IL TALAMONESE

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Il talamonese dicembre 2015 (2)

Torna, dopo un anno di stop, il Talamonese, il periodico di informazione del Comune di Talamona. L’amministrazione ha, infatti, deciso di continuare la tradizione interrotta durante il periodo del Commissariamento. Come in passato, l’obiettivo dell’iniziativa editoriale è quello di avvicinare i cittadini agli amministratori e far conoscere le innumerevoli associazioni e gruppi di persone impegnate nel promuovere attività culturali e sportive in paese. “Voglio ringraziare tutta la redazione e tutti coloro che hanno contribuito alla pubblicazione di questo primo numero – ha sottolineato Elena Pescucci – e invitare i talamonesi a partecipare a questo progetto editoriale che è di tutti. Siamo contenti di aver inaugurato questo nuovo ciclo, siamo già pronti a lavorare sul secondo numero: chi vorrà potrà inviare i propri scritti o le tematiche che vorrebbe fossero approfondite. Insieme alla redazione valuteremo tutte le richieste che arriveranno”.

Duemila e duecento le copie che entreranno nelle case dei talamonesi. Come? Attraverso la consegna porta a porta da parte dei volontari. “Abbiamo chiesto ai talamonesi di darci una mano – ha spiegato Lucica Bianchi – un bel gruppo di persone si è già reso disponibile. Ad ognuno è stata assegnata una via o una contrada. Chiunque volesse aiutare è il benvenuto. Può farlo semplicemente mettendosi in contatto con noi. Verranno comunque istituiti anche dei punti di diffusione: in Comune, in Biblioteca, nella sede della Proloco e nell’ufficio Servizi Sociali e Cultura”.

 

 

LA LATTERIA VALENTI DI TALAMONA: UNA STORIA DI SAPERI E DI SAPORI

TALAMONA 19 settembre 2015 seconda e ultima serata dell’iniziativa “TALAMONA SCRIGNO DI CULTURA”, nel contesto delle GIORNATE EUROPEE DEL PATRIMONIO 

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l’allestimento per la serata 

IN OCCASIONE DELLA SECONDA E ULTIMA GIORNATA EUROPEA DEL PATRIMONIO UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DEL CIBO TIPICO COME MOTORE DI CIVILTA’ E IDENTITA’ CULTURALE di Antonella Alemanni

Nell’edizione di quest’anno la coincidenza delle giornate europee del patrimonio con l’evento internazionale di EXPOMILANO 2015 dedicato al cibo offre svariate opportunità di progettare eventi, momenti di riflessione, di condivisione o di dibattito intorno al tema dell’alimentazione, ma non soltanto dal punto di vista di sostentamento, ma anche come patrimonio tradizionale e identitario di una comunità. Il cibo ha da sempre occupato un posto centrale nel rapporto tra uomo e natura, tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Questa è una realtà caratterizzata da una forte dimensione sociale che si rifletteva non solo in tavola, ma anche nei rapporti di convivenza e di lavoro all’interno di una comunità. In questa chiave di lettura l’alimentazione nonché la produzione del cibo si presenta come un fenomeno alquanto sfaccettato e composto nel suo interno da un insieme di aree funzionali che rendono il cibo un vero e proprio fatto sociale estremamente ricco e rispondente ad una forma plastica di rappresentazione collettiva. Su queste premesse, l’evento di stasera si propone attraverso un suggestivo itinerario di esplorare il mondo della produzione casearia nei suoi aspetti sociali e culturali mettendone in risalto da un lato le complesse relazioni con le emozioni individuali e simboliche e dall’altro le caratteristiche di consumo, di elemento economico e identitario. Così Lucica Bianchi, assessore alla cultura di Talamona ha presentato i contenuti di questa serata alla casa Uboldi a partire dalle ore 20.45 “un viaggio che parte dal nostro passato per traghettarci nel presente” lo ha definito il sindaco Fabrizio Trivella, intervenuto subito dopo “un percorso per organizzare il quale tutti in amministrazione abbiamo messo impegno e passione”. Un viaggio svoltosi con la partecipazione di Vincenzo Cornaggia, presidente del consorzio per la tutela del Bitto storico e Casera, ma soprattutto in compagnia di un Virgilio d’eccezione: Simona Duca ex assessore alla cultura e ora volontaria animatrice della biblioteca e di molte sue serate (quelle che non anima le presenta) che questa sera ha illustrato la storia della latteria Valenti argomento della sua tesi di laurea.

Breve intervento di Vincenzo Cornaggia

Il consorzio per la tutela del bitto e del casera è nato da un’esigenza dei produttori e delle loro cooperative di proteggere dei prodotti che fanno parte della tradizione come appunto il Bitto e il Valtellina Casera. Quest’ultimo risale al Cinquecento mentre il Bitto ha origini addirittura celtiche, ma senza una denominazione che permette di identificarlo sul mercato non avrebbe il potenziale che ha invece avuto. Il consorzio è nato grazie all’impegno di tutti coloro che fanno parte della filiera produttiva di questi prodotti tipici dagli stagionatori ai commercianti. È nato nel 1995 quindi è un consorzio relativamente giovane. Nel 1996 siamo riusciti ad ottenere la DOP (denominazione origine protetta) per i nostri prodotti e questo ha comportato un ulteriore impegno del consorzio che ha dovuto dotarsi di un organismo di controllo che è il CSQA, ha dovuto supportare tutti i soci per quanto riguarda le pratiche burocratiche e dare una mano nella produzione. Oggi questa scelta sta pagando in modo giusto e corretto perché chi fa parte di questo circuito riesce tutt’ora ad avere un prezzo decoroso del latte mentre chi purtroppo resta fuori in questo momento è veramente in sofferenza quindi ben vengano le tradizioni e i modi giusti e corretti di valorizzarle.

Intervento di Simona Duca: il lungo cammino della latteria Valenti 

Simona Duca ha raccolto, nel corso di tre anni di lavoro per la sua tesi di laurea, l’avventura umana, sociale e culturale della latteria Valenti tuttora attiva. Una storia che stasera ha condiviso col pubblico tramite una presentazione interattiva e una narrazione animata. Una storia che Simona ha fatto partire da una data, quella dell’Expo di Milano del 1881. In quell’occasione la latteria Valenti, aperta ufficialmente da un anno, ha ricevuto un importante riconoscimento per la più che ottima qualità del suo burro: una medaglia d’oro di prima categoria e un premio in denaro di mille lire che all’epoca erano una cifra non indifferente. Un risultato per nulla scontato, punto di arrivo di un’avventura travagliatissima che parte da lontano. Bisogna tornare indietro di circa trent’anni per capire questa storia, nella Valtellina di metà Ottocento, una terra alla deriva sotto tutti i punti di vista: ambientale, sociale, umano, culturale. A quell’epoca il nostro territorio faceva ancora parte dell’impero austroungarico. L’imperatore, a seguito di una ispezione territoriale, istituisce una commissione di inchiesta formata da vari studiosi, scrittori, soprattutto agronomi, capeggiata dall’agronomo Stefano Iacini, uno dei migliori nel suo campo all’epoca, il quale conclude che lo sfruttamento intensivo dei boschi e l’abbattimento scellerato degli alberi ha portato ad un vero e proprio cambiamento climatico (e pensare che nel Cinquecento, almeno a Talamona c’erano statuti avanzatissimi per disciplinare lo sfruttamento dei boschi, possibile che sono bastati poco meno di tre secoli per dimenticarseli? Ndr) un cambiamento che ha avuto come conseguenze più alluvioni e grandinate che hanno devastato i raccolti. La popolazione si è trovata dunque indebolita dalle carestie e dunque più esposta alle malattie, dovute appunto in parte al clima pessimo e in parte alla scarsa alimentazione, malattie come tubercolosi, scrofolosi, pellagra, rachitismo. Una popolazione talmente sofferente che ha fatto si che proprio in quegli anni la parola cretino entrasse nel vocabolario come sinonimo di valtellinese. Come se non bastassero le malattie delle persone, anche le viti e i bachi da seta, le risorse economiche principali, si ammalavano. Come conclusione della sua inchiesta Iacini scrisse: il 90% della popolazione valtellinese vive in condizioni di poca fortuna (il che voleva dire arretratezza e indigenza con la gente che arava persino i pochi campi coltivati senza usare gli animali per la maggior parte). Fino al 1859 occuparsi di queste problematiche era competenza degli austriaci. Dopo il 31 maggio 1859 diventa competenza del Regno d’Italia del quale la Valtellina entra a far parte un paio d’anni prima dell’unificazione e della proclamazione ufficiale il 17 maggio 1861. A chiunque se ne occupi comunque resta il problema di capire come bisogna agire per risolvere la situazione. Gli austriaci finchè il compito è toccato a loro hanno provveduto a rimboschire abbassare le tasse e ad istituire una lotteria per i poveri nell’ambito della quale tutti quanti erano obbligati a comprare almeno un biglietto, persino i religiosi. Dal 27 luglio 1860 ha inizio il Risorgimento in Valtellina anche grazie all’operato di Luigi Torelli colui il quale ha issato la bandiera sulla cima del Duomo durante le Cinque Giornate di Milano e che in quella data di luglio istituì una sorta di commissione, un Consorzio Agrario, che strappò al governo italiano la promessa di abbassare le tasse e di poter trattenere sul territorio valtellinese il 48% delle riscossioni da reinvestire per il rilancio. Di questa commissione faceva parte anche Clemente Valenti. A questo punto bisognava accordarsi circa le risorse su cui puntare per il rilancio territoriale. Il territorio valtellinese già dal Quattro-Cinquecento era per la maggior parte coltivato a vite a terrazza (che svettano orgogliosamente ancora oggi lungo la strada verso Sondrio ndr) ma facendo parte di un’Italia unita non era pensabile riuscire a porsi sul mercato col vino dovendo competere coi vigneti piemontesi, toscani e quant’altro anche se per la maggior parte i consorziati erano proprietari di viti ed era nei loro interessi tentare questa strada. Nemmeno i bachi da seta risultarono una risorsa praticabile. Ci voleva qualcosa di peculiare del territorio. Di certo non i prodotti agricoli, assolutamente improponibili vista la vicinanza con la ricca e fertile pianura padana. Restava a questo punto l’allevamento. I pascoli crescevano spontanei e non si ammalavano, erano abbondanti, la transumanza era una tradizione di lunga data. Le bestie sane e nutrite producevano latte da cui i valtellinesi sapevano trarre ottimi prodotti derivati. Ecco dunque la risorsa giusta su cui puntare: i prodotti caseari considerando che i valtellinesi si ritenevano i migliori casari sulla piazza. Il primo banco di prova per testare questa risorsa si presentò in occasione dell’Expo di Parigi del 1878 una delle prime manifestazioni a dare ampio spazio alla produzione di formaggi anche perché pure i francesi coi loro 150 mila tipi di formaggi diversi avevano un certo talento in materia e oltretutto la furbizia di organizzare l’Expo in primavera- estate in un’epoca senza frigoriferi che rendeva impossibile a tutti i Paesi partecipanti (tranne ovviamente il loro) trasportare formaggi freschi. Va da sé che i francesi si regalarono praticamente una vittoria schiacciante. Il secondo posto lo ebbero a pari merito Inghilterra e Svizzera che presentavano formaggi stagionati, invecchiati anche di molti anni giudicati innovativi che più invecchiavano più acquisivano qualità. Al terzo posto Olanda e Austria. Gli olandesi avevano introdotto un nuovo tipo di margarina chiamato burrina e gli austriaci un burro fatto di autentico burro per il 40% e poi arricchito per il restante con polvere di patate. L’Italia ottenne una menzione speciale per la vasta tipologia di formaggi grazie alla quale avrebbero potuto tener testa ai francesi se non fosse che si trattava di prodotti non commerciabili perché non vi erano metodi precisi per produrli. Ogni casaro lavorava autonomamente con metodi empirici nella sua cantina ognuno si faceva la sua forma diversa dalle altre. Questo è stato l’aspetto penalizzante. La peggio comunque l’hanno avuta i formaggi spagnoli giudicati letteralmente insipidi e dall’aspetto zozzo. Dopo l’esperienza tutto sommato incoraggiante dell’Expo al Ministero dell’Agricoltura ci si industriò a rendere commerciabili i prodotti caseari introducendo delle normative e dei protocolli di produzione unificati e istituendo tre scuole di formazione per casari e direttori di latteria. Una scuola superiore di agricoltura a Milano e due stazioni sperimentali, una a Reggio Emilia e una a Lodi. Da queste scuole i migliori passavano direttamente agli stage in Svizzera e poi in Danimarca a studiare Chimica poiché le università nordeuropee sono state le prime a mettere a punto prodotti chimici destinati all’industria casearia. Da queste scuole uscirono grandi nomi del settore come Gaetano Cantoni (che disse la storica frase il progresso si fa dove si produce il formaggio) e Carlo Pisona da Milano Luigi Manetti da Lodi e Luigi Zanelli da Reggio Emilia, autori di trattatelli molto efficaci sui metodi di produzione casearia. Una volta istituite le scuole bisognava fondare le latterie che andavano incentivate, così si istituirono con esse dei premi in denaro per la somma di 250 lire (una somma non da poco se si considera che per fondare la latteria Valenti ce ne sono volute 350) da assegnarsi alle latterie che rispettavano tre criteri di garanzia: in primo luogo la commerciabilità data da allevatori esperti e bestiame sano da metodi di produzione unificati e approvati a livello nazionale e dalla sperimentazione scientifica. Queste metodologie prevedevano la creazione di locali appositamente adibiti per la produzione e lavorazione del latte, un associazionismo rurale (il che voleva dire che i casari dovevano mettere insieme le loro risorse e il loro latte senza più fare ognuno per sé come si era sempre fatto precedentemente) sulla base delle quali fondare latterie a sistema sociale e non più turnario dove per sistema sociale si intendeva un unico casaro che per tutta la stagione seguisse interamente la produzione casearia, uno scelto tra tutti gli associati e non tutti gli associati a turno. Sulla carta insomma c’erano tutti gli elementi volti a favorire una maggiore commerciabilità dei prodotti. Tutte queste innovazioni però non significavano semplicemente dei ritorni economici, ma nelle intenzioni di chi li aveva messi a punto essi avrebbero dovuto portare anche a dei progressi socio culturali. Nuove metodologie unificate non potevano prescindere da una buona istruzione di base e dunque non erano più pensabili casari analfabeti. Ora per imparare il mestiere si studiava, si progrediva socialmente, associandosi si condividevano le risorse, le si ottimizzava, più risorse significava per gli stessi casari in primo luogo più ricchezza e benessere. Ormai il territorio lo si poteva considerare ufficialmente rilanciato e a confermare cio fu la definitiva consacrazione all’Expo del 1881. Bisogna però considerare che se le cose sulla carta sono abbastanza semplici da sistemare una volta trovato un percorso, non lo sono altrettanto nella realtà. La reticenza dei contadini che non si aprono alle innovazioni, alle collaborazioni, alla possibilità di imparare si è rivelata un ostacolo non da poco per Clemente Valenti che più di chiunque altro ha combattuto per portare nel territorio tutte le innovazioni finora citate, per creare la latteria di Talamona e renderla competitiva a livello nazionale in modo da concorrere per i premi messi in palio e ottenere tutti i vantaggi economici e socioculturali finora descritti. Una lotta che ha dovuto tener conto anche delle “lobby delle viti” all’interno del Consorzio Agrario che avevano tutto l’interesse di veder fallire il progetto della latteria per riportare l’attenzione nuovamente sulla produzione del vino. Tuttavia Baridelli, presidente del consorzio agrario e proprietario lui stesso di viti, decide, nel 1874 di dare un’opportunità a Valenti incaricandolo di occuparsi del progetto latteria per provare a portare in Valtellina le nuove normative e metodologie varate a livello nazionale per la produzione casearia un’opportunità che Valenti coglie al volo essendo fortemente convinto che il futuro è nelle latterie e potendo contare anche sull’aiuto e il pieno sostegno di Don Pietro Tirinzoni membro del comizio agrario che non ha interessi nel campo della viticoltura. Per prima cosa, affinchè tutto funzioni, bisogna prendersi cura delle mucche, perché sono loro a fornire materia prima. Valenti sfrutta la tradizione già presente sul territorio di far crescere tra le viti un po’ di erba per le mucche e si fa recapitare dalla Danimarca semi di trifoglio viola, una pianta che le mucche amano, per piantarla tra le viti. Nel 1875 poi è la volta della stesura, sempre da parte di Valenti, del primo statuto organico per le latterie sociali di tutta la Valtellina e della fondazione, nei locali a pianterreno di Palazzo Valenti, del primo nucleo di quella che diventerà la latteria Valenti che però chiuderà dopo tre settimane. Motivo? I contadini, come si è accennato prima. Reticenti, diffidenti gli uni verso gli altri, ma anche verso queste spinte progressiste, poco inclini ad attenersi ai regolamenti. Perdipiù visto che i finanziamenti regionali tardavano, Valenti, per avviare il tutto, si era visto costretto a richiedere a tutti i contadini 5 lire di tassa che nessuno poteva dare. A completare l’opera giunge, nel 1875, la morte di Pietro Tirinzoni. Sarebbe stata la fine se quell’anno le viti non si fossero ammalate di filossera permettendo a Valenti di continuare il suo progetto, perché, essendo le viti ammalate, il latte era ancora l’unica risorsa su cui puntare. Gli anni dal 1876 al 1879 vedono Valenti impegnato a scrivere lettere ai comizi agrari e al ministero dell’agricoltura e a prendere contatti (tramite uno zio, Geremia Valenti che vive a Milano) con la realtà delle scuole tecniche superiori di cui si è parlato precedentemente, in particolar modo con Gaetano Cantoni affinchè tenesse delle conferenze in Valtellina per indottrinare la popolazione. Simona a questo punto ha letto un estratto di una delle lettere febbrili scritte dal Valenti in quel periodo di lotta per un sogno. Le latterie sociali, convenientemente sviluppate, sono destinate a mutare le attuali infelici condizioni del nostro commercio del formaggio e ad apportare un benefico vantaggio alle popolazioni della nostra vallata. Gaetano Cantoni non verrà mai in Valtellina, manderà a sostituirlo Luigi Manetti che terrà due conferenze una a Morbegno e una a Grosotto per coinvolgere sia l’alta che la bassa valle. La reticenza dei contadini (e in parte anche dei membri del comizio agrario) giocherà un ruolo anche qui insieme ad una sfortunata combinazione di fattori. I comizi si sono tenuti dapprima in una domenica delle palme e comunque in periodo di fienagione. Un po’ per onorare le feste, un po’ per non trascurare i campi, quasi nessun contadino si presenta ai comizi del Manetti che dunque parla a Valenti al comizio agrario e a quei pochi contadini che si sono presentati, ma, a sorpresa, parla in dialetto e questo trasforma l’iniziale diffidenza in una certa simpatia anche se in realtà si trattava di interventi pieni di critiche. Manetti fa notare una cosa semplice. D’estate quando ci si ritrova tutti insieme in alpeggio si condividono le mucche, il latte, i locali per fare il formaggio la resa è maggiore rispetto che in inverno quando ognuno fa per conto suo e dunque perché non comportarsi tutto l’anno come in estate, associandosi permanentemente? A fornire ulteriori stimoli di miglioramento arrivano nel 1879 dapprima un concorso del Ministero dell’Agricoltura con il premio in palio all’EXPO di Milano del 1881 (quello che, come abbiamo già detto è stato vinto) e poi sempre dal ministero un aiuto economico di 250 lire stanziate per chiunque intendesse aprire una latteria. In Valtellina sorgono quelle di Talamona, Bormio e Grosotto che però per avere il premio in denaro devono fornire garanzie. Clemente Valenti nel frattempo è diventato sindaco di Talamona e può così garantire attraverso il comune. Nel 1880 scrive un nuovo statuto per la latteria sociale di Talamona togliendo dal regolamento le cinque lire di tassa che comparivano nel primo regolamento e aggiunge ai finanziamenti statali 140 lire di tasca propria. Nel complesso le spese serviranno a risistemare i locali di lavoro al prezzo di 233 lire e a prendere a noleggio i macchinari con tutto il restante. I locali li fornirà il pittore Giovanni Gavazzeni amico e dirimpettaio di Clemente Valenti che fornirà al prezzo d’affitto di 100-110 lire annue i locali al pianterreno della sua casa. Per lavorare nella sua nuova latteria Clemente Valenti vorrebbe casari che sappiano leggere e scrivere, ma in quegli anni il massimo cui può aspirare sono i semianalfabeti. Il primo assunto si chiamava Carlo Ciaponi che se la cavava coi numeri al punto che ogni allevatore portava in latteria la sua parte di latte contrassegnata da un numero, un’usanza che si è mantenuta nel tempo. Il regolamento della latteria è stato firmato il 18 gennaio 1880, la latteria sociale nasce ufficialmente il 27 febbraio (a Grosotto nacque qualche tempo prima, ma ancora con sistema turnario) e conta 41 soci e 65 mucche cifre destinate col tempo ad aumentare soprattutto dopo il successo all’EXPO Milano 1881. Un successo che se non si traduce in effettiva commerciabilità dei prodotti non serve. La produttività della latteria negli anni Ottanta dell’Ottocento si aggirava intorno a 50 kg di burro a settimana lasciando il restante latte per la lavorazione di formaggi magri e semigrassi che si vendevano a Morbegno e tuttalpiù a Lecco. Come espandersi? Preparando meglio i casari ad esempio. Nel 1883 la latteria Valenti diventa il secondo Regio Osservatorio di caseificio in Italia (il primo è Portici) cioè una scuola che prevedeva corsi teorici e pratici con tanto di stage da cui uscivano i migliori casari cui tutte le latterie, perlomeno dei dintorni, facevano riferimento, una delle prime scuole italiane ad ammettere dal 1885 anche donne molte delle quali madri che educando i figli trasmettevano loro quello che avevano imparato. Per studiare da Valenti arrivavano da tutt’Italia. A questo punto Simona ha letto un estratto della sua tesi, un aneddoto relativo ad un ragazzo sardo con tanto di lettera scritta dal medesimo. Nominati all’ultimo momento non fu semplice raggiungere Talamona (per i praticanti casari ndr). In particolar modo non tutti avevano le idee chiare sul corso, sullo svolgimento e soprattutto sul viaggio per raggiungere il paese. In particolar modo questo ragazzo scrive: sono stato nominato almeno per il prossimo trimestre del corso pratico e teorico di caseificio di codesta latteria con assegno di 50 lire mensili per pagare vitto e alloggio e mi dovrò trovare da lei entro il 15 corrente. Io non conosco codesti luoghi ne alcuno sa dirmi condizioni a riguardo del corredo del mio collocamento perciò mi rivolgo a lei, onorevole direzione, pregandola della gentilezza di indicarmi se gli alunni vengono alloggiati in uno stabilimento, in un albergo o in case private, quale bagaglio si deve portare cioè solo gli abiti o se sono necessari anche materasso e biancheria da letto e prego anche di indicarmi quali pratiche sono necessarie per procurarmi vitto e alloggio. Praticamente si andava alla ventura iscrivendosi già maggiorenni. Fortunatamente Clemente Valenti aveva molti riguardi verso i suoi allievi. I maschi alloggiavano nelle case nei dintorni della latteria mentre le ragazze al terzo piano del Palazzo Valenti con la servitù. Una  di queste ragazze, originaria di Osopo, anni dopo scriverà una lettera al Valenti per ringraziarlo di averla fatta sentire a casa e per mandare gli auguri di Natale con anche dei doni: un carretto giocattolo per il figlio Guido e una lingua salmistrata per lui e la sua gentil signora (i maschi invece scrivevano solo per richiedere lettere di raccomandazione quando volevano concorrere come direttori di latteria). Luigi Zanelli, formatosi a Reggio Emilia in visita nel 1885 in Valtellina dovette riconoscere gli alti standard di qualità raggiunti. Ma restava ancora da risolvere la questione della commercializzazione su larga scala dei prodotti. In tal senso un trampolino di lancio lo fornisce un’esposizione nazionale organizzata a Lodi nell’ambito della quale la Valtellina entra in contatto con ditte e commercianti a livello nazionale. Un po’ grazie a questi contatti un po’ tramite il passaparola i prodotti circolano, in particolar modo il burro, fiore all’occhiello, che nel 1886 sta sulle tavole degli alberghi di Montecarlo, ma che fa la sua bella figura anche negli alberghi valtellinesi in particolar modo alle terme di Bormio dove giunge un notaio di Roma, tale Cerretti,  che farà conoscere alla sua cerchia di conoscenti il burro valtellinese e contribuirà ad aprire i commerci con Roma. Col tempo i commerci si espandono in tutto il Piemonte, la Liguria parte della Francia, a Terni al Grand Hotel Europe e all’estero, a Londra ad Atene per circa un anno e ad Alessandria d’Egitto per poco meno (il problema era il trasporto, non c’erano le celle frigorifere, bisognava avvolgere il burro in stracci umidi e riporli in tole di latta rivestite con paglia). Fu anche per seguire queste rotte commerciali che  Clemente Valenti volle la stazione di Talamona. Gli inizi come sempre furono un po’ difficili. Un tale Melchiorre Sordi non riteneva il burro di Talamona commerciabile perché era di colore giallino e perdipiù aveva insinuato il dubbio che fosse impastato. Valenti si arrabbiò e il resto è storia. Una storia che lascia spazio anche alla leggenda, una leggenda che vuole che il nostro burro sia arrivato anche a Calcutta. In realtà era successo che una ditta londinese che commerciava anche a Calcutta avesse avanzato questa proposta, ma non se ne fosse fatto nulla poi. Sempre da Londra giunsero proposte per modernizzare la produzione, per adeguarsi ai gusti della gente che apprezzava i formaggi grassi, per fare i quali però bisognava non produrre il burro che era il prodotto di punta. Si pensò allora di innovare il burro, creando il burro salato. Da Londra avevano preparato le etichette, Valenti ha preso contatti coi direttori di latteria, ma gli allevatori non volevano saperne. C’è sempre nella popolazione questa tendenza a bloccarsi di fronte alla prospettiva di fare i salti di qualità veri e propri. Ma non si può non dare comunque merito al Valenti e all’avventura della latteria senza la quale noi tutti oggi saremmo molto diversi.

