I SACRI VASI DI MANTOVA

DSCN0435(1)

La tradizione attribuisce al soldato romano Longino, che trafisse con la propria lancia il costato di Cristo, la raccolta ed il trasporto di terra imbevuta del sangue del Salvatore nel luogo ove ora sorge la città di Mantova. Dalla ferita uscirono sangue ed acqua che, cadendogli sul volto, gli fecero guarire gli occhi ammalati e lo fecero convertire alla fede cristiana. Longino, raccolto il sangue di cui era intrisa la terra ai piedi della croce, lo custodì assieme alla spugna che era servita per dare da bere a Cristo sul Golgota e con essi arrivò a Mantova, dove nascose le preziose reliquie nell`ospedale per i pellegrini in cui aveva trovato albergo. Il 2 dicembre del 37 Longino subì il martirio in contrada Cappadocia, nel luogo dove ora sorge la chiesa del Gradaro. La cassetta con le reliquie venne ritrovata nell`anno 804, nell`orto dell`ospedale di Santa Maddalena, dove era stata sepolta accanto alle ossa di Longino; il pontefice Leone III inviato a Mantova dall`imperatore Carlo Magno ne dichiarò l`autenticità, avendone avuto in dono una porzione per l`imperatore.

Nuovamente occultate, temendo la loro profanazione da parte degli Ungari che minacciavano di invadere Mantova, le reliquie furono riscoperte nel 1048, al tempo di Beatrice e Bonifacio di Canossa che fecero costruire nel luogo del ritrovamento un monastero benedettino e una chiesa, poi distrutta per far posto all`edificio dell`attuale basilica di Sant`Andrea, voluta di Ludovico II Gonzaga. Nei secoli passati in occasione dell`esposizione della reliquia si svolgeva il burchiello della Sensa (la barca dell`Ascensione) organizzato dall`arte dei pescatori. Era una sorta di spettacolo allegorico durante il quale alcuni pescatori interpretando gli apostoli Pietro, Giovanni ed Andrea lanciavano pesci e anguille sulla folla prendendoli da una barca che veniva portata a braccia dalla cattedrale a Sant`Andrea. Per tradizione, ogni anno nel pomeriggio del Venerdì Santo si svolga la cerimonia per l`apertura dei forzieri che custodiscono i due preziosi reliquari, e che vengono posti ai piedi del Cristo crocefisso nell’abside della Cattedrale. Le sequenze della cerimonia vedono scendere S.E. il Vescovo nella cripta sotterranea della basilica di Sant`Andrea, seguito dal Prefetto Autorità e da molti fedeli. L’apertura è un’operazione laboriosa che comporta l`impiego di ben 12 chiavi.In rispettoso silenzio vengono aperte una dopo l`altra le serrature dei forzieri le cui chiavi sono conservate da autorità ecclesiastiche e statali. Quando finalmente i due Vasi sono all`esterno, il Vescovo incensandole pronuncia una preghiera. I Sacri Vasi sostenuti, uno dal Vescovo e l`altro da un`altro prelato, percorrono la cripta e le strette scale che portano nella Basilica, poi i due reliquari sono posti ai piedi del Cristo crocefisso nel lato sinistro dell`abside della Cattedrale. Per tutto il pomeriggio e la serata la Cattedrale diventa meta dei mantovani che renderanno omaggio alla Reliquia, che, dopo una breve processione cittadina, viene riposta nuovamente nei forzieri della cripta sotterranea.

 

Lucica Bianchi

VIAGGIO TRA LE MERAVIGLIE DELL’AMBROSIANA

VENERANDA BIBLIOTECA AMBROSIANA DI MILANO

Breve percorso tra le sale e le opere.
Per un’idea delle meraviglie qui custodite.

È la prima collezione privata aperta al pubblico all’inizio del XVII secolo.
Sono opere uniche tra le più importanti dell’umanità: e fra esse:
Il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci
La canestra di frutta di Caravaggio
Il grande cartone della Scuola di Atene di Raffaello Dove si trova?
In Italia, a Milano, nel centro esatto della città, già stabilito dagli antichi romani sorge la Veneranda Biblioteca Ambrosiana. L’edifico, nei vari strati, va dall’epoca preromana alla ricostruzione del dopoguerra. Chi l’ha fondata?
Federico Borromeo (1564-1632), cardinale di Milano, cugino di san Carlo.
Il Cardinal Federigo, reso celeberrimo da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi, invia i suoi collaboratori in tutte le terre di antica tradizione (il medio e l’estremo Oriente), allora tanto importanti quanto sconosciute, a cercare le opere (codici, pergamene, pitture, oggetti) artistiche più rare e preziose da portare a Milano e da mettere a disposizione dell’Occidente.
Nel 1609, la sua collezione è tra le maggiori e più ricche d’Europa e la apre al pubblico, mostrando i suoi tesori.

https://www.youtube.com/watch?v=YxE2QpNx0fA

 

LA PALA D’ORO, BASILICA SAN MARCO VENEZIA

La Pala d’oro, conservata nel presbiterio della basilica di San Marco a Venezia, è un grande paliotto in oro, argento, smalti e pietro preziose (140x348cm). Il corredo dei suoi smalti è tra i più rilevanti nel suo genere. Alcuni risalgono alla metà del XII secolo (il Pantocratore, gli arcangeli, le feste) e sono pezzi pregiatissimi, tra i vertici dell’arte bizantina del tempo.Grande è l’eleganza del disegno delle figure e la loro realizzazione richiese un notevole virtuosismo tecnico, con l’uso della tecnica cloisònné.

