LAVORAZIONE ARTIGIANALE DEL LATTE

DAL RACCONTO DI MIA NONNA LA RIEVOCAZIONE DI UN MONDO ARCANO (ANCHE SE NON COSI’ LONTANO NEL TEMPO) OVE L’INDUSTRIA CASEARIA ERA UNA FACCENDA CASALINGA

 

Un tempo, quando i nostri nonni erano ancora bambini, non esistevano grandi negozi dove trovare ogni ben di Dio. Tutto cio che era necessario ognuno se lo produceva a casa sua con le sue mani. Prendiamo ad esempio il latte. Ognuno aveva la sua stalla con le sue mucche munte ogni mattina e portate regolarmente a fare la transumanza su per i più alti pascoli d’estate e nelle stalle d’inverno.

Adiacenti alle stalle ognuno possedeva anche i locali adibiti alla lavorazione del latte con metodi dove il lavoro dell’uomo aveva ancora una netta prevalenza sull’azione delle macchine. Si trattava di locali con ampie vasche nelle quali c’era sempre dell’acqua affinchè il latte si mantenesse fresco

Il latte appena munto veniva versato in un recipiente ampio e basso di rame le cui dimensioni potevano variare a seconda della quantità di latte che ciascuna mucca offriva. Il recipiente veniva adagiato nelle vasche e lasciato a riposare per un giorno e una notte, un procedimento necessario a far affiorare la componente grassa o panna che poteva essere consumata pronta oppure essere trasformata in burro non prima però di averla separata dal latte. A tal scopo si adoperava una paletta di metallo facendo attenzione a non immergerla troppo in profondità cosa che avrebbe potuto causare il rimescolamento di latte e panna. Questo processo veniva denominato spanatura ed era l’equivalente artigianale dell’odierna scrematura industriale. Una volta separata la panna veniva riposta in un recipiente cilindrico di legno chiuso da un coperchio con un foro al centro attraverso il quale veniva fatto passare un bastone munito di cerchio che fungeva da rudimentale frullatore che funzionava a olio di gomito. Tale strumento si chiamava zangola (penagia in dialetto talamonese). Con il bastone della zangola si mescolava e si rimescolava la panna fino a quando essa non assumeva una consistenza burrosa. Per facilitare il processo, denominato zangolatura, esistevano anche strumenti a manovella. Una volta ottenuto il burro esso veniva prelevato dal recipiente lavorato a mano e versato in uno stampo. Il latte che rimaneva impregnato andava rimosso altrimenti avrebbe reso amaro il burro. Questo latte rimosso era denominato latte del burro, in sé molto dolce, ma privo di nutrimento.

Col latte rimasto nel recipiente di rame una volta rimossa la panna era possibile fare il formaggio travasandolo in un recipiente di rame più grande e facendolo scaldare ad una temperatura di circa 30° poi, una volta tolto dal fuoco, arricchito col caglio, una sorta di polvere che ne causa la progressiva coagulazione e successiva solidificazione. Il formaggio veniva fatto riposare poi per circa 30 minuti prima di tagliare la cagliata (della quale veniva favorita la formazione con uno strumento denominato in gergo lira) fino a ridurla in poltiglia che veniva lasciata riposare ancora per 30 minuti in modo tale che la pasta del formaggio si separasse e decantasse sul fondo per poi essere recuperata con l’ausilio di una pezza di canapa poggiata su uno strumento particolare chiamato in gergo carot. La pezza di canapa era necessaria affinchè il siero scolasse completamente dalla pasta di formaggio.

Col siero avanzato dalla lavorazione del formaggio che rimaneva impregnato nella canapa si realizzava la ricotta. Il siero veniva rimosso dalla canapa strizzandola per poi essere posto all’interno di un utensile particolare chiamato fasera uno stampo rotondo che avrebbe dato forma alla ricotta ottenuta riscaldando il siero a 30° e aggiungendo, dopo averlo tolto dal fuoco, una particolare sostanza chiamata lum de roc per conferire il sapore e la consistenza.

Ovviamente il latte poteva essere consumato così com’era appena munto senza passare attraverso il locale della lavorazione.

Il latte cagliato senza prima procedere alla spanatura permetteva di ottenere formaggi grassi.