Non ho potuto fare a meno di pensare, mentre ascoltavo, a come il latte in questa storia abbia assunto un’ulteriore motivazione per essere definito fonte di vita. Non solo perché nutre gli infanti, ma perché l’ha resa migliore a tutti e a tutti ha dato l’opportunità di essere migliori.

Antonella Alemani

TALAMONA – UNO SCRIGNO DI CULTURA

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Il 18 e il 19 settembre, in occasione dell’importante evento Giornate Europee del Patrimonio 2015, l’Amministrazione Comunale di Talamona ha promosso presso la biblioteca del paese due interessantissime serate.

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Fausta Messa, docente di materie letterarie e latino, Istituto G.Piazzi/L.Perpenti, Sondrio

Il venerdì, alla presenza di un numeroso e attento pubblico, la brava e coinvolgente professoressa Fausta Messa ha piacevolmente illustrato tappe salienti del lungo ed affascinante viaggio compiuto, per molti anni, nel mondo della cultura dalla scrittrice Ines Busnarda Luzzi – per i Talamonesi la maestra Ines -, alla quale nel 2011 è stata dedicata la nuova biblioteca.Una vera grande donna che Talamona ha avuto l’onore di avere tra i suoi cittadini; una donna semplice, umile, modesta, dotata di straordinarie capacità, profonda sensibilità e grandissima umanità che – fortemente animata dalla passione, dallo spirito di ricerca storico-scientifica e dall’amore per la verità – ha speso una vita intera a favore della conoscenza e ha rivestito un ruolo fondamentale per la scoperta e la salvaguardia del patrimonio culturale, soprattutto della gente di montagna.

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Coro Valtellina

La seconda parte dell’incontro ha avuto come protagonista – sotto l’abile guida del direttore Mariarosa Rizzi – il Coro Valtellina che ha proposto alcuni brani accuratamente scelti dal suo vasto repertorio in cui, in maniera decisa e delicata al contempo, emergono le bellezze naturali dei paesaggi alpini, l’attaccamento alla propria terra, il mantenimento delle tradizioni, il valore dei legami affettivi, la forza dell’amore, le fatiche di vecchi mestieri.

Prosa e musica: due differenti forme artistiche che, con strumenti diversi, tendono all’ambizioso obiettivo di dare voce al passato, promuovendo e valorizzando la cultura d’altri tempi. A tale elemento comune si deve il felice connubio e la buona riuscita della serata.

Scrivere, cantare, narrare per ricordare, per non dimenticare, per rinsaldare le proprie radici, per contribuire a formare, rinforzare, consolidare il senso di appartenenza ad una comunità, per vivere e crescere in modo consapevole e gioioso.

Grazie alle preziose testimonianze e alla “presenza” della carissima maestra Ines che, con la consueta saggezza, discrezione e pacatezza, aleggiava nell’aria dell’ampia sala, si è creato un positivo e complice clima relazionale, capace di catturare, con la mente e con il cuore, i presenti.

Sentiti ringraziamenti a Talamona per averci offerto la possibilità di curiosare dentro uno scrigno ricco di tesori… e, in particolare, un doveroso grazie all’appassionata Lucica BianchiAssessore alle Politiche Culturali e all’Istruzione del Comune.

Infine, a titolo personale e a nome del Coro Valtellina ringrazio nuovamente per il gradito invito alla lodevole ed apprezzata iniziativa.

Cinzia Spini, presentatrice del Coro Valtellina

LA GIOIA DELL’APERITIVO

TALAMONA 14 giugno 2015 i giovani di Talamona presentano

 

 

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IL MIO RACCONTO PERSONALE DI UN EVENTO A META’ STRADA TRA CULTURA, ARTE, SOCIALE E FESTA

C’è ben poco da stare allegri in una giornata così. Piove incessantemente da due giorni e con un tempaccio del genere non viene certo voglia di uscire di casa. Oltretutto non so nemmeno in che cosa consiste bene questa cosa. In qualità di assistente scolastica ho potuto seguire alcune fasi dell’allestimento, in particolar modo la creazione dei quadri dei quali una selezione sarebbe andata a formare una mini esposizione che nella sala a pianterreno della Casa Uboldi era già stata allestita da qualche giorno. Di tutto il resto però non ho la più pallida idea. Mi era sembrato di capire che fosse un’iniziativa della biblioteca che si è fatta prestare i quadri dei bambini della scuola, ma in che cosa consista di preciso il tutto non lo so, come volontaria della biblioteca mi è stata chiesta disponibilità, ma per cosa in particolare non mi è stato specificato (oltre al mio solito ruolo di osservatrice che documenta e fa memoria naturalmente). Pioggia o non pioggia stanchezza o non stanchezza the show must go on  e dunque mi appropinquo al luogo della festa che il tempo ha costretto a cambiare. Non più la casa Uboldi, ma il teatro dell’oratorio.

Vi giungo e tutto è in fermento. Gente che arriva, che si ritrova che si saluta, qualcuno sta fuori, qualcuno entra e prende posto. Dentro è stato allestito un rinfresco e pochi tra quelli che entrano (tra cui io) non ne approfittano. Ma guarda c’è pure la musica. In effetti questo era riportato sul manifesto dell’evento. Ma a fare musica sono gli alunni delle scuole medie diretti dal professor Riccardo Camero come quella volta a Morbegno al concorso intitolato allo scultore Salvatore Pisani. Allora suonava anche il bambino cui faccio da assistente che oggi non c’è, non vedo nemmeno il suo quadro appeso… ma forse devo guardare meglio… dunque vediamo… ci sono dei quadri appesi sul palco, appesi proprio alle quinte, alcuni sono quelli che avevo già visto nel precedente allestimento, quello alla casa Uboldi che ha poi dovuto essere spostato… li il quadro del mio bambino c’era, ma qui? Forse non lo hanno messo qui perché lo sfondo del nuovo allestimento è scuro e il quadro è già scuro di per sé non si noterebbe. Chissà perché il mio bambino così vivace ha deciso di usare tinte scure. Un momento! Ci sono dei quadri anche la nell’angolo a sinistra rispetto a chi giunge dall’ingresso. Quelli non li riconosco. A scuola non li ho mai notati. Devo dire che sono di squisita fattura. Però! Alcuni sembrano disegni per cartoni animati altri ritratti che sembrano vivi schizzi questi che sembrano dei quadri espressionisti quasi dei Van Gogh contaminati da uno stile graffitaro, arte moderna, arte astratta e questi… quadri che sembrano riprodurre le foto del telescopio spaziale Hubble. Ma da dove vengono? Sono sicura di non averli mai visti prima… c’è pure una Gioconda riprodotta con l’arte astratta. Qui comincia ad accalcarsi gente mi domando come si possano apprezzare questi quadri nel corso della serata. Intanto le prove continuano. Mi guardo intorno cerco di capire a chi potrei rivolgere qualche domanda per cercare di capirci qualcosa. Tra il pubblico c’è anche la signora Lucica che difficilmente si lascia scappare qualche evento se non quando è molto impegnata, ma sempre ad occuparsi di cultura. Mi dice subito che aspetta l’articolo di questo evento. Prima o poi qualcuno dirà qualcosa che possa permettermi di capire che sta succedendo, cosa succederà, qualcosa che potrò poi riportare.

Ecco che finalmente qualcuno sale sul palco e afferra un microfono. Questo dovrebbe essere il segno del fatto che si sta per cominciare davvero. Possiamo cominciare dice infatti l’uomo che nel corso del suo discorso si presenterà come Alberto della Cooperativa Insieme. Questa festa è per i giovani, ma in generale per tutta la popolazione. Da alcuni mesi a questa parte alcune associazioni del comune si stanno incontrando con la Cooperativa Insieme di Morbegno per provare a discutere insieme (appunto) del tema giovani e prevenzione. Mentre vengono enumerate tutte le associazioni che hanno preso parte a questa iniziativa (e ci sono proprio tutti UIDLM, Oratorio, Pro Loco Biblioteca, Gruppo della Gioia, le cooperative Insieme e Orizzonti, la scuola, infondo le idee confuse che avevo nonostante tutto non erano così lontane dalla realtà) penso che ci si riferisca in particolar modo al disagio sociale, all’importanza di mettere in campo delle attività per impedire che i giovani si ritrovino preda del vuoto di senso (che è di gran lunga peggio del senso di vuoto) e dunque portati a percorrere strade sbagliate, la dipendenza da alcool e droga. Il signor Alberto proseguendo il suo discorso conferma questa mia ipotesi. Nel corso di questi incontri si è stabilito di mettere in campo una serie di iniziative d’incontro tra giovani, associazioni e cittadinanza e la festa di oggi vuole essere l’inizio del percorso, l’evento simbolo. Non posso fare a meno di pensare a come ci siano territori che hanno una necessità vitale di risorse del genere e non posso non pensare al Mezzogiorno dove c’è chi è ben lieto di approfittare del vuoto di senso dei giovani per farli diventare dei delinquenti. Se fossimo a Napoli magari vedrei entrare improvvisamente degli uomini armati che sparano a tutto spiano. Ma forse questo è solo un pregiudizio. Nel frattempo ha preso la parola Laura del Gruppo della Gioia per ringraziare tutti coloro che hanno permesso di realizzare concretamente questa  che altrimenti sarebbe stata solo un’idea. Ai ringraziamenti si unisce poi di nuovo il signor Alberto che ringrazia in particolar modo il comitato ARTE LIBERA di Berbenno che ha fornito i quadri posti nell’allestimento nell’angolo (visto? Ci avevo visto giusto, non era roba nostra! Bella però) e segnala la presenza del furgoncino della cooperativa LOTTA CONTRO L’EMARGINAZIONE che mette a disposizione la possibilità di fare l’alcool test e per i giovani di rilasciare un’intervista su cio che vorrebbero vedere realizzato a Talamona perché serve a noi per orientarci per capire cosa fare. Dunque questo potrebbe significare l’inizio di una nuova era per la stagione culturale talamonese? E io che cosa potrei proporre? Tanto Saviano qui non lo inviteranno mai quindi è inutile che continuo a sprecare il fiato. Due o tre settimane prima ad Albosaggia c’era un festival letterario in occasione del quale era ospite Valerio Massimo Manfredi, un altro dei miei scrittori preferiti. Io però quel giorno avevo già in programma il cinema pomeriggio e sera. Due anni fa a Morbegno hanno invitato Antonia Arslan per ben due volte e io ho pure rimediato una copia de LA MASSERIA DELLE ALLODOLE autografata con dedica. A qualcuno interessano gli scrittori qui? Non mi è mai sembrato e comunque ora ho la mente vuota, ho sonno e non mi sento affatto nello spirito giusto per essere propositiva. Penso troppo da vecchia.

Sul palco nel frattempo è salita Simona Duca ex assessore alla cultura (ora dovremmo già averne uno nuovo e presto conto di scoprire chi è) qui in veste di insegnante di scuola secondaria per introdurre la parte dello spettacolo curata proprio dalle scuole medie e dedicata alla memoria di un ragazzo che ci ha lasciato troppo presto, Paolo Biella. Può sembrare stonato accostare questo pomeriggio gioioso al ricordo di una persona che non c’è più ha detto Simona ma lui era una persona gioiosa e positiva e dunque abbiamo pensato che a lui farebbe piacere essere onorato così. Oggi è come se anche lui fosse ancora con noi. Se la memoria dei morti è il principale motore della civiltà, il popolo di Talamona si caratterizza per essere un popolo molto civile visto che sono molti gli eventi che sono nati e proseguiti nel tempo per commemorare la memoria di un qualche compaesano che se ne è andato. In attesa di preparare gli strumenti e gli accordi Simona Duca chiama sul palco la preside della scuola, Eliana Giletti, seduta tra il pubblico, che non può che sottolineare ulteriormente il grande impegno profuso in tutto questo.

Per rompere il ghiaccio due assoli di motivi che richiamano al rock.

 

 

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Qualcuno dei ragazzi ha la funzione di voce fuori campo che introduce alcuni brani.

 

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È appena terminato l’assolo di batteria di Riccardo piano quando si leva la voce fuori campo (o forse sono semplicemente io che non vedo il ragazzo da quella posizione in cui mi trovo). A New Orleans i funerali erano accompagnati da musiche spesso allegre. L’espressione delle emozioni era ed è pubblica e non c’è dissociazione tra vita, silenzio e morte. Lo stesso concetto di distacco dalla persona cara è diverso rispetto a quello delle civiltà occidentali e tutto è caratterizzato da profonda fede. A questo punto partono le note di I UNDERSTAND GO MACHININ eseguite soprattutto col flauto. Però, non avevo idea che fosse un brano da funerale. Del resto non avevo neanche idea che a New Orleans i funerali si considerino quasi una festa. Mi sembra di ricordare che anche gli Etruschi la pensassero così.

Gli eventi cui non riusciamo a trovare una risposta la trovano idealmente nel vento. Ecco che mentre penso si è già passati alla presentazione di un altro brano. Meno male che sto registrando tutto. Questa canzone continua la voce si  rivolge idealmente all’umanità. Non poteva che essere BLOWININD THE WIND cui fa subito seguito un mix di repertorio classico, di brani tra gli altri di Mozart Beethoven e Vivaldi. Con la musica classica non si sbaglia mai, ha degli effetti benefici sull’anima che non si possono ottenere in altro modo.

Ogni tanto mentre ascolto la musica mi guardo un po’ in giro e noto che tutti osservano un piccolo bambino seduto in braccio a colei che immagino sia sua nonna nel pubblico, un piccolo bambino biondo dalle guance paffute e ridenti. È un po’ come se fosse lui la star occulta della serata. Quando un giorno potrebbe ritrovarsi assalito dalla tristezza e pensare di contare ben poco al mondo (questa fase la attraversano tutti anche se ognuno in modo diverso) che qualcuno gli ricordi questo giorno.

L’ultimo brano eseguito dagli alunni delle scuole medie è LET IT BE dei Beatles. Nella presentazione si dice che Paul McCartney dichiarò in un’intervista di aver avuto l’ispirazione per questo brano da un sogno durante il quale incontrò la madre Mary, morta di cancro nel 1956 quando lui aveva 14 anni e che proprio la madre nel sogno gli disse di lasciare che gli eventi facciano il loro corso (let it be appunto) e che tutto si aggiusterà. Perbacco. Io sapevo che YESTERDAY è nata da un sogno di Paul McCartney il quale sognò la melodia percependola come un qualcosa che aveva già composto e restando stupito quando nessuno dei compagni sembrava riconoscerla. Certo che i sogni portano davvero bene ai Beatles! Avessero gli stessi effetti o comunque effetti simili su tutti! Al Mondo ci sarebbe più bellezza più energia creativa…  dopo l’esecuzione di questo brano c’è chi ha voluto esprimere un pensiero personale del suo ricordo di Paolo.

A questo punto prima di lasciare spazio a giovani band e talenti musicali solisti di Talamona gli studenti di scuola media propongono una presentazione in lingua inglese del nostro Comune che non sfigurerebbe su un sito di viaggi internazionale. Simona Duca prova a cercare volontari che traducano il tutto in dialetto, ma nessuno si fa avanti così lo assegna come compito a casa che non penso sarà mai svolto.

Nel frattempo la prima rock cover band è gia pronta per trasformare il teatro in una discoteca. Cavoli mentre suonano sento vibrare tutto il pavimento le pareti persino i miei nervi. Quando si dice la musica psichedelica. Poco ci manca per la miseria. Il batterista è particolarmente bravo è come se la batteria fosse un prolungamento della sua stessa anima. Le cantanti invece sono molto meno coinvolgenti dovrebbero avere più presenza e invece se ne stanno ferme come statue e cantano come se stessero dicendo messa a momenti. Dovrebbero prendere esempio dal rapper che si è esibito dopo. Non si capisce cosa dice, forse è l’effetto del rimbombo, del suono non proprio gestito correttamente, però almeno si muove sul palco, si appropria della scena, sente quello che canta vuole coinvolgere tutti i presenti, invaderli con la sua musica.

Mentre il rapper canta mi accorgo che lo smartphone non sta più registrando nulla. Non so chi si deve ancora esibire e per quanto tempo ancora, ma penso che comunque possa bastare questa musica così forte mi sta martellando le orecchie. Un mal di testa oggi è proprio l’ultima cosa che voglio. Vedo che anche altri a poco a poco stanno andando via o se ne sono andati da prima. Credo che ormai lo spirito di cio che si intendeva comunicare sia ben chiaro e dunque non c’è bisogno che io resti. Esco e ancora piove mentre torno a casa.

Antonella Alemanni

UOMINI SULLE VETTE DELLA STORIA

TALAMONA 7 novembre 2014 alla Casa Uboldi un importante centenario

 

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MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA

Nel corso della storia la percezione del tempo è cambiata moltissimo. Agli albori della terra il tempo era scandito dalle ere geologiche e dunque cento anni non contavano nulla. Anche per molto tempo dopo la comparsa dell’uomo e per buona parte dell’età antica nell’arco di cento anni non succedeva molto. È stato in secoli più recenti che la storia ha cominciato a subire un’accelerazione sempre più inarrestabile al punto che si può dire che sono successe più cose negli ultimi cento che nell’arco di tutti i secoli precedenti messi insieme. Cento anni fa il mondo era in guerra ed era un mondo che oggi, che siamo qui a ricordare quell’evento (alla casa della cultura a partire dalle 20.45) ci appare come lontano. “è incredibile ritrovarsi qui dopo cento anni a ricordare la guerra” ha esordito Simona Duca, ex assessore alla cultura, ora volontaria presentatrice nonché curatrice di questa serata “ma come ci siamo arrivati a questa sera? A caso in corridoio parlando si è osservato che quest’anno cade il centenario della grande guerra e non è proprio possibile non organizzare qualcosa in proposito. Ma cosa? Si potrebbe coinvolgere il coro coi canti di guerra e gli alpini che, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, della  guerra sono stati gli assoluti protagonisti? Detto, fatto, come gruppo della biblioteca ci siamo messi d’impegno per organizzare questa serata” una serata fatta di racconto accompagnato da una presentazione arricchita con le foto tratte dal sito del museo della guerra di Cividale del Friuli da brani tratti da film e documentari, da una piccola mostra allestita al piano terra e ovviamente dai canti del Coro Valtellina.

 

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Prima guerra mondiale una introduzione

“Ci sono principalmente due immagini che mi vengono in mente pensando alla prima guerra mondiale” ha cominciato a raccontare Simona Duca “la prima è la classica scena dell’esame di terza media e del ragazzino che racconta la guerra come argomento a piacere e lo fa enumerando date e fatti in modo un po’ sommario. La seconda immagine è sempre scolastica ed è quella del profondo divario tra il racconto (principalmente appunto un catalogo di date e fatti) che viene fatto a scuola della guerra e i fatti così come realmente andarono. Parlando con gli alpini (a questo punto Simona Duca ha mostrato un raccoglitore di vecchi temi scolastici ndr) emerge ad esempio una sfumatura della guerra che a scuola non salta mai fuori. Negli anni passati è capitato che i reduci di guerra andassero nelle scuole e parlassero delle loro esperienze personali, offrendo testimonianze molto vivide nonostante fosse passato un po’ di tempo. Da queste  testimonianze emergevano sostanzialmente quattro parole chiave: fame e sete (contano come una visto che vanno di pari passo ndr) pidocchi, freddo, morte. Tutto girava intorno a queste condizioni di indigenza, ben altra cosa rispetto alle lezioni nude e crude che lo scolaro deve mandare giu. In cento anni in racconto della guerra è mutato tantissimo. Tanti nomi diversi (Grande Guerra, Prima Guerra Mondiale solo perché poi c’è stata la seconda, quarta guerra d’indipendenza per gli Italiani che hanno poi annesso Trento e Trieste, Grande Guerra Patriottica per i russi che nel frattempo hanno organizzato una rivoluzione bolscevica contro l’impero zarista, guerra di posizione, di trincea, inutile strage, guerra fratricida secondo papa Benedetto XV) e tanti modi diversi di presentarla. Il nome più significativo però è Grande Guerra che racchiude appieno il suo significato di guerra totale, di ultima guerra antica e prima guerra moderna, che ha coinvolto non solo chi combatteva direttamente, ma anche i civili sui fronti interni. Ed ecco come questa sera siamo qui a cercare di mettere insieme le date con la vita vissuta, la grande storia con la piccola.