 

1024px-Detall_de_la_Pala_d'Oro,_Basílica_de_sant_Marc,_Venècia

Gioiello prezioso e raffinato, espressione del genio di Bisanzio e del culto della luce, intesa come elevazione dell’uomo verso Dio,posto dietro l’altare maggiore, la Pala d’Oro è rimasta fino ad oggi nella sua originale posizione. E’ una pala d’altare che riunisce circa 250 smalti cloisonnés su lamina d’argento fortemente dorata di dimensioni ed epoche diverse (X-XII secolo), realizzato a Bisanzio su committenza veneziana.
Nel riquadro inferiore, attorno al grande Pantocratore, al centro, sono riuniti: evangelisti, profeti, apostoli e angeli. Le piccole formelle del contorno raffigurano episodi della vita di Cristo e di San Marco.
La cornice gotica in argento dorato viene realizzata a Venezia a metà del XIV secolo.
Tra gli smalti sono incastonate numerose perle e pietre preziose. La Pala d’Oro è l’unico esempio al mondo di oreficeria gotica di notevoli dimensioni rimasto integro.

 

Pala discende dal latino palla, cioè stoffa, ornata a volte con immagini di santi, per l’uso liturgico di coprire l’altare o abbellirne lo sfondo. Dalla stoffa si passa all’oro o all’argento, da cui il nome di Pala d’Oro o d’argento, frequente almeno nelle chiese delle lagune venete. Di queste la più famosa è proprio la Pala d’Oro di San Marco, ordinata dal doge Ordelaffo Falier nel 1102 e finita nel 1105 a Costantinopoli.
E’ composta di 2 parti: la Pala d’Oro vera e propria e il contenitore ligneo, che la riveste posteriormente.
Fin dalle origini viene aperta solo nelle feste liturgiche della Basilica, così come avviene anche oggi. Negli altri giorni resta chiusa e ricoperta da una Pala detta “feriale”, una tavola lignea dipinta. La più antica viene eseguita da Paolo Veneziano e figli nel 1343-1345 con storie di San Marco e santi, ora conservata nel Museo della Basilica. L’attuale, lavorata nella prima metà del Quattrocento da un maestro tardogotico, si può contemplare sul lato posteriore della Pala.

 

SanMarcoPalaDOroDevelopmentEn

Al centro della preziosa Pala domina la maestosa figura del Cristo benedicente, circondato dagli Evangelisti, che tiene il libro aperto, dove le parole del libro sacro vengono sostituite da gemme a sottolineare la preziosità del suo verbo. Al di sotto del Cristo, si trova la Vergine Maria orante, e ai suoi lati il doge Ordelaffo Falier e l’imperatrice Irene.
Sopra il Cristo è raffigurata l’etimasia, la preparazione del trono del Giudizio Finale, per la seconda venuta di Dio in terra, tra due cherubini e due arcangeli. Più sopra la Crocifissione.
Ai lati sono disposti, in tre registri sovrapposti, i dodici profeti, dodici apostoli, dodici arcangeli.
Allineate superiormente si trovano quasi tutte le feste della Chiesa bizantina, da sinistra: l’annunciazione, la natività, la presentazione al tempio, il battesimo di Gesù, l’ultima cena, la crocifissione, la discesa al Limbo, la resurrezione, l’incredulità di Tommaso, l’ascensione, la pentecoste.
Ai lati, in posizione verticale, in dieci piccoli riquadri, a sinistra i fatti salienti della vita di San Marco, e, a destra, gli episodi relativi al suo martirio ad Alessandria d’Egitto e al trasferimento del suo corpo a Venezia.
Il grande fregio superiore, proveniente da una della tre chiese del monastero del Pantocrator a Costantinopoli, raffigura l’arcangelo Michele al centro e sei formelle con l’Ingresso di Cristo in Gerusalemme, la Discesa al Limbo, la Crocifissione, l’Ascensione, la Pentecoste e la Morte della Vergine (o Dormitio Virginis). Numerosi tondi smaltati di varie dimensioni, raffiguranti i santi venerati dai Veneziani, completano il quadro d’altare.

1024px-MorettiPiazzaSanMarco15PalaDOro

Per la storia di questo prezioso oggetto vanno individuate tre fasi:
– La parte inferiore risale al periodo del doge Ordelaffo Falier (1102-1118). Dello stesso periodo è la disposizione degli smalti, sia sulle cornici laterali, con le storie di San Marco, sia sulla cornice superiore con i sei diaconi e le feste cristologiche del calendario liturgico, nonché del gruppo centrale del Pantocrator.
– Alla seconda fase va assegnata la parte superiore della Pala, con la serie delle sei feste bizantine e l’arcangelo Michele al centro, forse recate a Venezia da Costantinopoli dopo il 1204.
– Il terzo intervento si è verificato tra il 1343-1345 affidando, su volere del doge Dandolo, a due orefici veneziani il compito di inquadrare il complesso entro cornici ad arco romanico (parte superiore) o arco gotico (parte inferiore), distribuendo dovunque le 1927 pietre preziose e gemme.

