PERSONAGGI CHE HANNO RESO CELEBRI LE ALPI OROBIE VALTELLINESI

Alla fine del 1800, quando era in atto l’esplorazione delle montagne e delle loro valli nelle parti più elevate, anche grazie alla nascita del Club Alpino Italiano,  la loro “pubblicizzazione”  che le ha portate alla conoscenza  generale avvenne, normalmente, per opera di personaggi di cultura appassionati della montagna e curiosi   di  approfondirne la  conoscenza in tutti i loro aspetti. Questi personaggi diffondevano le loro scoperte con scritti  vari su giornali locali e nazionali e con altre pubblicazioni, come abbiamo visto con Bruno Galli Valerio.

La stessa nascita del CAI era stata  opera di questi personaggi e fino ai primi del novecento furono praticamente solo loro a frequentare la montagna, ma non da soli. Le loro  curiosità e la loro passione erano in parte fermate dalle difficoltà nell’affrontare le asperità delle cime  e delle terre alte, dove, peraltro, vivevano i montanari. Molti di loro erano  pastori, e soprattutto i cacciatori,  ed erano abituati a muoversi su questi aspri terreni con   disinvoltura per la dimestichezza che avevano con  l’ambiente che abitavano e che percorrevano continuamente  per svolgere i loro lavori.

E’ quindi a loro che si rivolsero i cittadini aspiranti alpinisti, ma anche i cartografi che erano incaricati di stendere le mappe delle zone montuose, per la  conoscenza che essi avevano della loro zona e per l’abilità con cui si muovevano su questi terreni rocciosi e senza sentieri. I cittadini a loro volta, il CAI in particolare, formarono i loro accompagnatori, dando loro le conoscenze tecniche  sull’uso di attrezzi nuovi come, corde, piccozze, ramponi necessari per potersi muovere  in ambienti rocciosi e ghiacciati. Furono quindi istituiti dei corsi  per la formazione delle “Guide Alpine” col rilascio di apposti titoli per poter esercitare la nuova professione.

In Valtellina nacquero le celebri guide della Valmasino, della Valmalenco, di Bormio e della Valfurva, e altre sporadicamente come a Delebio, Ponte Valtellina e Piateda dove troviamo  Giovanni Andrea Bonomi che fu, praticamente l’unica guida delle Alpi Orobie Valtellinesi, molto nota nell’ambiente alpinistico dell’epoca per le sue doti di abilità, sicurezza e affidabilità.

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Giovanni Andrea Bonomi

Come si vedrà, Giovanni Andrea deve a Bruno Galli Valerio il fatto di essere diventato Guida Alpina, professione che gli portò un po’ di benessere.

Anche  grazie  alle Guide Alpine, le nostre montagne, le nostre valli e le popolazioni che vi abitavano furono portate alla conoscenza del grande pubblico.

GIOVANNI ANDREA BONOMI (1860-1939)

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Giovanni Bonomi (l’ultimo a destra), nella foto di gruppo delle guide del corso CAI 1899.

Nasce a Piateda, nella frazione di Agneda, a 1228 m di altitudine, in una della convalli della val Venina. Il papà, Giovanni Angelo, alla fine degli anni ’70, accompagnava occasionalmente, alpinisti della neonata sezione C.A.I. di Sondrio e cacciatori, sulle sue montagne. Giovanni Andrea seguiva queste comitive, portando i bagagli, dando così una mano al padre e facendo i primi guadagni. Cresciuto, iniziò a svolgere autonomamente l’attività di guida ad alpinisti e cacciatori, ma la sua attività alpinistica si sviluppò soprattutto negli anni ’90 ed è legata a Bruno Galli Valerio, che si dedicò all’esplorazione sistematica delle Alpi Orobie e a descriverne le bellezze negli articoli che pubblicava sul giornale “La Valtellina”. La sua attività di guida, diventata ufficiale, dopo che aveva frequentato, nel 1899, in Grigna, il primo corso per la formazione della Guide alpine organizzato dal CAI Milano, si sviluppò, nel primo periodo sulle Orobie, per poi allargarsi ai gruppi del Disgrazia, del Bernina, al Badile, al Cengalo, al monte Bianco e al Rosa.

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Marino Amonini  ha recuperato, fra i documenti personali conservati dagli eredi Bonomi, anche la documentazione degli attestati di guida alpina, che di per sé sono un certo pregio archivistico (si tratta infatti dei primi attestati di guida alpina rilasciati dal CAI di Sondrio).

Nella sua carriera, il Bonomi accompagnò anche personaggi famosi come D. W. Freshfield sul pizzo Redorta e il principe Scipione Borghese sullo Scais e sul Redorta, nello stesso giorno. Dopo il 1900, il suo rapporto alpinistico con Bruno Galli Valerio, di cui era anche molto amico, si affievolì per allargarsi ad altri alpinisti del CAI di Milano. Nel 1898, in occasione di una salita al Cengalo in Val Masino, il Bruno Galli Valerio scriveva : …“è sufficiente non aver paura e seguire esattamente i suoi ordini”. La sua attività si sviluppò per circa un ventennio e seppe guadagnarsi una meritata fama di guida affidabile, prudente e sicura. Era impareggiabile nell’individuare sempre, in ogni salita, la via più logica per raggiungere la vetta. Ecco un giudizio dell’alpinista Enrico Ghisi del CAI di Milano: “…Giovanni Andrea Bonomi, tipo di forza e di intelligenza alpinistiche straordinarie, congiunte ad una semplicità di costumi, ad un ingenuo candore, ad una modestia così intensa che davvero se ne rimane ammirati. Splendido arrampicatore, imperturbato per nevi e per ghiacci, la sua  celebrità alpinistica sarebbe grande se il suo domicilio non lo rilegasse in una valle così ingiustamente negletta”. Infine, di lui così scrive Giuseppe Miotti: “…il Bonomi continuò un’intensa carriera che conobbe solo i limiti imposti dalla sua infelice residenza che lo teneva fuori dal grande giro della clientela. Ciò nonostante fu una guida leggendaria… per qualche anno fu seguito anche dal figlio Bortolo che però, dovette smettere per scarsità di clienti”. La carriera di  Giovanni Bonomi fu, tra alti e bassi, molto longeva.

Morì ad Agneda nel 1939, dove fu sepolto.

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La “Via Bonomi” alla vetta dello Scais.

Bibliografia

– Marino Amonini: “Giovanni Bonomi, guida alpina”- Biblioteca Civica Piateda-1985.

-G.Miotti, G.Combi, GL.Maspes: “Dal Corno Stella al K2 e oltre, storia dell’alpinismo valtellinese” – CAI Valtellinese, Sondrio 1996.

Guido Combi (GISM)

I PRESEPI DI TALAMONA

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Nel nostro paese da oltre 20 anni ricorre questa tradizione, ogni contrada attraverso un gruppo di amici volontari realizza un presepe. Viene data vita a delle vere opere d’arte, ed il paese diventa per tutto il periodo natalizio meta di migliaia di persone che vengono ad ammirare questi splendidi capolavori.

Non servono parole, presentiamo qui una rassegna fotografica per poter condividere e trasmettere a tutti i nostri lettori le emozioni e la magia che si respirano passeggiando tra questi presepi….

PERSONAGGI CHE HANNO RESO CELEBRI LE ALPI OROBIE

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Talamona, Il nostro paese, sorge ai piedi delle Alpi Orobie, sul conoide formato nei millenni dal Torrente Roncaiola che iniziando al Ponte dei Frati presso la chiesetta di San Gregorio, si estende verso nord, allargandosi  a est fino a incontrarsi con quello del Torrente Tartano e  ovest unendosi a quello minore del torrente Ranciga, arrivando a nord fino al Fiume Adda.

I nostri confini non raggiungono lo spartiacque  con il versante bergamasco, perchè sono  separati dalla Val Tartano, in particolare dalla Val Corta, e dalla Val Gerola.

Le nostre montagne, che abbiamo visto tanto protette e curate nelle norme degli antichi statuti, sono una conca che va da la costiera dei maggenghi Scalübi e Dondone  a est, fino al Pitalone  e la costiera di Baitridana che ci divide con la Valle di Albaredo a ovest, culminando  nel punto più a sud con il Monte Lago a 2353 m.

La  “nostra” parte  di Orobie è molto più “addomesticata” rispetto alle 14 valli che solcano da sud a nord la catena che vale la pena di conoscere per la loro bellezza unica.

Le valli e le cime principali delle Orobie, furono praticamente sconosciute al grande pubblico fino alla seconda metà del 1800. Gli unici a frequentarle erano gli abitanti locali e, nelle parti più alte, i pastori e i cacciatori.

Dal 1880, circa, in poi, furono progressivamente esplorate e descritte sulla stampa locale da eminenti personaggi che non si limitavano alla ricerca alpinistica, ma cercavano di conoscere soprattutto gli abitanti dei paesini che sorgevano nelle parti più interne e nascoste delle valli,  con i loro usi e costumi, lavoro e tutto il territorio.

Iniziamo dal professore che le ha esplorate maggiormente, studiate e fatte conoscere,  formando anche come Guida Alpina, un abitante di Agneda, un paesino in Val di Scais, che  poi operò anche in altre parti della Alpi, essendo molto stimato nel mondo alpinistico del Club Alpino Italiano.