Talamona ai suoi prodi

È venuto ora il momento del primo intermezzo musicale offerto dal coro Valtellina prima di riprendere il nostro racconto partendo dalla fine, dai morti che la guerra si è lasciata indietro, in particolar modo quelli di Talamona, in quanto comunque Talamona è stato uno dei primi comuni a dedicare un monumento ai suoi caduti. “leggendo questi nomi si percepisce la guerra meno lontana” ha proseguito Simona Duca “infondo l’abbiamo vissuta anche noi in diretta da casa nostra”

Tutto ebbe inizio…

“Come cominciò tutto? Sembrerebbe che tutto parta da una scintilla in quel dei Balcani. Viene ucciso l’erede al trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando l’ultimo di una serie di omicidi eccellenti di regnanti da parte di anarchici che già da tempo facevano scalpore in Europa (Umberto I e la principessa Sissi tanto per citare i più noti) ed è la goccia che fa traboccare il vaso, l’inizio di una situazione che sfugge sempre di più al controllo in un clima dove la guerra già era nell’aria e la gente già si divideva in chi la temeva e in chi invece a tutti i costi la voleva. La storiografia oggi sta un po’ rivalutando questi fatti e tra le cause della prima guerra mondiale viene annoverata anche la guerra di Libia degli italiani. L’imperialismo che raggiunge il suo apice e si avvia al suo crollo.

Estate 1914

Siamo ancora alla mobilitazione degli eserciti a quando tutti credono di sapere con sicurezza i pronostici della guerra, chi è più forte e vincerà, quanto durerà, cioè pochissimo, tutti sono ottimisti circa l’esito che avrà la guerra per loro i giornali si riempiono di proclami idealistici e grondanti di retorica riguardo al valore della patria eccetera, eccetera insomma un sacco di bugie sulla necessità di una guerra giusta tanto per convincere la gente per spronare gli arruolamenti (che sono comunque obbligatori).

La ninna nanna di Trilussa

Ma c’è chi dopo solo un mese ha capito l’antifona ed è Trilussa, poeta satirico romano che scrive in dialetto e che in questa occasione ha scritto una ninna nanna che è stata in seguito musicata, cantata, proposta in vari spettacoli. Questa sera abbiamo ascoltato la versione di Gigi Proietti. In questa canzone compaiono spiritelli vari della tradizione popolare, comunemente chiamati in causa in simili circostanze, ma anche i protagonisti principali della Grande Guerra Guglielmone (cioè Guglielmo II il kaiser di Germania) e Cecco Beppe (cioè Francesco Giuseppe, imperatore austriaco con cui gli italiani hanno a che fare già dal lontano 1848 ai tempi delle cinque giornate di Milano e via via tutto il Risorgimento e le guerre di indipendenza) avversari in guerra anche se parenti (per la precisione cugini, entrambi nipoti di Vittoria d’Inghilterra, altra contendente in causa, poiché tutti i regnanti erano parenti in Europa, ma c’è voluta l’Unione Europea per sancire la pace della serie parenti serpenti all’ennesima potenza ndr). È l’impero d’Austria quello con cui l’Italia ha avuto maggiormente a che fare durante la guerra, un impero e un imperatore ormai molto vecchi, contro il quale è stata indetta quella che la propaganda chiamava guerra di civilizzazione (per dire che gli austriaci erano i barbari) che però di fatto è stata un massacro. Il fatto è che si tenta molto spesso di ridurre la storia a una lotta tra buoni e cattivi, ma poi si finisce sempre con lo scoprire che non è mai ben chiaro dove stanno gli uni e dove gli altri.

Regnanti guerrafondai popolo indignato

La decisione di entrare in guerra si è rivelata non scevra da conseguenze spiacevoli per i nostri regnanti europei. È capitato ad esempio che Vittorio Emanuele si sia visto recapitare lettere minatorie e molto offensive dalle madri degli arruolati costretti a partire. Tra gli sconvolgimenti della Grande Guerra c’è stato anche questo: esponenti del popolo che scrivono direttamente al re insultandolo e minacciandolo (anche se, a ben guardare, la storia non è poi così scevra di precedenti anche più gravi ndr).

La guerra, una questione di soldi

A fronte di chi ci ha rimesso la vita, per molti la Grande Guerra ha costituito un buisness da cui ha guadagnato (questo infondo è uno dei motivi per cui si sono sempre fatte e si continuano a fare le guerre ndr) tutti gli altri erano semplicemente carne da cannone, pedine sulla scacchiera degli intrallazzi del potere dei parenti serpenti che regnavano in Europa, che avevano costruito attraverso i secoli persino le loro stesse parentele solo per interesse politico. Dopo la Guerra gli imperi crolleranno, non ci sarà più motivo di scontro, i parenti serpenti si riappacificheranno e a raccogliere i cocci resterà il popolo. In Africa esiste un proverbio che descrive molto bene questa situazione quando due elefanti combattono, a soffrire è l’erba.

La guerra in Italia

Come dicevamo la guerra è stata raccontata in molti modi diversi. C’è chi ci ha persino scherzato su. I soldati dovevano pur trovare una piccola scappatoia per non lasciarsi sopraffare totalmente dalla disperazione in cui si sono trovati immersi. Due tenenti degli alpini con disegni e frasi hanno messo insieme un libro intitolato LA GUERRA E’BELLA MA SCOMODA che è uscito nel 1935 e che questa sera ha fatto bella mostra di sé nel vasto campionario offerto dalla biblioteca, scelto tra la vastissima letteratura di guerra che comprende diari, reportages e romanzi per tutte le età nonché studi storici a posteriori. Da questo campionario emerge come l’entrata in guerra venne accolta festosamente dalla popolazione nel cosiddetto maggio radioso (il 24 maggio 1915) parate, cortei, giornali dai titoli altisonanti, un entusiasmo da cui molti sono stati travolti, salvo poi ritrovarsi faccia a faccia con la vera realtà del fronte senza poi nemmeno sapere alla fine il motivo di tutto questo. L’Italia di allora era principalmente rurale, la gente viveva nelle campagne e non era a conoscenza dei grandi accadimenti, non aveva una prospettiva nazionale, ne tantomeno internazionale, pensavano solo a coltivare la terra e tutto cio che sapevano della chiamata alle armi era che avrebbe tolto braccia ai campi. Perdipiù gli italiani erano stati neutrali per un anno e dunque tutti questi proclami a difesa della nazione che venivano diffusi risultavano, alla luce di cio, ancor più strani.

Italia doppiogiochista

Bisogna a questo punto fare un passo indietro, riprendere la prospettiva internazionale. La mobilitazione degli eserciti in seguito all’attentato di Sarajevo vede la formazione di due schieramenti contrapposti. Da un lato la triplice intesa che vede alleati Francia, Russia e Inghilterra e dall’altro i cosiddetti imperi centrali tedesco e austriaco che formavano una triplice alleanza di cui avrebbe dovuto far parte anche l’Italia la quale però, al momento, si manteneva neutrale e anche quando poi si decise ad entrare in guerra fino all’ultimo non seppe da che parte stare. Si può tranquillamente dire che alla fine si vendette al miglior offerente. Fece trattati con entrambi gli schieramenti per capire cosa ci avrebbe guadagnato in caso di vittoria in termini di conquiste territoriali. Gli alleati che alla fine l’Italia si scelse furono quelli che fecero le offerte più ghiotte in sostanza (che poi non mantennero del tutto). Ed ecco come una volta stabiliti definitivamente i nemici, essi divennero barbari invasori da combattere con ogni mezzo con l’aiuto della popolazione contadina convinta a suon di lusinghe (quando in tempo di pace della sorte dei contadini a chi comandava non gliene importava nulla).

Guerra totale

Mai come in questo momento storico la guerra ha coinvolto davvero tutti persino quelli che restavano a casa. Solo parlando dei soldati solo 1 su 7 finiva direttamente in prima linea, tutti gli altri erano invece ausiliari (per esempio addetti al rancio e alle cucine). Per chi restava a casa tutto girava comunque intorno alla guerra: l’economia, la società, la cultura. Le donne diventavano i capifamiglia, dovevano occupare i posti di lavoro che gli uomini partendo avevano lasciato vuoti, i bambini giocavano a fare i soldati quando non dovevano lavorare anche loro oppure venivano arruolati per davvero in alcuni casi. Ognuno diventava come il meccanismo di un ingranaggio.

24 maggio 1915 a Bormio

Non dappertutto si registrava la stessa percezione della guerra o del fatto di esserci entrati. Ad esempio a Bormio successe che fu colui che portava la posta coi carri verso lo Stelvio ad accorgersi degli insoliti movimenti dei soldati austriaci che fecero capire che la guerra era in atto anche per noi.

Vita al fronte un primo accenno

Fin da subito il governo cerca di prodigarsi affinchè la vita al fronte risulti il più confortevole possibile per i nostri soldati. Ed ecco come a tal scopo vengono emanate tutta una serie di regole tra cui quella che dal 25 maggio non si venderanno più all’estero i pomodori perché verranno mandati ai soldati.

Intanto a casa…

Come si diceva prima la guerra e la propaganda di guerra coinvolse tutti indipendentemente dall’età e dallo status sociale. Persino le letture per bambini (come il CORRIERE DEI PICCOLI) vennero infarcite di inneggiamenti alla guerra, tra i libri più popolari c’era IL PICCOLO ALPINO (in realtà uscito dopo la guerra basato su testimonianze autentiche di ragazzini che si trovarono davvero al fronte un po’ per circostanza e un po’ perché erano stati spinti a sognare la guerra) e in ogni caso i bambini vennero impiegati come ausiliari nelle fabbriche insieme alle loro madri. In queste fabbriche, come sui campi di battaglia, vigeva un regime militare. Tutte le conquiste sindacali, a cominciare dal diritto di sciopero, vennero sospese, gli orari stabiliti in base alle emergenze e capitava persino che i ragazzini che si dimostravano indisciplinati in fabbrica venissero inviati al fronte (ma solo al di sopra di una certa età al di sotto invece si veniva multati).

La donna in guerra

Paradossalmente fu la guerra a dare ulteriore slancio alle lotte femminili per la parità. Le donne con la chiamata in guerra di padri mariti e fratelli si ritrovarono a far tutto da sole e per molte questa fu l’occasione in cui divenne chiaro una volta per tutte come non fosse poi così vero che le donne dovevano per forza essere sottomesse e dipendenti dagli uomini. Le donne si ritrovarono a occuparsi dei figli, dei campi e a lavorare nelle fabbriche. Troviamo delle donne anche tra le truppe ausiliarie dell’esercito. C’erano le lavandaie, le crocerossine, quelle che lavoravano nelle fabbriche di armi e munizioni le cosiddette madrine di guerra che corrispondevano con i soldati dando loro un non indifferente supporto psicologico (potevano essere fidanzate, madri, sorelle, ma anche no) e le prostitute. Ci furono anche quelle che combatterono effettivamente e che divisero praticamente in due gli alti comandi: da un lato i tradizionalisti scandalizzati e dall’altro quelli che vedevano la cosa dal lato pratico, più donne combattevano e morivano, più uomini si risparmiavano che potevano essere poi mandati al macello a loro volta e inoltre il rancio delle donne morte si poteva utilizzare per gli uomini ed era tutto di guadagnato. Uomini e donne con la guerra diventarono indifferentemente carne da cannone e forse questo fu l’aspetto meno nobile della raggiunta parità se non si considera il premio di consolazione, costituito dalle medaglie al valore, che entrambi i sessi poi ricevettero come ricompense per azioni eroiche (per tutti gli altri c’erano le medaglie coi santini che davano le madri prima della partenza). Azioni eroiche che per le donne potevano essere guidare le ambulanze sotto bombardamenti e scariche di proiettili oppure arrampicarsi su per le pendenze per portare i rifornimenti ai soldati dove nemmeno i muli arrivavano.

Una guerra da cani e non solo

Non furono soltanto gli umani ad essere impiegati in guerra, ma anche gli animali. I tradizionali cavalli che fin dalla notte dei tempi accompagnarono l’uomo nelle sue guerre e che qui vennero forse impiegati per l’ultima volta nella Storia. I piccioni viaggiatori che portavano messaggi o venivano dotati di apparecchi per effettuare dei rilevamenti dietro le linee nemiche. I cani che andavano a cercare i dispersi in azione, vivi o morti, che accompagnavano gli alpini come portaordini e quando erano di taglia grossa combattevano proprio. I muli che portavano i rifornimenti. Le mascotte dei vari reparti. Questi animali diventarono particolarmente fondamentali dopo la guerra, quando venne raccontata al cinema dal loro punto di vista nel tentativo di trarne dei racconti il più possibile edulcorati. Rin Tin Tin (che è esistito davvero, era un cucciolo raccolto da un soldato in Francia e portato in America dove esordì prima nei circhi e poi al cinema finendo per morire sul set di un film) Lassie, Furia cavallo del West. Attraverso le loro avventure la guerra entrò ad Hollywood per la prima volta. Ma ci furono anche animali che ricevettero medaglie e riconoscimenti come gli umani. Un cane di nome Garnian venne nominato penna nera dagli alpini dopo essere stato ferito a Masarè e raccolto dagli alpini.

Parlando di animali in guerra bisogna citare anche quelli che non furono dei buoni compagni utili per i nostri soldati, anzi tutt’altro. I pidocchi che ti infestavano dopo poche ore in trincea,le pulci, le zecche, i topi. Uno dei passatempi preferiti dei soldati era spidocchiarsi o mettere i vestiti a contatto con l’aria fredda per far morire i pidocchi i quali però a contatto con la pelle calda miracolosamente risorgevano. Furono proprio questi animali molesti i più vicini ai nostri soldati.

 

I giornali di guerra

La guerra è stata raccontata dalla carta stampata principalmente in due modi. Con il linguaggio della propaganda che non faceva capire la realtà delle cose e con il linguaggio della satira. Era il governo a scegliere i giornalisti che potevano scrivere di guerra e ne sceglieva pochi per poterli controllare. Era necessario che lo spirito patriottico e positivista che aveva animato tutti all’inizio non venisse meno ed era necessario che si continuasse a parlare della guerra in termini sensazionalistici per mantenere alto il morale di tutti. Dunque a questi giornalisti veniva imposto dall’alto cosa scrivere e come scriverlo. Esemplare la copertina de LA DOMENICA DEL CORRIERE che pochi mesi prima di Caporetto rappresenterà i soldati più vigorosi che mai pronti a respingere il nemico. Per quanto riguarda la satira erano gli stessi soldati lontani dalla prima linea che se ne occupavano puntando soprattutto sulle vignette visto l’analfabetismo diffuso. Le vignette erano soprattutto volte a schernire gli alti comandi che facevano la guerra a distanza con spavalderia, mandando avanti i soldati. Venivano indetti persino dei concorsi che richiedevano di rappresentare i momenti  salienti della guerra. Questi dipinti dal punto di vista artistico sono notevoli, ma non raccontano la verità.

La partenza per il fronte

Ordunque raccontiamola noi ora questa verità sulla vita nelle trincee sui patimenti del fronte cominciando dal principio cioè dalla partenza. Per molti era la prima volta nella vita che lasciavano il loro paesello dove lavoravano come contadini. Le tracce di questi momenti dolorosi sono sopravvissute all’interno di diari e lettere. Solitudine, distacco, lasciare il mondo che si è sempre conosciuto per andare verso l’ignoto, magari senza nemmeno la speranza di tornare. In guerra si viene uccisi, si muore per le condizioni in cui ci si trova perché viene a mancare tutto, anche lontano dall’azione vera e propria i cecchini erano sempre in agguato. La parola cecchino venne coniata proprio in questa occasione. In origine significava soldato di Cecco Beppe (cioè Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria-Ungheria) e poi è entrato nel linguaggio comune per designare i cosiddetti tiratori scelti che sparano a distanza nelle azioni di polizia o che in guerra compiono agguati.

Vita di trincea

La vita di trincea è stata forse la vera svolta per l’unità d’Italia. In guerra tutti insieme si ritrovarono soldati che provenivano da diverse zone del Nostro Paese, ognuno  si portava dietro il suo dialetto, ma tutti cercavano di parlare un po’ d’italiano per capirsi, per fare amicizia per farsi coraggio, per darsi una mano quando ad esempio i soldati analfabeti dovevano farsi aiutare da altri a mandare notizie a casa. Dal film UOMINI CONTRO di Francesco Rosi vediamo uno spaccato realistico di questi dialoghi, di questi momenti di cameratismo, particolarmente preziosi prima dei veri o presunti attacchi. Perché era l’attesa dell’attacco più che l’attacco stesso a mettere alla prova i nervi dei soldati, i quali infatti venivano tenuti su di morale con razioni di cognac e cioccolato, probabilmente perché solo dei soldati ubriachi avrebbero trovato il coraggio di attaccare effettivamente. L’attesa era tanto più snervante quanto più si svolgeva nel fango nel freddo, accanto ai cadaveri. Quelle che vennero inizialmente costruite come dei veri e propri fortini su tre linee non funzionavano in maniera così perfetta come voleva la teoria. I soldati lavoravano mattina e sera con impegno per costruirle quando non combattevano, ma di certo il terreno non aiutava. Dentro questi buchi, le cui strutture spesso non tenevano, era l’inferno, si viveva come uomini delle caverne oppure ci si lasciava vivere. Questi aspetti fanno capire come questa guerra sia stata in primo luogo una guerra psicologica certo non per tutti allo stesso modo. Gli alti comandi tutto questo logoramento praticamente non lo sentivano. Ma che cosa sapevano effettivamente della guerra gli alti comandi? Da alcune testimonianze dirette emerge che al corso bisognava imparare solo un po’ di tattica di base che non era nemmeno determinante ai fini della promozione. Se i comandi fossero stati lasciati ai gradi più bassi la faccenda sarebbe senz’altro stata risolta meglio e più in fretta. I soldati infatti imparavano tutto sul campo e la geografia dettagliata dei luoghi attraversati non la scordavano più. Il generale delle truppe italiane, Luigi Cadorna, aveva diffuso un libricino intitolato ATTACCO FRONTALE E ADDESTRAMENTO TATTICO. In pratica il comandamento di Cadorna con qualunque tempo e in qualunque circostanza era sempre quello di attaccare e chissenefrega se la gente moriva se il risultato era una strage per pochi metri che poi magari venivano persi subito dopo in eventuali contrattacchi successivi. Sempre attaccare a testa alta come dei veri uomini d’onore e non strisciando per terra come bestie. Cadorna era il vero nemico dei soldati italiani e non gli austriaci, i quali dal canto loro si rendevano conto delle inutili stragi e intimavano spesso durante gli attacchi ai soldati italiani di tornare indietro durante gli attacchi per non farsi ammazzare così inutilmente. Ma i soldati italiani non potevano tornare indietro, perché sarebbero stati puniti. I morti che non fece la guerra, che non fece il nemico (i cecchini che miravano a quelli che si sporgevano, a quelli che fumavano specie di notte, agli addetti al rancio e alle cucine in modo tale che così facendo si tagliavano i viveri a tutti), che non fecero le azioni militari (i nemici avevano la mitragliatrice che pare uccidesse ottomila uomini al minuto in media, mentre gli italiani avevano i fucili modello 1891 che si inceppavano), li fece la cosiddetta giustizia militare volta al mantenimento della disciplina. Si partiva da pene più lievi come turni extra di lavori o di guardia a chi non teneva pulita la trincea o non si preoccupasse di fare il modo che le fortificazioni reggessero (cosa che non dipendeva comunque dai soldati se non fino a un certo punto, ma più dipendeva dal terreno che non assorbiva la pioggia che in certi periodi cadeva copiosa così si formava il fango che intrappolava tutti gli odori) fino ad arrivare alle pene di morte per atti di vigliaccheria come potevano essere appunto quelli di chi tornava indietro, di chi cercava di scappare e farsi catturare come prigioniero, di chi si sparava per essere mandato all’ospedale lontano da dove si combatteva, chi si ribellava e diceva chiaro e tondo di non voler più combattere. C’era un sistema chiamato decimazione. Per ogni atto considerato di vigliaccheria o più in generale di indisciplina, se non si trovava il colpevole o i colpevoli, venivano estratti a sorte un soldato ogni dieci e tutti gli estratti fucilati. Capitava che con questo sistema finissero fucilati anche coloro i quali erano magari entrati in servizio quel giorno stesso ed era palese che non c’entrassero nulla con le accuse. Un soldato su ventiquattro ora della fine della guerra aveva avuto problemi col tribunale, uno su diciassette era stato ucciso col metodo della decimazione.

Alla fine giungeva anche il momento di fare la conta di tutti questi morti e i numeri fanno davvero spavento. Cifre a sei zeri tra morti feriti e mutilati. Curioso da questo punto di vista un aneddoto capitato ad Albert Swaizer premio Nobel per la pace negli anni Cinquanta nonché medico tedesco che durante gli anni della guerra si trovava a gestire un ospedale da lui aperto in Congo. Un giorno si trovò a parlare col figlio di un capotribù che stava curando. “Quanti ne sono morti in guerra?” chiese l’indigeno “dieci?” “si forse dieci” rispose il medico” “il tuo capotribù deve essere molto ricco per riuscire a risarcire le famiglie di dieci soldati” certo fa pensare che un cosiddetto selvaggio, il cui popolo non sarà stato certo immune dalla cosiddetta missione civilizzatrice dell’uomo bianco solo il secolo prima, si scandalizzi per il sacrificio di dieci uomini, mentre la cosiddetta civiltà europea si sia trovata senza batter ciglio un bilancio di morti a sei zeri senza contare quelli che sopravvivevano si fisicamente, ma erano segnati a vita dentro e quelli che si trovavano a subire le conseguenze di interventi di soccorso non idonei perché molto spesso i medici e le infermiere di guerra dovevano addestrarsi sul campo per capire le cure adeguate. I primi tempi ci si trovava gli ospedali pieni di uomini con ferite spaventose e l’amputazione era il metodo più praticato per cercare di salvare la vita dei soldati, che comunque morivano lo stesso per le condizioni igieniche precarie, per gli interventi condotti senza anestesia o con anestetici rudimentali. Molti di questi menomati fisici, ma soprattutto mentali vennero tenuti nascosti, spacciati per morti alle famiglie e rinchiusi in discutibili strutture, non certo per prendersi cura di loro. In guerra il mestiere più duro pare fosse proprio quello del barelliere perché si stava a contatto col dolore, coi lamenti, con tutta la reale crudeltà della guerra, coi cadaveri fatti a pezzi, coi soffocati dal gas. In guerra si moriva anche solo perché non si riusciva ad andare a recuperare sempre in tempo i feriti rimasti sul campo di battaglia o perché non tutti erano abituati all’ambiente di montagna e cadevano nei crepacci.

