RAFFAELLO: INTERPRETE DEL CONNUBIO TRA IL BELLO DI NATURA E IL BELLO ARTISTICO

di Loredana Fabbri

 “Il pittore ha l’obbligo di fare le cose non come le fa la natura, ma come ella le dovrebbe fare”

                                                                                                                              (Raffaello Sanzio)

 

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                                                                                                       “Raffaello è sempre riuscito a fare quello

                                                                                                              che gli altri vagheggiavano di fare”

                                                                                                                                 (W. Goethe)

Cosimo de’ Medici governa Firenze per trent’anni, fino alla sua morte avvenuta nel 1464. La forma di governo è la repubblica ed egli non assume titoli particolari, ostenta una vita da privato cittadino, ma si comporta chiaramente da “signore”, amministrando il potere coadiuvato da uomini a lui fedeli, trattando da pari a pari con principi italiani e stranieri, facendosi protettore delle lettere e delle arti e nel 1439 il suo prestigio è accresciuto da un eclatante successo diplomatico: lo spostamento da Ferrara a Firenze del Concilio che doveva sancire la riunificazione delle Chiese d’Occidente e d’Oriente. Cosimo è molto abile, sa agire con razionalità, saggezza e moderazione, ma il suo modo di vivere non è più quello di un mercante: riceve ed è ricevuto da principi e imperatori, organizza giochi e tornei in cui la nuova aristocrazia si mette in mostra, anche gli eventi familiari diventano occasione per fare sfoggio di grandi sfarzi.

Già nella prima metà del XV secolo, Firenze è una città ricca e politicamente potente ed è in questo clima che la cultura assume un importante ruolo politico e ideologico: Coluccio Salutati e Leonardo Bruni ricoprono per decenni la carica di cancellieri del Comune di Firenze e a loro è affidata la divulgazione del prestigio di questa città ad un pubblico colto, ma l’arte, come forma di comunicazione sociale, aveva la possibilità di raggiungere un pubblico più vasto, motivando la ripresa di investimenti pubblici nell’ambito artistico, che nella città medicea risultano moltiplicati già alla fine del Trecento, fornendo, in molti casi, l’opportunità per il manifestarsi di quella grande rivoluzione artistica che fu il Rinascimento.

Nei trattati sulla pittura, l’architettura e la scultura, Leon Battista Alberti sostiene che l’artista medievale era responsabile solo dell’esecuzione dell’opera, poiché i contenuti gli erano imposti; ora, invece, deve trovarli e definirli, in quanto è proprio l’artista che determina autonomamente l’orientamento ideologico e culturale del proprio lavoro: l’arte non è più un’attività manuale (mechanica), ma intellettuale (liberalis); la forma non è più semplicemente un’esposizione o trasposizione in figura, ma possiede un suo intrinseco contenuto e questo contenuto che si manifesta e si realizza nella forma che cosa è se non la realtà? L’arte, quindi, diventa un processo di conoscenza finalizzato non tanto alla conoscenza della cosa quanto alla conoscenza dell’intelletto umano, alla facoltà di conoscere.[1]

Complessivamente il Quattrocento è, per l’Italia, un periodo di pace: non si verificano invadenze straniere, ingerenze politiche di potenze europee, ma alla fine di questo secolo, nel 1494, dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, il re di Francia Carlo VIII scende in Italia con il suo esercito per conquistare il Regno di Napoli. Piero de’ Medici, figlio e successore di Lorenzo, si sottomette al re francese e gli cede Pisa, ma la reazione popolare determina la fine del regime mediceo: Piero viene cacciato da Firenze, dove si instaura un nuovo governo, rappresentativo di tutti i ceti sociali, di cui il massimo organo legislativo è il Gran Consiglio, che si riunisce in una sala del Palazzo della Signoria e comprende tremila membri, ossia un quinto della popolazione maschile adulta della città. A dominare i primi anni della nuova Repubblica fiorentina è un frate, priore del convento di San Marco: Girolamo Savonarola, il quale sa suscitare grandi entusiasmi, ma anche incertezze e crisi nelle folle. Il suo progetto è quello di fare di Firenze la nuova Gerusalemme, in contrapposizione alla ricca e corrotta Roma dei papi, egli condanna il lusso, il decadimento dei costumi, la corruzione nella cultura e nell’arte, che hanno traviato gli uomini dall’autentico Cristianesimo. Savonarola finisce sul rogo nel 1498 e con lui si chiude la stagione culturale ed artistica dell’Umanesimo, spalancando la porta alla nuova cultura del tormentato Rinascimento cinquecentesco.

I primi decenni del Cinquecento vedono un’Italia che è ancora uno dei paesi più fiorenti e ricchi d’Europa, con città e corti che sono centri di cultura, dove la vita artistica e il sapere sono all’avanguardia, ma l’effettiva debolezza politica e militare degli stati regionali la rendono facile ed ambita preda delle nuove potenze nazionali e di quella imperiale, la penisola resterà sostanzialmente esclusa dalle grandi novità del secolo: la Riforma protestante, l’espansione dei commerci atlantici, le conquiste extracontinentali, tutto ciò determinerà una marginalità sia rispetto ai centri politici decisionali sia ai mutamenti sociali e culturali europei.

Il Cinquecento è un secolo drammatico e pieno di contrasti, in cui si assiste alla mutazione dei valori religiosi, politici, filosofici, scientifici e artistici, dai quali scaturiranno le idee su cui si fonderà la struttura culturale dell’Europa moderna. L’arte non è più osservazione e riproduzione dell’ordine del creato, ma ansiosa ricerca della propria natura, della ragion d’essere e dei propri fini: non ha più senso rappresentare nell’arte la forma dell’universo se questa è sconosciuta ed oggetto d’indagine, come non ha senso contemplare l’armonia del creato se Dio non si trova là, ma nell’interiorità dell’anima che combatte per la propria salvezza.[2]

Nell’arte, durante il XVI secolo, assistiamo da un lato all’esaltazione della grandezza e della dignità umana, ma in senso aristocratico, dall’altro al superamento delle rigide regole dell’arte quattrocentesca, attraverso nuovi ideali di nobiltà e di grazia, dando vita all’ultima fase di un percorso di ripensamento iniziato nel secolo precedente, consistente nel superamento della prospettiva prettamente geometrico-matematica, nella conquista di esatte conoscenze anatomiche, in una resa più naturalistica ed espressiva delle figure e in un rapporto più intimo e profondo con la cultura classica: l’Umanesimo comprende, dunque, il Rinascimento. Durante il Cinquecento non viene recuperata la mentalità greca, ma viene riscoperta, dando una rinnovata energia alla speculazione umana, iniziata grazie anche allo sviluppo dei mercati, all’invenzione della stampa, che agevola gli studi: l’uomo vuole conoscere sempre di più. Rinascimento, dunque, non è la rinascita contro l’inciviltà, non è la cultura contro le barbarie, il sapere contro l’ignoranza, ma nascita di un’altra civiltà, di un’altra cultura, di un altro sapere. [3]

Anche in campo artistico il legame con l’antichità fu basilare: attraverso il linguaggio dell’arte antica, gli artisti prendevano polemicamente le distanze dal mondo medievale e riproponevano la dignità dell’uomo e la sua centralità nel creato e nella storia, coniugando, come sosteneva Machiavelli, “una continua lezione delle cose antique” con “una lunga esperienza delle moderne”. Si cominciava, comunque, ad avere un nuovo rapporto con la natura, un modo nuovo di guardare, rappresentare e interpretare la realtà: gli artisti del Rinascimento furono grandi cultori dell’antichità, ma furono anche acuti indagatori della natura, scienziati, matematici e tecnici. Questo rinnovamento esistenziale viene individuato nel “ritorno al principio”, concetto prettamente religioso: il principio è Dio e il ritorno a Dio è il compimento del destino umano, che consiste nel ripercorrere inversamente il processo emanativo, per il quale gli uomini si sono allontanati da Dio e nel ritornare a Lui, ma nel Rinascimento il ritorno al principio assume un significato storico e umano, secondo il quale il principio cui si deve ritornare consiste in una specifica situazione del passato della civiltà e la grandiosa arte di questo periodo, ha come emblema questo ritorno alla natura, che intende rappresentare ed esprimere nella sua forma più autentica, al di là delle immagini astratte e convenzionali dell’arte medievale, quindi il riconoscimento di Dio non esclude tuttavia lo spirito prevalentemente antropocentrico, che si differenzia da quello sostanzialmente teocentrico del Medioevo.[4]

In campo artistico il Rinascimento è legato soprattutto alle maestose figure di Bramante, Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Donato Bramante fu più fedele all’esperienza reale della visione e meno persuaso della necessità di un modo matematico di concepire la prospettiva. Leonardo, allievo del Verrocchio, sviluppò un concetto dell’arte come forma di conoscenza fondata su basi scientifiche, sostituendo l’idea filosofica che l’artista dovesse imitare la natura con quella dell’indagine scientifica delle leggi di natura, indispensabili per comprenderla e ricrearla nell’opera d’arte; entrambi dettero vita ad un’arte di impronta classica che influenzò a fondo il contesto artistico lombardo, ancora molto legato alla tradizione gotica. Michelangelo Buonarroti ebbe il merito di superare l’orientamento tradizionale nei confronti dell’arte antica, cercando di riflettere consapevolmente sui modelli classici deducendo dal loro studio la premessa necessaria a quella rinascita degli ideali del mondo antico che l’Umanesimo si proponeva. Il quarto grande protagonista del Rinascimento fu Raffaello Sanzio, il quale, molto giovane, si trasferì a Firenze per studiare l’arte toscana, prima di andare a Roma; fu molto influenzato da Leonardo e da Michelangelo, specialmente nella composizione piramidale dei dipinti leonardeschi e nell’arte del ritratto, in cui Raffaello primeggiò, avvolgendo il soggetto nel paesaggio circostante.

La vita dell’Urbinate è molto conosciuta, ma alcuni fatti, anche se noti, vale la pena ricordali: come morì Raffaello? Cosa sappiamo di vero sulla sua sepoltura nel Pantheon?

Secondo le innumerevoli biografie egli si era ammalato circa quindici giorni prima della morte, con febbri molto alte, quindi gli vennero praticati dei salassi, come era usanza dei tempi per ogni tipo di patologia, queste febbri, secondo alcuni, erano causate da esagerati sforzi amorosi, forse un modo di dire diplomatico per menzionare una malattia venerea, vista la sua nomea di libertino; altri invece sostenevano che fosse affetto dalla malaria, o da un colpo di freddo, o ancora dal troppo lavoro, fu ipotizzato anche l’avvelenamento, la peste  e l’utilizzo di pigmenti tossici. Fu anche detto che il medico di Leone X andò dal malato solo in punto di morte, cosa poco probabile vista l’amicizia, almeno apparente, che c’era tra l’artista e il Papa, il quale sembra che sia stato a trovarlo circa sei volte durante i quindici giorni di malattia. Ma la vera causa della morte di Raffaello rimane sconosciuta e sembra incredibile che un uomo così amato e stimato da tutti non sia stato sottoposto ad accurate visite mediche e siano stati sottovalutati i sintomi che manifestava, anche se non è conosciuto il suo stato di salute prima della morte.

Una cosa molto strana, per il suo tempo, fu che non gli venne fatta nessuna maschera funeraria e ancora più strano il fatto che non esista nessun oggetto personale, nemmeno la sua corrispondenza, ad eccezione di qualche dubbia lettera, come vedremo più avanti. Sembra che un certo notaio Apocelli, forse Johannes Jacobus Apocellus, operante a Roma dal 1518, abbia raccolto le sue volontà, che videro quasi unico erede Giulio Romano, suo migliore allievo, ad eccezione di alcuni lasciti ad altre persone e, del suo patrimonio, ammontante a sedicimila ducati, destinò mille scudi per la manutenzione del Pantheon, dove desiderava essere sepolto, così sostiene il Vasari, ma di questo testamento non si conserva traccia.[5]

Raffaello muore a Roma il Venerdì Santo 6 aprile 1520, a soli trentasette anni, era nato ad Urbino il 6 aprile del 1483, giorno del Venerdì Santo, alle tre di notte iniziava la sua breve vicenda terrena, così intensa e eccezionale da essere considerata leggenda, coincidenze che troviamo negli scritti del Vasari, il quale farà coincidere perfino l’ora dei due avvenimenti, le tre di notte; da queste date discordano la maggior parte degli studiosi. Il Sanzio  viene sepolto nel Pantheon, dove troviamo l’epitaffio scritto da Pietro Bembo: “Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori” (Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’esser vinta, ora che egli è morto, teme di morire), secondo alcuni studiosi, in quel periodo il Bembo non si trovava a Roma, quindi è poco probabile che lo abbia composto questo scrittore. L’epitaffio originale fu tolto nel 1820 e distrutto due anni dopo per ordine del Papa: Perché? Anche su questa iscrizione spira aria di mistero?

Nel 1833, il Professor Giuseppe Del Chiappa[6] scrive una lunga lettera a Defendente Sacchi[7]  “Sullo scoprimento delle ceneri di Raffaello Sanzio”, il quale si trovava a Roma proprio in quei giorni, infatti egli racconta che dopo poco il suo arrivo nella Città eterna, si sparse la voce che fossero stati ritrovati i resti del grande artista e lui poté assistere a questo avvenimento e descriverlo nei suoi particolari.

I motivi che indussero a cercare le spoglie di Raffaello furono sostanzialmente di natura economica: sia da parte del Vaticano sia da parte dei collezionisti che volevano potenziare il valore e commercializzare le opere dell’artista.

Il 9 settembre la Congregazione <<detta de’ virtuosi del Panteon sotto l’invocazione di San Giuseppe di Terra santa, la quale è composta di soli artisti, inviata dal suo degno reggente il cav. Fabris in cospirazione del capitolo de’ canonici dello stesso, cioè di S. M. della Rotonda, e coll’assenzo del Governo>>[8] iniziava le indagini per il ritrovamento dei resti di Raffaello per collocarli in luogo degno dell’artista. Dai documenti, continua la relazione, era noto che il corpo era stato tumulato sotto l’altare della Madonna del Sasso nel Panteon (chiesa di Santa Maria della Rotonda), per suo volere come da testamento. Appena iniziati gli scavi furono trovate delle ossa non appartenenti a Raffaello, ma a vari santi e martiri, quindi lo scavo continuò <<…e dentro un arco chiuso a sassi legati a cala, e posto in fondo all’altare istesso e immediatamente sotto il ceppo della statua della Madonna, ne si parve finalmente il deposito dell’Urbinate. E questo memorabile scoprimento avvenne il dì 14 del corrente al mezzodì in punto, e due ore dipoi ne apparve lo scheletro col suo teschio…>>. Smentendo in tal modo la credenza, durata moltissimi anni, che il teschio conservato all’Accademia di San Luca fosse quello di Raffaello. Del Chiappa continua dicendo che tale equivoco nacque perché il noto pittore Carlo Maratta, 153 anni dopo la morte dell’urbinate, gli eresse un busto e, cominciò a circolare la voce che egli avesse anche dissotterrata la testa, che fu tenuta come una preziosa reliquia, <<Né importa che io qui ti discorra del lucro che se ne ritrasse, mentre tutti volevano di quel teschio un gesso, e ne andarono infiniti per l’Europa […] E i giovani artisti ponevano le matite e i pennellini su quel teschio ond’ispirarsi, e levarsi al bello ideale, al bello pittorico raffaellesco>>.[9] In realtà la testa apparteneva, come sostiene Del Chiappa, a un uomo degnissimo, ma era ben altro che il grande artista. I resti di Raffaello, ridotti a mero scheletro, erano chiusi in un una cassa di abete, che sia per l’umidità sia per 313 anni che si trovava in quel luogo, era quasi del tutto distrutta. Lo scheletro giaceva con le mani giunte ed incrociate sul petto, la testa era un poco rialzata, le mascelle avevano ancora con tutti i denti. I resti vennero puliti dalla patina che li ricopriva e dall’argilla depositata dalle inondazioni del Tevere, penetrate dentro alla tomba. <<Né qui mi piace di lamentare e quasi riprendere la trascuranza o poca sollecitudine o provvidenza di quei che ne tumularono le ossa, vale a dire del non aver collocato il suo corpo in un’urna marmorea onde fosse al coperto dalle ingiurie del luogo e degli anni>>,[10] il narratore esprime con queste ed altre parole lo sdegno per una sepoltura non degna del personaggio: dentro la cassa non fu messo nessun indizio (pergamena, medaglia etc.) che indicasse l’identità del defunto, la quale, dopo accurati esami, non fu messa in dubbio: <<Egli è di certezza morale che sia desso, perocché tutte cospirano le circostanze del luogo e della figura dello scheletro e dell’età di esso, e le iscrizioni che sono fuori, e quella di Maria Bibbiena già stata sposa a Raffaello; colla quale però egli non giacque pur mai mentre visse, e che essa pur volle essere posta appresso lui morta, dappoiché non le fu dato di starvi viva…>>.[11] Maria Antonietta Bibbiena, nipote del Cardinale di Bibbiena, Camerlengo di Leone X dei Medici, promessa sposa di Raffaello, non fu mai sua sposa e il suo desiderio di essere sepolta accanto a lui appare piuttosto strano, perché la donna morì vari anni prima dell’urbinate

Intorno allo scheletro furono trovati dei tubetti di ottone cilindrici, che furono individuati come rinforzi per stringhe che servivano per allacciare gli abiti, sotto ai resti fu trovata una “stelletta” d’acciaio, che, da alcuni, fu creduta un oggetto facente parte del distintivo dei cubiculari, camerieri segreti del Papa e Raffaello fu cubiculare di Leone X; altri invece lo definirono un pezzo del fermaglio con cui il pittore teneva la tunica che indossava.[12] Tutto questo avvenne con la massima cautela: tutte le porte chiuse ad eccezione di quella laterale e segreta del tempio, vigilata giorno e notte dalle guardie svizzere, i rogiti fatti da pubblico notaio, le varie tappe del ritrovamento immortalate dai disegni di Vincenzo  Camuccini.[13]

Del Chiappa continua dicendo che il luogo verrà inizialmente protetto con una sbarra per tenere a distanza la folla che vorrà visitare e rendere omaggio a una simile personalità, in seguito, le ossa verranno poste in un’urna di marmo e lasciate nello stesso luogo, che era quello desiderato dallo stesso Raffaello.

Questa non fu l’unica relazione, ma molte altre cronache attestarono l’esumazione del 1833, ognuna con particolari discordanti dalle altre, che dettero e danno tutt’oggi adito a molti misteri sia sulla morte sia sui resti di Raffaello.

Molto interessante per conoscere alcuni aspetti della già celeberrima vita dell’Urbinate sono le famose sette lettere e i sei sonetti che restano degli scritti attribuiti a Raffaello, anche se alcuni di questi testi sono considerati estranei alla sua produzione letteraria, mentre altri contengono solamente i concetti, in quanto la forma è stata attribuita a scrittori come il Castiglione o il Bembo, suoi amici nel periodo che l’artista visse a Roma, il paragone con quelle scritte dal Sanzio non lascia dubbi, anche se si può notare un continuo miglioramento culturale rispetto ai suoi primo scritti. Nonostante privi d’interesse letterario, questi scritti hanno un notevole valore documentario, specialmente la lettera a Leone X, nella quale troviamo << talune idee che dovettero esser correnti in un periodo densissimo di fatti capitali per l’arte>>, gli altri riportano notizie sulle opere compiute o in programma dello stesso Raffaello, su avvenimenti o persone, che li rendono interessanti e preziose non solo per le notizie, ma soprattutto per la personalità dell’autore.[14]

Le composizioni poetiche non meritano certamente gli elogi della sua arte pittorica, ma valgono la pena di essere maggiormente conosciute.