 

BRUNO GALLI VALERIO

L’esploratore delle Alpi Orobie Valtellinesi

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Nella storia della Alpi Orobie, soprattutto nel periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, vi furono alcuni eminenti personaggi che con esse e con la gente che le abitavano ebbero un rapporto particolare di conoscenza e attaccamento. Esplorarono sistematicamente le valli, salirono le cime, valicarono i passi e scalarono le pareti e i canaloni, compiendo imprese memorabili.  In particolare, i primi  pionieri, se, come al solito, escludiamo pastori e cacciatori, furono: Bruno Galli Valerio, Antonio Cederna, Alfredo Corti e la guida Giovanni Bonomi.  Altri più tardi  le frequentarono con assiduità, le studiarono e aprirono nuove vie, come Bruno Credaro, Peppo Foianini e i fratelli Messa. Le Alpi Orobie, che, ancora fino verso la metà del secolo scorso, furono spesso chiamate Prealpi, probabilmente per la loro posizione spostata  verso Sud, rispetto alle Alpi Retiche, contrariamente al resto delle Alpi, non videro la presenza  esplorativa e la conquista sistematica da parte degli inglesi. La loro presenza, per altro sporadica, la troviamo solo nel 1894 con il grande alpinista D. W. Freshfield, che fu accompagnato in una lunga scarpinata, proprio da Bruno Galli Valerio sul Pizzo Redorta, come vedremo più sotto.

Bruno Galli Valerio fu, tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, uno dei più  assidui frequentatori e certamente il più profondo conoscitore delle montagne valtellinesi. Noi però parleremo in particolare del suo rapporto con le Alpi Orobie Valtellinesi e con le genti che abitavano le loro valli, delle quali ci ha lasciato, nelle sue opere, dei ritratti e degli scorci di vita indimenticabili. Lasceremo al lettore il piacevole compito di approfondire questi aspetti nella pubblicazione dello stesso alpinista citata nella bibliografia.

Bruno Credaro, altro grande frequentatore e conoscitore delle Alpi Orobie   nella prima metà del novecento, scive di lui: “Il Galli Valerio era un ometto basso e asciutto, di quelli che vanno più a forza di nervi che di muscoli; aveva un profilo aquilino con una barbetta un po’ brizzolata che lo faceva assomigliare molto a Giuseppe Verdi… era un famoso camminatore”. Salì quasi tutte le cime delle valli Venina-Caronno, d’Ambria e del Liri e alcune della Val Malenco, come il Cassandra e il Giumellino, partendo direttamente da Sondrio e superando dislivelli fortissimi. “Il professor Bruno Galli Valerio era originario della Provincia di Como e quando decise di venire in Valtellina a passare le vacanze estive se ne innamorò. Dopo le prime passeggiate, nei cui resoconti sono prevalenti le descrizioni e le notazioni a carattere scientifico, le osservazioni dei fenomeni naturali come le rane e i tritoni del Lago della Casera e un uragano sul Meriggio, si dedicò poi brillantemente alla semplice descrizione delle varie località, delle loro attrattive e dei loro abitanti.

Il professore iniziò le sue passeggiate sui nostri monti nel 1888 e dallo stesso anno iniziò anche una assidua collaborazione con i giornali locali e in particolare con “La Valtellina”, che, soprattutto nel periodo estivo, ospitò i suoi articoli alpinistici. In questa sua attività divulgativa delle scoperte e delle notizie alpinistiche, si dimostrò molto più moderno di altri personaggi dell’epoca, come Alfredo Corti, che riservavano i loro scritti alle riviste specializzate, mentre lui aprì il dialogo con il più vasto pubblico di un giornale”. Forse, scrive ancora Giuseppe Miotti, perché non si sentiva un alpinista, come lui stesso affermò nel suo primo articolo: “Non sono un alpinista né mai mi sono piccato di esserlo. Sono semplicemente un dilettante di scienze naturali che ama le gite sui monti, perché su di essi si può studiare la natura in tutta la sua maestà”. Nel giro di pochi anni, dopo questo inizio tranquillo, divenne un frequentatore assiduo, delle nostre valli. In particolare con le sue peregrinazioni, le sue salite, le sue scarpinate nelle valli e sulle cime orobiche. Nel 1891, in estate, avvenne l’incontro con la “Guida Bonomi Seniore e di suo figlio” quando l’8 Settembre, con Antonio Facetti e Attilio Villa, Galli Valerio salì il Pizzo Porola e fece la sua prima traversata fra i bacini delle vedrette di Porola e del Lupo. E’ qui il primo accenno a quella che sarà la sua guida preferita, compagno e amico in tante scalate: “Era Giovanni Andrea, figlio della Guida Bonomi Seniore”, destinato a divenire in breve una delle più brave guide valtellinesi. Il loro rapporto durò fino al 1898, quando divenne meno intenso. Nel 1894, mantenendo fede ad una promessa fatta al giovane Bonomi in vetta al Rodes, Galli Valerio si fece accompagnare sulla Punta Scais, sulla quale, non sappiamo se volutamente o per mancanza di indicazioni, i due aprirono una nuova via. Nell’ Agosto dello stesso anno, fu la volta delle “Punte di Coca”. Nel 1894, l’inglese D. W. Freshfield, uno dei massimi alpinisti del momento, presidente dell’ Alpine Club e segretario della Geographic Society, trovandosi a passare da Sondrio, volendo conoscere le Alpi Orobie, volle farsi accompagnare in una ascensione sul Rodes. In un’epica ascensione, a causa di una ferita ad un piede, il Galli Valerio accompagnò il celebre alpinista, assieme alla sua Guida Francois Devouassoud e a Giovanni Bonomi, in cima al Pizzo Redorta, il 25 luglio.

L’esplorazione delle Orobie, delle valli e delle cime, proseguì, dal Legnone al Torena, con lunghissime camminate e ascensioni, sempre puntualmente riportate su “La Valtellina”, fino al 1910, aprendo numerose vie nuove.

I suoi articoli, fino a quel periodo, documentarono anche le sue ascensioni negli altri gruppi montuosi della Valtellina come quelli della Val Masino, del Disgrazia, del Bernina, della Val Grosina e dell’Ortles-Cevedale.

Fra le ascensioni che si susseguirono a ritmi impensabili e il suo lavoro di insegnante all’università di Losanna, il Galli Valerio trovò anche il tempo di scrivere un piccolo opuscolo dal titolo “Guida medica per l’alpinista” che venne pubblicato nel 1898 da Emilio Quadrio a Sondrio. Antonio Facetti (celebre alpinista) lo recensì sulla rivista del CAI e oltre ai dati salienti del volume rilevò che: “… l’autore, un appassionato alpinista, benché non socio del CAI, si augura che questo manualetto possa riuscire di qualche utilità”. Alla fine del secolo, come abbiamo accennato, si affievolì sempre più il suo rapporto con la Guida Bonomi, forse per adeguarsi alla moda del momento dell’alpinismo senza guide, contrariamente a quanto era avvenuto fin dalla nascita del CAI. Era nata intanto, in quegli anni una buona amicizia con un altro che diverrà un grande dell’alpinismo valtellinese: Alfredo Corti, che però era destinata a durare non molto. Compirono comunque qualche ascensione assieme con la Guida di Antonio Cederna, Luigi Valesini. A partire dal 1900, cambiò anche lo stile della sua collaborazione con “La Valtellina”. Più che prime ascensioni, l’autore racconta le sue lunghe peregrinazioni e la sua “immersione completa nel mondo delle Alpi, quasi una sua fuga dalla gente e dalla civiltà” come scrive ancora di lui Giuseppe Miotti. Nascono, in questo periodo, lunghi racconti di viaggio e descrizioni dei paesaggi, degli abitanti dei luoghi visitati. Come sognava le sue vacanze tra i monti come una fuga dalla vita convenzionale di tutti i giorni! Queste sue “cavalcate” si susseguirono fino alla vigilia della prima guerra mondiale, quando, come uomo di grande cultura e sensibilità, disapprovando l’entrata in guerra dell’Italia, esprimendo le sue idee, si trovò aspramente contestato in pubblico e dileggiato da un gruppo di giovani interventisti. Il giorno dopo una manifestazione sotto le sue finestre, partì per la Svizzera e non fece più ritorno in Valtellina, nonostante le preghiere di amici carissimi che lo andavano a trovare a Losanna. Morì nel 1943 a Losanna e pochi ricordarono la sua figura. Sul “Popolo Valtellinese” apparve un necrologio a firma A. P. (forse Amedeo Pansera?) che concludeva così: “… Da quasi trent’anni Bruno Galli Valerio non tornava tra noi; ma noi sappiano che, mentre i suoi occhi erano velati dalla morte hanno visto ancora, limpidi e puri, i profili delle sue montagne e li ha salutati sereno per l’ ultima volta. Quando era vivo e assente, abbiamo mantenuto con lui un contatto ideale per questa sua segreta passione: oggi che è morto ci sembra doveroso ricordarlo; anche, e soprattutto, a chi non lo ha conosciuto”.

I suoi scritti alpinistici pubblicati sul giornale “La Valtellina”, erano stati da lui riveduti e dati alle stampe in un volume “Cols e sommets” nel 1912 a Losanna in lingua francese. Il CAI Valtellinese nel 1998 ha provveduto alla traduzione del libro, per opera di Antonio Boscacci e Luisa Angelici, dandogli il titolo che lo stesso Galli Valerio aveva indicato di “Punte e passi”.

 

 

     Guido Combi (GISM) *

 

*Past president CAI Valtellinese

Bibliografia:

-Bruno Galli Valerio- Punte e passi – Ed. CAI Valtellinese Sondrio. 1998.

-G. Miotti, G. Combi, GL. Maspes -Dal Corno Stella al K2 e oltre, storia dell’ alpinismo dei valtellinesi. Ed. CAI Valtellinese Sondrio. 1996.

-G.Combi – Alpi Orobie Valtellinesi, montagne da conoscere. Ed. Fondazione Luigi Bombardieri Sondrio. 2011.

LA SALVAGUARDIA DEL TERRITORIO NEGLI ANTICHI STATUTI TALAMONESI

(terza e ultima parte)

 

L’art. 72 regola il taglio di piante da opera per farne assi. E’ consentito il taglio di sole due piante per ogni masseria e non dieci, come previsto da un’ordinanza precedente.

