In un’epoca in cui il libro corre velocemente verso trasformazioni digitali, grandi gruppi editoriali si uniscono e l’e-book tenta di cambiare le nostre abitudini di lettura. La Biblioteca Ambrosiana, fondata dal cardinale Federico Borromeo (e che ha oggi come prefetto monsignor Franco Buzzi) tuttora legittima espressione e vanto della Chiesa cattolica per essere uno dei centri mondiali d’irradiazione culturale, celebra con un evento straordinario la figura di Aldo Manuzio, uno dei più famosi tipografi ed editori d’Europa.
Nato a Bassiano (oggi comune di Latina) nel 1449, morì a Venezia nel 1515. Dopo anni di formazione umanistica vissuta tra Roma e Ferrara, si trasferì nel capoluogo veneto, città che fu per secoli crocevia di creatività, apertura culturale e fonte d’ispirazione per artisti, scrittori e umanisti.
Aldo Manuzio diventa uno dei maggiori tipografi del suo tempo, il primo editore moderno in quanto introduce innovazioni destinate a segnare la storia della tipografia e dell’editoria sino ai giorni nostri, come nell’ambito della punteggiatura l’apostrofo, il punto, la virgola ed il punto e virgola. In questa mostra si può constatare che tra le immagini appare il geroglifico con l’ancora e il delfino che dal 1502 diviene l’emblema della tipografia.
L’esposizione delle “Aldine”, curata dalla dott.ssa Marina Bonomelli, dell’Accademia Ambrosiana, e dal dott. Angelo Colombo, Catalogatore della Biblioteca, che si terrà presso la Pinacoteca Ambrosiana, dal 2 dicembre 2015 al 28 febbraio 2016, ripercorrerà il meticoloso lavoro di Manuzio, attraverso una selezione dei suoi stampati custoditi nella Biblioteca.
Aldo Manuzio rappresenta il perfetto equilibrio tra arte, tecnica e mercato e per comprendere al meglio la sua figura, ciò che ha rappresentato e tuttora rappresenta abbiamo rivolto alcune domande sia alla curatrice della mostra, dott.ssa Marina Bonomelli, sia al dott. Angelo Colombo, catalogatore della Biblioteca Ambrosiana e sia al Dott. Federico Gallo, direttore dell’Ambrosiana.
Rivolgiamo il primo quesito al dottore dell’Ambrosiana, Federico Gallo, direttore della Biblioteca.
Prima della Mostra delle “Aldine”, in Ambrosiana si è svolto un convegno internazionale su Aldo Manuzio. Qual è il bilancio degli studi presentati?
Il Convegno internazionale svoltosi in Ambrosiana il 19-20 novembre si è chiuso con un bilancio altamente positivo. Sono intervenuti, tra gli altri, i maggiori specialisti sull’argomento a livello mondiale. La biografia di Aldo Manuzio, la storia della sua attività, lo studio delle collezioni dei suoi libri hanno ricevuto nuova luce, nuovi dati, nuove prospettive per la ricerca. Particolarmente interessanti sono stati i momenti di dibattito tra gli studiosi, ai quali ha partecipato in modo costruttivo e competente il pubblico qualificato presente.
Alcune domande specifiche sull’obiettivo della mostra e il messaggio che vuole trasmettere le abbiamo invece rivolte ai curatori della medesima, il dott. Angelo Colombo e la dott.ssa Marina Bonomelli. Cominciamo con il dott. Colombo.
Che cosa vi siete prefissi con questa esposizione?
La mostra ha uno scopo didattico: far conoscere la figura e l’opera di Aldo Manuzio. Non vuole essere un evento riservato ad una ristretta cerchia di bibliofili, bensì aperto al grande pubblico per far conoscere un protagonista della nostra storia culturale. Manuzio fu stampatore, editore, umanista. Alla base della sua attività c’era un deale ben preciso: rivelare, far conoscere il bello, additare agli uomini la grandezza dei pensieri di Platone, la profondità delle ricerche di Aristotele, la suggestione delle liriche greche … pubblicare opere belle … moltiplicare i libri per tutti … far partecipi tutti della ricchezza spirituale della cultura classica.
Che cosa dice a noi contemporanei un personaggio come Manuzio?
Manuzio introduce nella sua stamperia alcune importanti novità, che sono all’origine del libro moderno. Per comprenderne il valore e la portata, potremmo definire Manuzio lo Steve Jobs dell’umanesimo: colui che ha saputo introdurre nella nuova arte della stampa, criteri insieme di bellezza e di efficienza, fino allora sconosciuti. Un vero salto di qualità!
Quali sono queste novità introdotte da Aldo e dalla sua stamperia?
La prima riguarda i caratteri di stampa: l’italico e il corsivo. La seconda il formato dei volumi: non più i grossi volumi che connotavano i manoscritti, ma il formato tascabile, in ottavo. La terza la disposizione grafica del testo, con l’utilissima introduzione della punteggiatura, che rende finalmente leggibili testi alle volte di ostica comprensione. Il suo messaggio per l’uomo d’oggi è riassumibile nelle sue stesse parole:
“ … se si maneggiassero di più i libri che le armi, non si vedrebbero tante stragi, tanti misfatti e tante brutture, tanta insipida e tetra lussuria …”
Con la dottoressa Marina Bonomelli ci siamo invece avventurati nelle campo delle sensazioni persnali.
Quanto tempo l’ha impegnata a pensare la mostra e quanto tempo le è occorso per allestirla?
L’allestimento di questa mostra ha comportato un accurato lavoro, durato più di anno, di ricognizione e analisi del patrimonio delle aldine della Biblioteca Ambrosiana che conserva in tutto ben 296 esemplari, una collezione preziosissima, fra le più rilevanti a livello internazionale. Una suggestiva selezione di 30 aldine è esposta in mostra, in un percorso tematico-cronologico lungo il quale il visitatore potrà ammirare le edizioni più rappresentative della produzione aldina, come anche gli esemplari più singolari di questa collezione.
C’è un lavoro di Manunzio che predilige e che trova spazio nella mostra da lei curata?
In realtà sono due le opere che prediligo e che segnano in modo profondo e durevole la storia del libro. La prima è l’Hypnerotomachia Poliphili del 1499,in assoluto il più bel libro illustrato del Rinascimento, per la varietà della composizione tipografica con cui Aldo sa unire il testo alle immagini. La seconda è il Virgilio del 1501, il primo libro in formato portatile e stampato con il carattere corsivo, opera con la quale Aldo dà avvio alla produzione dei classici latini, greci e in volgare.