Le conseguenze sui civili

Gli attacchi e le azioni di guerra si ripercuotevano anche sulla popolazione. Dopo gli spari e i bombardamenti di interi villaggi e paesini non restavano che cumuli di macerie con relativi cumuli di cadaveri degli abitanti che tra le macerie restavano intrappolati.

Le armi della guerra

Dal punto di vista dell’invenzione e dell’introduzione di nuove armi questa guerra si può definire moderna. La regina degli armamenti è stata senz’altro la già citata mitragliatrice, ma poi c’erano i gas, le relative maschere antigas, fucili e baionette, bombe di vari tipi, i carri armati, lanciafiamme. Per il trasporto di tutti questi armamenti vennero utilizzati carri, treni, biciclette. Per la prima volta comparve l’aviazione militare che, sebbene ancora ai suoi primordi, contava già i suoi eroi primo fra tutti Francesco Baracca, eroe di Vittorio Veneto abbattuto dalla contraerea austriaca il cui aereo si distingueva per il simbolo di un cavallino rampante nero su fondo giallo che sarà poi adottato dalla scuderia di auto da corsa di Enzo Ferrari. Nonostante queste avanguardie sopravvivevano ancora retaggi di secoli precedenti come le armi bianche (mazze ferrate come quelle di epoca medievale) e persino armature, pinze, tagliole.

Lettere dal fronte

Con la guerra le persone scoprono la scrittura. Volantini, biglietti, vere e proprie lettere e diari privati. La scrittura è un vero e proprio mezzo di sopravvivenza o meglio un modo per continuare a sentirsi vivi, per continuare ad avere in qualche modo un legame con casa propria, con la dimensione dei propri affetti. Tra le punizioni disciplinari c’era il blocco della posta, tale era l’importanza fondamentale che questa aveva. Cadorna rischiò di essere ucciso con un atto di ribellione quando bloccò la posta che dunque venne immediatamente ripristinata. Nelle lettere i soldati parlavano di quello che vivevano, le loro emozioni e poi chiedevano notizie di coloro che avevano lasciato, della vita dei campi, di chi nasceva, di chi si sposava, dei propri cari, mandavano i saluti a genitori, fidanzate, mogli, figli, mandavano parole d’amore, mettendo in imbarazzo quelli che scrivevano e leggevano per conto degli analfabeti (i più imbarazzati erano ovviamente i cappellani militari). Quanto si scriveva dipendeva dai momenti. Le fasi di quiete permettevano lunghe divagazioni, mentre tra un attacco e l’altro necessitava essere sintetici. Le foto sulle cartoline rappresentavano i soldati in ordine con le divise ben curate pronti all’assalto oppure potevano essere cartoline pornografiche che i soldati tenevano per loro. I momenti di quiete erano rappresentati dalla visita del barbiere dai permessi di allontanamento durante i quali si sperava di incontrare qualche ragazza, il momento del rancio (con qualche concessione di veri e propri pranzi sotto le feste natalizie) la possibilità di lavarsi con la neve, momenti per prendere un po’ di sole, un po’ d’aria. In tempi normali cose come queste si vivono con noncuranza, si danno per scontate, ma in guerra quando puoi morire da un momento all’altro e nel frattempo languisci tra fango cadaveri, topi e tutto quello che si è detto prima, quando bisogna inerpicarsi su per pendii scoscesi con scarpe di cartone, la parola scontato non esiste. Le truppe avevano in dotazione anche delle radio, ma dovevano farle funzionare a pedali. Pedalando si otteneva l’energia elettrica necessaria a ricevere le trasmissioni radio, soprattutto canzoni. Esse sono forse la testimonianza più viva della guerra, perlomeno quelle non ufficiali, quelle non approvate dalla propaganda, quelle che chi le cantava poteva essere punito (perché prendevano in giro Cadorna e gli alti comandi), quelle che venivano dal cuore, alcune delle quali riprendevano vecchi canti di minatori. VOLA COLOMBA che vinse una delle prime edizioni di San Remo, nacque così. Inizialmente non si parlava di colombe, ma di rondini e i soldati rivolgevano in questo canto un pensiero alle fidanzate rimaste a casa. O’SULDATO INNAMORATO pure nacque nelle trincee prima di diventare un pezzo forte della musica napoletana. Per quanto riguarda le canzoni propagandistiche erano stereotipate e noiose. Non mancavano inoltre i canti di Natale durante le messe in cappelle improvvisate (altro momento prezioso nella vita di trincea) ed è proprio uno di questi canti che a questo punto della serata il Coro Valtellina ci ha fatto ascoltare.

La guerra bianca

Tra tutti i nomi dati a questa guerra, l’epiteto di bianca voleva sottolineare, almeno per quanto riguarda italiani e austriaci, il fatto di aver combattuto in alta montagna tra la neve e i ghiacciai dove spesso scavavano trincee chiamate città di ghiaccio più calde rispetto all’ambiente esterno e illuminate dalla neve che rifletteva bene la luce. Ma come ci si riparava in definitiva dal freddo? Bevendo alcoolici che però ghiacciavano soprattutto il vino e dovevano essere tenuti sotto le ascelle o tra le gambe una notte intera per farli sciogliere. Dovendo mettere gli alcoolici tutti insieme per farli sciogliere si formavano strani coktail alchè non si sapeva più effettivamente cosa si beveva.

La disfatta di Caporetto

In seguito a questa disfatta anzi già fin dall’arrivo a Caporetto qualcuno cominciò a gridare al tradimento. Tradimento di chi? Ovviamente gli alti comandi subito a dare la colpa ai soldati, senza considerare che il generalissimo Cadorna, durante i combattimenti di Caporetto, mentre la guerra infuriava più violenta che mai, aveva trovato il tempo e la spensieratezza di andarsene al cinema a Udine. Perdipiù i generali rimasti attivi avevano completamente stravolto gli schemi di battaglia, mandando avanti gruppi sparsi di vedette volte a creare situazioni di disturbo. Tra queste vedette c’era pure Rommel, la volpe del deserto nel conflitto successivo qui alleato austriaco. La disfatta di Caporetto non si distinse tanto per la gran baraonda di ordini non chiari e di azioni confuse, ma perché arrivati a questo punto il governo italiano rischiava davvero di perdere la faccia, avendo collezionato dall’unità sino a quel momento uno smacco dietro l’altro. È stato possibile salvare il salvabile soltanto restando in difesa. A quel punto c’è stata la ripresa e la lenta risalita verso il Piave.

L’arrivo al Piave

Dai canti di guerra sembra che il Piave sia stato conquistato tutto in una notte. In realtà è stato un cammino lungo e faticoso, bisognava ricompattare le truppe, accogliere i nuovi reparti inviati, passare attraverso villaggi e paesi. Nel frattempo la vita andava avanti, c’era chi diventava padre e non poteva o non si ricordava di registrare subito il figlio all’anagrafe. La cosa più importante è che nel corso delle azioni di guerra l’atteggiamento verso il nemico era cambiato. I barbari invasori degli inizi erano diventati uomini come noi e tutto questo era semplicemente una guerra di morti di fame contro morti di fame. Anche questo aspetto cominciava ad emergere nelle poesie e nelle canzoni e dai comportamenti. Al di fuori dei momenti più concitati della battaglia si sparava sempre meno perché ci si rendeva conto che quella non era più guerra, ma assassinio a sangue freddo di uomini contro altri uomini.

E finalmente Vittorio Veneto

A questo avvenimento è associata la data ben precisa del 4 novembre 1918 che tutt’ora si festeggia (così come il 24 ottobre 1917 per Caporetto), in realtà il giorno esatto era il tre, ma per festeggiare la vittoria s’è sparato per ventiquattr’ore. Ma come finì? Finì che per i primi tempi nessuno riusciva a riabituarsi alla pace, ai comportamenti normali di prima della guerra tipo andare a letto e togliersi le scarpe, camminare curvi e scoperti per strada e intanto i soldati per un po’ stavano ancora al fronte per tentare di ricostruire, strade, case ed argini.

La mostra a piano terra

Dopo questo racconto che mescola grande e piccola storia attraverso documenti, canti, film, letture di testimonianze dirette e la narrazione di Simona Duca è venuto il momento della mostra aperta negli orari della biblioteca grazie al gruppo alpini che l’ha allestita e al gruppo dei volontari che faranno i turni d’apertura fino a giovedì per permettere a scuole, gruppi e a chiunque si dimostri interessato di vederla. Una mostra nell’ambito della quale la storia è ancor più viva attraverso uno splendido reportage fotografico di Aldo Varenna digitalizzato che mostra la vita dei soldati momento per momento in modo che chi guarda le foto è come se fosse li a far guerra con loro a sentire il freddo, la paura i disagi, attraverso copie o originali dei giornali d’epoca, i dispacci, alcune lettere, i certificati di morte, l’annuncio della vittoria di Armando Diaz (che subentrò a Cadorna nel comando durante le ultime fasi del conflitto), attraverso teche che contengono cimeli davvero appartenuti a soldati che hanno combattuto quella guerra. Un piatto rotto, pale, picconi, bossoli, elmetti, gavette, borracce, coltellini, bottigliette. È soltanto così che ci si rende conto che la storia è vita e continua a vivere anche quando gli eventi che racconta sono passati da tempo.

Antonella Alemanni

A seguire photogallery della mostra

 

IL TEMPO DELLA SCUOLA

TALAMONA 25 ottobre 2014 alla Casa Uboldi si segue la crescita dei figli

 

SECONDO INCONTRO FORMATIVO TENUTO DALLA DOTTORESSA MAURIZIA BERTOLINI

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Fare i genitori è il mestiere più difficile del mondo si dice, ma anche ricco di stimoli. Dall’incontro precedente è emerso che non è possibile inseguire un’idea di perfezione, ma bisogna puntare tutto sulla relazione, su cio che passa tra noi e i nostri figli. Tutto cio diventa ancora più importante in un momento cruciale come quello dell’ingresso alle scuole elementari, un momento di passaggio che rappresenta un primo distacco del bambino dai genitori verso la conquista della propria autonomia. Un momento carico di tensione, che per fortuna, con gli strumenti della psicologia formativa, si può riuscire ad affrontare. Ed è stato appunto questo l’obiettivo della nuova tavola rotonda svoltasi oggi pomeriggio alla Casa Uboldi a partire dalle ore 15.30, un corso di formazione tenuto dalla psicologa Maurizia Bertolini, ma anche un momento di confronto cui hanno preso parte otto mamme e un papà, desiderosi di imparare ad essere al meglio possibile un sostegno per i loro figli in questo momento delicato. Un incontro durante il quale sono state prese in esame e discusse le problematiche più comuni quando si parla di figli e scuola. Gli errori commessi dagli insegnanti e quelli commessi dai genitori, le dinamiche di rapporto sbagliate che si vengono a creare tra questi riferimenti entrambi importanti per la crescita del bambino e persino la possibilità di non mandare i figli a scuola e occuparsi della loro istruzione all’interno della famiglia. Questo è stato uno dei primi argomenti emersi ed è stato particolarmente interessante, soprattutto perché credo che siano veramente in pochi a sapere che la legge italiana consente anche questa possibilità (io stessa non lo sapevo, ma certo in età scolare mi sarebbe piaciuto usufruirne). Bisogna sapere che la legge italiana prevede si l’obbligo di istruire ed educare i figli, ma non l’obbligo di mandarli a scuola. Le famiglie che ne hanno la possibilità possono autonomamente (o magari organizzandosi in gruppi composti da più famiglie che condividono tutte le spese) provvedere in modo alternativo alla scuola ad istruire i propri figli, purché, in un modo o nell’altro, lo facciano. C’è chi è contrario per principio alla scuola, a mandarvi i bambini (io negli anni lo sono diventata, ma è stato sorprendente scoprire di non essere sola in questo) e ha dichiarato di voler seguire questa soluzione, che pare non preveda neanche un esame finale obbligatorio, cosa che suscita non poche perplessità (come si può dunque attestare che la formazione è effettivamente avvenuta?), ma per parlare di cio probabilmente occorrerebbe un incontro a parte e questo pomeriggio dunque non è stato possibile approfondire più di tanto l’argomento anche perché la maggior parte dei genitori si è dichiarata tradizionalista. “l’esperienza della scuola e della condivisione coi coetanei è un momento fondamentale per la crescita del bambino che non è bene togliere” ha affermato qualcuno. Ed ecco che parlando di scuola tradizionale sono pian piano emerse tutte le tematiche cui si accennava poc’anzi, ciascuna proposta dai presenti. C’è chi ha detto di aver messo a confronto i suoi figli tra loro oppure con quelli di altri ed ha avuto l’occasione di capire di aver sbagliato perché ogni bambino ha le sue caratteristiche peculiari e nemmeno i gemelli sono esattamente uguali caratterialmente. C’è chi, essendo sia madre che insegnante, ha potuto portare un’esperienza di vita da entrambe le prospettive e ha potuto far notare come a volte le madri si dimostrino poco collaborative con gli insegnanti, non riescono ad accettare le osservazioni su eventuali limiti e mancanze del figlio, eventuali problematiche individuali e proposte di trovare insieme delle soluzioni. C’è chi si è dimostrato scontento degli insegnanti del figlio in quanto capita che ci siano insegnanti che non sanno rapportarsi agli scolari, non tengono conto del fatto che, come si diceva prima, ogni bambino ha le sue peculiarità. Questo fa molto pensare. Forse anche per gli insegnanti servirebbero incontri simili a questi. Per quegli insegnanti che non rispondono al modello di come un bravo insegnante dovrebbe essere, cioè una figura che sa tirar fuori il meglio di ogni bambino con dolcezza e pazienza in base al potenziale di ognuno. Molto più spesso però sono le madri stesse che tendono ad ingigantire le cose a vedere nel figlio delle problematiche che magari non sussistono. Una situazione classica è il figlio che torna a casa da scuola e non racconta al genitore la sua giornata e in generale tende ad essere silenzioso. In questo caso molti genitori credono che il figlio abbia un disagio e non si fanno nemmeno venire il dubbio che possa trattarsi di una questione di carattere come invece, molte volte, effettivamente è. Partendo dal presupposto ormai assodato pienamente, che, per fare il genitore, non è possibile contare su ricette o manuali di istruzioni ben codificati della serie se-succede-questo-fai-così-se- tuo-figlio-dice-questo-tu-rispondigli-quest’-altro, bisogna però sempre tener conto dell’importanza di saper instaurare un giusto dialogo con i figli, perché in questo modo sono loro stessi a parlare tranquillamente di disagi e bisogni evitando in questo modo parecchie problematiche e pensieri di cui i genitori molto spesso si caricano stando soli con se stessi senza confrontarsi. Problematiche come ad esempio i conflitti che si vengono a creare tra i bambini, la nascita e la rottura di importanti legami di amicizia che proprio in questa fascia d’età si affrontano per la prima volta. Bisogna comunque pensare che molto spesso i bambini possono tirar fuori risorse inaspettate, che loro non vivono sempre le situazioni come le vivremmo noi e bisogna chiedersi quanto di nostro, di aspettative, paure e preoccupazioni varie proiettiamo su di loro. Bisogna anche pensare che, laddove le problematiche ci sono, costituiscono un banco di prova per i bambini in primo luogo, per la loro crescita. In questo caso è più che mai fondamentale conoscere i figli saper parlare con loro e soprattutto saperli ascoltare perché i più fragili potrebbero richiedere di essere seguiti maggiormente, ma questo non vuol dire che bisogna impedir loro di vivere di fare esperienze, comprese esperienze di sofferenza o esperienze che a tutta prima possono sembrare insormontabili. Esempio classico: i compiti. Tutti i bambini se ne sono lamentati almeno una volta nella vita, ma quanto spesso si osserva che sono i genitori stessi a redarguire le maestre per il fatto di assegnarne troppi? Questo non va bene perché i compiti sono cio che permette al bambino di capire che nella vita bisogna avere degli scopi da raggiungere e che l’unica via lecita per farlo è quella dell’impegno e della determinazione anche di fronte agli ostacoli. Se i genitori per primi dimostrano ansia di fronte alle difficoltà, un figlio che potrebbe mai imparare? Bisogna considerare che la scuola moderna si sta mostrando sempre più variegata nei programmi formativi proposti e che tali programmi non sempre prevedono necessariamente una gran mole di compiti a casa. detto cio bisogna sapere che per tutto è necessaria la giusta misura. Eccessiva apprensione ed affetto è una modalità che può rivelarsi dannosa quanto l’eccessiva indifferenza. Se è necessario, perché questo è infondo il compito di ogni genitore, seguire i propri figli, accompagnarli nella crescita, amarli, sostenerli, occuparsi della loro istruzione ed educazione è anche vero che non è possibile avere sempre tutto sotto controllo non si può pensare di capire già dai primi anni come sarà la vita dei nostri figli, come loro stessi si evolveranno, quali talenti svilupperanno, quali inclinazioni e desideri manifesteranno. Non si possono avere rigide aspettative su di loro. Bisognerebbe pensare ad un bambino come ad un seme. Egli ha già in sé il progetto di cio che sarà. Nessuno neanche il bambino stesso conosce questo progetto all’inizio. Il compito di chi si occupa dei bambini è aiutare i bambini a scoprirlo e creare le condizioni affinchè poi venga fuori. Queste condizioni non sempre comportano situazioni piacevoli. Ognuno cerca il suo spazio nel mondo, ma nel farlo non bisogna invadere quello di un altro ed è necessario che i bambini lo sappiano, che sappiano che per imparare molto spesso è necessario sbagliare, soffrire e far soffrire. Questo è vero anche e soprattutto per i genitori. Ed è a questo punto che la dottoressa Bertolini ha citato Kahlil Gibran, un poeta libanese che nella sua opera più celebre IL PROFETA ha mirabilmente infuso una grande sapienza nel trattare varie questioni della vita tra cui appunto i rapporti genitori-figli. “i genitori” dice Gibran in questo suo splendido libro che considero una lettura da fare nella vita, fondamentale “sono come archi e i figli sono le frecce scagliate dall’arco. Non appartengono a noi ma ci passano attraverso” “ma affinchè passino attraverso” ha aggiunto la dottoressa Bertolini “lo spazio non deve essere ne tanto stretto da soffocare e fare male, ne tanto largo da non essere nemmeno percepito” ancora una volta ci vuole la giusta misura dunque. Ma come si può essere dei buoni archi per i nostri figli. Come si può ben insegnare loro, comunicare con loro? Bisogna comunicare dal basso verso l’alto in modo distaccato oppure bisogna ridurre il più possibile le distanze? Bisognerebbe riuscire ad insegnare loro e a comunicare i nostri messaggi senza essere troppo duri, sapendoli accompagnare con la giusta fermezza. L’approccio giusto si può trovare soltanto riprovando tante volte e soprattutto imparando ad ascoltare sapendo che i bambini, come tutti del resto, sono persone in divenire, i loro desideri e le loro idee possono cambiare nel tempo, ma se li si ascolta spesso sono loro stessi a fornirci le risposte che andiamo cercando, le soluzioni ai problemi che ci poniamo. Bisogna considerare che anche la società stessa è in divenire fornisce in continuazione un’enorme quantità di stimoli differenti e ormai in questo marasma i figli, ma anche i genitori si trovano soli, i genitori in particolar modo non vengono sostenuti e vengono messi costantemente in discussione. Si è già avuto modo, nel corso del precedente incontro di riflettere su come è cambiata la struttura sociale nel corso del tempo, si è già avuto modo di notare come una volta un bambino veniva preso in carico dall’intera comunità sociale e come invece oggi per i più giovani vengono a mancare i punti di riferimento e questo non fa che aumentare le paure dei genitori circa la possibilità che i figli possano ricorrere in devianze o in situazioni spiacevoli. Ed è in queste situazioni che il confronto il dialogo, a scuola e in famiglia, la partecipazione attiva dei bambini alla loro educazione diventa fondamentale, diventa fondamentale che al bambino venga chiesto “cosa ne pensi?” che la scuola si avvicini alle esigenze del bambino senza pretendere che sia la scuola ad adattarsi, che tutti scuola e famiglia in un meccanismo ben oliato sappiano riconoscere comportamenti e situazioni critiche e sappiano capire perché un bambino si comporta in un determinato modo, magari chiedendoglielo. È importante che venga rispettata la natura del bambino, le sue esigenze è più che mai importante il confronto diretto. Lo è in questi primi anni di età scolare e lo sarà ancor più negli anni a seguire. Ma di questo se ne parlerà nel prossimo incontro. Non mancate!