Bisogna prima giurare davanti al console di averne necessità per ottenere la licenza di tagliare quelle due piante, assicurare che si faccia per uso proprio, nei boschi non tensati, e di non cederle a terze persone e specialmente a quelle forestiere. Chi non si attiene a queste condizioni, pagherà tre ducati aurei per ogni pianta, oltre al numero consentito. “ E tutto ciò perchè i detti boschi siano conservati dal disfacimento che grandemente minaccia i campi e i beni del suddetto comune e delle persone private.”

Per prevenire l’astuzia dei furbi, l’art 73 obbliga i segantini (resegatori) che possiedono segherie a notificare il  numero delle  borre e borratelle, e il nome di chi le porta in segheria per farne assi: pena la multa di 20 soldi per ogni volta e per ogni tronco non denunciato.

Inoltre tutte le persone che possiedono assi devono notificarle per numero al console o ai sindaci, ogni anno. E non si può cedere e neppure regalare a persone foreste  assi o tavole segate nel comune di Talamona: e questo vale per tutto il comune compresi Campo e Tartano.

Vita dura per i carrettieri che osassero trasportare assi fuori dal comune!

Non solo dovranno pagare due ducati d’oro per ogni carro e uno per “cavallata”, ma ogni persona di Talamona potrà sequestrare, con la forza, tali assi e portarle in comune, denunciando tutti quelli che osano trafugare assi.

Qui la tutela del bene pubblico diventa feroce. Per “l’utilità della cosa pubblica” è ancora proibito tagliare qualsiasi tipo di pianta o arbusto per darli  a persone forestiere. Multa di due scudi aurei per ogni pianta e arbusto, tolti dalle selve o boschi del comune.

E’ tuttavia consentito, ma solo nei boschi non tensati e solo per uso proprio e della famiglia, quindi da non cedere ad altri, tagliare e portar via rami e legni secchi, come anche fare pertiche per gli edifici, le stalle e le siepi, ma non da bruciare.

E’ lecito anche fare dieci carri di “borrelli” per ogni masseria e non di più, e sempre nei luoghi non tensati, ma non “priale” di legni o pali per nasserie e peschiere.

L’art. 79 proibisce di vendere o regalare o in qualsiasi modo alienare alle persone forestiere, legname, legna verde o secca da ardere, varca, brughi o foglia secca sia dei boschi privati che pubblici.

Multa di scudi tre aurei per ogni carro e di una scudo per ogni gerlo, fascina, mazzo e per ogni legno che si alienasse. In uno statuto precedente si specificava che le suddette cose non si vendessero specialmente a quelli della congregazione di Traoni chiamati volgarmente “Li Ciechi”.

Una pena di 5 scudi più i danni si applica a chi causa incendi nei boschi.

E’ severamente proibito asportare letame e zolle di terra dai pascoli della comunanza: è però lecito farlo nell’Isola, se di adoperano quelle zolle per otturare e chiudere qualche canaletto.

Il letame che si trova sulle vie pubbliche in prossimità dei propri beni  si può asportare. E’ proibito smuovere muri e terra nei beni privati  e nelle strade pubbliche per cercarvi lumache.

…E’ lecito, ma solo a coloro che sono registrati sui conti degli oneri dell’estimo portar via  legname e legni trasportati dall’alluvione di fiumi, eccetto i tronchi segnati dai proprietari a monte.

E’ severamente vietato passare, con persone e armenti, attraverso i poderi e i beni altrui senza il consenso dei proprietari: si devono usare gli anditi e gli accessi prestabiliti dal diritto. Tuttavia i mugnai e i fornai possono, ma con discrezione, accedere ai fiumi per la servitù dei mulini.

Chi non avesse disponibilità monetaria per pagare pene o condanne, a richiesta del console,  degli ufficiali comunali deve dare in pegno a quelli tanti beni mobili per l’ammontare delle pene. Gli stessi ufficiali, di propria autorità, possono procedere al sequestro di beni mobili pari alla somma dovuta, qualora quelle persone non volessero cederli in pegno, con la possibilità per i pignorati di riscattarli entro dieci giorni, passati i quali, i beni sequestrati saranno a disposizione del console e dei sindaci, i quali possono devolverli a beneficio e per l’utilità del comune.

Così pure si farà per i dazi, i fitti e gli incanti non onorati, fino al punto di procedere all’arresto di quelle persone debitrici.

Due persone oneste e idonee sono deputate dal comune per la cura dell’Isola: per una giusta mercede dovranno roncarla e pulirla dai sassi, scavare canali per l’irrigazione, perchè quel luogo diventi un buon pascolo.

Una multa di 4 scudi aurei verrà infesta a chi costruisse peschiere non autorizzate lungo l’Adda, recando nocumento ai pascoli della comunanza. Quelle peschiere devono essere sradicate.

…l’art. 90 ritorna ancora sulla questione dei forestieri per ribadire che essi non osino pascolare il loro bestiame nella comunanza di Talamona e sempre per lo stesso principio: “non rechino danno e impoverimento al comune e agli abitanti di Talamona”. Le multe previste hanno lo scopo di scoraggiare ogni sconfinamento.

“Poichè la memoria è labile”, si ordina di scrivere sul quaderno l’ammontare delle multe e i nomi dei trasgressori e il motivo della condanna, perchè nessuno vada impunito.

…Si raccomanda altresì di non lasciare cadere e di osservare le antiche e consolidate tradizioni nel comune.

Dalla lettura dello statuto Statuto, possiamo trarre alcune considerazioni.

Innanzitutto l’aspetto, in qualche modo stupefacente, dell’organizzazione sociale dei talamonesi, il senso comunitario della popolazione, una forma di società pianificata in cui i contadini lavorano secondo le singole possibilità, traendo dal lavoro, certamente faticoso, ciascuno secondo il personale bisogno, i mezzi di sussistenza, in questo aiutati e sorretti da leggi, a nostro parere, sagge e oggettive.

Salta agli occhi anche la severità delle leggi e delle ordinanze, ma chi ha a cuore il bene comune deve anche salvaguardarlo dalle interferenze di una natura non sempre benigna, dalla cupidigia dei prepotenti e dei profittatori.

Le malattie epidemiche, le piene dei fiumi, le carestie, le pesanti interferenze sociali, religiose ed economiche dei dominatori  Grigioni hanno reso i legislatori talamonesi del ‘500 guardinghi, oculati e determinati a salvaguardare, con tutti i mezzi consentiti, il benessere della comunità.

Se questo era il fine ultimo di quelle leggi, possiamo dire che esse hanno raggiunto lo scopo.  ( Dal commento agli Statuti di Padre Abramo Bulanti).

 

Concludo qui l’esame degli Statuti, per quanto riguarda la salvaguardia del nostro territorio talamonese.

Mi riprometto, tra  un po’ di tempo, di riprendere qualche argomento interessante, spero senza annoiare nessuno, come quello del “fiüm”, negli Statuti, chiamato  “roggia”,  perchè richiama l’operosità e la grande capacità d’inventiva dei nostri padri, con un utilizzo del territorio e delle risorse naturali molto intelligente.

Spero anche che queste note possano invogliare qualche lettore a rileggere gli Statuti nelle parti più attuali. E ce ne sono, che possono farci riflettere, come dice Padre Abramo, al quale va il nostro grazie.

                                                                                         Guido Combi

 

LA SALVAGUARDIA DEL TERRITORIO NEGLI ANTICHI STATUTI TALAMONESI (seconda parte)

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Dati storici sulla popolazione ai tempi degli statuti:

Il Vescovo di Como Feliciano Ninguarda nella sua visita pastorale in Valtellina del 1589, subito dopo la stesura degli Statuti del 1562, annota i seguenti dati: ...il centro di Talamona conta circa 200 famiglie tutte cattoliche  eccetto il medico… A mezzo miglio oltre Talamona c’è Serterio con circa  50 famiglie tutte cattoliche…un miglio a monte c’è la chiesa di S. Giorgio con il paese dello stesso nome, che conta  40 famiglie…a un miglio abbondante da Serterio, ai piedi del Monte c’è Nimabia con circa 15 famiglie sparse. Su un altro monte..c’è Campo con  90 famiglie tutte cattoliche. A due miglia..c’è Tartano con  65 famiglie, tutte cattoliche…a un miglio e mezzo oltre…c’è Sparavera con poche famiglie.  …Questa comunità (di Talamona) annovera…oltre  4.000 anime, tutte cattoliche.

 

Mi sembrano opportune tre annotazioni e un piccolo glossario di alcuni termini non più in uso:

1) La Valtellina nel 1589 era sotto il dominio dei Grigioni che cercavano di diffondere il protestantesimo e la visita del  vescovo Ninguarda doveva servire a contrastare la deviazione religiosa con un censimento preciso delle famiglie cattoliche, e soprattutto con una pastorale che sostenesse la fede dei valtellinesi. Dalle cronache, non risulta che la visita del vescovo ci sia stata anche in Valchiavenna.

2)  Le frazioni permanentemente abitate, chiamate  vicinìe o anche vicinanze, erano sicuramente molte di più di quelle elencate, che  sono state raggruppate, per necessità di cronaca. Non sono elencate ed esempio: Premiana Alta, Premiana Bassa, Dondone, Faedo alto e basso, Civo, Sassella e altre minori che pure erano abitate.

3)  Come si può vedere, la popolazione, escludendo Tartano e Campo, era  abbastanza numerosa, anche se inferiore a quella attuale, che  ora non sta più sulla montagna.

Piccolo glossario:

Isola: località in riva sinistra dell’Adda, alla base del conoide.

Tenso: proprietà generalmente boschiva o forestale bandita: territorio vincolato, regolato da leggi comunali,normalmente assai severe.

Premestino: Terreni a pascolo comunali, aperti a tutti e regolati dagli ordinamenti comunali.

Masseria : famiglia  e abitazione di agricoltori in proprio.

Vicinìa o vicinanza: contrada o frazione del comune.

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Sono certo che tutti i “talamun” hanno letto gli Statuti.