Una recente mostra alla Biblioteca Ambrosiana ha riproposto il tema della giustizia partendo dal pensiero dell’illustre Milanese vissuto nel secolo XVIII e diventato celeberrimo nel mondo per il suo “Dei delitti e delle pene”.
Nell’apprendere notizie su reati contro le persone o la proprietà la reazione del cittadino, dell’uomo della strada, è di chiedere che il reo sia arrestato e condannato. Ognuno di noi pretende che si possa contare sulla cosiddetta “certezza della pena”, intesa soprattutto come presupposto per la sicurezza.
Spesso, però, dimentichiamo che l’insicurezza che oggi ciascuno di noi avverte è dovuta non solo agli atti criminali, ma anche a un’ assoluta mancanza di legami all’interno della società. È mutato il rapporto con le autorità; il lavoro precario è aumentato così come è cresciuta enormemente la disoccupazione. Di fatto l’intera realtà che ci circonda ha subito trasformazioni epocali.
La Biblioteca Ambrosiana (l’importante centro d’irradiazione della cultura cattolica voluto dal cardinale Federico Borromeo), nei mesi scorsi ha allestito la mostra “Giustizia e ingiustizia a Milano tra Cinquecento e Settecento” e una serie d’incontri con la partecipazione di selezionati studiosi italiani e stranieri.
La mostra, che si articolava in sette vetrine ricche di documenti e incisioni, affrontava questo tema attraverso una capillare e metodica ricerca iconografica e documentaria del materiale presente nei fondi della Biblioteca per ricostruire un quadro sintetico delle diverse rappresentazioni attinenti la sfera della giustizia.
Nella Sala del Prefetto dell’Ambrosiana, si trova una targa con il motto “Securitas propriae vitae jus nautrale est securitas bonorum jus societatis” che rievoca l’ispirazione e il fondamento dell’opera “Dei delitti e delle pene” del nobile Cesare Beccaria (Milano 15 marzo 1738 – Milano 28 Novembre 1794), giurista, filosofo, economista ed anche una figura di spicco della scuola illuminista milanese.
Il libro, un’approfondita analisi politica e giuridica contro la pena di morte e la tortura, ispirò il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di Toscana e fu fonte di ispirazione per i padri fondatori degli Stati Uniti d’America come Thomas Jefferson, Benjamin Franklin e John Adams.
Beccaria ebbe quattro figli; la primogenita Giulia sposò un gentiluomo lecchese, Pietro Manzoni, più anziano di ventisei anni, padre di quell’Alessandro scrittore e poeta italiano di fama internazionale, il quale, dopo la scomparsa del Beccaria, riprenderà alcune riflessioni sulla giustizia nel suo capolavoro “I Promessi Sposi” e ancor di più nella “Storia della colonna infame”.
La storia della giustizia annovera, tra gli studiosi più rappresentativi, ben tre personaggi milanesi, Cesare Beccaria, Pietro Verri ed Alessandro Manzoni, legati tra di loro oltre che per i contenuti dell’opera “Dei delitti e delle pene”, da una riflessione più ampia sul sistema di detenzione e di rieducazione dei carcerati.
Beccaria riteneva che l’entità della pena dovesse essere commisurata al delitto. La sua critica ai metodi barbarici dell’espiazione della pena in vigore ai suoi tempi ottenne un successo mondiale. Beccaria inoltre criticava quei regimi in cui non esisteva la presunzione di innocenza né la certezza della pena; sosteneva poi che il processo dovesse avere una ragionevole durata e che la sentenza dovesse arrivare in tempi certi.
Oggi chiedere più sicurezza significa innanzi tutto realizzare uno stato di diritto che tutela i cittadini proteggendoli da coloro che li vessano o minacciano. Purtroppo nel nostro Paese l’operato delle forze di pubblica sicurezza viene spesso vanificato dalla lentezza di un sistema giudiziario ed istituzionale incapace di consegnare i delinquenti alla giustizia. La pubblica opinione chiede quello che Cesare Beccaria intuì molto tempo fa: “la certezza della pena”.
La giustizia è un pilastro fondamentale di ogni società; e con Beccaria dovremmo pensare alla pena detentiva non solo come ad una “condanna”, ma vedere in essa la capacità di “rieducare” il reo, almeno in tutti casi in cui ciò sia possibile. La mostra tenuta alla Biblioteca Ambrosiana avrà dato qualche suggerimento al dibattito sulla riforma della giustizia in atto in Italia?
La Classis Africana dell’Accademia Ambrosiana inaugura, con questo primo volume della nuova Collana, un’articolata serie di studi e ricerche dedicate alle molteplici tradizioni, culture, lingue e società dell’immenso continente. Vale l’osservazione dell’Accademico Fondatore Gianfranco Fiaccadori alla cui memoria il libro è dedicato, ove si sottolinea il ruolo dell’Etiopia: «provincia africana dell’Oriente Cristiano che con l’Europa e il mondo mediterraneo ha avuto relazioni ab antiquo e fin dal Rinascimento ha attirato l’attenzione degli Europei per il suo carattere conservativo. Siamo a Milano, ma pochi sanno o ricordano che nel 1459 il duca Francesco Sforza pregava il negus Simon Iacopo ossia Zar’a Yā‘qob di inviargli le opere di Salomone perdute in Occidente». Già il Centro Studi Camito-Semitici, quasi precursore dell’odierna Classe di Studi Africani, trovò significativo tenere in Ambrosiana la seduta inaugurale del 1 giugno 1993. I dieci studiosi, autori delle accurate ricerche qui pubblicate, rappresentano un’ideale continuazione ed un rinnovamento della tradizione ambrosiana, insieme con tutti gli Accademici Fondatori che sono all’origine della nuova Classe di studi, ed ai molti altri accademici e studiosi che in vario modo offrono generosamente il contributo delle loro ricerche sul tema dell’Africa, l’oriente mediterraneo e l’Europa. Tradizioni e culture a confronto.
Professore di Teologia Dogmatica, Missiologia, Studi Arabi e Islamistica.
Religione universalista e missionaria che indica lo stato di sottomissione a Dio del credente musulmano. Il termine islâm è un sostantivo verbale tradotto con «sottomissione», nel senso di abbandono, consegna totale di sé a Dio. La radice verbale è aslama, congiunzione causale di salima (essere o porsi in uno stato di sicurezza). “Per i musulmani l‘islâm non è soltanto un sistema di fede e di culto, o per così dire una sfera dell’esistenza distinta da altre sfere cui sono preposte autorità non-religiose che amministrano leggi non religiose. Esso indica piuttosto il complesso della vita e le sue norme comprendono elementi di diritto civile, di diritto penale e persino di quello che noi chiameremmo diritto costituzionale.”