Antonella Alemanni

DA ZERO A SEI ANNI

TALAMONA 11ottobre 2014 alla casa Uboldi impariamo a prenderci cura dei nostri figli

 

 

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IL PRIMO DI TRE INCONTRI FORMATIVI RIVOLTI A GENITORI EDUCATORI E CHIUNQUE DIMOSTRI INTERESSE PER L’ARGOMENTO

Ci troviamo ora in un momento molto particolare nella storia del nostro Paese. Il tasso di natalità sembra essere ai minimi storici tanto che anche i politici cominciano a fare inopportune inchieste sulla vita privata degli italiani per cercare di inquadrare il fenomeno. Ecco come in questo momento, la casa Uboldi con un tempismo perfetto, decide di promuovere, nella sua sede, tre incontri pensati come corsi di formazione, ma che sono in realtà momenti di riflessione sulla genitorialità, sul nostro rapporto con i figli e su come il ruolo dei genitori e il modo in cui viene svolto si riveli fondamentale per la loro crescita e di conseguenza su larga scala per il futuro dell’umanità perché, non bisogna dimenticare, i bambini di oggi sono gli adulti di domani, quelli che un domani vivranno nel Mondo, prenderanno decisioni importanti, lavoreranno e, in alcuni casi, faranno la Storia. Il primo incontro si è svolto oggi a partire dalle ore 15.30 ed è stato tenuto, così come lo saranno i due incontri successivi, da Maurizia Bertolini psicologa e psicoterapeuta che del suo lavoro dice di amare “soprattutto l’aspetto divulgativo per far comprendere ad un vasto pubblico l’incisività di queste tematiche nella vita quotidiana”. Di scena oggi la primissima infanzia, quella fascia di età che va dalla nascita all’ingresso nella scuola elementare e che è molto importante per la formazione del bambino al punto che molte cose (come il linguaggio, la stimolazione dei cinque sensi fondamentali, la postura eretta) se inibite in questa fascia d’età non possono essere più recuperate in seguito (emblematici i vari casi, documentati in varie parti del Mondo, di bambini selvatici ritrovati nelle foreste allevati dagli animali). Ed è dunque in questa fascia di età che il lavoro del genitore si rivela fondamentale. “bisogna tenere conto” ha spiegato la dottoressa Bertolini “che nel rapporto con i nostri figli, questo rapporto, questo insieme di cose che passano tra mio figlio e me è come se fosse un terzo personaggio. Non sono solo io e mio figlio, ma tutto cio che intercorre tra noi che quando il bambino è ancora piccolissimo ricade per la maggior parte su di me per poi arrivare alla relazione cinquanta e cinquanta che comincia nell’adolescenza e prosegue poi per tutta l’età adulta del figlio, un momento in cui anche i figli hanno a loro volta figli e può verificarsi un maggiore avvicinamento ai genitori oppure un definitivo allontanamento a seconda dei casi, della storia che ognuno ha alle spalle” ad ascoltare con attenzione erano presenti cinque mamme ciascuna con la sua storia, i suoi dubbi, le sue motivazioni d’interesse personale, ma tutte accomunate dal desiderio di tornarsene a casa da questo colloquio arricchite di qualche risorsa in più per essere madri migliori per i loro figli alcuni dei quali intrattenuti dai volontari al piano di sotto con animazioni e merenda. Gli argomenti fondamentali che sono stati trattati sono: il pianto e i capricci del bambino, come affrontare le sue paure i suoi dubbi, le sue curiosità, come accompagnarlo alla scoperta del Mondo anche e soprattutto di quelle questioni che anche per un adulto sono difficili da capire o da spiegare (ad esempio la morte, la sessualità, le notizie molto brutte che danno al telegiornale). Nello spiegare tutto questo, anche seguendo le personali domande poste dalle madri, la dottoressa Bertolini è stata sufficientemente esauriente. “il pianto” ha detto “è una normale espressione del bambino per comunicare in quanto non riesce a farlo in un altro modo. Capita anche alle persone adulte di manifestare rabbia e disappunto, non tutte le situazioni in cui ci troviamo ci fanno piacere e capita anche di avvertire delle mancanze, qualcosa che desideriamo tanto, ma non abbiamo. I bambini esprimono tutto questo col pianto e con quelli che vengono definiti capricci che altro non sono il modo dei bambini di comunicarci una loro frustrazione. Sta a noi genitori capire come possiamo venire incontro ai desideri dei nostri figli. Se il bambino cerca molto la presenza della mamma o comunque delle sue figure di riferimento o di attaccamento, nessuna linea di pensiero dice che cio è sbagliato, tutto questo fa parte anzi di quel processo di costruzione del rapporto di cui si parlava prima. Sta al genitore cercare di capire fino a che punto il capriccio è una legittima espressione di disagio ed eventualmente frenare eccessivi egocentrismi, eccessive affermazioni della propria individualità ad oltranza, a scapito degli altri, una cosa che si rivelerà ancor più fondamentale negli anni dell’adolescenza quando il figlio cerca il conflitto per diventare poi un individuo autonomo. Per gestire al meglio tutto questo un genitore deve innanzitutto lavorare molto bene su se stesso per poi essere sicuro di fare sempre la cosa giusta e non farsi manipolare da un figlio quando persegue scopi egoistici. Di certo cio che tutti, parenti e società devono fare è abbandonare lo stereotipo del figlio perfetto, quello che è sempre tranquillo, non si sveglia mai di notte, non fa mai capricci. Se davvero un figlio è davvero così inerte è in quel caso che bisogna preoccuparsi seriamente quando manca la naturale propensione ad esprimere le emozioni e in generale ad esprimersi, fare domande, manifestare paure o curiosità. Come bisogna comportarsi in queste situazioni? Bisogna tener conto che quella in cui l’uomo vive è una realtà complessa soprattutto nel nostro presente dove succedono molte cose in un arco di tempo breve dove si registrano continui mutamenti. Come dare ai nostri figli gli strumenti per muoversi nel mondo, come aiutarli quando ne avranno paura? Non si può non tener conto che un figlio non è solo di sua madre e che tutto il tessuto sociale e parentale ne influenza la crescita come sanno bene le società più arcaiche e come tutti sapevano bene una volta. Non si può non tener conto che la protezione ci deve essere, bisogna che i bambini sappiano riconoscere anche le negatività senza essere troppo esposti bisogna informare, ma senza generare effettive paure. Il male non può essere ignorato perché esiste e i figli crescendo devono essere in grado di affrontarlo nel modo giusto senza che gli si racconti verità manipolate o peggio bugie”.

Non c’è che dire decisamente molto su cui riflettere in attesa dei prossimi appuntamenti che saranno il 25 ottobre e il 15 novembre stesso posto stessa ora.

Antonella Alemanni

IO VOLONTARIO PER LA CULTURA

TALAMONA 3 ottobre 2014 il punto sul volontariato

 

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IN PROSSIMITA’ DELLA TERZA ANNUALITA’ ALLA CASA UBOLDI UN MEETING DI TUTTI I VOLONTARI DELLA BASSA VALLE PER FARE UN BILANCIO DI QUESTO IMPORTANTE PROGETTO

Pochi ma buoni, dice un adagio popolare che questa sera, alle ore 17 nella sala conferenze della Casa Uboldi ha trovato una ulteriore applicazione. Sono sicuramente molti di più i volontari della bassa valle coinvolti nel progetto IO VOLONTARIO PER LA CULTURA (del quale a breve partirà la terza annualità) ma non molti quelli che hanno risposto all’invito di questo incontro per discutere di come effettivamente questo progetto si è svolto, dei progetti che grazie all’apporto dei volontari sono stati effettivamente messi in campo, dei benefici per tutta la comunità.

A presiedere questa tavola rotonda Gloria Busi, referente del servizio cultura per la provincia di Sondrio e Francesca Menaglio che si occupa del monitoraggio dell’attività attraverso colloqui personali con i volontari e la distribuzione di questionari on line che in forma anonima (chi li compila non è obbligato a scrivere il proprio nome) raccolgono, tra i vari partecipanti al progetto, umori, opinioni, idee, eventuali proposte di nuove attività di miglioramento ed eventuali segnalazioni di cio che non funziona in modo da valutare, tra le altre cose, anche l’effettivo contributo dei volontari ai progetti messi in campo.

Ad aprire il discorso Gloria Busi la quale ha spiegato che “molta importanza ha nell’ambito di questo progetto il fatto di coniugare la cultura e le politiche sociali poiché la socialità è un aspetto fondamentale del volontariato, anche nella percezione stessa dei volontari e anche nell’ambito del volontariato della cultura perché la cultura può diventare essa stessa veicolo di socialità. Il progetto lavora di pari passo con la LAVOPS che si occupa dei servizi per il volontariato nonché della formazione dei volontari. La formula del progetto si è costruita nel tempo attraverso la collaborazione tra la provincia, che promuove l’attività e garantisce tra le altre cose a tutti i partecipanti un’assicurazione in caso di infortunio, e i vari referenti delle biblioteche e dei musei del territorio per i quali mette in campo corsi di formazione che consentono l’acquisizione di competenze che non sono direttamente connesse col ruolo ricoperto (come la gestione dei volontari).

 

 

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Nel corso della seconda annualità il progetto IO VOLONTARIO PER LA CULTURA ha visto l’adesione di quindici biblioteche e sei musei. L’adesione è naturalmente volontaria a partire da quella del comune. Una volta che il comune attiva il progetto aderiscono le strutture e poi si procede col reclutamento dei volontari ognuno dei quali presta la sua opera in relazione alle proprie capacità e al proprio tempo libero. Chi promuove il progetto, ai volontari non chiede altro che impegno, interesse, consapevolezza di cio che si andrà a svolgere, senza imporre altri vincoli di sorta come può accadere ad esempio nelle associazioni più codificate. I volontari contattati per la seconda annualità sono stati 250, quelli che hanno effettivamente aderito sono stati 150, di cui 76 presenti sin dalla prima edizione del progetto.

Le dinamiche che si creano in un contesto di volontariato non sono le stesse che si creano in un ambito professionale, si creano relazioni più distese che diventano amicizie che durano nel tempo anche tra generazioni diverse che creano connessioni speciali all’interno delle comunità. La presenza dei volontari apporta creatività e qualità oltreché nuove iniziative. Si può dire che senza i volontari non sarebbe la stessa cosa. A tal proposito Gloria Busi nel corso della sua presentazione (coadiuvata da diapositive di power point) ha mostrato la fotografia di una vendita di libri di una biblioteca, libri che per vari motivi non potevano rientrare in catalogo e che sono stati venduti in una maniera molto interessante, allestendo una bancarella con una bilancia d’epoca per valutarne il peso. Giocando sul detto “la cultura ha un suo peso”, i libri sono stati venduti proprio così, a peso.

A questo punto sono stati i volontari presenti ad illustrare in modo specifico come hanno messo in pratica il progetto nelle biblioteche e nei musei dei loro comuni.

Patrizia Pasina, responsabile della biblioteca di Ardenno (e nonostante il cognome talamonese, originaria di Paniga) ha parlato di un progetto chiamato SOS COMPITI creato con la collaborazione di tre volontari (quelli che ad Ardenno hanno aderito al progetto) e due maestre delle elementari. “il progetto vorrebbe essere esteso anche alle medie, ma occorrono più volontari” e anche di un progetto chiamato SOS COMPUTER che si occupa della parte digitale e telematica della biblioteca di Ardenno offrendo servizi di consulenza agli utenti grazie all’opera di volontari esperti che spiegano a tutti come usare i computer.

Il progetto SOS COMPITI è un progetto attivato da molte biblioteche del territorio perché necessario in tutte le comunità. In particolar modo Delebio con una vasta percentuale di stranieri non cristiani che dunque non frequentano l’oratorio, ha particolarmente bisogno di un progetto del genere che viene sperimentato già da diversi anni con risultati positivi anche per quanto riguarda i rapporti tra le volontarie e i bambini i quali realizzano lavoretti di Natale in omaggio all’aiuto ricevuto. Anche Dubino ha attuato un progetto simile e Talamona anche in collaborazione con associazioni di volontariato estranee a questo progetto di IO VOLONTARIO PER LA CULTURA.

Per quanto riguarda le attività di Talamona, l’onere e l’onore di illustrarle è andato a Simona Duca, ex assessore alla cultura e dunque figura fondamentale nella coordinazione del progetto e nei rapporti tra volontari e amministrazione che ora, dopo il commissariamento del comune, continua a far parte del progetto come volontaria vera e propria.

“nel corso degli anni molti progetti sono stati realizzati a Talamona” ha raccontato Simona Duca “ma nessuno ha preso piede come questo, non soltanto grazie all’appoggio congiunto della provincia e di tutti coloro che hanno partecipato e continuano a partecipare ma anche per il clima familiare e amichevole che si creato che fa si che quando ci si ritrova periodicamente per mettere le idee sul tavolo esse nascono molto spesso in un’atmosfera molto allegra, un po’ buttate li dicendo si potrebbe fare questo e quello e solo una volta che ci si trova per le serate ci si rende conto di come tutto sia maledettamente serio. Da non sottovalutare l’importanza dei volontari che permettono di tenere aperta la biblioteca cinque giorni a settimana in modo da consentire tra le altre cose aperte collaborazioni con l’istituzione scolastica”

Per quanto riguarda Morbegno non era presente nessun referente diretto e dunque è stata Gloria Busi a spiegare i progetti messi in campo come l’organizzazione di gruppi di lettura in biblioteca con molte adesioni soprattutto tra i giovani e il trasferimento dell’archivio del tribunale in biblioteca (con sentenze dell’Ottocento che costituiscono un importante documento storico che offre spaccati di vita quotidiana dell’epoca) ad opera di un’archivista che già vi lavora. È questa una cosa molto significativa il fatto che in ambito di volontariato si portino avanti le stesse attività svolte in ambito lavorativo, denota una grande passione per quello che si fa. Molto spesso invece i volontari vorrebbero essere reclutati per fare qualcosa di diverso rispetto a cio che fanno abitualmente.

Molto utile a Morbegno l’apporto di volontari anche per quanto riguarda la gestione del museo civico di Storia Naturale nonché di quasi tutti i musei ed ecomusei della Valtellina che tramite questo progetto, ma anche il servizio civile e la dote comune possono contare sempre su un personale vario e dinamico, anche attraverso soluzioni innovative come quella adottata dal museo vallivo Valfurva che da quando si è convenzionato col comune e ha preso parte al progetto IO VOLONTARIO PER LA CULTURA ha risolto il problema, che andava avanti da diverso tempo, di non riuscire a trovare nuove leve.

A questo punto la parola è passata a Francesca Menaglio che ha tracciato il bilancio della seconda annualità del progetto illustrando i risultati dei questionari di monitoraggio.

Gli elementi di maggior successo di questo progetto secondo i volontari, i referenti e gli utenti sono la possibilità di potersi esprimere e mettere in campo le proprie conoscenze e attitudini, ma anche la possibilità di sperimentarsi con tutta una serie di attività stimolanti che permettono l’acquisizione di nuove competenze e conoscenze (ad esempio nel caso dei gruppi di lettura la possibilità di scoprire nuovi titoli e autori), dunque di crescere personalmente, ma anche di rinnovare l’immagine della biblioteca e del museo in cui si presta la propria opera, di creare un contesto dinamico e accattivante che risponde ai bisogni di tutti, che crea gruppo, integrazione con le famiglie e le scuole e che con poche flessibili regole permette a chi vi rientra di potersi investire in un qualcosa di utile per la comunità senza sentirsi troppo condizionato, cosa che consente in un certo qual modo una personalizzazione dei servizi che diventano meno schematici e burocratici e più umani. È esemplare il fatto che siano soprattutto le donne a diventare volontarie in maggior numero rispetto agli uomini, tra cui molte madri di famiglia che dichiarano di sentire il bisogno di esprimersi in un contesto diverso al di fuori della quotidianità dell’ambito familiare delle dinamiche di cura dei figli e dell’ambiente domestico.

Dai sondaggi sono emersi anche aspetti su cui bisogna ancora lavorare come ad esempio aspetti logistici dovuti a locali troppo piccoli o comunque inadeguati (un problema che la biblioteca di Grosio ha recentemente risolto avendo ristrutturato la sua sede storica, il palazzo Visconti-Venosta, rendendolo adeguato a tutte le necessità) o il problema di un coinvolgimento dell’utenza che spesso non va oltre le attività specificatamente programmate.

Di tutto questo se ne terrà conto nel corso della terza annualità il cui successo dipenderà molto dalla campagna promozionale (on line e tramite passaparola e grande impegno dei comuni per massicce campagne informative) per quanto riguarda il reclutamento di nuovi volontari e dall’impegno di questi ultimi per far si che il tutto proceda col successo delle annualità precedenti. Un successo che di certo sarà maggiormente garantito da volontari energici e ben nutriti. Ed ecco come a questo punto si è concluso il meeting per dare inizio al rinfresco.

Antonella Alemanni

 

Per tutte le informazioni, manifestazioni,archivio della Biblioteca” Ines Busnardi Luzzi” nonchè altri articoli di Antonella Alemanni, clicca qui:

http://www.comune.talamona.so.it/ev/hh_anteprima_argomento_home.php?idservizio=10054&idtesto=577

I TRE MONOTEISMI TRA FEDE E CULTURA

TALAMONA 28 marzo e 4 aprile 2014 religioni a confronto

 

 

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DUE INCONTRI PER CONOSCERE E COMPARARE LE TRE PRINCIPALI RELIGIONI DEL MONDO

Alla fine della serata dedicata alla giornata della memoria e all’approfondimento della cultura e dell’identità ebraica i volontari della biblioteca di Talamona avevano congedato il pubblico con una promessa. Altre serate sarebbero state dedicate a questi argomenti a veri e propri approfondimenti sulle religioni. Questo perché già durante la serata del 27 gennaio si erano venuti a creare diversi spunti di riflessione, ma anche perché già durante la passata stagione culturale era emerso che tra gli argomenti che la gente avrebbe voluto vedere trattati nel corso di serate alla Casa Uboldi c’era proprio la religione. Saputo ciò come poter concretizzare questa cosa, come organizzare le serate? Da quel 27 gennaio e per i due mesi successivi è cominciato dunque per i volontari un grande lavoro di ricerca. Ricerca di informazioni, di libri che trattassero le grandi religioni in modo esaustivo che andassero oltre a ciò che tutti bene o male conoscono. Ricerca anche di un metodo. Come mettere insieme tutte queste informazioni? Quante serate fare? Una sola? Due? Tre? Dedicare ad ogni religione una serata unica oppure impostare il discorso in modo comparativo? A quali religioni dare spazio? Alle tre principali o anche a quelle meno diffuse, meno conosciute? E chi avrebbe dovuto trasmettere le informazioni al pubblico? A sistemare una volta per tutte queste questioni ingarbugliate è intervenuto l’assessore alla cultura Simona Duca, la quale ha pensato di chiedere la consulenza di un’insegnante di religione, Alberta Balitro, che da quel momento si è occupata di tutto e ha organizzato le serate così come poi si sono effettivamente svolte. Due serate dedicate alle tre più importanti religioni monoteiste per conoscere i legami che intercorrono tra loro, le analogie, le differenze, la ricerca di un dialogo possibile e le ragioni degli odi e delle spaccature tra tre culti che in fin dei conti, sebbene in modi diversi riconoscono lo stesso Dio. Due serate che per me sono state un po’ come una rimpatriata essendo stata la professoressa Balitro mia insegnante alla scuola professionale.

La prima serata ha avuto luogo venerdì 28 marzo 2014 alle ore 20.45. Nel corso di circa due ore, partendo da dove eravamo rimasti nel corso della serata del 27 gennaio, è stata fatta un’analisi approfondita dell’ebraismo e del cristianesimo indagando le caratteristiche delle due fedi e i rapporti tra esse nel corso della storia. Un analisi raccontata al pubblico con l’aiuto di una presentazione fotografica.