Ci sono però delle parti, come quella che parla del territorio e della sua salvaguardia e conservazione che sono importanti ancora adesso, per tutti noi che amiamo il nostro paese. In più, sono molto attuali in periodi come il nostro di continuo assalto al territorio e  di spreco indiscriminato  del terreno, soprattutto di fondovalle con speculazioni che sono sotto gli occhi di tutti, anche a non voler fare gli ambientalisti a tutti i costi.

Basta  percorrere la Valtellina per rendersene conto.

Vale la pena allora di tornare, con la memoria, alla saggezza dei nostri padri “legislatori” che, nella stesura degli statuti, si sono occupati in modo particolare della salvaguardia del loro territorio, sia montano, sia di fondovalle.

Appare evidente la loro convinzione di considerarsi custodi e non unici proprietari di un patrimonio ricevuto in affidamento, con il dovere di tramandarlo ai discendenti nelle condizioni migliori possibili, almeno così come lo hanno trovato, se non migliore.

E’ da tener presente che tutti i boschi e i pascoli erano comunali.

Ecco allora che gli Statuti  provvedono, oltre che a regolamentare la vita civile e religiosa della comunità, anche alla “…difesa del territorio,  e regolano l’uso dei pascoli, dei boschi e delle acque…” su tutta la giurisdizione comunale che, tra l’altro, è molto diversificata con valli, pendii più o meno ripidi e zone pianeggianti, anche molto distanti tra loro.

Su questi argomenti, che sono condensati nel quarto dei sei temi, o capitoli, in cui è suddiviso il testo, è illuminante, esaustivo e chiaro il  commento  di padre Abramo Bulanti, che ha avuto il grande merito di tradurre  il testo latino, come sappiamo,  tanto che vale la pena di  leggerlo, per chi non lo avesse ancora fatto, e di rileggerlo, per coloro che l’ avessero già scorso.

Lo ripropongo all’attenzione di tutti coloro che vorranno leggerlo nella sua integralità, certo che Padre Abramo mi vorrà perdonare questa piccola invasione nel suo testo.

Gli articoli 68-86 trattano esplicitamente i problemi della conservazione  del patrimonio forestale e dei provvedimenti che i saggi (prudentes) uomini di Talamona prendono affinché i boschi, le selve e le piantagioni siano rispettati e aumentati e perché il disboscamento indiscriminato non sia causa di frane e di impoverimento.

Ecologisti ante litteram, gli amministratori comunali dimostrano di conoscere perfettamente il territorio e il suo valore ambientale.

Curano il bosco perché è fonte di prodotti indispensabili: legname da opera, legna da ardere, foglie da strame, ma sanno anche  che “la grande cupidigia” di pochi può diventare povertà di molti. E perciò leggi severissime ne regolano la conservazione.

E’ facile immaginare le selve, i boschi, le foresta della Talamona del ‘500 come immensi giardini fitti di piante, puliti della legna secca e delle foglie morte, attraversati da sentieri comodi e perfettamente agibili.

Questa parte dello Statuto potrebbe essere presa ad esempio per una politica ecologica e costituire una lettura assai proficua per tutti coloro che hanno a cuore la conservazione del territorio e dell’ambiente naturale.

Il primo provvedimento riguarda il “tenso” di S. Giorgio. Il bosco di Premiana e San Giorgio è tensato già da molto tempo: “non si trova nella memoria degli uomini”. La nuova ordinanza lo dichiara ancora tensato, e per sempre, unitamente ai luoghi di Gromo, Ronco e Bonanotte, perchè i suddetti luoghi “ non rovinino e vadano alla malora”. I bosci delle predette località devono rimanere intatti: è proibito bruciare, tagliare, scortecciare, sbroccare alberi di qualsiasi specie, sotto pena di lire 6 imperiali per ogni pianta tagliata e di soldi 10 per ogni ramo asportato. E questa ordinanza sia osservata “con destrezza e precisione”.

Constatato che la cupidigia di certe persone metteva a repentaglio boschi e selve, creando le premesse per frane e scoscendimenti che minacciavano campi e beni del Comune e dei privati, i “prudenti uomini” di Talamona avevano già mandato degli esperti a vedere, a rendersi conto e a tensare, a loro discrezione, selve e boschi e a mettere “termini” ai pascoli o premestino, per evitare risse e liti, specialmente nelle zone di confine sugli alpeggi. Una commissione di uomini, nel 1559, aveva provvisto di termini, ponendo le croci, dividendo chiaramente il premestino dagli alpeggi, e tensato alcuni  boschi. Ora in quei boschi tensati dalla commissione e ben segnalati, è proibito qualsiasi taglio di piante o di rami e asportarli, per nessun motivo. La multa è salatissima, tre scudi aurei per ogni pianta, uno scudo per ogni ramo tagliato e portato via, da ripartirsi così: un terzo al comune, un terzo al console o ai sindaci, e un terzo ai denuncianti dei contravventori, e senza alcuna remissione.

In questo boschi tensati tuttavia, gli abitanti del comune, per proprio uso, possono raccogliere e portar via, senza pena, rami e legni caduti e secchi.

Gli alpeggiatori non devono sconfinare con le mandrie oltre i termini fissati: se sorpresi oltre i confini segnati, pagheranno tre scusi aurei ogni volta e per persona, oltre il danno causato a terzi stimato dagli ufficiali comunali. Non si può asportare dagli alpeggi il letame, che deve servire per concimare i pascoli. E in  particolare si ordina di non deteriorale gli stabili dell’alpe, ma anzi di averne cura e di migliorarli senza per questo, richiedere ricompensa. I danneggiamenti agli stessi sono severamente multati. E’ consentito bruciare i cespugli verdi (s’ciosseri), le immondizie e i brughi, ma solo per fare pascolo e avendo cura di non causare franamenti.

Ritorna spesso questo richiamo alle “ruine” che dovevano preoccupare assai le amministrazioni comunali, perchè, insieme alle pietre dei fiumi, erano causa di deterioramento del territorio e di sconvolgimento dell’ambiente naturale.

L’art. 71 richiama un’ordinanza del 1539 e ribadisce il tenso privato dei pascoli e dei prati nel piano e suo monti, ma solo quelli a catasto ed estimo. In un periodo congruo dell’anno, non specificato, queste proprietà private devono essere tenute chiuse e nessuno vi potrà far pascolare mandrie di nessuna specie: in caso contrario si pagherà 40 soldi imperiali pe ogni bestia grossa e 7 per ogni piccola. E’ chiara l’allusione al fatto che i prati e i pascoli, anche quelli privati, devono “riposare” e rifarsi. (continua)

 

                                                                               Guido Combi

 

UNA NUOVA CAPPELLA PER LA CHIESA DI SAN GIORGIO A TALAMONA

DON VINCENZO E MARIO ALBERTELLA 

La trecentesca chiesa di San Giorgio in Premiana presentava originariamente un solo altare. Nel sedicesimo secolo il ricco talamonese Lorenzo Del Sertore residente a Milano fece costruire, a sinistra rispetto all’entrata, una cappella laterale con un altare dedicato a San Lorenzo Martire. Questi la dotò anche di una casa per il cappellano e di proventi per il suo mantenimento. La chiesa di San Giorgio aveva raggiunto in quegli anni il suo massimo splendore: dalla sua costruzione fino a poi tutto il diciottesimo secolo il servizio religioso era stato continuo e regolare, costatando storicamente che Premiana formava un paese di circa trecento anime, oltre i numerosi fedeli delle frazioni di Dondone, Campo e Tartano che affluivano per le funzioni religiose, specialmente nei giorni festivi, grazie alle comode mulattiere oggi ormai scomparse. Ma verso la fine del settecento iniziò la spopolamento di San Giorgio in quanto gli abitanti, per le migliorate condizioni di Talamona (sia per il brigantaggio di fondo valle che stava scomparendo e per il terreno dell’Adda bonificato) cominciarono a discendere ed accasarsi in paese. I fedeli di Campo e Tartano, che avevano costruito sul posto le loro chiese, non necessitavano più della chiesa di San Giorgio ed anche il prete, non essendoci più famiglie stabili per l’intero anno, lasciò l’antica Chiesa per fissare la sua dimora a Talamona. La chiesa non venne completamente abbandonata: si continuò a celebrare la messa per la festa del Titolare il 23 aprile ed il terzo giorno delle rogazioni, più alcune funzioni estive. Inevitabilmente cominciò così il declino strutturale di questa che era la chiesa più lontana dal centro del paese: dopo un secolo e mezzo la chiesa stava ormai per sfasciarsi per la precarietà del tetto che faceva acqua da ogni parte e per due travi maestre, corrose dal tempo e incrinate in vari punti, che segnavano delle gravi curvature. Il muro a destra entrando era percorso da una crepa spaventosa sia in lunghezza che in profondità ed a giudizio dei periti l’edificio sarebbe presto crollato su sé stesso. Fu allora che don Vincenzo Passamonti, da 15 anni canonico di Talamona, previa la concessione del Vescovo di Como Alessandro Macchi, procedette quasi completamente a sue spese al rifacimento della chiesa: la fabbriceria di Talamona in quegli anni aveva infatti dovuto sostenere la costruzione della nuova chiesa parrocchiale e don Vincenzo decise di mettere a disposizione della causa la sua pensione di guerra (era stato combattente in Albania durante la prima guerra mondiale). Don Vincenzo affidò i lavori alla ditta Tarabini Giovanni di Talamona che, a partire dagli anni   1939/40 rifece completamente il muro pericolante ed eseguì uno sterro di oltre trenta metri cubi di materiale nel terreno retrostante la chiesa per salvaguardarla il più possibile dal logorio delle acque di scolo della montagna e del torrente Moia che, mediante due condotti trasversali tracciati sotto il pavimento, vennero convogliate e sboccarono sotto il muraglione di cinta del sagrato. All’altezza della cappella di San Lorenzo fece costruire una cappella nuova, dotando la chiesa di un terzo altare e rendendola nuovamente simmetrica. Ricostruì completamente il tetto aggiungendo 80 metri quadri di ardesie e da ultimo fece ornare il muro e la cappella nuova dal decoratore Talamonese Augusto Maggi che riprese i disegni geometrici già presenti sulle pareti antiche dell’edificio.