Antonella Alemanni

GALLERIA IMMAGINI LAVORAZIONE DEL LATTE E BURRO

Il casaro versa la panna nella zangola

Il casaro versa la panna nella zangola

In alpeggio e nei maggenghi il latte viene conservato nelle conche

In alpeggio e nei maggenghi il latte viene conservato nelle conche

Un tempo il burro veniva lavato manualmente

Un tempo il burro veniva lavato manualmente

Dopo un primo riscaldamento, viene aggiunto il caglio. Successivamente il casaro frantuma la cagliata con la lira

Dopo un primo riscaldamento, viene aggiunto il caglio. Successivamente il casaro frantuma la cagliata con la lira

LA FAMIGLIA DI UNA VOLTA

ISTANTANEA IN BIANCO E NERO DI VITA QUOTIDIANA

Tanto tempo fa la famiglia era composta da molti membri. Era costume che i figli maschi restassero tutta la vita all’interno della propria famiglia di origine mentre le donne, dopo il matrimonio, diventavano parte della famiglia del marito (un’usanza sopravvissuta ancora oggi in altre parti del mondo). In queste famiglie più generazioni vivevano insieme nella stessa casa (si partiva dai nonni  ma a volte anche dai bisnonni o dai trisnonni) e man mano i figli si sposavano generando altri figli (un minimo di quattro o cinque) la famiglia diveniva sempre più numerosa, ma tutti sottostavano all’autorità dei componenti più anziani che svolgevano dunque il ruolo di capifamiglia.

I maschi della famiglia che avevano l’età per lavorare potevano scegliere tra i mestieri diffusi all’epoca: boscaiolo, casaro (cioè l’addetto alla lavorazione del latte), mugnaio (l’addetto ai mulini) o artigiano.

Le donne e i componenti ormai troppo anziani per lavorare si occupavano dei campi (che erano più o meno estesi a seconda della ricchezza della famiglia) della cura della casa e dei bambini raccontando loro storie, leggende, tramandando le usanze e le tradizioni.

All’ ora dei pasti ci si ritrovava tutti insieme e prima di mangiare si recitava sempre una preghiera di ringraziamento. La preghiera e la religiosità rivestivano un ruolo molto importante per la vita di quei tempi. Anche alla sera quando terminava la giornata e si rientrava dai campi e dalle varie attività ci si ritrovava per pregare nel cortile (d’estate) o nella stalla (d’inverno).

La ricchezza delle famiglie dipendeva dalle risorse possedute che recavano i profitti grazie alla loro vendita: poteva trattarsi dei frutti della terra, dei derivati del latte, di manufatti artigianali a seconda delle attività svolte. Ogni famiglia anche se molto povera possedeva comunque almeno un fazzoletto di terra coltivata a patate, grano turco, grano saraceno, alberi di castagne e noci, le coltivazioni più diffuse e più utili per il sostentamento nella vita di tutti i giorni che, nel caso di castagne e noci, si potevano reperire anche direttamente in natura senza bisogno di coltivarle. Queste risorse spontanee erano, per ovvi motivi, quelle sfruttate maggiormente dai più poveri che avevano messo a punto metodi per poter conservare grandi accumuli di questi frutti senza che, col tempo,  venissero assalite dai vermi. Per far seccare le castagne ad esempio le si depositava in un apposito locale a due piani chiamate cassine. Al piano superiore trovavano posto i depositi di castagne e sotto un focolare veniva costantemente ravvivato da un addetto a tale scopo e mantenuto a temperatura costante sufficiente a far seccare le castagne senza cuocerle. Quando le castagne erano secche al punto giusto si diceva che erano stagionate. A questo punto esse venivano stipate in sacchi di iuta e sbattute su un robusto tavolo di pietra. Questa operazione serviva a sbucciare le castagne mantenendole intatte anche se a volte capitava che qualche frutto si rompesse del tutto. Questi locali per la conservazione delle castagne potevano essere di proprietà familiare (cioè locali privati appartenenti ad una sola famiglia) oppure appartenere in comune a più famiglie soprattutto se vicine d’abitazione. In questo caso ognuno comunque possedeva e lavorava le proprie castagne trovando un accordo sull’utilizzo dei locali per non intralciarsi a vicenda.

Le castagne potevano essere consumate direttamente come frutto oppure macinate nei mulini per ottenere una farina molto dolce tanto che i bambini andando e tornando da scuola entravano furtivamente nei mulini per prenderne un po’.

Con la farina di castagne si preparava il pane ma anche dei dolci tipici come il mulun ottenuto facendo cuocere insieme castagne e fagioli fino ad ottenere un unico impasto simile a polenta che veniva poi fatto raffreddare e tagliato a pezzetti.

Con le noci invece quando non venivano anch’esse consumate come frutto, venivano utilizzate per ricavare olio con cui alimentare le lampade. Pochissime famiglie a quel tempo potevano contare sulla corrente elettrica.

Antonella Alemanni

UNO SGUARDO AL PASSATO – I TALAMONESI (quarta puntata)

Il nostro viaggio ci porta in mezzo alla gente di Talamona: come si tirava a campare nei secoli passati?

Per centinaia d’anni si è continuato a vivere perpetrando gli stessi ritmi e gli stessi lavori legati alla terra, l’allevamento bovino e la vita d’alpeggio in particolare.

A quei tempi, però, bisognava arrangiarsi e saper fare di tutto; così si diffuse la gelsibachicoltura, una parola per dire “allevamento dei cavaler e diffusione della pianta di murun“(1), attività tradizionale avviata grazie alla precedente usanza di coltivare, filare e tessere la canapa (XVIII).

