ME, IL MATU E POI ALTRO ANCORA

Racconti e pensieri di un Talamonese– Giuanin Fant de Pic

Il Matu era uno affettato col coltello grosso. Gli importava mica di scureggiare davanti alle femmine, tanto, diceva, doveva piacergli così com’era o niente. Al bar metteva sempre i diti dentro al naso e poi lanciava le taccole addosso a quelli vicini. Gli piaceva vedere se si accorgevano o no, poi dopo se si giravano per mollargli una sberla alzava il bicchiere e gli faceva “Prosit”. Beveva tutto quello che c’aveva giù nel calice in un fiato, si puliva la bocca giù nel braccio e correva via prima di prenderle. Il Matu era un mio socio poi anche per quello. Una volta gli ho detto che se mangiava un maggiolino io gli pagavo una pizza e lui il giorno dietro è venuto a casa mia con un sacchetto pieno di maggiolini, saranno stati una ventina. Ha aperto un panino e ce li ha infilati dentro tutti. Quando l’ha messo in bocca c’erano le antenne che cercavano di scappare dalle fette di pane. Io son stato lì a guardarlo perché se no ci credevo mica che lo faceva. Alla fine l’ha mangiato tutto, si è ciucciato i diti, si è pulito la bocca col braccio e ha pestato un rutto da stending ovescion. Poi, mi ha detto: “Adesso mi paghi venti pizze”.

Dopo, mi ricordo di quella volta d’estate che io, il Matu e l’Erminio Stagnola siamo andati al cimitero a fumare l’erba tutto il dopo mezzogiorno anche se faceva un caldo della madonna. Ora della fine si era talmente stonati che era difficile tornare a casa, ma lo Stagnola mi ha dato uno strappo col motorino lo stesso, così ce l’abbiamo fatta. Il Matu sapeva mica come fare e c’aveva sonno, così si è imbucato in un loculo per dormire perché diceva che era più fresco e ha messo una scala a pioli davanti al buco per nascondersi. Passa un po’ di tempo e arriva una vecchia che ha da bagnare i fiori del suo uomo sciopato e fa per prendere la scala davanti al loculo del Matu. La tira, la tira ma viene mica e allora guarda cos’è che succede e così vede una mano magra spuntare fuori dalla tomba che la blocca e sente una voce che le dice: “lascia stare la scala, vecchia!”. Il Matu dice che è volata per terra come un sacco di cemento e si è sentito stom! così forte che c’aveva paura che i morti si svegliavano e uscivano per mangiargli il cervello. Sta signora non si è più ripresa, neanche dopo che i dottori l’hanno guardata dietro per bene: tutti pensano che è l’Alzehimer ma io lo so che è stato il mio socio a farla andare fuori di matto.

Se lo scopriva il mio papà me le dava anche a me solo perché vado in giro con uno così. Quando ero piccolo mi diceva che essere amico di uno che pensa solo a fare asinate m’avrebbe mica aiutato a imparare a far su i muri. Il mio papà è un valtellinese doc e ha la sensibilità di un sasso. Quando sono nato mi ha visto prima della mia mamma e lei gli ha chiesto com’è che ero perché lei era ancora dentro nel letto, e lui le fa “è così un robo”. La mia mamma si è messa a piangere. Il mio papà si chiama Franco ma tutti lo conoscono come il “Francu che fa su le case”. Mi ricordo che da piccolo mi portava con lui al cantiere per farmi fare la molta, che doveva essere bella fresca altrimenti poi dopo era un casino tirar su i muri dritti. Si faceva una fatica della madonna e quando ero stanco mi fermavo a guardare i suoi dipendenti che erano uno più brutto dell’altro. Avevano delle facce cattive e sporche di lavoro. Secondo me se c’era gente che doveva finire in galera erano proprio quelli lì. Quando il mio papà mi vedeva lì imbambolato a studiare i suoi muratori veniva tutto rosso e gridava “cosa fai lì coi denti in bocca? Muoviti!” e io sapevo che dovevo ricominciare subito a lavorare, se no a casa mi prendeva per l’orecchio e mi trascinava su per le scale fino al terzo piano. Era un tipo così, era un po’ come il suo, di papà. E’ colpa sua se io e il Matu non siamo più soci adesso.

 

 

Lascia un commento