 

Lucica Bianchi

 

Biografia consultata:

Veludo, Giovanni, La pala d’oro della basilica di San Marco in Venezia / illustrata da Giovanni Veludo, Venezia, Ferdinando Ongania, 1888

La pala d’oro / a cura di H. R. Hahnloser e R. Polacco, Venezia, Canal & Stamperia editrice, 1994

Da Villa Urbani, Maria, La Basilica di San Marco e la Pala d’Oro, Venezia, Storti edizioni, 2009

LA SCAPIGLIATA

 

10897026_630104587101814_4979776555771984742_n

 

La Testa di fanciulla -detta” La Scapigliata”, è un dipinto a terra ombra, ambra inverdita e biacca su tavola di Leonardo da Vinci, databile al 1508 circa e conservato nella Galleria nazionale di Parma.Il dipinto, un’opera forse “incompiuta”, resta avvolto nel mistero per quanto riguarda la datazione, la provenienza e la sua destinazione. Viene ricordato per la prima volta in un inventario di casa Gonzaga del 1627 come “un quadro dipintovi la testa di una donna scapigliata, bozzata, opera di Lionardo da Vinci”. Probabilmente era la stessa opera che Ippolito Calandra, nel 1531, suggeriva di appendere in camera di Margherita Paleologa, moglie di Federico Gonzaga e nuora di Isabella d’Este. Ancora più anticamente, nel 1501, ci si riferisce alla tavola in una lettera della nobildonna a Pietro da Novellara, datata 27 maggio, in cui la marchesa richiedeva a Leonardo una Madonna per il suo studiolo privato.
La datazione dell’opera, che si trova nella Galleria parmense dal 1839, ha visto alternarsi numerose ipotesi. Inizialmente venne avvicinata ad altri lavori incompiuti in gioventù da Leonardo, quali l’Adorazione dei Magi e il San Girolamo; a un’analisi stilistica più approfondita si è poi optato, in prevalenza, per una datazione legata alla piena maturità dell’artista, vicina alla Vergine delle Rocce di Londra o al Cartone di Burlington House (Carlo Pedretti propose il 1508).All’ inizio del XIX secolo il dipinto si trovava nella raccolta privata del pittore parmense Gaetano Callani, il cui figlio Francesco la vendette in seguito all’Accademia di Belle Arti, poi Galleria Nazionale. L’attribuzione a Leonardo da parte della critica è quasi pressoché unanime, con l’eccezione di Corrado Ricci, direttore della Galleria Nazionale che, in un catalogo del 1896, avanzò l’ipotesi che fosse opera dello stesso Callani, e di Wilhelm Suida (1929) che la ritenne di scuola.È ritratta una testa femminile, con un accenno delle spalle, voltata di tre quarti verso sinistra e inclinata verso il basso. I lineamenti sono dolcissimi, il naso leggermente pronunciato, le labbra morbide che accennano un lieve sorriso e il mento è arrotondato. Il forte chiaroscuro steso sul viso con lumeggiature esalta il rilievo scultoreo del volto delicato dalla vibrante capigliatura, scomposta ad arte in ricci mossi.L’immagine rievoca gli studi di Leonardo sui “moti dell’animo”, uno dei principi chiave della sua poetica.

 

Lucica Bianchi

LA PORTA DEL PARADISO

10940415_634542229991383_2417018969979472053_n

La Porta del Paradiso del Battistero di Firenze torna visibile al pubblico dopo un restauro durato 27 anni, senza eguali per complessità, e dopo 560 da quando Lorenzo Ghiberti terminò quello che può essere considerato uno dei grandi capolavori del Rinascimento. Secondo il Vasari fu Michelangelo a darle il nome di Porta del Paradiso: ”elle son tanto belle che starebbon bene alle porte del Paradiso”. Il restauro, che ha permesso di salvare la mitica doratura, è stato diretto ed eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, su incarico dell’Opera di Santa Maria del Fiore, grazie ai finanziamenti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e al contributo dell’Associazione Friends of Florence. Realizzata in bronzo e oro, la Porta del Paradiso (del peso di 8 tonnellate, alta 5 metri e venti, larga 3 metri e dieci, dello spessore di 11 centimetri) sarà conservata nella grande teca, realizzata dalla Goppion spa, in condizioni costanti di bassa umidità per evitare il formarsi di sali instabili, tra la superficie del bronzo e la pellicola dorata, che salendo, sollevano e perforando l’oro, possono causare la distruzione. La collocazione dentro il cortile coperto del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze è temporanea: al termine dei lavori di realizzazione del nuovo Museo, previsti nel 2015, la Porta del Paradiso sarà esposta in una nuova sala espositiva, di 29 metri x 21 x 16 di altezza, con accanto le altre due Porte del Battistero a cui sarà riservato in futuro lo stesso destino.

 

 

“Una scultura deve reggere all’aria aperta, nella natura libera.”
Joan Mirò

Tra i differenti tipi di scultura (“il porre” o “il levare”, come le definisce per la prima volta Leon Battista Alberti) coloro che creano “levando” (scultori di marmo, pietra) sono da considerarsi superiori rispetto agli altri (plasticatori) a causa della nobiltà della materia prima e delle difficoltà dell’operato.Come ai tempi di Nicola Pisano, la scultura era avvantaggiata sulle altre forme artistiche dalla ricchezza di opere antiche ancora esistenti, che formavano un vasto repertorio da cui trarre modelli e idee. In epoca gotica si era avuta una ripresa della scultura monumentale, anche se legata sempre a una determinata collocazione architettonica. Inimmaginabili senza una nicchia di contorno, le opere erano caratterizzate da un senso ancora in larga parte astratto, dove dominava il gusto per la linea, per le figure longilinee e ancheggianti, per gli atteggiamenti sognanti e fiabeschi. All’alba del XV secolo, mentre l’Europa e parte dell’Italia erano dominate dallo stile Gotico internazionale, a Firenze si viveva un dibattito artistico che verteva su due possibilità opposte: una legata all’accettazione, mai fino ad allora piena, delle eleganze sinuose e lineari del gotico, seppure filtrata dalla tradizione locale, e un’altra volta a un recupero più rigoroso della maniera degli antichi, rinsaldando nuovamente il mai dimenticato legame con le origini romane di Florentia. Queste due tendenze possono già vedersi nel cantiere della Porta della Mandorla (dal 1391), dove, accanto alle spirali e agli ornamenti gotici, sugli stipiti si notano innesti di figure modellate solidamente secondo l’antico; ma fu soprattutto con il concorso indetto nel 1401 dall’Arte di Calimala, per scegliere l’artista a cui affidare la realizzazione della Porta Nord del Battistero, che le due tendenze si fecero più chiare. Il saggio prevedeva la realizzazione di una formella con il Sacrificio di Isacco e al concorso presero parte fra gli altri Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi, dei quali ci sono pervenute le due formelle finaliste.

