CRISTIANESIMO E LA CHIESA RUSSA

Lungo il corso dei secoli VII-IX le pianure di quella che oggi è la Russia furono interessate da un massiccio popolamento, oltre alle popolazioni nomadi presenti nella zona già da millenni iniziarono a giungervi anche i vichinghi, chiamati dalle genti del posto variaghi, che ben presto stabilirono rotte commerciali dalla Scandinavia al Mar Nero e di lì fino a Costantinopoli. I normanni riuscirono ad imporsi ben presto come classe dirigente dei popoli stanziati nell’alta valle del Dnjepr, da qui poi cominciarono a espandersi.

La regione dove si stanziarono i vichinghi era costituita dall’area oggi corrispondente all’Ucraina settentrionale, una regione quindi molto ricca di grano. Fu grazie a questa risorsa che i vichinghi poterono accedere alle immense ricchezze messe loro a disposizione dal mercato cerealicolo di Costantinopoli, la quale essendo all’epoca la più grande città del mondo aveva continuo bisogno d’approvvigionamento di beni alimentari.

Visti gli stretti rapporti con la seconda Roma, i variaghi, diventati col tempo signori di Kiev, subirono ben presto l’influenza del cristianesimo. Fu grazie all’opera dei fratelli monaci Cirillo e Metodio, che le regioni della Russia meridionale e dell’Ucraina furono convertite al cristianesimo. Il cristianesimo della chiesa russa però ebbe poco a che fare col cristianesimo occidentale, infatti la chiesa ortodossa divenne ben presto egemone nella vita religiosa dei variaghi, alla fine del X secolo sulla spinta della popolarità di cui la nuova religione godeva fra la gente e anche per ingraziarsi l’imperatore bizantino, i principi di Kiev si convertirono al cristianesimo ortodosso.

Nel 989 Vladimir principe di Kiev decise di abbandonare il paganesimo e costrinse alla conversione il suo intero popolo, da questo momento grazie alla conversione e all’appoggio di Bisanzio il principato di Kiev diverrà lo stato egemone delle terre russe, con la conversione arrivò anche la struttura ecclesiastica sulla quale i bizantini mantennero il controllo, infatti il patriarca ortodosso di Costantinopoli si garantirà il diritto di nominare il metropolita di Kiev, assumendo quindi un controllo diretto sul vertice della chiesa russa e precludendo qualunque influenza cattolica sull’evangelizzazione delle steppe.

La Russia di Kiev della fine del X e inizio del XI secolo è uno stato potente e unito, ma già con i suoi eredi, l’antico stato si suddivide in principati autonomi, tanto che dalla metà del XII secolo inizia un lungo periodo di disgregazione politica.
All’inizio del XIII secolo le terre russe subirono i primi seri attacchi dal potentissimo esercito mongolo, sotto il comando del khan Batu nipote di Gengis Khan, tanto che nella metà del XIII secolo circa, quasi tutti i principati russi si trovarono sotto il potere dell’Orda d’Oro. Contemporaneamente, nell’Impero romano d’Oriente governa la dinastia Macedone (metà del IX – metà del XI secolo); con essa si avrà una nuova fioritura delle arti, denominata dagli storici come “rinascimento macedone”. Con l’arrivo del cristianesimo in Russia si iniziano a costruire le prime chiese in muratura, e con esse, si da impulso alle nuove arti – musive, pittoriche (affreschi, icone e miniature) e le arti applicate in genere. L’imponenza e la straordinaria portata di questi edifici e opere servivano a enfatizzare la grandezza del nuovo stato cristiano e dei principi di Kiev.Le icone più antiche a noi pervenute, sono databili tra XI – inizio XII secolo; molte di queste, sono state poi portate a Mosca, nel XVI secolo, dallo zar Ivan il Terribile. Nella Cattedrale della Dormizione, presso il Cremlino di Mosca, si conserva una di queste icone, di grandi dimensioni, dipinta sui due lati – La Madonna Odigitria con Bambino (metà del XI secolo), usata per le processioni. Sul retro troviamo l’immagine di San Giorgio, martire e guerriero, in ottime condizioni rispetto all’immagine principale, mostrante la lancia nella mano destra e la spada in quella sinistra. Di norma sul lato anteriore delle icone usate per le processioni venivano dipinte l’immagine della Madonna e sul retro – la Croce o la Crocefissione o l’immagine di un santo martire come manifestazione della Passione di Cristo.

 

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L’antica immagine della Theotokos, purtroppo, risulta assai rovinata: i riflessi, le ombreggiature, ma soprattutto lo sguardo malinconico di Maria, stilisticamente, collocherebbero l’opera nel XIV secolo, periodo in cui sarebbe stata pesantemente rimaneggiata. Della vecchia immagine del XI secolo, sono rimaste solo le grosse proporzioni e le pieghe appesantite dell’abito.La composizione densa e intensa, la resa voluminosa delle forme, con allusione alla realtà, trapela invece nell’immagine di San Giorgio, sia nel volto, sia nelle mani, sia nell’armatura dipinta con straordinaria verosimiglianza e precisione, soprattutto nella riproduzione delle giunture delle diverse placche della corazza. L’immagine eroica dell’irriducibile sostenitore e difensore della fede cristiana si manifesta grazie alle grandi proporzioni: infatti, la figura arriva quasi a toccare i margini della tavola. Il colore del volto, straordinariamente chiaro e luminoso, così diverso dalla scelta artistica del secolo successivo, rende quest’opera veramente unica.

Lucica Bianchi

Quanti pezzi o frammenti della Vera Croce esistono al mondo?

Nicoletta De Matthaeis

articolo pubblicato su “Reliquiosamente

https://nicolettadematthaeis.wordpress.com/about/

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Quanti pezzi o frammenti della Vera Croce esistono al mondo? Molti. Moltissimi. E’ difficile trovare un convento, una basilica o altro luogo sacro che non abbia il suo frammento del lignum crucis, a volte quasi microscopico. Tanto è così che battute tipo: ‘se si mettessero insieme tutti i pezzettini della croce di Cristo sparsi nel mondo, ne verrebbero fuori tantissime croci!’ o altre simili, sono abbastanza diffuse, alla pari che molti altri luoghi comuni. Giovanni Calvino diceva nella sua opera “Traité des reliques” che tutti questi pezzi della croce messi insieme formerebbero da soli l’intero carico di una nave, anche se i Vangeli dicono che questo carico veniva trasportato da un solo uomo!

Però verso la metà del XIX secolo un architetto francese, Charles Rohault de Fleury, che dedicò gli ultimi anni della sua vita all’archeologia cristiana, si prese la briga di prendere in esame uno per uno tutti i frammenti della croce catalogati del mondo, ne calcolò il volume comparando il tipo di legno a cui appartengono. Poi calcolò le misure e il volume che probabilmente poteva aver avuto l’intera croce, a partire da documenti sulla pratica della crocifissione e altri dati come il tipo e la densità del legno per calcolarne il peso, e poi da una reliquia importantissima presente nella cappella delle reliquie della basilica di Santa Croce in Gerusalemme di Roma: la pars crucis bonis latronis, ossia il legno trasversale completo che si ritiene appartenuto alla croce di Disma, il Buon Ladrone, crocifisso insieme a Gesù Cristo.

Le misure della Vera Croce quindi sarebbero state di 3 metri per 1,80. Considerando la larghezza e lo spessore  (12 e 5 cm circa) delle due parti della croce, Fleury arrivò alla cosclusione che il volume totale del lignum crucissarebbe stato di 36.000 cm3 circa. Questi calcoli sono stai quasi totalitmente corroborati, molto recentemente, da Michael Hesemann, giornalista e scrittore che ha studiato molto in profondità le reliquie della passione di Cristo.

