLIA DEL PARADISO di Hardy Mertens un brano che consiste in una serie di variazioni di canti popolari dei Paesi Bassi in uno stile di serenata in cui si immaginano i cantanti di strada accompagnati da chitarra e fisarmonica. La composizione è in nove parti che alternano ritmi differenti: dalla marcia, al valzer a brani più meditativi dei quali questa sera ne sono stati eseguiti cinque.

Il terzo brano eseguito si intitola RUSSIAN CHRISTMAS MUSIC di Alfred Reed il quale a 23 anni era già arrangiatore della Harmonic Company quando gli venne commissionato questo brano destinato a divenire un capolavoro ispirato alla musica liturgica della chiesa ortodossa orientale la quale però è interamente vocale senza ausilio dunque di accompagnamenti musicali. Il talento di Alfred Reed è stato proprio quello di riuscire a carpire le sonorità di questi canti liturgici, le loro inflessioni traducendoli nel linguaggio strumentale. Il brano si compone di un unico momento suddiviso in quattro movimenti. Reed compì delle ricerche nel campo della liturgia ortodossa e trovò un canto del XVI secolo eseguito da bambini che offrì lo spunto per l’introduzione di questo brano mentre dall’insieme di altri canti creò il resto rielaborandolo poi per grande banda. La versione eseguita questa sera è un’ulteriore rielaborazione per piccola banda arrangiata da Jeffrey Curnow.

Il brano successivo è stato particolarmente intenso per il fatto di essere stato accompagnato anche dal canto, dalla splendida voce solista di Barbara Ravasio. Si tratta del MAGNIFICAT di Marco Frisina, autore di numerosi canti di ispirazione religiosa e paraliturgici conosciuti in Italia e all’estero, nella cui discografia sono presenti collaborazioni con importanti artisti internazionali. Frisina ha eseguito inoltre una ventina di oratori sacri ispirati alla vita di grandi santi o a personaggi biblici alla presenza dei pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e ha tradotto con linguaggio musicale tra gli altri IL CANTICO DEI CANTICI e LA PASSIONE DI SANTA CECILIA.  Nel 2000 in occasione del Giubileo ha inciso un disco intitolato DALLA TERRA con la collaborazione di Mina dal quale è tratto il brano che è stato eseguito questa sera. Si tratta di un canto contenuto nel primo capitolo del Vangelo di Luca col quale Maria accoglie la grazia di essere stata scelta da Dio quale madre del Salvatore, per questo è conosciuto anche come CANTO DI MARIA. Il nome MAGNIFICAT deriva dalla prima parola del primo verso.

Finora la direzione dell’esecuzione dei brani presentati è stata affidata al maestro in carica del gruppo Gaudenzio Dell’Oca, Savino Acquaviva, il quale oltre ad essere direttore è anche clarinettista e sassofonista diplomato sotto la guida del maestro Giuseppe Tassis e con una brillante carriera alle spalle fra le altre cose come membro di giuria, come insegnante di corsi di direzione, stages e master classes, arrangiatore e collaboratore dell’istituto superiore di studi musicali Donizetti.

Ed è col brano successivo che è arrivato il momento clou della serata durante il quale è stato presentato l’ospite internazionale, il maestro Andrè Waignein. Nato nel 1942 a Mouscronnel in Belgio si è avvicinato molto presto alla musica con l’aiuto del padre, che già svolgeva il mestiere di musicista e dopo aver studiato al conservatorio di Bruxelles ha intrapreso una carriera caratterizzata da un continuo susseguirsi di successi come direttore d’orchestra e anche compositore versatile di musica da camera, sinfonica e per orchestre di fiati, un repertorio composto da più di mille opere conosciuto ed apprezzato in tutto il Mondo consacrato da ben 25 premi nazionali ed internazionali. Questa sera il maestro Waignein ha onorato i presenti in qualità di direttore ospite presentando una sua composizione in anteprima mondiale e dirigendola lui stesso permettendo così di far conoscere ed apprezzare uno stile di direzione particolarmente istrionico ed emotivo. L’opera si intitola ODE A EOLE ed è stato il maestro stesso, una volta terminata l’esecuzione, a raccontare la genesi e lo sviluppo di questa composizione prontamente tradotto dal francese dal presentatore di tutti i brani eseguiti. Tutto è cominciato da una telefonata che il maestro Waignein ha ricevuto dal presidente del gruppo Gaudenzio dell’Oca Walter Borromeo proprio in occasione dell’avvicinarsi del decennale del gruppo medesimo. Il signor Borromeo in questa occasione avrebbe chiesto al maestro Waignein di portare una sua composizione originale da presentare al concerto per il decennale. Il maestro Waignein stava già lavorando a due composizioni destinate a due diversi Paesi: una per il Giappone e un’altra per gli Stati Uniti. In accordo col signor Borromeo il maestro Waignen ha proposto di scegliere tra questi due pezzi ed è stato scelto il pezzo per il Giappone, l’ODE A EOLE appunto, un pezzo che nasce dal grande amore del maestro per la Natura,  i suoi suoni, le sue manifestazioni: il sole, la neve, la pioggia, il vento, principale protagonista dell’opera considerato dal maestro una fonte di vita senza il quale non si riuscirebbe a comprendere l’evolvere della vita. Un pezzo in cui il maestro ha voluto fondere con le manifestazioni della Natura le sue personali impressioni ed emozioni di fronte ad esse. Durante la serata c’è stato ancora modo di apprezzare il maestro Waignein nella direzione di uno dei due bis concessi dopo il concerto per il termine del quale mancavano ancora due brani diretti da Savino Acquaviva. Il penultimo brano CHESTER di William Shuman è il terzo movimento di una sonata intitolata NEW ENGLAND, una delle opere più famose di questo compositore scritta nel 1956 -1957, una melodia che si ispira ad un inno di William Bedesc, inno adottato dall’esercito continentale e che veniva cantato intorno ai fuochi durante la Rivoluzione Americana, un sostegno prezioso per i coloni per via delle sue parole di libertà. Quest’inno venne successivamente ripreso e rielaborato con sonorità particolari, a volte brillanti, incisivi nel descrivere gli stati d’ansia ed agitazione delle truppe in battaglia.