L’ebraismo è la più antica delle religioni monoteiste rivelate. In realtà esistono altre testimonianze di antichi culti monoteistici (pensiamo all’ epoca di Amarna nell’antico Egitto quando il faraone Akenaton introdusse il culto del disco solare Aton da venerare come unico dio o al caso precedente all’ebraismo dello zoroastrismo dal nome del profeta Zoroastro che diffuse il culto tra i persiani, il culto del fuoco sacro attribuito all’unico dio Ahura Mazda) ma l’ebraismo è il solo ad avere la caratteristica di essere stato un culto rivelato, cioè un culto di un essere superiore che si toglie il velo e si mostra agli uomini, un culto pertanto non dovuto ad interpretazioni umane della natura che ci circonda, da un tentativo di spiegare fenomeni che apparivano inspiegabili, come è il caso invece di tutte le religioni che all’ebraismo erano precedenti o contemporanee in tempi remoti, ma il culto di un Dio che parla agli uomini e interagisce con loro. Un culto che è nato quando Dio ha parlato ad Abramo, un sumero di Ur (una delle più antiche città conosciute) e gli ha promesso una ricca discendenza in una terra nuova verso cui lo ha indirizzato. Ed è in questo modo che nacque il popolo ebraico e che nacque anche il primo e più importante dei tre monoteismi del Mondo, il più importante perché, pur essendo così antico e nonostante il popolo ebraico abbia avuto una storia travagliata fatta di dominazioni straniere, esili, schiavitù, diaspore eccetera, esso, a differenza di altri culti coevi, è sopravvissuto intatto fino a noi, pressoché inalterato nel tempo. Il popolo ebraico è forse l’unico popolo che ha saputo traghettare intatta nel corso dei secoli la propria cultura sin dai suoi albori, quando nacque da una costola del popolo sumero, la più antica civiltà conosciuta (anche se tra gli storici cominciano ad essere dei dubbi a riguardo). Ribadiamo di nuovo che Abramo, prima di incontrare Dio era un sumero a tutti gli effetti che venerava gli dei sumeri e tale sarebbe rimasto se Dio non gli avesse parlato. A riprova di ciò pensiamo anche solo al fatto che la testimonianza più antica del diluvio universale non è quella contenuta nella Bibbia bensì quella contenuta nell’epopea di Gilgamesh, il principale poema epico sumero (che equivale all’Iliade e all’Odissea dei Greci e all’Eneide dei Romani). Il popolo ebraico ha mantenuto nel tempo non solo la sua cultura, ma più in generale anche la sua identità, la sua alleanza con Dio (perciò si chiama anche popolo eletto o popolo prescelto o popolo dell’alleanza) cominciata con Abramo, il primo di una serie di patriarchi ricordati nelle scritture che hanno udito e seguito la voce di Dio. Dopo Abramo troviamo suo figlio Isacco e dopo di lui suo figlio Giacobbe che venne soprannominato da Dio Israele e da allora il popolo ebraico, sviluppatosi a partire dalle 12 tribù ciascuna fondata da un figlio di Giacobbe, si identifica come popolo di Israele. Dopo Giacobbe abbiamo un altro patriarca, Mosè, che libera gli ebrei dalla schiavitù in Egitto e successivamente l’epoca dei profeti e dei re, gli unti del signore per mano dei profeti stessi. Queste vicende non sono soltanto la radice dell’ebraismo, ma anche degli altri due monoteismi importanti: cristianesimo prima e islamismo poi. Tutti e tre i monoteismi si identificano come le tre religioni di Abramo perché tutte hanno e riconoscono in Abramo la propria origine. La religione ebraica è conosciuta anche come giudaismo. Gli ebrei sono stati definiti con il termina giudei al ritorno in patria dopo la cattività babilonese ed anche nel 1948 quando venne fondato lo stato di Israele e molti ebrei dispersi nel Mondo, soprattutto in Europa, vi si stabilirono. Ma chi è un ebreo? Ebreo è colui che nasce da madre ebrea (la madre è un riferimento più certo del padre), ma anche colui che segue la legge di Dio che compie i riti, che vive mettendo in pratica i principi fondamentali, che applica lo shemah Israel un versetto contenuto nel sesto capitolo del Deuteronomio, una preghiera che l’ebreo recita tre volte al giorno quotidianamente per tutta la vita anche in punto di morte. Come ogni culto anche quello ebraico ha i suoi simboli. Un simbolo ebraico è la menorah, il candelabro a sette bracci, uno per ogni giorno della creazione più quello centrale che rappresenta il sabato, il giorno in cui Dio riposò. Ed è per commemorare questo che gli ebrei, a partire dal venerdì dopo il tramonto fino a sabato dopo il tramonto, osservano lo shabbat, un giorno dedicato solo alla preghiera, un giorno durante il quale ogni altra attività viene sospesa persino la visita ai morti. Nelle scritture vi è testimonianza di questo quando si racconta del corpo di Cristo tolto dalla croce e deposto frettolosamente nel sepolcro proprio perché di li a poco sarebbe cominciato lo shabbat. Nelle scritture vi è anche testimonianza della costruzione della prima menorah da un unico blocco d’oro come racconta il capitolo 25 dell’Esodo. Un altro simbolo dell’ebraismo è la stella di David composta da due triangoli sovrapposti: uno col vertice rivolto verso l’alto rappresenta l’elemento femminile, l’acqua mentre l’altro, rivolto verso il basso, rappresenta l’elemento maschile il fuoco. La stella di David veniva usata nel Medioevo e in epoca nazista per identificare ed isolare le comunità ebraiche nelle città ed è più un simbolo storico che religioso, un po’ come la croce cristiana, un simbolo preso dalla Storia, inizialmente simbolo di morte in quanto la modalità preferita dai Romani per le esecuzioni capitali, specie dei malfattori, trasfigurata dalla fede in simbolo d’amore perché il palo verticale della croce rappresenta l’elevazione verso l’alto e dunque verso Dio mentre il palo orizzontale è l’abbraccio che accoglie tutti. Infine vi è anche lo shoffar, un corno di montone. Come ogni culto (eccettuate le religioni primitive naturali) anche l’ebraismo ha un testo sacro che ne raccoglie i precetti. Gli ebrei e i cristiani si identificano entrambi con la Bibbia, termine che indica insieme di tanti libri. La Bibbia ebraica, composta da 39 libri, è quella che i cristiani identificano come l’Antico Testamento ed è divisa in tre gruppi: la Torah cioè la legge (che i cristiani chiamano Pentateuco) sono i primi cinque libri della Bibbia cioè Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, poi ci sono i Lebim e i Ketubim.  Gli ebrei non hanno smesso di scrivere i testi sacri, oggi come in antichità, su rotoli dapprima custoditi nell’Arca dell’Alleanza e attualmente nelle sinagoghe dove vanno consultati con una bacchetta perché non possono essere toccati da dito d’uomo. Oltre all’inviolabilità dei testi si riscontra, nell’ebraismo, l’inviolabilità del nome di Dio che l’uomo non può pronunciare e compare scritto nella Torah sottoforma di tetragramma sacro, composto solo da consonanti impronunciabili. Gli ebrei si riferiscono a Dio come Adonai (che corrisponde al nostro Signore) oppure come Eloim (che corrisponde al nostro Dio). In seguito gli studiosi dell’università di Tiberiade coniarono il famoso termine Javeh aggiungendo al tetragramma sacro le vocali della parola Adonai. Questi principi di inviolabilità valgono per tutti anche per i rabbini che nella religione ebraica sono le figure di riferimento e sono molto di più dell’equivalente dei sacerdoti cristiani. I rabbini sono i maestri, sono coloro che insegnano, che custodiscono e trasmettono la cultura, i principi, le tradizioni, sono guide, non solo spirituali, ma anche materiali perché si occupano anche delle questioni giuridiche e sociali e più in generale di tutti i servizi per la comunità, di provvedere a tutti i bisogni. In questo senso anche le sinagoghe (diventate il luogo della preghiera dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d. C.) sono ben più che semplici luoghi di culto; esse sono anche luoghi di ritrovo dove si tengono lezioni e dove hanno sede gli uffici che si occupano delle questioni giuridiche e sociali e dei servizi alla comunità. I rabbini hanno un abbigliamento caratteristico che li contraddistingue perlomeno nelle occasioni ufficiali: uno scialle chiamato tallit da indossare in preghiera (grande per le preghiere solenni, pubbliche e ufficiali, più piccolo per le preghiere quotidiane private) e un cappellino tondo chiamato kippah che tutti gli uomini, ebrei e non, devono portare quando entrano in sinagoga per una questione di rispetto dei rituali ebrei che prevede che gli uomini non entrino in sinagoga a testa nuda. Le donne invece non indossano ornamenti particolari quando vanno in sinagoga o pregano. Da notare il confronto col cristianesimo che ha sempre previsto che gli uomini al contrario si dovessero togliere il cappello accedendo ai luoghi di culto, mentre le donne fino a non molti anni fa dovevano portare, a partire dalla pubertà, veli di diverso colore a seconda se erano nubili, sposate o vedove. Ognuno mostra il rispetto dei propri luoghi di culto in modo diverso è importante che ciascuno conosca i propri e anche quelli degli altri per poter convivere pacificamente. Un altro simbolo molto importante per il culto ebraico è la mesusah una sorta di bastoncino che riporta lo shemah Israel e che viene posto sugli stipiti delle porte perché gli ebrei devono sempre avere presente che esiste un unico Dio da portare sempre dentro di se, ecco perché i ragazzi più giovani quando praticano i riti e le preghiere indossano i tefilin cioè degli astucci che contengono degli estratti della Torah, fissati alla fronte e al braccio sinistro con delle fibbie, per portare sempre con sé la parola di Dio, imprimerla nel cuore, nella mente e diffonderla, questa parola sacra che, sebbene ovviamente sia diffusa anche su libri stampati, nella sinagoga si trova solo su rotoli custoditi in una teca all’ingresso circondata da lumi sempre accesi, un po’ come i lumi nelle nostre chiese. Non deve stupire che molti culti ebraici e cristiani si assomiglino. Il cristianesimo nacque infatti in seno all’ebraismo, non si può parlare di uno dei due culti prescindendo dall’altro. Gesù stesso è sempre stato un ebreo a tutti gli effetti e non ha mai dichiarato di voler fondare un culto nuovo, ma si è limitato a proporre alcuni miglioramenti alla legge di Mosè che tutti gli ebrei di allora seguivano, Gesù compreso. Abbiamo detto prima che le sinagoghe hanno assunto un ruolo importante come luoghi di culto dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme. In realtà il tempio non è andato distrutto completamente, ma ne sopravvive una parte, il muro del pianto che sorge nei pressi della moschea di Omar un importante luogo di culto musulmano (perché, sottolineiamo, i tre monoteismi, oltre ad avere un’unica origine in Abramo e a venerare il medesimo Dio, sebbene con delle differenze, hanno in comune anche la città santa di Gerusalemme, sebbene solo gli ebrei e i cristiani la considerano la città santa in assoluto mentre per i musulmani prima vengono La Mecca e Medina). Gli ebrei pregano al muro del pianto. Tra un mattone e l’altro del muro infilano dei fogli con scritte preghiere di vario genere che due volte all’anno vengono raccolte da degli addetti e sepolte in terra. Durante la preghiera al muro gli ebrei sono divisi in settori diversi per gli uomini e per le donne, divisi proprio da un separé proprio come vuole la tradizione dell’ebraismo ortodosso sebbene alcune donne si stiano ribellando a questo: è sorto proprio un movimento chiamato le donne del muro, che si presentano vestite con gli ornamenti maschili nel settore degli uomini e vengono arrestate perché i più tradizionalisti le considerano un’ offesa alla parola di Dio. Bisogna dire che l’ebraismo nel corso dei secoli ha perso un po’ della sua rigidità. Nel XIX secolo in Germania è nata una corrente riformata che, transitata negli Stati Uniti, ha dato vita ad un mix originale di ebraismo e cristianesimo, un culto ebraico che riposa la domenica anziché il sabato e riconosce Gesù come Messia unto pur continuando ad attendere l’arrivo di un altro Messia. Ma ebrei si nasce o si diventa? Questa domanda già emersa durante la serata del 27 gennaio è ricomparsa questa sera. È possibile convertirsi al culto ebraico ed essere comunque considerati ebrei pur non essendolo di sangue? Basta osservare i riti o sono necessarie tutte le caratteristiche, anche quelle etniche per circoscrivere l’identità ebraica? La conversione ad un culto non è mai facile. Bisogna osservare i riti con molta più rigidità quando si è convertiti rispetto a quando si osserva la stessa religione di quando si è nati. Un cristiano che vuole convertirsi, o semplicemente non vuole più avere nulla a che fare con la religione, dovrà annullare i sacramenti che ha ricevuto soprattutto il battesimo, dovrà fare richiesta di essere cancellato dai registri parrocchiali e dovrà attendere che la sua richiesta venga esaminata. Bisogna dire inoltre che per molto tempo (e ancora oggi tra le frange più estremiste) gli ebrei non si sono visti semplicemente come un insieme di persone accomunate da un credo, ma, come appunto abbiamo detto, come un vero e proprio popolo, addirittura il popolo eletto di Dio che non poteva accettare mescolanze con altri popoli se voleva conservare intatta la propria purezza di sangue soprattutto visti i continui spostamenti cui era costretto da altri popoli come gli Egizi, i Babilonesi, i Romani che ne sfruttavano le capacità (la loro cultura e la ricchezza mentale era tutto ciò che non veniva mai a mancare durante gli spostamenti ed era importante per conservare l’identità di popolo) per farli lavorare, per costruire i monumenti o maneggiare il denaro. In questo l’ebraismo si distingue nettamente dagli altri due monoteismi i quali hanno il principio del proselitismo, il compito cioè di convertire più persone possibile a quella che ciascuno dei due considera la vera fede. Ben poche distinzioni invece (almeno nei secoli passati) per quanto riguarda il trattamento che i retaggi, prima culturali che religiosi, riservano alle donne nell’ambito di ogni culto in posizione inferiore, subordinata e separata dall’uomo, sebbene poi uomini e donne sono comunque destinati ad incontrarsi in certi ambiti per diventare una cosa sola, il tutto però in maniera rigidamente disciplinata. L’uomo ha sempre avuto questo rapporto ambiguo con la donna, desiderata e disprezzata allo stesso tempo, vista come impura, empia, tentatrice, veicolo dell’uomo verso il peccato e la religione non fa altro che esprimere in qualche modo tali atavismi sebbene col tempo ridimensionati. Gesù in questo è stato rivoluzionario, parlava alle donne, agli ultimi e si contrapponeva all’ebraismo ortodosso perché non metteva al primo posto la purezza di sangue, ma affermava invece che la sua famiglia era costituita da tutti coloro che ascoltavano la sua parola e seguivano i suoi insegnamenti. Col tempo, anche a prescindere da Gesù, l’ebraismo ha adattato l’interpretazione delle scritture anche in base ai mutamenti delle varie epoche. Tali mutamenti li troviamo nel Talmud, un altro testo fondamentale dell’ebraismo che contiene le trascrizioni delle interpretazioni orali della Torah ad opera dei vari maestri che succeduti nel corso dei secoli. Una corrispondenza di cio nel cristianesimo è la cosiddetta esegesi delle scritture. Una caratteristica importante dell’ebraismo è il dialogo diretto con Dio senza intermediari umani come nel caso della confessione cattolica, un dialogo diretto che molte altre fedi professano come il cristianesimo protestante. Mentre infatti l’ebraismo si distingue al suo interno per il fatto di avere correnti più aperte, moderne e moderate ed altre più rigide e tradizionaliste, il cristianesimo è suddiviso in almeno quattro tipi di fedi (ortodossi, protestanti, cattolici e anglicani) che si sono formate nel corso di ben precise vicende storiche e che non riconoscono tutte esattamente gli stessi principi e nemmeno gli stessi sacramenti. La confessione è appunto un sacramento solo cattolico ed anche la venerazione dei santi nel cattolicesimo è più sviluppata che in altre confessioni cristiane dove viene praticata solo in parte oppure per niente. Il fatto che per i cristiani delle origini e per i cattolici poi non fosse previsto il fatto di poter interagire direttamente con Dio ha portato a secoli di oscurantismo. Gli uomini di Chiesa studiavano le scritture e le conoscevano a memoria ma rigorosamente in latino e sempre rigorosamente in latino e in toni solenni dispensavano le messe, le prediche i riti e questo ha fatto si che per molto tempo la popolazione vivesse in stato di ignoranza, di paura e sottomissione, preda di superstizioni e incapace di pensare con la propria testa al di la di quello che veniva detto. È soltanto quando Martin Lutero tradusse la Bibbia in tedesco che la gente, perlomeno quella che viveva nei paesi di lingua tedesca e abbracciò il protestantesimo, cominciò a capirne di più. Per i cattolici il momento di una maggiore apertura e modernità venne col concilio vaticano secondo. Come ogni culto anche l’ebraismo ha le sue feste in parte coincidenti con quelle cristiane. Entrambi festeggiano la pasqua e la considerano la festa più importante sebbene attribuendole significati diversi. Per gli ebrei la pasqua ricorda la schiavitù in Egitto e la successiva liberazione mentre per i cristiani ricorda la resurrezione di Gesù. Ci sono dei paralleli anche nei cibi che ebrei e cristiani consumano il giorno di pasqua. Entrambi mangiano l’agnello. Per gli ebrei l’agnello ricorda la notte della decima piaga d’Egitto che prevedeva lo sterminio dei primogeniti. Per essere riconosciuti e dunque risparmiati dall’angelo sterminatore gli ebrei sacrificarono un agnello e col suo sangue segnarono gli stipiti delle porte delle loro case. Ogni anno a pasqua gli ebrei devono consumare un agnello intero per ciascuna famiglia o eventualmente più famiglie messe insieme. Per i cristiani invece l’agnello sacrificale è Gesù che visse la passione per la redenzione dei peccati dell’umanità. Entrambi consumano uova simbolo di vita. Quelle degli ebrei sono sode, quelle dei cristiani di cioccolato. Gli ebrei inoltre consumano pane azzimo ed erbe amare a ricordo della durezza della schiavitù e un impasto di mandorle e fichi secchi a ricordo dei mattoni fabbricati in Egitto. Durante la cena della pasqua ebraica è tradizione che il membro più piccolo di ciascuna famiglia chieda spiegazione di questi cibi e di questi riti e che il più anziano gli risponda raccontandogli tutta la storia. Un’altra festa comune è la pentecoste che per gli ebrei ricorda il momento in cui Mosè ricevette le tavole della legge, mentre per i cristiani ricorda la discesa dello spirito santo sugli apostoli che cominciarono poi la loro predicazione in giro per il Mondo. in entrambi i casi la pentecoste cade cinquanta giorni dopo la pasqua. Gli ebrei inoltre celebrano la festa delle capanne. A ricordo dei quarant’anni passati a vagare nel deserto gli ebrei costruiscono delle capanne fuori casa e vi si stabiliscono per una settimana a ricordo delle condizioni precarie in cui vissero i loro antenati. Questa festa può trovare una corrispondenza con quella cristiana del ringraziamento quando nel periodo autunnale era tradizione (e in alcune parrocchie lo è tutt’ora) portare in chiesa i frutti della terra come dono di ringraziamento a Dio. Poi ci sono l’anno nuovo festeggiato dagli ebrei suonando lo shoffar e che per i cristiani non corrisponde propriamente al Capodanno che segna la fine dell’anno solare, ma all’avvento che segna l’inizio di un nuovo anno liturgico, il giorno della riconciliazione con Dio e dell’espiazione che prevede venticinque ore di digiuno e che nel cristianesimo trova dei riscontri col mercoledì delle ceneri e il venerdì santo, la hanukkah la festa della luce durante la quale gli ebrei accendono le candele e che corrisponde al nostro Natale con gli addobbi e le luminarie e la purim, il carnevale che, esattamente come quello cristiano, prevede divertimento abbuffate e mascherate prima della penitenza che prepara alla pasqua.  Come ogni culto anche l’ebraismo ha i suoi riti che accompagnano l’individuo nel corso di tutte le fasi importanti dell’esistenza. In ambito cristiano tali riti corrispondono ai sette sacramenti con le dovute differenze. Il primo rito della vita di un ebreo è la circoncisione. Otto giorni dopo la nascita i bambini maschi ebrei vengono circoncisi mentre le bambine ricevono una piccola benedizione in sinagoga. Questo è in qualche modo il corrispondente ebraico del nostro battesimo. Esiste anche una sorta di equivalente ebraico per la nostra cresima ed è il bar-miz-va cioè il primo sabato dopo il compimento del tredicesimo anno del maschio ebreo che, come in una sorta di rito di iniziazione, va nella sinagoga e legge la torah per la prima volta facendo in questo modo l’ingresso nella comunità degli adulti e adottando anche l’abbigliamento e gli ornamenti degli adulti durante i riti e le preghiere da quel momento in poi. Anche per le bambine è previsto un rituale analogo chiamato però bat-miz-va ed esiste solo nell’ebraismo riformato non in quello ortodosso. Crescendo arriva poi il momento del fidanzamento, con la consegna di un anello alla donna da parte dell’uomo, insieme con una promessa d’amore e di impegno ufficiale davanti alla comunità e a Dio e dopo il fidanzamento il matrimonio celebrato indifferentemente in sinagoga o in casa propria purché sotto un baldacchino, officiato dal rabbino e durante il quale lo sposo rompe un bicchiere in ricordo della distruzione del tempio di Gerusalemme. È tradizione per gli ebrei, anche in momenti di festa, riservare sempre un ricordo a un qualche momento doloroso della loro storia. Ad un certo punto arriva anche il momento della morte. Chi ne è in grado prima di morire recita lo shemah Israel oppure viene letto dai familiari poi c’è il rituale della sepoltura e i parenti si lacerano le vesti. Questo nel rituale ortodosso (oggi non ci si lacera comunque proprio le vesti bensì degli stracci) a simboleggiare un legame affettivo che si lacera e viene a mancare. Gli ebrei ortodossi proibiscono la cremazione mentre i riformati no. Sulle tombe dei morti non si portano fiori, ma pietruzze. Una peculiarità che appartiene al culto ebraico e non a quello cristiano consiste nelle restrizioni alimentari. Per gli ebrei alcuni cibi sono impuri e non si possono mangiare come prescritto in un passo del Deuteronomio. Gli ebrei non possono mangiano carne di maiale (cosa che hanno in comune coi musulmani) non mangiano volatili ad eccezione di quelli domestici, ne pesci ad eccezione di quelli con le squame, mangiano carne macellata soltanto da un macellaio ebreo privo di difetti fisici che taglia di netto la gola dell’animale e toglie tutto il sangue (che non può essere consumato perché considerato in qualche modo sede della vita) e non la cucinano mai abbinata al latte e ai suoi derivati. Gesù con le sue predicazioni tra le altre cose rivoluzionerà anche questa concezione, dirà che non è impuro cio che entra nella bocca dell’uomo ma cio che ne esce. Ecco perché i cristiani non hanno restrizioni alimentari. Cristiani ed ebrei per molti secoli sono riusciti ad avere solo conflitti e nessun dialogo nessuna apertura tra loro. I cristiani non perdonavano agli ebrei il mancato riconoscimento di Gesù come il Messia figlio di Dio, la sua morte, il mancato riconoscimento del nuovo testamento e, in tempi antichi, il fatto di manipolare il denaro, inizialmente associato dai cristiani al demonio (finchè anche loro poi hanno dovuto usarlo). Gli ebrei sono stati incolpati di ogni sciagura. Della peste nera nel Trecento, del disastro economico in Germania negli anni Trenta e così via. Bisognerà attendere il concilio vaticano secondo indetto da papa Giovanni XXIII e proseguito con Paolo VI per una prima apertura. Paolo VI scriverà addirittura un’enciclica che libererà gli ebrei da ogni accusa mossa loro in passato e prima di lui Giovanni XXIII ha modificato la liturgia del venerdì santo che prevedeva la frase “preghiamo per i perfidi ebrei”, frase che è stata tolta. Nel 1986 papa Giovanni Paolo II ha incontrato il rabbino capo Elio Toaff è entrato in sinagoga e ha chiamato gli ebrei fratelli maggiori e successivamente si recato in Israele a pregare di fronte al muro del pianto cosa che ha fatto anche Benedetto XVI  e che ha in programma anche papa Francesco. Il tutto per costruire insieme un cammino di pace che gli ebrei attendono da secoli, ma che per loro non è ancora giunta.

Si è conclusa in questo modo la prima parte del cammino alla scoperta dei tre monoteismi.

 

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La seconda serata si è svolta il 4 aprile alla stessa ora e con le stesse modalità. In questa serata partendo dal cristianesimo e viste già le sue radici ben piantate nell’ebraismo, si indagano i rapporti con l’islam.