Le conoscenze cartografiche e di navigazione greche, arabe e iberiche (Dal XIII al XIV secolo)
Le rotte di navigazione commerciali e i sultanati dell’Estremo Oriente: islamizzazione e spezie (Dal XIV al XVII secolo)
Dr. p. Paolo Nicelli (Dottore della Biblioteca Ambrosiana)
Dal Mediterraneo alla globalizzazione
Nel contesto di questa presentazione, finalizzata a sviluppare il tema delle comunicazioni marittime e commerciali dal XIII al XIV secolo, desideriamo brevemente percorrere nel tempo le rotte di navigazione dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico, per poi giungere, nell’Oceano Pacifico, all’Arcipelago malaysiano, indonesiano e filippino, grazie agli studi geografici e cartografici medievali e moderni che hanno unito mondi e culture diverse. Le rotte di navigazione mercantili necessitavano di geografi e cartografi esperti, che potessero tracciare le vie di comunicazione più praticabili dalle navi, per giungere ai porti e nelle zone interne dei paesi d’Occidente e d’Oriente. Questo richiedeva ai cartografi l’indicazione dei rilievi montuosi, dei fiumi, dei laghi, dei venti, dei confini e delle città di quelli che divennero i principali «nodi commerciali» per l’Occidente e per l’Oriente. Grazie allo sviluppo delle scienze geografiche e cartografiche un ponte culturale e commerciale si aprì tra questi due mondi, non più lontani nelle distanze, ma vicini nella comunicazione globale.
La “Geografia di Tolomeo”
Ms. Ambrosiano cc. II, 119, I D 527 inf. ff. 94 verso e 95 recto
“Ci siamo abbattuti in un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque tempo, alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un senso giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo la contemplazione d’una molteplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia d’andare avanti nella storia, salti addirittura al capitolo seguente…”
La Biblioteca Ambrosiana (ed. 1840)
L’8 dicembre 1609, la Città di Milano assistette ammirata alla cerimonia di inaugurazione della Biblioteca Ambrosiana, prediletta creatura dell’amatissimo cardinale Federico Borromeo. Dal Palazzo arcivescovile, il cardinale giunse nel primo pomeriggio alla Chiesa di S. Sepolcro, accompagnato da un corteo di dignitari ecclesiastici e civili e da due ali di folla. Accolto da musica e cori si sedette al centro della chiesa, avendo ai lati il Gran Cancelliere spagnolo don Diego Salazar e il Presidente del Senato di Milano Giacomo Mainoldi Gallarati. Luigi Bossi, il canonico teologo del Capitolo metropolitano, pronunciò la prolusione che descriveva la fondazione della Biblioteca, avvenuta due anni prima, e la creazione del Collegio dei Dottori. Dalla Chiesa di San Sepolcro, il corteo delle autorità, fra squilli di tromba e sotto un padiglione di tessuto che copriva l’intero percorso, giunse davanti alla porta dell’Ambrosiana, che fu spalancata perché potesse il cardinale entrare per primo. E fu lo stesso Federico a fare da guida fra i tesori della imponente collezione della Biblioteca, mostrandone con orgoglio la immensa ricchezza. Le ombre della sera calavano su una Milano ormai invernale, quando il cardinale uscì dalla Biblioteca per rientrare nel Palazzo Arcivescovile.
G. C. Procaccini, Federico Borromeo
La Biblioteca destò da quel momento l’ammirazione degli studiosi e dei visitatori che giungevano a Milano: nel 1623, Galileo inviava al cardinal Federico una copia del suo Saggiatore, nella speranza che esso potesse entrare a far parte dell’«eroica et immortale libreria»; nel 1662 il Principe di Condé si lasciava sfuggire un lapidario «très belle» d’ammirazione; Montesquieu osservava nel 1728 che la Biblioteca era «extrêmement bien tenue; on y voit qu’il a eu des bibliothécaires savants»; Girolamo Tiraboschi scrisse sul finire del XVII secolo che «la Biblioteca Ambrosiana offerse gran pascolo alla dotta curiosità e alla maraviglia. Infatti l’erezione di essa è una delle cose memorabili di quel secolo e può bastare essa sola a rendere immortale il nome del cardinale Federigo Borromeo, che ne fu il fondatore»; e, senza dimenticare le parole di John Evelyn («imponente»), Gilbert Burnet («molto signorile»), Gabriel Naudé («straordinaria»), celeberrime restano quelle di Alessandro Manzoni (I Promessi Sposi, cap. XXII): «Federigo ideò questa Biblioteca Ambrosiana con sì animosa lautezza, e la eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per fornire la quale di manoscritti, oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de’ più colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati e quattordicimila manoscritti».
Milano, dunque, a partire dal 1609 possiede la seconda biblioteca aperta al pubblico in Europa, essendo stata preceduta nel 1602 solo dalla Bodleian Library di Oxford. Concepita come una biblioteca “generale”, volta allo studio di tutte le scienze che compongono il sapere universale, dalla classicità greco-latina alla letteratura cristiana, dalla teologia alla filosofia dalla linguistica al diritto e alla musica, dall’Occidente all’Oriente, dall’Antichità al Medioevo e al Rinascimento, l’Ambrosiana aveva quasi le caratteristiche di una università degli studi, allora assente a Milano. Si trattava di una struttura organica, equilibrata e del tutto all’avanguardia per lo spirito del tempo.
Per la costruzione e l’arricchimento del patrimonio codicologico e librario della Biblioteca, Federico organizzò, già a partire dal 1601, una vera e propria campagna di acquisti, sguinzagliando i suoi agenti ai quattro angoli del mondo occidentale, uomini che misero a disposizione laboriosità, scienza e spesso anche arditezza veramente non comuni. L’idea era di costituire un centro culturalmente attivo, palestra di studi al servizio e in difesa del cattolicesimo e luogo di raccolta dei più importanti testi del pensiero occidentale e orientale, arabo e persiano, ebraico, bizantino, copto, armeno, classico greco e latino e perfino cinese.
La multiculturalità del progetto federiciano era tesa non tanto e non solo alla conservazione dei documenti, quanto al loro studio e alla ricerca di un possibile dialogo e convivenza delle diverse culture, senza rinunciare alla identità cristiana di cui Federico era vivo e fervido interprete. In altre parole, il lavoro intellettuale fioriva dalla raccolta e dalla cura del patrimonio librario e non si esauriva in esso, e anzi, l’accumulo del “tesoro” non era destinato ad accrescere il prestigio di chi materialmente lo possedeva e tutelava, ma alla sua trasformazione in sapere vivo.