Siamo dunque giunti all’ultimo brano della serata MUSIC FOR A SOLEMNITY di Jan De Haan. Durante il XVII secolo nel paese di Hoengenven, nei Paesi Bassi, la chiesa locale non aveva le campane e i fedeli venivano richiamati alla preghiera tramite il suono di un tamburo. In seguito anche in quel paesino vennero installate le campane, ma si decise comunque di mantenere vivo il ricordo della tradizione fino ai giorni nostri a tre secoli di distanza. MUSIC FOR A SOLEMNITY è stata commissionata dalla banda del paese e scritta in tributo a John Williams. Si tratta di un’opera festosa, ispirata da un lato ai ritmi delle percussioni e dall’altro alle colonne sonore di questo celebre compositore americano. Jan De Haan, nel comporre questo brano, lascia proprio presagire l’inconfondibile stile dell’autore reso celebre da film come GUERRE STELLARI e INDIANA JONES  (se orecchio non mi inganna mi sembra di aver riconosciuto personalmente almeno altre due colonne sonore: quella di 2001 ODISSEA NELLO SPAZIO e forse VIA COL VENTO, ma su questa sono meno sicura ndr).

Dopo l’esecuzione di questo brano è venuto il momento degli omaggi per festeggiare il compleanno del gruppo musicale e la partecipazione del maestro Waignein nonché di due bis che hanno arricchito ulteriormente una serata ricca di contenuti, di note che contengono un intero universo di storie ed aneddoti.

Quando ormai il pubblico stava andando via sono riuscita ad ottenere una piccola intervista al maestro Waignein che si è svolta con l’aiuto del presentatore dei brani (da cui ho anche tratto spunto per le nozioni culturali inserite nell’articolo). Ed è con la trascrizione dell’intervista che ora concludo.

Durante il concerto abbiamo ascoltato com’è nato il brano che lei ha presentato e ora colgo l’occasione per chiederle di raccontare in generale il processo creativo che porta ad immaginare e ad inventare delle sonorità nuove, una musica che prima non c’era, dato che la composizione musicale è un talento che non possiedo, ma che mi ha sempre affascinato.

C’è da dire che i compositori sono sempre pervasi dall’ispirazione, in ogni momento della vita. Io posso scrivere della musica basandomi su ogni cosa che guardo, che vedo: quando guardo la natura, quando guardo le persone eccetera, perché il mondo è pieno di belle cose che possono fornire infiniti spunti da tradurre nel linguaggio musicale perché in fin dei conti la musica è un linguaggio.

Un linguaggio di cui bisogna avere la padronanza, un linguaggio per cui bisogna essere nati come tutte le arti. In base all’arte cui si è portati se si è portati di fronte alla stessa cosa ci si può esprimere con modalità differenti

Assolutamente è vero io devo cercare in primo luogo l’ispirazione dentro di me e ognuno la deve cercare nel proprio cuore, nell’interiorità delle emozioni e poi tutto questo viene codificato nel linguaggio musicale che è un linguaggio fisso con le sue regole fatto di note…

A questo proposito avrei un’altra curiosità. In ambito musicale esistono due scuole di pensiero. Partendo dal presupposto che le note iniziali sono sette ed è con esse che bisogna partire per creare tutta la musica possibile e immaginabile c’è chi dice che questo processo creativo può ripetersi all’infinito in infinite variazioni sempre nuove e c’è chi dice che si arriva ad un certo punto in cui le sette note portano a dei limiti e a far si che le musiche nuove composte possano somigliare sempre più ad altre gia esistenti. Qual è la sua opinione in merito?