Sommando il volume di tutti i pezzettini conosciuti superiori a 1 cm3, si arriva a malapena a 4.000 cm3, ossia un po’ più del 10% del volume totale della croce. Sì certo, ne esistono moltissimi altri che sono più piccoli di un centimetro cubo, molti dei quali non sono neanche catalogati perché custoditi in piccoli monasteri o abitazioni private. Però è difficile supporre che tutti questi pezzettini di pochi millimetri messi insieme possano formare più del 90% mancante del volume totale della croce. Fleury ipotizza che al massimo potrebbero triplicare quelli catalogati. Atra cosa è invece la loro autenticità. Ovviamente di falsi in giro ce ne sono, ed è estremamamente complicato verificare la loro provenienza, soprattutto quando si tratta di frammenti molto piccoli e non documentati.

Dei frammenti più importanti esistenti, e considerati autentici, la parte più grande si trova a Roma, ben 571 cm3, poi a Venezia, 476 cm3. Il totale di tutti i pezzi che si trovano in Italia raggiunge quasi un terzo del totale di tutti i frammenti conosciuti. Fra quelli di Roma, possiamo citare i tre grossi pezzi custoditi a Santa Croce in Gerusalemme e la croce di Giustino, che ne contiene due, una magnifica opera di oreficeria del VI secolo recentemente restaurata ed esposta nel tesoro della basilica di San Pietro in Vaticano. Il volume totale di questi 5 frammenti contenuti nelle due stauroteche citate è di circa 185 cm3.

 

 

vedi articolo originale:  

https://nicolettadematthaeis.wordpress.com/2013/01/16/quanti-pezzi-o-frammenti-della-vera-croce-esistono-al-mondo/

Che cosa ha visto Egeria nel suo pellegrinaggio?

 

Nicoletta De Matthaeis

articolo pubblicato su “Reliquiosamente

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Nicoletta De Matthaeis è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. E’ una grande appassionata di arte medievale, soprattutto arte romanica, preromanica e paleocristiana, a cui ha dedicato buona parte della sua vita. Attualmente vive a Madrid e recentemente ha scritto il libro ‘Andar per Miracoli. Guida all’affascinante mondo delle reliquie romane oltre che un esaustivo articolo in lingua spagnola sui mosaici di Ravenna che è pubblicato sul sito del “Circulo Románico”, uno dei più importanti portali dedicati all’arte romanica attualmente esistenti.

Il giornale “I Tesori alla fine dell’arcobaleno”è lieto di pubblicare integralmente alcuni articoli dell’autrice Nicoletta De Matthaeis.

 

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Egeria, la famosa pellegrina in Terra Santa del secolo IV, una delle primissime, lasciò un racconto del suo viaggio, un documento di estrema importanza per ubicare i sacri luoghi, conoscere la liturgia gerosolimitana, diffusasi poi in Occidente, e molte altre preziose informazioni. Il pellegrinaggio, o diario di viaggio, fu rinvenuto nel 1884 ad Arezzo, dal giurista Gian Francesco Gamurrini. Non l’originale, ma una copia dell’XI secolo, purtroppo incompleta. Gli studi realizzati in questi ultimi anni, ci dicono che la pellegrina Egeria molto probabilmente fece il viaggio fra il 381 ed il 384 e che fosse una monaca, per il continuo uso che fa delle espressioni ‘dominae venerabiles sorores’, ‘dominae venerabiles’, ‘dominae animae meae’, ‘dominae, lumen deum’.. che hanno fatto pensare che si rivolgesse alle sue compagne/sorelle di convento per le quali scriveva il suo diario. Altri studiosi, come Elena Giannarelli, pensano che potesse trattarsi, invece, di una vedova. Però la cosa certa è che si trattava di una persona non solo colta, ricca e di alta estrazione sociale, ma anche con buoni contatti nelle alte sfere politiche. Di fatto, doveva avere il denaro sufficiente per sostenere le spese di tre anni di viaggio per lei ed il suo seguito; poi disporre di salvacondotti e lettere di raccomandazione da presentare alle diverse autorità civili e militari. Veniva ricevuta da vescovi e funzionari imperiali e, nei tratti considerati più pericolosi, era scortata da militari appartenenti a distaccamenti situati in punti strategici. Un viaggio di queste caratteristiche era reso anche possibile grazie alla pax romana dell’epoca post-costantiniana. Sappiamo che il suo paese di origine stava nell’Occidente europeo, infatti nel suo racconto menziona il Rodano comparandolo con l’Eufrate. L’ipotesi più probabile è che provenisse dalla Galizia, al Nord-ovest della Spagna. Tant’è così che nel 1984 la Spagna stampò il francobollo commemorativo ‘XVI centanario del viaje de la monja Egeria al Oriente Bíblico, 381-384’, ricordando, appunto, il sedicesimo centenario del viaggio della connazionale, cent’anni dopo il ritrovamento del famoso ‘Itinerarium’.

 

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L’itinerario, ossia la parte ritrovata, si divide in due parti principali: la visita ai luoghi biblici come il Sinai, la terra di Gessèn, il Monte Nebo, l’Egitto, l’Indumea, il paese di Giobbe, il passaggio in Mesopotamia, e poi Tarso, Seleucia e Calcedonia, ecc; e la visita ai luoghi legati alla vita di Gesù, con la descrizione della liturgia praticata nei templi eretti in questi luoghi e soprattutto nella basilica del Santo Sepolcro. La politica di Costantino aveva propiziato lo sviluppo ed il ripristino dei luoghi santi costruendo basiliche e ricercando reliquie.

In tutti i luoghi visitati la prassi era leggere la pagina corrispondente delle Scritture con le orazioni di prammatica. Nella maggioranza dei casi in tutti questi luoghi c’era un convento dove era ben accolta dai monaci che la accompagnavano nella visita e dove veniva ospitata. Era una instancabile e devota curiosa, emozionata dai luoghi che man mano visitava. Vediamone alcuni.

Sul Monte Sinai visita il luogo dove Mosè ricevette le tavole della legge la prima e la seconda volta, dove Dio gli parlò dal roveto in fiamme e dove gli comandò di togliersi i sandali perché stava calpestando una terra santa. Poi la valle dove fabbricarono il vitello d’oro contro il quale scagliò le prime due tavole.

 

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Dalla terra di Gessèn, in Egitto, attraverso il Mar Rosso ripercorre il cammino dell’Esodo. Visita Tanis, dove nacque Mosè. La terra di Gessèn, sulla riva del Nilo, era piena di vigne e frutteti ed era abitata dai figli di Israele. Questi partirono da Rameses per dirigersi verso il Sinai. Il faraone, prima di seguirli, la fece incendiare.

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Poi, già verso la terra promessa, sale sul monte Nebo, di fronte a Gerico. Dalla cima del monte, come Mosè, contempla la terra promessa, anche se lui non ci mise piede. Lì morì e lì c’è la sua tomba. Egeria da lì vede anche tutta la valle del Giordano e Segor (oggi Zoara), l’unica città rimasta dell’apentapolis del Mar Morto, le cui due più famose erano Sodoma e Gomorra.

Poi Salem, la città del re Melchisedec che si incontrò con Abramo e offrì ostie a Dio. Nella Valle del Giordano, visita la grotta del profeta Elia, il luogo dove fu battezzato San Giovanni Battista, Enon, e poi vede la pietra dove fu trovato il corpo di Giobbe.

Arriva fino in Mesopotamia di Siria, e a Edessa il vescovo le regala le lettere che il re Agbar (re di Edessa) mandò a Gesù per mezzo di Anania supplicandolo di curarlo, e la risposta di Cristo fattagli recapitare dall’apostolo Giuda Taddeo. Queste lettere protessero Edessa ed il palazzo dall’invasione persiana. In questa città visita anche il sepolcro dell’apostolo Tommaso, morto in India. Poi Antiochia, direzione Costantinopoli, passando da Tarso, città natale di San Paolo. Giunta a Costantinopoli, esprime il desidero di visitare il sepolcro di San Giovanni ad Efeso, ma il racconto si interrompe.

