FRANCESCO PETRARCA

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Foto: Francesco Petrarca, “Il Canzoniere”.

Pace non trovo et non ò da far guerra

et temo, et spero; et ardo et son un ghiaccio;

et volo sopra’l cielo, et giaccio in terra;

et nulla stringo, et tutto’l mondo abbraccio”

Francesco Petrarca, Il Canzoniere, sonetto CXXXIV

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Foto: Andrea del Castagno, Ritratto di Francesco Petrarca, 1449-1450 ca., affresco staccato e riportato su tela, 257×153, Galleria degli Uffizi, Firenze

Francesco Petrarca, scrittore italiano (Arezzo 20.7.1304 – Arquà, Padova 18.7.1374), figlio di ser Petraccolo (notaio come da tradizione di famiglia, guelfo di parte bianca, cacciato da Firenze nel 1302), trascorse la prima infanzia all’Incisa, presso Arezzo, dove nacque, trasferendosi quindi a Pisa, nel 1310, e poco dopo in Provenza, ad Avignone. Col fratello Gherardo iniziò i primi studi a Carpentras, dove si erano stabiliti con la madre; maestro fu un buon latinista, Convenevole da Prato. Passò in seguito all’Università di Montpellier, per gli studi di legge, poi, ancora col fratello, completò la sua formazione a Bologna, dove rimase tre anni e strinse amicizia con poeti come Cino da Pistoia e Giacomo Colonna. La morte del padre (1326) lo costrinse a rientrare in Provenza.

Il 1327 fu un anno importante, perché il 6 aprile, com’egli stesso riferisce, giorno di venerdì santo, incontrò per la prima volta, nella chiesa di S. Chiara in Avignone, la tanto celebrata Laura, amore di tutta la vita , simbolo nella sua poesia di purezza e virtù. Da Laura non ricevette grandi attenzioni, ma nella tradizione letteraria divenne fulcro d’ogni ispirazione, e dette l’estro per tutte quelle meditazioni e riflessioni sull’amore terreno e sull’amore divino, che, così profonde si trovano nell’opera poetica di Petrarca. Dal contrasto tra il divino e l’umano, tra le cose celeste e terrene nasce quel sentimento di tristezza che lo accompagna sempre, a volte manifestandosi in atteggiamenti meditativi, a volte in decisa ricerca della solitudine, lontano dalla vita animata e accattivante delle città. Così, Il Canzoniere riflette, più d’ogni altra opera, trent’anni di desideri, di speranze, di angosce, immutabili nel tempo ma connesse con il ricordo di quel primo e vano incontro con la sempre sognata Laura.

Ad Avignone ebbe vita culturale intensa, piena di rapporti e di contatti. Nei anni Trenta si concede lunghi viaggi, dettati da inquietudine e sete di conoscenze (per tutta la vita gli spostamenti e i viaggi saranno frequenti).

L’amore per Laura non escluse in Petrarca l’amore per la gloria, e a testimoniarlo sono i progetti per due opere di estremo impegno, L’Africa e il De viris illustribus, entrambe in latino, entrambe a lungo rimaneggiate e praticamente incompiute.

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Foto: Francesco Petrarca, Africa

Sull’Africa, scritta con l’intento di glorificare la Roma repubblicana (un concetto politico più tardi ribadito in varie forme), sarebbe ritornato in un altro ritiro campestre, Selvapiana (nella valle dell’Enza), dopo esser stato ricondotto a Roma da un solenne invito che si concluse con l’incoronazione poetica in Campidoglio (8 aprile 1341). Fu anche ospite a Parma, di Azzo da Correggio. Onori e gloria gli giungevano da ogni parte. Ma nel 1342 è ancora ad Avignone, dove Clemente VI succedeva a Benedetto XII. Nei pensieri politici di Petrarca c’è anche l’auspicio di un ritorno del papato a Roma, per riportare la città agli antichi splendori e alla naturale funzione di fulcro della cristianità.

Il 1343 segna una crisi spirituale: l’amatissimo fratello Gherardo entra in convento, a Francesco nasce una figlia (Francesca, che amorevolmente consolerà la sua vecchiaia), e dalla sua penna esce un dialogo latino tra San Francesco e Sant’ Agostino, il Secretum, un’opera portata a termine durante un soggiorno a Milano (tra 1353 e 1358). Tra un viaggio e l’altro, contrassegnati dalle solite crisi di malinconia, ebbe incarichi ufficiali, presso varie corti (Napoli, Parma ecc.), al servizio più o meno del papato avignonese. Sono di questi anni De otio religioso, De vita solitaria, Bucolicum carmen. In quest’ultima opera, un dialogo col fratello, riprende il tema del contrasto tra la vita pubblica e la quiete del chiostro. Un’opera in cui ribadisce i fondamenti del suo pensiero politico, ma si parla anche della morte di Laura, avvenuta, secondo quanto è detto, un 6 aprile, lo stesso giorno del loro primo incontro.

Gli anni seguenti lo vedono ancora vagare per varie corti, finché nel 1353 accetta l’invito dell’arcivescovo Giovanni Visconti e si stabilisce a Milano. Un soggiorno operosissimo, in cui mise ordine nelle lettere, dividendole in ventiquattro libri- De rebus familiaribus libri. Altre opere milanesi, l’Invenctiva contra medicum quendam  e De suis ipsius et multorum ignorantia  affrontano il contrasto tra la cultura scientifica di tipo aristotelico e la tradizione scolastica. Siamo in anni di crisi, in cui i valori medievali, soprattutto a livello filosofico, sembrano dissolversi di fronte a un sempre più presente platonismo; a Tommaso e al formalismo della Scolastica si contrappone Agostino e Cicerone; più che la natura, si tende a capire l’animo umano. L’Umanesimo è alle porte. In questo contesto culturale, filosofico, s’inseriscono tutte le future opere di Petrarca. Sono anni d’intenso lavoro, soprattutto di sistemazione di opere iniziate in precedenza, nonché di riordinazione del monumentale Canzoniere.