10671205_634536903325249_4485225495791007992_n1380468_634536956658577_427087868045904897_n

nelle immagini: la formella di Brunelleschi, rispettivamente quella di Ghiberti

Nella formella del Ghiberti la figure sono modellate secondo un elegante e composto stile di eco ellenistica, ma sono vacue nell’espressione, prive di coinvolgimento; invece Brunelleschi, rifacendosi non solo all’antico ma anche alla lezione di Giovanni Pisano, costruì la sua scena in forma piramidale centrando l’attenzione nel punto focale del dramma, rappresentato dall’intreccio di linee perpendicolari delle mani di Abramo, dell’Angelo e del corpo di Isacco, secondo un’espressività meno elegante ma molto più dirompente. Il concorso finì con una vittoria di stretta misura di Ghiberti, a testimonianza di come l’ambiente cittadino non fosse ancora pronto al rivoluzionario linguaggio brunelleschiano.

Lucica Bianchi

OMAGGIO ALLA MAGIA DELLA NATURA

  LA TEMPESTA di GIORGIONE

10449526_632601553518784_4067475352636781459_n

Giorgione, La Tempesta, 1505-1508 circa,Gallerie dell’Accademia, Venezia

Alcuni hanno definito quest’opera come il primo paesaggio della storia dell’arte occidentale, anche se tale affermazione non tiene conto di disegni (come il Paesaggio con fiume di Leonardo, 1478) o acquerelli (come quelli di Dürer, databili fin dagli anni novanta del Quattrocento). Non è nemmeno detto che il paesaggio sia realmente il soggetto del dipinto, poiché vi compaiono tre figure in primo piano, che probabilmente alludono a un significato allegorico o filosofico che è il reale soggetto della tela e che non è ancora stato del tutto spiegato dagli studiosi. Alcuni sono anche arrivati ad ipotizzare che il dipinto segni la nascita di immagini “senza soggetto”, nate dalla fantasia dell’autore senza suggerimenti esterni, quali espressioni dello stato d’animo.In primo piano, sulla destra, una donna seminuda allatta un bambino (la “cigana” o “zigagna” cioè la zingara), mentre a sinistra un uomo in piedi li guarda, appoggiato a un’asta (il “soldato”); tra le due figure sono rappresentate alcune rovine. I personaggi sono assorti, non c’è dialogo fra loro, sono divisi da un ruscelletto.Sullo sfondo, invece, si nota un fiume che costeggia una città passando sotto un ponte, che sta per essere investito da un temporale: un fulmine, infatti, balena da una delle dense nubi che occupano il cielo.Da un punto di vista stilistico, in quest’opera Giorgione rinunciò alla minuzia descrittiva dei primi dipinti (come la Prova di Mosè e il Giudizio di Salomone agli Uffizi), per arrivare ad un impasto cromatico più ricco e sfumato, memore della prospettiva aerea leonardiana (verosimilmente mutuata dalle opere dei leonardeschi a Venezia), ma anche delle suggestioni nordiche, della scuola danubiana. La straordinaria tessitura luminosa è leggibile, ad esempio, nella paziente tessitura del fogliame degli alberi e del loro contrasto con lo sfondo scuro delle nubi.Giulio Carlo Argan evidenzia l’aspetto filosofico sotteso a quest’opera e scrive: ” Appunto questa relazione profonda, vitale, irrazionale tra natura e humanitas costituisce la poesia di Giorgione: una poesia che ha anch’essa la sua determinazione storica nel panteismo naturalistico di Lucrezio “.

 

Lucica Bianchi

 

RONDA DI NOTTE

 

10891629_626903727421900_1296433696554498795_n

 

La Ronda di notte, noto anche come La compagnia del Capitano Frans Banning Cocq, è un’opera realizzata nel 1642 dal pittore Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, attualmente conservata nel Rijksmuseum di Amsterdam.Il quadro rappresenta la parata organizzata dalla Compagnia degli archibugieri, la milizia cittadina di Amsterdam.Furono gli stessi ufficiali della Compagnia a commissionare il quadro, in occasione della visita di Maria de’ Medici regina di Francia.Il dipinto in seguito, ridimensionato ( tagliato di 1,5 m per lato) fu collocato in una sala del Municipio. I toni scuri dovuti all’ingiallimento delle vernici protettive, nonché alla sporcizia accumulata, suggerirono l’idea errata che fosse raffigurata una pattuglia notturna.
Al centro spiccano le due figure del Capitano Cocq (che, con un gesto della mano sinistra, ordina alla compagnia di avanzare) e del luogotenente van Ruytemburgh, circondati dagli archibugieri; questi ultimi, in parte sparano, o in parte sono intenti a caricare il moschetto.Sembra insolita la presenza della bambina che spunta nel gruppo degli uomini armati: in realtà vuole essere un omaggio alla Milizia. La bambina, infatti, porta appeso al fianco un pollo che richiama il simbolo della Milizia stessa, ovvero due artigli di pollo.Rembrandt ritrae con estrema precisione ciascun personaggio, sia nei tratti del volto che nell’abbigliamento. Egli stesso s’è poi autoritratto in maniera singolare: essendo di bassa statura, se ne possono scorgere l’occhio destro e parte della fronte tra l’uomo che regge la bandiera e l’uomo con l’elmo alla sua sinistra.Nello stemma ovale appeso alla destra dell’arco, sullo sfondo, sono inclusi tutti i nomi degli effigiati.