 

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A Gerusalemme vi rimane parecchio tempo e la descrizione che fa dei sacri luoghi e delle cerimonie è molto dettagliata. La basilica costantiniana del Santo Sepolcro era formata da tre parti: la Anàstasi, ossia la Resurrezione, un’edicola circolare costruita sulla tomba che conteneva i resti della grotta identificata come luogo della sepoltura di Gesù con dentro un letto di pietra; il Martyrium, una basilica a cinque navate di fronte all’Anàstasi, ed il Calvario (o Golgota) luogo della crocifissione di Gesù. Una grande croce indica il luogo esatto. Poi il Triportico (un atrio chiuso), costruito attorno alla roccia del Calvario. Egeria resta abbagliata dalla decorazione in oro, pietre preziose e sete ricamate in oro sia di questa basilica che di quella di Betlemme. Anche l’arredamento è tutto decorato in oro e gemme. Poi ancora visita, a Betania, la casa di Lazzaro, che fu resuscitato da Cristo, dove viveva con le sorelle Marta e Maria.

Ci parla della processione verso la chiesa del monte degli Ulivi (o Eleona), costruita sulla grotta dove Cristo si appartò con gli apostoli il giovedì santo, e che da lí sale verso l’Imbomon(la collina), il luogo da dove Gesù salì al cielo. Qui si venera la pietra con le impronte sacre che Cristo lasciò nel momento dell’Ascensione. Esistono ancora, ma se ne vede sola una, quella del piede sinistro perché pare che quella del piede destro la presero i turchi per portarla al tempio di Salomone, quindi tagliarono la pietra.

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Descrive anche l’adorazione della reliquia della Santa Croce il venerdì santo. Sul Golgota, dietro la croce, il vescovo si sedeva in cattedra. Davanti a lui veniva sistemato un tavolo, coperto da un panno, intorno al quale si disponevano i diaconi. Veniva portato un cofanetto d’argento contenente il legno della croce che era esposto insieme all’iscrizione (INRI). I fedeli passavano uno alla volta per baciare il santo legno. Ma la sorveglianza era molto stretta per evitare che il bacio non fosse un morso, come già era successo nel passato, un espediente per portarsi a casa un frammento della Vera Croce. Questi vigilanti erano chiamati ‘staurofilakes’ dal greco ‘staurós’ (croce) y ‘philos’, amico.

E così, una ad una, descrive tulle le celebrazioni più importanti: la Quaresima, la Pasqua, Pentecoste, la preparazione dei catecumeni, il Battesimo. Non manca una visita a Betlemme, alla basilica della Natività, costruita sulla grotta dove nacque Gesù.

Ma questi che ho dato sono solo pochi cenni. L’itinerario è ricco di spunti, di riflessioni e di notizie interessanti, tanto da invogliare alla sua lettura. Magnifico per i viaggiatori e giramondo indefessi, anche se i problemi per viaggiare liberamente in alcune di quelle zone dopo tanti secoli, non sono ancora risolti.

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Per saperne di più: 1) Elena Giannarelli. Egeria – Diario di vaggio,  Milano 2000.   2) Manuel Domínguez Merino. Itinerario o Peregrinación de Egeria. Mérida 2005

 

(vedi articolo originale:https://nicolettadematthaeis.wordpress.com/2013/03/26/che-cosa-ha-visto-egeria-nel-suo-pellegrinaggio/)

IL CULTO DI SAN NAPOLEONE

Al culmine della vittoria di Austerlitz il 2 Dicembre 1805, si volle avere la celebrazione del genetliaco dell’imperatore. Le ricerche in tal senso portarono alla scoperta di un santo martire di nome Neapolis, compagno di San Saturnino. Da qui venne intessuta la leggenda di un martire, dapprima torturato, poi agonizzante in prigione fino alla morte. Si ricorda il 15 Agosto.

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San Napoleone, Duomo di Milano(tetto)

Come “San Carlomagno”, il “San Napoleone” appartiene alla storia politica piuttosto che all’agiografia che è valsa solo a nascondere discutibili ambizioni in nessun modo riconducibili ad un autentico culto dei santi. Si sa che Napoleone Bonaparte, futuro impera­tore dei Francesi, nacque ad Aiaccio il 15 agosto 1769. Soltanto dopo il 1801 si manifestò, forse non tanto da parte di Napoleone quanto del suo ambiente, la preoccupazione di utilizzare questa data per consolidare il prestigio popolare dell’uomo la cui ambizione cresceva in proporzione ai suoi successi. Man mano che si allontanava la bufera rivoluzio­naria, infatti, l’anniversario del 14 luglio appariva sempre meno opportuno e per contro, il 15 agosto, festa dell’Assunta, era celebrato con una processione detta del “voto di Luigi XIII” e perciò stret­tamente collegata al decaduto Ancien Regime. Sembrava quindi di estremo interesse profittare di queste tradizioni popolari per sostituire all’antica festa una nuova, tutta orientata alla glorificazione del fondatore del Nouveau Regime; e molti piccoli fatti dovevano permettere di raggiungere progressi­vamente tale scopo.

 

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Il testo definitivo del Concordato era stato au­tentificato il 15 luglio 1801 e, cedendo ai suggerimenti di Portalis, suo ministro dei culti, Bonaparte avrebbe desiderato che venisse pubblicato il 15 agosto. A quella data il Concordato sarà firmato soltanto da Pio VII, ma si vedrà come questa felice conclu­sione fu poi utilizzata qualche anno dopo nel testo del decreto che istituiva il “San Napoleone”.
Il 3 agosto 1802 Bonaparte era nominato console a vita e la nomina fu resa pubblica il 15, nel giorno genetliaco del “Primo Console “.

 