Ogni angolo libero di territorio si riempì di gelsi perché i nostri avi dicevano che l’ombra del gelso era ombra d’oro: era sicura fonte di guadagno, per contadini e imprenditori.

Le foglie di questa pianta erano l’unico cibo per il baco da seta, animaletto allevato in ogni casa che, quando diventava bosul(2) veniva portato nelle filande dove iniziava la lavorazione del suo prezioso filo.

A partire da metà Ottocento qui da noi, a Morbegno e Sondrio vennero costruite le prime filande moderne, precisamente: nel 1861 la filanda Valenti; a inizio ‘900 le filande in Coseggio e presso le Orsoline. Vi lavoravano soprattutto le bambine e funzionarono fino agli anni ’30 del secolo scorso. Da ultimo, la vendita della seta grezza sul mercato comasco aiutò la raccolta fondi per la costruzione della nuova chiesa parrocchiale.

Altre piante, nei secoli, fecero la differenza…tra lo stomaco vuoto e qualcosa nel piatto.  Il castagno prima di tutto, basta vedere lo stemma comunale.

Non è mancato l’olivo piantato presso le gere del Tartano, Nibabia, Fossato Grande, Serterio, Malasca, Prato dell’Acqua e Ranciga; l’olio non finiva sulle tavole di chi lo produceva, ma serviva per alimentare la lampada del Santissimo. Col tempo le piantagioni scomparirono gradatamente a causa delle alluvioni.

E qui veniamo ad un tasto dolente: i disastri che modificarono il mio territorio; a turno o contemporaneamente, esondavano i fiumi e i torrenti – gli stessi che avevano fornito la mia formazione. Le alluvioni furono frequenti, spesso accompagnate da pestilenze e carestie, danni alle coltivazioni e all’allevamento. Le notizie più antiche in proposito risalgono al 1450 e proseguono fino ad oggi.(3)

Una chicca: pare che a metà del secolo scorso, il reverendo don Vincenzo abbia benedetto la Tremenda – una delle campane della chiesa di San Giorgio – conferendole il potere di allontanare le tempeste. Quindi quando vedete avvicinarsi i nuvoloni, correte a suonarla: cielo limpido garantito!

Altro momento di crisi: nel 1815 fanno le valige i Grigioni e la Valtellina entra a far parte dell’Impero austriaco con la parola d’ordine “modernizzazione”. E in effetti la Valle viene spinta verso una nuova gestione del territorio, ma a pagare sono i Comuni costretti a vendere i beni demaniali e a ricorrere alla vendita del legname per pagare le tasse e i progetti delle strade Stelvio – Spluga. Per quanto mi riguarda, sono andati persi ettari dei miei boschi, quindi niente combustibile per i talamonesi e rischio altissimo di alluvioni.

Inoltre, dal 1816 è un continuo susseguirsi di cattive annate; risultato: raccolti scarsi e cinghia tirata per la maggior parte della gente alla quale, come al solito, non restava che voltarsi a qualche santo del Paradiso. Ecco perché ancora oggi potete ammirare un numero elevato di dipinti sacri per le vie.

Oppure, in alternativa, bisognava emigrare… e gente di Talamona in giro per il mondo ce n’è stata e ce n’è parecchia, tutti però partivano con il pallino di ritornare e di comprarsi almeno “una crosta al sole”.(4)

Con l’unificazione d’Italia la musica cambia, soprattutto perché c’è gente che si rimbocca le maniche e sa che per migliorare le cose bisogna partecipare. Così, posso vantarmi di avere tra le fila dei miei abitanti altre due figure di spicco. Due giovanotti, che negli anni ’40 dell’Ottocento sono vicini di casa e diventano amici per la pelle: Giovanni e Clemente, il Gavazzeni e il Valenti. Il pittore e l’ingegnere.

Tutti e due – da bravi studentelli scappati da scuola all’insaputa dei genitori – parteciparono alle Guerre d’Indipendenza, Gavazzeni nel 1859 e Valenti nel 1866.

Il pittore Giovanni Gavazzeni

Immagine

Tutti e due si diedero da fare; il primo si distinse come ritrattista, pittore sacro e difensore della  buona arte, e non disdegnò di affrescare baite e gisoi anche a persone che per compenso potevano offrirgli solo un piatto di polenta.

Al secondo si deve la mia ripresa economica e sociale: l’istituzione di asilo e scuole serali, biblioteca ambulante, banda, casa di risparmio e latteria…tutto ha preso vita grazie al suo intervento. E per quanto riguarda la latteria Valenti – ai tempi si chiamava Latteria Sociale Talamona – merita di essere ricordato che è stata la prima in Valtellina, è stata la sede della seconda scuola superiore di caseificio a livello nazionale. I suoi prodotti sono finiti sulle tavole di tutta l’Italia, in Francia, in Egitto e ai concorsi caseari a cui ha partecipato si è sempre piazzata ai primi posti.