Io credo che sia impossibile ripetersi perché è vero che la musica è fatta a partire da sette note, ma esistono anche altre sfumature come le pause, i silenzi, i ritmi differenti, i bemolle, le note alterate che moltiplicano ulteriormente la possibilità di ottenere sonorità sempre nuove e diverse e che arricchiscono il linguaggio musicale.

Dunque senza alcun dubbio la sua scuola di pensiero è quella che propende verso la creazione musicale all’infinito.

Si senza alcun dubbio.

Merci, bonsoir!

 

Antonella Alemanni  

100 ANNI IN MONTAGNA. L’ ALPINISMO E LE GUIDE ALPINE

Quando vogliamo parlare delle montagne, una domanda sorge naturalmente: “Chi furono i primi locali a frequentare le montagne?” Con l’eccezione delle famiglie agiate del fondovalle che dai “freschi delle località di villeggiatura partivano per escursioni fuori porta, gli alpinisti ante litteram furono sicuramente i cacciatori. Non ci sono pervenuti ne diari, ne resoconti pubblicati sui giornali, gelosi come erano delle loro riserve di caccia, ma solo racconti delle loro imprese, tramandate oralmente a figli, nipoti e amici.

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ALFONSO VINCI

Un posto speciale in questa carrellata di alpinisti, lo ebbe sicuramente Alfonso Vinci che negli anni 1938 e 1939 portò a termine una delle più interessanti salite della Val Masino: sulla Punta Milano, sul Pizzo Ligoncio, sulla Punta Sertori e sul Pizzo Cengalo.

Val Masino

Val Masino

Alfonso Vinci nasce a Dazio in Valtellina nel 1915. Ufficiale nella Scuola Militare degli Alpini, negli anni ’30 fu un alpinista di punta (è famoso lo “Spigolo Vinci” al Cengalo, ma più significativa una via estremamente difficile sull’Agner, ancor’oggi poco ripetuta), insignito con la medaglia al valore sportivo dal Regime Fascista. In Italia, all’Università di Milano, si laurea in Lettere e Filosofia e in Scienze naturali con la specializzazione in Geologia. Aderisce alla Resistenza ed è conosciuto come “Bill”, il leggendario capo partigiano della divisione valtellinese delle Brigate Garibaldi. Subito dopo la guerra si imbarca, con in tasca un biglietto di sola andata, per il Sud America.

Alfonso Vinci alla Savana Kirisuochi (Spedizione Shiriana, Venezuela, 1953)

Alfonso Vinci alla Savana Kirisuochi (Spedizione Shiriana, Venezuela, 1953)

Fu alpinista,esploratore,cercatore di diamanti in Brasile Cile e Venezuela.Ebbe anche il tempo di scrivere diversi libri alcuni dei quali ambientati in Amazzonia,e molti articoli sull’alpinismo,dove poté mettere in evidenza il suo modo di concepire l’arrampicata.

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“Quando qualche rara struttura permette un’arrampicata estremamente difficile,ma che sia vera e naturale,allora essa non presenta che le solite conosciute e talvolta esagerate differenze:appigli lontani e scarsi;loro conformazione tendente all’arrotondamento,o piuttosto pianeggiante,dove occorre lavorare di palmo per poter sostenersi.Struttura a grande disegno,quindi arrampicata più atletica,elegante ma faticosa,e sebbene meno delicata,molto più precisa e misurata che quella in dolomia (roccia sedimentaria carbonatica costituita principalmente dal minerale dolomite).La caratteristica particolare del sesto grado sul granito della Val Masino si compendia non in acrobatismi,ma in fatica bruta,in estremo coraggio,in lunghezza di itinerari che nascondono sempre sorprese sgradevoli,nell’applicazione di tutte le più raffinate risorse artificiali della moderna tecnica.Per la mancanza di asperità, per la levigatezza delle placche enormi che si accavallano nel cielo,la cuspide di granito è ben più terribile della dolomitica”.

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L’impresa più importante di Alfonso Vinci,per la quale ricevette la medaglia oro al valore atletico nel 1939,fu la salita alla parete OSO del Monte Agner nelle Pale di S.Martino.Parete di 1300 m,ritenuta l’ultimo problema alpinistico delle Dolomiti,che richiese due giorni di scalata,per di più avversate dal maltempo,e due bivacchi( l’accampamento notturno all’aperto).

In suo onore, il Pizzo Cengalo,cresta Sud Sud Ovest fu denominato “Vinci.”