Nella prima lettera, un promemoria per “Meneco”, ossia Domenico Alfani, pittore e amico di Raffaello, si può notare, nonostante le varie correzioni, specialmente le erronee unioni di più parole, la modesta preparazione letteraria del giovane artista.[15]

Importante per le notizie circa la vita e l’attività dell’artista è la prima lettera allo zio “Simone de Batista di Ciarla da Urbino, “Carissimo quanto patre”, fratello di Magia, madre dell’artista, scritta da Firenze il 21 aprile 1508, anche questa lettera dimostra la mediocre preparazione letteraria del Sanzio, ma è importante per le varie notizie intorno alla vita e all’attività dell’artista: <<Averia caro se fosse possibile d’avere una letera di recomandazione al gonfalonero di Fiorenza dal signor prefetto […] me faria grande utilo per l’interesse de una certa stanza da lavorare, la quale toca a Sua Signoria de alocare…>>.[16] Si tratta del Confaloniere Pier Soderini, al quale Raffaello era già stato raccomandato nel 1504 al suo arrivo a Firenze, il lavoro da assegnare era forse la Sala del Consiglio in Palazzo Vecchio, di cui una parte doveva essere affrescata da Leonardo, che però vi aveva rinunciato e lasciato la città; la data della lettera dimostra che il 21 aprile 1508 Raffaello si trovava ancora a Firenze. Mentre nella lettera successiva, indirizzata al “Francia”, Francesco Raibolini, pittore bolognese e datata 5 settembre dello stesso anno, l’artista si trovava a Roma. L’autenticità della missiva è sempre stata messa in dubbio: sembra poco probabile che a distanza di poco più di quattro mesi, che la separano dalla precedente, l’artista fosse sovraccarico di lavori in Roma da dover ricorrere ai collaboratori per eseguire il ritratto commissionato dal destinatario, il quale aveva mandato a Raffaello un suo autoritratto come modello, di cui si parla nella lettera: << …pregovi a compatirmi, e perdonarmi la dilazione e longhezza del mio che, per le gravi e incessanti occupazioni, non ho potuto sin ora fare di mia mano, ché ve l’avrei mandato fatto da qualche mio giovine, e da me ritocco, che non si conviene…>>.[17]

La lettera a Baldassarre Castiglione, senza firma e senza data, è probabilmente una copia, l’originale andò perduto, riferibile al 1514 circa, lo stile, molto più elevato delle altre, ha fatto supporre agli studiosi che Raffaello l’abbia dettata a Pietro Aretino, che però è incerta la sua presenza in quel periodo a Roma, o a Pietro Bembo, molto amico dell’artista. Nella lettera troviamo una possibile allusione alla Stanza Vaticana dell’”Incendio del Borgo”, affrescata dal 1514 al 1517 e alla nomina di Architetto di San Pietro del 1° aprile 1514: <<Nostro Signore con l’onorarmi m’ha messo un gran peso sopra le spalle. Questo è la cura della fabrica di San Pietro. Spero bene di non cadervici sotto…>>.[18]

Molte le notizie che possiamo trovare nella seconda lettera allo zio, “carissimo in locho de patre”, scritta il 1° di luglio 1514, in cui lo informa sui nuovi e redditizi incarichi affidatigli da Leone X: <<…ché fin in questo dì mi trovo avere roba in Roma per tre mila ducati d’oro, e d’entrata cinquanta scudi d’oro, perché la Santità di nostro signore mi ha dato perché io attenda alla fabbrica di San Petro trecento scudi d’oro di provisione, li quali non mi sono mai per mancare sinché vivo, e son certo averne degl’altri, e poi sono pagato di quello [che] io lavoro quanto mi pare a me, e ho un’altra stanza per Sua Santità a dipingere, che montarà mille duecento ducati d’oro…>>.[19] La Stanza che il Papa gli ha dato l’incarico di affrescare è sicuramente identificabile con quella dell’”Incendio del Borgo”, perché la precedente, quella di Eliodoro era già ultimata, anche se da poco tempo e il 1° agosto 1514 l’artista riceveva il saldo dei pagamenti. Raffaello comunica allo zio, tra le altre cose, che Bernardo Dovizi Bibbiena, Cardinale di Santa Maria in Portico gli aveva offerto in sposa la propria nipote Maria Bibbiena, la quale sarebbe morta prima dell’Urbinate: <<Sono uscito da proposito della moglie; ma, per ritornare, vi rispondo che voi sapete che Santa Maria in Portico me vòl dare una sua parente, e con licenza del zio prete e vostra li promesi di fare quanto Sua reverendissima Signoria voleva; non posso mancar di fede: simo più che mai alle strette, e presto vi avviserò del tutto; abiate pazienza che questa cosa si risolva così bona, e poi farò – non si facendo questa – quello [che]voi vorite; e sapia che se Francesco Buffa ha delli partiti, che ancor io ne ho, ch’io trovo una mamola bella, secondo [che] ho inteso, di bonissima fama lei e li loro, che mi vòl dare tre mila scudi d’oro in docta, e sono in casa in Roma, che vale più cento ducati qui, che duecento là: siatene certo>>.[20] E’ da notare lo spirito pratico di Raffaello, completamente privo di ogni forma di romanticismo sia per quanto riguarda il matrimonio con Maria Bibbiena sia per quello proposto dallo zio, ed è probabilmente questo senso pratico che gli permette di gestire proficuamente le sue botteghe e un gran numero di allievi, di cui parleremo più avanti.[21] Secondo Vasari l’artista avrebbe indugiato ad accettare un matrimonio così prestigioso perché Leone X gli avrebbe prospettato la possibilità di una nomina cardinalizia.[22] La lettera continua dicendo che egli deve stare a Roma per attendere alla Fabbrica di San Pietro <<…ché sono in loco di Bramante, ma qual loco è più degno al mondo di Roma? Qual impresa è più degna di San Petro, ch’è il primo tempio del mondo? E che questa è la più gran fabrica che si sia mai vista, che monterà più d’un milione d’oro; e sappiate che ‘l papa ha deputato di spendere sessantamila ducati l’anno per questa fabrica, e non pensa mai altro>>.[23] Giulio II affianca Raffaello, per questo lavoro, ad un personaggio notissimo, ma molto anziano: Giovanni Giocondo da Verona, il quale possedeva una cultura enciclopedica: latinista, grecista, botanico, architetto, epigrafista,  il 1° novembre 1513 fu nominato architetto di San Pietro e nel giugno dell’anno successivo, quando arrivò a Roma, Leone X gli assegnò la posizione principale nella Fabbrica di San Pietro, come successore del defunto Bramante, probabilmente per la sua notorietà come grande ingegnere, infatti ogni giorno il Papa si riuniva con entrambi gli artisti per discutere sulla nuova costruzione e sempre prevalsero le scelte di fra Giocondo. Durante l’anno passato insieme, Raffaello cercò di apprendere i segreti dell’architettura dell’anziano frate e di fare tesoro delle sue esperienze; fra Giocondo morì il 1° luglio 1515.[24] Questa lettera testimonia, oltre a notizie importanti anche alcuni progressi nella scrittura compiuti dall’artista durante il suo soggiorno a Roma, nonostante il persistere di forme dialettali, errori grammaticali e di sintassi.

La sesta lettera è indirizzata a Fabio Calvo,[25] umanista e amico di Raffaello, in cui l’artista lo ringrazia per avergli inviato la traduzione in italiano del “De Architectura” di Vitruvio e promette di preparare le illustrazioni, ciò significa che da agosto 1514 egli è interessato al trattato di Vitruvio e non conoscendo il latino si avvale di questa versione. Migliorata la grammatica e la sintassi, ma non da tutti gli studiosi questa lettera fu ritenuta autentica.

Il 1° agosto 1514 venne ufficializzata la nomina fatta da Leone X a Raffaello come architetto della Fabbrica di S. Pietro, carica già ottenuta “de facto” a partire dal 1° aprile a seguito della presentazione di un proprio modello per la nuova basilica. Pochi giorni dopo, il 27 agosto, il Pontefice nominò Raffaello, tramite un breve redatto da Pietro Bembo, “Praefectus marmorum et lapidum omnium”, non solo di tutti i marmi e le lapidi scavati a Roma, ma anche entro un raggio di dodici miglia dalla città, per rifornire di materiali la Fabbrica di S. Pietro, richiedendo che ogni antica iscrizione venisse sottoposta all’Urbinate prima dell’eventuale riutilizzo, con lo scopo di rivalutarne l’importanza per lo studio della letteratura e della lingua latina.

Nell’autunno del 1519, l’Urbinate inviò la famosissima lettera a Leone X, aiutato nella stesura da Baldassarre Castiglione: incaricato dal destinatario di studiare il territorio di Roma in relazione alle sue rovine per eseguire la pianta dell’antica Roma imperiale, la missiva è un allegato alla raccolta di disegni, in cui l’artista, anche se nella retorica intonazione del dettato, deplora le preoccupanti condizioni delle strutture esposte a secoli di incuria e alla razzia dei materiali, di cui si era fatto riuso durante il Medioevo. Raffaello espone, non senza sfoggio di erudizione,[26]il metodo adottato per distinguere le strutture del periodo imperiale da quelle posteriori e i principi e le idee che hanno portato a tale opera; descrive poi le modalità tecniche usate in questo importante lavoro di ricognizione.

Dal punto di vista del contenuto si possono distinguere tre parti: la prima, introduttiva, è inerente alle “reliquie” di Roma e all’opportunità di salvaguardarle, quindi viene enunciato lo scopo culturale del lavoro; la seconda parte costituisce un’ecfrasi storico-architettonica, dall’epoca romana ai tempi in cui vive l’artista: molto importante è il passo dove viene spiegata la scomparsa dell’arte classica, non solo causata dai fatti storici, come le invasioni barbariche, ma soprattutto dall’incuria e dall’ottusità degli uomini ed anche dai precedenti pontefici, che hanno utilizzato i monumenti antichi come giacimenti di materiale e le statue di marmo come calcina.[27]

Quando nel 1515 Raffaello viene nominato Prefetto alle antichità di Roma, da papa Leone X, non esisteva il concetto di conservazione e tutela dei monumenti antichi, ma con il suddetto incarico, l’Urbinate si trova nella necessità di codificare un enorme patrimonio disperso per vari motivi, come possiamo capire da quello che scrive, e non certamente classificato, quindi egli gode anche fama di grande studioso di architettura e di conservatore dei beni architettonici del suo tempo.

Tra la perfezione dell’epoca classica e quella dei “barbari”, l’età moderna, legata allo studio e all’imitazione di quel mondo perduto, si poteva considerare in una posizione intermedia, mostrando come Raffaello aveva chiaro il concetto di “Rinascita”, basata sull’assimilazione dell’arte antica come archetipo prezioso.

La terza parte della lettera si riferisce ai lavori pratici di rilievo grafico-strutturale degli edifici antichi, quindi ha un tenore prevalentemente tecnico. Il disegno di tutti gli edifici, diviso in tre parti: la pianta, l’esterno, l’interno con le loro decorazioni, deve seguire regole ben precise, fino a parlare di teoria di architettura generale.

L’importanza della lettera è sottolineata anche da Baldassarre Castiglione nell’epigramma composto in occasione della morte del Divino pittore: <<Mentre tu con mirabile ingegno ricomponevi Roma tutta dilaniata e restituivi a vita e all’antico decoro il cadavere dell’Urbe lacero per ferro, per fuoco e per il tempo, destasti l’invidia degli Dei; e la morte si sdegnò che tu sapessi rendere l’anima agli estinti, e che tu rinnovassi, spezzando le leggi del destino, quando era stato a poco a poco distrutto>>. Essa è importante anche perché rappresenta una delle ultime testimonianze dell’artista, che, purtroppo, morì dopo pochi mesi, anche se la possibilità che Raffaello fosse l’ispiratore di questa lettera fu messa molte volte in dubbio dagli studiosi, comunque sia, riflette la mentalità della società romana al tempo di Leone X e vi si può cogliere sia l’accenno a quella che sarà poi la politica della tutela e l’affermazione che l’arte antica deve essere uno stimolo per i moderni per “uguagliarla et superarla”.

Raffaello, come già detto, si dilettò anche nella poesia, se pure le composizioni poetiche non occuparono certamente un posto centrale nella sua carriera artistica, ma ci mostrano come lo zoppicante illetterato del 1508, a distanza di poco tempo, abbia fatto dei passi da gigante anche nella fluttuante lingua rinascimentale ed esprimono la mentalità eclettica dell’artista.

Dei sei sonetti conosciuti (il sesto è notoriamente apocrifo), i primi cinque sono annotazioni a margine dei disegni preparatori della “Disputa del Sacramento”, affresco eseguito nel 1509 e quindi ritenuti autentici.

Il loro tema è l’amore, la passione che arde e tormenta: nel primo Raffaello si rivolge ad Amore, che lo ha “invischiato” attraverso gli occhi, il volto e la bella voce di una donna; afferma di ardere d’amore al punto che <<…né mar né fiumi spegnar potrian quel foco…>>,[28] ma ciò non gli spiace, perché ardendo si consumerà e non si sentirà più avvampare dalle fiamme; rivolgendosi poi alla donna, le ricorda quanto sia doloroso staccarsi dalle braccia candide allacciate al suo collo, quindi non aggiunge altro temendo che sul suo amore cali la morte. Nel secondo, dopo aver appurato l’incapacità di esprimere i propri sentimenti, paragonandosi a San Paolo, il quale dopo essere sceso dal cielo ed avere avuto esperienza dei misteri divini, non disse a nessuno ciò che aveva visto, si rivolge alla donna di cui è innamorato invocando il suo aiuto: << Ma pensa ch’el mio spirto a poco a poco/ el corpo lasarà, se tua mercede / socorso non li dia a tempo e loco>>.[29] Nel terzo sonetto l’artista si lamenta del distacco nell’”ora sesta”, ossia all’alba, dalla sua amata, ricordando dolcemente l’ “asalto” amoroso avvenuto tra i due amanti poco prima e il pensiero di lasciare la sua donna lo fa sentire come coloro che hanno perso la propria stella nel mare. Nel quarto l’Urbinate dichiara la sua intenzione di tenere segreto il suo amore e di non far trapelare con nessuno il suo sentimento e nel quinto, probabilmente la passione amorosa si era affievolita, perché dichiara di volersi dedicare completamente alla sua arte. Ma se leggiamo i sonetti nella seguente sequenza, possiamo seguire la nascita e la fine di un grande amore, un amore non solo “cortese”, ma anche molto carnale: il sonetto “un pensier dolce”(sonetto III) fu forse scritto dopo il primo convegno; Raffaello rievoca l’”asalto”e la separazione, il “patir”. Dice di essere stato sciocco e: <<mai mi ero ingannato a tal punto; eppure, le son grato d’avermi resistito. Era notte: tutto potevo osare, ma ansia e trepidazione mi tolsero ogni ardire>>. Il monologo prosegue in “S’a te servir”(sonetto IV): <<Se ti è parso, o dio dell’Amore, che io sdegnassi di servirti, per il modo da me tenuto in quell’occasione, tu ben ne conosci la causa pur senza che la scriva. Ero sopraffatto da te, e contro di te non esiste valido riparo>>.

La situazione appare cambiata in “Amor, tu m’envesscasti” (sonetto I). L’innamorato è ora sicuro di sé e disposto conoscere tutti i pregi della propria donna: gli occhi luminosi, il roseo volto, il “bel parlar” e il tratto delicatamente femminile. A poco a poco s’infiamma, arde, è felice, vorrebbe avvampare di nuovo: troppo soffrì a sciogliersi dalle braccia di lei e altro che tace.

Pare che la dama tema per il proprio buon nome esaudendo troppo di frequente alle richieste dell’amante e questi in “Como non podde”(sonetto II), le giura silenzio sul loro segreto. Non riferirà ciò che vide né ciò che fece, mai verrà meno al dovere della riservatezza. Certamente ella si denigra amandolo; ma egli morirà se non riceve aiuto da lei, sia pure con prudenza.

La relazione amorosa sembra non avere avuto vita lunga, un altro amore legava l’artista: quello dell’arte, alla quale egli si propone, nel V sonetto, di dedicarsi completamente, sciogliendosi dal legame che gli carpisce gli anni migliori.

Raffaello elogia l’esempio dei grandi che si affaticano a raggiungere la gloria e supplica da esso lo stimolo per risvegliare il proprio pensiero ozioso (che viene meno ai propri doveri, mancando a impegni presi) e conquistare una fama maggiore.[30]

Ma chi fu l’ispiratrice dei sonetti, ammesso che ne esistesse una? Da quasi tutti gli studiosi fu proposta la Fornarina, dopo infinite divergenze sull’identità di questa donna, la cui immagine compare nella celeberrima opera della Galleria Borghese e nella “Velata” della Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, oltre che in alcune composizioni sacre. Sembra però strano che la senese Margherita di Francesco Luti, fornaio nella contrada romana di Santa Dorotea, alias Fornarina, che nel 1517 acconsentì a posare seminuda nel ritratto e che veniva richiesta come modella anche da altri pittori, verso il 1509 pretendesse tanta riservatezza; inoltre è poco verosimile che una medesima donna mantenesse impegnato a lungo Raffaello, dal Vasari e dai contemporanei  presentato come protagonista di molteplici imprese amorose, che davano luogo a numerosi pettegolezzi, si può ipotizzare che la donna dei sonetti sia stata qualche dama appartenente ad una famiglia importante, della quale si ignora il nome; la stessa, forse, alla quale si riferisce il Vasari, ricordando come, nei primi tempi del soggiorno romano, il pittore <<…in luogo importante andava di nascosto ai suoi amori>>;[31] certamente si può escludere che la donna misteriosa sia stata Maria Bibbiena, sua promessa sposa, verso la quale l’artista forse non ebbe, come abbiamo potuto anche evincere dalla seconda lettera allo zio, pensieri così ardenti e appassionati.

Nessuno ha la certezza che Raffaello si sia rivolto ad una donna o i sonetti non siano altro che un esercizio per misurarsi con la letteratura e stare con la “moda” del tempo di scrivere componimenti di imitazione petrarchesca e infarciti con le teorie neoplatoniche di Marsilio Ficino, il quale, oltre ad avere frequenti contatti con la corte di Urbino, era il fulcro della corte Medicea. Attraverso i sonetti, l’Urbinate racconta una storia d’amore, che raggiunge il grado superiore dell’estasi passando anche dall’esperienza carnale, egli aspirava al terzo stadio dell’amore platonico, dove avviene la fusione degli spiriti, i quali hanno l’opportunità di innalzarsi fino al mondo delle idee, in tal modo la ricerca dell’amore tendeva a uno stato di grazia, in grado di trasportare l’anima ad una spiritualità più alta, consentendo il passaggio ad un mondo superiore (come a Dante e a Petrarca), da cui si poteva osservare la realtà nei suoi tratti essenziali e nei suoi valori fondamentali. In Raffaello questo rapimento amoroso è il punto di partenza per raggiungere la fusione dello spirito, non escludendo l’implicazione sensuale e carnale, seguendo un culto neoplatonico che troviamo nella filosofia di Marsilio Ficino, di cui l’artista conosceva certamente il pensiero. Ficino aveva distinto quattro stadi, in cui l’anima percorreva una discesa, allontanandosi dalla verità di Dio, con la conseguente perdita di una visione illuminata e illuminante della realtà (prigionia dell’anima). La salvezza avviene attraverso il “furore divino”, ossia il percorso inverso al primo, dove il primo gradino è formato dal furore poetico, sotto l’egida delle Muse, che risveglia l’anima e ne elimina i disturbi; il secondo è quello misterico, salvaguardato da Bacco e reso sostanziale dall’orfismo, dove avvengono sacrifici e purificazioni, atti ad eliminare il caos che ha disorientato l’uomo dall’ascesi spirituale e dalla conseguente conoscenza; il terzo è il furore della divinazione privilegiato da Apollo, esso consente all’anima di accedere sopra della sfera della razionalità, arrivando a possibilità di divinazione e chiaroveggenza; il quarto è l’affetto d’amore, ossia il più nobile e potente, di cui tutti gli altri gradi hanno necessariamente bisogno. Raffaello cerca di percorrere la risalita attraverso il rapimento amoroso, non separato dall’amore carnale, per arrivare alla verità rivelata.[32]Così scriveva l’artista: <<La Bellezza è la linfa che ha reso viva la mia arte, ma si è rivelata anche la mia unica e grande debolezza. La natura mi ha voluto sensibile alle virtù femminili, non ho saputo resistere ai diletti carnali, mi sono fatto incantare da molte donne; non di meno, conosco l’Amore vero…>>.

<<Nacque adunque Raffaello in Urbino, città notissima in Italia, l’anno MCCCCLXXXIII, in Venerdì Santo, a ore tre di notte, da un tale Giovanni de’ Santi, pittore non meno eccellente, ma sì ben uomo di buono ingegno, e atto a indirizzare i figli per quella buona via, che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua bellissima gioventù>>.[33] Con queste parole Giorgio Vasari ci annuncia la nascita di Raffaello: nell’anno 1483 la Pasqua cadeva il giorno 30 marzo, ma se veramente era nato il Venerdì Santo doveva essere il 26 o il 28 secondo che il computo venga fatto basandosi sulle tavole astronomiche dell’anno 1483 o su quelle del Calendario Giuliano. Lo scrittore fece anche coincidere l’ora della morte con quella della nascita: le tre di notte del 6 aprile 1520. Raffaello lavorava alla “Trasfigurazione” quando si ammalò, e la tavola incompiuta fu posta a capo del letto funebre, <<la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore>>.[34] Ma quanto è attendibile la biografia del Vasari? Al tempo non si usava annotare la data e l’ora della nascita, mentre la data della morte era, nella maggior parte dei casi, registrata.

La biografia dell’Urbinate è descritta da molti studiosi del passato e moderni, ma quella del Vasari è la più famosa, non sempre aderente alla realtà, per creare un’immagine mitica di Raffaello, ma è un valido documento per mostrare la fama dell’artista nel suo tempo.