Correndo, correndo, siamo arrivati alla fine del XIX secolo. Sul mio territorio risultano presenti importanti istituzioni come: cassa rurale, cooperativa agricola e società operaia, Monte di Pietà e forme varie di assistenza sociale. Non manca nemmeno una sezione sportiva: Aquila. Il merito? Ovviamente è dello spirito talamonese. Magari un po’ rustico e pratico ma d’effetto. Un esempio: l’inaugurazione del palazzo scolastico nel 1908, giornata memorabile per la scazzottata con quelli di Morbegno (acerrimi nemici) che avevano la pretesa di decidere i brani che la banda doveva eseguire durante i festeggiamenti pomeridiani.

E poi? Poi ci sarebbe la mia storia recente, quella del XX sec., quella delle guerre e del boom dell’area industriale, quella che per l’ennesima volta mi ha fatto cambiare volto. Ma io mi fermo qui. Raccontatemela voi! Frugate nei cassetti e nella vostra memoria, così ritroveremo le pagine di quegli avvenimenti che non hanno ancora trovato posto sui libri…soltanto perché non sono stati ancora scritti!

A presto, Talamona

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(1) Bacchi da seta e gelsi

(2) Bozzolo

(3) Nel XVII sec. La popolazione si era addirittura dimezzata e i superstiti dovettero supplicare il vescovo di Como affinché aiutasse a far fronte ai debiti. Un’altra alluvione particolarmente disastrosa fu quella del 1911 che spazzò la chiesa di San Bernardo nei pressi del Tartano.

(4) Dalle nostre interviste il motivo principale che spingeva i Talamonesi ad emigrare era la ricerca di un lavoro per mantenere la famiglia. I periodi in cui si emigrava di più sono gli anni antecedenti la Prima Guerra Mondiale e quelli che seguono la Seconda. Le mete raggiunte erano soprattutto le Americhe ( Argentina in testa e Stati Uniti). Seguivano la Svizzera, Francia e Africa. All’inizio partivano solo gli uomini, poi le donne. Alcuni ritornavano dopo 5 o 6 anni senza essere riusciti a guadagnare molto. Le occupazioni principali svolte dai Talamonesi erano: boscaiolo, muratore, falegname, capo mandria, coltivatore, costruttore di pali della luce.

Puntata realizzata e curata dagli alunni dell’Istituto Comprensivo “G.Gavazzeni”, Secondaria, primo grado

IL VIAGGIO CON TALAMONA CONTINUA (terza puntata)

Eccomi di nuovo cari amici! Siete pronti per ripartire?

Vi stavo raccontando di quanto ero bella e prospera…Ma la mia prosperità termina con l’arrivo della dominazione grigiona: un periodaccio se pensiamo che è stato segnato dal Sacro Macello-1620- e, in generale dai dissidi tra cattolici e protestanti. Tanto per cambiare, ho fatto la differenza: prima di tutto entro i miei confini tutti erano cattolici… va bene, c’era il medico protestante, Ettore Guarinoni, ma era di origini morbegnesi, quindi non contava. E poi, nessun talamonese ha partecipato ai fatti-fattacci del Sacro Macello.

Non mancano i momenti curiosi: e chi se lo dimentica il processo alle Gatte Pelose? (1)

Da quei momenti, si fa più stretto il legame tra i talamonesi e la religione, tanto che anche le idee della Rivoluzione francese stentano a diffondersi. Questo è il commento del Turazza a proposito di quanti parteciparono a quell’importante evento: “…avidi ciarloni che con il vessillo dei Diritti dell’uomo passano sul sangue fraterno e sulle distruzioni.” Morale della favola, da noi scoppiò una sommossa antigiacobina sedata con la violenza, una fucilazione e condanne ai lavori forzati (1798).

Di quei momenti ci rimane , comunque, una traccia. Era inverno e faceva freddo; dei soldati di Napoleone si trovavano nei pressi della chiesa dell’Assunta a Morbegno e, per scaldarsi, stavano per bruciare una statua della Madonna. Caso volle che passasse da quelle parti un talamonese che barattò un carro di legna con la preziosa scultura che ora possiamo ammirare nella chiesa parrocchiale: la Madonna di legno!

Ed è stato anche il momento di Francesca Scanagatta. Una furesta, direte voi. Certo, era milanese, ma sposò Celestino Spini. Che centra? Di curioso c’è che il loro matrimonio finì sui giornali col titolo: “Il matrimonio di due tenenti” Sveliamo il gossip: Francesca, al posto del fratello, frequentò una scuola militare austriaca e divenne tenente. Combatte nell’esercito asburgico contro Napoleone fino a quando venne scoperto-una spifferata di suo papà- che era una donna. Il marito, invece, fu l’ultimo della famiglia nobiliare Spini a risiedere qui, era ufficiale dell’esercito napoleonico…che dire, un intreccio degno di un romanzo.

Ci salutiamo amici miei, e ci sentiamo alla prossima puntata!