In questa linea va interpretata anche la creazione della Pinacoteca: il 28 aprile 1618, infatti, Federico Borromeo donava la sua collezione di quadri disegni e stampe a quella che nel 1620 sarebbe diventata la Pinacoteca Ambrosiana, dallo stesso cardinale successivamente arricchita con capolavori come la Canestra di frutta del Caravaggio, l’Adorazione dei Magi di Tiziano, il Musico di Leonardo, il cartone della Scuola di Atene di Raffaelo, numerosi dipinti di scuola leonardesca e dei fiamminghi, in particolare di Jan Brueghel, e migliaia di disegni. Anche la Pinacoteca rispondeva all’idea federiciana di elaborazione e di trasmissione del sapere, un sapere che doveva essere non solo documentato ma diventare vivo, farsi ricerca e trasmissione: essa divenne non solo un’esposizione ma uno strumento didattico, per quell’Accademia del disegno, articolata nei corsi di pittura, scultura e architettura, che nata assieme all’idea della Pinacoteca, sopravvisse fino al suo trasferimento tardo settecentesco a Brera.
Oltre a una necessaria ed esaltante celebrazione dei tesori della Biblioteca e della Pinacoteca, l’Ambrosiana è stata, è e deve rimanere sorgente di ricerca, di dialogo, di conoscenza, di approfondimento, di civiltà, di cultura e di spiritualità, sempre nella linea di quel motto che Manzoni pone a ideale sigillo dell’opera di Federico Borromeo: “L’intento continuo nella ricerca e nell’esercizio del meglio”.
Biblioteca Ambrosiana, oggi
Bibliografia di riferimento
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Milano atelier culturale della Controriforma, a cura di D. Zardin e M.L. Frosio, «Studia Borromaica», 21, 2007
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Cultura e spiritualità borromaica tra Cinque e Seicento, a cura di F. Buzzi e M.L. Frosio, «Studia borromaica», 20, 2006
Carlo e Federico: la luce dei Borromeo nella Milano spagnola, a cura di P. Biscottini, Milano, Museo Diocesano, 2005.
Federico Borromeo fondatore dell’Ambrosiana, a cura di F. Buzzi e R. Ferro, «Studia borromaica», 19, 2005
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Federico Borromeo principe e mecenate, a cura di C. Mozzarelli, «Studia borromaica», 18, 2004
Borromeo, Semina rerum, sive De Philosophia Christiana, introduzione e cura di C. Continisio, Roma, Bulzoni, 2004
Federico Borromeo vescovo, a cura di D. Zardin, «Studia borromaica», 17, 2003
Federico Borromeo. Uomo di cultura e spiritualità, a cura di S. Burgio e L. Ceriotti, «Studia borromaica», 16, 2002
Federico Borromeo. Fonti e storiografia, a cura di M. Marcocchi e C. Pasini, «Studia borromaica», 15, 2001
Cultura politica e società a Mialno tra Cinque e Seicento, a cura di F: Buzzi e C. Continisio, «Studia Borromaica», 14, 2000
Cultura e religione nella Milano del Seicento. Le metamorfosi della tradizione «borromaica» nel secolo barocco, a cura di A. Cascetta e D. Zardin, «Studia Borromaica», 13, 1999
Agosti, Collezionismo e archeologia cristiana nel Seicento: Federico Borromeo e il Medioevo artistico tra Roma e Milano, Milano, Jaca Book, 1995
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Storia dell’Ambrosiana, 4 voll., Milano, Cariplo, 1992-2002
Marcora, Catalogo dei manoscritti del card. Federico Borromeo nella Biblioteca Ambrosiana, Milano, Biblioteca Ambrosiana, 1988
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Prodi, Borromeo, Federico, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 13, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1971, pp. 35-37
Martini, ‘I tre libri delle laudi divine’ di Federico Borromeo. Ricerca storico-stilistica, Padova, Antenore, 1975
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Prodi, Nel IV centenario della nascita di Federico Borromeo. Note biografiche e bibliografiche, in “Convivium”, XXXIII (1965), pp. 337-359
Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ di Ibn Bu¥lân (Lettera d’invito al banchetto dei medici)
Dr. padre Paolo Nicelli, P.I.M.E. (Dottore della Biblioteca Ambrosiana)
Dettaglio preso da una miniatura della Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ di Ibn Bu¥l…n. In essa vi è rappresentato un dottore che visita un paziente o un possibile dibattito tra due medici. Sulla sinistra della miniatura vi è una credenza con bricchi e calici: probabili pozioni a uso medico (Museum of islamic Art, Jerusalem)
Descrizione del manoscritto
Ms. Arabo A 125 inf. – Abû ðasan al-Mukhtâr ibn ‘Abdûn ibn Sa‘dûn ibn Bu¥lân, Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ (Il banchetto dei medici), sec. XIII. Splendido codice su carta di 122 fogli, in formato medio, copiato in Alessandria d’Egitto nel 1273 da Mu|ammad ibn Qaisar al-Iskandarî. Il manoscritto vergato in elegante scrittura nasî vocalizzata, comprende tre scritti medici, il primo dei quali composto nel 1058 dal medico, filosofo e teologo arabo di fede cristiana nestoriana Abû ðasan al-Mutâr ibn ‘Abdûn ibn Sa‘dûn ibn Bu¥lân (m. 1066). L’autore visse alla corte degli ‘Abbasidi in Baghdâd, ed ebbe come maestro un prete nestoriano, Abû al-FaraÞ b. al-¦ayyib, un commentatore di Aristotele, Ippocrate e Galeno, il quale si interessava anche di botanica e scrisse di satira, vino e qualità naturali. In Egitto e in particolar modo al Cairo, Ibn Bu¥lân intraprese diverse controversie contro Ibn Riÿwân (medico, astrologo e astronomo egiziano) su temi quali le citazioni e le idee filosofiche di Aristotele sul luogo, il movimento e l’anima. Egli si trasferì a Costantinopoli nel 1054, dove, su richiesta del Patriarca Michele Cerulario (m.1059), compose un trattato sull’Eucarestia e l’uso del pane senza lievito. Durante lo scisma che avrebbe portato alla separazione della Chiesa greca da quella latina, Ibn Bu¥lân passò gli ultimi anni della sua vita come monaco in un monastero presso Antiochia. La sua opera medica più importante è il Taqwîn al-¡i||a (il rinvigorimento della salute). È un trattato d’igiene e di dialettica in otto capitoli, scritto nell’ XI secolo, probabilmente a Baghdâd,(1) su carta e in elegante scrittura nasî, con i titoli in carattere cufico in color rosso. Esso è dedicato a rispondere ad alcune domande generali sui quattro elementi naturali, gli umori e i caratteri emotivi. Ibn Bu¥lân studiò la natura e il valore della nutrizione, come anche l’influenza dell’ambiente, dell’acqua e del clima sulla salute.