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A partire dal 1803 nell’Almanac National la festa di San Rocco (16 agosto) viene sostituita con quella di San Napoleone, ma si tratta solo di un calendario laico che, d’altra parte, riproduce contemporaneamente il calendario rivoluzionario e quello gregoriano. L’agio­grafia non vi entra ancora per nulla. È solo nel 1805 che l’introduzione della festa di San Napoleone comincia a porre alcuni problemi: il 18 ottobre,su richiesta dei canonici di Nizza, che desideravano dedicare uno degli altari della chiesa di S. Croce a San Napoleone, il ministro Portalis faceva rispondere che l’imperatore non aveva il potere di autorizzare questa dedica, ma che, naturalmente, nulla gli sarebbe riuscito più gradito che vedere così onorato il suo patrono.
La vittoria di Austerlitz, il 2 dicembre 1805, portò l’esaltazione al suo culmine e fra i voti espressi dal tribunato figura quello di una celebrazione del genetliaco dell’imperatore. Non si parla ancora, quindi, di una festa di San Napoleone, ma il 4 gennaio 1806, Portalis fa notare che, se la monarchia celebrava S.Luigi, l’impero poteva ben celebrare San Napoleone. Con un decreto del 19 febbraio 1806 si stabilì dunque che ” la festa di San Napoleone e quella del ristabilimento della religione cattolica in Francia saranno celebrate in tutto il territorio dell’impero al 15 agosto di ogni anno, giorno dell’Assunzione e data della conclusione del Concordato”.Un così ampio e diffuso interesse delle gerarchie ecclesiastiche francesi verso San Napoleone e il suo culto doveva essere determinato dal profondo rilievo politico attribuito dal regime a tale iniziativa, finalizzata certamente ad alimentare il crescente culto personale di Bonaparte, culto che andava ad attingere anche la tradizione cattolica. Questa decisione veniva ratificata il 3 marzo sul piano ecclesiastico dal cardinale legato Giovanni Battista Caprara, occupato allora a nego­ziare a Parigi la messa a punto del famoso Catéchisme imperial.
Restava ora da vedere chi doveva essere questo S. Napoleone il cui culto era cosi brutalmente imposto ai fedeli dell’impero. Il 14 marzo il vescovo di Tournai, Francesco Hirn, ordinava al clero e ai fedeli di commemorare, il giorno dell’Assunzione, un San Napoleone vescovo, promettendone l’Ufficio per un tempo successivo. Di fatto, il 21 maggio, il cardinale legato mandava a tutti i vescovi una “Istruzione” a proposito di San Napoleone con una leggenda “redatta dopo esatte ricerche e notizie acquisite sul santo”. Le ricerche intraprese sotto la sua direzione ave­vano, in realtà, scoperto nel Martirologio di Bene­detto XIV, al 2 maggio, in Roma, un santo martire Neopolis, compagno di S.Saturnino; i manoscritti del Martirologio Geronimiano, invece, ponevano il mar­tirio in Alessandria. Mescolando abilmente le due notizie, senza insistere sui particolari, era possibile intessere la “leggenda” di un martire, dapprima torturato poi agonizzante in prigione fino alla morte.
Occorreva ancora spiegare il passaggio da questo Neopolis a Napoleone e vi provvidero le risorse della filologia che prescrissero di inserire nella leggenda un dotto paragrafo secondo cui ” ex his quibus carcer pro stadio fuit, Martyrologia et veteres scrip-tores commendant Neopolim seu Neopolum qui ex more proferendi nomina medio aevo in Italia invalescente et ex recepto loquendi usu Napoleo dictus fuit atque italice Napoleone communiter nuncupatur “.
Cosi dunque, per la prima volta, si potè cele­brare ufficialmente e liturgicamente S. Napoleone, il 15 agosto 1806, più a gloria dell’imperatore che ad onore del santo martire, fino a quel momento ignorato. Nel corso dell’Ufficio era prevista, infatti, oltre al Te Deum, un’omelia in lode del sovrano, pronunciata dinanzi alle personalità ufficiali “civili, militari e giudiziarie”. Si giunse persino a diffidare alcuni vescovi, specialmente nel Belgio, per non aver messo sufficiente calore nell’esaltazione.
A Roma, tuttavia, queste innovazioni in materia di culto dei santi, non incontrarono soverchia approvazione. Il cardinale Di Pietro redasse, all’inten­zione di Pio VII, un’opera in cui protestava per la sostituzione di una festa mariana tanto impor­tante per le sue implicazioni dogmatiche, con la festa di un santo introvabile: era un nuovo abuso del potere temporale contro cui il papa doveva protestare. Ma Pio VII non poteva farlo senza sconfessare il suo legato e vi erano interessi più importanti da salvaguardare, sia pure chiudendo gli occhi su di una sopraffazione agiografica.
Gli avvenimenti politici si incaricarono ben presto di porre nell’oblio la festa di S. Napoleone. Il 16 luglio 1814 il re Luigi XVIII annullò i decreti relativi alla celebrazione del 15 agosto; nel 1852, poi, l’imperatore Napoleone III emise un decreto che riconosceva nuovamente quella data come festa nazionale, ma semplicemente in quanto anniversario della nascita di suo zio e non come giorno di S. Napoleone. Tale è la breve storia del culto di un martire che nacque più dall’immaginazione degli adulatori che dalla realtà storica con cui ha ben pochi rap­porti. Il culto di S. Napoleone, tuttavia, doveva servire a mantenere in Francia la celebrazione tradizionale del 15 agosto come festa d’obbligo, che altrimenti sarebbe certamente stata soppressa, come molte altre, negli articoli organici aggiunti al Concordato del 1801.

Lucica Bianchi

fonte: Bibliotheca Sanctorum, (collana), Città Nuova Ed.

Un sentito ringraziamento va a Trifone Cellamaro, bibliotecario nella Veneranda Biblioteca Ambrosiana, per il costante appoggio e sostegno nelle proposte, ricerche, studi ed approfondimenti di vari articoli. (L.B.)

LA SACRA SINDONE

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La Sindone è un documento la cui unicità e irripetibilità dell’immagine è sconvolgente. L’uomo della Sindone è lì, muto, a farci discutere. Presenza enigmatica che attualizza un evento bimillenario.

Il credente è del tutto libero e sereno nella ricerca-ha sottolineato il cardinale Giovanni Saldarini, arcivescovo di Torino e custode della Sindone-mentre l’incredulità potrebbe trovarsi a disagio se, sulla base degli esami storico-scientifici, dovesse essere obbligata a comporsi con la convinzione di avere in mano il vero lenzuolo in cui Cristo fu avvolto. 

C’è da considerare che l’accettare o meno l’autenticità della Sindone è proporzionale alla conoscenza delle problematiche ad essa connesse. Il primo approccio di una persona colta ma disinformata nel campo specifico, è forzatamente scettico. Poi, se si supera questo rifiuto iniziale e si approfondisce l’argomento, subentrano il dubbio, la possibilità, lo stupore, la commozione. E’ questo il percorso di tanto studiosi, che dopo aver piegato la mente all’evidenza, hanno piegato le ginocchia alla preghiera.

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E’ questo il percorso cui viene invitato il lettore, alla luce di notizie documentate. Scrive il cardinale Saldarini: Comunque sia prodotta la Sindone-è bisognerà pure che questo unicum storico-scientifico, oggi più sorprendente che mai, sia spiegato positivamente dalla scienza attraverso una ricerca interdisciplinare concorde e interiormente libera-per chi la guarda e nello stesso tempo legge i Vangeli è inevitabile l’impressione che offra la descrizione figurativa di quanto essi narrano. 

La Sindone ci interpella e ci inquieta. Perciò merita di essere considerata dono di Dio alla Chiesa: il mistero della sua origine continua a richiedere atteggiamento di umiltà e di ricerca, spirituale e storico-scientifica.

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La parola “sindone”deriva dal termine greco sindon (tela di lino), che veniva usato nell’antichità per definire una porzione di panno destinato ad un determinato uso, ad esempio un lenzuolo. La Sindone, conservata a Torino da più di quattro secoli, è un grande pezzo di stoffa rettangolare, che misura 4,36 m di lunghezza e 1,10 m di larghezza. Il tessuto, consistente e robusto, è di lino puro di colore giallastro. Dal 1534 è cucito e impunturato su una tela bianca d’Olanda applicata come fodera di sostegno dopo l’incendio del 1532; quest’incendio provocò le bruciature che percorrono tutto il lenzuolo e sembrano incorniciare la doppia figura umana, frontale e dorsale, che vi si scorge.

All’inizio la Sindone era probabilmente più lunga di circa 30 cm: si hanno varie notizie di asportazioni di piccoli frammenti, distribuiti a chiese e monasteri come reliquie. Un bordo di raso azzurro segue il perimetro del lino. Lungo il lato superiore della Sindone, disposta come vuole la tradizione, e cioè con l’immagine frontale del corpo a sinistra di chi guarda, fu cucito nel 1868 dalla principessa Maria Clotilde di Savoia un telo di raso rosso che viene stesso a proteggere l’immagine quando il lenzuolo è riposto nel reliquiario.

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Un esperto tessile, Virgilio Timossi, esaminò la Sindone nel 1931: constatò che il lino presenta una manifattura rudimentale. La conferma venne da Silvio Curto, incaricato di Egittologia all’Università di Torino, sovrintendente alle Antichità Egizi, il quale dal 16 al 18 giugno 1969 fece parte di una commissione di esperti che studiò la Sindone per incarico del cardinale Michelle Pellegrino, arcivescovo di Torino. Il lino usato per la fabbricazione della Sindone fu filato a mano. Ogni filo del tessuto, composto di 70-120 fibrille, presenta un diametro variabile e la torcitura “Z”, in senso orario, opposta a quella “S”, antioraria, più comune nell’antico Egitto. Questo elemento fa pensare ad un’origine siro-palestinese: lini con torcitura “Z” sono stati infatti rinvenuti a Palmyra (Siria), Al-Tar (Iraq) e nel deserto della Giudea. L’intreccio del tessuto, anch’esso irregolare, fu realizzato con un metodo arcaico su un telaio manuale molto rudimentale. Esso presenta salti di battuta ed errori.

La Sindone potrebbe risalire benissimo al sec. 1 d.C., dato che, in antiche tombe egizie (Beni Assan, 3000 a.C.), si trovano già raffigurati telai idonei a produrre tale tipo di tela. Il lino veniva tessuto dagli Egiziani in teli di grandi dimensioni. Per quanto riguarda i lenzuoli funebri, è normale che venissero rapidamente distrutti dalla stessa decomposizione dei corpi. In Egitto invece, la mummificazione del corpo e l’applicazione di molteplici bende e fasciature hanno assicurato la conservazione di alcuni lenzuoli tombali.