Ma la ricerca del luogo tranquillo, la ricerca di quella solitudine tanto aperta alla meditazione, lo condusse, dopo brevi soggiorni a Padova e Pavia, a ritirarsi sui colli Euganei, ad Arqua, ultima sua dimora. Lavorò ai Trionfi, un’opera in volgare, in cui elogia il trionfo dell’Amore, dell’Eternità, della Divinità, ma di cui non si conosce con esattezza una edizione definitiva né una precisa cronologia.

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Ma il grande lavoro di questi anni, praticamente tra il 1366 e il 1374 è quello compiuto sul Canzoniere, dove tutta la vicenda dell’amore per Laura, cristallizzata nella perfezione di una liricità assoluta, condizionerà per secoli la poesia italiana e universale. Una poesia, quella di Petrarca, senza luogo e senza tempo, che ritroviamo ampiamente ancora in pieno Ottocento.

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Bibliografia

U. Foscolo, Saggi sopra il Petrarca, 1821 (in ed. a cura di M. Fubini, Torino 1926)

F.de Sanctis, Saggio sul Petrarca, 1869 (in ed. a cura di E. Bonora, Bari 1954

F. Montanari, Studi sul Canzoniere del Petrarca, Roma 1958

A. Noferi, L’esperienza poetica di Petrarca, Firenze 1962

                                                                                Lucica Bianchi

IL MISTERO DEI TESCHI DI CRISTALLO

Un’antica leggenda maya narra che nel mondo esistono 13 teschi di cristallo, a grandezza naturale, che racchiudono misteriose informazioni sull’origine, lo scopo e il destino dell’intera umanità. Nel momento in cui l’umanità si troverà ad affrontare un pericolo che metterà a repentaglio la sua stessa esistenza, saranno i 13 teschi di cristallo, riuniti insieme, a salvare il mondo dalla distruzione. Starà all’Umanità comprendere il loro messaggio.

IL TESCHIO MITCHELL-HEDGES: tra storia e leggenda

All’inizio del XX secolo Thomas Gann, professore di Archeologia del Centro America all’Università di Liverpool, scopre  la città di Lubaantun, un sito maya nel Belize meridionale.

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Foto: La posizione geografica della città di Lubaantum

Nel 1915, Raymond Merwin, del Peabody Museum dell’Università di Harvard vi guida una successiva spedizione. La zona viene ripulita dalla vegetazione, viene dettagliatamente mappata e vi vengono scattate alcune fotografie.

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Foto: Il sito di Lubaantun

Nel 1926 il British Museum finanzia degli scavi che accertano la data di costruzione della città, collocandone la massima fioritura in un periodo compreso fra il 730 e l’890 d.C. Da tali analisi risulta che la città sia stata abbandonata di colpo, fatto insolito per noi, ma non per la civiltà Maya (è un fatto risaputo che tante altre città Maya sono state misteriosamente abbandonate senza un motivo apparente).

Dopo la spedizione del British Museum, Lubaantun, trascurata dagli archeologi, diventa fertile terreno di saccheggio.

Nel 1927, l’archeologo Frederick Albert Mitchell- Hedges insieme alla figlia Anna partono per una spedizione in Belise. Quel viaggio cambierà per sempre le vite di tutti e due. Nella città di Lubaantun, alla base del muro di un edificio, Anna nota qualcosa che riflette la luce in un modo spendido: un teschio di cristallo. Da quel momento, Anna terrà sempre con sé il prezioso tesoro, chiamato d’allora, Teschio Mitchell-Hedges.

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Foto: Frederick Albert Mitchell-Hedges e la figlia Anna

Il teschio Mitchell-Hedges è il più importante fra i teschi rinvenuti. E’ stato ricavato da un unico blocco di cristallo di quarzo con straordinarie doti di lucentezza. La sua superficie, trasparente alla luce, è del tutto levigata. E’ alto 17 cm, largo altrettanto e profondo 21 cm. Eccezione fatta per il peso, che è di 5 kg, rispecchia le misure di un cranio umano.

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Foto: Il teschio di cristallo Mitchell-Hedges 

Nel 1970 il laboratorio Hewlett-Packard di Santa Clara (California, USA), specializzato nell’analisi di quarzi e cristalli, lo sottopone ad una serie di approfonditi esami, ai quali partecipa anche un esperto di gemmologia: l’americano Frank Dorland. i risultati raggiunti sono sconcertanti.

Dal punto di vista tecnico, il teschio di Mitchell-Hedges è un oggetto che “non dovrebbe esistere”: anche con le strumentazioni odierne sarebbe estremamente difficile riprodurlo. Bisogna tener conto ,a questo punto, che l’indice di durezza del quarzo è di poco inferiore all’indice di durezza del diamante e che pertanto costruire qualcosa di così rifinito è un’impresa tutt’altro che facile.

La prima sorprendente conclusione del laboratorio Hewlett-Packard, è che il teschio sia stato inciso procedendo in senso contrario rispetto all’asse naturale del cristallo, rispetto cioè all’orientamento dei suoi piani di simmetria molecolare. Questo procedimento è molto rischioso: comporta il costante pericolo che un colpo non preciso dello strumento usato per sbozzare il blocco ne causi la frammentazione.  I tecnici della Hewlett-Packard analizzarono accuratamente al microscopio la superficie del teschio, eppure non riuscirono ad individuare alcun graffio che attesti l’impiego di uno strumento per la levigazione. Questa circostanza meraviglia molto Frank Dorland che non riesce a spiegarsi quale tecnica di lavorazione sia stata usata.