Pizzo Cengalo-Spigolo Vinci

Pizzo Cengalo-Spigolo Vinci

Tutto questo fa di Alfonso Vinci un personaggio straordinario,emblematica figura di italiano intraprendente,indipendente e coraggioso,uomo di azione ma anche di grande cultura che dai lontani e “spensierati”anni ’50 ci trasmette spunti interessanti  di riflessione.

Marta Francesca Spini e Matilde Cucchi

studentesse,scuola secondaria di primo grado

fonte:Album Club Alpino Italiano,2002,”Cent’anni di montagna in bassa Valtellina”.

SAN GIORGIO- “SAN GIORSC”(in dialetto)

Esiste un talamonese che non conosca San Giorgio o non sappia dove si trova? Penso di no.

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Ritengo invece che, passando le generazioni, cambiando gli usi e i costumi, molti non sanno che San Giorgio per molti anni, si può dire per diversi secoli, è stato una centro vivo, in particolare in estate, attorno al quale gravitava una ricca presenza umana e vedeva il passaggio di persone e animali che salivano ai vari maggenghi e ne discendevano: gli animali, soprattutto mucche, quando venivano condotti  all’inizio dell’estate e riportati a valle a settembre, e le persone più  frequentemente con carichi di legna in discesa o con provviste in salita per le famiglie.

Tutto questo anche dopo essere stato “vicinìa” cioè contrada di Talamona fin dalle origini, abitata stabilmente. A piedi, si raggiunge passando per ul Pra da l’Acquo, da San Rigòri, o anche costeggiando il torrente Roncaiola dal Punt di Fraa; chi vuol fare più  in fretta sale da la Möio e arriva dritto dritto sotto il muro che sostiene il sagrato.

Da qui si può proseguire per una rosa di maggenghi che va da Prümgnano,  al Runc, a Grum, al Fopp, a la Curt dul Belàdru, a la Bgianco.   Se si procede, inoltrandosi nella valle della Roncaiola, in breve si giunge al Crusèti ,da dove parte il ventaglio formato da la  val Valeno e da la Val di Zapèi. I sentieri portano a la Baito del  Sciarèes, al Chignöol, al Baitun Bgianc, a Madréro, al Fuu del’Ustario e ‘n Pigolso. Proseguendo, si sale a Pédròrio. Traversate  le due valli, si prende il sentiero per ul Praa d’Olzo, per Olzo e la Baitelo. Proseguendo ancora, si sale al Custesèli. Come si vede, San Giorgio si trova al centro di un ventaglio di valli, e di baite, maggenghi e alpeggi, molto ampio, che era dotato di numerosi sentieri, anche intervallivi.

Dall’alto, partendo dalla corona delle cime, dal Piz Volt  a la Scimo de Laac, anche lo sguardo, scendendo, confluisce e si ferma proprio sulla cima del campanile di San Giorgio.

La Messa festiva

Un particolare e molto numeroso afflusso degli abitanti dei maggenghi avveniva alla domenica, durante l’estate, quando per più di cinquant’anni nel secolo scorso, veniva celebrata la Messa cantata da  quel sacerdote  molto amato dai Talamonesi che era Don Vincenzo Passamonti.

 

Don Vincenzo, all’inizio dell’estate, si trasferiva nella casetta azzurra, posta circa duecento metri sopra la chiesa e vi abitava tutta  la stagione estiva. San Giorgio diventava allora una succursale della parrocchia con la Messa tutte le mattine, le confessioni e le comunioni, il primo venerdì del mese, la recita del rosario e alla domenica, la messa cantata (méso grando), i vespri, la dottrina…

Ma andiamo in ordine.

Cenni di storia

La chiesa di San Giorgio, ricorda Don Turazza nella sua storia di Talamona (*), risale attorno al 1100-1200  e il bel campanile in stile romanico pare testimoniarlo.

A custodire la chiesa almeno dal 1390, fu  Pietro de Massizi, chiamato “frate di San Giorgio” che abitava in una casa vicina e aveva l’incarico di tenerla  in ordine, con i paramenti e tutti gli arredi. Dopo di lui proseguì suo figlio Giovanni (**). In quei tempi e in quelli immediatamente successivi, probabilmente vi abitava stabilmente anche un sacerdote che celebrava regolarmente la Messa per tutti gli abitanti dei vari maggenghi che allora erano vere e proprie frazioni chiamate vicinìe. Forse è di quegli anni l’origine delle leggende come quella dell’ Animo danado e del Cavalièr de San Giorsc, nate sulla storia tramandata di un castello che pare sia sorto sullo sperone che lo  divide dalla Valle della Roncaiola, e che conserva il  toponimo di Castèl  ancora oggi, accessibile solo dalla parte della chiesa e strapiombante sulla valle indicata come “despüs castèl”,  a significare un posto poco frequentato e nascosto: una grande forra altissima. Da questa parte non si può salire: la costruzione di un castello può quindi essere  più che giustificata, perchè avrebbe dominato tutta la valle e il conoide formato dalla Roncaiola, fino all’Adda.