Altra opera importante è la Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ (lettera d’invito al banchetto dei medici), che tratta di temi di etica medica, con una satira sui medici ignoranti.(2) Questa lettera-trattato è accompagnata da undici miniature di alta qualità, di scuola siriana con influssi dell’Asia centrale evidenti nell’abbigliamento e nei lineamenti asiatici del volto dei convitati, esempio unico dell’arte iconografica mamelucca del XIII secolo. Riproduciamo qui il frontespizio del Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ ta¡nîf (redazione) del Ms. Arabo A 125 inf. f.15 R., custodito nella Veneranda Biblioteca Ambrosiana:
La miniatura di seguito riprodotta (Ms. Arabo A 125 inf. f.15 R.), raffigura una scena di brindisi fra l’ospite e i suoi invitati, vestiti con raffinata eleganza e accompagnati da un suonatore, aspetti questi tipici del simposio classico greco-romano, ormai ripreso anche in altre culture mediterranee. Nel simposio è presente una bevanda non ben definita. Essa potrebbe essere il vino a indicare che ci troviamo in un convivio di medici pagani, o cristiani, oppure non si tratta di vino, ma di thè, indicando quindi un convivio di medici musulmani. Terza ipotesi potrebbe essere l’assaggio di un elisir particolare di cui i medici parlano. Questa tesi, che riteniamo più probabile, sarebbe sostenuta dal fatto che solo due commensali hanno il bicchiere e bevono la bevanda, mentre gli altri sono impegnati in altre cose. Nel simposio manca invece il cibo, alimento importante, assieme al vino, tipico del simposio greco-romano, dove sia il vino che il cibo venivano consumati stando sdraiati sui triclini, durante una conversazione tra pochi intimi. I suonatori suonavano inni e canti per il piacere dei commensali. In un contesto arabo o mamelucco, come quello della Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’, i commensali sono invece inginocchiati a semicerchio su un tappeto e bevono insieme discutendo sul caso clinico di un certo Abû Aiub, il cui occhio si era arrossato, di color rosso sangue, probabilmente a causa di un agente esterno o a causa della pressione sanguinea nell’occhio stesso. Interessante è notare come un tale fenomeno, legato all’irritazione dell’occhio, venga spiegato attraverso un truce avvenimento quale quello di un massacro con il versamento di molto sangue, al punto da provocare, in colui che ne era stato il testimone oculare, l’arrossamento dell’occhio.
Stile dell’opera e traduzione del brano: (Ms. Arabo A 125 inf. f.15 R.)
L’opera si presenta con uno stile prosimetro, cioè che alterna prosa a poesia, così come espresso nei versi seguenti:
Prosa (natr): «Kahal disse che questa era una cosa relativa al nostro Šaih che si chiama Abû Aiub. Disse Abû Aiub: “bevo (Ašrabu) questo bicchiere e lo sorseggio (Asluhu) ”. Dopodiché, prese il bicchiere e lo sollevò e lo osservò e disse: “Per Allâh!, come disse il poeta”.
Poesia (ši‘r) in rime (damma – o…, o…,):
1) «Quindi Il vetro era una goccia non congelata e la medicina (il farmaco) di color rosso fuoco. “O Signore!, cantami, per Allâh!, i segreti […] di Kahal” e quindi iniziò e cantò».
Il significato del versetto richiama il modificarsi delle sostanze attraverso dei processi chimici. Infatti la composizione chimica del vetro del bicchiere si è modificata a causa di un processo chimico: prima di diventare solido era come una goccia non congelata, cioè liquido. Allo stesso modo, la medicina ha cambiato la sua composizione chimica con l’aggiunta di altri componenti diventando rosso fuoco.
2) «Qâlû ištakat ‘inuhu faqultu lahum min kathrati al-qatli nâlaha al-wa¡bu» «Dissero, che il suo occhio si lamentò, io gli ho risposto: per via del massacro (lett: della tanta uccisione), (l’occhio) è stato colpito dalla malattia».
3) «ðumratuhâ min damâ fî al-na¡li šahidu ‘aÞiab» «Il suo colore rosso per via del sangue di chi ha ucciso e il sangue sulla punta ferrata (della spada) è una testimonianza stupefacente».
4) «Quindi gli cantò: “L’ammalato alle palpebre (è ammalato) senza motivo e colui che si è truccato non si è truccato».
5) «La sua bellezza si lamentò della bruttezza dei suoi comportamenti, quindi la vergogna si manifestò sulle sue guance».
Ciò che abbiamo presentato è un breve excursus su una delle perle più preziose che la Veneranda Biblioteca Ambrosiana custodisce con amore. Si tratta di una delle opere miniate più belle a disposizione del pubblico e degli studiosi. Ancora oggi, il Collegio dei Dottori dell’Ambrosiana custodisce con cura queste opere a cui, nel tempo, se ne sono aggiunte delle altre, non solo provenienti dal Nord Africa e dal Vicino Oriente, ma anche dall’Asia centrale e dall’Estremo Oriente. Lo studio delle lingue legato alla ricerca filologica e contenutistica delle antichità cristiane prosegue negli studi storici e filologici dei testi appartenenti ad altre tradizioni religiose ben oltre il bacino del Mediterraneo. Così dalla Cina, dal Giappone sono giunte delle opere interessanti e una notevole documentazione utile all’attività di ricerca dell’Accademia Ambrosiana, parte questa, con le più conosciute Biblioteca e Pinacoteca, della realtà culturale e artistica della Veneranda Biblioteca Ambrosiana. La neonata Classe di Studi Africani, che studia questo manoscritto come altri in lingua araba, copta, etiopica, armena e anche berbera, si inserisce in un quadro di lavoro di ricerca filologica con la precisa ambizione di voler approfondire lo studio storico e di attualità del mondo culturale mediorientale e africano, prendendo in esame le aree nord africane e coinvolgendo quelle sub-sahariane e oltre. Con lo spirito proprio del dialogo tra i popoli e le culture, si potranno promuovere dei lavori di ricerca interdisciplinari che coinvolgeranno le altre Classi di studio dell’Accademia, nello spirito proprio di Federico Borromeo che ha voluto creare questo luogo aprendolo alla comunicazione del sapere, oltre le frontiere geografiche, ideologiche e religiose. Non è retorico il ricordare che lo studio dei manoscritti appartenenti alla tradizione cristiana orientale, come a qualsiasi altra tradizione religiosa, è un vero e proprio contributo alla preservazione e valorizzazione di un patrimonio dell’umanità. La sua custodia e la sua preservazione è un nostro compito fondamentale, in quanto studiosi, soprattutto in quanto estimatori del loro inestimabile valore culturale, scientifico e religioso.