Un lenzuolo che risale al 1996-1784 a.C., lungo sette metri e stretto come la Sindone, si trova nel Museo egizio di Torino ed è perfettamente conservato. La tela di lino, secondo Curto, fu il tessuto egiziano per eccellenza fino al 111 sec. d.C. E’ probabile che durante la prigionia in Egitto, gli Ebrei abbiano imparato bene l’arte della tessitura. Curto però fa una distinzione sul tipo di “impianto” del tessuto. I panni egizi, infatti, sono quasi tutti lavorati “a tela” ortogonale; il tessuto “a spina di pesce”, invece, è di origine mesopotamica o siriaca. Ai tempi di Gesù questa tecnica era diffusa nell’area medio-orientale ed era largamente usata in Siria. Il tessuto della Sindone deve essere dunque arrivato in Palestina da regioni limitrofe come la Siria, Mesopotamia.

Il famoso scrittore Italo A. Chiusano nota che la figura umana visibile sull’antico lino conservato a Torino non rientra in alcuna stile artistico; nessuno avrebbe potuto realizzare un’opera simile, in nessuna epoca. Ogni immagine del mondo-sottolineava Chiusano-, dai graffiti preistorici ad oggi, reca tracce evidentissime dello stile di chi l’ha fatto, o dell’epoca in cui è nata. C’è un Cristo Romano, un Cristo Gotico, un Cristo Roccocò, un Cristo Astratto. La sacra Sindone, non soltanto non può essere un dipinto, ma non può essere opera né di un francese, né di un bisantino, né di un gotico. Infatti, tutte le altre immagini create dall’uomo, da quelle delle grotte di Lascaux o di Altamira, fino alle creazioni di Picasso o di Salvator Dal’, recano sempre lo stile di un’epoca e di una personalità artistica, mentre la Sindone si sottrae del tutto a questo “sigillo” culturale e formale. 

E’ molto difficile scrivere la parola “fine” quando si parla della Sindone. Resta la domanda: “E voi, chi dite che io sia? ” ( Marco 8,29-30)

Per questo la Sindone-ha ricordato Lamberto Schiatti, sacerdote e giornalista- continua ad appassionare l’opinione pubblica, sfidando la scienza e provocando credenti e non-credenti con il fascino di un ,mistero che ciascuno lo vorrebbe definitivamente svelato. Nel silenzio della morte, L’Uomo della Sindone interpella l’umanità come il Cristo duemila anni fa: “E voi, chi dite che io sia?

Noi sappiamo-ha affermato il cardinale Ballestro-, che nella Sacra Sindone l’immagine misteriosa dell’Uomo crocifisso è sconvolgente. E’un segno al quale possiamo fare riferimento per rendere più viva la nostra meditazione sulla passione e la morte del Signore.

Cosi Giovanni Paolo 11 ha definito la Sindone: Una reliquia insolita e misteriosa, singolarissimo testimone-se accettiamo gli argomenti di tanti scienziati-della Pasqua, della Passione, della Morte e della Resurrezione. Testimone muto, ma nella stesso tempo sorprendentemente eloquente!.

In quella carne miserabile-rifletteva lo scrittore Francois Mauriac-, uscito dal un abisso di umiliazione e di tortura, Dio risplende con una grandezza dolce e terribile e quel volto augusto richiama l’adorazione forse ancor più dell’amore.

E’ nudo. Tutto ha dato per redimerci.

E’ muto. Parlano per Lui le Sue pieghe.

Ci guarda con gli occhi chiusi da dietro quel lino che un giorno ha attraversato. E così ci accoglierà quando noi, a nostra volta, lo attraverseremo.

Lucica Bianchi

LE RELIGIONI DELL’ORIENTE

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Città addobbata per la festa di Shiva, in India. Migliaia di persone accorrono ogni anno alle tradizionali feste induiste, che si svolgono sulle rive del fiume Gange.

Le grandi correnti religiose mondiali assunsero una forma definita fra l’800 e il 500 a.C. Fra gli Ebrei s’impose il monoteismo. Gli insegnamenti dei profeti gettarono le basi dalle quali in seguito si sarebbero sviluppati il Cristianesimo e l’Islamismo. In Persia, Zoroastro predicava un genere di monoteismo che comprendeva anche il principio del male. In India si composero i libri sacri principali, le Upanisad (termine che significa “dottrina arcana”), le quali, oltre a riflettere l’insegnamento dei più antichi inni vedici, comprendevano pure nuovi elementi, fra cui importante è la dottrina della reincarnazione.

Ṛgveda. Manoscritto in devanāgarī, XIX secolo. Dopo una benedizione ("śrīgaṇéśāyanamaḥ ;; Aum(3) ;;"), la prima riga apre con il primo verso del primo inno del Ṛgveda (1.1.1): Agniṃ ; iḷe ; puraḥ-hitaṃ ; yajñasya ; devaṃ ; ṛtvijaṃ (Ad Agni rivolgo la mia preghiera, al sacerdote domestico, al divino officiante del sacrificio).

Ṛgveda. Manoscritto in devanāgarī, XIX secolo. Dopo una benedizione (“śrīgaṇéśāyanamaḥ ;; Aum(3) ;;”), la prima riga apre con il primo verso del primo inno del Ṛgveda (1.1.1): Agniṃ ; iḷe ; puraḥ-hitaṃ ; yajñasya ; devaṃ ; ṛtvijaṃ (Ad Agni rivolgo la mia preghiera, al sacerdote domestico, al divino officiante del sacrificio).

La sintesi risultante da queste due correnti costituisce il fondamento del pensiero indù.

Contemporaneamente si facevano avanti maestri che intendevano rompere con la tradizione vedica ortodossa: fra questi il più importante fu il Buddha (l’Illuminato),  predicava una religione che si sarebbe diffusa in quasi tutta l’Asia meridionale e Orientale.

Una raffigurazione di Buddha

Una raffigurazione di Buddha

 In Cina, nel frattempo, Confucio e Lao-Tzu formulavano i principi del Confucianesimo e del Taoismo.

Confucio

Confucio

Lao-Tzu

Lao-Tzu

Tutte queste religioni implicavano un allontanamento dal politeismo: gli antichi Ebrei giunsero a considerare Geova l’unico dio; Confucio vede nel Cielo un “essere supremo”; l’induismo esprime una fede in un Signore personale che governa altre divinità o si manifesta in esse; per il Buddha gli dèi non sono importanti e la salvezza proviene dal raggiungimento di uno stato di pace e di felicità, inteso in senso del tutto diverso rispetto alle correnti di pensiero in uso, in quanto derivante dall’annientamento di ogni sensazione-e quindi anche del dolore-, noto come nirvana.

La trasmissione da maestro ad allievo, che spesso viene considerata tipica delle religioni e delle filosofie orientali, avviene attraverso dialogo e confronto, e non esclusivamente attraverso dogmi. Enigmi, indovinelli, domande si risolvono mediante il dialogo. Proprio questa apertura mentale porta all’esistenza, nelle filosofie orientali, di diverse scuole senza che vi siano netti scismi: senza dogmi fissi, si accettano le teorie delle altre scuole come si accettano diverse teorie fisiche, finché una non si dimostra migliore delle altre.

                                                                                                                                Lucica

LA RELIGIONE ROMANA

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Scultura in bronzo raffigurante Marte, Veneto XVI sec., su base in marmo bianco, altezza cm 25, con base cm 34. Ritenuto padre di Romolo, il leggendario fondatore di Roma, Marte fu particolarmente caro ai Romani, che lo veneravano con feste solenni all’inizio della primavera e in ottobre. Ciò era dovuto sia alle sue relazioni con gli eventi del mondo agricolo, sia al fatto che a primavera si allestivano le imprese militari, che terminavano con l’autunno.