Altro elemento sorprendente è che l’oggetto sembra avere al suo interno una serie di lenti e prismi che gli consentono di riflettere la luce in modo particolare quando ne viene attraversato: il quarzo allo stato naturale, infatti, non produrrebbe i giochi di luci che produce il teschio Mitchell-Hedges.

Un lavoro enorme, quindi, che rivela una grandissima padronanza tecnica, un lavoro che lascia senza parole gli esperti che lo esaminano e i cui procedimenti non si conoscono ancora.

Anna Mitchell- Hedges non consentirà più, in futuro, che il suo teschio sia sottoposto a ulteriori analisi. E’ morta centenaria, recentemente.

Chiunque l’abbia fatto e qualunque ne sia stato l’utilizzo, il teschio Mitchell-Hedges suscita reazioni contrastanti in chi lo osserva: alcuni ne sono affascinati, altri confusi o perfino turbati. Ma una domanda nasce nella mente di ognuno: quanto c’è di vero nell’antica leggenda Maya?

Altri 12 teschi  simili sono stati rinvenuti finora in diverse parti del globo.

Ora si trovano in vari musei o in collezioni private, qui sotto 2 esempi custoditi in Europa

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Foto: Il teschio di cristallo custodito nel Museo del Trocadero, Parigi

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Foto: Teschio di cristallo custodito nel British Museum di Londra

Da questo enigma archeologico e antropologico ha origine il romanzo/saggio “Il mistero dei Teschi di Cristallo” di Sebastiano Fusco, pubblicato dalle Edizioni Mediterranee, nel 2008.

La lettura del libro sorprende, sia per la lucidità delle supposizioni e della ricerca, sia per la maniera analitica, quasi scientifica con la quale l’autore mette sotto una  lente d’ingrandimento i vari argomenti: dall’antropologia, alla magia, dalla neurologia al funzionamento della psiche. Il libro diventa così un buon punto di partenza per una ricerca, per approfondimenti su uno dei più inquietanti misteri del mondo: i 13 teschi di cristallo.

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                                                                                          Lucica Bianchi

LO SCOPPIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE. EVENTI POLITICI NEL 1914

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Foto: Europa all’inizio della Prima Guerra Mondiale

La guerra che scoppiò nel 1914 fu un avvenimento nuovo nella storia dell’umanità, perché fu la prima guerra “mondiale”, una guerra che  vide lo scontro di tutti i grandi Stati, che impegnarono le capacità produttive dell’industria moderna e le risorse della tecnica per preparare strumenti di offesa e difesa. Fu una guerra di massa, combattuta per terra, per mare e nell’aria, con impiego di armi mai usate prima(carri armati, aerei, sommergibili), e con il ricorso a nuovi mezzi di lotta: economica e psicologica. Venne combattuta dai belligeranti fino all’esaurimento delle forze, le vittime e i danni andarono ben oltre qualsiasi calcolo previsto, e finì con l’apportare radicali sconvolgimenti  all’economia internazionale, aprendo così la via a ripercussioni e conseguenze che durarono a lungo anche nel dopoguerra.

Causa occasionale della guerra fu l’assassinio dell’arciduca ereditario dell’Impero Austro-Ungarico Francesco Ferdinando e della consorte, avvenuto a Sarajevo il 28 Giugno 1914. L’Austria d’accordo con la Germania, attribuì al governo serbo la responsabilità dell’eccidio, e indirizzò a Belgrado il 23 Luglio un ultimatum con richieste inaccettabili.

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Foto: Corriere della Sera, Annuncio dell’eccidio di Francesco Ferdinando e della moglie Sofia.

Le dichiarazioni di guerra. La risposta serba all’ultimatum (25 Luglio), pur non essendo provocatoria, ma comunque accompagnata da una  mobilitazione generale dell’intero esercito, non accontentò l’Austria che dichiarò guerra alla Serbia(28 Luglio), prima che venisse formulata una qualsiasi proposta di mediazione voluta dall’Inghilterra. Nei giorni seguenti, il meccanismo degli accordi internazionali portò ad una rapida generalizzazione del conflitto.

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Foto: Corriere della Sera, Dichiarazione di guerra da parte d’Austria alla Serbia

La tesi tedesca, secondo la quale la guerra fosse un questione esclusivamente austro-serba, non poteva essere accettata dalle altre potenze, e i vari tentativi di mediazione per scongiurare il conflitto rimasero infruttuosi. Dopo che anche i Russi mobilitano il loro esercito (ostile all’Austro-Ungheria), la Germania dichiarò guerra alla Russia (1 Agosto alle ore 19.10) e alla Francia (3 Agosto alle ore 18.45). A sua volta la violazione della neutralità del Belgio e del Lussemburgo, avvenuta da parte delle truppe tedesche invadendo questi territori, vinse le ultime esitazioni inglesi, che dichiararono guerra alla Germania (4 Agosto).

I belligeranti del 1914 compresero dunque: da una parte, la Germania e l’Austro-Ungheria; dall’altra, la Serbia, il Montenegro, la Russia, la Francia, il Belgio e l’Inghilterra, a cui si aggiunse il Giappone (23 Agosto), alleato dell’Inghilterra, e che sperava di impadronirsi delle posizioni tedesche in Estremo Oriente. Dichiararono invece la loro neutralità, deludendo gli Imperi centrali, l’Italia (3 Agosto) e la Romania. In particolare l’Italia, legata alla Germania e all’Austro-Ungheria dalla Triplice Alleanza, giustificò il suo atteggiamento con la sua mancata consultazione da parte della Triplice e con il carattere aggressivo della guerra. La Germania riuscì però a ottenere l’alleanza della Turchia: già il 10 Agosto due incrociatori tedeschi, il Goeben e il Breslau , che si trovavano nel Mediterraneo, furono accolti nelle acque territoriali ottomane, anche se  la guerra alla Turchia venne dichiarata dagli Alleati soltanto il 5 Novembre.