Nel 1949 commissionò una grande tela al professor Mario Albertella, artista milanese molto attivo nella prima metà del ventesimo secolo.

Mario Albertella, pittore e restauratore, nasce a Milano il 7 maggio 1883. Frequenta l’Accademia di Belle Arti e la scuola Superiore di arte applicata, avendo a maestri Cesare Talloni e Luigi Cavenaghi. Si dedica completamente all’affresco, eseguendo importanti decorazioni nelle cattedrali di Siracusa, Ventimiglia, Caltagirone, Como, nel Belgio e in Svizzera.

Fondatore della Scuola Professionale di Arte Cristiana e del Restauro a Milano, a lui si deve anche la Libera Università per l’Artigianato Artistico. Ha pure fondato e diretto la rivista illustrata “Arte e Restauro” ed è stato pure consulente tecnico presso il Tribunale di Milano. Ha vissuto sino alla morte, sopraggiunta nel 1955, in via del Caravaggio 18 in Milano. Riccardo Albertella (nipote). “

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Il bisnonno Mario Albertella

 

Il professor Albertella era molto stimato dal vescovo della diocesi di Como, monsignor Macchi, che nel 1927 personalmente gli aveva commissionato di affrescare il catino absidale della chiesa della Santissima Annunciata in Como con “Il trionfo della Croce”. Nel 1931 fu a Regoledo dove affrescò la chiesa parrocchiale e probabilmente fu in quell’occasione che conobbe don Cusini ed il clero di Talamona, tant’è che due anni dopo, nel 1933 ci fu uno scambio di lettere fra l’arciprete ed il professore riguardante la decorazione della nostra chiesa parrocchiale.

                                                                                       Roma,8 ottobre 1933

  Rev.mo Sig.Arciprete di Talamona Mi pregio d’informarLa che ieri ho ricevuto in Vaticano un colloquio col Rev.mo Monsignore Chiappetta, Presidente della Commissione Pontificia d’Arte Sacra, al quale mostrai le fotografie delle mie pitture eseguite lo scorso mese a Regoledo, e che ebbi da lui informale invito di eseguire un bel progetto per la decorazione della Chiesa di Talamona, disegnata dal Monsignore stesso. Mons.Chiappetta vuole che la sua architettura sia integrata dalla decorazione ma non soverchiata o alterata di carattere e mi ha esposto i suoi concetti in merito. Ho accettato l’invito e studierò il progetto, giacchè qualcosa stavo già studiando in merito. Vuole dire che per la sua realizzazione sarà questione di circostanze e di mezzi. Non appena sarò da quelle parti mi farò dovere di venirLa a visitare e a darLe schiarimenti. Intanto mi valgo dell’occasione per riverirLa distintamente. Dev.mo

Albertella M.

 

Don Cusini però, ormai anziano ed infermo, non portò avanti nessun progetto di decorazione della chiesa. Don Vincenzo, che aveva conosciuto e molto apprezzato l’artista milanese, decise di commissionargli l’opera destinata a completare la cappella nuova. Fu scelto di realizzare una tela perché, nonostante i lavori di bonifica, l’affresco era sconsigliabile a causa della marcata umidità del muro sud della chiesa di San Giorgio. La grande tela raffigura, da sinistra, i santi Bartolomeo Apostolo, Bernardo e Vincenzo de Paoli. San Bartolomeo fu un martire del primo secolo; a causa della sua fede fu scorticato vivo e poi crocifisso. Don Vincenzo lo volle raffigurato per ricordare l’amato padre, Bartolomeo Passamonti, morto pochi anni prima. Immagine San Bernardo abate fu un santo e dottore della chiesa dell’undicesimo secolo; a lui era dedicata la chiesetta di Talamona distrutta dall’alluvione del 1911 e da questa don Vincenzo riceveva il beneficio ecclesiastico. San Vincenzo de Paoli fu un prete francese che visse a cavallo fra il 1500 ed il 1600 ed è considerato il più importante riformatore della carità della Chiesa cattolica. E’ ritratto con due fanciulli e don Vincenzo lo considerava il suo santo protettore. Immagine.jpg 2

Don Vincenzo con il padre Bartolomeo (1859-1942) sull’aia di “Castelgandolfo”

Don Vincenzo con il padre Bartolomeo (1859-1942) sull’aia di “Castelgandolfo”

Opere censite del Professor Mario Albertella

1923-CARAVAGGIO (Bg) affreschi nella chiesa di San Fermo e Rustico

1924-NOVARA, frazione di Pernate, chiesa parrocchiale di Sant’Andrea apostolo, presbiterio.

       -TORRE PALLAVICINA (Bg) chiesa parrocchiale di Santa Maria in Campagna

1926-BOGNANCO (Vb) chiesa parrocchiale di San Lorenzo

1927-SESTO SAN GIOVANNI (Mi) chiesa di Santo Stefano, affresco di presbiterio e cappelle.

       -COMO chiesa della Santissima Annunciata

1930-COMO chiesa di Sant’Eusebio

1931-REGOLEDO DI COSIO (So), chiesa parrocchiale

1933-CANNOBIO, chiese di Santa Marta e San Gottardo

1936-ROVELLASCA, CHIESA DI Santa Marta e chiesa parrocchiale

1937-BELLINZAGO NOVARESE (No) chiesa parrocchiale di San Clemente

1944-TURBIGO chiesa Beata Vergine Assunta

1945-GAGGIANO

1946-BARZIO (Lc) chiesa parrocchiale di Sant’Alessandro, pareti e cupola.

1949-TALAMONA (So) chiesa di San Giorgio.

Opera inoltre a ROTTOFRENO (chiesa di San Nicola), LISSONE (chiesa di santi Pietro e Paolo), TRECATE (chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta), ROSATE, TAINATE, GUDO VISCONTI, CORNO GIOVINE (Lodi, nella chiesa parrocchiale di san Biagio), SIRACUSA, VENTIMIGLIA, CATALGIRONE, in Svizzera e Belgio. Ci sono sue vetrate nelle chiese di Milano, Novara, Gatteo, Cremona, Montevideo, Genova.

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Studio di Albertella a Milano, distrutto durante la seconda guerra mondiale

Il 3 novembre 2011 Poste Italiane emette un francobollo celebrativo dell’ordine equestre del Santo Sepolcro del valore di 60 centesimi. La vignetta riproduce l’arazzo dipinto dall’artista Mario Albertella, agli inizi del Novecento, dal titolo “SAN PIO X E L’ORDINE EQUESTRE DEL SANTO SEPOLCRO DI GERUSALEMME” andato distrutto durante il bombardamento dello studio dell’artista durante la seconda guerra mondiale; fortunatamente era già stato riprodotto nel 1935 sulla rivista  ”Crociata”. In alto a destra è rappresentato l’emblema dell’Ordine. E’ il primo francobollo italiano che raffigura Papa San Pio X: vi appare come Gran Maestro dell’ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme mentre consegna una distinzione al cavaliere Mario Albertella e questi ha perpetuato il momento in un dipinto che è anche il suo autoritratto.

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Mariarosa Rizzi

Galleria foto Chiesa di San Giorgio, Talamona

IL TERRITORIO NEGLI ANTICHI STATUTI DI TALAMONA

PREMESSA GENERALE

Una piccola premessa generale mi pare doverosa, prima di affrontare l’argomento del titolo.

Su invito della biblioteca comunale, ho accettato di collaborare con “I tesori alla fine dell’arcobaleno”, con una serie, che non sarà infinita, di note, vuoi di ricordi, vuoi di accenni storici, di leggende talamonesi, di annotazioni sulle attività lavorative che ora non si praticano più e di altro, che in parte ho annotato nel tempo. Il tutto non intende essere un ritorno nostalgico al passato, magari pensando che era tutto migliore di adesso, che si stava meglio, che non c’erano tanti bisogni, che ci si accontentava di poco, che si era più contenti, che la famiglia era più unita ecc. ecc.  e si potrebbe continuare. Se così fosse, perderei il mio tempo e lo farei perdere al lettore, anche perchè non è proprio tutto vero e poi non esiste solo il  mio punto di vista.

Cercherò di parlare di fatti, quindi di usi, costumi, di piccole notizie storiche, di lavori, di vita sociale e religiosa e anche di divertimenti  e di altri avvenimenti che rappresentano il nostro passato  da cui veniamo. Sono le nostre radici talamonesi che in parte Gustavo Petrelli, come un antico menestrello, richiama nelle sue simpatiche canzoni.  Rappresentano la vita di chi ci ha preceduto  e sono stati una delle tappe che ci hanno portato al nostro oggi. E’ il patrimonio, non solo materiale, che i nostri genitori ci hanno lasciato e come tale è importante, soprattutto perchè è fatto di regole morali e di insegnamenti religiosi fondamentali per la nostra  vita civile.

Scrivo queste cose, perchè sono convinto che i giovani (sempre se qualcuno avrà la bontà di leggere queste note) debbano conoscere tutto quello che  è avvenuto prima, cioè la nostra storia dalla quale ciascuno, volenti o nolenti, veniamo e da cui, chi  vuole, può trarre qualche insegnamento. Dico questo senza voler fare da maestro a nessuno, senza salire sul pulpito, come si suol dire.

Mi si permetta un’ultima considerazione più o meno personale. Quando una persona invecchia, vive anche di ricordi e forse i miei scritti potranno servire, a quelli della mia età, a richiamare alla memoria momenti importanti, spero piacevoli, della loro vita passata, forse in parte dimenticati.