Giovanni de Santo, il padre, pittore in rapporto con la corte dei Montefeltro, dovette offrire al figlio un determinante stimolo culturale, nonostante la prematura morte nel 1494, la madre era morta nel 1491. In un documento del 10 dicembre 1500, Raffaello, non ancora diciottenne, viene già definito “magister” e anche se la sua formazione nella bottega del Perugino non risulta documentata, egli fu certamente in rapporto con Bernardino Pinturicchio, con il quale collaborò alla progettazione degli affreschi per la Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena nel 1502, l’anno successivo fu a Perugia: è di questo periodo il tempio dello “Sposalizio della Vergine”, che colloca l’artista al vertice della ricerca pittorica a proposito della pianta centrale, tema analizzato da artisti come il Perugino e Luca Signorelli. Nell’opera di Raffaello si nota non solo il distacco dal maestro, ma soprattutto il superamento dello stesso: nell’Urbinate il tempio è il cardine di tutta la composizione, che infonde armonia e mette in evidenza i personaggi, anche grazie all’ampliarsi, come un ventaglio, della pavimentazione lastricata della piazza; la collocazione raffaellesca è invertita: a sinistra del sacerdote la Vergine con le sue compagne, a destra San Giuseppe con i corteggiatori amareggiati. Raffaello muove i personaggi e le cose, rendendo il tutto sublime senza pesantezze, l’opera è un insieme di simboli in perfetta armonia tra loro. Nel dipinto del Perugino il tempio appare sullo sfondo e le figure in primo piano, “tagliando”in due parti l’opera, che non riesce a comunicare il clima di pace, la rappresentazione di un luogo paradisiaco. Quest’opera segna il momento in cui Raffaello si distacca da ogni soggezione ai modi del Perugino, collegandosi alle più avanzate ricerche architettoniche condotte da Bramante e Leonardo, segnando la fine della fase giovanile e l’inizio del periodo artisticamente maturo.[35]

Nel 1504, in autunno, Raffaello si trasferisce a Firenze con la famosa lettera di presentazione scritta dalla duchessa Giovanna Feltria Della Rovere al Gonfaloniere Pier Soderini, ritenuta, da alcuni studiosi un falso settecentesco. Il Soderini non poté dare al giovane pittore nessuna commissione, perché aveva di recente acquistato il “David” di Michelangelo e stava progettando le grandiose opere della Sala del Gran Consiglio, quindi si trovava in ristrettezze economiche. Ma dopo poco tempo l’artista ebbe commissioni da facoltosi cittadini per i quali dipinse opere famose come la “Madonna del Cardellino”, strinse amicizia con molti artisti e intellettuali del tempo, protagonisti del pensiero neoplatonico e il soggiorno fiorentino fu fondamentale nella sua formazione, che gli permise di approfondire lo studio dei modelli quattrocenteschi e soprattutto le innovazioni di Leonardo e Michelangelo: <<Studiò Rafaello in Fiorenzale cose vecchie di Masaccio, e vide ne i lavori di Lionardo e di Michele Agnolo cose tali, che gli furono cagione di augumentare lo studio in maniera per la veduta di tali opere, che gran miglioramento e grazia accrebbe in tale arte>>.[36] In poco tempo divenne il più stimato ritrattista del periodo: i due ritratti di “Agnolo Doni” e “Maddalena Strozzi” sono un esempio di come i due grandi del Rinascimento abbiano indotto Raffaello a seguire le nuove espressioni che rivolgono attenzione particolare ai sentimenti umani, al paesaggio e al dinamismo. Nel secondo ritratto la donna assume una posizione che rimanda inevitabilmente a quella della “Gioconda”, ma a differenza di Monna Lisa, nel ritratto raffaelliano è evidente la ricerca dell’armonia nel viso e nel paesaggio e i dettagli accurati degli abiti e dei gioielli mostrano quella matrice fiamminga che troveremo sempre nello stile di Raffaello, anche nel primo ritratto possiamo notare la morbidezza degli abiti dell’uomo in contrapposizione della durezza del suo sguardo, mostrando ancora una volta il suo studio sulla resa materica dei tessuti, che nonostante l’espressività dei volti li rendono molto distanti dalla penetrazione psicologica di Leonardo. L’influenza di Michelangelo appare evidente nell’opera “Il trasporto di Cristo al Sepolcro”, realizzata per una famiglia di Perugia, in cui la figura di Cristo ricorda nella posizione del corpo e nel braccio abbandonato la “Pietà”, anche la figura dell’ancella accovacciata a destra è un richiamo michelangiolesco. Nel cosiddetto periodo fiorentino (1504-1508 circa) la cultura del giovane Urbinate, a contatto con la tradizione toscana del Quattrocento (Masaccio, Donatello, Luca della Robbia) e con le grandi novità della “maniera moderna” di Fra Bartolomeo, Leonardo da Vinci e Michelangelo, subisce un’importante crescita.[37]

Come nel 1504 l’artista si era trasferito a Firenze per il bisogno di un nuovo e più idoneo campo dove esprimersi, circa quattro anni dopo, probabilmente sentendo di avere messo a frutto ciò che poteva offrirgli l’ambiente fiorentino, abbandonando improvvisamente vari e importanti lavori, come la tavola commissionata dalla famiglia Dèi, per la loro cappella in Santo Spirito, si trasferì a Roma: il Vasari fa risalire la causa di questo spostamento a papa Giulio II, desideroso di servirsi di Raffaello in Vaticano, dietro suggerimento di Bramante, che sarebbe stato unito al giovane concittadino  da “un poco di parentela”, tuttavia non documentata.[38]

Giulio II, grandissimo mecenate e desideroso di lasciare una traccia indelebile nella storia, il quale ha convocato una serie di artisti per far decorare i suoi appartamenti: si tratta di quattro stanze che dovranno servire a scopo di rappresentanza e propaganda e devono affermare il potere del Papato e il prestigio personale di Giulio II. Raffaello viene messo alla prova con una parete su cui dovrà esprimere il concetto di teologia e la struttura gerarchica della Chiesa, l’artista dipinge “La disputa del Sacramento” che soddisfa talmente tanto il Pontefice che gli affida l’intera decorazione delle stanze, allontanando tutti gli altri artisti che erano già all’opera.

Ogni stanza ha un tema portante ed ogni parete rappresenta un aspetto specifico di quel tema: la prima è la “Stanza della Segnatura” (1508-1511), così detta per avere ospitato, dal 1541, il Tribunale ecclesiastico della “Signatura gratiae”. Nel 1507 papa Giulio II lasciò l’appartamento abitato dal suo predecessore Alessandro VI Borgia, affrescato dal Pinturicchio con temi mitologici, ermetici e astrologici, e si trasferì al piano superiore dei Palazzi Apostolici, questa Stanza fu voluta nella sua forma artistica dal Papa stesso perché doveva essere la sede del suo studio e della sua biblioteca personale, la cui tematica generale è il Sapere.[39] La Stanza, parte integrante del nuovo appartamento voluto dal Papa, fa parte delle quattro affrescate da Raffaello: quella di Eliodoro, 1511-1514), con la tematica dell’affermazione del Potere spirituale e temporale del Papa;[40] dell’Incendio del Borgo e di Costantino.

La seconda stanza è quella di Eliodoro (1511-1514), con la tematica dell’affermazione del Potere spirituale e temporale del Papa.[41]

La terza stanza è chiamata la “Stanza dell’incendio del Borgo” (1514-1517) e la tematica è la celebrazione del papa Leone X mediante episodi miracolosi, riguardanti altri papi di nome Leone[42]

La quarta stanza è la cosiddetta la “Stanza di Costantino” (1517-1524), ha come tematica “Il Trionfo del Cristianesimo sul Paganesimo”,[43] questa stanza fu eseguita interamente dagli allievi di Raffaello su cartoni del Maestro. La decorazione delle Stanze è, insieme alle Logge Vaticane, la più grande impresa pittorica di Raffaello, che lo impegna fino al 1520, anno della sua morte: l’ultima Stanza verrà completata dal suo collaboratore più talentuoso: Giulio Romano.

Nelle Stanze Vaticane troviamo l’unione di due menti somme: Giulio II e Raffaello, il primo ha lasciato molti dubbi dal punto di vista religioso, ma è stato il più grande mecenate tra tutti i pontefici, è il papa della nuova Basilica di San Pietro di Bramante, della Cappella Sistina e di Michelangelo, delle indulgenze che portarono, in seguito, alla scissione tra Cattolici e Protestanti. Uomo molto ambizioso che si serviva della cultura anche per la sua imperitura memoria, grande umanista che riuscì a fare di Roma il centro supremo del Rinascimento. Il secondo, un genio che ha saputo rappresentare con la sua arte l’equilibrio tra il Vero e il mondo della realtà. Gli affreschi realizzati dall’Urbinate nella Stanza della Segnatura esprimono l’apice del primo classicismo cinquecentesco e, per secoli, sono stati un modello di euritmica unione tra la lingua figurativa moderna e quella ammirevole degli antichi, nonché armoniosa coesione tra le varie maniere italiane.

Raffaello fu anche un grande imprenditore, specialmente negli ultimi anni della sua carriera, il ricorso a un vasto numero di collaboratori nacque soprattutto dai numerosissimi impegni affidatigli da Leone X e dalle committenze private: l’artista non aveva il tempo materiale per fronteggiare personalmente tali incombenze, quindi la necessità di affidarsi alla bottega e ai suoi assistenti si fece sempre più impellente.[44]

Sia le Botteghe più importanti, come quelle del Verrocchio e del Ghirlandaio, sia gli artisti più famosi si avvalevano ripetutamente dei loro modelli tramandati da cartoni e disegni, che erano tenuti gelosamente conservati. Con Raffaello abbiamo un cambiamento: il disegno non era più ritenuto un semplice mezzo di lavoro ereditato, ma rappresentava il momento in cui l’artista concepisce la creazione artistica originale, in tal modo l’opera d’arte è, per l’Urbinate, un’intuizione che si attua nel disegno, che diventa, in tal modo, <<la diretta trasposizione visibile del pensiero dell’autore. La realizzazione viene dopo, e può essere demandata ad altri, poiché l’essenza vera dell’arte sta nell’ideazione e non più nell’esecuzione >>.[45] Anche Leonardo e Michelangelo consideravano <<l’atto creativo come unica base dell’attività dell’artista, Raffaello ne dette una lettura tutta personale, attuata in un inedito modello di lavoro collettivo>>,[46] progettando e portando a compimento interi cantieri concepiti come opere d’arte, dove erano impiegati una pluralità di diverse competenze e dove egli stesso non aveva un ruolo personale.

Arrivato a Roma, l’artista cominciò ad avvalersi della collaborazione di famosi artisti nelle diverse attività: orafi, incisori, ebanisti, carpentieri, i quali contribuirono a diffondere la sua fama in tutta l’Europa e ad assicurargli ingenti guadagni. <<E sempre tenne infiniti in opera, aiutandoli et insegnandoli con quello amore che non ad artifici, ma a figliuoli proprii si conveniva. Per la qual cagione si vedeva che non andava mai a corte che partendo di casa non avesse seco cinquanta pittori tutti valenti e buoni che gli facevano compagnia per onorarlo. Egli insomma non visse da pittore, ma da principe>>.[47] La possibilità di dirigere interi cantieri l’ebbe nel 1512, quando iniziò la costruzione (ex novo) della cappella sepolcrale in Santa Maria del Popolo, commissionatagli da Agostino Chigi, di cui Raffaello si occupò del progetto architettonico e di ogni aspetto delle decorazioni, ispirandosi all’antichità classica, ma anche al periodo paleocristiano: la cupola, il tamburo e i pennacchi dovevano essere ricoperti con l’antichissima tecnica del mosaico, ma sia per il tamburo sia per i pennacchi il lavoro non fu completato e, in seguito, dopo la morte dell’artista, vennero affrescati. Agostino Chigi, illustre banchiere senese e grande amico di Raffaello, era già riuscito a distogliere l’artista dai suoi impegni in Vaticano, affidandogli le decorazioni della Villa Farnesina, il cui progetto era stato affidato a Baldassarre Peruzzi, concittadino del Chigi. [48] L’amicizia che legava Raffaello ad Agostino Chigi fu, a dir poco, singolare: quando la focosa passione per la Fornarina distrasse l’Urbinate dal suo lavoro commissionato da Leone X, questi si rivolse al Chigi perché lo incentivasse (motivasse) a terminare le Logge superiori in Vaticano, sapendo che il banchiere aveva un certo carisma sull’artista. Agostino accettò di fare da intermediario, ma pensò soprattutto ai lavori che l’amico doveva finire per la sua villa, fece rapire la ragazza e disse al pittore che lo avrebbe aiutato a ritrovarla se egli avesse lavorato con più alacrità, ma Raffaello, vedendo che la sua amata non tornava, cadde di nuovo in uno stato di apatia, che gli impediva di lavorare, così il Chigi mise fine a questo finto rapimento e ospitò i due amanti nella sua villa.[49]

Nello stesso tempo in cui Raffaello stava affrescando la terza Stanza (Incendio del Borgo), il Papa lo incaricò di approntare i cartoni per gli arazzi destinati alla Cappella Sistina, per fare fronte a tutti questi impegni fu necessario affidare la realizzazione completa dei lavori a tutti i suoi allievi, non sempre con ottimi risultati, tanto che nell’enorme cantiere delle Logge Vaticane, sempre su commissione di Leone X, il suo coordinamento fu più meticoloso.[50]  Questo, purtroppo, fu l’ultimo grande cantiere dell’artista, poiché dell’ambiziosa opera del Pontefice, di costruire una superba villa suburbana, in un terreno sulle pendici di Monte Mario, per riecheggiare il fasto delle ville dell’antica Roma, Raffaello riuscì a vedere solo l’inizio.[51]

Con la morte di Raffaello ebbe fine tale modello di lavoro, che solo il Maestro, con il suo carattere disponibile e il suo carisma, era riuscito a tenere insieme senza conflitti e gelosie: <<lavorando ne l’opere in compagnia di Raffaello stavano uniti e di concordia tale che tutti i mali umori nel veder lui si amorzavano, et ogni vile e basso pensiero cadeva loro di mente: la quale unione mai non fu più in altro tempo che nel suo>>, queste parole del Vasari concludono la biografia sull’artista.[52]

Quando Raffaello si ammalò stava lavorando alla tavola della “Trasfigurazione”, che rimase incompiuta e <<Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ogni uno che quivi guardava>>, così scrive il Vasari. Il quadro era stato commissionato all’artista nel 1517 da Giulio de’ Medici (futuro papa con il nome di Clemente VII), e destinato alla cattedrale di Narbona, ma per la stessa cattedrale, il Cardinale aveva incaricato anche Sebastiano del Piombo, che faceva parte del gruppo di Michelangelo, di realizzare un quadro sulla Resurrezione di Lazzaro, quindi per l’Urbinate significava affrontare un confronto con il Maestro fiorentino e dimostrare che non era inferiore. Raffaello, per dare maggiore ricchezza alla sua opera, aggiunse all’episodio della Resurrezione quello della guarigione dell’indemoniato, ma i due episodi restano visibilmente separati, quasi fossero due dipinti posti uno su l’altro.

Raffaello è consapevole della sua eccezionale bravura e la usa come mezzo di razionalizzazione dello spirito, concepito dal neoplatonismo: a differenza di Leonardo, il quale colloca la scena nell’ambito di una logica di cui vuole dominare il sistema, Raffaello la pone in uno scenario idealistico tenuto insieme dalla forma, che si prende carico di un compito esplicativo ed espressivo di una teoria che la destrezza tecnica riesce a motivare. Egli è stato l’interprete di una bellezza classica, canonica, tale che nelle sue opere non si distingue più tra il bello di natura e quello artistico, perché egli è riuscito ad eliminarne la barriera: egli è andato oltre al concetto dell’arte come imitazione della natura, la sua non è stata solo capacità di imitare l’apparenza delle cose, ma di comprendere anche l’equilibrio, l’armonia, la grandiosità calma e serena. Ma cos’è la bellezza?

Anton Raphael Mangs (1728-1779),[53]pittore, storico e critico d’arte, artista considerato come uno dei maggiori esponenti del Neoclassicismo e grande ammiratore di Raffaello, nel suo trattato “Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei”, pubblicato a Zurigo nel 1762 (Edito anche in Italia nel 1780 con il titolo “Opere di Antonio Raffaello Mengs primo pittore della Maestà di Carlo III”), teorizza l’imitazione dei grandi maestri come unico strumento in grado di pervenire alla bellezza ideale, quella che non esiste in natura, ma che è il frutto di una scelta di ciò che in natura è eccellente, sostiene il concetto del bello ideale che perfeziona la natura trascendendola, collocando gli ideali della cultura neoclassica in tre punti basilari: la superiorità dell’antico e la sua imitazione non servile; la scelta e il concetto della bellezza ideale; la supremazia dell’intellettualismo del disegno contro il sensualismo del colorito, (ossia il disegno greco, le espressioni di Raffaello, i chiaroscuro del Correggio e il colore di Tiziano). Mengs sostiene che la perfezione appartiene solo a Dio, non all’uomo, il quale è capace di comprendere solamente ciò che cade sotto i sensi, quindi il Signore gli ha voluto improntare un’idea visibile della perfezione, questa è ciò che si chiama “bellezza” e si trova in tutte le cose create, ogni volta l’idea che abbiamo di una cosa e il nostro senso intellettuale non possono andare, nell’immaginazione, oltre ciò che vediamo nella materia creata. <<Platone chiama i movimenti che la bellezza produce nell’anima, una ricordanza della suprema perfezione; e crede esser questo il motivo della sua forza incantatrice>>,[54]ossia l’anima è commossa dalla bellezza perché è dall’anima stessa che deriva trasportata da un’effimera beatitudine, <<che ella spera ed aspetta presso Iddio per tutta l’eternità, ma che si perde subito in tutte le materie>>. La bellezza è, quindi, in tutte le cose, perché la natura non fece niente che fosse inutile, la bellezza rapisce ed incanta, trasporta i sensi dell’uomo fuori dall’umano, attrae tutti, perché è la luce di tutte le materie e la similitudine della divinità stessa. <<L’arte della pittura vien detta una imitazione della natura: laonde sembra che nella perfezione debba ella esserle inferiore; ma ciò non sussiste se condizionatamente. Vi son delle cose della natura, che l’arte non può affatto imitare, ed ove questa comparisce assai fiacca, e debole in confronto di quella, come, per esempio, nella luce e nell’oscurità. Al contrario ha l’arte una cosa molto importante, in cui supera di gran lunga la natura, e questa è la bellezza. La natura nelle sue produzioni è soggetta ad una quantità di accidenti: l’arte però opera liberamente, poiché si serve di materie del tutto flessibili, e che niente resistono. L’arte pittorica può scegliere da tutto lo spettacolo della natura il più bello, raccogliendo e mettendo insieme le materie di diversi luoghi, e la bellezza di più persone: all’incontro la natura è costretta a prendere, verbigrazia, per l’uomo la materia soltanto alla madre, ed a contentarsi di tutti gli accidenti; onde è facile che gli uomini dipinti possono essere più belli di quello che sieno i veri>>.[55] L’arte può superare la natura e “l’avveduto” pittore può scegliere le cose più belle che vi sono <<e produrre con questo artifizio la più grande espressione e dolcezza>>.[56] Mengs sostiene che Raffaello è: << il primo tra’ Pittori più grandi, non per essere egli stato più ricco degli altri in possedere maggior quantità di parti perfette della sua Professione, ma per averne posseduta la qualità più importante; poiché componendosi la Pittura di Disegno, di Chiaroscuro, di Colorito, d’Imitazione, di Composizione, e d’Ideale, è certo che Raffaello possedé il Disegno, e la Composizione in alto grado, e l’ideale sufficientemente; mentre Correggio si rese eccellente soltanto nel Chiaroscuro; e Tiziano riuscì egregio solo nel Colorito, e nella Imitazione della Natura. Onde Raffaello si può dire il più stimabile, perché possedé le parti più necessarie, e più nobili dell’Arte: Correggio le più amene, e più incantatrici: Tiziano si contentò della pura necessità, che è la semplice imitazione della Natura>>.[57]