Molto prima che avesse inizio la documentazione storica, le tribù latine della costa centro-occidentale d’Italia credevano in un gran numero di spiriti impersonali e di numi (forze soprannaturali). I numi abitavano luoghi e cose particolari, per una ragione o per l’altra misteriose o sacre (per esempio, il legno e i boschetti, i fiumi e la casa). I Latini si servivano di vari riti per respingere il male che gli spiriti e i numi emanavano o per incoraggiare le loro buone disposizioni. Con lo sviluppo di Roma, dal VI secolo a.C.circa, i numi e gli spiriti ricevettero gli attributi di dèi personificati, specialmente il gran dio del cielo Iuppiter (cioè Giove), Marte (in origine uno spirito della vegetazione, poi dio della guerra), Giunone (la sposa di Giove e, come la greca Era, molto interessata alle faccende delle donne) e Minerva (di origine etrusca e protettrice delle arti e dei mestieri, nonché, come Marte, dea della guerra).

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Statua della dea Minerva, Museo del Louvre,Parigi. Minerva fu una dea romana identificata con la greca Atena. Figurava nella triade capitolina a fianco di Giunone e Giove, ma non sembra che appartenga alla divinità del primitivo pantheon latino. Il termine Minerva fu importato dagli etruschi che la chiamavano Menrva. I romani ne confusero il nome straniero con il loro “lemma mens”(mente) visto che la dea governava non solo la guerra, ma anche le attività intellettuali.

Dal IV secolo a.C. circa, la religione latina si sviluppò su due linee, di cui una tra gli agricoltori e l’altra nella città di Roma, che cresceva rapidamente. I contadini continuarono i culti animistici (spiriti e numi), mentre in città la religione di Stato politeistica assumeva particolare importanza. La divinazione, per esempio, derivava in parte dai rituali etruschi: il popolo credeva che gli dèi rivelassero la loro volontà per mezzo delle grida degli uccelli, dei fulmini, dei sogni, delle interiora di animali, degli oracoli e così via. I sacerdoti avevano il compito di decifrare tali segni, e nessun capo cittadino avrebbe preso una decisione importante senza una divinazione favorevole.

Alla fine del III secolo a.C. entrò in gioco un’altra forza: Roma conquistò l’Italia Meridionale, dove l’influenza culturale greca era molto forte. Gli dèi greci vennero allora uguagliati a quelli di Roma: Poseidone fu Nettuno, Demetra Cerere, Ermes Mercurio, Zeus Giove e così via, il che confermò e accentuò la tendenza degli spiriti e dei numi a mutarsi in dèi con attributi umani.

I Romani pii di quel tempo coltivavano due atteggiamenti: la religio o sacro timore alla presenza degli spiriti e degli dèi, e la pietas o devozione e rispetto verso gli dèi, la patria, i genitori. Essi sottolineavano il lato formale, rituale della religione al fine di rafforzare i vincoli dello Stato e della famiglia, e non definirono chiaramente alcuna fede nell’immortalità fino al I secolo a.C., quando le speculazioni dei filosofi greci cominciarono a far breccia nel pensiero romano. Gli spiriti dei morti erano per loro simboleggiati dai Mani, originariamente affini alle divinità infernali.

La filosofia greca ebbe un duplice effetto, portando innanzi tutto allo scetticismo religioso. Il poeta Lucrezio (I secolo a.C.) espresse questo scetticismo nel suo De Rerum Natura con questi versi, scritti sotto l’influenza della dottrina epicurea:

“Tutti gli uomini sono stretti da paura quando osservano molti fenomeni terrestri e celesti di cui non riescono in alcun modo a scorgere le cause: allora essi ritengono che avvengano per volontà di un dio”.

Secondo e più importante effetto della filosofia greca fu l’adozione dello stoicismo da parte di molte persone illustri, mentre altri se ne lasciarono comunque influenzare. Questa filosofia fortemente morale spinse alla reinterpretazione dei valori tradizionali religiosi ed etici. Per gli stoici il cosmo era un tutto unitario: come un organismo, esso aveva qualità intellettuali e materiali. Un essere umano è così un microcosmo e dovrebbe automaticamente vivere in armonia col tutto. Lo scopo degli stoici nella vita era il raggiungimento della virtù perfetta, la quale rende l’uomo saggio e autosufficiente conferendogli una libertà simile a quella dell’intelligenza cosmica. Ma lo stoicismo assunse nella sua forma romana maggiore praticità: per esempio, l’ideale greco del saggio come persona tanto autosufficiente da poter vivere staccata dal mondo fu sostituito dall’ideale dell’uomo coraggioso e padrone di sé che esegue meticolosamente i propri doveri sociali e religiosi.

L’influenza delle religioni dell’Asia occidentale si accrebbe col passar del tempo. primi a distinguersi-nei secoli II e I a.C.- furono i culti della dea frigia Cibele, la “Gran Madre” o Magna Mater, e della dea della Cappadocia Ma (identificata con la dea della guerra Bellona).

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Statua in marmo di Cibele del I secolo a.C. da Formia, Lazio.
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Lucus Bellonae. Tre templi pare sorgessero in Roma, dedicati a questa divinità antichissima, più tardi identificata con la dea Lunare, culto molto diffuso nell’Asia Minore, con il suo centro in Cappadocia, e introdotto in Roma dopo le guerre contro Mitridate (88-85 a.C.)

Si diffusero anche i misteri di Iside e poi il culto di Mitra. Il loro successo, ottenuto a dispetto dell’opposizione della religione ufficiale dello Stato, sta a testimoniare della necessità che si sentiva di culti che avessero un significato individuale e non facessero parte della religione tradizionale allora ampiamente screditata. Quella religione che riprese vita, quando, seguendo i rituali delle dinastie ellenistiche orientali, i Romani cominciarono ad adorare i loro imperatori. Tale pratica le conferì un ruolo universale in tutto l’Impero. Ciò nonostante le religioni misteriche continuarono a rivaleggiare con essa, fino a che il Cristianesimo, divenuto la religione ufficiale, le soppiantò definitivamente.

Lucica

 

LA RELIGIONE GRECA

Nel secondo millennio a.C. la religione dei popoli di Creta e di Micene consisteva principalmente nel culto della fecondità e fertilità collegato alla dea madre.

Dea dei Serpenti dal Tesoro Sacro del palazzo di Cnosso, 1600 a.C.

Dea dei Serpenti dal Tesoro Sacro del palazzo di Cnosso, 1600 a.C

Dea dei Serpenti, Egeo, Creta, 1600 a.C.

Dea dei Serpenti, Egeo, Creta, 1600 a.C.

Nel 1100 a.C. tale culto fu sconvolto dai Dori, popolo invasore proveniente dalla Grecia Centrale, la cui religione si imperniava sugli dèi dell’Olimpo. Al tempo di Omero (intorno al IX secolo a.C.) la forma che la religione greca doveva mantenere poi per più di sei secoli era già ben determinata: il culto della dea-madre si era offuscato e, benché sopravvissero tracce della primitiva religione, erano gli dèi dell’Olimpo con a capo Zeus ad avere il sopravvento.

Busto di Zeus esposto al Museo archeologico Nazionale di Napoli

Busto di Zeus esposto al Museo archeologico Nazionale di Napoli

Benché il Zeus fosse il sommo, i Greci lo consideravano più il governatore del mondo che il suo creatore. In verità, persino la sua supremazia era limitata dal fatto che gli altri dèi possedevano volontà e funzioni indipendenti. Fra essi i più importanti erano: Apollo (identificato anche con Febo, il dio della luce), che si interessava di medicina, di animali, di musica e dell’oracolo di Delfi; Era, sposa di Zeus e protettrice del matrimonio; Poseidone, dio del mare e provocatore dei terremoti; Atena, patrona della città stato di Atene e dell’ arte; Afrodite, dea dell’amore. Ancora poco importante ai tempi di Omero, giunse più tardi a occupare uno dei primi posti Dionisio, divinità della vegetazione e figura centrale di culti misterici.  Atena e Afrodite sono probabilmente superstiti del culto preolimpico della dea madre, che assunse importanza nei misteri eleusini, riti religiosi misterici che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra nell’antica città greca di Eleusi.