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RISPETTO E SALVAGUARDIA DEL TERRITORIO (prima parte)

 

Come sono venuti alla luce gli statuti raccolti nel “Liber Statutorum Magnifice Comunitatis Talamone”.

Verso la metà degli anni 80 del secolo scorso, venni a conoscenza, per puro caso, dell’esistenza del “ Liber Statutorum Magifice Comunitatis Talamone”.

Un amico, imparentato con una talamonese, sapendomi nato a Talamona e appassionato di storia della comunità, mi confidò di possedere, in fotocopia, il testo degli Statuti, senza specificare nè come ne era venuto in possesso, nè chi possedesse  il testo originale.

La notizia fu per me una piacevole novità, perchè non avevo mai sospettato fino ad allora dell’esistenza di un simile importantissimo documento.

Solo in seguito scoprii che già l’ing. G.Battista Valenti, un grande talamonese, molto attivo nella vita sociale di fine ottocento-inizio novecento, a cui è intestata una via a Talamona per i suoi molteplici meriti, era a conoscenza che un privato cittadino lo possedeva (vedi G. B. Valenti in Bollettino della Società Storica Valtellinese, 1937), dicendo che il documento era stato “ salvato dalla veggenza di un privato custode”.

Giustamente, padre Abramo Bulanti, traduttore degli statuti, di cui parlerò in seguito, nelle premesse, fa rilevare come “ la veggenza di questi privati custodi si è dimostrata tanto solerte che ora tanti documenti storici “pesano” in altri archivi personali, privando i talamonesi delle loro radici storiche”.

Sono passati  circa trentanni dal momento in cui ho saputo degli Statuti e spero che, nel frattempo, gli archivi comunali siano venuti in possesso degli originali, in caso contrario, invito il, o i possessori a compiere un passo importante per la nostra comunità e doveroso per lui o per loro, e di consegnare il documento a chi di dovere, cioè colui che deve essere il legittimo depositario: il Comune di Talamona.

Personalmente ritengo di aver fatto solo il mio dovere nell’averlo allora, quando mi è stato prestato in fotocopia , riprodotto in tre copie  e averne consegnata una all’allora sindaco Sergio Pasina.

Io ne ho tenuta una, perchè volevo provare a tradurla, essendo gli Statuti, come si rileva dal titolo stesso, scritti in latino, ma non in un latino classico.

Visti poi  i tentativi infruttuosi di traduzione da parte mia, soprattutto per mancanza di tempo, ma anche di preparazione specifica, concordammo col Sindaco di consegnare la terza copia a un giovane laureato in lettere classiche per la traduzione e la successiva pubblicazione da parte dell’Amministrazione Comunale.

La cosa non andò in porto per una serie di circostanze e così, negli anni seguenti il testo venne consegnato alla “Accademio de la Crüsco”.

Fortuna volle che del gruppo (benemerito finchè ha operato e che purtroppo ha cessato la sua importante attività) facesse parte Padre Abramo Bulanti di Prinsep, talamonese, Betarramita, allora parroco a Dascio, un paesino posto all’inizio del Lago di Como, che con un grande lavoro e con passione, fece la traduzione, premettendo una serie di importanti e chiare considerazioni a chiarimento dei testi.

Il testo completo degli Statuti, venne poi pubblicato nel dicembre 1994 e recapitato, dall’ Amministrazione Comunale a tutte le famiglie residenti e e quelle emigrate, quando è stato possibile.

La università dei Talamonesi deve essere eternamente riconoscente  a questo benemerito cittadino, che, non sono ha permesso che tutti conoscessero l’antico testo, ma l’ha dotato di un commento preciso e puntuale.

Non nascondo la soddisfazione per aver dato il mio contributo a che l’opera potesse giungere  alla conoscenza di tutti i miei paesani, come è avvenuto, anche per la sensibilità degli Amministratori.

A dimostrare la saggezza e la lungimiranza degli antichi reggitori della Magnifica Comunità  che hanno stilato gli Statuti, voglio portare all’attenzione dei lettori le disposizioni in merito alla “Tutela e alla conservazione dell’ambiente”,  quasi totalmente montano.

Talamona, infatti, è un paese che ora si estende su un ampio conoide, il più ampio della Valtellina, ai piedi delle pendici settentrionali delle Alpi Orobie, nella Bassa Valtellina  chiamata anche  Terziere Inferiore.

Nel periodo che va dal 1525, anno della prima stesura degli Statuti, fino al 1562, anno del testo definitivo, salvo alcuni divieti aggiunti negli anni successivi dal 1563 al 1968, poco meno della metà dell’intera “università”  dei cittadini talamonesi risiedeva stabilmente sulla montagna, in diverse località o frazioni, chiamate vicinie o vicinanze, al di sopra degli 800 m di altitudine (di cui parleremo in seguito): un quinto circa risiedeva a Tartano e in Val Lunga, nel cuore delle Alpi Orobie. Come si può capire anche Tartano e Campo a quei tempi facevano parte della Comunità di Talamona.

Dal momento quindi che la popolazione viveva sulla montagna e della montagna, dalla quale dipendeva, per molti motivi, anche quella che risiedeva nella parte bassa del conoide, si pensi alle frane e agli straripamenti dei torrenti, ne derivava l’impellente necessità della conservazione dei boschi, della tenuta sotto controllo delle acque e del loro deflusso, della salvaguardia dei terreni coltivi e del loro miglioramento.

Ora, grazie all’opera di Padre Abramo, dopo tanti secoli, possiamo conosce tutti ciò che i saggi reggitori della comunità avevano allora deliberato e, come ci dice chiaramente il traduttore, i talamonesi, come comunità, hanno recuperato le proprie radici, nella parte più importante, perchè codificata.

Dal momento che si possono considerare gli Statuti uno dei “Tesori alla fine dell’arcobaleno”, forse il più prezioso, nei prossimi scritti cercò di approfondire il tema della salvaguardia del territorio  nelle loro disposizioni, sempre con l’aiuto di quanto ha scritto Padre Abramo Bulanti. (continua).

Guido Combi

LAVORAZIONE DELLA LANA E DELLA SETA

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QUANDO NON C’ERANO I GRANDI MAGAZZINI

PICCOLO VIAGGIO NELLA PRODUZIONE TESSILE ARTIGIANALE

Quando i nostri nonni erano bambini ogni aspetto della vita quotidiana derivava dal lavoro dell’uomo senza l’ausilio di macchine ne tanto meno dispositivi elettronici. Non essendoci nemmeno tutti i negozi di cui si può disporre ora ne consegue che anche i vestiti indossati erano prodotti di manifattura totalmente artigianali in ogni fase del processo produttivo dal reperimento della materia prima a tutte le fasi di lavorazione che portano al prodotto finito.

Coltivazione delle piante da tessuto

Tra le famiglie di contadini era usanza che ciascuna coltivasse anche piante adibite alla produzione di fibre di tessuto da lavorare artigianalmente per ricavare indumenti, prevalentemente lino e canapa. Tali piante venivano strappate immediatamente dopo la maturazione e messe a bagno per 40 giorni in un pozzo d’acqua o in un prato umido di rugiada. Dopodiché si procedeva alla battitura tramite un arnese costituito da un tronco di legno con un intaglio nel quale veniva messa la pianta e poi sbattuta contro un altro tronco. Questo procedimento serviva per estrarre dalla pianta la fibra tessile vera e propria che veniva passata in uno strumento chiamato frantoio (simile solo per il nome allo strumento usato per le olive) per ricavare il filo di tessuto da lavorare unendolo ad altri fili tramite uno strumento chiamato carel (una sorta di treppiede azionato con un pedale con una ruota dove venivano posizionati i fili da tessere) col quale si ricavava un gomitolo da portare alle testore (le tessitrici) che ricavano per tutta la comunità indumenti asciugamani lenzuola e biancheria da ridistribuire equamente tra le varie famiglie.

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Lavorazione della lana

La materia prima di questo tessuto era ovviamente il vello delle pecore allevate però anche per il latte e la carne.

Con la lana si facevano coperte, calze, golf e indumenti invernali in genere.

Il compito di lavorare artigianalmente la lana spettava alle donne di casa oppure alle magliaie che svolgevano questo servizio, dietro giusto compenso, per tutta la comunità.

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Le pecore venivano tosate di norma in primavera poi dopo la tosatura si provvedeva alla cardatura senza però lavare prima la lana che veniva lavata soltanto dopo essere stata filata. La lana appena tosata presenta infatti una pellicola unta, preservando la quale il processo di lavorazione risulta molto più facile e da come risultato dei fili sottili coi quali è possibile creare del tessuto pregiato. Lo strumento di cardatura della lana era costituito da due tavolette di legno nelle quali venivano piantati dei chiodi.

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Vari attrezzi per la lavorazione della lana

Facendoli scorrere uno contro l’altro con la lana in mezzo essa diventava liscia, soffice e priva di nodi. Dopo la cardatura si formavano i rotoli di lana che venivano filati col carel dopo averli stipati in ceste. Durante il processo di filatura si formavano collegando il carel ad un altro strumento denominato bicocca (composto da un cilindro formato da sei bacchette e due coperchietti) tramite un filo di lana. La bicocca era munita di una sorta di pedale azionando il quale la lana si svolgeva a poco a poco dal carel e andava a formare le matasse. È solo a questo punto che la lana poteva essere lavata dopo aver formato dei veri e propri gomitoli tramite uno strumento apposito chiamato aspo munito di una manovella azionando la quale si formava il gomitolo partendo dalla matassa. In alternativa si poteva semplicemente tirare il filo di lana e farlo passare intorno ad un braccio per ottenere il medesimo risultato.

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I fusi e le rocche  

                                                                                     

Allevamento dei bachi da seta

Nelle famiglie si usava allevare bachi da seta cioè bruchi molto piccoli che venivano venduti a scopo di allevamento in botteghe specializzate.