Nelle cronache della visita pastorale del Vescovo di Como Feliciano Ninguarda del 1589 in Valtellina, che  allora, come adesso, era parte della diocesi lariana, si legge:

 “ A circa tre miglia sul monte di Premiana c’è la chiesa di S. Giorgio con il paese dello stesso nome, che conta quaranta famiglie, ma tutte sparse. La chiesa è consacrata e nella festa del santo è visitata processionalmente da tutti i paesi e frazioni vicini. Da poco in questa chiesa è stata costruita da un pio uomo di Talamona una cappella in onore di S. Lorenzo elegantemente ornata e dotata di molti paramenti, di un calice di argento dorato e di annui proventi costituiti da 32 botti di vino, 25 staia di mistura e sei grandi libbre di burro. A tutto ciò il benefattore decretò di aggiungere altri proventi e la casa così che fosse mantenuto un cappellano con l’obbligo di celebrare quattro messe la settimana; attualmente ne è cappellano il sac. Giacomo Mosizio di Talamona.”

La cronaca del vescovo, sempre precisa, ci fornisce alcune notizie certe come:

– S. Giorgio era un piccolo paese abitato tutto l’anno;

– la chiesa era molto conosciuta, tanto che la festa di S, Giorgio richiamava in processione gli abitanti dei paesi e delle frazioni vicine;

– la chiesa era tanto importante da essere dotata di una cappella laterale dedicata a San Lorenzo, di paramenti, di arredi sacri e di altri proventi da parte di un ricco benefattore;

– il cappellano aveva una casa dove   abitare e  aveva l’obbligo di celebrare 4 messe la settimana;

Il vescovo riporta  il nome del cappellano che reggeva la  chiesa al momento della visita pastorale: un prete di Talamona. Mosizio o anche Mosizi, infatti, è un antico cognome talamonese, di Premiana, ora estinto.

E’ lecito pensare che il vescovo Ninguarda si sia recato personalmente a visitare San Giorgio?

Io propendo per il sì, vista l’accuratezza con cui ha riportato i dati nella sua cronaca pastorale.

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Ormai S. Giorgio, nemmeno d’estate, ha più la vita di allora, quando le case portavano il numero civico della vicinìa. Alcuni numeri si possono ancora vedere sulle antiche abitazioni,  che, in generale  sono state ristrutturate e sono usate come seconde case. Di mucche, animali tipici dei maggenghi, con capre e pecore, che fino alla seconda metà del 1900, accompagnavano le famiglie che qui falciavano il fieno per avere da loro il latte, non se ne vedono più.

L’ Agnesìn

Di fronte alla facciata della chiesa, però, c’è sempre una casa, di là dall’ “ùo”, quella specie di canale selciato con grandi e molto grossi “pciutùn”, più ripido di una strada, che serviva a portare a valle i tronchi, “le borre”, e le priale della legna: è la casa della famiglia Zuccalli. Stando sul portone della chiesa e traguardando dal  quello  di accesso  al recinto del sagrato, la si vede proprio lì davanti.

La famiglia Zuccalli, che in paese abita in via Mazzoni, aveva avuto l’incarico di sagrestana della chiesa d San Giorgio,  almeno dal 1630, cioè continuava le funzioni che svolgeva la famiglia Massizi con quel “frate di San Giorgio” che abbiamo ricordato prima e poi suo figlio. Per tanti anni la vera sacrista di San Giorgio, da quando era giovane fino alla morte avvenuta pochi anni fa’, è stata Agnese Zuccalli, da tutta conosciuta  come “l’Agnesìn.

L’amore e l’attaccamento che aveva per San Giorgio erano infiniti. Quando l’ho conosciuta, proprio a San Giorgio, ero un ragazzino. Con la nonna Maria, da  Prümgnano, con i miei cugini, andavamo a messa d’estate, tutte le domeniche.  Lei era sempre presente, e la chiesa sempre pulita, come tutti i paramenti erano in ordine e preparati, pronti per essere usati da Don Vincenzo. Se qualcuno arrivava presto e lei non era in chiesa, bastava chiamare: Agnesìn , che lei si precipitava ad aprire.

E aveva il suo da fare, perchè alla domenica le tantissime famiglie  che,  provenienti dalle varie contrade del paese, erano salite ad abitare tutta l’estate i maggenghi, si radunavano per tempo al mattino, sul verde praticello del sagrato per poi assistere devoti alla S. Messa cantata, e suonata sull’armonium, da Don Vincenzo.