Placca votiva in terracotta, ritrovata nel santuario di Eleusi, Grecia, IV secolo a.C.

Placca votiva in terracotta, ritrovata nel santuario di Eleusi, Grecia, IV secolo a.C.

Man mano che la città-stato si sviluppava, la religione si mescolava sempre più alla vita politica e civica. Il culto pubblico veniva disciplinato dalla comunità, più che da una casta sacerdotale, e le numerose feste (70 all’anno) diventavano occasioni per atti ufficiali, come il ricevimento di ambasciatori, le onoranze a cittadini e così via. Questo formalismo spiega in parte perché certi culti misterici- l’orfismo e i misteri eleusini, per esempio- presero piede: essi appagavano i bisogni individuali come non erano in grado di fare le cerimonie civiche. Molti Greci, inoltre, erano sempre più scontenti della mitologia omerica, perché gli dèi dell’Olimpo rispecchiavano i costumi di un’aristocrazia conquistatrice. La mitologia olimpica venne sottoposta ad una critica severa durante l’età classica (V e IV secolo a.C.) soprattutto da Platone.

La disputa tra Appolo e Ercole per il tripode. Pelike attica(tipo di anfora greca con corpo rigonfio nella parte inferiore, usato nella ceramica attica dal 6° al 4° sec. a. C.) a figure rosse, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma

La disputa tra Apollo ed Ercole per il tripode.
Pelike attica(tipo di anfora greca con corpo rigonfio nella parte inferiore, usato nella ceramica attica dal 6° al 4° sec. a. C.) a figure rosse, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma

Dipinto vascolare raffigurante Zeus che invia un'aquila a divorare il fegato di Prometeo.

Dipinto vascolare raffigurante Zeus che invia un’aquila a divorare il fegato di Prometeo.

Il busto di Platone( 427-347 a.C. circa), il filosofo che rilevò l'assoluta mancanza di valori etici della mitologia greca.

Il busto di Platone( 427-347 a.C. circa), il filosofo che rilevò l’assoluta mancanza di valori etici della mitologia greca.

Ciò nonostante, la religione formale comprendeva una serie di feste importanti dal punto di vista spirituale e culturale: il teatro ad esempio, traeva le sue origini da rappresentazioni religiose e culti misterici. Alcune di queste manifestazioni erano panelleniche e promuovevano in questo modo l’unità delle popolazioni greche. Fra esse le due più significative erano i giochi olimpici e quelli pitici, i quali comprendevano gare atletiche e concorsi di musica e di poesia.

A incoraggiare l’unità greca c’era un’altra forza religiosa- l’oracolo di Delfi. Qui la sacerdotessa dava, in veste di portavoce di Apollo, consigli enigmatici su questioni religiose, etiche e politiche ai postulanti provenienti dalle diverse città-stato.

Gli scrittori delle tragedie classiche seguirono i dettami della religione formale ed espressero certe idee chiave che nei miti olimpici di Omero si possono vagamente intravedere. Così Eschilo personificò nelle sue opere i concetti di fato – la forza che controlla le faccende umane sia tramite la volontà degli dèi, sia attraverso le passioni degli uomini- e di hybris – ciò che spinge l’uomo a cercare l’uguaglianza con gli dèi, attirando perciò le catastrofi.

Ma alla fine dell’età classica, l’influenza della religione tradizionale sui cittadini greci colti andava diminuendo: ci si volgeva o ai vari culti misterici, che offrivano una partecipazione personale, o ai credi razionalistici dei filosofi. Dopo la conquista e l’unificazione della Grecia da parte di Alessandro Magno questo processo si accentuò, cosi che stoicismo e epicureismo giunsero a esercitare un forte fascino; contemporaneamente i culti ufficiali incorporarono quello dei nuovi governanti, un costume persiano adottato da Alessandro. Questo tipo di culto politico fu più tardi tributato agli imperatori romani per alcuni secoli.

Se tuttavia al livello mitologico gli dèi dell’Olimpo finirono col non avere più molto significato spirituale per i Greci colti, la loro brillante mondanità si dimostrò il meraviglioso modello sul quale venne plasmata l’arte greca: il naturalismo e le proporzioni della scultura greca riproducevano infatti la descrizione omerica degli dèi come uomini trasfigurati.

Matilde,Marta Francesca,Lucica

LA RELIGIONE MESOPOTAMICA

La religione della Mesopotamia (letteralmente, il paese “tra i fiumi” Tigri ed Eufrate) ebbe origine fra i Sumeri. Per lingua e ascendenza essi erano estranei ai due gruppi principali antichi dell’Asia occidentale, i Semiti e gli Indoeuropei.

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Stele recante le principali divinità mesopotamiche con i loro simboli

Furono tre gli dèi che dominarono il pantheon sumerico: Anu, il dio del cielo, Enlil, il dio del vento, e Enki o Ea, il dio delle acque. Essi governavano dunque le tre divisioni del cosmo: Anu, benché in teoria il sommo, aveva un’influenza minima nelle cose umane ed era Enlil, il suo braccio destro, che governava la Terra. I Sumeri riconoscevano centinaia di altri dèi, i cui nomi e le cui qualità variavano da una città stato all’altra. Con i mutamenti di potere politico questi dèi minori assunsero sempre maggiore importanza e furono aggiunti ai tre dèi principali, giungendo talvolta persino a prenderne il posto. Fu così che nel corso del II millennio a.C. il dio babilonese del Sole e della vegetazione, Marduk, usurpò il posto di Enlil. Marduk era l’eroe del poema “Enuma elish” – Epopea della Creazione- (che risale a un originale sumerico del II millennio, ma ci è giunto solo in una versione del VII secolo a.C.), nel quale è narrato come egli sopraffacesse la dea Tiamat e divenisse re degli dèi. Marduk organizzò poi l’universo e creò l’uomo dalla creta e dal sangue della dea Tiamat.

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Foto della stele contenente l’ Epopea della Creazione”

Ogni anno, durante le feste di primavera, sacerdoti e popolo tornavano a recitare questo mito della creazione, che simboleggiava il rinnovarsi della natura, assieme al mito che narrava la morte e la resurrezione di Marduk. In esso Marduk riceve gli attributi del dio della vegetazione, Tammuz, marito e figlio della dea-madre Ishtar. La dea Ishtar compare anche nella mitologia ebraica, e fusa con la dea Iside, nel tardo mondo ellenistico.

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La dea Ishtar

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Il dio della saggezza Enki  (accadico Ea), tradizionalmente raffigurato con la barba lunga e flutti di acqua e di pesci che sgorgano dalle sue spalle mentre risale una montagna. Alla sua sinistra la dea alata  Inanna (sumero, babilonese Ishtar) in forma antropomorfa e con le ali.Parte di una impronta di sigillo cilindrico risalente al XXIII secolo a.C. conservato presso il  British Museum, Londra.

Più tardi, sotto gli Assiri, il dio Ashshur eclissò Marduk, ma successivamente il potere si spostò nuovamente e Marduk fu riabilitato. Questa volta tuttavia c’era una differenza importante, perché Marduk aveva ottenuto come nome proprio il titolo di Bel,Signore“. Sotto questo riguardo la religione mesopotamica dava segno di avvicinarsi a una fede in un unico sommo Dio. Gli scritti assiri e babilonesi dimostrano chiaramente che il popolo considerava quei cambiamenti politici il risultato di movimenti nel regno degli dèi. Si riteneva infatti che la posizione dei grandi dèi influisse sul potere delle città e degli Stati ai quali quegli dèi erano più legati.

Benché le feste di primavera e i miti connessi fossero simili al mito egizio di Osiride, l’atteggiamento della religione mesopotamica verso la morte era alquanto diverso. I Mesopotamici si identificavano col morente e risorgente Tammuz (Marduk) al fine di recuperare la salute piuttosto che per assicurarsi l’immortalità. Il poema epico babilonese “Gilgamesh” dimostra infatti che essi alla fine si adattavano alla morte del corpo.