Più avanti, nel suo trattato, Mengs parla molto del grande Urbinate: <<Egli non usò l’ideale nella Pittura più oltre del naturale; ma n’ebbe molto nell’esecuzione de’ caratteri, che voleva rappresentare. Non si oppose a ciò la Bellezza, con cui fece le teste delle Madonne, perché questo proviene dalla bellezza dell’Espressione. Raffaello faceva visibili la modestia, la nobiltà, la pudicizia, e l’amore verso il suo divin Figliuolo; e perciò c’incanta. Ma chi ha la finezza di gusto converrà meco, che se la figlia di Niobe fosse in un’espressione consimile, supererebbe di molto le Vergini di Raffaello, e sembrerebbe, che questi avesse dipinta una Regina con tutta la grazia, e nobiltà; e l’Artista antico una Divinità, e la Madre degli Dei>>. Raffaello, continua Mengs, modificò e migliorò la Natura per quello che riguarda l’Espressione, ma per ciò che concerne la Bellezza la lasciò come l’aveva trovata: di solito egli dava alle figure che dipingeva un’aria molto gradevole, ma erano sempre persone umane, infatti il suo Cristo, paragonato a Giove o ad Apollo, non è che un uomo e i suoi Padri Eterni in Natura si possono trovare anche più belli, ma affinché queste figure sembrassero divine, egli avrebbe dovuto dare loro un’aria più maestosa e nascosto quelle parti che rivelano la mortalità, come la pelle rugosa, gli sguardi torbidi, indizi che mostrano la debolezza della Natura ed è veramente inopportuno rappresentare il Creatore sottoposto alle miserie umane.[58] <<Giacchè è prevalso l’uso di rappresentarlo sotto la figura d’un attempato, convien farlo in modo, che comparisca venerabile d’età, ma senza le sue imperfezioni, e che ci riempia l’immaginazione della grande idea, che dobbiamo avere dell’Onnipotente; ma per fare ciò non è necessario attenersi tanto alla verità, come ha fatto Raffaello, che lo ha effigiato con le miserie della vecchiaja>>.[59] I Greci, prosegue Mengs, che furono mirabili nella parte dell’Ideale, non rappresentarono le figure degli Dei mostrando le vene, i tendini, ossia non mettendo in evidenza quei tratti come negli umani. Gli “Antichi” furono superiori a Raffaello anche nell’Armonia: <<Egli conobbe come dovea far la fronte, per esempio, serena, o torbida, pensierosa, o allegra, ec., ma non avvertì qual naso, e quali guance andassero bene a quella fronte. Quando gli Antichi facevano una fronte piana, e serena, facevano anche il naso quadrato, e le guance della stessa forma, e carattere. Finalmente il particolare degli Antichi è, che per una parte del viso si può conoscere il carattere di tutto il restante. Raffaello non ha questo vantaggio, potendosi togliere il naso d’uno de’ suoi visi, e sostituirvene un altro senza far dissonanza. Le sue Vergini hanno tutte una fronte serena, credendo così di manifestare la nobiltà, e il pudore: lo stesso è nelle teste delle figlie di Niobe. Raffaello faceva questo per motivo d’Espressione, e non di Bellezza; perché se avesse conosciuto il bello ideale avrebbe unito a quella fronte un naso di contorno moderato, e non così caricato come l’ha fatto. Faceva rotondette le guance delle predette immagini, per dare alle sue Vergini l’aria di gioventù; ma ciò non concorda con la verità, perché una persona, che abbia le guance carnose, ha sempre la fronte divisa in varie parti pel volume de’ muscoli. L’Antico non è così: tutte le parti si concordano con loro. Le bocche delle Vergini di Raffaello hanno tutte un piccolo movimento di riso, per denotare l’amore, e l’innocenza della gioventù; ma questo non si accorda con la vera bellezza. Lo stesso potrebbesi dire dell’Espressione di modestia, che metteva negli occhi. Da ciò io inferisco, che Raffaello non era ideale nella Bellezza, ma solamente nell’esecuzione dell’Espressione. Chi è poco soddisfatto delle mie ragioni mi dica, perché Raffaello non fece Angeli sì belli, come dovevano essere? Poiché figure puramente ideali ha campo l’immaginazione del Pittore di spaziarsi nella Bellezza quanto vuole. Mi dica ancora, perché non dipinse Venere, e le Grazie nel gusto degli Antichi, o in un altro, che almeno gli si avvicinasse? Quando egli non avea alcuna Espressione forte da dipingere era un puro imitatore della Natura, né sapeva, che cosa fosse Bellezza ideale. Quindi io per poter conchiudere, che Raffaello aveva gusto squisito, e poco ideale nel disegno; nel Colorito meno; e nel Chiaroscuro niente. Che nel generale della Composizione avea molto ideale, e nell’Espressione anche molto, e molta Bellezza. Da ciò si deduce quanto egli debba essere lodato nella Composizione, nell’Espressione, e nella simmetria de’ corpi di certi generi di figure; e si deduce altresì, che il suo gusto del Disegno era eccellente; e che egli ha aperto il cammino de’ belli panneggiamenti, benché pochissimo variati>>.[60]Mengs sostiene la teoria del bello ideale, cioè di una bellezza formata dalla scelta opportuna di varie parti perfette, dando a Raffaello il primato per il disegno e l’espressione, al Correggio per la grazia e il chiaroscuro, a Tiziano per il colore.

Durante la sua breve vita, Raffaello ebbe tutto quello che un artista può desiderare, non fece parte certamente di quegli artisti il cui riconoscimento avvenne molto tempo dopo la scomparsa, come, ad esempio, Caravaggio. Gentile e disponibile con tutti, quasi presago di un destino che presto avrebbe visto la sua dipartita, lavorò sempre alacremente e non perse l’occasione di trasmettere le sue conoscenze ai suoi collaboratori: <<Dicesi che ogni pittore che l’avesse conosciuto, se lo avessi richiesto di qualche disegno che gli bisognasse, egli lasciava l’opera sua per sovvenirle>>.[61]

Come si può vedere sia nelle madonne del periodo fiorentino, sia nelle opere di quello romano, il sentimento della natura è, in Raffaello, una costante molto importante della sua pittura.

Raffaello pone al centro delle sue opere l’ideale di bellezza, di equilibrio compositivo e di perfezione formale, la sua arte segna il trionfo dell’armonia tra l’uomo, la natura e la storia, in sintonia con la mentalità raffinata, aristocratica e colta del suo tempo, che fanno di lui il pittore più completo ed amato del Rinascimento. Seppe fondere la più alta tradizione quattrocentesca con gli apporti più innovativi del Cinquecento in una visione completa, personale e unitaria, con una grande padronanza dei mezzi espressivi e un “linguaggio” chiaro e preciso, che resero il suo stile inconfondibile.

 

NOTE

[1] Cfr. G. C. Argan, Storia dell’Arte italiana, Milano 1981, pp. 75-76.

2 Cfr. L. Fabbri, L’Universo in una stanza: Manfredo Settala e l’Ambrosiana, in “https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2018/04/17/luniverso-in-una-stanza-manfredo-settala-e-lambrosiana/

3Il preconcetto dell’età romantica di una frattura tra Medioevo e Rinascimento è stato avversato dal tedesco Konrad Burdach, che ha mostrato come il Rinascimento abbia avuto le sue radici nell’idea di rinascita politica e religiosa dello Stato romano, l “humanitas” del Quattrocento si concretizzò dunque in questa prospettiva di riconciliazione tra fede e spirito nazionale, concetto avvalorato anche dallo studioso italiano Eugenio Garin.

4Il ritorno alla natura assume un significato centrale anche nei filosofi naturalisti del XVI secolo (Telesio, Bruno, Campanella). Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1986, vol. II, pp. 15 e segg.

5Cfr. M. E. Graziani, Il mistero della tomba di Raffaello e altre storie. http//:la-morte-di-raffaello-da-urbino.blogspot.com/2016/

6Giuseppe Antonio Del Chiappa visse tra 1781 e il 1866, fu docente di Clinica Medica e Terapia Speciale per chirurghi dal 1819 al 1854, quasi inesistenti le notizie sulla sua vita, numerosissimi e reperibili i suoi scritti. Una lapide, in calcare nero di Saltrio, voluta dal figlio Ludovico, un anno dopo la morte del padre (1867) si trova presso l’Università degli Studi di Pavia, la cui scritta non aggiunge niente a quanto sopra.  http://pellegrinidelsapere.unipv.eu/scheda-nomi.php?ID=61

7Defendente Sacchi nacque a Casa Matta di Siziano nel 1796, fu giornalista, filosofo e scrittore, si occupò di storia, letteratura, storia e critica dell’arte, romanzi e novelle, oltre agli innumerevoli articoli nelle più importanti riviste culturali dell’epoca, fu direttore del “Cosmorama Pittorico”, rivista illustrata fondata a Milano, di cui Carlo Cattaneo fu assiduo collaboratore. Fu corrispondente di Fauriel e di Melchiorre Gioia. Per la sua attività editoriale ebbe numerosi riconoscimentie venne ammesso come socio nella “Reale Accademia delle Scienze di Torino”; nel 1840 creò una Civica Scuola di Pittura a Pavia, lo stesso anno morì a Milano e la sua prematura scomparsa fu attribuita ad un fisico debole, malato e provato da dolori, i suoi beni furono impiegati per l’apertura della suddetta Scuola. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/defendente-sacchi_%28Dizionario-Biografico%29/. Per la biografia di questo personaggio si veda anche: Autobiografia di Defendente Sacchi (prefazione e commento di Maria Fanny Sacchi), Pavia 1899.

8D. Sacchi, Le Belle Arti a Milano nell’anno 1833. Relazione di Defendente Sacchi, Si aggiunge una lettera sullo scoprimento delle ceneri di Raffaello Sanzio scritta da Roma il 17 settembre 1833 dal Prof. Giuseppe Del Chiappa, Milano 1833, pp. 37-43.

9Ibid., p. 39.

10Ibid., p. 40.

11Ibid., pp. 40-41. Maria Antonietta Bibbiena, nipote di Bernardo Dovizi da Bibbiena, nominato cardinale da Leone X per ricompensarlo del sostegno che il Bibbiena aveva dato durante il conclave del 1513. Il Cardinale la promise in sposa a Raffaello, ma il pittore non si unì mai in matrimonio con Maria, la quale morì diversi anni prima dell’artista, quindi pare poco probabile che i resti siano proprio quelli della nipote del Cardinale. Cfr. M. E. Graziani, Il mistero della tomba di Raffaello…, cit.

12“La stelletta o sperone non aveva nulla a fare con l’abbigliamento dei cubiculari, né poteva essere una fibbia per fermare la tunica, che non era certo un indumento usato all’epoca. Tuttalpiù poteva essere il simbolo dell’Ordine dello Sperone di origine Templare i cui appartenenti venivano sepolti con i loro speroni. Anche i puntalini della veste non figuravano né nell’abbigliamento dei cubiculari, né potevano appartenere ai borzacchini, perché è impensabile che Raffaello fosse stato sepolto con degli stivali ma senza alcun abito, i cui resti si sarebbero dovuti in parte reperire. E’ più probabile che tali oggetti fossero stati messi li di proposito assieme alle spoglie”. M. E. Graziani, Il mistero della tomba di Raffaello…, cit.

13Vincenzo Camuccini nacque a Roma nel 1771 da modesta famiglia, rimase orfano molto giovane e fu indirizzato alla pittura dal fratello maggiore Pietro, che lo aiutò anche economicamente. Fu uno dei più importanti pittori del Neoclassicismo italiano e il suo stile si accostava molto a quello di Raffaello. Frequentò gli ambienti ospedalieri di Roma per i suoi studi sui cadaveri con lo scopo di capire il funzionamento dell’anatomia umana. Durante il corso degli anni la sua fama crebbe molto, tanto che Pio VII lo nominò Direttore generale della Fabbrica di San Pietro ed ebbe l’incarico di Sovrintendente ai Musei Vaticani, incarico che in passato era stato di Michelangelo, Bernini etc. Sempre nella Città Eterna aprì un importante laboratorio frequentato da molti artisti italiani e stranieri. Fu anche restauratore: numerosi gli interventi di restauri nelle chiese romane da lui compiuti; nel 1806 fu eletto Principe dell’accademia di San Luca, quattro anni dopo gli successe Antonio Canova, Camuccini ricoprì di nuovo la carica nel 1826. Morì a Roma nel 1844. Cfr. E. Gombrich, Dizionario della pittura e dei pittori, Einaudi Editore, 1997.

14“Le sette missive e i sei sonetti qui riuniti sono ciò che rimane dell’opera letteraria di Raffaello. Sebbene il Vasari alluda, peraltro assai confusamente, a ulteriori prose del Sanzio, è da credere che la sua attività in tal senso si estendesse non molto oltre i saggi superstiti. Per di più taluni dei testi pubblicati son da ritenersi estranei all’urbinate, mentre altri conservano di lui soltanto il concetto, essendone la forma riferibile a scrittori ben più versati. Baldassar Castiglione fu sicuramente uno di coloro che prestarono la propria penna al pittore; cui pertanto, sarebbe vano attribuire la sonora rotondità di stile e la vivezza delle immagini improntanti la lettera a Leone X; così come al Bembo o a qualcun altro dei numerosi umanisti che in Roma si legarono a Raffaello, va attribuita l’abile, “cortigiana” scorrevolezza dell’epistola al Castiglione medesimo. Il paragone con le lettere vergate dal Sanzio non lascia adito a dubbi, quantunque l’artista palesi un continuo accrescimento culturale rispetto alla forma tanto stentata dei suoi scritti più antichi. Nondimeno l’importanza di queste poche pagine ben meritava la presente raccolta. Il carattere stesso dei testi riuniti, così autonomi l’uno rispetto all’altro, si oppone a una definizione complessiva della loro validità: il volerla tentare equivarrebbe affrontare l’esame che, per comodità del lettore, si è creduto meglio premettere a ogni singolo scritto. Comunque, specie la lettera a Leone X riveste un valore documentario assai notevole, conservandoci talune idee che dovettero esser correnti in un periodo densissimo di fatti capitali per l’arte. Nelle altre, notizie su opere raffaellesche compiute o in programma, su avvenimenti o persone, costituiscono pure un elemento di elevato interesse, e talora la portata ne è insostituibile. Ma, quand’anche fosse da scorgervi non più d’un mero contributo, magari marginale, alla conoscenza di chi compose o ispirò queste lettere, la personalità dell’autore è tale per cui sarebbero ugualmente preziosissime”. Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti, a cura di Ettore Camesasca, Milano 1956, pp. 9-10.

15Cfr. Ibid., p. 13.

16Ibid., pp. 17-18.

17Ibid., p. 23.

18Ibid., p. 29.

19Ibid., pp. 33-34.

20Ibid.

21Raffaello si riferisce a Don Bartolomeo Santi, zio paterno e suo tutore. Non sono state reperite notizie su Francesco Buffa, mediatore di matrimoni, come appare dalla lettera.

22Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/ 

23E. Camesasca a cura di, Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti… cit.,  pp. 33-34.

24Ibid., p. 34. “ [il  papa]Mi ha dato un compagno, frate doctissimo e vecchio de più d’octant’anni; el papa vede che ‘l puol vivere poco: ha risoluto la Sua Santità darmelo per compagno, ch’è uomo di gran riputazione sapientissimo, acciò ch’io possa imparare, se ha alcun bello secreto in architectura, acciò io diventa perfettissimo in quest’arte; ha nome fra’ Giocondo e ogni dì il papa ce manda a chiamare, e ragiona un pezzo con noi di questa fabrica”. Giovanni Giocondo nacque a Verona o nei dintorni della città nel 1434 circa, visto che Raffaello, nel 1514, gli attribuisce più di ottanta anni, anche se negli otto anni precedenti aveva navigato fino al Peloponneso per controllare le fortificazioni veneziane, percorreva in barca e a cavallo lunghe distanze, saliva su torri e campanili per ispezionare dall’alto terreni e progettare sistemazioni idrauliche. Non si hanno notizie sulla sua famiglia e nei primi cinquant’anni della sua vita, le prime informazioni sono del 1489, quando era già famoso per la sua cultura che abbracciava molteplici campi. A partire dagli ultimi anni del Quattrocento è documentata anche la sua posizione religiosa: nei vari documenti egli è sempre chiamato frate e sembra essere appartenuto all’Ordine Francescano, anche se Vasari ed altri studiosi lo dicono appartenente all’Ordine Domenicano. E’ probabile che fino all’età di trentacinque anni Fra Giocondo sia rimasto in Veneto e che la sua formazione culturale sia avvenuta in quest’ambito, ricco di studi filologici e antiquari, frequentò Pietro Bembo, Luca Pacioli, Aldo Manuzio e altri; fu grande studioso di Vitruvio, di cui pubblicò a Venezia nel 1511 il “De architectura”, l’importanza di questa edizione, oltre alla precisione filologica, letteraria e tecnica, era dovuta all’apparato iconografico, basilare per la chiave di lettura dell’opera vitruviana. Nel 1489 si trovava a Roma, dove fu consulente per il progetto del palazzo del Cardinale Riario e dove svolgeva la sua attività di epigrafista; sempre lo stesso anno sembra sia stato a Napoli presso Alfonso II, e, l’anno successivo, abbia seguito Carlo VIII in Francia, dove collaborò alla ricostruzione del ponte di Notre-Dame, quello precedente, in legno, fu distrutto il 25 novembre 1499. Fu molto ricercato per creare e ammodernare fortificazioni, data la sua esperienza anche in questo campo dell’architettura. Intensa fu la sua attività di ricerca di codici antichi, tra i tanti, il ritrovamento più importante fu il manoscritto di Plinio il Giovane, nei pressi di Parigi. Innumerevoli furono i suoi lavori e le collaborazioni per la costruzione di importanti edifici, fino a quando nel giugno 1514 arrivò a Roma e Leone X gli assegnò la posizione principale nella Fabbrica di San Pietro, per la sua fama di grande ingegnere. Numerosissimi i suoi scritti.  Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-giocondo-da-verona_(Dizionario-Biografico)/

25Marco Fabio Calvo nacque a Ravenna nel 1440 circa, coltivò interessi archeologici, antiquari e medici, tradusse dal greco il “Corpus Hippocraticum”, collaborò con Raffaello al grandioso progetto di ricostruzione della topografia di Roma antica, di cui parleremo nella lettera a papa Leone X, probabilmente per la sua fama di esperto di antiquaria. Per Raffaello, che non conosceva il latino, tradusse in volgare il “De Architectura” di Vitruvio, di essa restano due redazioni manoscritte conservate alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, in una delle quali possiamo leggere questa postilla: “…tradocto di latino in lingua e sermone proprio e volgare da Messere Fabio Calvo ravennate, in Roma in casa di Raphaello di Giovan de Sa(n)cte da Urbino e a sua instantia…”, infatti, sappiamo che fu ospitato e trattato con particolare considerazione e cura dall’artista. Morì a Roma durante il sacco del 1527. Cfr.http://www.treccani.it/enciclopedia/marco-fabio-calvo_(Dizionario-Biografico)/  

26“Onde essendo io stato assai studioso di queste tali antiquitati, e avendo posto non piccola cura in cercarle minutamente e in misurarle con diligenza, e leggendo di continuo li buoni auctori e conferendo l’opere con le loro scripture, penso aver conseguito qualche notizia di quell’antiqua architectura”. E. Camesasca a cura di, Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti… cit.,  p. 51.

27E’ noto che la calcina si può ricavare anche dal marmo.

28E. Camesasca a cura di, Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti… cit.,  p. 79.

29Ibid., p. 80.

30Cfr. Ibid., pp. 79-88.

31G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e archi tettori, Vita di Raffaello da Urbino, Firenze 1568.

32Cfr. M. Bernardelli Curuz, Raffaello: le sue poesie d’amore in originale e nella versione dell’italiano di oggi. Qui – Stile Arte https:

33G. Vasari, Le vite… cit.

34Ibid.

35Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/ “Lo Sposalizio della Vergine” è datato 1504, sulla facciata del grande edificio troviamo la firma di Raffaello, l’opera è conservata presso la Pinacoteca di Brera di Milano.

36G. Vasari, Le vite… cit.

37Per un’ampia biografia su Raffaello si vedano oltre a quella del Vasari: E. Müntz, Raphael. Sa vie, son oevre et son temps, Paris 1886; P. De Vecchi, Raffaello, Milano 1975; B. Santi, Raffaello, in “I protagonisti dell’Arte italiana”, Firenze 2001.

38“E questo avvenne perché Bramante da Urbino, essendo a’ servigi di Giulio IIper un poco di parentela che avevano insieme e per essere di un paese medesimo, gli scrisse che aveva operato col papa che, volendo far certe stanze, egli potrebbe in quelle mostrare il valor suo” . Giorgio Vasari, Le Vite… cit.“ La data del trasferimento di Raffaello da Firenze a Roma non è conosciuta, ma il primo pagamento ricevuto per i lavori nei palazzi vaticani risale al 13 gennaio 1509, per decorazioni ed affresco realizzate nella Stanza della Segnatura “ad bonum comptum picture camere de medio eiusdem Sanctitatis testudinate”  Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/

39Sulle pareti troviamo: La disputa del Sacramento (Teologia); La Scuola di Atene (Filosofia); Allegoria della Giustizia e San Romualdo consegna a Gregorio IX le Decretali (Diritto); Il monte Parnaso con Apollo e le Muse (Poesia).

40Alle pareti: La cacciata di Eliodoro dal Tempio (Punizione per chi tenta di sottrarre beni materiali ai sacerdoti); La liberazione di San Pietro dal Carcere (Dio soccorre il suo rappresentante in terra); La Messa di Bolsena (Celebrazione del Corpus Domini); L’incontro di San Leone Magno con Attila (La Chiesa sottomette gli eserciti nemici).

41Gli affreschi eseguiti nella Stanza di Eliodoro sono una sfida assunta da Raffaello con i linguaggi figurativi del suo tempo: egli vuole dimostrare di saper padroneggiare sia l’eroismo anatomico di Michelangelo, sia l’appassionato cromatismo dei Veneti, come la scioltezza narrativa e compositiva dei rilievi antichi e gli effetti luministici della pittura nordica. 