 

Lucica Bianchi

ANTONIO CANOVA. NOBILE SEMPLICITA’ E QUIETA GRANDEZZA

Antonio Canova nacque a Possagno, in Veneto, nel 1757.  Nel 1779 si trasferì a Roma dove risiedette per quasi tutta la vita.  Morì a Venezia nel 1822.

 

640px-Antonio_Canova_Selfportrait_1792

Autoritratto, 1792

Fu grandissimo scultore, completando la grande tradizione italiana iniziata con Donatello e proseguita con Michelangelo e Bernini.  Egli mise in pratica i principi neoclassici di Winckelmann.  Per realizzare le sue opere partiva da una serie di bozzetti che realizzava in creta; da essi poi i suoi assistenti traevano un calco in gesso in base al quale essi sbozzavano il marmo: il loro lavoro si arrestava solo quando pochi strati di materia separavano l’abbozzo dallo stato definitivo.  Solo a questo punto interveniva Canova che terminava l’opera. La sua più grande abilità era nel trovare “la nobile semplicità” e la “quieta grandezza”, valori fondamentali dell’arte antica.

National_gallery_in_washington_d.c.,_antonio_canova,_ballerina_con_un_dito_sul_mento_1809-1822_02

Ballerina con le dita sul mento

E’ per questo motivo che tutte le sue sculture vengono lavorate fino all’estremo grado di finitura, levigate fino a che il marmo opaco diventa lucido, ed è in questa finitura che risiede la poetica del maestro, oltre che negli effetti di grande luminosità ed ombreggiatura. Egli si impegna nella creazione di una forma pura in cui si incarni l’ideale neoclassico del “bello”, forma da cui siano bandite le passionali torsioni barocche, gli elementi eccessivi ed estranei alla composizione, i panneggi superflui, mostrando i sentimenti senza affettazioni.

 

640px-Persus-with-the-head-of-med

Perseo trionfante brandisce la testa di Medusa

Il Neoclassicismo si rifaceva all’arte dell’antichità classica, specie a quella greca.  Il termine fu coniato nell’800 con senso dispregiativo, per indicare un’arte fredda e accademica. Questa corrente artistica ebbe come sede privilegiata Roma, dove c’erano inesauribili fonti d’ispirazione classica; il suo massimo teorico fu il tedesco Winckelmann che però non vide mai un originale greco, ma solo copie romane.Per la prima volte la storia dell’arte antica venne studiata sia dal punto di vista cronologico, smettendo di considerarla un tutto omogeneo, sia del punto di vista estetico. Winckelmann sosteneva che la grandezza e la bellezza erano nate in Grecia e che gli artisti dovevano imitare gli antichi (l’imitazione è ovviamente qualcosa di diverso dalla copia: imitare significa rifarsi, ispirarsi a un modello; copiare invece vuol dire realizzare un’opera identica all’originale). Winckelmann ritiene che le principali caratteristiche della scultura greca sono la semplicità e la quieta grandezza, e che mai uno scultore dovrà mostrare forti passioni o eventi tragici mentre accadono ma un attimo prima o dopo, quando il tumulto dei sentimenti non c’è più o si è ormai allentato.

 

paolina_borghese_bonaparte

Canova, Paolina Borghese,1804-08

Paolina Bonaparte era la moglie del principe Borghese e la sorella di Napoleone.  Antonio Canova la rappresenta come Venere vincitrice con in mano il pomo della bellezza, donatole da Paride: una piccola mela dove c’era scritto “alla più bella”.Canova era il più famoso scultore dell’epoca ed è per questo che il principe Borghese lo sceglie come autore del ritratto della moglie, che era famosa per essere una donna molto bella e spregiudicata.La dea sembra fatta di carne: il busto sollevato è appoggiato su due cuscini che, sebbene di marmo, sembrano di seta; la donna è spogliata fino all’inguine mentre la parte inferiore è coperta da un drappo che dona al ritratto una notevole carica erotica, molto più forte di quanto sarebbe stata se Paolina fosse stata completamente nuda ed inoltre ne mette in risalto il seno, il busto, le braccia, il collo e la testa.  La mela è soprattutto un elemento geometrico, una sfera che è messa in rapporto con la rotondità dei seni. Nelle statue di Canova la figura si “chiude” su se stessa al contrario di quelle di Bernini le cui immagini comunicano con lo spazio circostante.L’opera non è un oggetto immobile, ma piuttosto “fermato”.  Canova usava un sistema di pulitura (lucidatura del marmo) particolare: passava sulla pietra “l’acqua di rota”, cioè l’acqua che si faceva colare sulla mola per non surriscaldare i ferri da arrotare.  Quest’acqua rossastra serviva a dare al marmo un colore più rosato.Canova aveva una profondissima conoscenza del marmo, ed in particolare di quello di Carrara.  Pensava che il colore candido di questo materiale andasse attenuato e che i pori del marmo andavano “chiusi”, dando alla luce una superficie su cui riflettersi.  Per attenuare il bianco Canova usava la cera, colorandola a volte, conferendo alle parti d’incarnato delle sue statue una lieve apparenza di vita. Chiunque veda questa statua solo in fotografia non può comprendere cosa siano le sculture di Canova: guardandola dobbiamo rifarci al momento in cui lo scultore la modellò sul cavalletto girevole, plasmandola in modo che questa non avesse un punto di vista privilegiato: la forma invitava l’osservatore a cambiare posizione, a mutare il suo punto di vista.Sotto questa scultura era nascosto un macchinario che la faceva ruotare su se stessa, suscitando grande meraviglia fra gli osservatori che, anziché girare intorno alla statua, potevano ammirarla “muoversi” da sola.