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(1) Le gattane dei brucchi avevano infestato campi e prati distruggendo i raccolti. Per debellarle venne istituito un processo e una volta condannati, gli animaletti vennero “invitati” a lasciare Talamona passando su comode passerelle appositamente costruite per far loro raggiungere la zona del Tartano.

                                                                                                                            

                                                                              rubrica curata dagli alunni dell’Istituto Comprensivo                                                          “G.Gavazzeni”, secondaria, primo grado

LA LEGGENDA DELL’ANIMA DANNATA

 

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Non sono ancora morte nei focolari del mio paese le leggende di spettri e streghe, malefici e sortilegi “accaduti veramente” a Talamona.

Quando? Tutto si perde nella notte dei tempi, o meglio, quando si parla di occulto si entra in una dimensione mistica, in cui il tempo non esiste.

Mezze verità forse si nascondono dietro le fantasie “vere” della gente, ma vale la pena raccontarle e tramandarle alle generazioni che verranno, ché non siano dimenticate come tante altre cose dei nostri avi, povera gente semplice, perché è la loro storia e il nostro passato.

Tre sono gli aspetti di questi racconti talamonesi che è bene citare: “ul Talamun” (il dialetto talamonese), che è protagonista nelle vicende e ricordo sempre vivo delle nostre radici contadine, “la pagüra” (la paura), che sta all’origine di questa tradizione, perché in un paese profondamente credente era importante educare i bambini a ciò che era bene e ciò che era male, e il metodo più efficace era di punire severamente il miscredente che osava andare contro la volontà divina; ultima, ma non meno importante, era “la masun”, la stalla dove la sera si riuniva la contrada per discutere degli ultimi fatti, e dove d’inverno, accanto alla nonna, i bimbi ascoltavano rapiti le sue storie, magari in una sera di brutto tempo.

Tra queste, molto conosciuta in paese, è la leggenda dell’anima dannata di San Giorgio, una piccola località di montagna circondata da castagni, appena sopra Talamona: ci sono poche baite e una chiesa, probabilmente riconducibile al Medioevo.

È un edificio semplice e spoglio, e tutto ciò che rimane della sua storia secolare sono le parvenze di colori di affreschi perduti ormai da tempo.

La luce filtra a fatica dalle piccole finestre, il che rende la chiesa tetra e grigia, ma la sua bellezza risiede proprio in questo: nell’essere un po’ diversa dalle altre, nell’essere come una vecchia “nonna” che ha molte storie da raccontare.

Come questa: ebbene, questo borgo faceva parte, anche in tempi remoti, del comune di Talamona.

Poco distante dalla chiesa vi era un castello, ove abitava un signorotto tanto ricco quanto avaro, e geloso dei suoi averi che dovevano essere abbastanza cospicui.

Egli dalla sua dimora poteva dominare la valle con lo sguardo; comandava la zona di Premiana, che si trova lì vicino, e tutti i maggenghi circostanti.

Un giorno, senza dire niente a nessuno e senza offrire nulla ai sacerdoti per la chiesa di San Giorgio, caricò i suoi averi su un mulo e su un cavallo e, sistemandosi sotto braccio la sua cassetta piena di denari, si avviò per scendere a valle.

Aveva fatto appena pochi passi quando un’enorme voragine si aprì sotto i suoi piedi, e cadendo si aggrappò a una sporgenza, mentre le sue ricchezze e il suo castello sprofondavano nel baratro.

La gente accorse numerosa nel sentire le grida dell’uomo, e gli disse che lo avrebbero tirato su se avesse dato una parte del suo tesoro per le spese della chiesa.

Egli, pur di non separarsi dal forziere, non accettò la proposta, precipitò e morì.

Si dice che da allora il suo spirito, nelle notti di luna piena, esca dal buco, stenda un lenzuolo bianco in cima al dosso e apra lo scrigno per contare le sue monete, e che quando il vento soffia forte fra le fronde dei castagni si sente il lamento di quella povera anima dannata, perché per colpa della sua grettezza non può accedere al Paradiso.

Ancora oggi è possibile vedere “ul böcc de l’animo danado” (il buco dell’anima dannata), e il luogo è chiamato “despüüs castel”(dietro il castello).

Questa versione del racconto è quella ufficiale, ma secondo una minoranza di Talamonesi l’anima dannata era in realtà un ladro, che una notte si intrufolò nella chiesa rubando il suo tesoro e gli arredi sacri.

Compiuto indisturbato il furto tentò di fuggire nel bosco, ma una voragine si aprì sotto di lui, che cadendo finì all’Inferno.

Per altri, alcuni individui del posto, attratti dalle grida del ladro, cercarono di portargli soccorso calandogli una fune; ma egli, pur di non separarsi dal bottino che non riusciva a tenere con una sola mano, lasciò andare la cima della corda che gli era stata tesa e sprofondò.

Secondo un’altra testimonianza simile al racconto ufficiale, il ricco signore sarebbe un certo Magrini.