Il Codice Atlantico abbraccia l’intera vita intellettuale dell’artista, per un periodo di oltre quarant’anni, dal 1478 al 1519.
In esso si trovano i contributi di questo “homo sanza lettere” dedicati alla meccanica, alla matematica, all’astronomia, alla botanica, alla geografia, alla anatomia e alla fisica: i primi studi per il rinnovamento urbanistico di Milano, il tardo progetto di un nuovo palazzo Medici a Firenze, schizzi e bozzetti per opere artistiche, come l’Adorazione dei Magi, la Leda, la Battaglia di Anghiari, e persino l’ideazione di automi. Dopo un storia avventurosa e tormentata, dall’ultimo restauro avvenuto nel 1968 ad opera del laboratorio di Grottaferrata, il Codice Atlantico riposa nella Sala del Tesoro della Biblioteca Ambrosiana.
Estratto della tesi di dottorato in Missiologia di p. Paolo Nicelli, PIME. Titolo: “La riforma islamica a confronto con la modernità: dialogo tra lslâm e Occidente”, pp. 60-66; 104. 120-125.
Autore:
Dr. Padre Paolo Nicelli, PIME Dottore della Biblioteca Ambrosiana Segretario della Classe di Studi Africani Professore di Teologia Dogmatica, Missiologia, Studi Arabi e Islamistica.
1- La scuola teologica della Mu‘tazila e l’utilizzo delle discipline razionali
Considerata la prima scuola di teologia musulmana (‘ilm al-kalâm),(1) organicamente strutturata, la scuola della Mu‘tazila(2 )fu fondata a Ba¡ra all’inizio del II secolo (H.) da Wâ¡il ibn ‘A¥â’ e ‘Amr ibn ‘Obayd, conoscendo il suo periodo di maggior splendore durante il III secolo (H.), con i grandi pensatori quali, Abû Hodhayl al-‘Allâf e Nazzâm. In poco tempo, grazie all’insegnamento dei mu‘taziliti, la teologia della Mu‘tazila raggiunse quasi tutte le regioni dell’Impero ‘abbâsside. Questa scuola si distinse per l’audacia della sua dottrina e per il coraggio dei suoi discepoli nel confrontarsi con l’influenza delle culture dei popoli conquistati e nel cercare di ridurre la frammentazione tra le sette musulmane.(3) Proprio per questo motivo, i mu‘taziliti cercarono l’appoggio dell’autorità costituita, i califfi, al fine di imporre il loro metodo d’interpretazione della tradizione, ottenendo però la forte opposizione del popolo e dei tradizionalisti che li costrinse, dopo un breve periodo di splendore, ad essere condannati da quegli stessi califfi da cui essi cercavano il sostegno. Paladina delle tesi tradizionaliste fu la scuola teologica aš‘arita,(4) che, rivale della Mu‘tazila, rifiutò le tesi di quest’ultima dichiarandole innovazioni (bid‘a), e discreditando la sua dottrina fino al punto di considerarla una vera e propria eresia, contraria alla tradizione islamica.
Sono tanti gli storici che si sono cimentati nella narrazione della Sua vita che, benché atrocemente martirizzata, è stata sempre in odore di santità. Fra i molti che hanno scritto su San TRIFONE (Cardinale, Baronio, Ottavio, Gaetano, Teodorico, Ruinari, Mazzocchi), ho scelto di trarre informazioni da un libro edito nel 1995 ed intitolato: “La storia di San TRIFONE“, scritta da Mons. Luigi Stangarone di Adelfia (Ba), valente ed attendibile storico dello stesso paese che presentò la sua opera in occasione della Festa Patronale dello stesso anno (1995). Altre informazioni sono state tratte dal libretto “San Trifone e la Sua Cattedrale” di Don Anton Belan da Cattaro.
SAN TRIFONE nacque nel 232 circa in Pirgia nella città di Kampsada (oggi Iznir) nei pressi di Nicea (Lampsakos), provincia romana di Apamea. La regione si trovava sotto dominio romano dal 116 AD., in quel periodo Roma possedeva gran parte dell’Asia Minore. Kampsada era già un vescovado nel quarto secolo e l’attività svolta dagli abitanti era prevalentemente dedita all’agricoltura.
Oggi sono pochi i resti di Kampsada.
La vita di San Trifone si svolse sotto il papato di San Ponziano (230-235), Sant’Antero (235-236) e San Fabiano (236-250). Uno dei primi vescovi di Kampsada fu Partenio (quarto secolo), proclamato santo.
Un manoscritto Armeno riferisce che i genitori di Trifone erano Cristiani e diedero al loro bambino il nome diTriph, che nella radice etimologica significa “animo nobile”. In latino e in greco divenne successivamenteTryphon e nel diciassettesimo secolo l’arcivescovo Croato Andrija Zmajevic diede il nome slavo Tripun. Il padre di Trifone morì quando era bambino e l’intera attenzione per la sua educazione Cristiana fu curata dalla madre Eukaria. Nel Dicembre del 249 sino alla fine del 250 l’Imperatore Romano Decio emanò un decreto autorizzando la persecuzione dei Cattolici. Fu il settimo dai tempi di Nerone ed il primo che investì l’intero Impero Romano. Fu allora che Trifone, ancora giovane, fu martirizzato. Si racconta che per fuggire alla persecuzione i Cristiani, sia ragazzi che adulti, furono costretti a fare un’offerta di fronte alla statua dell’imperatore, spesso granelli di incenso.
Alcuni culti pagani furono vietati, ma il rifiuto di eseguirli portava al sequestro di tutti i possessi, all’arresto, ai lavori forzati, alle torture sino alla morte. Durante la gestione di Aquilino, prefetto di tutta l’Asia Minore, San Trifone fu preso dal suo luogo di nascita. Alla domanda “che cosa sei?”, Trifone rispose di essere “un Cristiano”. Dopo tre giorni di tortura che dovevano costringerlo a fare la sua offerta agli dei, Trifone fu decapitato. Il suo corpo fu inviato al suo luogo della nascita Kampsada, quindi portato a Costantinopoli e da lì a Cattaro.