I vestiti

Gli uomini si vestivano “de la festo”, con gli abiti migliori che avevano “purtaa sù” dal paese, con le scarpe lucide e la camicia bianca, l’immancabile gilé e la giacca; non mancava mai il cappello. Le donne, anch’esse agghindate, avevano “la raselo da mez” ben stirata, con le grandi pieghe, magari   “cul scusal sü suro”, e portavano la camicetta bianca  sotto il busto scuro a volte ricamato finemente, freschi di bucato. Sopra  tutto l’immancabile “panèt”, che tutte le donne portavano per rispetto, quando si recavano alle funzioni in chiesa. Le più giovani portavano il velo.

“Ul panèt” era una grande quadrato di stoffa nera o marrone scuro, dotato di lunghe frange su tutti i lati, che veniva ripiegato in due a formare un triangolo. Il lato così piegato veniva appoggiato sul capo in modo che il vertice del triangolo, con le doppie frange, ricadesse sulla schiena, coprendola praticamente tutta, comprese le spalle e quasi tutte le braccia. Il bordo appoggiato su capo, ricadendo sui lati, veniva riunito sul davanti, quasi fosse un grande mantello. In generale il tessuto era lucido e, a volte, portava ricamato sui bordi, qualche discreto fiorellino come ornamento. Non si vedevano donne in chiesa, durante le funzioni, senza ul vél  u ‘l panét.  Quelle di passaggio che si fermavano ad ascoltare la S. Messa, si ponevano sulla testa un fazzoletto pulito. Ovviamente, non esistevano donne con i pantaloni né in chiesa né fuori: solo scusàal u i  petür lunc.

Finita le Messa, i fedeli tornavano alle loro baite, con calma, anche perchè le donne non dovevano

preparare il pranzo. Infatti si usava, particolarmente alla domenica, unire colazione e pranzo, mangiando verso le 10. La Messa era alle 11.

Noi ragazzi, trovandoci in molti, approfittavamo per giocare, rincorrendoci sul sagrato e attorno alla chiesa. Niente giochi con la palla: sarebbe finita giù per le selve. Il sagrato con il suo spazio piano, si prestava al gioco de la “varìo” , o del rincorrerci, anche uscendo, e poi rientrando, da uno dei due portoni del recinto, quello a est o quello a ovest,  e passando nello spazio stretto che divideva la chiesa dal muro di sostegno del terreno a monte, che serviva per facilitare lo scolo delle acque, verso valle, e tenere asciutto il muro della chiesa.

Quelli che abitavano nei maggenghi più vicini tornavano nel pomeriggio per i Vespri.

Don Vincenzo

Un certo numero di anziani, tutti erano molto amici di Don Vincenzo, si fermavano a San Giorgio, salivano fino alla casetta azzurra, dove lui abitava, e approfittavano del primo pomeriggio per fare alcune partite a bocce, annaffiate da un buon bicchiere di vino, offerto da Don Vincenzo. Dopo la partita, assistevano ai Vespri, cantavano i salmi col celebrante e poi tornavano alle proprie  baite per mungere e finire i lavori della stalla. Le mucche, si sa, mangiano e devono essere munte  e accudite anche di domenica.

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Foto: Don Vincenzo con il padre Bartolomeo(1859-1942)

Don Vincenzo, di fianco alla casa, aveva ricavato un ottimo gioco delle bocce, lavorando personalmente alla costruzione. Ricordo che, passando un giorno con i miei cugini e la zia, per recarci al torrente per il bucato  (che faceva la zia), sul sentiero che passava appena sopra la casa del prete, mi ero meravigliato nel vederlo senza veste talare. Infatti era in camicia, con i pantaloni neri alla zuava e gli scarponi. Aveva in mano un piccone e stava scavando per preparare il terreno per la costruzione dei muretti per il gioco delle bocce. Chissà se c’è ancora quel campo da gioco costato tanta fatica!

Don Vincenzo  per la gente si identificava con San Giorgio e San Giorgio  con lui: erano una sola cosa  per tutti noi. Credo ancora oggi nel ricordo del santo prete.

Momenti particolari

Durante l’inverno e nelle mezze stagioni, parlo sempre del periodo attorno alla metà del secolo scorso, San Giorgio era disabitato. Passavano quelli che andavano a fare la legna per l’inverno e c’erano  alcune di occasioni in cui ci si recava per la messa.

Una era il lunedì di Pasqua, quando si saliva per la messa, sempre celebrata da Don Vincenzo, e noi giovani approfittavamo per fermarci tutta la giornata, salendo al “castèl” a mangiare un panino e magari andando a vedere, più un basso, sull’altro versante, “ul böcc de l’animo danado”, buttandovi dentro un sasso per sentire il rumore della caduta. Tanto è profonda questa spaccatura nelle roccia, che non si riesce a sentirne la fine.