Egli, cercando un nascondiglio per il suo tesoro a “despüüs castel” (dietro il castello), lo appoggiò sotto le radici di un albero, ma il terreno cedette e una voragine inghiottì il forziere. Cercando di recuperarlo cadde anche lui e la gente che si offrì di aiutarlo chiese in cambio una parte del tesoro.

Egli si indignò e continuando a sprofondare nel buco scomparve.

Si racconta che anni dopo dei ragazzi gettarono un gatto nel buco, che non risalì più, e che lo stesso animale fu ritrovato pochi giorni dopo sporco e spaventato nella zona vicina di Premiana.

Riprendendo i tre punti cardine citati all’inizio, nella leggenda si nota chiaramente l’aspetto della “pagüra” (la paura) e il timor di Dio da infondere ai più giovani; per quanto riguarda “ul Talamun” (il dialetto di Talamona) è bene precisare che questa storia, come tutte le altre, era tramandata in dialetto, e per questo è interessante far cultura anche per strada.

Quindi quello che riporto di seguito è il testo in dialetto raccontato da Cesare Ciaponi, regista della compagnia teatrale “amici degli anziani” di Talamona.

Nä uölta nä uölta la gent éi diis chè su a San Giorsc ghèra sù ün um brüt e catiif ch’èl cumändaua tütto Prümiäno e daa  San Giorsc.

El ghiva su ün castèl su in dul doss è dè gliò èl duminäuo tüto la valado.

El sèro fac ün sciuruñ a fà laurà i otri è l’iuö imp-cenüü nä casèto dè palanch, tüti dè or e dè argent. Un bèl dì el sé met in ment da scapà cun tücc stì soldi senso dach nègutt gnäcà a al geso.

Nä matino èl cargo sù ün puu dè robo in d’ul caval è in d’ün mül, la casèto suto an brasc, po’ l’ sé n’via per vegnì din giù.

L’aa gnää facc’ quatru pass chè suto ai pee ghè sé abrii nä bogio è lüü l’è furaa giù.

Stremii èl sé metüü dree a usà è l’è rivaa ün puù dè gent a vedè cusè chè l’ero sucedüü.  

Vedüü stù um giù n’dul bocc iè n’daa a tò del cordi  è glirès tiraa sü sé però el ghè da o ün puu dè palänch per la geso chè sta gent èi vuliva fa sü.

Quèstu chilò avar cumè nä bèstio l’aa mingo vulüü daghen è gliura gliaa lagaa sprefundà giù.  

La bogia l’è fò despüs Castel  è suto ghè p-cee dè p-ciudisci.

Ei diis chè ul sò spiret el cumpariva ogni tänt gliò sü in dul doss in dèl nocc dè lüno, èl metivo giù ün lensööl biänch è pò èl stavo gliò a cüntà fò tüti èl sò palänch.

Ei diis daa chè in dèl nocc ch’èl sbreuègiaua sé sentivo quèlo Animo Danädo a lamentàs perché l’èro tropp avaro per indà in Paradiis.

 

La traduzione seguente è registrata parola per parola, senza aggiunta di punteggiatura o di opportune correzioni, per dimostrare le differenze tra dialetto e italiano, tra linguaggio parlato e scritto.

Una volta una volta la gente dice che su a San Giorgio c’era un uomo brutto e cattivo che comandava tutta Premiana e anche San Giorgio.

Aveva un castello su nel dosso e da lì dominava tutta la vallata.

Si era fatto un signore a far lavorare gli altri ed aveva riempito una cassetta di soldi, tutti d’oro e d’argento.

Un bel giorno si mette in testa di scappare con tutti questi soldi senza dare niente neanche alla chiesa. Una mattina carica su un po’ di roba sul cavallo e sul mulo, la cassetta sotto un braccio, poi si avvia per venire in giù.

Non aveva neanche fatto quattro passi che sotto ai piedi si apre un buco e lui è caduto giù. Spaventato si è messo dietro a gridare ed è arrivata un po’ di gente a vedere cos’è che era successo.

Visto quest’uomo giù nel buco sono andati a prendere delle corde e lo avrebbero tirato su se però gli dava un po’ di soldi per la chiesa che questa gente voleva fare su.

Questo qui, avaro come una bestia, non ha voluto dargliene e allora lo hanno lasciato sprofondare giù.

Il buco è fuori dietro il castello e sotto c’è pieno di piodesse.

Dicono che il suo spirito compariva ogni tanto lì sul dosso a contar fuori tutti i suoi soldi.

Dicono anche che nelle notti di pioggia battente si sentiva quell’anima dannata a lamentarsi, perché era troppo avara per andare in Paradiso.

 

Sempre legata alla sfera del linguaggio popolare è la canzone attuale del cantautore talamonese Piero Cucchi, che è riportata come fatto in precedenza.

Essa esprime il desiderio di tenere viva una tradizione antica che fa parte della nostra vita e del nostro paese.