42Alle pareti: Leone III incorona Carlo Magno (il potere temporale dei Re viene concesso dal Papa); Il giuramento di Leone III (Il Papa è responsabile delle sue azioni solo di fronte a Dio); L’incendio di Borgo (Leone IV invoca e ottiene l’aiuto divino); La battaglia di Ostia (Leone IV affronta in battaglia i saraceni).

43Sulle pareti: La visione di Costantino a Ponte Milvio; La battaglia di Costantino; Il Battesimo di Costantino; La donazione di Roma.

44S. Pasti, Raffaello e l’invenzione di una magnifica utopia, ovvero l’opera d’arte come progetto globale, https://www.aboutartonline.com/raffaello-elopera-darte-come-progetto-globale-linvenzione-di-una-magnifica-utopia/

45Ibid.

46Ibid.

47G. Vasari, Le vite… cit.

48Cfr. Ibid. La parte scultorea della Cappella fu affidata ad uno degli allievi preferiti da Raffaello: Lorenzetto, a cui, negli ultimi giorni di vita, dette l’incarico di innalzare sulla sua tomba, nel Pantheon, una scultura della Madonna con Bambino (Madonna del Sasso). Agostino Chigi nacque a Siena nel 1465 circa da una famiglia di ricchi mercanti e presso il padre Mariano fece il suo apprendistato. Nel 1487 si trasferì a Roma, dove cominciò la sua ascesa, che lo vide banchiere, imprenditore e armatore più ricco d’Europa: prestò denaro alle più grandi famiglie italiane ed europee, finanziò imprese belliche, organizzò feste sontuose per i papi, ebbe importanti rapporti d’affari con Alessandro VI, Giulio II e Leone X, fu un grande mecenate. Dopo la morte della prima moglie, Margherita Saracini, dalla quale non aveva avuto figli, sposò, dopo vari anni di convivenza, la bellissima cortigiana conosciuta a Venezia Francesca Ordeaschi, da cui ebbe cinque figli, l’ultimo dei quali nato dopo la sua morte; il matrimonio fu celebrato il 28 agosto 1519 da papa Leone X, matrimonio che fece molto scalpore: una donna dal passato molto criticabile e amante del Chigi quando era ancora viva la moglie, che riuscì a conquistare e sposare uno degli uomini più potente del tempo. In tal modo la bella Francesca entrò (già prima del matrimonio) nella meravigliosa Villa Farnesina (Villa Chigi: Farnesina, perché acquistata dai Fanese nel 1580), progettata da Baldassarre Peruzzi, nello stile del Rinascimento toscano (tra il 1508 e il 1511) e affrescata da Raffaello con la favola di Amore e Psiche (tratta dalle Metamorfosi di Apuleio) per celebrare l’amore di Agostino e Francesca. La morte colse Agostino Chigi pochi giorni dopo quella di Raffaello: il10 aprile 1520 e la giovane moglie gli sopravvisse solo sette mesi. I funerali del banchiere furono celebrati a Santa Maria del Popolo alla presenza di più di cinquemila persone e furono degni di un sovrano con otto ordini di frati, 36 vescovi, un grande numero di preti secolari e cardinali, 86 carrozze con la famiglia del Papa, il feretro era circondato da 250 torce, quando i cardinali ne avevano diritto a 100.  Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-chigi_%28Dizionario-Biografico%29/  

49Cfr. . http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-chigi_%28Dizionario-Biografico%29/    

50Ibid. Nel 1515 venne ultimata la costruzione delle Logge, iniziate da Bramante, di cui Raffaello aveva preso le redini come architetto e nel 1519 furono conclusi anche i decori del piano centrale, per la pavimentazione fu chiamato da Firenze Luca della Robbia il Giovane, figlio di Andrea e nipote del più celebre Luca.

51Il Vasari descrive come un posto di rigogliosa bellezza naturale il terreno che Leone X aveva comprato sulle pendici di Monte Mario nel 1515, lo scopo di quest’acquisto era quello di costruire una maestosa villa suburbana con boschi, giardini, specchi d’acqua, zone invernali ed estive disposte secondo i venti, impianti termali, , saloni, logge, un teatro e tante opere d’arte , per far rivivere l’opulenza delle ville suburbane di Roma antica. Raffaello è l’architetto di questo ambizioso progetto, coadiuvato da Antonio da Sangallo il Giovane, purtroppo la morte coglie l’artista quando i lavori non sono ancora arrivati a metà; anche Leone X muore il 1° dicembre 1521 e il tutto viene ereditato da Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII, cugino di Leone X, ma anche lui muore nel 1534 lasciando questo grandioso progetto di Raffaello solo un sogno. Cfr. S. Pasti, Raffaello e l’invenzione di una magnifica utopia, ovvero l’opera d’arte come progetto globale, https://www.aboutartonline.com/raffaello-elopera-darte-come-progetto-globale-linvenzione-di-una-magnifica-utopia/

52Non erano ancora passati due mesi dalla morte di Raffaello, che cominciarono i primi contrasti per la divisione e la preminenza nei lavori di restauro di Villa Madama, iniziati nel 1518 su progetto dell’artista. A testimonianza di ciò sono due lettere datate 4 e 17 giugno 1520, scritte da Giulio de’ Medici al Cardinale Mario Maffei, il quale controllava i lavori, dove lo prega di ristabilire la pace e l’armonia tra Giulio Romano e Giovanni da Udine, che sotto la guida di Raffaello avevano lavorato per anni in accordo. Cfr. Ibid.  

53Anton Raphael Mengs nacque ad Aussig (Repubblica Ceca) nel 1728, compì i suoi studi a Desdra e nel 1741 andò a Roma, dove studiò la pittura classicista del XVII secolo, le statue antiche del Belvedere e le Stanze di Raffaello. Nel 1744 fu di nuovo a Desdra, dove venne nominato pittore di corte; due anni dopo tornò a Roma: si convertì al Cattolicesimo e sposò Margarita Quazzi, popolana romana. Alcuni anni dopo entrò a far parte dell’Accademia di San Luca e nel 1771 ebbe la carica di Principe della stessa Accademia. Nel 1755 termina la copia dell’affresco “Scuola d’Atene” di Raffaello, su commissione del duca di Northumberland e sempre nello stesso anno conosce e stringe amicizia con Johann Joachim Winckelmann, accomunati dall’interesse per le antichità romane, il quale definisce Mengs come il maggiore artista del suo tempo e anche di quelli a venire. Questo fu un periodo molto proficuo per l’artista e tra le numerose opere, nel 1761, ultimò quella che lo rese molto famoso: l’affresco del “Parnaso” per il salone della villa del Cardinale Alessandro Albani, dove si riscontrano numerosi riferimenti col “Parnaso” affrescato nella Stanza della Segnatura da Raffaello. L’anno successivo viene pubblicato il suo trattato “Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei”, dove teorizza il suo concetto di bellezza ideale e confuta la pittura dei secoli XVII e XVIII, criticando, della prima, l’uso del chiaroscuro, il sentimentalismo angoscioso e devoto; della seconda le tematiche vuote di scopi morali e formativi. Mengs soggiornò alcuni anni in Spagna presso la corte di Carlo III, tornò a Roma nel 1777, dove morì due anni dopo. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/anton-raphael-mengs/

54A. R. Mengs, Opere di Antonio Raffaello Mengs. Primo pittore della Maestà del Re cattolico Carlo III, Pubblicate dal Cav. D. Giuseppe Niccola D’Azzara, Bassano MDCCLXXXIII, p. 7 e segg.

55Ibid., p. 18.

56Ibid.

57Ibid., p. 131.

58 Cfr., Ibid., pp. 171-172. Come si può vedere sia nelle madonne del periodo fiorentino, sia nelle opere di quello romano, il sentimento della natura è, in Raffaello, una costante molto importante della sua pittura.

59Ibid.

60Ibid., pp.172-174.

61G. Vasari, Le vite… cit.

 

 

 

 

 

 

 

LA PORTA DEL PARADISO FIRENZE

202d5
Lorenzo Ghiberti, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze, 1425-52
La Porta del Paradiso del Battistero di Firenze torna visibile al pubblico dopo un restauro durato 27 anni, senza eguali per complessità, e dopo 560 da quando Lorenzo Ghiberti terminò quello che può essere considerato uno dei grandi capolavori del Rinascimento. Secondo il Vasari fu Michelangelo a darle il nome di Porta del Paradiso: ”elle son tanto belle che starebbon bene alle porte del Paradiso”. Il restauro, che ha permesso di salvare la mitica doratura, è stato diretto ed eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, su incarico dell’Opera di Santa Maria del Fiore, grazie ai finanziamenti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e al contributo dell’Associazione Friends of Florence. Realizzata in bronzo e oro, la Porta del Paradiso (del peso di 8 tonnellate, alta 5 metri e venti, larga 3 metri e dieci, dello spessore di 11 centimetri) sarà conservata nella grande teca, realizzata dalla Goppion spa, in condizioni costanti di bassa umidità per evitare il formarsi di sali instabili, tra la superficie del bronzo e la pellicola dorata, che salendo, sollevano e perforando l’oro, possono causare la distruzione. La collocazione dentro il cortile coperto del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze è temporanea: al termine dei lavori di realizzazione del nuovo Museo, previsti nel 2015, la Porta del Paradiso sarà esposta in una nuova sala espositiva, di 29 metri x 21 x 16 di altezza, con accanto le altre due Porte del Battistero a cui sarà riservato in futuro lo stesso destino.
DESCRIZIONE

Dopo un breve soggiorno a Venezia, nel 1424, subito dopo la conclusione della porta nord del Battistero, Lorenzo Ghiberti fece ritorno a Firenze, dove gli venne affidato l’incarico di realizzare una nuova porta di bronzo, sempre per il Battistero. Anche questa porta, al pari dell’altra, ha avuto una lunga gestazione e realizzazione, durata ben 27 anni: fu infatti messa in opera solo nel 1452, quando il Ghiberti aveva ben 74 anni.

Il programma stilistico iniziale non doveva essere molto differente dalle altre due porte. È facile immaginare che anche questa porta doveva contenere 28 riquadri, nei quali dovevano collocarsi Scene del Vecchio Testamento, secondo un piano iconografico predisposto dal letterato umanista Leonardo Bruni. Ma il Ghiberti, questa volta, impose una decisa svolta stilistica, progettando una porta con soli dieci grandi scene di formato quadrato.

I dieci grandi riquadri sono collocati nei due battenti, cinque per parte: le due file verticali sono poi circondate da quattro cornici ciascuna, contenenti in tutto 24 piccole nicchie, nelle quali sono inserite dei personaggi biblici, alternate con 24 piccoli medaglioni dai quali sporgono dei busti (uno di questi si ritiene sia l’autoritratto del Ghiberti).

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Lorenzo Ghiberti, Storie dalla Genesi, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze

Ognuno dei grandi pannelli quadrati raggruppa due o più storie, secondo una concezione di rappresentazione sincrona che, abbiamo visto, era molto utilizzata nel Duecento e Trecento. Ma in questi riquadri domina una visione spaziale unitaria, con molti particolari architettonici costruiti in prospettiva più o meno perfetta. Il Ghiberti mostrò così di saper aggiornare il suo stile sulle novità rinascimentali che andavano maturando in quegli anni, e in ciò non dovette essere secondario il contributo che al maestro diede l’opera di Donatello. Molti elementi delle scene, realizzate a rilievo schiacciato, quasi un puro disegno inciso sul piano della lastra, sembrano proprie dello stile di Donatello. Ma in questi grandi pannelli rimane il gusto ancora tardo gotico per il dettaglio minuto, nonché per la varietà, da atlante naturalistico, di piante e animali. Tardo gotico è anche l’insistere sulle cadenze lineari in motivi curvi e spiraliformi.L’opera ebbe grande fortuna critica, e deve il suo nome di «Porta del Paradiso» a Michelangelo, uno dei primi e maggiori estimatori di questo capolavoro della fusione in bronzo.

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Lorenzo Ghiberti, Storie di Giuseppe, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze

Lucica Bianchi

 

BASILICA DELLA SS. ANNUNZIATA, FIRENZE

La basilica della Santissima Annunziata è il principale santuario mariano di Firenze casa madre dell’ordine servita. La chiesa, è collocata nell’omonima piazza nella parte nord-est del centro cittadino, vicino all’Ospedale degli Innocenti.

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L’ampio porticato in pietra serena che s’apre sull’entrata della Basilica, fu eretto da Giovanni Caccini, continuando il disegno dell’arco centrale di Michelozzo (1453). Lo stemma del Papa Leone X campeggia su un dipinto molto deteriorato di lacopo Carucci detto il Pontormo. Tutto il loggiato fu compiuto nel 1601, ed una iscrizione latina che corre sopra gli archi, ricorda i nomi dei fratelli Alessandro e Roberto Pucci che lo fecero costruire in onore della Vergine.

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Sotto il porticato si aprono tre porte: quella centrale, che conduce nel chiostro dei Voti e per esso nella Chiesa; quella del Chiostro Grande a sinistra, e la porta dell’Oratorio di S. Sebastiano, a destra. Sulla porta centrale, possiamo ammirare un’Annunciazione in mosaico di David Ghirlandaio (1512).

IL CHIOSTRO DEI VOTI.

Svelte colonne di ordine corinzio reggono gli archi di un portico quadrilatero, iniziato nel 1447 su disegno di Michelozzo di Bartolommeo. Il Chiostro servì per diverso tempo a raccogliere gli ex-voto e le immagini che i fedeli offrivano alla Madonna in segno di gratitudine per le grazie ricevute. Di qui il suo appellativo di Chiostro dei Voti.

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Ma la sua nota caratteristica consiste nell’essere divenuto come una palestra e un manifesto artistico per un gruppo di giovani pittori fiorentini dei primi del XVI sec. i quali assommano in sé quella ricerca inquieta, propria del periodo di transizione, che dall’arte di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, sfocerà poi nel manierismo toscano. Non è puro caso che, sulle pareti bianche del Chiostro, oltre agli artisti Baldovinetti , Cosimo Rosselli, e al ventiquattrenne Andrea del Sarto, trovano libertà di espressione giovani artisti come il Pontormo, il Rosso Fiorentino e il Franciabigio. Il mecenatismo dei Servi di Maria per le arti in genere era proverbiale, e si concretizzerà sempre nello stesso secolo, con il fattivo aiuto dato alla Compagnia delle Arti del Disegno, da un artista dello stesso Ordine, Giovanni Angelo Montorsoli (v. Cappella dei Pittori). Sedici lunette si susseguono sotto il porticato, e di queste, dodici furono affrescate quasi tutte nello stesso periodo di tempo, perché i lavori dovevano essere fatti per l’8 settembre del 1514, data della pubblicazione del Giubileo perpetuo concesso alla Chiesa da Leone X. Le pitture a destra di chi entra, svolgono scene ed episodi della vita della Madonna: l’Assunzione (1513), è di Giovanni Battista Rosso fiorentino; lo Sposalizio di Maria (1514) di Andrea del Sarto; la Visitazione (1515), del Pontormo. I guasti di questo affresco sono dovuti alla suscettibilità dello stesso artista, che deteriorò la pittura in un momento di sdegno provocato dalla curiosità dei committenti. Nelle due lunette che seguono, vi erano un tempo gli sportelli dell’armadio dell’argenteria, dipinti dal Beato Angelico per la Cappella della Madonna e ora al Museo di S. Marco. Al loro posto vediamo la Madonna della Neve, altorilievo di marmo attribuito recentemente a Luca della Robbia. Di Andrea del Sarto sono la Natività della Vergine e il Corteo dei Magi (1513-1514). In quest’ultimo affresco, nel gruppo delle tre persone a destra, l’artista ritrasse il suo amico Iacopo Sansovino, e Francesco d’Agnolo Aiolle (musico famoso, insegnante di canto e composizione di Benvenuto Cellini) nella figura intera che guarda verso di noi; nel volto in profilo, dietro le spalle dell’Aiolle, eseguì un’autoritratto. Le due acquasantiere di bronzo sulle colonne davanti all’entrata principale della Chiesa, sono di Francesco Susini (1615).Dopo le due porte della chiesa, troviamo l’Adorazione dei Pastori (1463) di Alessio Baldovinetti, opera pregevole ma molto deperita nei colori.

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Il ciclo narrativo della vita di S. Filippo, occupa tutto il lato sinistro del portico. Il primo affresco è di Cosimo Rosselli, pittore appartenente con il Baldovinetti alla vecchia generazione, ma le altre cinque lunette sono tutte di Andrea del Sarto. Esse rappresentano la Vestizione religiosa del santo del Rosselli (1475); S. Filippo risana un lebbroso (tra le lunette, il busto in marmo di Andrea del Sarto, opera del Caccini); i Bestemmiatori puniti; la Liberazione di una indemoniata; Morte del Santo e risurrezione di un fanciullo; Devozione dei fiorentini alle reliquie di S Filippo (nel vecchio, vestito di rosso, è ritratto Andrea della Robbia. Andrea del Sarto affrescò queste sue cinque lunette tra il 1509 e il 1510. In soli sei anni (1509-15) il Chiostro della Madonna (fatta eccezione per i due affreschi del Baldovinetti e del Rosselli) raccoglieva e ci tramandava il meglio della pittura fiorentina del sec. XVI.Gli altri affreschi nei pennacchi delle volte sono di Chimenti di Lorenzo, del Bechi, del Cinelli e di Andrea di Cosimo.Tutti gli affreschi del Chiostrino sono stati staccati e restaurati nella seconda metà del secolo scorso.

L’INTERNO DELLA CHIESA.

Entrati in chiesa, la ricca decorazione barocca ci lascia un istante a disagio, per il contrasto che nasce con la purezza e la grazia rinascimentale del Chiostro dei Voti. Ma è un attimo. Il soffitto meraviglioso del Volterrano, la profusione di marmi e stucchi e dorature, le sfarzosità dell’insieme, non tolgono quel senso di raccoglimento proprio ai luoghi sacri.I grandi quadri in alto, tra gli spazi dei finestroni, narrano i più famosi Miracoli della Madonna e furono dipinti da Cosimo Ulivelli (1671), tranne il primo a destra che è di Giovanni Fiammingo, e l’ultimo a sinistra, di Ferdinando Folchi. I cori d’angeli sopra i due organi sono di Alessandro Nani a destra, e Alessandro Rosi a sinistra. Le pitture dei medaglioni (1693-1702) sono di Tommaso Redi, di Pietro Dandini, di Alessandro Gherardini, e gli stucchi di Vittorio Barbieri, Carlo Marcellini e Giovanni Battista Comasco. Da notare sopra il secondo medaglione a destra la grata dorata che chiude un finestra orizzontale. È la ”finestra dei Principi”, dalla quale la famiglia del Granduca, venendo dal Palazzo della Crocetta (oggi Museo Archeologico), poteva assistere in privato alle funzioni liturgiche che si svolgevano nella Cappella della Madonna.

Quasi tutte le cappelle della Basilica, nacquero per iniziativa di ricche famiglie fiorentine che ambivano di avere la propria sepoltura e il proprio stemma nella chiesa della Madonna. Scomparso, poi, l’uso di seppellire nelle chiese, queste cappelle, invece di mantenere il loro antico nome e patronato, furono chiamate col nome del Santo o del soggetto sacro dipinto nella pala dell’altare.

Cappella di S. Nicola da Bari.

Appartenuta fin dal 1353 alla famiglia del Palagio, conserva a ricordo di questo patronato una parte del trecentesco monumento tombale, ora internato nel muro di sinistra. Taddeo Gaddi aveva affrescato le pareti con alcune scene della vita di S. Nicola, ma nel 1623 Matteo Rosselli sostituiva queste pitture con i suoi affreschi. La tavola dell’altare è di Iacopo Chimenti detto l’Empoli, e rappresenta la Vergine con S. Nicola ed altri Santi. Anche i quattro Evangelisti della volta, e i due episodi de/la vita di S. Nicola nelle lunette, sono di M. Rosselli.

Cappella del Beato Giovacchino da Siena, dell’Ordine dei Servi.

Ne ebbe il patronato, nel 1371, la famiglia Macinghi, come si legge ancora nella lapide dinanzi all’altare. Nel 1677, al posto della tavola della Natività di Nostro Signore, dipinta da Lorenzo di Credi (ora agli Uffizi), fu messa l’attuale, il Beato Giovacchino di Pietro Dandini. Sulla parete sinistra è appeso il Crocifisso in legno, già appartenente all’altare maggiore e intagliato da Antonio e Giuliano da Sangallo nel 1483. Il monumento sepolcrale al marchese Luigi Tempi, fu scolpito da Ulisse Cambi (1849).

Cappella dei Sette Santi Fondatori dei Servi di Maria.