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Foto: La nave da guerra “Breslau”

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Foto: La nave da guerra “Goeben”

La situazione internazionale

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Foto: L’assetto delle alleanze in Europa all’inizio della Prima Guerra Mondiale 

Negli ultimi mesi del 1914, i belligeranti si preoccuparono soprattutto dello sviluppo della macchina bellica tralasciando qualsiasi azione di tipo diplomatico o teso alla ricerca di nuove alleanze . Alcuni paesi, d’altra parte, si trovavano alle prese con difficili problemi interni, resi ancora più complicati dalla guerra: l’Inghilterra con l’applicazione dell’Home Rule (1) in Irlanda, e l’Impero turco con l’agitazione delle sue province arabe. Così pure l’inizio della guerra non permise all’opinione pubblica di misurare l’importanza di fatti rilevanti come l’apertura del Canale di Panama(2) in agosto e l’elezione di papa Benedetto XV, successore di Pio X a settembre.

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Foto: La mappa con il canale di Panama

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(1) Nel Regno Unito, l’Home Rule fa riferimento all’autogoverno, alla devoluzione o indipendenza dei suoi Stati costituenti, inizialmente l’Irlanda, poi Scozia e Galles.

(2) Canale artificiale lungo 81,1 km che unisce l’Oceano Atlantico con l’Oceano Pacifico.

                                                                          Lucica Bianchi

PITTURA DEL PRIMO RINASCIMENTO A FIRENZE

IL GOTICO INTERNAZIONALE A FIRENZE INTORNO AL 1400

L’arte fiorentina dell’inizio del XV secolo è dominata da una particolare forma del tardogotico, che gli storici dell’arte hanno battezzato “gotico internazionale”. Questo nome fu coniato nel XIX secolo dallo storico francese Louis Courajod, nel tentativo di ricondurre a un denominatore comune i tratti caratteristici dell’arte degli inizi del XV secolo, riscontrabili con una certa uniformità in gran parte dell’Europa. Tendenze verso un’arte sontuosa e ricca come decorazione, sono individuabili anche nell’area franco-fiamminga, in Germania (nel Nord e nel Sud, così come in Westfalia), nonché in Boemia, in Spagna e nell’Italia settentrionale. Questo stile è caratterizzato da una particolare cura per la resa realistica dei dettagli e, nei suoi migliori risultati, dimostrò una straordinaria eleganza dei tratti e una notevole finezza nell’uso dei materiali. Il punto di partenza di questa evoluzione è da collocare nell’area franco-fiamminga e, soprattutto, nelle corti di Borgogna, di Parigi e di Digione. Gli ideali artistici tardogotici si diffusero in tutta Europa, favoriti dalla domanda di opere di piccole dimensioni, facili da trasportare. Artisti girovaghi come lo Starnina, il Pisanello e Gentile da Fabriano diffusero con dovizia queste eleganti forme cortesi in tutta l’Italia centrale. Così facendo essi contribuirono a un rapido e grande successo dello stile tardogotico persino in una città come Firenze, che in un primo tempo l’aveva ignorato.

“L’ADORAZIONE DEI MAGI” di GENTILE DA FABRIANO

Uno dei più significativi rappresentanti del tardogotico a Firenze fu Gentile da Fabriano (1370 ca.-1427); i suoi dipinti, saldamente ancorati alla realtà, consentono di annoverarlo tra i precursori dell’arte rinascimentale. Nato a Fabriano, nelle Marche, prima di trasferirsi a Firenze nel 1420, aveva già ottenuto diversi riconoscimenti come pittore, sia a Venezia sia a Brescia. L’esperienza artistica da lui maturata nell’Italia settentrionale, roccaforte del gotico internazionale, si riflette nella straordinaria pala d’altare raffigurante l‘Adorazione dei Magi, realizzata nell’arco di tre anni per conto del mercante fiorentino Palla Strozzi e terminata, stando alla data riportata sulla base del dipinto, nel 1423.

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Foto: Gentile da Fabriano. Adorazione dei Magi, tempera su tavola, 303 x 282 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi

L’eccezionale sfoggio di ricchezze, la varietà  delle tecniche impiegate e la resa dei fenomeni naturali concorrono a creare un’opera estremamente innovativa che esercitò una notevole influenza sugli artisti fiorentini.

La centina del dipinto serve a descrivere l’episodio dell’Adorazione dei tre Magi come una narrazione coerente. I tre archi non toccano terra, cosicché l’impressione di trovarsi in presenza di un trittico è solo momentanea e vaga. Essi servono a introdurre una separazione tra la Sacra Famiglia, i tre Magi e il loro seguito, senza spezzare la scena. Gentile utilizzò, inoltre, lo spazio sottostante i tre archi per narrare gli eventi verificatisi prima dell’adorazione.

In alto a sinistra, i Magi sono raffigurati in abiti sfarzosi sulla cima di una collina affacciata su uno specchio d’acqua, mentre osservano la stella che annuncia la nascita di un nuovo Re.

Sotto il fornice centrale, i tre Re orientali, con il loro seguito, viaggiano alla volta di Gerusalemme, dove intendono informarsi presso Erode della nascita di questo nuovo Re.