La parola islam pronunciata in arabo con l’accento lungo sulla a significa sottomissione a Dio. Tra le religioni monoteiste rivelate è la più recente e pone principalmente l’attenzione su due realtà: l’uomo e Dio due realtà distinte, ma allo stesso tempo accomunate dai riti, dalle leggi sociali, dalle leggi del popolo. L’islam non è solo una religione, ma anche una comunità, l’hunnà, con una storia vastissima, una cultura, un’arte, trasmessa nel corso dell’espansione di questa comunità religiosa lungo tutto il bacino del mediterraneo e verso l’estremo oriente. Come ogni culto anche l’islam ha i suoi simboli. Il simbolo certamente più conosciuto è la mezzaluna con la stella che compare anche su molte bandiere di stati musulmani e che non nasce inizialmente come simbolo religioso perché l’islam in origine non aveva simboli particolari. Questo simbolo è preislamico cioè precedente alla sua diffusione e si riferisce ad un fatto storico. Quando Filippo II  di Macedonia invade la città di Bisanzio organizza un attacco notturno sotto le mura col favore delle tenebre quando ad un certo punto il vento disperde le nubi, in cielo compare una falce di luna che schiarisce il cielo permettendo alle guardie delle mura di vedere gli assedianti, dare l’allarme e costringerli al ritiro. In seguito a cio la falce di luna comincia a diventare il tema portante di molti manufatti come simbolo di salvezza. Nel mondo arabo inoltre la parola che indica la mezzaluna ha anche un riferimento numerico, ha lo stesso simbolo numerico della parola Allah pertanto la mezzaluna rappresenta Allah e la stella a cinque punte di conseguenza rappresenta Maometto, il profeta di Allah che sta ai suoi piedi. Oltre a questo simbolo i musulmani ne hanno altri due riprodotti su amuleti che portano al collo o al polso oppure tengono in casa per tenere lontane le malattie, le sventure, la malasorte eccetera. Uno dei due simboli si chiama la mano di Fatima cioè la figlia del profeta Maometto che vide un giorno suo marito in compagnia di una concubina, immerse la mano in una pentola di acqua bollente, ma non sentì dolore e questo per i musulmani è sintomo di forte autocontrollo. Le cinque dita della mano di Fatima rappresentano i cinque pilastri dell’islam. Anche gli ebrei hanno un amuleto simile, ma lo chiamano la mano di Miriam le cui cinque dita rappresentano i cinque libri della Torah. L’altro simbolo-amuleto è l’occhio di Allah molto diffuso in Marocco e spesso sovrapposto alla mano di Fatima. La penisola araba è il cuore dell’islam, il suo luogo di origine nonché di nascita del profeta Maometto (cioè colui che è lodato, questo il significato del nome) in povertà e rimasto presto orfano accudito da uno zio che lo avvia alla professione del carovaniere. Tutti a quel tempo e in quel luogo erano nomadi, commerciavano e si spostavano su carovane fermandosi solo di quando in quando presso oasi o santuari. Tali comunità veneravano molti dei associati agli elementi della natura, si muovevano seguendo le stelle. Tra le comunità che vivevano nella penisola araba a quel tempo c’erano però anche comunità cristiane ed ebraiche. Le prime avevano scarsa cultura e scarsa pratica di commercio. Le seconde disponevano di eccellenti risorse intellettuali, le uniche cose che potevano portare con se nel corso di esili e peregrinazioni per potersi di volta in volta adattare a terre nuove. Maometto nel corso dei suoi viaggi incontra queste comunità e comincia a riflettere sul dio unico che premia i buoni e punisce i malvagi. Seguendo l’esempio degli eremiti cristiani va in ritiro spirituale nelle caverne e li, durante le sue meditazioni, riceve anche le rivelazioni dell’angelo Gibril (Gabriele) che lo esorta a diffondere la fede che ha appreso in tutto il mondo ed egli lo farà e non sarà solo. Viaggiando Maometto ha trovato anche una compagna di quindici anni più vecchia di lui, la vedova Kadija, che lo sosterrà e lo seguirà nel corso delle sue predicazioni insieme con il cugino Alì e il commerciante Abubacr, che ne diverrà il successore. Ecco come nasce e si diffonde l’islam, una dottrina che crede negli angeli, nei demoni, nei jin (spiriti che appaiono e che possono essere sia buoni che cattivi), una dottrina che però teme fortemente la tentazione dell’idolatria e infatti vieta le rappresentazioni sacre, vieta di rappresentare le persone, la venerazione deve essere riservata solo al dio unico come recita anche il primo dei cinque pilastri della religione islamica cui si faceva poc’anzi riferimento: non vi è altro dio all’infuori di Allah e di Maometto suo profeta, un principio che richiama allo shemah Israel degli ebrei e al credo cristiano, un principio che non impedisce comunque ai musulmani di riconoscere anche dei profeti precedenti a Maometto che compaiono anche nella Torah ebraica e nella nostra Bibbia. Anche i musulmani parlano di Abramo, di Ismaele (anzi dicono di essere la discendenza di Ismaele, la discendenza promessa da Abramo quando lo ha allontanato insieme alla madre dopo la nascita di Isacco che Abramo ha avuto da sua moglie), di Isacco, di Giacobbe, di Salomone e di Gesù cui essi non attribuiscono lo status di figlio di Dio bensì quello di grande profeta che ha compiuto il disegno di Dio aprendo poi la strada a Maometto come ultimo e definitivo profeta. Il secondo pilastro è la preghiera cinque volte al giorno secondo un rituale ben preciso. Col viso sempre rivolto verso La Mecca (la città santa dove Maometto è nato) sopra una stuoia, un tappeto, un cartone o un pezzo di stoffa, ma mai a diretto contatto con la terra impura e seguendo una precisa gestualità: prima in piedi poi in ginocchio, poi sdraiati con la fronte, i piedi e le ginocchia al contatto col supporto ad indicare come l’uomo cerchi l’elevazione verso Dio, ma nello stesso tempo si prostra ai suoi piedi, si umilia di fronte ad esso. È il muezzin a richiamare alla preghiera cinque volte al giorno dall’alto del minareto le torri che circondano la moschea e sono un po’ l’equivalente dei campanili cristiani che attraverso il suono delle campane richiama alle funzioni. Il terzo pilastro è il ramadan, il mese del digiuno. Per un mese intero dall’alba al tramonto ogni giorno non si beve, non si mangia, non si fuma, non ci si lava, non ci si profuma e ci si astiene dai rapporti sessuali. A partire dalla pubertà (per le ragazze dal menarca cioè la prima mestruazione) tutti osservano il ramadan ad eccezione delle persone molto vecchie, i malati, le donne incinte o che allattano e quelle col ciclo solo nella settimana in cui sono impure che devono poi recuperare in seguito. Il quarto pilastro è l’elemosina obbligatoria per aiutare poveri e bisognosi, soprattutto vedove ed orfani, ma anche per le spese delle moschee. Il quinto e ultimo pilastro prevede il pellegrinaggio a La Mecca, obbligatorio almeno una volta nella vita. Una volta giunti, vestiti tutti con abiti bianchi senza cuciture a sottolineare l’uguaglianza, bisogna fare sette giri intorno alla Kaaba, una pietra nera che troneggia al centro della piazza principale della città , la piazza con la moschea. Questa reliquia è l’unica risalente all’epoca e ai culti preislamici che Maometto nel corso del suo cammino di predicazione non ha distrutto, ma assimilato. Secondo la leggenda è un meteorite nero a causa dei peccati dell’uomo perché l’islam non ha trovato ancora abbastanza diffusione nel mondo. Quando tutti diventeranno retti musulmani, secondo la leggenda, la pietra diverrà bianca. Anche le donne si recano in pellegrinaggio, ma accompagnate da un maschio della famiglia che fa da tutore e che può essere il padre, il marito o un fratello. Le donne non sono considerate esseri autonomi e sono generalmente ritenute inferiori. Nel mondo arabo in questo senso non si registrano troppe aperture. Durante i pellegrinaggi molta gente si accalca tutta in una volta specie nei periodi prestabiliti dal calendario islamico. Molte persone vengono schiacciate e altre muoiono negli accampamenti improvvisati da fornelletti e fuochi accesi per scaldarsi perché non hanno trovato posto negli alberghi. Durante i culti, i pellegrinaggi, le preghiere, i non musulmani non possono accedere ai luoghi preposti e anche in periodi, diciamo più neutri devono chiedere permessi. I musulmani sono molto più restrittivi rispetto a ebrei e cristiani per quanto riguarda l’accesso ai luoghi sacri. Anche i musulmani hanno il loro testo sacro, il Corano, però riconoscono anche la Torah, i salmi e i vangeli nonché la Sunnà, raccolta di detti, racconti e leggi della giurisprudenza islamica. Il Corano contiene la parola di Allah, da sempre esistente, increata, chiamata la madre del libro. Per vent’anni è stata trasmessa a Maometto da Gibril ma egli non l’ha scritta così come non ha mai messo per iscritto la Sunnà limitandosi a raccoglierne i contenuti. Sono stati i discepoli a scrivere tutto inizialmente su pietre, pelli di animali e scapole di cervo.  Hanno trascritto il Corano e anche la Sunnà che viene interpretata dagli Ulema, dei saggi, i giudici. A loro vengono poste tutte le questioni che possono interessare la comunità ed essi, leggendo e interpretando la Sunnà, emettono un verdetto definitivo. Per quanto riguarda il Corano è composto da 114 sure (capitoli) per un totale di 6633 versetti. Ogni casa contiene una copia del Corano in un angolo appositamente preposto e spesso avvolta in un foulard di seta. Il giorno che i musulmani dedicano al riposo e alla preghiera è il venerdì. I musulmani pensano che quando verrà il momento di incontrare l’Altissimo i primi ad andargli incontro saranno proprio loro seguiti dagli ebrei e dai cristiani. Ecco perché il loro giorno di preghiera viene prima rispetto a quelli delle altre due religioni. Il venerdì si va nella moschea a pregare tutti insieme spalla contro spalla su un pavimento pieno di tappeti. Ma la moschea non è soltanto luogo di culto, di preghiera o di riflessione personale come può essere la chiesa per noi. La moschea è anche scuola coranica, luogo di ritrovo, di ristoro dove si va anche a mangiare, dove si incontra il medico e l’imam che ogni venerdì sceglie, legge e commenta un brano del Corano facendo anche degli interventi sociali e politici messaggi a volte sbagliati che possono portare al compimento di atti terroristici, motivo per cui gli imam vengono controllati dai servizi segreti. Prima di accedere alla moschea bisogna fare le abluzioni all’ingresso o anche a casa, pulirsi accuratamente per purificare tutte quelle parti del corpo che possono costituire veicolo di peccato. Alla moschea poi si accede senza scarpe e questo vale per chiunque accede anche non musulmani. Persino papa Benedetto XVI si tolse le scarpe. Ma che cos’è il peccato per i musulmani? Come per tutti i culti peccato è fondamentalmente non seguire ciò che dio ha prescritto e dunque nel caso specifico non seguire il corano, non seguire i pilastri, non andare in moschea il venerdì, non credere, non attenersi ai precetti. Loro hanno un’idea netta di bene e male di Paradiso e Inferno dove i malvagi vengono portati a cospetto di Satana che i musulmani credono un angelo caduto perché non si è voluto inginocchiare a cospetto di Abramo. Per i musulmani non esiste la bestemmia, prerogativa dei cattolici. I musulmani immigrati nel nostro Paese si sentono in diritto di bestemmiare il nostro Dio perché sentono che noi italiani, che dovremmo credere e rispettare la nostra fede, come i musulmani rispettano la loro, non lo facciamo. Loro credono anche che la donna nasca senza l’anima per questo è inferiore e necessita di sottostare all’autorità dell’uomo. La salvezza della donna risiede totalmente nelle mani di Allah pertanto la donna deve fare ancora più attenzione rispetto all’uomo nel comportarsi bene. Occorre fare una distinzione però tra i Paesi eccessivamente rigidi e fondamentalisti e quelli che permettono una maggiore influenza della cultura occidentale. Nei Paesi fondamentalisti le donne devono coprirsi a partire dalla pubertà, dal menarca. In realtà il Corano dice che devono coprirsi solo all’interno dei luoghi di culto, ma poi l’uomo ha voluto dire la sua assimilando il corpo femminile ad uno strumento di tentazione che trascina l’uomo verso il peccato e il desiderio carnale così nel mondo islamico si vedono spesso donne coperte. Si va da quelle che coprono i capelli a quelle che lasciano scoperti solo gli occhi o solo la faccia a chi copre tutto come in Afghanistan dove alle donne è proibito, pena la flagellazione, leggere, scrivere, farsi una cultura propria. I talebani afghani affermano di applicare la sharia cioè la legge islamica contenuta nella Sunnà, una legge che vale sia in ambito civile che religioso due ambiti che nel contesto islamico non sono separati, una legge che prevede anche la lapidazione degli adulteri (una legge che anche gli ebrei avevano come testimoniano i vangeli che raccontano di Gesù che difende l’adultera dicendo “chi è senza peccato scagli per primo la pietra conto di lei”) con due pesi e due misure. Sia uomini che donne sono prigionieri in una buca, ma l’uomo emerge dalla terra più che la donna e riesce più facilmente a scappare. Se durante la lapidazione si riesce a scappare la gente vede in questo un intervento di Allah e tutto viene sospeso. Per la donna questo intervento può risiedere solo nella speranza di essere ferita dai sassi e non uccisa. Ma come dicevamo, esistono anche Paesi più aperti dove sorgono movimenti femministi che si ergono contro questi principi islamici che sono a sfavore delle donne e dove portare il velo o meno diventa una libera scelta diventa espressione della propria fede del fatto di praticarla. Capita dunque di vedere nelle medesime città donne occidentalizzate accanto a donne tradizionali che non sempre sono così perché obbligate dai padri i quali al contrario a volte confidano nel buon senso delle loro figlie più che nelle restrizioni. L’islam sembra dunque un mondo che si fonda moltissimo sulle contraddizioni e questo è tanto più chiaro se si osservano i riti musulmani che, come nel caso di tutte le altre religioni, accompagnano l’individuo dalla nascita alla morte. Quando nasce un bambino si recita una preghiera al suo orecchio destro e una al suo orecchio sinistro gli si da un bel nome e lo si deve dare al feto anche in caso di aborto. Per un maschio si fa una grande festa e si uccidono due pecore. La femmina non viene festeggiata e per lei si uccide una pecora sola. I musulmani dunque sottolineano sin da principio la loro idea di superiorità del maschio poi però arriva il momento del matrimonio ed emergono molte contraddizioni: per principio il matrimonio deve essere espressione di amore reciproco, per principio religioso proprio, ma poi la donna è di fatto una proprietà del marito sottomessa a lui e il trattamento che riceverà sta tutto nella lungimiranza del maschio nella sua scelta di essere aperto o tradizionalista. Secondo il principio religioso un padre non può obbligare la figlia a restare nubile a sposarsi non può sceglierle il marito, ma a conti fatti questi principi non sono osservati in tutti i Paesi musulmani allo stesso modo. Inoltre mentre la donna deve essere fedele al marito e non avere altri uomini, l’uomo non ha un vero e proprio obbligo di fedeltà e può avere sino a quattro mogli, anche se poi dovrebbe trattarle tutte allo stesso modo senza trascurarne nessuna. Il matrimonio musulmano non prevede la parità tra i coniugi anzi nel mondo musulmano i figli appartengono solo al padre. Ecco perché un uomo musulmano può sposare donne ebree o cristiane (chiamate le agenti del libro per sottolineare origini religiose comuni) ma non può accadere il contrario. Dopo la nascita e il matrimonio arriva il momento della morte. Anche al defunto si recitano preghiere in particolar modo la professione di fede, si lava il corpo lo si avvolge in un sudario e lo si seppellisce nelle terra rivolto verso La Mecca e quando si trovano in un Paese straniero i musulmani o cercano di far rimpatriare la salma nella terra d’origine o comunque rifiutano di essere seppelliti accanto a non musulmani. In qualche modo questa maggiore chiusura e ostinazione a mantenersi separati da altre fedi, a voler convertire tutti per forza più di quanto facessero i cristiani secoli fa è un tratto che colpisce della religione musulmana, un tratto che fa riflettere, un tratto che rende più difficili i rapporti tra cristiani e musulmani che non tra cristiani ed ebrei. Tra tutti e tre i monoteismi le ragioni di dissapore molto spesso vanno ben oltre le ragioni di fede, non si tratta soltanto di dire che si venera lo stesso Dio ma con forme e rituali diversi altrimenti non si sarebbe dovuto aspettare il secolo scorso per cominciare a vedere segni di apertura, volontà di dialogo interreligioso addirittura universale come l’incontro ecumenico di Assisi che vide la partecipazione di tutte le ramificazioni dei tre monoteismi, ma anche delle religioni orientali e animiste tribali di varie popolazioni sparse per il Mondo come i nativi americani. Le ragioni dei dissapori hanno molto più spesso una radice culturale si ritrovano nella Storia. Ad oggi musulmani ed ebrei si contendono il territorio dello stato d’Israele. Secoli fa la missione divina delle crociate di liberare il santo sepolcro dagli infedeli nascondeva anche l’intento di aprirsi nuovamente le rotte commerciali che i turchi avevano chiuso. In secoli più recenti oggetto d’interesse era il petrolio e in mezzo a tutto ciò troviamo pregiudizi culturali dovuti appunto all’ignoranza che porta a chiudersi in se stessi. Ecco perché al cristiano il musulmano appare violento e retrogrado anche per la questione della guerra santa (che ha la sua origine nell’episodio storico della cacciata di Maometto da La Mecca in seguito al quale si è rifugiato a Medina. A La Mecca nessuno voleva ascoltare Maometto, la nuova fede avrebbe provocato crisi all’economia basata sul commercio degli idoli pagani mentre invece Medina accolse Maometto perché rivale di La Mecca e quando Maometto ricevette dall’angelo Gabriele l’esortazione a diffondere la fede con ogni mezzo, anche con la guerra, Medina combatté con Maometto contro La Mecca) mentre agli occhi del musulmano l’occidente è il male, è corrotto, è vizioso. Due punti nevralgici della questione riguardano la posizione della donna che nell’occidente ha conquistato dopo secoli e secoli maggiore libertà e l’educazione religiosa dei bambini all’interno della famiglia che i cristiani col tempo hanno perso e invece le altre fedi hanno mantenuto. Questi sono spunti da cui dovrebbe partire un dialogo che abbia come obiettivo l’incontro pacifico tra quelle che in fin dei conti sono le tre religioni dell’unico Dio.

Ed è con questo augurio di pace dialogo e fratellanza futura che si è conclusa questa sera l’ultima serata (per ora) dedicata alla cultura religiosa. Perché per essere fratelli bisogna amarsi almeno un po’ ma si può amare e dunque non temere solo ciò che si conosce.

Antonella Alemanni

BOSCHI E LEGNO A TALAMONA – UN FILO ROSSO

 

TALAMONA ,22 marzo 2014, la casa Uboldi diventa anche archivio storico. Gli statuti della magnifica comunità di Talamona

VIAGGIO NELL’ANTICO COMUNE DI TALAMONA

IN OCCASIONE DEL TRASFERIMENTO DELL’ARCHIVIO STORICO DAL COMUNE ALLA CASA DELLA CULTURA UNA MOSTRA RIEVOCA UNO SPACCATO DELLA TALAMONA CHE FU, COSI’ COME EMERGE PROPRIO DAI DOCUMENTI

Da quando ormai due anni fa cominciò ufficialmente l’avventura culturale della Casa Uboldi, si sono susseguiti diversi eventi di vario genere e tutti preparati con grande entusiasmo, ma, senza nulla togliere al resto, credo che nessun evento sia mai stato preparato con un lavoro, una cura, un impegno, una passione, pari a quelle spese per l’evento presentato oggi a partire dalle ore 16.30. Un evento che, lo possiamo dire fin d’ora, merita senz’altro di essere ricordato come il momento clou della stagione culturale 2013-2014, un evento che rappresenta in qualche modo il traguardo di un’avventura cominciata cinque anni fa quando sono cominciati anche i progetti di ristrutturazione della Casa Uboldi per far si che diventasse ciò che è ora, uno spazio, per dirla con le parole del sindaco Italo Riva che ha aperto col suo intervento questa ricca giornata, “in cui i talamonesi di tutte le età e generazioni hanno la possibilità di passare piacevolmente del tempo arricchendosi culturalmente anche attraverso un patrimonio di memorie che conta elementi unici nel panorama archivistico. Ecco dunque il motivo per cui oggi siamo qui ad inaugurare una nuova sala di questa casa che conterrà il nostro archivio storico e contemporaneamente ad inaugurare una mostra con la quale si intende celebrare questo importante evento”. Un evento che, come dicevamo, è il coronamento di un’avventura che parte da lontano e che quest’oggi è stata sinteticamente narrata dall’assessore alla cultura Simona Duca che ha preso la parola subito dopo il sindaco. Un’avventura cominciata per l’assessore già nel 2000 dunque quattordici anni fa quando un giorno si trovò a dover fare una ricerca che necessitava proprio la consultazione dell’archivio. Allora la sala che lo conteneva era ubicata ai piani alti del comune e versava in uno stato di disordine e abbandono. Da li l’idea di dare una sistemata, un proposito portato a termina nel 2007 quando tutti i faldoni hanno trovato posto dentro un armadio. Ma poteva questa sistemazione essere quella giusta? L’archivio aveva un senso in questo modo finalmente ordinato, ma nascosto, come chiuso in prigione? Che cos’è un archivio innanzi tutto? Un insieme di documenti certo anche molto vecchi, talmente vecchi che il sentire comune della gente è di estraneità, un pensare “ma noi che c’entriamo?” ma anche e soprattutto un tesoro che scopri, che trovi e che studi al punto che ti entra dentro e diventa parte di te, al punto che non sei più tu a possedere l’archivio, ma ne sei posseduto, un tesoro che racchiude l’identità di una comunità, il suo passato, da traghettare nel presente verso il futuro. Un tesoro cui bisogna dare un senso, una collocazione che ne valorizzi il contenuto e tutto ciò che rappresenta. Ecco dunque l’idea di un’analisi più accurata e di una sua collocazione alla casa della cultura dove già ha trovato posto la biblioteca. Archivio e biblioteca altro non sono che due diverse sfumature di cultura, la nostra cultura che ci identifica e ci caratterizza. Ed eccoci dunque oggi dopo un paziente lavoro di riordino, studio, catalogazione dei documenti durato cinque anni ad opera delle archiviste Rita Pezzola (che si è occupata dei documenti più antichi), Annalisa Castangia e Simona Cometti (che si sono occupate dei documenti più recenti a partire da quelli successivi all’età napoleonica) a condividere finalmente col pubblico questa avventura presentando questo evento.

 

L’intervento di Rita Pezzola

Ed è con grande emozione che Simona Duca ha condiviso il suo racconto di questa avventura paragonandola ad un’intensa scalata in montagna e passando poi la parola a Rita Pezzola la quale ha subito tenuto a sottolineare come questo evento di oggi rappresenta si il coronamento di un percorso, ma anche un punto di partenza di un nuovo rapporto della comunità con la propria identità culturale. Che cos’altro rappresenta l’archivio se non la testa dell’enorme corpo collettivo, la mente, la guida, il pensiero? Come può essere definito se non come la progettualità che si manifesta in un pensiero collettivo, un’identità da ritrovare e riordinare in modo sensato, un tesoro da leggere, da valorizzare, da vivere? Come un patrimonio da conoscere? Un tesoro prezioso che, nel nostro caso, contiene carte risalenti alla fine del Quattrocento e un’ampia documentazione risalente al Cinque e Seicento tra cui multe. Secondo il presidente della soprintendenza archivistica Maurizio Savoia, nessun comune, perlomeno in Lombardia, contiene multe del Cinquecento. Ma queste carte sono anche verbali di consigli comunali ininterrottamente dal Seicento fino agli anni Ottanta del Novecento e poi gli Statuti del 1525. Una memoria storica che riguarda tutti indistintamente e del quale la mostra inaugurata oggi (che rimarrà aperta per i prossimi 15 giorni sino al 6 aprile negli orari di apertura della biblioteca più la domenica dalle 15 alle 18 con aperture straordinarie su richiesta per gruppi e scolaresche ndr) e che sarà portata anche all’Expo di Milano del 2015 (che detiene anche parte del patrocinio) rappresenta un primo approccio aperto a più persone possibile, una sorta di reazione chimica tra l’oggi, l’habitat e il contesto di Talamona e ciò che le carte offrono in merito alle questioni di natura gestionale del patrimonio naturalistico che ci circonda così come venivano affrontate nei secoli passati. Una miniera di informazioni di natura storico-giuridica, ma anche naturalistica con descrizioni dettagliate della vegetazione che, a detta di se medesima, hanno permesso a Rita Pezzola di riuscire a vedere il bosco con occhi diversi sotto la lente di una maggiore conoscenza degli organismi che lo popolano. Una miniera di informazioni che testimoniano (come ha giustamente sottolineato in chiusura l’assessore alla cultura Simona Duca riportando le osservazioni dei suoi alunni delle scuole medie) lo stato avanzato della legislazione talamonese in materia di tutela del patrimonio ambientale già nel Cinquecento. La mostra si propone di raccontare tutto questo di dare voce in modo schematico chiaro e conciso alle storie e ai personaggi che ruotano intorno al bosco storie prese direttamente dai documenti, vivida testimonianza della Storia come materia viva, un punto di inizio di un meraviglioso canto possibile che si sprigiona da questi documenti.