In essa, dal 1387, ebbe la propria sepoltura la famiglia Cresci. Nel 1643 Matteo Nigetti disegnò la presente architettura, e la cupoletta fu affrescata da Baldassarre Franceschini detto il Volterrano, che raffigurò S. Lucia davanti alla Trinità (alla Santa martire era prima dedicata la cappella). Il quadro dei Serre Santi Fondatori fu qui collocato nel 1888 ed è del pittore Niccolò Nannetti. Il monumento marmoreo a Fabrizio Colloredo è opera di Orazio Mochi.

Cappella di S. Pellegrino Laziosi dei Servi di Maria.

Fu fondata verso il 1425 e intitolata alla Pietà. Nel 1456 la cappella – che presentava nell’ancona l’affresco di un Calvario (croce e 4 figure ancora intatte dietro l’attuale tela) a sfondo di un gruppo in terracotta della Pietà, del pittore e scultore Dello Delli -, passò in patronato di Andrea di Gherardo Cortigiani. Nel 1675 Cosimo Ulivelli dipinse la tela dell’altare: il Crocifisso che risana da cancrena S. Pellegrino. Il monumento di marmo della parete di destra, in memoria del celebre medico Angelo Nespoli, è opera di Lorenzo Bartolini (1840); quello a sinistra, di Lorenzo Nencini ricorda l’incisore Luigi Garavaglia da Pavia (1835).

Cappella dell’Addolorata.

Fu edificata da Michelozzo intorno al 1450 per Orlando di Guccio Medici, di cui vediamo sulla parete di sinistra il bel monumento marmoreo attribuito a Bernardo Rossellino. Nel 1455 Andrea del Castagno dipingeva nell’ancona dell’altare una S. Maria Maddalena piangente ai piedi della croce (oggi distrutta). Al presente in una nicchia è collocata la statua della Madonna Addolorata. Prima dell’alluvione essa era normalmente ricoperta da una tela di Raffaello Sorbi, rappresentante S. Filippo Benizi al quale era stata dedicata la cappella nel 1885. Sulla parete destra un grande monumento marmoreo della fine del sec. XVI, raccoglie le ceneri di Tommaso Medici, condottiero della flotta del granducato operante nel Tirreno.Gli affreschi delle pareti sono di Cosimo Ulivelli: nella volta i Sette Fondatori dell‘Ordine dei Servi di Maria; nelle lunette: i BB. Martiri di Praga, il Martirio del B. Benincasa e del B. Piriteo Malvezzi dello stesso Ordine dei Servi.

Cappella del Salvatore.

Si trova sotto l’organo di destra e risale almeno al 1486. Passata a Salvatore Billi, fu adornata di marmi nel 1520 e sull’altare venne posta una tavola di Fra Bartolommeo della Porta: il Salvatore, i quattro Evangelisti, e ai lati: due quadri, con Isaia e Giobbe, sempre dello stesso autore.

Così il Vasari descrive la cappella: ” …Salvatore Billi mercante fiorentino, intesa la fama di fra Bartolommeo … gli fece fare una tavola, dentrovi Cristo Salvatore, alludendo al nome suo, ed i quattro evangelisti che lo circondano … sonvi ancora due profeti molto lodati. Questa tavola è posta nella Nunziata di Fiorenza sotto l’organo grande … è intorno l’ornamento di marmi tutto intagliato per le mani di Piero Rossegli …” (Vasari, Vite, etc. vol. IV, p. 190, Firenze Sansoni 1906).

Queste tavole furono tolte dal cardinale Carlo dei Medici (1556) e al loro posto furono messe delle copie eseguite dall’Empoli. Attualmente la tavola del Salvatore di fra Bartolommeo si trova alla Galleria dei Pitti, ed i due profeti (pitture e disegni) sono agli Uffizi. La copia dell’Empoli si può vedere (e non sappiamo perché non sia più alla SS. Annunziata) nell’antica chiesa fiorentina di S. Iacopo tra i Fossi.

Fino alla piena del 1966 era sull’altare una tavola di Maso da San Friano, con l’Ascensione di Gesù al cielo. Al suo posto vediamo ora un mosaico di Anna Brigida, rappresentante S. Antonio Pucci dei Servi di Maria, canonizzato nel 1962. I due Angeli oranti sui lati, sono attribuiti all’Empoli.

La coppia di piccole colonne di marmo a sostegno della mensa apparteneva all’altare della cappella dell’Annunziata disegnato da Michelozzo.

GLI ORGANI.

Sopra la cappella del Salvatore è un bellissimo organo con basamento e ringhiera scolpiti in marmo da Piero Rosselli, mentre il prospetto in legno, ricco d’intagli e dorature è, in parte, di Giovanni d’Alesso Unghero. Si tratta di un capolavoro del celebre organaio del sec. XVI Domenico di Lorenzo da Lucca, che lo terminò nel 1521. Una tela dipinta nel 1705 da Antonio Puglieschi con la Presentazione al Tempio serve a coprire la mostra. L’organo, giunto fino a noi quasi intatto, è stato sottoposto nel secolo scorso a restauro nella parte meccanica e lignea, a cura della Soprintendenza delle Belle Arti.

Di fronte all’organo di Domenico di Lorenzo, sul lato sinistro della navata, ve n’è uno simile costruito da Cosimo Ravani da Lucca nel 634. Il basamento in marmo è scolpito da Bartolommeo Rossi; la ringhiera di pietra tinta a marmo è di Alessandro Malavisti; la parte lignea è intagliata da Benedetto Tarchiani; il progetto è opera di Matteo Nigetti. Il pittore Giuseppe Romei dipinse la tela che ricopre la mostra con la Morte di S. Giuliana Falconieri (1772). Ambedue gli organi, nel 1763 furono ridotti alla medesima tonalità dal p. Bonfiglio Vambré dei Servi di Maria.

Altri tre organi si trovano nel coro, nella cappella della Madonna Annunziata e nella cappella dei Pittori.

L’Ordine della Madonna vanta una tradizione lunghissima di cultori della musica tra le sue file. Fin dalle origini, si può dire, abbiamo testimonianze che ci parlano di frati organai. Nessuna meraviglia che intorno all’altare della Vergine fiorisse un’arte che è parte integrate del culto e del sentimento religioso del popolo italiano. Già nel 1299 c’era nella chiesa di S. Maria di Cafaggio un organo che venne poi sostituito, nel 1379, con l’altro voluto dall’architetto fra Andrea da Faenza, generale dell’Ordine, il quale ne affidò il progetto ad Andrea di Giovanni dei Servi, la costruzione a fra Domenico, frate basiliano di Siena e il collaudo a Francesco Landino, detto il Cieco degli Organi.

Un altro organo, meno di cento anni dopo, rimpiazzò quello di Andrea dei Servi, fino a che non fu costruito quello di Domenico di Lorenzo da Lucca.

Di frati musicisti possiamo ricordare lo stesso fra Andrea, poeta e compositore di una parte dei madrigali conservati nel Codice Squarcialupi alla Biblioteca Medicea Laurenziana, e che fu tra coloro i quali diedero maggiore impulso all’Ars Nova fiorentina. Suoi discepoli, un fra Antonio, un fra Biagio, un fra Gabriele, dello stesso Ordine e il pittore Bonaiuto Corsini. Ma altri nomi di frati, che ebbero una certa fama nella musica, troviamo nei secoli: Mellini (eletto da Leone X maestro della Cappella Vaticana), Mauro, Berti, Borri, Braccini, Dreyer, Florimi, etc…

Come dimostrazione viva di questo culto plurisecolare alla musica sacra nella nostra Basilica, la Cappella Musicale è rimasta attiva dal 1480 fino all’alluvione del 1966.

Cappella di S. Barbara

Si trova a destra della crociera. Nel 1448 fu affidata alla Compagnia dei Tedeschi e dei Fiamminghi che vivevano e lavoravano a Firenze. Oltre alla cappella essi possedevano altre stanze e un oratorio, sempre sul lato destro della chiesa, e a questi locali si accedeva da una entrata privata, posta nell’attuale via Gino Capponi. Nel 1957, l’oratorio (chiamato fino a poco tempo fa Cappella degli Sposi) servì ad aprire un’uscita secondaria alla chiesa.

Le altre stanze appartenenti alta Compagnia dei Tedeschi, adibite in seguito a deposito di sagrestia, sono state adattate alle nuove attività del Convento. Nella cappella di S. Barbara, la Compagnia dei Tedeschi e dei Fiamminghi ebbe la propria sepoltura, ed ancora ne rimane la lapide sul pavimento. Un’altra lapide in graffito ricorda Arrigo Brunick, l’artista tedesco che sbalzò in argento il paliotto dell’altare maggiore. Sul pilastro di sinistra, in alto, è il ritratto in marmo del pittore belga Giovanni Stradano.

Sull’altare, il quadro di S. Barbara fu dipinto da Giuseppe Grisoni.

Cappella del SS. Sacramento o di S. Giuliana Falconieri.

Già esistente nel 1350 e chiamata di S. Donnino, in essa ebbe la sua sepoltura la famiglia dei Falconieri. La cappella venne poi detta della Concezione, per una tavola di M. Rosselli, posta sull’altare (1605), e rappresentante la Vergine Immacolata. Nel 1676 fu trasportato sotto l’altare ed esposto alla venerazione dei fedeli, il corpo della Beata Giuliana, fondatrice delle Suore Mantellate Serve di Maria. Dopo la canonizzazione della Santa fiorentina (1737), la famiglia dei Falconieri decise di arricchire di marmi rari la cappella secondo un progetto di Ferdinando Fuga, adattato da Filippo Cioceri, e nel 1767 i lavori erano terminati.

La cupoletta e la tela dell’altare sono di Vincenzo Meucci, e i due quadri laterali, Morte di S. Giuliana e Morte di S. Alessio Falconieri sono di Giuseppe Grisoni.

Nel 1937, in occasione del secondo centenario della canonizzazione di S. Giuliana Falconieri, i Servi di Maria del convento di Firenze, pensarono di sostituire alla vecchia urna in legno dorato, che racchiudeva le reliquie della Santa, un’ urna in bronzo, su disegno di Giuseppe Cassioli.

La guerra impedì l’attuazione del progetto. Nel 1957, sempre su iniziativa della Comunità di Firenze e con l’aiuto dei fedeli, vennero ripresi i lavori. Oltre all’urna in bronzo (realizzata dalla ditta Bearzi di Firenze sul primitivo disegno del Cassioli) veniva applicata al teschio della Santa una maschera di plastica, opera dello scultore E. Bava. Sempre nello stesso anno si restauravano anche i marmi dell’altare e di tutta la cappella, ad opera della ditta Tosetti di Firenze.

Recentemente è stato collocato sopra il ciborio dell’altare il Crocifisso delle Misericordie che la tradizione collegava al Movimento dei Bianchi degli inizi del sec. XV. In realtà, questo Crocifisso dipinto su tavola sagomata, è attribuito ad Alessio Baldovinetti e datato intorno al 1456 (v. Cappella del Crocifisso).

Cappella della Pietà.

Appartenne dal 1340 alla famiglia Pazzi, ma nel 1559 passò allo scultore Baccio Bandinelli e ai suoi discendenti. Il gruppo della Pietà è dello stesso Bandinelli che si effigiò nel vecchio che sostiene il Cristo morto. Ma il suo vero ritratto (insieme a quello della moglie) lo vediamo nella base posteriore del monumento. La cappella rimase incompleta e disadorna per la morte del Bandinelli, sopravvenuta breve tempo dopo la collocazione del “gruppo”.

A proposito di questa cappella, leggiamo nella autobiografia di Benvenuto Cellini che “il detto Bandinello aveva inteso, come io avevo fatto quel Crocifisso, che io ho detto di sopra; egli subito messe mano in un pezzo di marmo, e fece quella Pietà che si vede nella chiesa della Nunziata”.

Il Cellini aveva scolpito il Crocifisso per la tomba che si era scelto in Santa Maria Novella, ma trovò qualche difficoltà all’attuazione del suo desiderio. Quindi “subito mi volsi alla Chiesa della Nunziata, e ragionando di darlo in quel modo (il Crocifisso), che io volevo a Santa Maria Novella, quelli virtuosi frati di detta Nunziata tutti d’accordo mi dissono, che io lo mettessi nella loro chiesa, e che io vi facessi la mia sepoltura in tutti quei modi che a me pareva e piaceva. Avendo presentito questo il Bandinello, e’ si messe con gran sollecitudine a finir la sua Pietà, e chiese alla Duchessa (Eleonora da Toledo, moglie del Granduca Cosimo I) che gli facesse avere quella cappella che era dei Pazzi, la quale s’ebbe con difficultà, e subito ch’egli l’ebbe con molta prestezza ci messe su la sua opera; la quale non era finita del tutto, che egli si morì”. (B. Cellini, Vita, Firenze 1829).

Il Crocifisso in marmo destinato dal Cellini a questa cappella, ora si trova all’Escurial di Madrid. L’artista aveva ricevuto dai frati un altro luogo, sempre in chiesa, per la sua sepoltura (così scrive Benvenuto a Benedetto Varchi, Vita, vol. III, lettera XXIII), ma in realtà egli fu poi “sotterrato, per ordine suo” nella cappella dei Pittori, nel Chiostro grande.

L’ALTARE MAGGIORE.

Forse lo stesso Leon Battista Alberti, nel 1471 aveva dato il disegno dell’altare, per il quale, nel 1483 Antonio e Giuliano da Sangallo scolpivano in legno il Crocifisso ora collocato nella cappella di S. Gioacchino da Siena, Nel 1504 venne alzato dietro la mensa e, a separazione dal coro, un arco ad ancona in legno, lavoro pregevole ideato, si dice, da Leonardo da Vinci, e realizzato da Baccio d’Agnolo. Il fornice era chiuso da due grandi dipinti: dalla parte del Coro, una Assunzione del Perugino (ora sull’altare della cappella dell’Assunta), e verso il corpo della chiesa una Deposizione di Filippino Lippi, terminata però dal Perugino, perché la morte impedì al Lippi di completarla (ora essa si trova nella Galleria dell’Accademia). Nel 1546 i due dipinti vennero tolti dall’altare e al loro posto fu collocato un grande ciborio intagliato in legno da Filippo e Giuliano di Baccio d’Agnolo.

Nel 1655 Antonio di Vitale dei Medici donava alla chiesa il Sancta Sanctorum d’argento, sormontato da una croce di cristallo di rocca. Autore del Sancta Sanctorum è Alfonso Parigi, ed esecutori Giovan Battista e Antonio Merlini. Il paliotto d’argento dell’altare, disegnato da G. Battista Foggini fu eseguito ne 1682 dall’argentiere fiammingo Arrigo di Bernardo Brunick. Nel rilievo centrale del paliotto è L’Ultima Cena e ai lati sono episodi e personaggi simbolici dell’Eucarestia, tratti dal Vecchio Testamento.

L’altare nella ricchezza dei suoi marmi fu terminato nel 1704 su disegno di Giovacchino Fortini, al quale appartengono le sculture dei gradini della mensa, il piede e gli angeli in marmo del grande ciborio d’argento, le statue di S. Filippo Benizi e di S. Giuliana Falconieri(1705) sopra le due porte del coro e il disegno dei cherubini in bronzo dorato sulle stesse porte.

Ai lati del presbiterio, sono due edicole monumentali in marmo di Giovanni Caccini, con le statue di S. Pietro e S. Paolo. Il S. Pietro, gli angeli e i puttini sono opera di Gherardo Silvani, sempre su modello del Caccini. Sul pavimento, sotto la statua di S. Pietro, una lapide ci mostra il luogo ove fu sepolto Andrea del Sarto.

Addossati ai pilastri che reggono la cupola e formano l’arco del presbiterio, due monumenti sepolcrali in marmo di Carrara, racchiudono le spoglie di Mons. Angelo Marzi-Medici, a sinistra, e del senatore Donato dell’Antella, a destra. Il primo monumento è opera di Francesco di Giuliano da San Gallo (1546); l’altro, di Giovanni Battista Foggini (1702).

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Cappella di S. Filippo.

Proseguendo lungo la crociera, troviamo la cappella di S. Filippo Benizi. Le sue prime notizie risalgono al 1464 con il titolo di S. Giovanni evangelista. Nel 1671, anno della canonizzazione di S. Filippo, fu restaurata ed abbellita. La tavola dell’altare che rappresenta il Santo in gloria e il piccolo quadro di S. Giovanni Evangelista, sono del Volterrano.

Questa cappella fu sempre patronato della famiglia dei Tedaldi.

LE CAPPELLE DELLA TRIBUNA.

Saliti i due scalini e passati sotto l’arco che s’apre a sinistra della cappella di S. Filippo, entriamo nel vestibolo di sagrestia, che ha sul fondo il passaggio (1937) alla tribuna. Questo vestibolo, creato da Michelozzo, fu trasformato nel 1625 in cappella della Presentazione, di cui rimane ancora l’architettura, al posto dell’altare.

Le due piccole statue in pietra nelle nicchie laterali, sono di autore ignoto. Il tondo sopra il vano è lo stemma di Parte Guelfa. A destra, un busto di stucco, qui posto nel 1592, ci tramanderebbe la vera effigie di S. Filippo Benizi, come dice l’iscrizione della lapide.

Cappella della Natività.

Passati nella tribuna, abbiamo a destra la cappella della Natività della Madonna, che fu eretta nel 1471 dalla famiglia dei dell’Antella. La sua architettura è dell’anno 1600 su disegno dello scultore fiorentino Bartolommeo Rossi. Il grande quadro dell’altare, la Natività della Vergine (1602), è tra le opere più famose di Alessandro Allori, discepolo del Bronzino. Sulle pareti, altri quattro pregevoli dipinti narrano alcuni fatti della vita di S. Manetto dell’Antella, uno dei sette Fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria. Il primo dipinto in alto a destra di chi guarda è di Iacopo Ligozzi, e rappresenta Il Santo al piedi del Papa Clemente IV. Quello inferiore, S. Manetto che risana uno storpio, è di Cristoforo Allori, figlio di Alessandro (nel vecchio che guarda verso di noi Cristoforo ritrasse il padre; l’altare che vi notiamo è l’altar maggiore della Basilica, con l’antico arco trionfale di Baccio d’Agnolo). A sinistra, il primo quadro in alto è di Alessandro Allori; in esso vediamo: i Sette Santi Fondatori diretti a Montesenario. Sotto, S. Manetto eletto Generale dell’ordine, è di Domenico Cresti detto il Passignano. La volta fu affrescata da Bernardino Poccetti, che vi rappresentò il Paradiso.

Cappella di S. Michele Arcangelo.

Appartenuta dal 1470 alla famiglia dei Benivieni passò poi a quella dei Donati che la restaurava nel 1666. Sia il quadro dell’altare, la Vergine e S. Michele (1671), che i due laterali, S. Carlo Borromeo e S. Maria Maddalena dei Pazzi, sono del pittore Simone Pignoni. Gli affreschi della volta sono di Cosimo Ulivelli.

Cappella di S. Andrea Apostolo.

Fu eretta nel 1456 da Francesco Romoli dei Bellavanti; ma nel 1721 ne ebbe il patronato la famiglia dei Malaspina che la restaurava nel 1726.

La tavola dell’altare, Madonna e Santi, è detta comunemente del Perugino; di ignoto sono i due quadri laterali rappresentanti il Martirio di S. Andrea.

Cappella della Risurrezione.

Così chiamata dalla pala dell’altare di Agnolo Bronzino. Pietro del Tovaglia, procuratore e tesoriere in Firenze de marchese Lodovico Gonzaga di Mantova (colui che fece proseguire con il suo aiuto finanziario i lavori della tribuna), fu il primo patrono della cappella, ma nel 1552 il patronato veniva assunto dalla famiglia Guadagni che la restaurava nel 1742. Oltre il dipinto del Bronzino, degna di nota è la statua di S. Rocco, in legno di tiglio di Veit Stoss. Il S. Francesco di Paola, in marmo, nella nicchia di fronte è di Giuseppe Piamontini (1700).

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Cappella della Madonna del Soccorso.

Nel 1444 mentre si innalzava la tribuna, la famiglia dei Pucci pensava di erigere qui la sua cappella. Ma terminata la tribuna con gli aiuti finanziari del Marchese di Mantova, questi si riservò il patronato della cappella che, in seguito era ceduto alla famiglia Dolci, e quindi, nel 1599, passava al famoso scultore Giambologna. L’architettura in pietra serena e il Crocifisso in bronzo, sono dello stesso Giambologna, e a lui appartengono anche sei bassorilievi in bronzo, con scene della Passione. Le statue invece (in marmo soltanto le due della parete di fondo, che rappresentano la Vita attiva e la Vita contemplativa), sono del suo allievo Pietro Francavilla. Le altre di stucco, Angeli e Apostoli, sono di Pietro Tacca.

Sull’altare, rifatto in marmo e decorazioni bronzee nel 1749, la tavola della Madonna del Soccorso, da cui prende il nome la cappella, sembra sia di Bernardo Daddi. Dietro l’altare, al di sopra del sarcofago che racchiude le spoglie del Giarnbologna e del discepolo Pietro Tacca, è il quadro della Pietà di Iacopo Ligozzi. Degli altri due dipinti, la Risurrezione è opera del Passignano, e la Natività di Cristo di Giovanni Battista Paggi.