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 Foto: Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi, dettaglio

Infine, sotto l’arco di destra, i Magi giungono a Betlemme, destinazione finale del loro viaggio, ove ha luogo la scena dell’adorazione, tema fondamentale del dipinto. Sulla sinistra c’è la stalla, davanti alla quale è seduta la Vergine. I Magi sono prostrati ai suoi piedi, mentre il loro seguito, tra cui anche un cane, cavalli e animali esotici, si avvicina da destra. Due ancelle, in piedi accanto a Maria e a Giuseppe, osservano con aria interrogativa la coppa dorata donata dal più vecchio dei Magi ansiose di scoprire quali regali egli abbia portato a Gesù.

Gli effetti di luce studiati da Gentile e applicati in quest’opera, possono essere considerati i primi mai realizzati con tale rigore a Firenze. Sebbene le ombre avessero già fatto la loro comparsa in opere precedenti, si era sempre trattato di sperimentazioni. Qui, invece, si coglie l’intenzionalità dell’artista mirante alla cattura dei giochi di luci e ombre così come essi si manifestano.

L’esecuzione di questa magnifica  Adorazione fu commissionata a Gentile dal banchiere Palla Strozzi, che intendeva decorare la cappella di famiglia nella sacrestia di Santa Trinità a Firenze. La figura del committente, accanto a quella del figlio Lorenzo, è visibile al centro del dipinto, immediatamente alle spalle del più giovane dei Magi. E’ la prima volta che, nell’arte fiorentina, un committente viene raffigurato insieme agli personaggi del dipinto. Tale idea verrà ripresa in seguito, sebbene in forma diversa, dai Medici, grandi rivali della famiglia Strozzi. In ogni caso, questo intimo accostamento della figura del committente alla scena ritratta testimonia di una nuova fiducia e sicurezza in se stessi, che contrasta con l’umile subordinazione cui si attenevano in precedenza i clienti. Inoltre, lo splendore che caratterizza il dipinto, riflette l’orgoglio e la ricchezza di questo abilissimo banchiere che, secondo un documento del 1427, era l’uomo più ricco di Firenze.

                                                                                                         Lucica Bianchi

VERDI – “UN GIORNO DI REGNO”, “NABUCCO”,” LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA “

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Foto: Teatro Scala di Milano, “Un giorno di regno” di Giuseppe Verdi

Verdi è alla Scala di Milano nei primi anni Quaranta. La sua seconda opera, “Un giorno di regno“, concepita come melodramma con un tono giocoso, è un insuccesso totale e verrà cancellata dal cartellone la sera stessa della sua esecuzione. Verdi non è nello spirito d’una opera leggera: ha appena perso la moglie, Margherita Barezzi e i due figli. Poco dopo inizia a frequentare la giovane diva nascente Giuseppina Strepponi, che diventerà la sua seconda moglie. Sarà lei a cantare nel “Nabucco”, che dal 1842 segna il trionfo del giovane compositore, con 64 repliche in un anno. L’atmosfera melanconica e drammatica dei canti e la loro facile identificazione con la pulsione d’emancipazione italiana, trasformano l’opera in un mito immediato.

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   Foto:  Teatro Scala di Milano,  “Nabucco” di Giuseppe Verdi

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Foto: Teatro Scala di Milano, “Nabucco” di Giuseppe Verdi

Le tematiche teatrali diventano da quel momento sempre duplici, vicine nei significati e lontane nei collocamenti geografici, per passare così il vaglio della censura imperiale. Dalla Mesopotamia del “Nabucco “si passa l’anno successivo all’esotismo di Antiochia, dove s’incrociano passioni personali e collettive, di fede e di popolo nell’opera “ Lombardi alla Prima Crociata.” Questa è la quarta opera di Verdi, andata in scena al Teatro Scala l’11 febbraio 1843. Una nuova versione, in francese, intitolata “Jérusaleme” andrà in scena nel 1847.

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Foto: Teatro Scala di Milano “Lombardi alla Prima Crociata” di Giuseppe Verdi

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Locandina dell’opera “Lombardi alla Prima Crociata” di Giuseppe Verdi

UNO SGUARDO AL PASSATO – I TALAMONESI (quarta puntata)

Il nostro viaggio ci porta in mezzo alla gente di Talamona: come si tirava a campare nei secoli passati?

Per centinaia d’anni si è continuato a vivere perpetrando gli stessi ritmi e gli stessi lavori legati alla terra, l’allevamento bovino e la vita d’alpeggio in particolare.

A quei tempi, però, bisognava arrangiarsi e saper fare di tutto; così si diffuse la gelsibachicoltura, una parola per dire “allevamento dei cavaler e diffusione della pianta di murun“(1), attività tradizionale avviata grazie alla precedente usanza di coltivare, filare e tessere la canapa (XVIII).

Ogni angolo libero di territorio si riempì di gelsi perché i nostri avi dicevano che l’ombra del gelso era ombra d’oro: era sicura fonte di guadagno, per contadini e imprenditori.

Le foglie di questa pianta erano l’unico cibo per il baco da seta, animaletto allevato in ogni casa che, quando diventava bosul(2) veniva portato nelle filande dove iniziava la lavorazione del suo prezioso filo.

A partire da metà Ottocento qui da noi, a Morbegno e Sondrio vennero costruite le prime filande moderne, precisamente: nel 1861 la filanda Valenti; a inizio ‘900 le filande in Coseggio e presso le Orsoline. Vi lavoravano soprattutto le bambine e funzionarono fino agli anni ’30 del secolo scorso. Da ultimo, la vendita della seta grezza sul mercato comasco aiutò la raccolta fondi per la costruzione della nuova chiesa parrocchiale.