L’archivio e il bosco: gli interventi congiunti di esponenti della Comunità Montana, del Parco delle Orobie Valtellinesi e dell’ufficio archivistico della regione Lombardia

Poiché, come stiamo appunto dicendo, molti documenti ritrovati nell’archivio riguardano il bosco e il suo ruolo fondamentale nella vita della comunità, non potevano mancare alla realizzazione di questo evento e in particolar modo della mostra enti che col bosco hanno direttamente a che fare tutt’oggi portando in qualche modo avanti l’opera di tutela del patrimonio boschivo già promossa dagli antichi statuti ritrovati. Non potevano nemmeno mancare alla presentazione, non potevano mancare di arricchire con le loro osservazioni questa ricca giornata, non potevano mancare di sottolineare, come di già l’esponente del parco delle Orobie, quanto questa collaborazione sia stata piacevole ed arricchente permettendo di conoscere la storia dei comuni di Talamona e di Tartano e la loro civiltà basata sul patrimonio boschivo e da esso dipendenti, un patrimonio che rappresenta l’identità comunitaria e che, come ha sottolineato il referente per l’Ufficio archivistico della regione Lombardia, non ha nulla da invidiare a quello di Trentino e Val d’Aosta anche per quanto riguarda la grande competenza con cui tutto viene gestito, un patrimonio che, come ha raccontato la referente della comunità montana, è stato rievocato persino durante una conferenza a Bolzano in occasione della quale Talamona è stata citata da un professore universitario toscano nel corso di un suo intervento riguardante le antiche teleferiche.

È venuto a questo punto il momento di toccare con mano e vedere quanto sino ad ora presentato.

Inaugurazione della sala dell’archivio storico intitolata a Fausto Pasina

Per consuetudine, tutte le sale della casa della cultura sono intitolate a persone che non ci sono più, ma che in vita si sono distinte per essere talamonesi di spicco, la cui vita e opere si sono spese in gran parte a beneficio della comunità e dello sviluppo generale di Talamona. Per l’intitolazione della sala dell’archivio storico è stato scelto Fausto Pasina per il contributo da egli dato nel recupero dell’archivio stesso e in generale per il suo sapere e le sue competenze messi sempre generosamente a disposizione. Una figura rivissuta oggi attraverso le parole di un suo amico, Elio Luzzi, che ha letto un testo abbozzato di suo pugno. Eccolo riportato di seguito.

Fausto Pasina fu geometra nel senso euclideo del termine, appassionato della scienza della geometria da quella che ci permette di distinguere i confini degli orti e calcolarne la superficie a quella che permette di relazionare il movimento gravitazionale delle stelle alla piccola pallina cui siamo ancorati dalla gravità con tutte le speculazioni filosofiche suggerite nell’andare dall’orto alle stelle. Fausto Pasina amava i paradossi. Discutendo una volta delle professioni a noi prossime, quelle degli ingegneri e degli architetti, egli disse “sul frontone del tempio di Atene vi è la critta NON ENTRI CHI NON E’ GEOMETRA” conseguentemente gli ingegneri e gli architetti dovevano restare fuori ad aspettare il verbo. Ricordo una sera, forse all’uscita di un’aggrovigliata riunione di attivisti politici. Si fermò un momento ad osservare il cielo pensoso commentando “guarda su, noi al confronto siamo due moscerini e contiamo come tali” poi alzando la voce al resto del gruppo disse “e adesso che ci siamo confessati possiamo ricominciare a beccarci”. Era un talamonese con la consapevolezza (che per altri è comunque un’atavica e latente percezione) che i talamonesi non sono soltanto abitanti di un paesetto delle Orobie ma un piccolo popolo. Conosceva egregiamente la storia italica, quella europea, quella del socialismo, quella internazionale, quella antica delle grandi civiltà e la nostra storia locale di piccolo popolo. Mi raccontò di una volta che si trovava in vacanza da pensionato solitario su alcune isole greche e venne ospitato per una festa su una barca da alcuni pescatori ingegnandosi a far cantare loro una nostra canzone locale in dialetto. Sul finire degli anni Ottanta mi aveva invitato a cena, era il suo compleanno, l’11 marzo, quando il sole è nella costellazione dei Pesci. Mi informò che aveva recentemente recuperato delle fotografie delle pagine di un manoscritto degli statuti di Talamona. Un suo conoscente le possedeva per via di discendenze familiari e le aveva date a Fausto in cambio di consultazioni tecniche, ma anche cimeli e carabattole varie. È un ricordo ben preciso il mio: la cena di compleanno, i discorsi sul manoscritto da recuperare e i contenuti che aveva iniziato ad indagare, i suoi contatti con gli amministratori del comune. Per farla breve, in tempi successivi propose agli amministratori del comune dell’epoca la sua disponibilità a fornire fotocopie di quanto in suo possesso a condizione che venisse fatta una traduzione stampa da distribuire gratuitamente alle famiglie talamonesi. La cosa bella è che grazie all’interessamento del sindaco Domenico Luzzi fu curata dal sodalizio soci della crusca del quale era componente padre Mario Abramo Guatti che li tradusse e commentò sommando alla sua competenza specifica la profonda conoscenza della lingua e della cultura del nostro piccolo popolo. Il resto è storia recente. I preziosi testi originali degli statuti e del libro degli estimi (documenti catastali con descrizioni delle varie proprietà ndr) sono riemersi dagli anfratti del mansardato archivio del municipio perché Italo Riva, curioso e caparbio, convinto assertore del valore fondante della storia e della cultura, ha attivato tutto quanto era nelle sue facoltà.

Nel ricordare con voce rotta dall’emozione il suo caro amico e libero pensatore Fausto Pasina, Elio Luzzi ha voluto estendere il pensiero anche ad altri amici vivi solo nel ricordo: Mario Tarabini, Emilio Guerra, Mario Ciocchini e Mario Pasina. Amici di tante passioni.

 La mostra e le sue storie.

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È venuto dunque il momento tanto atteso di vedere finalmente la mostra che ho potuto rivedermi con calma più volte durante i turni dell’apertura. Una mostra decisamente non convenzionale studiata nei minimi dettagli nel corso di circa una decina di riunioni o poco meno.  Una mostra che si ripropone di raccontare l’archivio storico talamonese (per quanto riguarda la parte dedicata ai boschi e alle norme contenute negli statuti riguardante il loro utilizzo) attraverso le immagini le storie e i personaggi risalenti a quel periodo. Un racconto che scrollando via la polvere dei secoli riporta il passato a parlare al presente. Un racconto che è stato ben introdotto di già durante la conferenza nella sala Valenti da due dei curatori, Marco Brigatti (che ha curato l’allestimento e la grafica dei pannelli) e Annalisa Azzalini (che ha illustrato i personaggi). Attraverso le loro parole i presenti si sono già potuti fare una prima idea di ciò che avrebbero visto.

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Il piccolo Giovanni

 

Ciò che colpisce immediatamente entrando alla mostra è il forte odore del legno. L’odore del compensato delle strutture che sostengono i pannelli illustrativi realizzati appositamente da una falegnameria e studiati per essere montati ad incastro non soltanto per essere più facilmente smontabili e rimontabili in vista delle trasferte cui la mostra è destinata, ma anche per fungere da richiamo alla struttura dei nuclei abitativi in utilizzo in zona all’epoca (che saranno approfonditi in seguito). Questa mostra è stata concepita per essere tutta di legno e di carta, per essere un percorso intellettuale, ma anche un percorso sensoriale, una mostra che riproduce un bosco e le sensazioni che suscita il fatto di passeggiarvi al suo interno.

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Il legno e l’archivio dei documenti sono i protagonisti principali dell’evento di oggi e della mostra che segue. A legarli un filo rosso che, complice il profumo del bosco ci guida idealmente indietro nel tempo. Dalle nebbie del passato così diradate fa capolino il piccolo Giovanni con la sua veste color crema e il suo bastone che ci prende idealmente per mano e ci conduce nel suo mondo, un mondo dove i bambini avevano a che fare con la natura e con il legno sin dalla più tenera età in ogni ambito della vita quotidiana. Ricevevano giocattoli in legno e giocavano molto all’aria aperta dove si divertivano a raccogliere rametti e bastoni come Giovanni (e come facevo anche io da piccola) e la piccola Caterina, bionda con la veste azzurra, due piccoli che le pagine dei documenti ci hanno restituito e che sono stati fatti rivivere da Annalisa Azzalini grazie a ricerche accurate anche da Internet da vari libri, affreschi secondo un procedimento di ricostruzione antropologica di genere seguito per tutti i personaggi che qui appaiono (il clamator, il notaio, il sindaco, il boscaiolo…).

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I nomi dei due bambini non sono stati scelti a caso, ma perché dai documenti è emerso che parecchi bambini venivano battezzati così e che dunque questi erano i nomi più utilizzati. Essi appaiono talmente vividi che sembra quasi di vederli mentre corrono, ridono e si inoltrano nel bosco, del quale sapevano tutto. I nos regiur ancora raccontano che loro da bambini avevano una sola sapienza ed era quella trasmessa dal bosco e dagli adulti che avevano acquisito la sapienza del bosco prima di loro. La gente di allora sapeva riconoscere ogni pianta, ogni erba, gli animali, gli uccelli dai loro nidi, sapevano dove li costruivano, distinguevano le uova, i diversi canti. Il rapporto col bosco era qualcosa di vivo, di concreto ed è questo che si è cercato di far emergere. Un rapporto di persone consapevoli di relazionarsi ad altri esseri viventi tanto che c’era l’usanza di piantare un albero ogni volta che un bambino nasceva. Così il legno non era soltanto un materiale utile come descritto nel pannello qui sopra. Certo utile lo era moltissimo, indispensabile in un’epoca dove non esistevano altri combustibili dove non c’era altro modo per cuocere e conservare i cibi e dove c’era solo un altro materiale disponibile, la pietra essendo lontanissima l’epoca dove c’è fin troppa roba a disposizione (non è un caso se allora non c’era l’emergenza rifiuti).  Ecco dunque le antiche storie che il bosco ha vissuto e che potremmo vivere ancora oggi se solo non ci dimenticassimo che il bosco è ancora li a due passi da noi e che oggi come allora può ispirare persino l’ingegno di creazione artistica dell’uomo, come ben mostra la tavola intagliata di Egidio Ruffoni (già ospite ad una mostra precedente)  che rappresenta il capolettera che caratterizza quasi tutti i documenti dell’archivio.

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La piccola Caterina

 

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Questo pannello mostra il territorio di Talamona che anticamente era un tutt’uno con la Val Tartano. Un territorio fatto di acqua, legno e pietra e con una nutrita presenza di verde ancora oggi. L’Adda costituiva e costituisce tutt’ora il confine del comune di Talamona fino alle cime del versante. Il nucleo abitativo più antropizzato sorgeva sul conoide del torrente Tartano e presso i torrenti Roncaiola e Malasca e fu abitato sin dai tempi più remoti come testimonia anche la necropoli romana ritrovata in tempi relativamente recenti sotto l’attuale cimitero.

La chiesa altomedievale di Talamona si trova ancora oggi laddove sorgono la piazza principale e il comune. La chiesa attuale risale all’XI secolo.

Dal conoide si sale fino a mezza montagna dove sono ancora ben visibili le tracce della transumanza nelle selve composte da castagni che salendo sempre più verso la Val Tartano si convertono in boschi di conifere prima di arrivare al confine con la provincia di Bergamo e condurre nel suo territorio.

Il paesaggio è composto da case di pietra di tutte le tonalità del grigio ravvivato dal verde dell’erba e dai colori della frutta e delle coltivazioni.

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Questo pannello illustra invece il contesto storico dell’epoca abbracciata dai documenti dell’archivio e dunque anche dalla mostra, un periodo che abbraccia i secoli dalla fine del Quattrocento, tutto il Cinque e Seicento. Si vuole in particolar modo mettere in evidenza il confronto tra gli eventi salienti della Storia universale di quell’epoca e le vicende più strettamente legate al nostro territorio. A partire dal 1512 la Valtellina cominciò ad essere assoggettata ai Grigioni (un popolo della Svizzera meridionale) divenne un distretto del suo governo delle tre leghe, l’unico che riuscì a mantenere la fede cattolica in un contesto dove imperversava il protestantesimo cosa portò qualche tensione e alcuni cambiamenti (come nell’ambito dei commerci del vino prima molto fiorenti con la Svizzera). Il governo delle tre leghe a sua volta suddivideva la Valtellina in tre terzieri: quello superiore che faceva capo a Tirano, quello medio che faceva capo a Sondrio e quello inferiore a sua volta suddiviso in retico che faceva capo a Traona e orobico che faceva capo a Morbegno. Talamona apparteneva a quest’ultimo. Il suo territorio era diviso in colondelli (dai quali pare siano derivate le nostre contrade attuali), cioè nuclei abitativi (colondello deriva dal latino colere che significa abitare). I capi delle famiglie dei vari colondelli una volta all’anno (tendenzialmente nel mese di gennaio) tenevano delle assemblee pubbliche per leggere e discutere gli statuti. In occasione di eventi particolari (come l’arrivo di nuovi amministratori o preti) si potevano convocare assemblee straordinarie con pubbliche discussioni trascritti su verbali che riportavano i nomi dei colondelli e delle famiglie che li rappresentavano. Tali documenti sono tutt’ora custoditi nel nostro archivio storico a fungere da spaccati di vita. La loro lettura risulta complicata dal fatto di essere scritti a mano in un linguaggio misto tra il latino e il parlato dell’epoca.

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Giovan Battista Camozzi

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Gli statuti di cui ogni famiglia possiede una copia stampata in casa (e di cui il comune di Talamona pare sia l’unico a possedere ancora gli originali) sono stati scritti dal notaio Giovan Battista Camozzi nel 1525 il 21 gennaio su incarico ufficiale del comune e del sindaco. Quest’uomo apparteneva ad una famiglia che ha “sfornato” notai per generazioni e ha influenzato molto la cultura. I documenti all’epoca erano artigianali e più di adesso erano davvero il frutto della cultura di chi li produceva.

La figura del notaio all’epoca era molto importante, rivestiva un ruolo ben più di rilievo rispetto a quello che gli viene attribuito oggi. Era suo compito cogliere il significato storico di una proprietà e nel nostro caso di sottolineare l’importanza del legno come materiale naturale, protagonista assoluto della vita della nostra comunità dell’epoca per ogni generazione, in una società rurale ancora lontana dall’industria e dalla tecnologia e l’importanza del bosco come patrimonio identitario da custodire e non sprecare centro della vita quotidiana sociale e politica. Non a caso l’80% delle regole scritte riguardavano il bosco ed è questo il significato profondo degli statuti, la loro grande importanza.

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Gli statuti cominciano con la lettera I. In particolar modo gli statuti aprono con la dicitura in primis impreziosita dallo splendido capolettera illustrato nel pannello e che, lo abbiamo visto prima, è stato riprodotto sulla tavoletta intagliata.

L’importanza della figura di Camozzi e di questi statuti risiede nel fatto che se essi fossero andati persi avremmo perso la nostra identità storica e culturale. Cio che sta scritto in questi documenti non è soltanto un insieme di norme, ma anche un resoconto della struttura sociale e della vita quotidiana di un tempo. È grazie a Camozzi e al suo inestimabile lavoro se noi oggi sappiamo come si viveva nel Cinquecento e nel Seicento.

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Gli statuti venivano continuamente aggiornati in relazione soprattutto ai mutamenti sociali. Vecchi proprietari che morivano nuovi che compravano e in generale tutti quei piccoli eventi che caratterizzano la vita della comunità ancora oggi.

 

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Le regole circa l’utilizzo del bosco erano tanto precise quanto intransigenti le multe che punivano le trasgressioni. Multe che ammontavano a somme insormontabili per la gente dell’epoca. Ecco perché i boscaioli raccontano che chi veniva sorpreso ad abbattere alberi senza permesso, in quantità maggiore rispetto a quella regolamentata, un tipo di pianta diversa da quella che si era autorizzati a prendere,  in zone vietate soprattutto quella offlimits sui versanti che prevedeva le frane, non potendo molto spesso pagare, subiva l’amputazione delle dita nonché la confisca di tutto cio che possedeva.

Queste leggi e queste multe derivavano soprattutto da una questione di cuore, dal legame affettivo che, come già abbiamo detto, univa la comunità ai suoi boschi.

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Il clamator

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Oggi come allora la legge non ammette ignoranza. Ecco perché una volta che le leggi venivano emesse dal podestà (il capo che dominava le nostre valli per conto dei Grigioni) molto importante diventava la figura del clamator. Questo termine deriva dal latino clamare cioè gridare e il clamator era appunto colui che annunciava gridando nelle piazze le nuove leggi emesse che, appunto per questo motivo venivano denominate gride. Tali gride venivano poi lasciate appese in piazza in modo che tutti potessero vederle, ma bisogna considerare che allora erano molto pochi coloro i quali sapevano leggere e scrivere e dunque il clamator diventava un punto di riferimento molto importante per essere messi al corrente di tutto.

 

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Oggi come allora a capo della comunità c’era un sindaco. Fare il sindaco allora e più in generale ricoprire una carica politica non era vissuto come viene vissuto al giorno d’oggi, ma veniva davvero inteso nel modo in cui la politica dovrebbe sempre essere e cioè un servizio alla comunità. Il sindaco con la sua comunità stringeva un vero e proprio patto di sangue pungendosi il dito con uno spino di rosa canina. Era una grande cerimonia cui tutta la comunità assisteva. Proprio per questo veniva scelta la rosa canina, una pianta già documentata a quei tempi con spine abbastanza grandi in modo che anche chi si trovava ad una certa distanza poteva assistere al rituale.

 

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Il sindaco Giovanni Battista Spini

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Oltre agli statuti altri documenti fondamentali per viaggiare idealmente nel tempo e riscoprire un’epoca perduta sono gli estimi, i documenti catastali scritti elegantemente sia per quanto riguarda la grafia che per quanto riguarda la struttura, lo stile della scrittura. Anche se furono scritti essenzialmente a scopo burocratico per essere poi in grado di distribuire le tasse in modo equo, essi a tutt’oggi valgono più come preziosa testimonianza storica e per il loro essere mappa di parole che descrivono magistralmente tutto l’abitato casa per casa ciascuna coi suoi dintorni. Chi ha una certa età ancora oggi riesce a riconoscere i luoghi descritti in questi documenti.

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Gli estimi ci permettono di ricavare informazioni sulle coltivazioni diffuse a Talamona in quell’epoca lontana. Coltivazioni che ritroviamo ancora oggi. Tutto ciò che è scritto nei pannelli che compongono la mostra è una semplificazione e una schematizzazione delle informazioni ricavate dai documenti.

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Qui siamo giunti in quello che è in qualche modo il cuore del nostro percorso. Con i dovuti permessi e nel rispetto delle regole erano i boscaioli a recarsi materialmente nel bosco ad effettuare i tagli necessari ai bisogni comunitari.

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Il boscaiolo

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Ancora oggi il paesaggio talamonese è costellato di vitigni di cui si prendono cura uomini volenterosi seguendo la tradizione che viene da lontano, seguendo i tempi giusti della raccolta, della potatura e avvolgendo i tralci con rametti di salice appositamente preparati.

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Le castagne venivano denominate il pane dei poveri. Proprio un tipo di pane (e in altre zone dell’arco alpino e della pianura padana anche di polenta) si ricavava dalle castagne e si può trovare tutt’oggi in alcuni panifici artigianali.

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Ecco dunque il salice scialesc in dialetto così come veniva utilizzato per legare i tralci di vite potata. Venivano scelti dei rametti molto sottili che venivano scortecciati con uno strumento di legno simile alle mollette per i panni, ma di forma molto più allungata. La scortecciatura avveniva nel periodo primaverile quando si diceva che il salice era in amore e si scortecciava più facilmente. I tralci così scortecciati venivano avvolti in fascine e prima di usarli era sempre meglio lasciarli un po’ di tempo a stagionare e poi metterli a bagno prima di legare con essi i tralci di vite.

Con le varietà di salice più selvatico si potevano realizzare dei cestini intrecciati. Il salice più selvatico si riconosce per il fatto di essere più scuro.

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 Preparazione dei tralci di scialesc

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Come abbiamo gia accennato i documenti, sebbene per motivi essenzialmente di funzione burocratica e amministrativa fornivano anche dettagliate informazioni naturalistiche. Leggendoli si impara a conoscere la vegetazione spontanea, da quali specie era composta e come distinguerle l’una dall’altra. Il percorso della mostra propone degli spazi dove si possono vedere e toccare le piante i tronchi, i rami, gli aghi, le pigne, le ghiande e con alcune indicazioni capirne le peculiarità. Si impara ad esempio che il larice è l’unica conifera che perde gli aghi ma dal quale le pigne si staccano con difficoltà. Si impara a distinguere l’abete bianco dall’abete rosso. L’abete bianco ha i rami più chiari ha le pigne erette verso l’alto, ha delle piccole righe bianche sotto gli aghi disposti a pettine che pungono meno rispetto a quelli dell’abete rosso, inoltre cresce molto in alto perché vuole ambienti umidi e ombreggiati. L’abete rosso ha molti più aghi per ramo, rami di colore scuro, rossiccio appunto, pigne pendule e cresce più in basso. Sapienze queste che ormai sembrano non contare più nulla nella nostra civiltà odierna ma che sarebbe bene conservare.

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Essendo gli estimi descrittivi delle varie proprietà, molto spazio è dedicato alla minuziosa descrizione delle case. Da ciò riemerge il carden una particolare abitazione in legno presente soprattutto nella val Tartano. La struttura su cui sono stati montati i pannelli di questa mostra è stata pensata come delle tavole di compensato ad incastro proprio per richiamare alla struttura di questi carden molti dei quali tuttora presenti nel territorio della Val Tartano anche se non sono più abitati.

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I vari nuclei abitativi è un tema che si è pensato di approfondire quando la mostra era già in corso d’opera. Sulle strutture di queste case esiste un’ipotesi che al momento non è comprovata dai documenti. Si è notata una certa rassomiglianza coi nuclei abitativi tirolesi e dunque si pensa ad una qualche connessione tra le nostre popolazioni e quelle di quei territori in tempi remoti. L’indagine continua.

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Non poteva mancare un piccolo approfondimento anche sulla Val Tartano che, come abbiamo detto, a quel tempo con Talamona faceva comune unico tanto che si sono mantenuti rapporti molto stretti tra i due centri abitati che durano ancora oggi. Molti talamonesi hanno la loro origine in Val Tartano soprattutto quelli che portano i cognomi Spini e Bertolini.

 

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Didascalia in braille

La particolarità di questa mostra è il fatto di essere stata pensata per un’ampia fascia di persone e per avere più piani di lettura. Unica nel suo genere questa mostra propone anche delle didascalie in braille per i non vedenti, anche quella una cosa che è emersa in corso d’opera.

 

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Ad opera di Antonella Alemanni e di tutti i volontari che si sono prodigati nell’accompagnare i visitatori in questo viaggio nel tempo. Il gruppo boscaioli, Luigi Scarpa, Simona Duca e Lucica Bianchi.