Lucica Bianchi

IL TESORO DI PIETROASA

tezaurul-pietroasa (1)

The Pietroasele Treasure (or the Petrossa Treasure) found in Pietroasele, Buzău, Romania, in 1837, is a late fourth-century Gothic treasure that included some twenty-two objects of gold, among the most famous examples of the polychrome style of Migration Period art. Of the twenty-two pieces, only twelve have survived, conserved at the National Museum of Romanian History, in Bucharest: a large eagle-headed fibula and three smaller ones encrusted with semi-precious stones; a patera, or round sacrificial dish, modelled with Orphic figures surrounding a seated three-dimensional goddess in the center; a twelve-sided cup, a ring with a Gothic runic inscription, a large tray, two other necklaces and a pitcher. Their multiple styles, in which Han Chinese styles have been noted in the belt buckles, Hellenistic styles in the golden bowls, Sasanian motifs in the baskets, and Germanic fashions in the fibulae, are characteristic of the cosmopolitan outlook of the Cernjachov culture in a region without defined topographic confines.


More about the treasure and the bowl at http://www.videoguide.ro/tezaurul-ist… und http://romanianhistoryandculture.webs.

Il Tesoro di Pietroasele (o Tesoro di Petrossa), ritrovato nel 1837 a Pietroasele,Romania, risale al IV secolo ed è composto di ventidue oggetti gotici comprendenti alcuni manufatti in oro. È considerato uno dei migliori esempi di stile policromo di arte barbarica.

Il tesoro originale, scoperto all’interno di un tumulo noto come Istriţa, nei pressi di Pietroasele, Romania, consisteva di 22 pezzi, compreso un grande assortimento di oggetti in oro, piatti e coppe oltre alla gioielleria, e due anelli completi di iscrizioni runiche. Quando fu scoperto, gli oggetti erano tenuti insieme da una non identificata massa scura, il che porta a credere che il tesoro sia stato ricoperto da qualche genere di materiale organico (ad esempio tessuti o pelle) prima di essere interrato. Il peso totale del tesoro era di circa 20 kg.

Dieci oggetti, tra cui uno dei due anelli, furono rubati poco dopo il ritrovamento. Quando i restanti oggetti furono ritrovati, si scoprì che l’altro anello era stato tagliato in almeno quattro parti da un orafo di Bucarest, ed uno dei caratteri runici era irrimediabilmente rovinato. Fortunatamente sono sopravvissuti dei disegni dettagliati, un calco in gesso ed una fotografia fatta dall’Arundel Society di Londra, il che ha permesso di stabilire l’identità del carattere perduto con relativa sicurezza.

Gli oggetti rimasti nella collezione mostrano un’altra qualità dell’artigianato, tanto che gli studiosi dubitano che gli oggetti abbiano origini locali. Isaac Taylor (1879), in uno dei suoi primi lavori parla della scoperta, ipotizzando che gli oggetti potrebbero rappresentare parte di un bottino recuperato dai Goti durante le scorribande in Mesia e Tracia (238-251). Un’altra delle prime teorie, probabilmente la prima proposta da Odobescu (1889) e ripresa da Giurascu (1976), identifica Atanarico, re pagano dei Tervingi, come probabile originario proprietario del tesoro, presumibilmente acquisito grazie al conflitto con l’imperatore romano Valente nel 369. Il catalogo Goldhelm (1994) suggerisce l’ipotesi che gli oggetti possano essere visti come un regalo fatto dai capi romani ai principi germanici alleati.

Recenti studi mineralogici svolti sugli oggetti indicano almeno tre differenti origini geografiche per l’oro utilizzato: Urali meridionali, Nubia(Sudan) e Persia. L’ipotesi dell’origine Dacia per l’oro è stata esclusa. Nonostante Cojocaru (1999) rifiuti la possibilità che monete romane siano state fuse e forgiate per dare vita a questi oggetti, Constantinescu (2003) giunge alla conclusione opposta.

Una comparazione della composizione mineralogica, delle tecniche di fusione e forgia, ed analisi tipologiche indicano che l’oro venne usato per creare le iscrizioni runiche all’interno dell’anello, classificate come celto-germaniche, non è puro come quello usato solitamente dai greco-romani, né quello in lega usato per gli oggetti germanici. Questi risultati sembrano indicare che almeno parte del tesoro (tra cui l’anello) venne creato con oro estratto nel nord della Dacia, e potrebbe quindi rappresentare oggetti in possesso dei Goti prima della migrazione verso sud (appartenenti alla Cultura di Cernjachov). Dato che queste ipotesi possono sembrare dubbie per la tradizionale teoria dell’origine romano-mediterranea dell’anello, ulteriori ricerche sono necessarie prima di dichiarare con certezza da dove proviene il materiale usato per la costruzione.