Un’altra occasione  era la terza e ultima processione delle Rogazioni, che, partendo dalla chiesa parrocchiale, saliva fino a San  Giorgio passando per “Ca di Giuan”, “San Rigori”, “ul punt di fraa”,

“Pra da l’acquo”. In cima ai prati, qui, si trova “la poso di prévecc”, un ripiano ricavato nel muro a monte della strada, a mò di panca. Credo che sia stata  chiamata così proprio perchè i sacerdoti, prima di affrontare l’ultimo tatto di mulattiera che attraversa il bosco, prima di San Giorgio, potessero riposarsi un pò.

Giunta la processione, che era molto frequentata, nella  chiesa, veniva celebrata la S. Messa e poi  i fedeli tornavano liberamente a valle, alle proprie case.

San Giorgio, rimaneva e rimane lassù, circondato dalla corona di montagne, carico di storia, con il suo misterioso “Castèl cul so böcc” e soprattutto con il ricordo della veneranda figura di Don Vincenzo che l’ ha caratterizzato per oltre mezzo secolo. E non dimentichiamo l’Agnesìn, altro simbolo di San Giorgio.

L’ossario

A San Giorgio, fino a qualche decennio fa’ c’era anche l’ossario, come in molte delle vecchie chiese dei paesi e delle frazioni valtellinesi di montagna. Erano delle costruzioni apposite, dove venivano custodite le ossa dei defunti ordinate in modo particolare, ed esposte al ricordo e alle preghiere dei  discendenti che le trattavano con particolare devozione.

Questa devozione era possibile esternarla con la recita di un Requiem o di un De profundis, tutte le volte che si passava per San Giorgio e non si poteva non passare davanti alla chiesa.

Proprio davanti alla chiesa, l’ossario di San Giorgio è posto, in un corpo dell’edificio che continua la parete sud, addossato al campanile, a formare un angolo retto con la facciata. Entrando nel recinto del sagrato dal portone a ovest, verso le case, vi si passa davanti per accedere  alla chiesa.

Ebbene qui è stato costruito un localino stretto, con un altarino sul lato lungo. Sotto l’altare è stata ricavata una cavità dove erano poste le ossa dei defunti, visibili, dal sagrato. Infatti la cappelletta era protetta da un muretto con una grata in ferro sopra. Di lato alla grata è posta una porticina di accesso e davanti un gradino a mo’ di inginocchiatoio.

I passanti, entravano e si inginocchiavano  per una preghiera. Difficilmente si passava senza fermarsi.

Ora le ossa sono state poste nel cimitero di Talamona e quindi lo spazio sotto l’altare è vuoto.

Il ricordo però rimane e deve rimanere a testimoniare la fede dei nostri antenati.

Ora da San Giorgio si passa in auto e la strada si trova sopra la chiesa. Le visite sono diventate più rare, a meno che non ci si fermi apposta per ammirare la contrada e soprattutto la chiesa con i suoi affreschi.

I maggenghi che gravitavano su San Giorgio per la messa domenicale.

Lascio immaginare al lettore, quanto erano frequentati alla domenica i sentieri che convergevano a San Giorgio e quanta gente vi passava all’andata e al ritorno.

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I fedeli provenienti dal Cà ruti, da Prümgnano de sut cun la Fopo, da Prümgnano de suro, dal Runc, da Bunanocc, da Grum, dal Fopp, da la Curt dul Beladru, da la Bgianco e qualche volta da Dundun, entravano nel recinto del sagrato e poi in chiesa, passando dalla porta posta a Est, verso le selve.

Quelli provenienti dal Pra da l’acquo e da Faii suto e suro, salivano dal basso ed entravano dalla porta posta a Ovest, passando davanti all’ossario per entrare in chiesa con tutti quelli che giungevano dal  Cruséti, dal Chignöol, dal Praa d?olzo e da Olzo. Poche volte scendevano anche da Madréro e da Pigolso,  più lontane.

A occhio e croce, si può calcolare, essendo la chiesa sempre piena, che fossero costantemente presenti almeno un centinaio di persone e, nelle grandi feste, come a Ferragosto, anche di più.

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(*) Il titolo esatto è: “TALAMONA – Notizie documentate di storia civile e religiosa” raccolte dal Sac. Don Giacinto Turazza – Arti Grafiche Valtellinesi- Sondrio – 1920.

(**) Della  storia di San Giorgio  parlerò più dettagliatamente prossimamente, con un’apposita scheda.

Nota: 1) In talamun esistono due lettere la a e la n che non sempre si pronunciano come in italiano. La a di mamo viene pronunciata con un suono a metà tra la a e la o, piuttosto nasale.

La n di talamun viene pronunciata con un suono nasale marcato e da dentale diventa palatale.