Altre piante, nei secoli, fecero la differenza…tra lo stomaco vuoto e qualcosa nel piatto.  Il castagno prima di tutto, basta vedere lo stemma comunale.

Non è mancato l’olivo piantato presso le gere del Tartano, Nibabia, Fossato Grande, Serterio, Malasca, Prato dell’Acqua e Ranciga; l’olio non finiva sulle tavole di chi lo produceva, ma serviva per alimentare la lampada del Santissimo. Col tempo le piantagioni scomparirono gradatamente a causa delle alluvioni.

E qui veniamo ad un tasto dolente: i disastri che modificarono il mio territorio; a turno o contemporaneamente, esondavano i fiumi e i torrenti – gli stessi che avevano fornito la mia formazione. Le alluvioni furono frequenti, spesso accompagnate da pestilenze e carestie, danni alle coltivazioni e all’allevamento. Le notizie più antiche in proposito risalgono al 1450 e proseguono fino ad oggi.(3)

Una chicca: pare che a metà del secolo scorso, il reverendo don Vincenzo abbia benedetto la Tremenda – una delle campane della chiesa di San Giorgio – conferendole il potere di allontanare le tempeste. Quindi quando vedete avvicinarsi i nuvoloni, correte a suonarla: cielo limpido garantito!

Altro momento di crisi: nel 1815 fanno le valige i Grigioni e la Valtellina entra a far parte dell’Impero austriaco con la parola d’ordine “modernizzazione”. E in effetti la Valle viene spinta verso una nuova gestione del territorio, ma a pagare sono i Comuni costretti a vendere i beni demaniali e a ricorrere alla vendita del legname per pagare le tasse e i progetti delle strade Stelvio – Spluga. Per quanto mi riguarda, sono andati persi ettari dei miei boschi, quindi niente combustibile per i talamonesi e rischio altissimo di alluvioni.

Inoltre, dal 1816 è un continuo susseguirsi di cattive annate; risultato: raccolti scarsi e cinghia tirata per la maggior parte della gente alla quale, come al solito, non restava che voltarsi a qualche santo del Paradiso. Ecco perché ancora oggi potete ammirare un numero elevato di dipinti sacri per le vie.

Oppure, in alternativa, bisognava emigrare… e gente di Talamona in giro per il mondo ce n’è stata e ce n’è parecchia, tutti però partivano con il pallino di ritornare e di comprarsi almeno “una crosta al sole”.(4)

Con l’unificazione d’Italia la musica cambia, soprattutto perché c’è gente che si rimbocca le maniche e sa che per migliorare le cose bisogna partecipare. Così, posso vantarmi di avere tra le fila dei miei abitanti altre due figure di spicco. Due giovanotti, che negli anni ’40 dell’Ottocento sono vicini di casa e diventano amici per la pelle: Giovanni e Clemente, il Gavazzeni e il Valenti. Il pittore e l’ingegnere.

Tutti e due – da bravi studentelli scappati da scuola all’insaputa dei genitori – parteciparono alle Guerre d’Indipendenza, Gavazzeni nel 1859 e Valenti nel 1866.

Il pittore Giovanni Gavazzeni

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Tutti e due si diedero da fare; il primo si distinse come ritrattista, pittore sacro e difensore della  buona arte, e non disdegnò di affrescare baite e gisoi anche a persone che per compenso potevano offrirgli solo un piatto di polenta.

Al secondo si deve la mia ripresa economica e sociale: l’istituzione di asilo e scuole serali, biblioteca ambulante, banda, casa di risparmio e latteria…tutto ha preso vita grazie al suo intervento. E per quanto riguarda la latteria Valenti – ai tempi si chiamava Latteria Sociale Talamona – merita di essere ricordato che è stata la prima in Valtellina, è stata la sede della seconda scuola superiore di caseificio a livello nazionale. I suoi prodotti sono finiti sulle tavole di tutta l’Italia, in Francia, in Egitto e ai concorsi caseari a cui ha partecipato si è sempre piazzata ai primi posti.

Correndo, correndo, siamo arrivati alla fine del XIX secolo. Sul mio territorio risultano presenti importanti istituzioni come: cassa rurale, cooperativa agricola e società operaia, Monte di Pietà e forme varie di assistenza sociale. Non manca nemmeno una sezione sportiva: Aquila. Il merito? Ovviamente è dello spirito talamonese. Magari un po’ rustico e pratico ma d’effetto. Un esempio: l’inaugurazione del palazzo scolastico nel 1908, giornata memorabile per la scazzottata con quelli di Morbegno (acerrimi nemici) che avevano la pretesa di decidere i brani che la banda doveva eseguire durante i festeggiamenti pomeridiani.

E poi? Poi ci sarebbe la mia storia recente, quella del XX sec., quella delle guerre e del boom dell’area industriale, quella che per l’ennesima volta mi ha fatto cambiare volto. Ma io mi fermo qui. Raccontatemela voi! Frugate nei cassetti e nella vostra memoria, così ritroveremo le pagine di quegli avvenimenti che non hanno ancora trovato posto sui libri…soltanto perché non sono stati ancora scritti!

A presto, Talamona

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(1) Bacchi da seta e gelsi

(2) Bozzolo

(3) Nel XVII sec. La popolazione si era addirittura dimezzata e i superstiti dovettero supplicare il vescovo di Como affinché aiutasse a far fronte ai debiti. Un’altra alluvione particolarmente disastrosa fu quella del 1911 che spazzò la chiesa di San Bernardo nei pressi del Tartano.