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Il Baco da Seta (“El cavaliér”)
Il baco da seta è la larva dell’insetto Bombyx Mori (bombice del gelso) che, prima di raggiungere nello stadio adulto la forma di una farfalla, subisce numerose trasformazioni (metamorfosi) attraverso un complesso ciclo vitale.

Anche questa mansione era tipica delle donne che portavano a casa i bruchi in ceste grandi come scatole da scarpe per poi trasferirli in scatole di legno che gli uomini costruivano appositamente variando le dimensioni a seconda della grandezza dei bachi.

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L’operazione della trattura (detta comunemente filatura) consiste nel trarre, appunto, dai bozzoli un filo di seta continuo e dallo spessore costante unendo più bave non sufficientemente resistenti per essere utilizzate singolarmente. Tale operazione è rimasta un’attività di carattere domestico e artigianale fino alla fine del XVIII secolo, quando hanno iniziato a essere costruiti i primi stabilimenti meccanici di filatura.

Nei loro contenitori i bachi crescevano nutriti con foglie di gelso che inizialmente, quando i bachi erano ancora tendenzialmente piccoli e immaturi, venivano tagliate finemente a pezzi piccoli che venivano aumentati di dimensione in relazione alla crescita dei bachi.

Prima della maturazione i bruchi avevano per la maggior parte una colorazione tendente al bianco sporco. Ce n’erano però di più rari che avevano una colorazione grigia ferrosa e che venivano denominati in gergo cavaleér feree che significa appunto bruchi ferrosi.

Una volta maturi i bruchi avevano aumentato le loro dimensioni e assunto una colorazione giallo pallido ed erano pronti per tessere il loro bozzolo. Gli allevatori mettevano nei contenitori dei bastoncini di legno dove i bruchi si arrampicavano e si avvolgevano nei bozzoli (in dialetto galet)  aventi la forma di noccioline americane (di dimensioni però leggermente maggiori rispetto a questi ultimi) di colore bianco sporco o giallo pallido che dopo un po’ di tempo le famiglie vendevano ai tessitori.

Le famiglie allevavano moltissimi bruchi stipati in tanti contenitori gli uni sugli altri sopra degli scaffali che si raggiungevano, per nutrire i bruchi o raccogliere i bozzoli, adoperando delle scalette.

Le donne di famiglie diverse molto spesso si aiutavano a vicenda in questa attività e molto spesso contribuivano anche i bambini ai quali tutto veniva presentato sotto forma di gioco. Gli adulti donavano loro dei bruchi che essi allevavano da soli per poi vendersi i loro bozzoli insieme agli adulti.

Chi comprava i bozzoli provvedeva poi a recapitarli a chi li lavorava o li lavorava direttamente scaldandoli in modo da dipanare i fili ed intrecciarli per ottenere il favoloso tessuto.

Antonella Alemanni

A PROPOSITO DI …SAN GIORGIO – LA RUOTA DEL MULINO

 DAI RICORDI DELLA FAMIGLIA ZUCCALLI

Chiesa di San Giorgio-Talamona

Chiesa di San Giorgio-Talamona

Si sa che nei tempi andati San Giorgio di Premiana era un centro abitato, si sa che lassù era la chiesa filiale di Santa Maria. Si sa ancora che, oltre alle famiglie patriarcali e alla chiesa, esistevano lassù un castello e anche un molino.

Tutto però è stato distrutto dal tempo, dalle alluvioni e dalle frane.

Come sia andato completamente perduto quel castello, che doveva essere una specie di fortezza e del quale non rimane che un prato dov’era ubicato, non è dato sapere con esattezza.

Il molino, invece, sembra stato travolto da una frana che ne disperse ogni traccia nel torrente Roncaiola: ciò può essere grossomodo rilevato anche da un fascicolo di notizie storiche compilato dal Sacerdote Don Giacinto Turazza in occasione della costruzione della nuova chiesa di Talamona.

Secondo quelle notizie sembra che il fatto sia avvenuto poco dopo la peste che imperversò anche in quel di San Giorgio nel 1630.

Da quel fatto sono dunque passati oltre 300 anni e col succedersi delle generazioni si ne sono perduti anche i ricordi.

Ma mentre al posto del rudimentale molino sono cresciuti i castani e si è infittito il bosco, mentre le quasi periodiche alluvioni portavano a valle e disperdevano ogni frammento della casa del mugnaio, qualche cosa è rimasta là, incollata nel letto del torrente, per richiamare, dopo tanto tempo, e tanta dimenticanza, la memoria dei Talamonesi al fine di ricordare che anche lassù in quel di San Giorgio ferveva un giorno un’attività, una piccola e assai modesta industria.

Una nuova alluvione ha per l’ennesima volta rivangato il letto di quel torrente e mentre in determinati punti ha accumulato montagne di materiale laggiù, ai piedi di “Dos Mulin”, ha scoperto e offerto alla luce dell’alba del giorno 13 luglio 1961, la pietra molare di quel vecchio molino.

Quella rudimentale pietra, della quale di tanto in tanto i Talamonesi parlavano come di una leggenda, fu scoperta casualmente da Luigi Zuccalli che pascolava le mucche con la famiglia su un piccolo prato bagnato dalla Roncaiola.

Il figlio Martino racconta che Luigi si girò verso la moglie e le disse:” Hai i piedi sulla ruota del molino”. Ma quella pietra era laggiù, incastrata nei detriti del torrente e, dato il suo non trascurabile peso (circa 3 q.li) e il ripido sentiero attraverso il bosco, non era cosa facile riportarla a monte, onde fosse al sicuro e non rischiasse di essere nuovamente travolta da una eventuale nuova alluvione.

Ma la tenacia di un gruppo di uomini affezionati a San Giorgio superò ogni difficoltà e, affratellati dal comune desiderio di lasciare ai posteri quel cimelio che potesse parlare di quella storia, il giorno 15 agosto 1961, dopo aver assistito alla Santa Messa, associarono le loro fatiche e coronarono il loro desiderio.

E ora la pietra molare del vecchio molino, che non è più una leggenda ma una realtà, fa bella mostra di sé nel sagrato della chiesa e resta a rappresentare un po’ la fierezza di coloro che quel giorno hanno duramente faticato per salvarla da ulteriori smarrimenti e per donarla alla luce dei secoli che si succederanno.

                                                              Mariarosa Rizzi

UNA STORIA DI EMIGRAZIONE

Leggendo il pregevole volume “Talamonesi nel mondo” di Daniela Larraburu, edito dal Comune di Talamona nel 2008, mi sono ricordato che da parecchi anni, sono in  possesso di alcuni documenti originali molto interessanti che provengono dalla famiglia Manzoni. Adesso che la famiglia è estinta, con la morte dell’ultima delle tre sorelle avvenuta nel 1972, nessuna delle quali ha avuto figli, ritengo sia possibile pubblicare, per ora, una parte della documentazione.

Essa  è costituita da lettere, fatture, autorizzazioni, rendiconti e documenti vari inerenti la vita della famiglia, proveniente dalla zona di Lecco, come attestano i primi documenti che risalgono all’inizio del 1700, legati all’attività del mulino di proprietà.

A quei tempi,  l’attività del mugnaio rappresentava una realtà economica di grande importanza nella società contadina.

Il mulino ha svolto le sue funzioni fino a metà degli anni cinquanta del secolo scorso e si trova all’inizio della via S. Giorgio, appena sotto la latteria sociale Coseggio. Sopra la porta di accesso al mulino, ancora adesso, si può vedere un affresco, parecchio deteriorato dal tempo, di S. Vinnoco con la scritta: “ O San Vinnoco di Voromolt, protettor de’ molinari, fate che a prò dei poveri tapini non manchi mai farina alli forni”. Purtroppo non esistono più nè le macine, nè le impalcature, nè le ruote che facevano funzionare il mulino, mosse dall’acqua del “fiüm” opportunamente incanalate.

Tutte le lettere, che ho passato alla Casa della Cultura, dovranno essere tradotte e penso potranno essere oggetto di una interessante pubblicazione.

Per ora mi limito a proporre all’attenzione dei lettori talamonesi due lettere, provenienti dal’Argentina, scritte da parenti della famiglia Manzoni, come si capirà, datate  “lui, 19 del 1881” e “li 6 abril 1897”.

Sono state scritte rispettivamente: la prima da “Luzzi Lurenzu” e, nella parte finale dalla “mulglie” Simonetta Rosa; la seconda,a distanza di 16 anni, dalla stessa Simonetta Rosa.

Ritengo opportuno che le due lettere vengano pubblicate integralmente, così come sono state scritte, alla fine del 1800, perchè rappresentano uno spaccato di vita dei nostri emigranti con i loro affetti, i loro stretti legami familiari con i parenti in patria, le loro aspettative e soprattutto i loro sacrifici e le loro difficoltà, quando con le prime ondate di emigrazione verso l’America Latina, cui ne sono seguite altre fino alla fine degli anni 50 del ‘900, affrontavano l’ignoto verso la ricerca di una vita migliore per i loro figli, dopo aver abbandonato praticamente tutto: la loro terra natia, i parenti, gli amici e le proprietà.

Leggendo queste lettere, riusciremo forse a capire meglio, coloro che oggi fuggono dalla guerra e da condizioni di vita che non presentano speranze per l’avvenire, affrontando pericoli e disagi enormi e, troppo spesso, anche la morte.

Nella prima lettera, scritta su carta listata a lutto, (il lettore capirà il perchè) viene riportato un fatto curioso e doloroso assieme successo al Luzzi e alla sua “familglio” nei primi due anni di permanenza in Argentina, che spero sia chiaro nel significato dei termini pusteru, gaioffa ecc. essendo il contesto sufficientemente esplicativo.

Nel modo di scrivere, si può notare l’influenza della lingua spagnola in certe parole e, in altre, il ricordo del dialetto talamonese, che normalmente veniva parlato in famiglia  dagli emigrati.