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Gilgamesh che domina un leone, fregio dal palazzo di Sargon II, Museo del Louvre

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 Epopea di Gilgamesh, Tavoletta XI in argilla, con la storia del Diluvio Universale, scritta in caratteri cuneiformi in lingua accadica, British Museum, Londra

L’eroe Gilgamesh parte alla ricerca di Utnapishtim (il corrispondente babilonese di Noè), al quale è stato svelato da Enlil il segreto dell’immortalità, dono che gli dèi della Mesopotamia tenevano di solito con gran cura celato agli uomini. Utnapishtim era perciò l’unico che possedesse la vita eterna. Egli parla a Gilgamesh di una pianta che dà l’eterna giovinezza, e Gilgamesh trova la pianta ma solo per venirne derubato da un serpente. E’ costretto quindi a prendere la via di ritorno e ad affrontare l’ineluttabilità della morte. La stessa concezione appare nel mito di Adapa, il quale rappresenta il genere umano: Adapa offende Anu, dio del cielo, e si reca da lui per spiegargli il suo atto, dopo aver ricevuto da Ea, dea delle acque,  l’avvertimento di non mangiare o bere nulla. Anu rimane colpito da Adapa a tal punto che gli offre il cibo e l’acqua della vita, ma Adapa li rifiuta senza rendersi conto di perdere così l’immortalità.

Ciò nonostante i popoli mesopotamici credevano in un certo genere di vita dopo la morte, ma i loro documenti descrivono l’aldilà come un triste, oscuro paese da cui non si ritorna, abitato da esseri “adorni d’ali”, che si cibano di terra e di creta. Questa non è tanto fede nell’immortalità, quanto in un’esistenza che prosegue, dopo la morte, sottoterra. La religione mesopotamica si accentrava insomma sulla vita in questo modo, dove i destini umani erano decisi dagli dèi.

                                                                                                                                                                       Lucica

LA RELIGIONE EGIZIA

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Illustrazione tratta da un Libro dei morti (1550-1090 a.C.), raccolta di incantesimi atti ad assicurare l’immortalità. Il defunto (a sinistra) segue Anubi verso la bilancia ove il suo cuore sarà pesato contro una piuma- simbolo di Maat, dea della giustizia e della verità- sotto il controllo del dio Thot: se colpevole, il suo cuore verrà divorato da un mostro (sotto la bilancia).

Intorno al 3200 a.C., l’Alto e il Basso Egitto furono unificati sotto il faraone Mene. Questa unione determinerà la struttura di fondo della società egizia per i successivi 3000 anni.

Contemporaneamente, gli Egizi svilupparono tre importanti aspetti della loro religione: in primo luogo, evolsero un culto elaborato e spettacolare dei defunti, culto che li portò a inventare notevoli tecniche d’imbalsamazione. Secondariamente, i loro miti e i loro rituali conferirono ai faraoni la condizione unica di figli o incarnazione degli dèi. In terzo luogo, fra le divinità egizie emerse una divinità solare, fatto comprensibile se si pensa che è il Sole a dominare la vita nella valle e sul delta del Nilo.

Dietro il culto del dio solare stava un precedente culto di un onnipresente dio del cielo che dispensava la vita e il fuoco e generava la pioggia e le tempeste. Questa credenza era venuta in qualche modo a somigliare al culto del dio falco Oro, che successivamente assunse gli attributi di una deità solare e più tardi fu descritto come figlio di Ra, altra versione del dio solare. A sua volta Ra si identificò con Atum, creatore e padre degli dèi. Per sommare, molte diverse ramificazioni mitologiche (e i rituali relativi) si fusero in una religione imperniata sul Sole. Benché chiaramente avviata verso la concezione di un dio universale con diversi attributi, questa religione rimase sempre politeistica, con l’unica eccezione di un tentativo, d’altronde fallito, di Amenofi IV (che prese il nome di Akhenaton) di introdurre un vero monoteismo.

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Il faraone Akhenaton

Nel XIV secolo a.C., infatti, Akhenaton tentò di sostituire alla religione ortodossa il culto di un unico dio, Aton, simboleggiato dal disco solare. Ma la nuova religione sovvertiva la tradizione, la quale voleva che l’ordine cosmico dipendesse dal faraone e dalla casta sacerdotale di Ammone-Ra (“re degli dèi) che circondava il faraone. L’opposizione dei sacerdoti fu così potente che il tentativo di Akhenaton di mettere risolutamente da parte la religione del passato non approdò a nulla. Alla sua morte, il nuovo faraone, Tutankhamon, ripristinò ben presto il culto ortodosso di Ra.

maschera mortuaria in oro massiccio di Tutankhamon

maschera mortuaria in oro massiccio di Tutankhamon

Le piramidi, costruite per ospitare i corpi mummificati dei faraoni, costituiscono una testimonianza eloquente delle ricchezze e delle energie che si profondevano per il culto della vita dopo la morte. Il processo stesso di mummificazione era dispendioso, tanto che tale pratica non cominciò a diffondersi al di fuori della famiglia reale prima del II millennio a.C. Poiché il faraone era l’intermediario fra gli dèi e gli uomini in una società dove la sopravvivenza dipendeva dall’organizzazione dell’agricoltura, il culto era la chiave non solo dell’ordine sociale ma anche della fertilità. Così gli Egizi, collegando l’immortalità del faraone col culto della deità della vegetazione, Osiride, vollero simboleggiare la morte e la resurrezione che si verificano durante il ciclo annuale della vita vegetale.

Nel corso del II millennio il culto di Osiride si rafforzò e l’opinione del popolo sulla vita dopo la morte cominciò a cambiare. Mentre la mummificazione implicava l’immortalità del corpo in questo modo, si attribuì a Osiride il governo dei defunti in un altro regno.

Il dio Osiride

Il dio Osiride

L’anima veniva così a distinguersi sempre più dal corpo. A questo riguardo le credenze degli Egizi erano complesse: c’era innanzi tutto il ka o spirito custode, che era anche l’essenza dell’individualità. C’era poi il ba o soffio, che dava vita al corpo. Nel rito noto come “Apertura della bocca”, che simboleggiava l’immortalità, l’anima veniva risoffiata nella mummia a commemorazione del mito di Osiride che, ucciso e smembrato dal dio Seth, fu riportato in vita a quel modo proprio dal figlio Oro. Questa cerimonia di conferimento dell’immortalità trovava rispondenza nel mondo dell’aldilà, dove ba e ka si univano.

Nel antico rito dell'Apertura della bocca, Anubi, il dio dei morti dalla testa di sciacallo tiene la mummia che riceverà il ba,  il soffio dell'immortalità

Nel antico rito dell‘Apertura della bocca, Anubi, il dio dei morti dalla testa di sciacallo tiene la mummia che riceverà il ba, il soffio dell’immortalità

Più tardi, al tempo dei Romani, si sviluppò un potente culto misterico di Iside, sorella e moglie di Osiride allo stesso tempo.

Iside inginocchiata ai piedi del sarcofago protegge il morto con le sue ali distese. Bassorilievo del sarcofago di Ramsete III, XX Dinastia (Parigi, Louvre).

Iside inginocchiata ai piedi del sarcofago protegge il morto con le sue ali distese. Bassorilievo del sarcofago di Ramsete III, XX Dinastia (Parigi, Louvre).

La mitologia egizia rimase sempre straordinariamente complessa, in parte anche perché i sacerdoti dei vari centri, come Tebe, Menfi e Eliopoli, tracciavano schemi diversi di gerarchie divine. Alla fine, tuttavia, le successive occupazioni dell’Egitto, prima da parte dei Persiani con Cambise (VI secolo a.C.), poi con Alessandro Magno (332 a.C.) e infine dei Romani nel I secolo a.C., distrussero l’ordine sociale e politico che sosteneva la religione egizia. Il III secolo d.C. vide l’ampia diffusione del Cristianesimo nel paese.

Lucica