(4) Dalle nostre interviste il motivo principale che spingeva i Talamonesi ad emigrare era la ricerca di un lavoro per mantenere la famiglia. I periodi in cui si emigrava di più sono gli anni antecedenti la Prima Guerra Mondiale e quelli che seguono la Seconda. Le mete raggiunte erano soprattutto le Americhe ( Argentina in testa e Stati Uniti). Seguivano la Svizzera, Francia e Africa. All’inizio partivano solo gli uomini, poi le donne. Alcuni ritornavano dopo 5 o 6 anni senza essere riusciti a guadagnare molto. Le occupazioni principali svolte dai Talamonesi erano: boscaiolo, muratore, falegname, capo mandria, coltivatore, costruttore di pali della luce.

Puntata realizzata e curata dagli alunni dell’Istituto Comprensivo “G.Gavazzeni”, Secondaria, primo grado

LO SPIRITO CREATIVO – I PRIMI ARTISTI

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Non sapremo probabilmente mai quando gli uomini cominciarono per la prima volta a cantare e a danzare o a raccontare e a rappresentare avvenimenti che li avevano commossi; i primi uomini che lo fecero, infatti, morirono molto prima che iniziasse la storia scritta. Sappiamo tuttavia per certo che gli uomini cantavano e danzavano già almeno 15.000 anni fa: lo sappiamo perché pitture rupestri all’incirca di quel periodo raffigurano uomini che danzano e cantano.

Quando gli uomini cominciarono a dipingere e a incidere la pietra per rappresentare animali e uomini, lo scopo principale fu quasi certamente quello di fare della magia: essi credevano infatti, o almeno così riteniamo, che gli oggetti che creavano contenessero poteri occulti in grado di dominare gli eventi naturali. Secondo questa credenza, perciò, un cacciatore che disegnava, per esempio, un cervo otteneva una specie di potere su un cervo vero.

Attorno a questi primi dipinti, disegni e graffiti si svilupparono probabilmente serie fisse di parole e di gesti che venivano ripetute in determinate occasioni, dando inizio così al rituale. Insieme, magia e rituale diedero all’uomo il primo impulso a quell’estremo perfezionamento dell’uso della voce, del corpo e della mano che chiamiamo “arte”. Gli uomini preistorici non avevano probabilmente una parola equivalente ad “arte”, ma graffiti e disegni erano semplicemente gli elementi principali della loro magia, sebbene qualcuno fra questi uomini dovesse già ricavare un piacere artistico da ciò che stava facendo. Verosimilmente, nelle primissime forme di questa arte-magia (forse addirittura 90.000 anni fa) c’era il tentativo di imprigionare per sempre delle ombre disegnando i loro profili sulla roccia.

Alcuni esperti ritengono che questi primi tentativi meccanici di disegno possano essere stati garanzie magiche che qualcosa della personalità del loro autore sarebbe sopravvissuta, un impulso che ancora si manifesta nel desiderio dell’uomo moderno di farsi immortalare nel ritratto fotografico o pittorico. In ogni modo, anche se non comprendiamo appieno i motivi che ispirarono quanto l’uomo primitivo ci ha lasciato, possiamo ricavarne piacere e interesse, e anche trarre qualche congettura sul perché della loro creazione.

Alcuni fra gli esempi più suggestivi ed emozionanti dell’arte dell’Età della Pietra si trovano nelle grotte della Francia meridionale e della Spagna settentrionale, nelle cui profondità mai raggiunte dalla luce del giorno, considerate luoghi magici o sacri, gli uomini dipinsero e scolpirono, alla luce vacillante delle torce e penetrati da sacro timore, le raffigurazioni fedeli di bisonti, di cervi e di altri animali. Le bestie devono essere state dipinte per garantire il successo alla caccia, ma accanto a tali raffigurazioni appaiono segni e simboli misteriosi con significato, forse almeno in parte, di mezzi magici intesi ad assicurare alla tribù la nascita di bambini in numero sufficiente a permetterle di sopravvivere. Le pitture scoperte nella grotta dei Trois-Frères nel sud della Francia sembrano dimostrare che i rituali venivano eseguiti contemporaneamente alle pitture: ci sono raffigurazioni di uomini vestiti di pelli e con maschere di animali sul volto che sembrano danzare, cantare, e suonare una specie di strumento musicale; ciò suggerisce l’idea che i nostri antenati possedessero una cultura complessa e molte delle capacità che si svilupparono più tardi in arti distinte.

Il cosiddetto “stregone” dei Trois-Frères, che indossa pelli di animali e porta corna di cervo maschio, presiede a tutte queste pitture di animali e di ballerini. Probabilmente, qualcuno come lui dirigeva le cerimonie con cui si iniziavano i ragazzi della tribù alla caccia o con cui si cercava di garantire che il cibo e la continuità della razza sarebbero stati salvaguardati. Riti simili ottennero sicuramente un certo successo rendendo gli uomini più fiduciosi, più arditi e più audaci di quanto sarebbero stati altrimenti.

Lucica Bianchi

LE NUOVE TECNOLOGIE DELLA COMUNICAZIONE

 

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Ogni riflessione sulle nuove tecnologie della comunicazione non può prescindere da come il recettore delle comunicazioni, l’uomo, reagisce e si adatta alla rivoluzione digitale. Le tecnologie sono infatti indissociabili dal cammino dell’uomo verso la conoscenza e l’affrancamento delle forze della natura. Il potenziamento delle capacità umane può però, portarsi dietro, aspetti fortemente problematici. Oltre ai benefici immediati – maggiore velocità e capacità di calcolo, possibilità di accedere a enormi quantità di informazioni- possono subentrare effetti che, alla lunga, rischiano di vanificare i benefici conseguiti. Non è infrequente che l’espansione di una funzionalità possa tradursi nella sostanziale atrofizzazione di un’altra; questo fenomeno è molto frequente quando a essere coinvolti sono i nostri sensi: un utilizzo eccessivo della vista, per esempio, toglie rilevanza all’udito, che quindi, progressivamente, tende a diventare meno sensibile.