Cappella di S. Lucia

(già dei SS. Martiri e S. Francesco). Prima appartenne alla famiglia del Giocondo, ma nel 1723 passò a quella degli Anforti che la restaurava nel 1727.

Sull’altare vi era un tempo il quadro delle Stimmate di S. Francesco di Domenico Puligo (ora alla Galleria Pitti), poi vi fu posto quello dei Sette Santi Fondatori (ora nella cappella omonima), e infine l’attuale S. Lucia, di Iacopo Vignali. I due quadri delle pareti, Storia di SS. Martiri e S. Francesco, sono di autore ignoto.

Cappella del Cieco Nato.

Questa cappella prende il nome dal quadro del Passignano, che rappresenta il miracolo operato da Cristo al cieco nato. Nel 1534, erano patroni della cappella i della Scala, e nel 1604 i Brunaccini. Sempre del Passignano si dico sia l’architettura della cappella. A destra l’Adorazione del cieco nato è dell’Empoli; il quadro di sinistra, di Piero Sorri senese; le pitture della volta, di Ottavio Vannini.

Cappella di S. Caterina.

I primi patroni di questa cappella furono i Bardi, quindi gli Accolti e nel 1612 Buontalenti, che l’adornarono su disegno di Gherardo Silvani. Il quadro dell’altare che rappresenta le Nozze mistiche della Santa con il Cristo (1642) è di Giovanni Bilivert, e i due laterali, S. Maria Maddalena e S. Margherita da Cortona con gli affreschi della volta, sono del Vignali.

Cappella di Sant’Anna.

Questa cappella appartenne alla famiglia Giacomini-Tedalducci. Nel 1543 veniva dipinto, da Antonio Mazzieri, il quadro di S. Anna, con i SS. Stefano, Lorenzo, Filippo Benizi e Giuliana Falconieri.

IL CORO E LA CUPOLA.

Tornando indietro dalla cappella di S. Anna soffermiamo la nostra attenzione sul Coro che costruito da Michelozzo nel 1444 in forma circolare, ebbe nel 1668 l’attuale sistemazione esterna ad opera di Alessandro Malavisti su disegno di Pier Francesco Silvani. La porta centrale con il gruppo della Carità (stucco) è del Giambologna (1578). Altre sei statue in marmo posano sulla spalletta del recinto. A sinistra (guardando l’altare maggiore) la prima che rappresenta S. Filippo Benizi è attribuita a fra Vincenzo Casali Servita; il Redentore, S. Gaudenzio e (dopo la porta del coro) il S. Girolamo sono di Giovanni Angelo Montorsoli Servita (c. 1542); l’Addolorata è di Alessandro Malavisti (1666), il B. Lottaringo della Stufa è di Agostino Frisson (c. 1668). All’interno del coro il pavimento di marmo risale al 1541; gli stalli di noce su modello dei precedenti, intagliati da Giovanni d’Alesso Unghero nel 1538 furono rifatti nel 1846. L’organo fu costruito da Carlo Vegezzi-Bossi nel 1912, ma dopo la piena del 1966, la consolle, completamente rifatta da Giovanni Bai, fu sistemata nel presbiterio (1969). I due leggii di ottone, con aquila ad ali spiegate, sono opera pregevole del XIV e XV secolo. Del più antico è stata riconosciuta la provenienza inglese. Il grande leggio in noce al centro del Coro è di Antonio Rossi (1852).

La Cupola fu dipinta dal Volterrano in soli tre anni (1680-83) L’autore intese esaltare l’Assunzione della Vergine Maria che, tra una folla di santi del Vecchio e del Nuovo Testamento, viene sollevata dagli Angeli al trono dell’Altissimo.

Prima di uscire dalla tribuna attraverso il vestibolo della sagrestia, possiamo soffermare la nostra attenzione sui piccoli quadri della Via Crucis appesi ai pilastri, che sono attribuibili al pittore Luigi Ademollo (c. 1828).

LA SAGRESTIA.

Tornati dalla tribuna nel vestibolo, troviamo a destra un breve corridoio che conduce alla cappellina delle Reliquie e alla Sagrestia.

Nella Cappellina delle Reliquie, detta così perché negli armadi a muro si conservano molte reliquie di Santi), il Passignano scelse la sua sepoltura e dipinse a olio sul muro dell’altare (1622) la Vergine e Santi e nella volta un volo di angeli.

La Sagrestia fu iniziata da Michelozzo nel 1445 e la sua architettura non ha subito fino ad oggi trasformazioni di rilievo. La Parte Guelfa che ne aveva sostenuto le spese, vi fece apporre nelle volte il suo stemma (l’aquila che artiglia un drago), e vi custodiva, dentro un bellissimo armadio a muro, il proprio archivio segreto, come ci informa Giovanni Villani nelle sue Croniche (libr. VII, cap. XVII). Di questo armadio, demolito nel 1570, è rimasto solo il frontespizio intagliato da Salvi Marocchi su disegno di Michelozzo, e che ora fa da portale all’entrata. I due grandi lavabo di marmo, opera di Giovacchino Fortini, provengono dal convento e furono qui collocati durante il restauro che interessò tutta la sagrestia: pavimento, altare, porte laterali, finestrone, armadi, bancone centrale (1766). Dello stesso periodo è la decorazione di Pietro Giarré, le statue di terracotta di Pompilio Ticciati (sopra gli armadi): l’orologio a muro è di fra Giovanni Poggi Servita. Il quadro dell’altare con Gesù morto e i due Beati dei Servi è di Cesare Dandini (1625), ed era stato dipinto per la Cappella della Presentazione (il vestibolo di sagrestia) ora soppressa.

LE CAPPELLE A SINISTRA NELLA NAVATA.

Cappella del Crocifisso.

Tornati in chiesa, nella crociera di sinistra è la cappella del Crocifisso. Qui era la vecchia sagrestia,prima che fosse edificata quella di Michelozzo. La vecchia sagrestia nel 1445, divenne cappella padronale della famiglia Villani, della quale si conserva ancora, sul pavimento, la lapide sepolcrale. Sull’altare il Crocifisso in legno, è uno di quelli detti del Movimento dei Bianchi (1400). Questa immagine che era collocata in una cappella della nostra chiesa dedicata a S. Martino, era molto venerata nella prima metà del secolo XV. Nel 1453 essa passò in dote della famiglia Villani che la accettò a condizione che mai più fosse rimossa dalla propria cappella. Venne così dipinto da Alesso Baldovinetti il Crocifisso delle Misericordie (v. cappella del Sacramento) al quale si tributò l’antica denominazione di Crocifisso dei Bianchi.

Ai piedi del Crocifisso ligneo, due pregevoli statue di terracotta a grandezza naturale, la Vergine e S. Giovanni Evangelista della metà del sec. XV) furono qui poste nel secolo XVII. Negli ultimi decenni sono state restaurate riportando alla luce i colori originali e sistemate nel convento.

La tela che a volte ricopriva l’ancona fu dipinta nel 1855 da Ferdinando Folchi, e rappresenta una Deposizione. La decorazione in finta architettura (1746) è di Giuseppe Sciaman, e la volta, di Vincenzo Meucci. La grande statua in terracotta del San Giovanni Battista sembra sia il modello del S. Giovanni ideato da Michelozzo (1452) per il dossale dell’altare del Battistero (ora al Museo dell’opera del Duomo). Il fonte battesimale è opera dell’architetto Giuseppe Cassioli (1958); il bel paliotto dorato dell’altare e l’urna che accoglie il Santo martire Fiorenzo, sono di Luca Boncinelli (1689).

Scesi i due gradini della Cappella del Crocifisso, troviamo a destra una porta che conduce nel Chiostro Grande. Vicino a questa porta, è la cappella di S. Biagio.

Cappella di S. Biagio.

Al suo posto era un tempo (aperta nel campanile dell’antica chiesa) la Cappella di S. Ansano. Infatti si conserva (non visibile di chiesa), tra la pala d’altare attuale e la scaletta dell’organo un affresco con il martire senese, di Bicci di Lorenzo (1440). La tela di S. Biagio ed altri Santi martiri è del secolo XV ma di autore ignoto, mentre di Iacopo Vignali sono le due piccole tele dei SS. Pietro e Paolo. La volta fu affrescata dal Volterrano, che vi effigiò una S. Cecilia in mezzo a uno stuolo di angeli musicanti. Il paramento di marmi della cappella è opera di Alessandro Malavisti.

Cappella dell’Organo.

Essa era un tempo dedicata a S. Rocco e sull’altare si vedeva la statua in legno del Santo che ora è nella cappella della Risurrezione, dietro il coro. Essendo stato costruito l’organo nel 1634, la cappella fu affidata alla famiglia Palli che pensò alla ricca decorazione marmorea a opera di Bartolomeo Rossi, e fece dipingere a Cesare Dandini il quadro dell’altare, La Vergine Assunta che protegge Firenze.

Cappella dell’Assunta.La famiglia dei da Rabatta fu la patrona della cappella fin dal 1451, al tempo dei lavori della tribuna. Essa venne restaurata nel 1667. L’Assunzione di Maria del Perugino, fu qui trasportata dall’altare maggiore dove prima si trovava. Sulle pareti, il David e Golia e l’Arca Santa sono di Luigi Ademollo (1828).

Sull’altare di Questa cappella, in una nicchia di pietra serena, era il S. Giovanni che abbiamo visto nella cappella del Crocifisso.

Cappella della Crocifissione.

Fu patronato dal 1450, della famiglia del Gallo. Sull’altare il fiammingo Giovanni Stradano dipinse la tavola della Crocifissione, dalla quale prende il nome la cappella. I due affreschi dei profeti Isaia e Abacuc sono di ignoto, la Resurrezione di Lazzaro, nella parete destra è di Nicola Monti (1837). Nella parete di sinistra, la grande tavola del Giudizio Universale, copia di un particolare del Giudizio di Michelangelo, è di Alessandro Allori, ed era già sull’altare della cappella di S. Girolamo.

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Cappella di S. Girolamo.

Nel 1451 il Convento cedeva alla famiglia Corboli questa cappella. Fino a poco tempo fa essa era chiamata del Giudizio Universale, per la tavola di Alessandro Allori, posta sull’altare, ma rimesso in luce (1933) il bellissimo affresco del S. Girolamo di Andrea del Castagno (1454 c.), la cappella ha ripreso il suo antico nome.

Gli affreschi delle pareti, i Profanatori scacciati dal Tempio, Gesù tra i dottori (notare il ritratto di Michelangelo Buonarroti, del Pontormo ed altri artisti e personaggi dell’epoca), e quelli della volta, il Paradiso terrestre, Profeti e Sibille, Annunciazione, Natività, Presentazione di Gesù al Tempio, Fuga in Egitto sono di Alessandro Allori.

Cappella di S. Giuliano o di S. Giuseppe.

Fu eretta nel 1451 e Andrea del Castagno vi affrescava, tra il 1455 e il 1456, il S. Giuliano. Nel fastoso restauro, ricco di marmi e stucchi, eseguito da Giovanni Battista Foggini (1693), fu messa sull’altare la tela del Transito di S. Giuseppe, del bavarese Giovanni Carlo Loth. Sui due monumenti sepolcrali, della famiglia Feroni, patrona della cappella, la statua di S. Francesco è del fiorentino Camillo Cateni, quella di S. Domenico, di Carlo Marcellini. Le altre sono degli scultori Francesco Andreozzi, Isidoro Franchi, Giuseppe Piamontini; i medaglioni di bronzo dorato sono di Massimiliano Soldani Benzi.

Studio e ricerca a cura di Lucica Bianchi

fonti:

Guida Turistica di Firenze

Il Santuario della SS: Annunziata di Firenze – Ordine dei Servi di Maria

Arte.it  http://www.arte.it/guida-arte/firenze/da-vedere/chiesa/basilica-santuario-della-santissima-annunziata-1868

IL LIBRO D’ORE DI LORENZO DE’ MEDICI

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Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ms. Ashburnam 1874

Con la dicitura ‘Libro d’Ore di Lorenzo de’ Medici’ si designa un prezioso manoscritto della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, un breviario di devozione privata che il Signore della città – uno dei più rinomati mecenati del Rinascimento italiano – volle donare a una delle sue figlie in occasione delle nozze.
Il codice è uno dei cinque “libriccini delli offitii, di donna” (ossia piccoli Libri d’Ore a destinazione femminile) citati nell’inventario redatto nel 1492 alla morte di Lorenzo de’ Medici.
Già questa definizione,“di donna”, evoca qualcosa di piccolo e insieme prezioso come un gioiello, atto a essere sfogliato dalle dita delicate di una dama rinascimentale. Poco più grande di una moderna cartolina (misura infatti appena 10 x 15 cm), il codice Ashburnam 1874 (il codice assegnato al libro), si impone prima ancora di essere aperto per la sua straordinaria legatura in velluto viola, con borchie e cantonali in argento dorato filigranato, nei quali sono incastonati su ciascun piatto un grande lapislazzuli e quattro quarzi rosa.

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Tutto in questo codice parla di una origine e di una destinazione di prestigio: dalla legatura alla melodiosa scrittura, sino al raffinatissimo corredo di miniature attribuite a Francesco Rosselli, incisore, miniatore, cartografo e pittore, che insieme a Francesco di Antonio del Chierico fu il massimo esponente della scuola fiorentina. Ognuna delle 233 carte del manoscritto contiene almeno un elemento, un capolettera, un fregio che impreziosisce il testo, incastonato nella pagina secondo i canoni armonici più rigorosi dell’arte libraria.

Lucica Bianchi

MADONNA DEL MAGNIFICAT

 

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Sandro Botticelli, Madonna del Magnificat, 1482 circa, Galleria degli Uffizi, Firenze.

Secondo la narrazione del Vangelo di San Luca il “Magnificat” è l’inno che Maria, già in attesa di Cristo, innalzò a Dio quando si recò a trovare la cugina Elisabetta, futura madre di Giovanni Battista. Nel momento in cui le due donne si incontrarono, il bambino di Elisabetta si agitò nel grembo, e la Santa comprese che era stata sottomessa alla volontà divina. Fu così che Maria rivolse all’Onnipotente il suo canto di gioia e di ringraziamento.

In questa composizione Sandro Botticelli, come in altre occasioni, non fu fedele al testo. Qui infatti vediamo Maria incoronata dagli angeli – invece secondo l’iconografia più diffusa veniva incoronata da Gesù – mentre è intenta a scrivere la sua preghiera, guidata alla mano del Bambino.
Questa posa ritorna in una piccola tavola dello stesso periodo, conosciuta col titolo LA MADONNA DEL LIBRO (Museo Poldi Pezzoli, Milano).
Con sguardo dolce e sicuro il Bambino indica alla Madre già pensierosa, il passo biblico che allude al suo destino. Ma l’originalità del tondo è data dall’armonia con cui sono orchestrate le novità iconografiche e stilistiche.
Nell’impostazione formale c’è un’innovazione rispetto all’uso consueto della prospettiva: i personaggi e lo sfondo paesaggistico sono disposti in modo tale da creare l’illusione che il tondo sia concavo, una semisfera che attrae lo spettatore verso l’interno. Forse Botticelli ebbe questa idea guardando i giochi illusionistici o le prospettive poco ortodosse dei capolavori fiamminghi che arrivavano a Firenze proprio in quegli anni.
La raffinatezza espressa dal tipico linearismo botticelliano e l’eleganza nella profusione degli ori sarebbero stati sterili senza la tenerezza e la grazia delle espressioni e le movenze dei personaggi tutti silenziosamente dialoganti fra loro.

Nelle VITE del 1568, Giorgio Vasari ricorda che al suo tempo il tondo era molto ammirato; la preziosa testimonianza però non è chiara sulle notizie della committenza e della originale collocazione. E’ documentato, invece, l’acquisto della tavola, comprata dal granduca Pietro Leopoldo presso Ottavio Magherini come opera di un ignoto artista. Oggi la maggior parte degli studiosi è d’accordo nel datare l’opera dopo il viaggio di Botticelli a Roma (1481-1482), dove l’artista aveva affrescato la Cappella Sistina ricevendone fama e successo.

 

 

Lucica Bianchi

MICHELANGELO. “O notte, o dolce tempo”

Michelangelo Buonarroti

Michelangelo Buonarroti

Come può esser, ch’io non sia più mio?
O Dio, o Dio, o Dio!
Chi m’ha tolto a me stesso,
c’ha me fosse più presso
o più di me potessi che poss’io?
O Dio, o Dio, O Dio!
Come mi passa el core
chi non par che mi tocchi?
Che cosa è questo, AMORE,
c’al cor entra per gli occhi,
per poco spazio dentro par che cresca:
e s’avvien che trabocchi?

Michelangelo Buonarroti, “Che cosa è,questo amore

La tomba di Michelangelo Buonarroti si trova all’inizio della navata destra della chiesa di Santa Croce, a Firenze,appena varcata la porta principale della Basilica. Il monumento funebre fu progettato da Giorgio Vasari, amico e collaboratore di Michelangelo e autore della sua biografia nelle celebri Vite. 

La tomba di Michelangelo,Basilica di Santa Croce, Firenze

La tomba di Michelangelo,Basilica di Santa Croce, Firenze

Il busto è opera di Battista Lorenzi che scolpì anche la statua allegorica della Pittura, fiancheggiata dalla Scultura di Valerio Cioli e dall’ Architettura di Giovanni Dell’Opera.

L’affresco con la Pietà fu eseguito da Giovanni Battista Naldini.

Michelangelo Buonarroti era morto a Roma il 18 febbraio 1564, all’età di 89 anni. Il 20 febbraio 1564, il corpo di Michelangelo viene deposto nella Chiesa dei Santi Apostoli a Roma. Lionardo, il nipote organizza il trasporto della salma a Firenze, ma temendo di poter essere ostacolato,nasconde il corpo di Michelangelo in un rotolo di panni e lo carica su un barroccio con altra mercanzia così la salma dell’artista arriverà a Firenze tre settimane dopo, il 10 marzo 1564. Il corpo viene depositato nella compagnia dell’ Assunta, dietro San Pier Maggiore e due giorni dopo viene trasportato in Santa Croce ,di notte, dagli artisti dell’ Accademia, in mezzo ad una folla immensa, al lume delle torce. Il 14 luglio 1564, dopo numerosi rinvii, si svolgono nella Chiesa di San Lorenzo i funerali di Michelangelo dopo di che il corpo del grande artista fu collocato nella sua tomba in Santa Croce, dove tutt’ora riposa.

Lapide tomba di Michelangelo

Lapide tomba di Michelangelo

Michelangelo giace significativamente accanto al cenotafio di Dante, morto in esilio nel 1321 e sepolto a Ravenna. Lo scultore fu un grande ammiratore del sommo poeta, al punto di dedicargli due dei suoi sonetti e di aver pensato di progettare un monumento alla sua memoria.

O Notte, o dolce tempo, benchè nero, 
con pace ogn’opra sempre al fin assalta, 
ben vede e ben intende chi t’esalta, 
e chi t’onora ha l’intelletto intero. 
Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero, 
che l’umid’ ombra e ogni quet’appalta, 
e dell’infima parte alla più alta
in sogno spesso porti ov’ire spero. 
O ombra del morir, per cui si ferma
ogni miseria all’alma, al cor nemica, 
ultimo degli afflitti e buon rimedio, 
tu rendi sana nostra carn’ inferma, 
rasciugh’ i pianti e posi ogni fatica
e furi a chi ben vive ogni ira e tedio…

Michelangelo Buonarroti “O notte, o dolce tempo”

“Natura non soddisfa più dopo di lui, non potendola vedere con gli occhi grandi come i suoi”

                                                                                                                                                               J.W.von Goethe

Marta Francesca Spini, studentessa,Scuola Secondaria di Primo Grado

LE BELLE ARTI

Cristo crocifisso in un dipinto italiano del XIII secolo, le cui caratteristiche stilizzate seguono il disegno e gli schemi tradizionali.

Cristo crocifisso in un dipinto italiano del XIII secolo, le cui caratteristiche stilizzate seguono il disegno e gli schemi tradizionali.

La definizione delle “belle arti” si adatta a quel tipo di musica, di poesia, di prosa, di pittura, di scultura, di architettura eccetera, in cui sentiamo la forte influenza della personalità dell’artista.

Questo termine distingue ad esempio la letteratura dal giornalismo, una sinfonia da una canzone di successo, un capolavoro della pittura da un manifesto e una scultura in marmo da una statuina di cera.

sotto, Cristo dipinto da Giotto, l'artista fiorentino che ruppe la tradizione medioevale e seppe infondere nelle proprie opere la sua personalità creativa e una piena conoscenza della validità della realtà umana.

Cristo dipinto da Giotto, l’artista fiorentino che ruppe la tradizione medioevale e seppe infondere nelle proprie opere la sua personalità creativa e una piena conoscenza della validità della realtà umana.