Come per molti altri ritrovamenti dello stesso tipo, resta incerto il motivo per cui gli oggetti siano stati posti nel tumulo nonostante siano state avanzate ipotesi plausibili. Taylor afferma che il tumulo in cui sono stati ritrovati gli oggetti era probabilmente la sede di un tempio pagano, e che secondo l’analisi delle iscrizioni rimaste faceva parte di un’offerta votiva che farebbe pensare ad un paganesimo ancora attivo. Nonostante questa teoria sia stata ignorata per molto tempo, le recenti ricerche,  hanno dimostrato che tutti gli oggetti rimasti hanno un “carattere decisamente cerimoniale”. Particolarmente importante è la patera decorata con disegni di divinità probabilmente germaniche.

L’ipotesi secondo cui gli oggetti sarebbero di proprietà di Atanarico suggerisce l’idea che l’oro fosse stato sepolto nel tentativo di nasconderlo agli Unni, che avevano sconfitto i Grutungi a nord del Mar Nero, iniziando a spostarsi nel 375 verso la Dacia abitata dai Tervingi. Resta comunque incerto il motivo per cui l’oro sia rimasto sepolto, dato che il trattato di Atanarico con Teodosio I (380), gli permise di assicurare al suo popolo la protezione dei Romani prima della sua morte, avvenuta nel 381. Altri ricercatori hanno suggerito che il tesoro fosse appartenuto ad un re ostrogoto che Rusu (1984) identifica con Gainas, generale gotico dell’esercito romano ucciso dagli Unni attorno al 400. Nonostante questo possa spiegare il motivo per cui il tesoro non sarebbe stato dissotterrato, non spiega perché un vistoso tumulo sia stato scelto per contenere un così ricco tesoro.

Sono state ipotizzate numerose datazioni per la sepoltura del tesoro, spesso derivate da considerazioni riguardo l’origine degli oggetti stessi ed il tipo di sepoltura, nonostante l’iscrizione sia stato uno dei fattori più importanti. Taylor considera un intervallo tra il 210 ed il 250. Studi più recenti hanno portato gli studiosi a spostare leggermente in avanti la datazione. Coloro che sostengono l’ipotesi di Atanarico parlano della fine del IV secolo, data proposta anche da Constantinescu, mentre Tomescu data il tesoro all’inizio del V secolo.

Dei ventidue pezzi, solo dodici sono sopravvissuti, conservati oggi presso il Museo Nazionale di Storia della Romania, a Bucarest: Una grande fibula con testa d’aquila e tre più piccole, tutte tempestate di pietre semi-preziose; una patera o piatto sacrificale, modellato con figure orfiche, che circondano una dea tridimensionale seduta; una coppa a dodici lati, un anello con un’iscrizione runica gotica, un grande vassoio, due collane ed una brocca.

I loro molteplici stili comprendono caratteristiche tipiche della dinastia Han cinese (fibbie per cinture), dell’Ellenismo (bocce in oro), motivi Sasanidi (cesti) e aspetti germanici(fibule). Questa varietà è tipica dell’aspetto cosmopolita della cultura di Cernjachov, in una regione senza confini topografici definiti.(approssimativamente odierna Ucraina e Bielorussia).

Quando Alexandro Odobescu pubblicò il suo libro sul tesoro, affermò che questo magnifico lavoro sarebbe potuto appartenere solo ad Atanarico (morto nel 381), capo dei Tervingi, uno dei popoli Goti. I moderni archeologi non sono in grado di collegare il tesoro a questo nome altisonante.

Il tesoro venne mandato in Russia nel dicembre 1916, quando l’esercito tedesco avanzò attraverso la Romania durante la prima guerra mondiale, e venne restituito solo nel 1956.

Lucica Bianchi

Note, fonti e bibliografia

La fotografia della Arundel Society, rimasta sconosciuta agli studiosi per circa un secolo, venne ripulita da Bernard Mees nel 2004.Cfr. Mees (2004:55-79). Per altre informazioni sulle prime vicende del ritrovamento, vedere Steiner-Welz (2005:170-175)

Taylor (1879,80) scrisse: “Il grande valore intrinseco dell’oro sembra indicare una provenienza di bottino di una grande vittoria e potrebbe trattarsi del saccheggio del campo dell’imperatore Decio, o del riscatto della ricca città di Marcianopoli”. Per altri studi sull’iscrizione vedere Massmann (1857)

Op.cit. Odobescu (1889), Giurascu (1976), Constantinescu (2003), Tomescu (1994)

Constantinescu (2003) descrive l’oggetto come “una patera con rappresentazioni di dei pagani (germanici)”. Analizzando l’immagine della patera Todd (1992) scrive: “al centro si trova una figura femminile su un trono circolare, con un calice nelle mani a coppa. Il fregio circolare rappresenta un gruppo di divinità, alcune in vesti classiche, altre con attributi più tipici dei pantheon germanici. Un potente dio maschio brandisce mazza e cornucopia, e siede su un trono dalla forma di testa di cavallo, ed è probabilmente più accostabile a Donar che ad Ercole. Un guerriero eroico in armatura completa, e con tre nodi nei capelli, è chiaramente un importante dio barbaro, mentre un trio di divinità femminili rappresenta probabilmente le Disir. Anche la dea seduta che presiede l’intero insieme non è facilmente classificabile come classica. Piuttosto sarebbe da vedere come una madre barbara degli dei”. (Fotografie della patera sono osservabili qui e qui.)