Nella seconda, si intuisce il lavoro fatto dalla famiglia nei 18 anni dalla partenza da Talamona e le difficoltà incontrate.  E’ messa in evidenza con dispiacere, la volontà dei figli  “baruni” di dedicarsi ad altri lavori e quindi di non voler proseguire quello paterno nella “panaderia” , che costringe “Lorenzu e Rosa” ad affittare la piccola azienda messa in piedi da loro stessi, tanti anni prima.

Può darsi che qualche “regiur” riconosca nelle persone che vengono nominate qualche lontano parente e penso possa, in questo caso, essere fiero di quello che hanno fatto i nostri emigranti più di un secolo fa.

Ritengo che nessuno possa offendersi se vengono pubblicati “interess” che ormai, a distanza di tanti anni, non sono più notizia “secreta”.

Lascio al lettore le considerazioni sui vari aspetti, rapporti, sentimenti, a volte appena accennati, espressi nelle due lettere e soprattutto sulla capacità di affrontare le mille difficoltà dell’ignoto e di superarle con una tenacia tipica della nostra gente.

Un’ultima considerazione riguarda la capacità di esprimersi  per iscritto e di farsi capire in modo corretto in tempi in cui l’analfabetismo in Italia toccava percentuali altissime.

Anche se, a prima vista, può sembrare un po’ difficoltoso capire il modo di esprimersi dei protagonisti, una volta “fatto l’orecchio”, il lettore vedrà che riesce con una certa facilità a “entrare nei panni”  di Lorenzu e di Rosa, che esprimono, tra l’altro, una grande nostalgia di Talamona e dei parenti lontani.

Ecco allora il testo integrale delle due lettere, così come sono state scritte più di un secolo fa e che testimoniano, anche se indirettamente, come tanti, tantissimi italiani, con il loro lavoro, abbiano anche contribuito in modo  rilevante alla crescita della nazione argentina, come risalta anche nel volume citato.

Queste mie righe vogliono essere un omaggio e un ricordo dei tanti “Talamun” che hanno dovuto lasciare la patria.

Guido Combi (GISM)

Prima lettera:

lui 19, del 1881

Cara Cugniata Mariangela e cugniatu batista Manzoni contutta la vostra preziosa familglio

Dopu di mandarvi ipiu sincieri e cordiali saluti io vengo a darvi notizia di nostra regular salute come spero ilsimile  anche di voi tutti. Io ontesu che non avete ricevutu le mie lettere mandate da me la prima lomandata il 12 diciembre del 1879 dieci giorni dopu il miu arivu in la merico e non o potutu sapere selavete ricievuta che era la lettere del miu lungu e tristu viagiu duncuve temu che sara persa per la gran guvera che aveva alura e laltra mandata dellamiamuglie il 16 giugnu del 1880 che era il riscuntru della vostra che mi avete scrittu il 8 Marsu e di piu nel cientru della lettera omessu un bigliettu di 5 franchi moneda italiana che mi e avanzatu del miu viagiu era una riconoscienza della fiosie nostre e mia scrittu il miu procurador che non avete ricievutu nesuna risposta duncuve per me e un destinu disgraziatu sobratutte le mie cose perche in febreru delanu corente no mandatu unaltra de inportanza:  a una persona che aveva dinteresu e nolanricievuta che era sulu la distanza di 6 ure di dove vivu iu e io ocercato di sapere cone era cuvestu  e ofatu scuprire la cosa era il pusteru che ricievia le carte e li dinari delle carte fronchiate selometeva in gaiofa e le carte le meteva nel fuoco duncuve duncuve lannu messu nelle calciere seriamente e aora sono cambiatu e deve caminarbene con la posta e insedeno le andrà male di più delaltru ancora duncuve senoavete ricievutu le miecarte siguru sono andate nel focu della medesima manu che sono poi 3 che mesea persu duncuve mi presentaro in giustizia a far raportu che elmerita. Caru cugniatu e cogniata non credete che io sia statu capaci di far cuvestu di non scrivervi sino aora saria ilpiu indegniu el piu crudele del mundu avaria fatu pecatu murtale dopu tantu bene ricievutu da voi caru cugniatu e de la mia cara cugniata e de tutti i vostri figli nostri fiosi e nipoti cari allora avaresti occasione di portarmi unagran rabia sobra cuvestu che credu asolutamente di non aver culpa e vidicu laverita come fusse inconfesione generale abenche il miu faratellu ha dettu che lui mi comprava e mi vendeva e me e nonevera non ano dinari sificiente per cuvestu se fuse busie ne avaria multi il miu fratellu.

Caru cugniatu Batista e cogniata Mariangela io vengu a darvi notizia della mia numerosa famiglia abiamo 7 figli e la piupiupicula anno gia prestu 10 mesi.Bene el procurador miu le mandi unaletera anche a lui e vi pregu e  vi repitto di star uniti con lui che credi che el fara ilgiudtu anche per noi sevoi volete comprare la parte della mia muglie vi do la preferenzo a voi prima e se no disponi di vendere a cuvalunque che si puo presenta e che paga di piu e se non puo vendere e sulu fitamu voi siete il primu intra tantu che seincuntra cumpradori di piu vi pregu solamente di farghi comprendere al miu procurador della parte della stalla che ne partiene del pover pietru di piu  i farete il piaicere a oservare bene cuvanti giornate che ocupa in cuvesti interes per mia regula pero vi pregu che la cosa sia secreta che non abia di sapere niente nesuni e se per casu elvende cuvalche cosa mifarete ilpiacere a tener unapuntu voi per vedere se la cosa vanno bene un qualche giornu alafenitiva perche la mia mulglie volvedere il tuttu e se fanno cuvalche cose malfati alura la mia mulglie taglia inmediatamente la catena perche intra le vendite e cuvel che annu fattu a parte al michelangil alora lialtri non pigliamo cuvasi niente el pover padri lanu fatu fare delle cose malfati infine in unaltra lettera vi spiegaro piu bene e in cuvesta nono potutu scrivervi tantu chiaru perche hola mulglie disperata aver persu il suvu padre altru non mi resta che rilasiarvi con i piu sincieri e cordiali saluti tutti in familglia e vi saluta tutti i miei filgli adiu e mi dichiaru Luzzi Lurenzu”.

La lettera continua con un’altra calligrafia, quella della moglie Rosa Simonetta.

Carissima Sorella Mariangela che mala notizia che o ricevuto da parte del mio procuratore che seamorto  il nostro Caro Padre a che desgrazia per io di non poterlo vedere anti di morire ora o piu speranza di vederlo. Caro sorella vengo a ripetere il riscontro de tuo unico carta che oricevuto io non poso fenire di ringraziarti tu e tuo caro famiglio il bene che ciavete voluto al mio Lorenzo io no podero rivare a pagare lobligazione pero da Dio non perdarete niente. Cara sorella e cogniato Batista le mie due care fiose e li altri nipoti tutti vi saluto caldamente adio cari e me salutarete il Michelangelo e tutta la sua familglia ellantonietta e la familglia adio te mando milla bacci mi dichiaro tuo sorella Simonetta Rosa.”

 

Seconda lettera.

“lì 6 abril de 1897

Caru nipute michele e batista conle vostre sagradi familie e fiosini  ursula e rosa con le vostre sagradi familie e antoni mio fratellu antoni con la suva famili e tutti i nostri parenti conla bella occasione che viene a casa duca andrea vimandi quvesti duve righe a farvi sapere la nostra regular salute tutti in gieneral tutti in casa e quvelli fora di casa e così desideriamo e speriamo di tutti voi.

Vi fo sapere che pochissimi giorni prima della partenza de duca pumpeo e saputu de pasina batista che ritorna allamerico che e morta mia sorella mariangela quvanti elme rincrese a non poter vederla  mai piu cara mia sorella cari miei niputi fatevi di coragiu e rasegniatevi al voler dedio che non perite mai

Caru nipute michele vengu a predirti un favore a farmi sapere come sono la sunto de la selva che resta da vendedere dentro sura la gierra se  voialtri avete intensione di comprala  siono  se avete intensione coprala ve la vendo por el prezi di duve marenghini e mezu in oru dico 2 1/2 marenghini oru e se voialtri noavete interes di comprare mi farete il piaciere a cercare  de vendela al miu fratellu antoni o a quvalunque duni altri se potete guvadagnare  quvalche cosa di più ve lo lasi aviotri per la vostra comisione che gia sapete che sono stata stimata 60 £ dunquve duncuve de cuvel tempu a sta ura credemu che li arbuli sono cresuti dunquve sono sempre a benefizi del compradore caru nupute michele tirego di farmi il piaciere a fare tuttu lo posibile a ajiutarmi sopra quvesta granda vendita

Caru nipute michele per elustrumentu se pudara rangiarsa con el esatur per poco dineru perche a mandare una procura e poi mandarla a roma viene a custar il valore che la vendi dunque non mi resta niente per me caru nupute abiamo metutu panaderia in nostra casa j abiamo travallatu 5 anni e siamo trasati e adessu abiamo afitatu per 10 anni per potere pagare la nostra perdita per no lienare i beni. Dunquve quvesta selva in talamona sono puse disposta da vendere che altra cosa sempriper aiutarne un pocu caru nipute i nostri figli baruni non ano piaciere nesuni a lavorare in la panaderia e per quvestu lo afitata quvesta estata la mia desfortuna el ghi piacie di piu quvalunquve altri lavori

 Altra non mi resta che racomandarvi  di unpruntu riscuntru e rilasiarvi con ipiù cordiali saluti tutti con la vostra apresiada familia e il vostru fratellu batista e le mie fiosie ursula e rosa e meneghina e mariangela e antoni mio fratello con la suva familia e tutti quvei de la famili di riva lorenzu dettu benedet e mi salutarete tutti quveli della mia casa paterna e materna adiu adiu adiu

Mi dichiaro la vostra zia Simonetta Rosa maritata Luzzi adiu cari miei niputi

E vostru ziu Lorenzu Luzzi

   Adiu Adiu Adiu