Volendo indicare graficamente il suono di queste due  lettere nel dialetto scritto, non ho trovato altro modo che scriverle sottolineate a e n per distinguerle da quando vengono pronunciate normalmente, come in Ca di Giuan.

2)  I nomi delle località sono scritti come vengono chiamate nella parte alta del paese, dove la parlata dialettale ha subito un po’ meno l’influsso dell’italiano a differenza della parta bassa, dove, forse per cercare di ingentilirli,  vengono un po’ modificati.

Es:  Prümgnano  a Cà di Giuan  diventa Premiana  in Piazza, Ranciga…  Dent a la Pciazzo  diventa Dent a  la Piazzo.

3) Le vocali o di föc (fuoco) e u  di mür (muro) sono scritte con la dieresi. Le stesse parole preferisco scriverle: föoc   e  müur ,  perchè, nella parlata, le due vocali sono strascicate, quindi un po‘ prolungate.

4) A Talamona, da sempre, i nomi femminili terminano con la o.  Tanto per distinguerci.

Guido Combi (GISM)

L’ARTE PER IL GRANDE PUBBLICO

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Lo sviluppo raggiunto  durante l’ultimo secolo dalle tecniche di produzione nell’industria e dai mezzi di comunicazione di massa, vale a dire giornali, cinema e televisione, ha creato un nuovo tipo di artista, difficilmente classificabile sia come artista popolare sia come praticante delle “belle arti”. Fra questi nuovi artisti possiamo citare i cineasti, i disegnatori di tutti i tipi, le orchestre di musica da ballo, i cartellonisti e gli scrittori di teleromanzi. Tutte queste persone hanno una cosa in comune: lavorano per soddisfare le richieste di un vastissimo pubblico formato principalmente dagli abitanti dei centri urbani. In un certo senso, questo tipo di arte è l’arte “popolare”delle città, benché vi sia una grande differenza fra arte di massa e vera arte popolare. In primo luogo, l’arte di massa è più sofisticata: infatti, mentre l’artista popolare si accontenta generalmente di lavorare nell’ambito di una tradizione, l’artista che lavora per il grande pubblico cerca continuamente di dare alla sua opera un aspetto nuovo e aggiornatissimo. Inoltre, ricorre spesso al linguaggio artistico usato nel campo delle “belle arti”; per esempio, tecniche sperimentate tempo fa, come quella dei pittori impressionisti e quella di vari pittori non figurativi dei primi anni del XX secolo, sono entrate nell’uso comune nel campo del disegno tessile, nell’arte pubblicitaria, nell’arredamento delle vetrine e nelle scenografie teatrali e cinematografiche. In secondo luogo, l’arte di massa è altamente meccanizzata essendo collegata alle tecniche della produzione in serie. Il disegnatore industriale, per esempio, non è un artigiano come lo sono quasi tutti gli artisti popolari, ma è un uomo capace, che ha una notevole istruzione tecnica. Alle critiche mosse all’arte di massa, ritenuta semplice e superficiale, si risponde puntando proprio su questa eccellenza tecnica come su una delle sue maggiori virtù: la stessa intelligenza e cura impiegate nella registrazione dell’ultimo strepitoso successo di musica leggera sono applicate anche alla registrazione di qualsiasi opera o sinfonia, e i suonatori di tromba e di trombone d’una grande orchestra di musica da ballo devono avere quella stessa padronanza tecnica dei loro strumenti che possiedono i loro colleghi delle orchestre sinfoniche.Inoltre, l’eccellenza tecnica è indispensabile e addirittura vitale per consentire l’inserimento in un mercato a forte concorrenza.

Questa concorrenza accanita fa sì che le arti di massa cerchino in tutti i modi di far colpo immediatamente sul loro uditorio: i titoli dei giornali, la foto di stampa, il manifesto pubblicitario, la foto di stampa sono disegnati per colpirci nello spazio di un secondo. Lo sforzo che le arti di massa compiono per far colpo immediatamente ha effetti importanti sulla nostra capacità di apprezzare le belle arti. Sappiamo benissimo che la comprensione dell’Arte non è cosa facile, ma va coltivata col tempo e con la pazienza, poiché non esiste un‘arte che sia “istantanea”.

nel 1860 il dipinto di Sir John Everett Millais, Bolle, fu usato come manifesto pubblicitario per un tipo di sapone, e ciò scandalizzò i critici d'arte. Oggi, i manifesti pubblicitari sono spesso opera di artisti specializzati.

nel 1860 il dipinto di Sir John Everett Millais, Bolle, fu usato come manifesto pubblicitario per un tipo di sapone, e ciò scandalizzò i critici d’arte. Oggi, i manifesti pubblicitari sono spesso opera di artisti specializzati.

Lucica