 


L’animo danado la ghivä palanch e oor l’animo danado la ghivä un bel tesoor

quant che i prevecc iè vegnüü a savè

ei s’è metüü d’acordi iè indaa a vedè

se la ghe dava metà dul so valuur

per la giesä e n’puu per luur.

L’ animo danado la gaa dicc de no

l’ animo danado l’era gliò de fò

in t’un sberlusc el ghe mancaa ‘l tèrèe

sì la tera la tera sutä ai pee.

l’ animo danado l’è sfrefundado

l’era giù ‘n funt che la cridava

ul tesor egliva scià lee

quant che ‘l ghe mancaa ‘l tèrèe

subet uno cordo per salvalä

tucc d’acordi per autalo.

L’ animo danado l’era giu ‘n ginocc

l’ animo danado la seravä i öcc

a vergügn la ghe parivä morto

per la facio tuto smorto.

Quänt che l’era quasi sü

ei s’è metüü dree a dì sü

dai che mägari la n’è da vergut

l’ animo danado l’ha ciapaa ‘l sangiut

stesi parol ei gaa dicc amò

l’ animo danado la repunt de no.

Gliurä la cordo la s’è struncado

l’ animo danado l’è sprefundado

pesc ca primo l’è pasado giù

sì l’ animo danado l’è amò lagiù.

De tut quel che l’è capitaa

milä agn iè urmai pasàa

l’ animo danado l’ha pciacaa ‘l palanch

l’ animo danado l’è vestida de bianc

la cumparis dumò de nocc

se ghe in giir negügn la vee sü dul böcc.

Animo danado seet ün um?

Animo danado seet ün striun?

Fam vede dumò l’umbrio

animo danado scapä mingä viä.

Ghe staa quii che propri gliaa vedüdo

iaa ciapaa una grant pagüra

iaa pciuu durmii per quindes dì

l’ animo danado la fa stremì

de lee ei gää pagüra tuto la gent

quii de adès e quii d’un temp.

L’ animo danado la cünta ‘l stèl

l’è sü a sua cà sü despüüs castel

sü despüüs castel ul munt l’è bèl

per l’ animo danado a cüntà ‘l stèl

per l’ animo danado a vardà ‘l stèl.


 

L’anima dannata aveva soldi e oro

l’anima dannata aveva un grande tesoro

quando i preti sono venuti a saperlo

si sono messi d’accordo e sono andati a vedere

se gli dava metà delle sue ricchezze

per la chiesa e un po’ per loro.

L’anima dannata ha detto di no

l’anima dannata era lì di fuori

in un lampo gli è mancato il terreno

proprio la terra sotto i piedi.

L’anima dannata è sprofondata

era in fondo che gridava

il tesoro aveva con sé

quando gli è mancato il terreno

subito una corda per salvarla

tutti d’accordo per aiutarla.

L’anima dannata era in ginocchio

l’anima dannata chiudeva gli occhi

a qualcuno pareva morta

per la faccia tutta smorta.

Quando era quasi su

si sono messi a pregare

dai che forse ci da qualcosa

l’anima dannata ha preso il singhiozzo

le hanno detto ancora le stesse parole

l’anima dannata ha risposto di no.

E allora la corda si è spezzata

l’anima dannata è sprofondata

più di prima è andata giù

l’anima dannata è ancora laggiù.

Di tutto quello che è capitato

mille anni sono ormai passati

l’anima dannata ha nascosto le monete

l’anima dannata è vestita di bianco

compare solo di notte

se non c’è in giro nessuno sale dal baratro.

Anima dannata sei un uomo?

Anima dannata sei uno stregone?

Fammi vedere solo la tua ombra

anima dannata non scappare via.

Ci sono stati quelli che l’hanno proprio vista

hanno preso una gran paura

non hanno dormito per quindici giorni

l’anima dannata fa paura

di lei ha paura tutta la gente

quella di oggi e quella di un tempo.

L’anima dannata conta le stelle

è a casa sua dietro il castello

dietro il castello il mondo è bello

per l’anima dannata a contare le stelle

per l’anima dannata a guardare le stelle.

Mi soffermo ora su un altro punto citato prima: in genere una leggenda si basa su qualcosa di concreto, come fondamenti storici o semplicemente l’immaginario popolare;  in questo caso si pensa che sia nato tutto da qualcosa realmente esistito a San Giorgio.

Mi attengo al testo di Don Giacinto Turazza e alle sue ricerche riportate nel libro “Talamona, notizie documentate di storia civile e religiosa”.

Quasi certamente una delle prime zone abitate di Talamona furono le località di Premiana e di San Giorgio.

È attestata in molti documenti la presenza di una fortificazione nel suddetto luogo nell’ XI secolo.

Con l’arrivo dei Milanesi nell’anno 1225, tutti gli edifici difensivi della valle vennero danneggiati, e abbattuti completamente nel 1526 dai Grigioni.