Tali distinzioni sono ovviamente esatte solo in linea molto astratta e generica. E’ la qualità dell’idea dell’artista e della relativa realizzazione in una forma d’arte che giustifica l’uso della definizione “belle arti” per descrivere quell’opera.

Lo scopo ci dà un altro mezzo per capire la definizione di cui sopra: le “belle arti”, infatti, non hanno uno scopo immediato e facilmente definibile. Un buon lavoro di ebanisteria è in fondo un mobile e ha uno scopo preciso, ma molti buoni dipinti non hanno una funzione così immediata e ovvia, se si eccettua un certo fine decorativo, che è tuttavia sempre limitato.

L’artista, sempre inteso nel significato pieno del termine, usa questa libertà per cercare nuove idee, per trovare nuove forme di espressione. In questo senso, lo studio di un artista è come un laboratorio scientifico: come lo scienziato tenta incessantemente di estendere con nuove scoperte i confini della conoscenza, così l’artista nel suo lavoro cerca continuamente di trovare migliori e nuovi modi d’espressione. E ancora, come le scoperte dello scienziato sono sfruttate dai tecnici e dall’industria, così l’opera dell’artista favorisce nuovi sviluppi delle arti di massa.

Dato che l’opera dell’artista è spesso sperimentale, è difficile capirla a prima vista e questa asserzione è particolarmente vera per quanto riguarda le arti del XX secolo. Le opere del Rinascimento, del resto, contenevano  elementi immediatamente interpretabili, ma anche elementi che erano contemporaneamente profondi e sottili, cosa non facile a essere spiegata in poche parole. Per capire esattamente, dobbiamo infatti passare parecchio tempo in una galleria di dipinti del Rinascimento. Dopo un certo periodo, ci accorgiamo di aver progredito dallo stadio iniziale, in cui vedevamo i dipinti come pure e semplici illustrazioni di certi avvenimenti, a uno stadio in cui incominciamo a intravedere il mondo sotto una nuova prospettiva, una prospettiva che è in certo qual modo espressa dai quadri.

Se si vuole apprezzare l’opera di un artista, bisogna perciò rinunciare ai giudizi-lampo e studiarla con pazienza. Questo è vero, particolarmente oggi, quando l’artista, come accade in molte altre professioni, è divenuto uno specialista: cinquecento anni fa un uomo colto si poteva interessare di quasi tutto lo scibile del suo tempo, mentre oggi sono pochi gli industriali che pretendono di capire che cosa fanno i loro impiegati-scienziati. Ciò è valido anche per l’artista: non possiamo aspettarci di capire la sua opera ad un primo sguardo.

Data la difficoltà di spiegare in termini semplici le creazioni delle “belle arti”, molti critici d’arte ripiegano sull’idea che si debba essere nati con una speciale “simpatia”(cioè compartecipazione) per poter capire l’opera di un artista. Ma la comprensione non è così semplice: richiede una grande pazienza, la buona volontà di apprendere dall’opera d’arte stessa, di ascoltare e di leggere a lungo.

Marta Francesca,Matilde,Lucica

LA PRIMAVERA – di SANDRO BOTTICELLI

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Sandro Botticelli, La Primavera, 1478 circa, Galleria degli Uffizi, Firenze

A quella che ormai possiamo considerare la destinazione originale del dipinto di Botticelli oggi comunemente noto come” La Primavera, gli storici si sono avvicinati progressivamente, anche se già nelle fonti antiche appariva evidente la sua stretta connessione con la famiglia Medici. La citazione più antica e autorevole, completa di descrizione e perfino del nome con cui è conosciuta oggi, è dovuta a Giorgio Vasari che, nella biografia del pittore nella prima edizione delle Vite 1550, la descrive nella villa di Castello a quel tempo appartenente al granduca Cosimo I de Medici. Dice Vasari:Per la città in diverse case Botticelli fece tondi di sua mano, et femmine ignude assai, delle quali oggi ancora a Castello, luogo del Duca Cosimo di Fiorenza, sono due quadri figurati, l’uno, Venere che nasce, et quelle aure et venti che la fanno venire in terra con gli amori; et cosi un’altra Venere che le Grazie la fioriscono dinotando la Primavera: le quali da lui con grazia si vengono espresse” .

Nella descrizione succitata è facile riconoscere “La Primavera” di Sandro Botticelli, ma anche l’altro famosissimo dipinto “La nascita di Venere”, anche esso oggi conservato agli Uffizi a Firenze. Nella villa di Castello, “La Primavera” rimase fino al 1815, condividendo l’oblio che aveva circondato l’opera di Botticelli per oltre tre secoli. In quell’ anno fu trasferita agli Uffizi, rimossa nel 1853 e spostata alla Galleria dell’Accademia, destinazione secondaria rispetto alle grandi collezioni medicee presenti a Firenze. Solo nel 1919 insieme ad altre opere di Botticelli,” La Primavera” fece ritorno agli Uffizi, diventando a mio parere personale, uno dei quadri più belli del museo. Un’altra Venere che le Grazie la fioriscono dinotando la Primavera. Appare chiaro che ci troviamo di fronte a un raro dipinto profano di grandi dimensioni, fra i pochi superstiti dalle epurazioni della fine del secolo XV, una di quelle favole mitologiche, come venivano chiamati i dipinti di questo genere, dipinti che avevano come protagoniste le divinità antiche, cariche di simboli e attributi. Era ben nota ai contemporanei di Botticelli la sua predilezione per gli scrittori e i filosofi  greci e latini. E’ questa la chiave di lettura della “Primavera”, una chiave sulla quale i critici d’arte concordano da tempo.

I personaggi raffigurati sono distribuiti su una scena composta da un prato semicircolare. Ci troviamo davanti ad una specie di raduna delimitata da aranci carichi di fiori, foglie e frutta. Il verde tappeto su cui posano i piedi affusolati delle divinità è cosparso di fiori ed erbe di moltissime varietà tuttora esistenti e quasi tutte perfettamente riconoscibili: ranuncoli, fiordalisi, viole, crisantemi, iris, rose, non-ti-scordar-di-me, papaveri, margherite, oltre a soffioni, fragole ,crescione….Dietro alla cortina di aranci, tra i quali spiccano qualche fronda d’abete, troviamo alcune piante di alloro, allusive per assonanza (laurus in latino) al nome di Lorenzo de Medici.

Tutto è avvolto in un’atmosfera distesa e luminosa, calma e profonda.

Al centro, racchiusa come in un trittico trecentesco, dentro un’ogiva, composta naturalmente dagli alberi che si diradano per far posto alla pianta di mirto che le è dedicata…è Venere, regina di questo luogo di delizie, nel quale la primavera è perenne, identificato giustamente come “Giardino delle Esperidi”, quel giardino dove le figlie del dio Atlante coltivavano frutti dorati riservati a lei, alla dea della Bellezza.

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Particolare della dea Venere

La dea è ammantata come una figura classica, ma anche con elementi desunti dai vestiti e dai canoni di bellezza quattrocenteschi, come la posa considerata di grande eleganza, e la veste che alla scollatura e sotto il seno presenta una decorazione a fiammelle dorate rivolte verso il basso; indossa inoltre, una collana di perle con un pendant a forma di mezza luna, all’interno del quale è incastonato un rubino. Inclinando soavemente la testa verso la spalla destra e alzando la mano corrispondente, essa sembra voler attirare, verso il gruppo su quel lato, l’attenzione dello spettatore, introducendolo così nel giardino.

Sopra la sua testa è librato il figlio Cupido, dio dell’Amore, raffigurato come uno dei tanti putti alati della scultura greca antica, bendato come vuole la tradizione, perché lui colpisce fatalmente, senza vedere le proprie vittime. Egli indossa solo la faretra colma di frecce e ne sta scagliando una dalla punta infiammata contro la figura centrale del gruppo danzante nel quale sono riconoscibili le Tre Grazie, tradizionalmente al seguito di Venere; erano considerate protettrici dell’Accademia Platonica.

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Particolare con le tre Grazie

Raffigurate secondo uno schema desunto dalla scultura antica, esse danzano in cerchio con passi lievi e ritmici, le mani intrecciate, muovendo con eleganza le teste dai lunghi e biondi cappelli (bionde erano le donne più belle secondo i cannoni estetici dell’epoca.) Coperte da veli trasparenti e fluttuanti, ornate di perle che sono, come quelli di Venere, oggetti di splendida oreficeria, le 3 Grazie sono: al centro, Thalia, simbolo della castità, a sinistra Aglaia e infine, Eufrosine.

Thalia guarda verso il giovane in piedi all’estrema sinistra, identificato come il dio Mercurio, il quale le volta le spalle, intento col suo bastone, ornato di serpenti attorcigliati-il caduceo, a disperdere le nubi che tentano di entrare nel giardino. Mercurio, fin dall’antichità pure associato a Venere, ha ai piedi i calzari alati, al fianco una spada ricurva e sulla testa un elmetto di foggia quattrocentesca, ed è vestito solo di un drappo rosso ornato di fiamme d’oro.

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Particolare con il dio Mercurio

Dall’ estrema destra entrano in scena tre figure. La prima, alata e di colore verdastro, che irrompe tra le curve piante di lauro, è Zefiro, vento primaverile per eccellenza, che soffiando e aggrottando la fronte per la foga e il desiderio, insegue la ninfa Clori che fugge davanti a lui, ma in qualche modo sembra anche volgersi a cercarlo.

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Particolare con la ninfa Clori e dio del vento Zefiro

Dell’episodio troviamo la spiegazione nei Fasti del poeta latino Ovidio: Clori che ha suscitato la passione di Zefiro, viene da questi raggiunta e posseduta, ma egli la farà poi sua sposa, conferendole il potere di far germogliare i fiori. Anche il suo nome verrà cambiato da Clori in Flora, a indicare la sua trasformazione, la sua nuova prerogativa, che viene cosi magistralmente descritta da Ovidio:Ero Clori, che ora son chiamata Flori!”

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Particolare con la ninfa Clori dalla cui bocca escono i fiori

Dalla bocca di Clori escono rose. I fiori del resto, sono proprio il tramite attraverso il quale nel dipinto viene evidenziata la metamorfosi rappresentata nelle due versioni dello stesso personaggio. I fiori emanati da Clori, finiscono per confondersi con quelli che ornano l’abito del suo alter ego, Flora, e che a loro volta si confondono con quelli che le cingono la vita e la testa, e, con gli altri che ha raccolto nel grembo e sta spargendo sul prato. E’ lei la dea che viene riconosciuta come la personificazione della Primavera!

 

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Particolare con la dea Flori, la personificazione della primavera

La critica ha  evidenziato i rapporti del dipinto con altre fonti letterarie, antiche e moderne, quali per esempio i testi di  Lucrezio, Apuleio, Poliziano, Marullo. Di recente, Claudia Villa (1998) ha messo in relazione la composizione di Botticelli con il trattato De nuptiis Mercurii et Philologiae, scritto dal rettore africano Marziano Capella nel IV-V secolo d.C. e commentato da Remigio di Auxerre (IX-X secolo), testo ben noto nell’ambito mediceo, apprezzato dallo stesso Agnolo Poliziano: il dipinto presenterebbe le personificazioni presentate dal trattato e dal suo commento. La scena è ambientata nel Pomerium rethorice, dai cui alberi pendono i pomi dorati delle Esperidi, simbolo di eternità. Iniziando da sinistra, Mercurio, allegoria dell’Ermeneutica e dell’Eloquenza, si volge verso Apollo-Sole (la Poesia) per chiedere consiglio per sposare Filologia (di solito ritenuta Venere) posta al centro; questa è accompagnata da un lato dalle tre Grazie favorevoli alle nozze, in alto dal Genio volante dio dell’Amore, e dall’altra parte da Filologia (alias Flora); la ninfa in fuga dalla cui bocca fuoriescono fiori, avvinta dal Genio alato, è protettrice delle unioni coniugali. Il dipinto rappresenterebbe dunque la celebrazione della nuova filologia, promossa dai letterati fiorentini.

Un’altra recente interpretazione in chiave cristiana vede nella “Primavera” una allegoria delle tre fasi del “viaggio nel Paradiso terreno”: “l’ingresso nelle vie del Mondo”, il “cammino nel Giardino e l’esodo nel Cielo” (Marino 1997).

Cristina Acidini (2001), proponendo una lettura della composizione in chiave storica, vede nella Primavera la celebrazione della “rinnovata fioritura di Firenze” (l’antica Florentia, richiamata nel dipinto da Flora) “nell’eterna primavera ristabilita dai Medici”, richiamati fra l’altro – come spesso è stato notato – dagli aranci, per la loro denominazione latina mala medica. Il dipinto potrebbe essere stato infatti concepito dopo la primavera del 1480, quando il Magnifico con un’abile politica e un trattato riuscì a porre fine ai due anni di guerra con Ferdinando d’Aragona e di interdetto papale, che avevano colpito Firenze dopo la congiura dei Pazzi. L’opera sarebbe stata poi di fatto eseguita dopo il ritorno di Botticelli da Roma, fra il 1482 e il 1485, probabilmente su commissione proprio del Magnifico, la cui diplomazia pacificatrice sarebbe riecheggiata dal Mercurio raffigurato nella composizione.

Nell’iconografia della Primavera, Botticelli esprime una chiara rappresentazione dello stile del Rinascimento italiano, dove il ritrovamento della scuola classica si pone come elemento caratterizzate in un tutte le arti: dalla scultura alla pittura.

Lo storico e studioso dell’arte Igino Benvenuto Supino, già direttore del Museo Nazionale del Barghello pubblicò una monografia dedicata all’Allegoria all’inizio del ‘900[1] , in un momento nel quale l’interesse per le opere botticelliane riscuoteva grande successo in Europa.

Ed è proprio tra la fine dell’800 e l’inizio del secolo scorso che l’attività di ricerca e gli studi sull’interpretazione del dipinto si intensificarono. Adolfo Venturi, storico dell’arte di origini modenesi pubblicò nel 1892 un articolo sulle arti figurative de la Primavera nella rivista Arti [2]. Nasce un dibattito vivace imperniato sulla figura della Venere che da un lato viene identificata ad una ninfa, sulla base dello stretto rapporto tra Botticelli e Poliziano, tesi poi osteggiata da Supino secondo il quale non era possibile tracciare alcun tipo di affinità tra le Stanze di Poliziano ed il dipinto; dall’altro, Venuti associa invece le Veneri a Simonetta Vespucci.

L’interpretazione iconografica della Primavera verrà poi successivamente integrata dalla visione delle figure come rappresentazioni o meglio personificazioni vive della natura primaverile, tesi condivisa anche da Paolo D’Ancona, allievo del Venturi e docente di storia dell’Arte all’Università degli Studi di Pisa in un suo studio del 1947[3].

In conclusione, il dipinto come qualsiasi altra opera complessa, è stato oggetto di diverse interpretazioni da parte degli studiosi, ed oggi, dopo oltre 500 anni, è un’opera che per certi aspetti è tutta ancora da scoprire.

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1Sandro Botticelli, Igino Benvenuto Supino, Roma, A.F. Formiggini, 1910.

2Storia dell’arte italiana, Volume 3, Adolfo Venturi, U. Hoepli, 1904.

3Pittura e scultura in Europa, Eric Newton, Paolo D’Ancona, A. Tarantala, 1947.

                                                                                                                        Lucica Bianchi

PITTURA DEL PRIMO RINASCIMENTO A FIRENZE

IL GOTICO INTERNAZIONALE A FIRENZE INTORNO AL 1400

L’arte fiorentina dell’inizio del XV secolo è dominata da una particolare forma del tardogotico, che gli storici dell’arte hanno battezzato “gotico internazionale”. Questo nome fu coniato nel XIX secolo dallo storico francese Louis Courajod, nel tentativo di ricondurre a un denominatore comune i tratti caratteristici dell’arte degli inizi del XV secolo, riscontrabili con una certa uniformità in gran parte dell’Europa. Tendenze verso un’arte sontuosa e ricca come decorazione, sono individuabili anche nell’area franco-fiamminga, in Germania (nel Nord e nel Sud, così come in Westfalia), nonché in Boemia, in Spagna e nell’Italia settentrionale. Questo stile è caratterizzato da una particolare cura per la resa realistica dei dettagli e, nei suoi migliori risultati, dimostrò una straordinaria eleganza dei tratti e una notevole finezza nell’uso dei materiali. Il punto di partenza di questa evoluzione è da collocare nell’area franco-fiamminga e, soprattutto, nelle corti di Borgogna, di Parigi e di Digione. Gli ideali artistici tardogotici si diffusero in tutta Europa, favoriti dalla domanda di opere di piccole dimensioni, facili da trasportare. Artisti girovaghi come lo Starnina, il Pisanello e Gentile da Fabriano diffusero con dovizia queste eleganti forme cortesi in tutta l’Italia centrale. Così facendo essi contribuirono a un rapido e grande successo dello stile tardogotico persino in una città come Firenze, che in un primo tempo l’aveva ignorato.

“L’ADORAZIONE DEI MAGI” di GENTILE DA FABRIANO

Uno dei più significativi rappresentanti del tardogotico a Firenze fu Gentile da Fabriano (1370 ca.-1427); i suoi dipinti, saldamente ancorati alla realtà, consentono di annoverarlo tra i precursori dell’arte rinascimentale. Nato a Fabriano, nelle Marche, prima di trasferirsi a Firenze nel 1420, aveva già ottenuto diversi riconoscimenti come pittore, sia a Venezia sia a Brescia. L’esperienza artistica da lui maturata nell’Italia settentrionale, roccaforte del gotico internazionale, si riflette nella straordinaria pala d’altare raffigurante l‘Adorazione dei Magi, realizzata nell’arco di tre anni per conto del mercante fiorentino Palla Strozzi e terminata, stando alla data riportata sulla base del dipinto, nel 1423.

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Foto: Gentile da Fabriano. Adorazione dei Magi, tempera su tavola, 303 x 282 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi

L’eccezionale sfoggio di ricchezze, la varietà  delle tecniche impiegate e la resa dei fenomeni naturali concorrono a creare un’opera estremamente innovativa che esercitò una notevole influenza sugli artisti fiorentini.

La centina del dipinto serve a descrivere l’episodio dell’Adorazione dei tre Magi come una narrazione coerente. I tre archi non toccano terra, cosicché l’impressione di trovarsi in presenza di un trittico è solo momentanea e vaga. Essi servono a introdurre una separazione tra la Sacra Famiglia, i tre Magi e il loro seguito, senza spezzare la scena. Gentile utilizzò, inoltre, lo spazio sottostante i tre archi per narrare gli eventi verificatisi prima dell’adorazione.

In alto a sinistra, i Magi sono raffigurati in abiti sfarzosi sulla cima di una collina affacciata su uno specchio d’acqua, mentre osservano la stella che annuncia la nascita di un nuovo Re.

Sotto il fornice centrale, i tre Re orientali, con il loro seguito, viaggiano alla volta di Gerusalemme, dove intendono informarsi presso Erode della nascita di questo nuovo Re.

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 Foto: Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi, dettaglio

Infine, sotto l’arco di destra, i Magi giungono a Betlemme, destinazione finale del loro viaggio, ove ha luogo la scena dell’adorazione, tema fondamentale del dipinto. Sulla sinistra c’è la stalla, davanti alla quale è seduta la Vergine. I Magi sono prostrati ai suoi piedi, mentre il loro seguito, tra cui anche un cane, cavalli e animali esotici, si avvicina da destra. Due ancelle, in piedi accanto a Maria e a Giuseppe, osservano con aria interrogativa la coppa dorata donata dal più vecchio dei Magi ansiose di scoprire quali regali egli abbia portato a Gesù.

Gli effetti di luce studiati da Gentile e applicati in quest’opera, possono essere considerati i primi mai realizzati con tale rigore a Firenze. Sebbene le ombre avessero già fatto la loro comparsa in opere precedenti, si era sempre trattato di sperimentazioni. Qui, invece, si coglie l’intenzionalità dell’artista mirante alla cattura dei giochi di luci e ombre così come essi si manifestano.

L’esecuzione di questa magnifica  Adorazione fu commissionata a Gentile dal banchiere Palla Strozzi, che intendeva decorare la cappella di famiglia nella sacrestia di Santa Trinità a Firenze. La figura del committente, accanto a quella del figlio Lorenzo, è visibile al centro del dipinto, immediatamente alle spalle del più giovane dei Magi. E’ la prima volta che, nell’arte fiorentina, un committente viene raffigurato insieme agli personaggi del dipinto. Tale idea verrà ripresa in seguito, sebbene in forma diversa, dai Medici, grandi rivali della famiglia Strozzi. In ogni caso, questo intimo accostamento della figura del committente alla scena ritratta testimonia di una nuova fiducia e sicurezza in se stessi, che contrasta con l’umile subordinazione cui si attenevano in precedenza i clienti. Inoltre, lo splendore che caratterizza il dipinto, riflette l’orgoglio e la ricchezza di questo abilissimo banchiere che, secondo un documento del 1427, era l’uomo più ricco di Firenze.

                                                                                                         Lucica Bianchi