In passato, se l’uomo non era in grado di usare una specifica tecnologia, si limitava a non utilizzarla, o la faceva usare a chi ne era esperto. Oggi, con le tecnologie digitali, questo non è più possibile. E questo per la loro percepita “necessarietà”. Internet è considerato addirittura un autentico diritto e il cosiddetto “digital divide”- la separazione fra chi accede a Internet e chi no- viene ritenuto una nuova forma di esclusione che vuole essere combattuta a tutti i costi, con attenzioni e investimenti superiori a quelle rivolte verso tragiche malattie che inginocchiano alcune zone della Terra. L’uomo non può quindi chiamarsi fuori dalle tecnologie digitali e dal loro impatto sulla vita, anche se nel frattempo queste tecnologie continuano a progredire e a complicarsi, mentre l’uomo contemporaneo legge e studia meno. Questo dislivello tra l’uomo e la tecnologia da lui creata sta facendo nascere una vera e propria patologia dell’anima, intesa come mancata armonizzazione e sincronizzazione tra il mondo umano e quello tecnico.

Nella nostra cultura dimenticare ha una valenza prevalentemente negativa. Colui che dimentica è distratto, poco attento alle cose, forse addirittura malato.  Montaigne , per esempio si lamentava della debolezza della propria memoria, una facoltà che Platone aveva considerato addirittura divina. Egli considera questa debolezza scandalosa, tanto che a volte lo faceva sentire una sciocco. La mancanza di memoria serve però a Montaigne a far perdere le tracce e le fonti delle cose che impara: egli le fa sue, e dimentica dove e da chi le ha prese. E’ proprio questa mancanza di memoria, questo smarrimento delle origini del proprio sapere che rende originale il suo lavoro. Se non si dimenticano concetti obsoleti, non c’è spazio per le nuove idee.

L’economista Joseph Schumpeter introduce il concetto di “distruzione creatrice”. Per indicare che cosa? La necessità di cancellare attività non più remunerative per liberare risorse da allocare su progetti innovativi. Se noi non scordassimo positivamente e attivamente alcune esperienze, o perlomeno se non fossimo in grado di contrastare precedenti ricordi, non potremmo apprendere qualcosa di nuovo, correggere i nostri errori, innovare vecchi sistemi.

 

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Per fare buon uso della memoria è necessario sia saper ricordare sia, soprattutto, saper dimenticare. E’ importante tanto saper accumulare informazioni nella mente quanto saper alleggerire quest’ultima dal suo fardello, ogni qualvolta rischiasse di diventare eccessivo. Possiamo parlare quindi, di una vera e propria auspicabilità dell’obliò, soprattutto nella società attuale, dove il bombardamento informativo ha superato i livelli di guardia.

Lucica Bianchi

Bibliografia

Roger Chartier, Inscrivere e cancellare. Cultura scritta e letteratura dall’XI all XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza 2006

Pierre Levy, Il virtuale, Milano, Cortina, 1997

LA REGGENZA E LO STILE LUIGI XV

Luigi XIV morì la mattina del 1 settembre 1715. Il giorno seguente il duca Filippo d’Orleans reclamò la reggenza per diritto di nascita, e i magistrati gliela accordarono per la durata del periodo di minore età del piccolo Luigi XV. Il duca non aveva in simpatia Versailles, ove aveva subito tanti soprusi, e quindi il 9 settembre partì, assieme al futuro re, alla volta della capitale. Versailles subì un grave contraccolpo, poiché la corte, in assenza del re, presto l’abbandonò. La tradizione instaurata da Luigi XIV si interrompeva, un’epoca finiva, e subentrò un clima di rinnovata spensieratezza, verificabile anche nei cambiamenti di gusti e costumi. Dai frequenti contatti con l’Oriente nasce la preferenza per i colori caldi, più chiari e per le sete dell’Estremo Oriente. Era finito ormai anche il tempo del rigido abito della corte francese!
L’epoca di Luigi XV, fu, per la moda, un momento particolarmente felice, l’attenzione e la cura per l’aspetto dei propri vestiti si estese anche ad altri strati sociali della popolazione.
Artisti come Watteau e Chardin ebbero un’influenza considerevole sui gusti: la grazia, la distinzione e la nobiltà furono le qualità che caratterizzarono l’estetica del periodo della reggenza. Il nome di Wateau è praticamente inscindibile dall’abbigliamento, in questi anni di passaggio da un Luigi ad un’altro. Lui influenzò la moda, aprendo la via al stile che diventerà la firma di Luigi XV; egli seppe rinnovare il costume riunendo e interpretando l’eleganza dei due grandi centri del gusto europeo d’allora, l’Italia e Francia. A lui si devono due delle fogge di questo periodo: la robe volante, e la robe a plis Watteau.
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la robe volante

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la robe a plis Watteau

Quest’ultima tipologia assunse nel tempo significati diversi. All’inizio questo tipo di veste era una foggia ampia, lenta, talvolta così lunga da dover essere alzata con una mano o ripresa con delle spille. L’effetto di ampiezza era dato da varie pieghe che, partendo dalle spalle e ricadendo verso il basso, andavano quindi a formare con essa un sol corpo. Anche le maniche avevano una foggia particolare: si ornavano infatti di una ricca plissettatura verticale e, talvolta, nella loro forma più ampia, potevano essere dotate di paramani. Veniva indossato anche un corsetto balenato, realizzato in tela robusta, doppiato e fermato sul mezzo davanti.

puntata curata dalle volontarie dell’Istituto Comprensivo “G.Gavazzeni