Riguardo la chiesa si ipotizza che risalga al XII secolo, come riporta il Turazza : “la famiglia originaria abitante in Premiana fu quella dei Massizi, che si divise in tante ramificazioni (…) per cui anche intorno al San Giorgio trovammo famiglie Massizi (…). Ciò non basta a provare che sia stata costruita la chiesa da quei Massizi, ma se riflettiamo che fu famiglia potente e nobile ci rendiamo conto di un altro fatto importante per stabilire l’antichità di quell’edificio sacro.

Lassù era un castello che portava proprio il nome Castellum de Sancto Georgio, per cui potremmo credere che vi fosse una chiesa castellana dei Massizi nel secolo decimosecondo; e fu demolita forse nel 1225 dai milanesi (…) perché è certo che nella seconda metà del trecento non esisteva più (…). Nei primi dei trecento sorse la chiesa attuale (…) custodita da un Pietro Massizi (…)”.

I Massizi erano una delle tre famiglie antiche e potenti di Talamona, e uno di questi nobili potrebbe essere stato il conte avaro della storia.

Inoltre, a provare che lì vi era un vero e proprio centro abitato (si stima circa trecento persone tra San Giorgio e Premiana in periodo medioevale) è stata trovata la macina di un mulino, tutt’ora conservata nel sagrato della chiesa.

Vicino a quest’ultima c’è un’altura detta “dos mülin” (dosso del mulino): forse la vecchia casa del mugnaio sorgeva proprio in quel luogo, che è indicato così da generazioni, e si trova presso il buco dell’anima dannata.

L’edificio poi potrebbe essere andato distrutto in seguito ad una frana, che non si sa datare.

Se questa fosse avvenuta prima dell’arrivo dei Milanesi nel 1225, potrebbe aver trascinato via con sé non solo il mulino ma anche il castello: in questo modo potrebbe essere spiegata la leggenda del signorotto inghiottito dalla terra, interpretata dalla gente come punizione divina. Se così non fosse, la voragine potrebbe essere stata causata dalla stessa frana, ma in tempi successivi, quando il castello era in rovina o non esisteva già più; non ci è dato saperlo.

La leggenda che ho illustrato è sì una delle più conosciute in paese, ma non è l’unica: ogni contrada ha i suoi racconti, i suoi personaggi misteriosi, molte dicerie “vere” in un certo senso, molte altre frutto di un mondo superstizioso.

Un paese di montagna vivace, con una grande storia da raccontare: la mia Talamona.

Giulietta Gavazzi

UN VIAGGIO NEL TEMPO CON TALAMONA (seconda puntata)

In pieno medioevo sono diventata sede del Podestà che da Cosio, l’allora capoluogo della Bassa Valtellina- aveva preferito trasferirsi in Coseggio- il nome della contrada ricorda l’evento- perchè luogo più salubre.

Divento, poi, feudo dei vescovi di Como, una posizione favorevole dal punto di vista fiscale perchè, rispetto ad altre comunità, le tasse da versare erano inferiori. Ci penseranno in seguito i milanesi ad alzare questo modesto censo quando la Valtellina diverrà loro dominio.

Ma andiamo con ordine e torniamo a prendere in mano documenti: il primo a riportare chiaramente il mio nome risale al 1029: è l’atto di compravendita della Torre(1), quella di…via Torre, l’unica rimasta. E pensare che in quel periodo mi potevate chiamare “il paese delle torri” da tante che ce n’erano. Però se avete l’occhio attento potreste notare che alcune vecchie stalle hanno ancora oggi quella tipica forma di parallelepipedo con il tetto ad un solo spiovente.

Tutte queste fortificazioni sorgono nel periodo in cui termina il controllo feudale del vescovo di Como- a metà XIII- e divento un libero Comune, anzi, permettetemi di vantarmene: ero la Magnifica Comunità di Talamona! Suona bene.

E’ allora che vengono edificate le maggiori fortificazioni , i castelli come quello che già c’era a S.Giorgio dai tempi di Carlo Magno- sede di un giudice- e quello più piccolo di Faedo.

Che fine hanno fato? Sono stati danneggiati dai Milanesi e poi distrutti dai Grigioni (1526) quando conquistarono la Valtellina.

E’ adesso, tra XIV e XV, che si intensifica l’allevamento dei bovini, e dal punto di vista economico posso dire di aver vissuto un buon periodo. Ottimo anche per quanto riguarda l’aspetto culturale: le famiglie Mazzoni e Spini mi abbelliscono con i loro palazzi, e nelle contrade sorgono le principali chiese oltre ai gisoi. Niente male, un paese da cartolina.

(fine seconda puntata)

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(1) Sul documento si legge che i coniugi Redaldo e Cesaria hanno venduto al vescovo di Milano per 300 lire il loro castello con la torre, alcune case, una cappella, dei mulini, alcune vigne e delle selve di castagni.

Puntata realizzata dagli alunni dell’Istituto Comprensivo G.Gavazzeni,  Secondaria, primo grado