Michael Schmauder, Richard Corradini, The Construction of Communities in the Early Middle Ages: Texts, Resources and Artifacts, dicembre 2002

Alexandru Odobescu, Le trésor de Petrossa: Étude sur l’orfèvrerie antique, Parigi-Lipsia, J. Rotschild, 1889

Joseph Campbell, The Masks of God: Creative Mythology, 1968

M. Rusu, Cercetãri Arheologice, 1984

Herbert Kühn, Asiatic Influences on the Art of the Migrations, Parnassus

Avram Alexandru, Goldhelm, Schwert und Silberschätze: Reichtümer aus 6000 Jahren rumänischer Vergangenheit, Francoforte sul Meno, Sonderausstellung Schirn Kunsthalle, 1994

Malcolm Todd, The Early Germans, Blackwell Publishing, 1992

Dorina Tomescu, Der Schatzfund von Pietroasa, 1994, Goldhelm, Schwert und Silberschätze, Sonderausstellung Schirn Kunsthalle, 230–235, Francoforte

LA SALIERA DI FRANCESCO I

 

10698631_596636553781951_8592643468143360019_n

Benvenuto Cellini,Saliera di Francesco I,1540-1543,ebano, oro e smalto,Kunsthistorisches Museum, Vienna

LA SALIERA DI FRANCESCO I è un’opera scultorea in ebano, oro e smalto, realizzata da Benvenuto Cellini al tempo del suo soggiorno in Francia, tra il 1540 e il 1543. Di piccolo formato (è alta 26 cm), è considerato universalmente il capolavoro d’oreficeria dell’artista.In Francia, Cellini trascorse uno dei momenti più prolifici e sereni della sua esistenza. Rassicurato da una presenza così colta e disponibile come quella di re Francesco I,sempre pronto a fornire materiali preziosi come il bronzo o l’argento per accontentare i bisogni artistici del nuovo arrivato, Cellini era consapevole di vivere un momento che mai avrebbe potuto ripetersi.Il progetto iniziale della saliera era tuttavia di parecchi anni antecedente al soggiorno francese dell’artista. Cellini ricevette infatti una commissione simile dal cardinale Ippolito d’Este che aveva richiesto allo scultore una saliera “che avrebbe voluto uscir dall’ordinario di quei che avean fatto saliere”. Per indirizzarlo sul tema, il cardinale avrebbe interpellato due colti letterati come Luigi Alamanni e Gabriele Cesano affinché potessero consigliargli l’iconografia più opportuna.Benvenuto, sebbene leggermente influenzato da alcuni suggerimenti del Cesano, finì col progettare l’opera interamente da solo, ribadendo il concetto di “fare”, tipico degli artisti, contrapposto all’astratto “dire” dei letterati. L’artista eseguì quindi un modello in cera della saliera, purtroppo a noi non pervenuto, che avrebbe suscitato la meraviglia del cardinale e dei suoi consiglieri. Ippolito, stupito dalla complessità dell’invenzione, rifiutò di mettere in pratica un simile progetto, giudicandolo troppo costoso e meritevole solo di un committente come Francesco I.

 

 

 

(notizie tratte da articoli di giornali dell’epoca)

“Il 2 maggio 2003 il Kunsthistorisches Museum di Vienna subì un furto clamoroso: durante la notte i ladri riuscirono a raggiungere dal tetto, attraverso un’impalcatura, il primo piano dell’edificio, a entrare nelle sale eludendo il sistema di allarme e a trafugare indisturbati una fra le opere più importanti lì custodite: la Saliera d’oro di Benvenuto Cellini.
Il prezioso oggetto, progettato nel 1540 per il cardinale Ippolito d’ Este ma realizzato solo tre anni dopo alla corte del re Francesco I di Francia, è considerato uno dei capolavori della scultura rinascimentale e l’unica oreficeria del maestro italiano giunta fino ai nostri giorni.
A causa della notorietà della scultura e del fatto che altre importanti opere d’arte collocate nella stessa sala erano state ignorate dagli intrusi si pensò immediatamente a un furto su commissione, ideato da un collezionista senza scrupoli, oppure organizzato da una banda di malviventi per estorcere denaro; in effetti qualche mese dopo i mezzi d’informazione diffusero la notizia dell’arrivo di una lettera contenente una richiesta di riscatto unita a polvere d’oro grattata dal capolavoro.
E’ però passato molto tempo dal misterioso furto e nel museo la teca che dovrebbe accogliere la Saliera è ancora vuota.”

20 gennaio 2006 “E’ stato ritrovato un pezzo della famosa saliera.Si tratta di un tridente mobile che decora l’opera che quindi, secondo gli esperti, potrebbe non esser stata danneggiata.In una conferenza stampa il responsabile delle indagini Michael Braunsperger ha spiegato che esiste da ottobre un contatto con gli autori del furto, contatto tenuto finora segreto.I ladri hanno chiesto un grosso riscatto : 10 milioni di euro.Proprio in occasione del “contatto” era stato fatto ritrovare il pezzo dell’opera : era abbandonato in un sacchetto per surgelati dietro un pannello elettrico in un parco di Vienna.Ci sarebbe un identikit di un uomo coinvolto nella vicenda.”

22 gennaio 2006“Ritrovata la saliera.E’ stata recuperata ieri dalla polizia viennese la saliera d’oro di Benvenuto Cellini. La Polizia ha rinvenuto la saliera in una scatola sepolta in un bosco vicino a Zwettl, nei dintorni di Vienna.E’ stata fermata una persona sospettata del furto.Il valore stimato della saliera è di 50 milioni di euro, il riscatto richiesto era stato di 10 milioni di euro.”

 

Lucica Bianchi