Probabilmente il 2 febbraio è la data indicata del suo martirio, anche se pare che nei Calendari Napoletani marmorei, nei sinaxari di Costantinopoli, nei calendari russi e in qualcuno greco pre-datano il giorno del martirio di San Trifone al 1 Febbraio. Nel IX secolo il famoso martirologio benedettino dei martiri (Usuardi Martyrologium) e nel calendario di Cattaro, postdatano il martirio al 3 febbraio. Nel 1582 il Calendario Giuliano fu sostituito da quello Gregoriano, Papa Clemente VIII in un decreto del 17 settembre 1594 fissa il 3 febbraio giorno per la commemorazione di San Trifone nel vescovado di Cattaro. Oggi in Cattaro la commemorazione liturgica di San Trifone avviene anche il 10 novembre, mentre il 13 gennaio viene celebrato il trasferimento delle sue reliquie.
Il 10 novembre sarebbe invece il giorno della traslazione del suo corpo a Roma, ove fu deposto in una chiesetta a lui dedicata in Campo Marzio, nel sec. IX. Quella chiesetta, sede di parrocchia, fu designata come «stazione» del primo sabato di quaresima, indicazione tuttora riportata nei calendari liturgici della Chiesa romana. La chiesa di San TRIFONE in Campo Marzio fu distrutta nel sec. XVIII per allargare il convento degli Agostiniani annesso alla grandiosa chiesa di Sant’ Agostino, ove furono trasportati tutte le reliquie ed oggetti sacri prima esistenti nella chiesa di San TRIFONE. A Cerignola vi sono alcune reliquie di San TRIFONE, trasportate nel 1917. Le reliquie del nostro Patrono sono quelle conservate e venerate a Cattaro, in Dalmazia. Stavano per essere portate a Venezia, ma per una tempesta furono bloccate nell’809 a Cattaro e, in onore del Santo proclamato Patrono, venne in seguito eretta la Cattedrale. San Trifone, protettore di Cattaro, secondo alcune tradizioni è un santo giovinetto che compiva miracoli.
San Trifone in arte
Le vicende da cui Carpaccio trae ispirazione avvengono in Frigia, dove il giovane Trifone: guarisce un fanciullo morso da un serpente, un mercante caduto e calpestato da un cavallo che si rialza indenne, rende mansueto un cinghiale inferocito, viene soprattutto ricordato per la liberazione di una fanciulla indemoniata. L’imperatore Giordano chiama Trifone per far liberare dal diavolo la bella e intelligente figlia Giordana. Appena il giovane si avvicina alla principessa, il demonio la lascia e scappa tra grida rabbiose. L’imperatore chiede di poter vedere la bestia e Trifone lo accontenta.
La tela mostra un episodio dedicato a San Trifone, ovvero al suo miracolo più famoso, legato alla guarigione di Gordiana, figlia dell’imperatore Gordiano III, quando il santo aveva dodici anni. Essa era ossessionata da un demonio, che compare in forma di basilisco, un mostro fantastico con corpo leonino, ali di uccello, coda di rettile e testa asinina. La rappresentazione del demonio come basilisco, che non ha altri riferimenti iconografici nelle storie di Trifone, è legata all’identificazione del basilisco come “re dei serpenti” e quindi simbolo di Satana, ma anche alla simbologia dei peccati capitali: il drago (che compare nelle storie di san Giorgio), il leone (che compare in quelle di san Girolamo) e il basilisco, appunto. L’azione si svolge in una sorta di padiglione reale, retto da colonne e sollevato di alcuni gradini, dove il sovrano assiste impassibile al miracolo, a fianco della figlia, la cui fisionomia ricorda le Madonne dalla boccuccia stretta di Perugino. Sono citazioni all’antica i profili sulle specchiature marmoree della decorazione del fianco dell’edificio in primo piano. Assiste alla scena una variegata folla, ma ancor più brulicante, come tipico nelle opere di Carpaccio, è l’umanità in secondo piano, affacciata alle finestre e ai balconi delle architetture della città di sfondo, che ricorda da vicino Venezia, soprattutto nei ponti arcuati che passano i canali. In lontananza si vedono un edificio a pianta circolare e un alto campanile.
Vittore Carpaccio, San Trifone ammansisce il basilisco,1507,Scuola di San Giorgio dei Schiavoni, Venezia
In nome di Dio, Trifone comanda alla bestia di mostrarsi e questa appare sotto forma di “un cane nero con occhi del fuoco” sostenendo che il suo compito è quello di impossessarsi di coloro che non conoscono la religione Cristiana, perché si sottomettono più facilmente al volere del demonio. Sentendo questo, l’imperatore decide di convertirsi.
San Trifone in un mosaico di Monreale
Erano anni di relativa pace per i cristiani finché sul trono di Roma salì nel 249 il crudelissimo Traiano Decio che riprese la lotta sanguinosa contro i cristiani emanando severissimi decreti: lo zelo apostolico di S. Trifone, la sua illuminata predicazione incontrarono l’opposizione dei persecutori così, quando al Prefetto di Oriente, Aquilino, giunse notizia che S. Trifone disprezzava gli editti imperiali esortando i cristiani alla fedeltà in Cristo sino alla morte, fu arrestato e portato in Nicea: “Caricato di catene, come un malfattore, dopo inauditi maltrattamenti inflitti durante il viaggio” affrontò il Prefetto con indicibile serenità, rifiutando di rinnegare Cristo ben sapendo i tormenti a cui andava incontro: lo legarono ad un palo e gli strapparono la carne con pettini di ferro; Trifone non parlava nonostante Aquilino quasi lo supplicasse l’abiura: “quasi ignudo, legato come un assassino, spinto per le vie sassose e ghiacciate… fu legato alla coda di due cavalli e così, sbattuto, tutto lacero e pesto, lasciando tra le spine e i sassi brandelli della sua virginia carne… il Prefetto ordinò che gli si perforassero i piedi con due acutissimi chiodi e così, ignudo lo menassero per le vie di Nicea battendolo senza alcuna misura”; gli bruciarono i fianchi, fu battuto aspramente e, dopo aver visto morire fra i tormenti il giovane Respicio che gli si era avvicinato, dopo un’ultima giornata di sofferenze incredibili, fu affidato al carnefice che tagliò con la spada il suo corpo “biondo e ricciuto”.
Per volere dello stesso Santo le sue spoglie, prima sepolte in Nicea, furono trasferite a Kampsade il 5 maggio del 254, dopo la morte di Decio; quando la fede delle colonie orientali cominciò ad incrinarsi, fu disposta la traslazione del corpo a Roma: “le reliquie furono deposte con quelle della vergine e martire Ninfa e di Respicio in un’urna sotto l’altare maggiore della chiesa dell’Ospedale di S. Spirito“.
processione con il quadro di San Trifone, Adelfia
Il Culto di San Trifone a Cerignola (Fg)
(tratto da http://www.parrocchiasantrifone.it/index.php/san-trifone-martire/culto)
Nell’anno 1595, e seguenti, tutta la Puglia sentiva il flagello dei bruchi: in tale circostanza capitò nel nostro territorio(di Cerignola) un venerando prete greco “religioso dell’Ordine di S. Basilio”, che incitò il Clero e il Popolo a ricorrere devotamente a S. Trifone: egli stesso, percorrendo le campagne, invocando il Santo allontanava e distruggeva le locuste cosicchè tutti riconobbero la validissima protezione del giovane martire e unanimamente lo acclamarono e benedissero quale speciale Patrono e Protettore di Cerignola. L’Arciprete del tempo, D. Giovanni Giacomo De Martinis, dedicò al Santo la cappella, che si trova dietro l’attuale sacrestia del Reverendissimo Capitolo Cattedrale (La Cappella successivamente dedicata a S. Rita da Cascia, si trova nella ex Chiesa Madre ed è la prima sulla parete di destra della navata maggiore), collocandovi un quadro con l’immagine dello stesso che in mezzo ai campi, con l’aspersorio in mano benedice i terreni scacciandone l’infausto flagello: per accrescere la devozione del popolo, finchè visse, celebrò sull’altare, ivi eretto, la Santa Messa.
Ma il tempo e l’amara ingratitudine cercano di oscurare questo insigne favore del Cielo, quando un vescovo pio, Mons. Giovanni Sodo, si accorge che questa popolazione comincia a perdere il ricordo delle sante memorie e per richiamare i fedeli alle tradizioni religiose degli avi pensa di rimettere in onore il culto del Martire glorioso, di ridare a Cerignola il Patrono dei suoi campi.
Da Roma, per eccezionale e benigna concessione del Santo Padre Benedetto XV, ed in seguito a non facili pratiche dal Nostro amato Pastore felicemente esperite, le preziose Reliquie del corpo di S. Trifone furono trasferite nella nostra Cattedrale il 16 maggio 1917. Fu proprio Mons. Sodo che commissionò la statua del giovane martire: la stessa, in cartone romano, veniva portata solennemente in processione almeno fino agli anni trenta. Nella Cattedrale Tonti durante il Triduo e la festa la statua era collocata alla destra dell’Altare maggiore: per l’occasione venivano distribuiti il “pane di S. Trifone” e una candelina. Due anni dopo, sotto il ministero pastorale dello stesso Mons. Sodo, la nobildonna Clementina De Nittis Gatti donò una artistica e pregevole urna di bronzo e cristallo, nella quale furono esposte le sacre reliquie del Martire: sulla fascia basale corre la seguente iscrizione “CORPUS S. TRJPHONIS M(ARTYRIS) PATR(ONI) CERIN(IOLENSIS) ET SOC(II) CAPSULAM HANC AERE SUO FECIT D(OMI)NA CLEMENTINA GATTI DE NITTIS ANNO MCMXIX – AUSPICE IOANNE SODO EPISCOPO” (Per il corpo di San Trifone Martire, Patrono consociato di Cerignola, donna Clementina Gatti – De Nittis fece preparare a proprie spese questa urna nell’anno 1919 con l’approvazione del Vescovo Giovanni Sodo). La predetta urna è stata trasferita, nel 1934, sotto l’Altare della Confessione del medesimo Duomo Tonti, dove tutt’ora è collocata.
A spese dell’Università, nel primo giorno di febbraio, si solennizzava ne’ tempi andati un festeggiamento assai devoto e solenne, che ora è andato in disuso, in onore del glorioso Martire S. Trifon, Protettore minore della Città, ma patrono principale delle campagne, sotto il cui patrocinio stanno i nostri campi. Nel giorno festivo enunciato, i Decurioni con il Sindaco intervenivano nella Cattedrale, ed accoppiavano agli effetti religiosi del cuore una oblazione di moltissimi ceri al Reverendissimo Capitolo.
Ed il 1° febbraio è rimasto per tradizione, da quel lontano 1595 a tutt’oggi, il giorno dedicato alla celebrazione della Festa del nostro Protettore S. Trifone. Attesta la devozione al Santo anche la presenza di una Sua effige impressa insieme a quelle dei Compatroni S. Pietro Ap. e Maria SS.ma di Ripalta, e a quella del SS. Crocifisso sulla campana grande del Duomo Tonti.
Con decreto vescovile del 23 novembre 1980, Mons. Mario Di Lieto istituiva la Parrocchia, nel nuovo quartiere residenziale “Fornaci”, intitolata a S. Trifone Martire. La stessa, affidata alle cure dei PP. Salesiani e senza una sede stabile, dal settembre del 1987 fu retta da Don Tommaso Dente che provvide a dotarla di una Cappella, inaugurata la prima domenica di Avvento di quell’anno anche se le celebrazioni sacramentali continuavano nella Chiesa di Cristo Re. Dal 21 febbraio 1988 Don Domenico Carbone ne fu l’animatore pastorale divenendone Parroco nel maggio del 1989. Nel gennaio del 1991 lo stesso chiese ed ottenne dal Parroco dell’antica Chiesa di Cristo Re la statua del Santo: l’8 dicembre 1991 è stata ufficialmente inaugurata da Mons. Giovanni Battista Pichierri, nostro vescovo, la nuova sede, in un prefabbricato dello stesso rione.
Nei pressi del prefabbricato sorse il cantiere per la costruzione della nuova chiesa, realizzata tra il 1993 ed il 1996. Nella stessa chiesa, fin dal febbraio 1995, è stata ripristinata, dopo circa sessant’anni, la processione in onore del titolare parrocchiale, che registra un’ampia partecipazione di fedeli. Terminata la costruzione della nuova struttura, il 7 giugno 1997 il vescovo Picherri, durante una solenne concelebrazione eucaristica, con i sacerdoti della diocesi, presenti le autorità civili e moltissimi fedeli, celebrò il rito della dedicazione della nuova chiesa parrocchiale intitolandola a San Trifone Martire. La nuova struttura, il 29 maggio 1999, con autorizzazione del Capitolo Cattedrale, ha accolto festosa alcune delle reliquie del santo, martire della Frigia.
Trifone Cellamaro
bibliotecario presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana