POLITICA E FILOSOFIA NEL PARADISO DANTESCO

Loredana Fabbri

“Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, /

tutta tua vision fa manifesta; /

e lascia pur grattar dov’è la rogna.”

(Dante Alighieri, Paradiso, XVII, vv. 127/129.)

A don Franco, amico fraterno.

Angelo Pietrasanta, Ritratto di Dante, Veneranda Biblioteca/Pinacoteca Ambrosiana, Milano

PREMESSA

Questo modesto contributo nasce in prospettiva del Settecentenario della morte di Dante, ma vogliamo precisare che quello che abbiamo scritto è in qualità di lettore appassionato della materia, che non può vantarsi di essere specialista di studi danteschi e, tantomeno, della filosofia del Sommo Poeta, con il quale abbiamo solo l’onore di essere corregionali.

Trattare l’ideologia politica e il pensiero filosofico di Dante Alighieri comporta la necessità di una pur rapida carrellata su un periodo più ampio sia da un punto di vista storico sia da un punto di vista filosofico, per arrivare al tempo in cui operò il Sommo Poeta: una stagione speculativa molto ricca, che diede motivo di grande apertura dialogica su stimolanti temi intorno alle verità di fede e all’uso della ragione e ad affascinati argomenti sull’esistenza umana.

<<Due fine, adun que, cui tendere l’ineffabile Provvidenza pose innanzi all’uomo: vale a dire la beatitudine di questa vita, consistente nell’esplicazione delle proprie facoltà e raffigurata nel paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, consistente nel godimento della visione di Dio, cui la virtù propria dell’uomo non può giungere senza il soccorso del lume divino, e adombrata nel paradiso celeste. A queste [due] beatitudini, come a [due] conclusioni diverse, conviene arrivare con procedimenti diversi. Alla prima invero noi perveniamo per mezzo delle dottrine filosofiche, purché le sieguiamo praticando le virtù morali e quelle intellettuali; alla seconda invece giungiamo per mezzo degl’insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo praticando le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità. […] Per questo fu necessario all’uomo una duplice guida corrispondente al duplice fine: cioè il sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita eterna per mezzo delle dottrine rivelate; e l’Imperatore, il quale indirizzasse il genere umano alla felicità temporale per mezzo degli insegnamenti della filosofia>>.1

Così scrive Dante nel “De Monarchia”, interpretando il pensiero comune dell’uomo medievale. L’opera, in tre libri, è scritta in latino, ciò spiega che trattando un problema universale, era rivolta ad un pubblico di potenti e di filosofi anche non italiani. Il procedimento è quello scolastico, ma nella rigidezza degli argomenti e nella scientificità dell’analisi non è estranea la passione del Poeta, che non può limitarsi ad un’esposizione oggettiva, perché troppo coinvolto moralmente e sentimentalmente dal tema trattato. Nel “De Monarchia” Dante espone la sua teoria sull’ordinamento della società umana, analizzando tre punti basilari: che cosa sia la monarchia e se sia necessaria alla pace del mondo; se a ragione il popolo romano se ne sia assunto l’ufficio; se l’autorità dell’imperatore dipenda direttamente da Dio o da un suo vicario, ossia dal papa.

Dimostrata la necessità dell’Impero e il legittimo diritto dei Romani ad esercitare l’ufficio, nel terzo libro il Maestro fiorentino affronta il problema più importante ed attuale, per i suoi tempi e per il Medioevo, quello del rapporto che deve intercorrere tra l’Imperatore e il Pontefice e della loro diretta dipendenza da Dio. Tali tesi hanno alla base alcune affermazioni molto importanti, come quelle che mettono in evidenza i conflitti dottrinali e morali propri del tempo e tra i quali anche Dante si dibatteva, non riuscendo a conciliare i principi religiosi alle urgenti esigenze di una nuova realtà storica.

L’Alighieri insiste sull’asserzione che due sono le nature dell’uomo, quella corruttibile (corpo) e quella incorruttibile (anima), quindi anche il suo fine è duplice: la felicità terrena e quella celeste, ponendo in tal modo una pericolosa, dal punto di vista della fede, fenditura nei due compiti dell’uomo, pervenendo quasi a postulare un’autonomia dell’attività e della felicità del genere umano nel mondo; chiaramente da questa argomentazione deriva quella dell’assoluta autonomia dell’Impero, cui Dio avrebbe assegnato un compito particolare e indipendente da quello della Chiesa, anche se collegato con esso.

Dante afferma anche l’illegalità della donazione di Costantino, la cui falsità documentaria sarà dimostrata un secolo più tardi, che ha dato inizio al potere temporale dei papi, poiché l’Imperatore non aveva il diritto di alienare ciò che per volontà divina era di sua pertinenza, come un’usurpazione deve essere considerata anche l’incoronazione di Carlo Magno per opera di Leone III, avendo l’Imperatore imposto al Papa una facoltà che non gli spettava.

Dante non accettava le tesi regaliste di Filippo IV di Francia (Filippo il Bello), ma non accettava nemmeno il curialismo teocratico di Bonifacio VIII: sognava un’età, storicamente mai esistita, dove i singoli Stati avrebbero accettato la soggezione all’Impero, nel rispetto della loro autonomia; la Chiesa si sarebbe presa cura solo dello spirituale e l’Imperatore avrebbe governato con saggezza il mondo, mantenendolo nella pace e nella giustizia, consentendo ad ogni uomo il libero esercizio delle proprie facoltà. Una visione nettamente utopistica e irreale, una visione in cui la tesi medievale della “reductio ad unum” e della disposizione piramidale della società erano ormai solo un “rifugio” per uno stato d’animo ed una inquietudine di pensiero, frutto della situazione storica in cui si trovava l’Italia e l’Occidente nei primi anni del secolo XIV.2

Nelle pagine conclusive del trattato, Dante, forse preoccupato delle possibili reazioni dell’autorità papale a una tesi che indeboliva ogni pretesa teocratica, sottolineava il dovere dell’Imperatore di essere riverente nei confronti del Papa, essendo l’autorità spirituale superiore in qualità a quella temporale. Queste tesi procurarono all’opera l’accusa di eresia e nel 1329 fu bruciata pubblicamente per ordine del Cardinale Bertrando del Poggetto, finendo più tardi nell’indice dei libri proibiti, dove rimase fino al 1881.

Nella società medievale, la Chiesa e la vita religiosa erano importantissime, poiché sul Cristianesimo si basavano le teorie politiche ed economiche; le regole della vita quotidiana, scandite dalle ore delle preghiere, dalle feste religiose, dai precetti delle Sacre Scritture. Da un punto di vista culturale, la Chiesa di Roma fu il tramite della cultura greco-romana con quelle del tempo e in cui si fusero le diverse culture della futura Europa, la sua capillare diffusione nella società e nel territorio fece sì che essa potesse esercitare una forte influenza sui poteri laici e una grande autorità morale sulle popolazioni, grazie ad un’enorme potenza politica ed economica.

Fu proprio nel Medioevo che il Cristianesimo occidentale acquisì una propria fisionomia e la Chiesa si organizzò come istituzione unitaria, provvista di una gerarchia facente capo al Vescovo di Roma: il Pontefice. Anche la religione cattolica subì, in tale periodo, una profonda elaborazione, estendendosi approfonditamente in tutti i livelli della popolazione, assumendo conformazioni diverse secondo gli ambienti sociali: tutte queste trasformazioni accadevano nei secoli XI e XII, anche se prima di questo periodo, le donazioni e i lasciti di persone potenti avevano reso le chiese e i monasteri delle grandi proprietà fondiarie; gli intellettuali ecclesiastici, detentori della cultura e del sapere, erano stati insigni consiglieri dei re germanici; l’evangelizzazione dei territori conquistati alla cristianità aveva accordato al clero ampia autorità e grande potenza. In tal modo il mondo ecclesiastico occidentale si era allontanato sempre più dalla dottrina, dalla liturgia e dalla sensibilità religiosa dell’Impero cristiano orientale, dando luogo a molte tensioni, che nei secoli VIII e IX divisero i Cristiani d’Occidente da quelli d’Oriente, in particolar modo sulle questioni del Credo e sul culto delle immagini sacre.3

Nella Chiesa occidentale le carriere ecclesiastiche erano prerogativa di membri dell’aristocrazia fondiaria e guerriera, i laici più potenti fondavano chiese e monasteri, che concedevano ad ecclesiastici loro fedeli. Al tempo degli Ottoni, il Vescovo di Roma, pur rivendicando il primato sulla cristianità, era subordinato all’Imperatore, il quale interveniva direttamente nella scelta dei papi, la cui elezione era condotta dai nobili locali e, nella maggior parte dei casi, frutto di bassi maneggi, che le gerarchie ecclesiastiche condividevano, insieme con la ricchezza, lo stile di vita e gli interessi politici ed economici, con le classi laiche dominanti.4

Il clero, ossia coloro che avrebbero dovuto dare esempio di rettitudine partecipavano con i laici negli interessi terreni, conducendo spesso una vita deplorevole, perdendo prestigio e rispettabilità: a causa di tutto ciò, dall’inizio del secolo XI, si sviluppò un movimento di varie tendenze atto alla trasformazione di tale realtà che fu detta “Riforma gregoriana”, da Gregorio VII, in quanto prevalse l’affermazione del papa relativa al primato della Sede romana e dell’organizzazione della Chiesa attorno a Roma, (nel 1073 moriva Alessandro II, come suo successore fu eletto Ildebrando di Soana, che salì al pontificato col nome di Gregorio VII, uomo dal temperamento intransigente (inflessibile) e profondamente cosciente di possedere un potere soprannaturale, che gli imponeva non solo di essere guida universale della cristianità, ma anche di combattere per la verità e per la giustizia, ciò non escludeva un’azione coordinata dell’Impero e del Papato, ma gli avvenimenti indussero il nuovo papa a mettere in primo piano il diritto divino, concesso da Cristo a Pietro e da Pietro tramandato al pontefice, ossia la giustizia. Ma Gregorio VII capì che la riforma della Chiesa non era possibile in collaborazione con re, principi, signori, anzi il fondamento della corruzione ecclesiastica fu individuato nel rapporto feudale che accostava la Chiesa all’Impero: da questo concetto ebbe avvio la “lotta per le investiture”, concepita come lotta per la libertà della Chiesa. In un Concilio tenuto a Roma, Gregorio VII, oltre a ribadire la condanna della simonia, del concubinato e la proibizione dell’investitura laica dei vescovati e delle abbazie, redasse il “Dictatus Papae”, in cui afferma che la Chiesa romana è stata fondata solo da Dio, che solo il pontefice romano ha diritto al titolo di universale ed ha il potere di nominare, deporre e trasferire i vescovi, di deporre l’imperatore, di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà verso i principi ingiusti, senza bisogno di convocare sinodi; la Chiesa romana è infallibile e chi contraddice questa affermazione non deve essere considerato cattolico.5

Grande importanza, in seno di questa riforma, ebbe l’adesione della potentissima abbazia di Cluny, che fondò un nuovo ordine monastico legato direttamente al Papa e autonomo dal Vescovo. La Pataria, il movimento popolare sorto nell’ambito della Chiesa milanese, che si rivolse contro la simonia, il concubinato del clero e contro le ricchezze e la corruzione morale di coloro che ricoprivano alte cariche ecclesiastiche, soprattutto degli Arcivescovi di Milano, dove la corruzione del clero era molto profonda: esistevano addirittura delle tariffe che stabilivano il prezzo degli ordini sacri;6 a questa lotta sul piano morale, fu accostata anche quella politica per la libertà della Chiesa, soprattutto per l’indipendenza del papa dall’imperatore e dei nobili romani, per i vescovi di gradimento imperiale, per le cariche ecclesiastiche dei potenti laici.

Il papa, in quanto al centro di un’organizzazione che si proclamava universale, si riteneva superiore ad ogni altro potere terreno e la maggiore autorità esistente, dette luogo alla teocrazia orientata verso una vera e propria monarchia papale, che fu la causa del definitivo distacco dalla Chiesa orientale: con la scomunica reciproca dei delegati del Pontefice e del Patriarca di Costantinopoli (1054) si ebbe lo scisma tra i Cristiani occidentali e quelli orientali e una decisa competizione tra le due Chiese per l’evangelizzazione dei popoli slavi.7

Nel secolo XIII, quando la teocrazia raggiunse il suo apogeo, ci fu una ripresa del movimento riformatore, rinvigorito da nuovi movimenti nati nei ceti urbani, influenzati da quelli dei “patarini”, che si ispiravano alla semplicità evangelica, condannando la ricchezza e la potenza della Chiesa: nella vita di Cristo, narrata dai Vangeli, trovavano l’esempio di vita umile e il rifiuto della ricchezza terrena, tutto ciò sfociò nella tendenza a imitare tale modello e alla diffusione della parola evangelica senza la mediazione del clero ufficiale, questi movimenti popolari ebbero ovunque un grande sviluppo con peculiarità più o meno radicali.

La Chiesa, saldamente gerarchizzata, recuperò all’obbedienza alcuni di questi raggruppamenti, come una parte del movimento francescano, che formarono i nuovi ordini conventuali dei mendicanti, così detti perché vivevano della carità dei fedeli e non possedevano niente, come era tradizione dei monaci; altri invece che non accettarono la trasformazione in ordine monastico come un’ala del movimento Francescano, quello di Valdo, di Dolcino, degli Albigesi etc., furono considerati eretici, anche se erano lontani dalle grandi eresie dottrinali della fase iniziale del Cristianesimo, ma si limitavano a condannare la potenza politica ed economica, la gerarchia della Chiesa e la disciplina del clero. I nuovi eretici furono oggetto, insieme con gli Ebrei e i Musulmani, di persecuzioni da parte di una nuova struttura giudiziaria: l’Inquisizione, facente capo direttamente a Roma, con il compito di sorvegliare sull’ortodossia e contro ogni forma di contestazione dell’autorità della Chiesa romana.8

Una prima sistemazione del pensiero politico dantesco è già delineata nel “Convivio”: l’esaltazione dell’Impero, voluto da Dio, per mezzo del quale la società degli uomini amanti della virtù, può pervenire ad una vita terrena ordinata e perfetta. L’opera, è scritta da Dante tra il 1304 e il 1307, ovvero nei primi anni dell’esilio, dopo l’esperienza sconvolgente della lotta politica e di una società lacerata da odio e da passioni. Il “Convivio” doveva essere composto da quindici libri, ma fu interrotto al termine del quarto trattato:il Poeta, mosso da una passione intellettuale e da un grande impegno morale, lo rivolge alla vita di tutti, che con precise proposte, intende mondare e migliorare, contribuendo ad un arricchimento culturale di un pubblico nuovo composto da signori e nobildonne, che non potevano accostarsi alle fonti prime della cultura per l’ignoranza del latino. Un pubblico, quindi, di laici, ma di aristocratici, consono alla natura orgogliosa e altezzosamente restia al volgo di Dante. In quest’opera troviamo anche l’asserzione che il desiderio di sapere è connaturato all’uomo, poiché la perfezione della sua natura consiste nell’esplicazione della capacità razionale che lo rende simile a Dio, facendo di se stesso l’apostolo della verità e della cultura come mezzi per rendere più umana la vita associata.9

Il “De monarchia” è un’opera scritta tra il 1312 e il 1313, la terza cantica della “Commedia”, il Paradiso, fu scritta da Dante tra il 1316 e 1321, quindi tra le due opere c’è un arco temporale che va da un minimo di tre ad un massimo di nove anni, ma l’impressione che ne deriva è quella che il Poeta le abbia scritte in tempi molto lontani l’una dall’altra: la prima con la pari dignità e la reciproca autonomia dei poteri imperiale e papale rispecchia notevolmente il periodo storico in cui fu scritta.

La morte di Beatrice, nel 1290, dà inizio ad un periodo molto travagliato e complesso della vita di Dante e che segnerà il suo inserimento in un contesto culturale più ampio e nella vita politica di Firenze: nel 1289 aveva preso parte nella battaglia di Campaldino e, sempre nello stesso anno, alla resa del castello di Caprona, che l’esercito fiorentino tolse ai Pisani. Ma la sua partecipazione alla vita politica si ebbe nel 1295, con l’emendamento apportato agli “Ordinamenti di Giustizia” di Giano della Bella, che consentì la partecipazione alle cariche pubbliche a tutti coloro che fossero iscritti a una Corporazione d’arte e mestieri, Dante s’iscrisse a quella dei Medici e degli Speziali, dando inizio ad una rapida e brillante carriera politica che, nel 1300, lo portò alla suprema carica di Priore.


Giuseppe Bertini, Vetrata dantesca dettaglio, Pinacoteca Ambrosiana Milano

Alle lotte tumultuose di Firenze, divisa tra la fazione dei Guelfi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi e quella dei Ghibellini, capeggiati dalla famiglia dei Donati, si mischiavano odio, interessi personali e ambizioni private; in questa situazione s’introdusse papa Bonifacio VIII, il quale mirava ad estendere il suo potere, aiutato dai Neri, su tutta la Toscana. Dante si schierò dalla parte dei Bianchi, che intendevano conservare inalterati gli ordinamenti comunali e si oppose con fermezza ai disegni espansionistici del Pontefice. Tra il mese di maggio del 1300 e quello di novembre del 1301, l’Alighieri ebbe un ruolo importante nelle turbolente vicende che videro protagonista la città fiorentina: collaborò al benessere e alla pace di Firenze evitando interessi particolaristici, si oppose ad uno stanziamento in favore di Carlo d’Angiò, sancì la condanna al confino dei capi delle due fazioni politiche, tra cui vi era anche il Cavalcanti, ma soprattutto si oppose con grande fermezza alle richieste di Bonifacio VIII.

Nell’ottobre del 1301, Dante fu inviato a Roma, come membro di un’ambasceria al Pontefice e, sulla via del ritorno, presso Siena (gennaio 1302), apprese la sentenza della sua condanna in contumacia all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, al confino per due anni, ad azioni ostili al Papa e alla pace di Firenze, ad una multa e all’accusa di baratteria, comminando l’esilio anche ai figli appena avessero raggiunto l’età di quattordici anni: mentre l’Alighieri si trovava a Roma, con violenze e saccheggi, Corso Donati e i Neri avevano conquistato il potere del Comune fiorentino. Non essendosi Dante presentato a scolparsi, la pena gli fu commutata in quella capitale: cominciò così un esilio che ebbe fine solo con la morte nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 a Ravenna.10

Particolarmente importanti nella sua vita di esule furono gli anni della discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo, eletto Imperatore nel 1308, la cui volontà sembrava quella di interrompere la vacanza imperiale per affermare la propria autorità in Italia, ciò dette al Poeta la grande speranza di poter attuare il suo ideale (egli scrisse ai principi e ai popoli italiani, ferventi epistole, con le quali cercava di favorire l’impresa dell’Imperatore), di cui parlerà nel “De Monarchia” e di cui sarà permeata tutta la “Commedia”, ma nel 1313 Arrigo VII moriva in Italia senza essere riuscito a restaurare l’autorità imperiale: così crollava anche l’ultima speranza personale di Dante di poter rientrare nella sua città e, più in generale, la restaurazione dell’autorità politica imperiale nella Penisola, che il Poeta considerava indispensabile per la rinascita morale, civile e sociale.

A partire dal 1306 e conclusa verso la fine della sua vita, il Maestro scrisse la “Commedia”, animata dal dolore e, insieme, dalla speranza di un riscatto del mondo: tra il “De Monarchia” e la “Commedia” sembra essere una certa contraddizione nel pensiero politico di Dante, ma gli studiosi sono concordi nel sostenere che non si tratta di un cambiamento del pensiero politico, piuttosto una differenza di punti di vista: ancora pieno di speranza nella prima opera, ma quando tutte le speranze politiche e morali cadono, all’Esule fiorentino non resta che concentrare la sua aspettativa di un riscatto futuro sul piano spirituale, conseguentemente la sua aspettativa si orienta sulla Chiesa, non come istituzione temporale, ma come depositaria della Verità di fede, annunziatrice del Regno di Dio, che comincia su questo mondo per poi completarsi e realizzarsi nell’altro, ossia quello della Città celeste.11

Nel Paradiso, Dante rifiuta il presente ingiustificabile e depravato e mitizza il passato, prima un passato remoto, in cui Giustiniano, il quale rappresenta agli occhi di Dante e del Medioevo il modello perfetto dell’Imperatore cristiano, conferisce al suo Impero lo strumento principale di governo: la giustizia e la legge, <<Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, / a Dio per grazia piacque di ispirami / l’altro lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi; / e al mio Belisar commendai l’armi, / cui la destra del ciel fu sì congiunta, / che segno fu ch’i’ dovessi posarmi>>:12 Giustiniano non appena si avviò per la strada che la Chiesa gli aveva indicato, Dio gli concesse la grazia dell’ispirazione per la grande impresa del “Corpus Iuris”, che riordinò e codificò tutto il diritto pubblico e privato di Roma, dedicandosi completamente a questa impresa e affidando quelle militari al suo generale Bellisario, cui la potenza celeste fu così propizia che lo persuase ad applicarsi esclusivamente ad opere di pace. Quasi tutto il VI canto del Paradiso è dedicato alla rievocazione della storia provvidenziale di Roma, che l’Imperatore Giustiniano descrive partendo dalle sue origini troiane per arrivare a Carlo Magno, per confermarne la sacralità e la provvidenzialità, soffermandosi particolarmente a parlare delle imprese di Cesare e Augusto, per giungere al momento centrale della storia dell’umanità e della redenzione, con la morte di Cristo sotto l’Impero di Tiberio, chiudendo poi l’argomento con l’invettiva rivolta contro i Ghibellini e i Guelfi, colpevoli i primi di traviare il significato del potere imperiale, compiendo ingiustizie motivandole dietro il segno dell’aquila; i secondi ancora più colpevoli, poiché il loro contrapporre all’Impero un’altra forza politica mette in crisi l’intera struttura sociale e culturale del Medioevo: <<Faccian li Ghibellin, faccian lor arte / sott’altro segno, ché mal segue quello / sempre chi la giustizia a lui diperte; / e non l’abbatta esto Carlo novello / coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli / ch’a più alto leon trasse lo vello>>.13

Successivamente, nel canto XV della terza cantica, Dante, tramite il suo trisavolo Cacciaguida, immagina un tempo felice, in cui vi era concordia tra Impero e Chiesa nel guidare l’umanità nel suo duplice destino: la felicità su questa terra e la beatitudine eterna. Le parole appassionate e nostalgiche che il Poeta mette in bocca al trisavolo, alter ego di se stesso, ci raccontano il rimpianto per un mondo che non esiste più (o che, forse, non è mai esistito): l’idilliaca società fiorentina dei suoi tempi, dentro una cerchia di mura ancora ristretta, dove i cittadini vivevano una vita austera, onesta e pacifica, nominando alcuni di essi tra i più insigni e mettendone in risalto la vita morale e la sobrietà dei costumi, sottolineando l’ideologia politica conservatrice e filo imperiale.14 Più forte ed evidente risulta nel confronto il contrasto con la corrotta Firenze dei tempi di Dante: la convinzione che la decadenza della città sia causata dalla crescita, dall’avidità e dalla disonestà dei ceti mercantili e dalle lotte intestine, evidenziando la funzione fondamentale dell’Impero, difensore della pace e delle sopraffazioni della Chiesa; dell’ingiusta condanna subita e della predizione della punizione dei colpevoli. L’enunciazione dei luoghi principali dell’esilio; la forza messianica delle rivelazioni di Dante sul mondo ultraterreno dovranno deprecare i vizi dei potenti per ricondurli sulla giusta via e illuminare e guidare tutta l’umanità.15

Nel canto XVI, Cacciaguida risponde alle domande poste da Dante: sul tempo della sua nascita, sulla sua famiglia, sulla popolazione di Firenze antica e su quali erano le famiglie nobili di allora, l’avo, rispondendo alle prime tre domande, polemizza contro il mischiarsi delle genti, con la conseguente corruzione della razza, garanzia di virtù e tradizione; l’inurbamento (la coniazione del verbo inurbarsi è da attribuire a Dante) di tante famiglie del contado, eventi che danno luogo alla corruzione delle antiche tradizioni fiorentine e all’eccessivo ingrandimento della città. Rispondendo all’ultima domanda di Dante, l’avo premette che nominerà molte “schiatte” che nel Trecento si erano ormai estinte e il ricordo di antiche famiglie virtuose evoca per contrapposizione la disonestà di quelle contemporanee al Poeta. Il canto si chiude con l’immagine di Firenze antica, quando non aveva ancora subito sconfitte e non era lacerata dalle divisioni politiche, che iniziarono nel 1215 con la vendetta degli Amidei con l’uccisione di Buondelmente Buondelmonti, che dette luogo alla divisione della città in Guelfi e Ghibellini.16

Quali siano stati i sentimenti di Dante durante il suo esilio lo possiamo capire dalle parole che si fa dire dal suo trisavolo Cacciaguida nel diciassettesimo canto: <<Tu lascerai ogne cosa diletta / Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale>>.17 In questa terzina, molto intensa, possiamo capire l’angoscia dell’esule, costretto a lasciare la propria patria e le cose più care, il dolore di accettare il pane altrui, ossia quanto sia gravoso mettersi al servizio di vari signori, accettarne gli usi, elemosinare la vita di luogo in luogo.

La “Commedia” e, in particolare, il Paradiso riflettono la dimensione spirituale di Dante, in cui sono venute meno molte speranze: egli non è solo il pellegrino di un viaggio eccezionale, ma il giusto, il prescelto da Dio per ricordare all’uomo le vie del bene, egli può andare per i regni dell’oltretomba come, prima di lui, avevano fatto Enea e San Paolo, a lui è concesso di arrivare a mirare Dio per tornare in terra e raccontare agli uomini la sua straordinaria esperienza.18

E’ ancora nel XVII canto, in cui Dante, titubante per la paura, chiede al progenitore Cacciaguida spiegazioni sulle oscure predizioni che gli sono state fatte durante il suo viaggio nell’Inferno e nel Purgatorio, s’introduce così il tema centrale del canto e di tutta la “Commedia”: il destino del Poeta e il significato di questo suo eccezionale viaggio nell’oltretomba. Cacciaguida premette che gli avvenimenti terreni sono presenti da sempre in Dio, ma dipendono anche dal libero arbitrio, dalla possibilità dell’uomo di scegliere e decidere, di far accadere o no una cosa (riprendendo il concetto dalla “Summa Theologia” di San Tommaso ed anche dalla “Consolatione Philosophia” di Boezio).

Dante ci parla del libero arbitrio, nella terza cornice del Purgatorio (canto XVI), quando tra gli iracondi, incontra Marco Lombardo,19il quale spiega al Poeta che la corruzione dell’umanità dipende dal libero arbitrio di cui ogni uomo è dotato: <<Solea Roma, che ‘l buon mondo feo, / due soli aver, che l’una e l’altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo. / L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada / col pasturale, e l’un con l’altro insieme / per viva forza mal convien che vada>>.20 Il male, quindi, non dipende dall’influsso dei cieli, ma dalla volontà umana: gli uomini sanno distinguere il bene dal male e, per il libero arbitrio, sono liberi di fare le loro scelte.21 Dio aveva dato due guide per condurre gli uomini sulla retta via, le leggi vi sono, ma nessuno le esegue e le fa rispettare, il Papa, usurpando il potere che spetta all’Imperatore, è il primo a dare il cattivo esempio annientando l’autorità imperiale e unendo la spada con il pastorale, con conseguenze nefaste.

Questa affermazione, di Dante-Marco Lombardo, esprime sinteticamente il concetto politico dell’Alighieri, già manifestato nel “Convivio”, elaborato nel “De Monarchia”, nelle Epistole politiche e centrale nel Poema, concetto che Dante non abbandonerà nemmeno negli ultimi anni della sua vita, quando si sente promulgatore e profeta della nuova età e latore della buona novella agli uomini di buona volontà. << Per riportare l’umanità sulla retta strada Iddio ha voluto che il suo Figliuolo s’incarnasse e patisse il supplizio, di modo che l’Agnello di Dio ha potuto liberare il genere umano dal peccato originale […] La liberazione dal peccato originale non ha tuttavia consentito che il genere umano fosse immune dal cadere in colpa, poiché una certa infirmitas lo espone al continuo rischio di peccare; la tentazione di Eva s’è trasmessa a tutti i figli della carne. Ma la clemenza del Signore ha voluto fornire agli uomini, nessuno escluso purché sappia esserne degno, i mezzi per sfuggire alla tentazione, evitare il peccato, praticare la virtù, aspirare al gaudio eterno Gli strumenti creati da Dio furono due autorità, l’Impero e la Chiesa: rimedi contro l’infermità derivata dal peccato>>.22

Antonio Maria Cotti (1879), Dante deriso a Verona

Durante i primi anni dell’esilio, Dante ebbe frequenti rapporti con altri fuorusciti Bianchi per cercare il modo di poter rientrare in Firenze, ma furono rapporti molto difficili e con numerosi dissidi, i quali fecero allontanare il Poeta da quella “compagnia malvagia e scempia” e lo portò a “far parte per se stesso”, Cacciaguida consola Dante sugli aiuti e sulla solidarietà che riceverà durante il suo peregrinare in vari luoghi, soprattutto da Cangrande della Scala, anche se l’opinione del Poeta non fu sempre positiva nei confronti degli Scaligeri e sembra che durante la sua prima visita a Verona non sia stato accolto dalla famiglia come avrebbe desiderato.23 Nei versi 76-84 del canto XVII del Paradiso troviamo l’elogio del giovane Can Francesco della Scala, detto Cangrande, elogio che ha fatto pensare agli studiosi ad una identificazione tra questo personaggio ed il Veltro:24

Dante ebbe molta riconoscenza per la grande ospitalità offertagli dallo Scaligero, ma ebbe anche una profonda stima e un sincero affetto per questo personaggio, tanto che a lui dedicò la cantica del “Paradiso” e inviò la celeberrima epistola, importantissima per la comprensione e gli intenti della “Commedia”. L’epistola XIII fu inviata a Cangrande verso il 1317, preceduta da un “accessus ad autorem”, che, previsto dalla scuola medievale, costituiva l’introduzione, presentava sinteticamente l’argomento, l’autore, la forma di trattazione letteraria, il fine, la filosofia e il titolo. Dante si limita ad indicare come argomento trattato la condizione delle anime dopo la morte da un punto di vista letterale e la giustizia di Dio su quello allegorico, sviluppando però due punti molto importanti: la molteplicità di significati che il suo poema ha in comune con la Bibbia, collocandolo in tal modo nell’ambito della letteratura profetica, poiché afferma l’incombente intervento della giustizia divina nella storia umana e la scelta dello stile “comico”, alternato a quello “tragico”, uscendo dalle rigide posizioni scolastiche, forse per poter esprimere meglio la storia dell’umanità nella sua grandezza e nella sua miseria.25

Importantissima è la risposta finale di Cacciaguida, in cui possiamo cogliere il senso di Dante poeta e profeta e di tutta la sua opera: dovrà raccontare tutto quello che ha visto ed appreso senza preoccuparsi di coloro che si sentiranno coinvolti e offesi dai suoi versi, poiché la forza messianica delle sue rivelazioni avrà funzione redentrice per tutta l’umanità, quindi sarà necessario colpire i potenti responsabili della società decaduta e ricondurli sulla giusta strada di Cristo: <<”Coscïenza fusca / o de la propria o dell’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca. / Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, / tutta tua visïon fa manifesta; / e lascia pur gratta dov’è la rogna. / Che se la voce tua sarà molesta / nel primo giusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta. / Questo tuo grido farà come vento, / che le più alte cime più percuote; / e ciò non fa d’onor poco argomento. / Però ti son mostrate in queste rote, / nel monte e ne la valle dolorosa / pur l’anime che son di fama note, / che l’animo di quel ch’ode, non posa / né ferma fede per essempro ch’aia / la sua radice ingognita e ascosa, / né per altro argomento che no paia”>>.26

Il XVII canto esprime il dolore del Poeta esule, dolore dignitoso, virile, conciliabile con la sua coscienza altera e onesta, che troviamo già ispirata in altri punti del poema: dalla profezia di Brunetto Latini alla vicenda di Romeo di Villanova,27 e che ama ancora la sua patria nonostante sia “disonesta e vile”. Questo canto mostra il ritratto di Dante <<…quale era dopo il bando dalla sua città natale, con que’ suoi lineamenti risentiti, con quel suo sguardo chiaro e fiero, appena temperato dalla malinconia della sventura e della dolcezza degli affetti radicati nell’intimo del cuore. Tutti gli accenni del poema all’esilio, i rimpianti del passato gentile e onesto, gli sdegni contro le malvagità dei grandi mettono capo a questi tre canti (XV, XVI, XVII), e vi si sublimano nel loro accento – più austero, nel loro ritmo – più tranquillo. C’è in essi la fermezza delle convinzioni durature più che lo sdegno dei contrasti più o meno passeggeri con gli uomini. Il Dante di questi canti non è il Dante delle invettive, ma quello dei colloqui con se stesso: è un Dante più intimo, quello che diffonde il calore morale in tutte le vene del suo poema. E’ il Dante “tetragono ai colpi di ventura”, armato solo della sua coscienza e – nella sua coscienza – sicuro. C’è in essi un pathos virile e chiuso>>.28

Di Dante poeta e profeta Bruno Nardi scrive: <<In ogni poeta veramente ispirato, c’è la natura del profeta, e il profeta è a suo modo poeta. Per questo i poeti furon detti vati e interpreti degli dèi, e creduti parlare afflante numine; per questo ancora gli stessi teologi riconobbero quello che d’immaginario e fantastico v’è quasi sempre nelle visioni profetiche.[…] Il profeta, sia esso Mosè o Maometto, Ezechiele o l’abate Gioachino, è l’uomo che, raccogliendosi a meditare sulle condizioni storiche del suo popolo, avverte il travaglio profondo e le aspirazioni d’un’epoca, ne intuisce le forze latenti, ne divina lo sviluppo, presentando il fatale scioglimento del dramma sociale di cui vive la passione. Di questo dramma egli non è solo inerte spettatore, ma spesso attore non secondario, la cui parte è quella d’incitare i volenti, denunciare e sferzare i malvagi, additare la mèta segnata da Dio>>.29

Il linguaggio di Dante profeta non è quello accorto e prudente del politico e nemmeno quello tranquillo del filosofo, ma un linguaggio infervorato e fiammeggiante (infuocato) che sgorga dalla sua interiorità, e i pensieri si manifestano in immagini vive che formano la visione drammatica, che per l’Alighieri non si tratta di un artificio letterario, ma di una vera visione profetica, concessa a lui da Dio, per rivelare all’umanità, una volta tornato tra i vivi, la verità sulle cause della degenerazione del mondo.30

L’esaltazione della giustizia la ritroviamo anche nel canto XX del Paradiso, dove un’aquila sfolgorante, costituita dagli Spiriti del cielo di Giove, sprona Dante a fissare il suo occhio formato dalle anime somme. Il Poeta parla di imperatori e re del passato famosi per la loro integrità morale come David, Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II d’Altavilla e Rifeo: la presenza in Paradiso di Traiano e di Rifeo stupirà Dante, poiché si tratta di pagani, quindi esclusi dalla salvezza, ma, essendo il mistero della predestinazione insondabile per le menti umane, le due anime, per grazia particolare di Dio, ebbero la possibilità di credere in Lui e, nonostante pagani, poterono salire alla beatitudine eterna. L’esule fiorentino non manca di ribadire il trasferimento della capitale dell’Impero romano da Roma a Bisanzio e come la “donazione” di Costantino avesse dato luogo al potere temporale dei Papi, però viene precisato anche che tale donazione fu fatta a fin di bene e il male che ne derivò non nocque alla sue eterna beatitudine: <<L’altro che segue, con le leggi e meco, / sotto buona intenzion che fé mal frutto, / per cedere al pastor si fece greco: / ora conosce come il mal dedutto / del suo bene operar non li è nocivo, / avvegna che sia ‘l mondo indi distrutto>>.31

Durante il Medioevo era famosa la leggenda secondo la quale le preghiere del papa Gregorio Magno, commosso da tanta umanità e giustizia di questo Imperatore, il quale aveva punito gli assassini del figlio dell’umile vedova, lo riportarono in vita per breve tempo, ma sufficiente per ricevere il Battesimo e, quindi, morire da cristiano: <<L’anima glorïosa onde si parla, / tornata ne la carne, in che fu poco, / credette in lui che potëa aiutarla; / e credendo s’accese in tanto foco / di vero amor, ch’a la morte seconda / fu degna di venire a questo gioco>>.32

Il caso del troiano Rifeo è diverso perché non ebbe rivelazioni e visse in una realtà completamente pagana, ma ricevette da Dio il dono di una fede che lo spinse ad agire e a pensare nell’ambito della giustizia e a credere in una futura redenzione; il Poeta prese spunto dall’”Eneide” di Virgilio, dove Rifeo è un personaggio secondario e di cui si parla molto poco, ma è detto “il più giusto dei Troiani e il più rispettoso dell’equità”.33

Contro la corruzione del Papato “esplode” la violenta invettiva che Dante fa dire a San Pietro, nel canto XXVII, che con il pontificato di Bonifacio VIII ha reso Roma, luogo del suo martirio, una fogna: <<Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio, / fatt’ha del cimitero mia cloaca / del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso / che cadde di qua su, là giù si placa>>.34All’invettiva di San Pietro si aggiungerà quella, a fine canto, di Beatrice contro l’umanità corrotta ed entrambe si concludono con delle profezie di speranza.

L’ostilità di Dante verso Bonifacio VIII non nasce solamente da fatti personali, ma anche dalla politica di questo pontefice, ispirata al principio teocratico della superiorità assoluta dell’autorità papale nei confronti di ogni altra autorità, la cui espressione più alta è rappresentata dalla bolla “Unam Sanctam”, del 18 novembre 1302, in cui si sostiene che la Chiesa è detentrice del potere temporale oltre a quello spirituale.

L’invettiva arriva al suo punto culminante con le parole di San Pietro, il quale dichiara che in mezzo alla cristianità, invece dei pastori, si aggirano lupi rapaci: <<In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua sù per tutti i paschi: / o difesa di Dio, perché pur giaci?>>,35quindi l’indignazione si estende a due futuri papi, Clemente V e Giovanni XXII, che nel 300 si preparavano a bere il sangue dei martiri, ovvero sfruttare a loro vantaggio i beni della Chiesa fondata dal sangue dei martiri. Ma oltre che il canto dell’invettiva di San Pietro, questo è anche l’ultimo canto “terreno”, cioè destinato animatamente alla condizione umana dell’umanità ed è anche un canto in cui ritornano quasi tutti i presupposti che contraddistinguono la caratteristica narrativa e la poesia del Paradiso: il biasimo della miseria umana, la descrizione della luce e del moto dei beati, il passaggio di cielo in cielo di Dante e l’alta illuminazione intellettuale, la raffigurazione di Beatrice, la quale nonostante la sua missione celeste e l’illuminante pietà verso Dante, conserva ancora un fascino terreno, oltre a quelli della profezia e dell’invettiva.36

Alla fine del XXX canto, le parole di Beatrice condannano la cupidigia umana e la malvagità dei due principali colpevoli della corruzione che sta dilagando nel mondo: Clemente V e Bonifacio VIII, il primo, che è colpevole di avere avuto un comportamento ambiguo con l’Imperatore e di non avere appoggiato l’impresa di Arrigo VII, raggiungerà all’Inferno Bonifacio VIII nella terza bolgia, dove sono condannati i papi simoniaci, conficcati a capo in giù dentro una buca scavata nella roccia, da dove fuoriescono le piante dei piedi fiammeggianti: quando arriva un nuovo papa simoniaco, spinge dentro la buca il precedente ed è proprio quello che accadrà a Bonfacio VIII quando arriverà in quel luogo infernale Clemente V, che spingerà il suo predecessore nelle viscere della terra. Questa è l’ultima invettiva politica della “Commedia”, in cui Dante coglie l’occasione per tornare sulla polemica contro alcuni papi e il malgoverno della Chiesa, biasimando con durezza l’operato di Clemente V, ma ribadendo anche l’ulteriore condanna verso Bonifacio VIII.37

Lo scopo etico di questa grandiosa opera è definito da Dante, come già accennato precedentemente, nella Lettera (XIII) a Cangrande della Scala, suo protettore, con cui gli comunica il proposito di dedicargli la terza parte del suo poema: il Paradiso, di cui da poco aveva iniziato la composizione, comprensiva di un commento sulla materia e i fini di tutta l’opera. La lettera comprende tre nuclei principali: la “salutatio gratulatoria”, dove il poeta elogia la grandezza e la giustizia politica di Cangrande; l’esposizione dei criteri generali necessari alla comprensione di tutto il poema; un commento dei primi versi del “Paradiso”. La parte centrale segue gli schemi tradizionali dell’esegesi medievale, in cui Dante descrive separatamente sei elementi, il “subiectum”, l’”agens”, la “forma”, il “finis”, il “genus phylosophie” e il “titulus” dell’opera da capire sia secondo il significato letterale che quello allegorico: il “subiectum”o tema della narrazione, che da un punto di vista letterario è la rappresentazione dei tre regni ultramondani percorsi dal Maestro fiorentino, ma allegoricamente rappresenta la condizione dell’uomo, il quale si rende meritevole del castigo o della Grazia divina, in quanto dotato di libero arbitrio. Passa poi all’”agens”, in cui Dante è allo stesso tempo poeta e personaggio, autore e protagonista, quindi garante della verità letterale della sua storia; la “forma” e il “finis” costituiscono rispettivamente la veste stilistico-dottrinale del poema e il tema dell’intero poema, ossia il proposito del Poeta di riscattare il genere umano dalla sua corruzione e degenerazione morale per guidarlo verso la beatitudine eterna. Il “genus phylosophie” è da intendersi come il genere filosofico in cui si inquadra il proposito operativo di dante, ovvero la disciplina filosofica dell’etica che è strumento di riflessione sui fondamenti del retto agire; il “titulus”, è “Comedia Dantis Alagherii, fiorentini natione, non moribus”, che manifesta il significato che il Maestro attribuisce all’argomento della sua opera, conforme al valore che si attribuiva ai termini medievali di tragedia e commedia: egli chiama “Comedia” il suo poema perché la materia, dopo un esordio drammatico e pauroso, si risolverà in un finale positivo e piacevole, ossia la “visione” del “Paradiso”. Proprio per questo, il Poeta ha scelto, nel rispetto della forma e della materia, un linguaggio particolare: quel volgare che è la lingua degli indotti e persino delle donne.38

Il 20 gennaio 1320, Dante si trova a Verona e, davanti a gran parte del clero cittadino e funzionari della corte scaligera, si appresta a dibattere un argomento di filosofia naturale: “Questio de situ et figura, sive forma, duorum elemento rum, atque vide licet et terre” (Questione intorno al luogo e alla figura, o forma, dei due elementi, cioè l’acqua e la terra). La disputa quodlibetale aveva come tema un argomento molto attuale ai tempi e studiato da molti filosofi, astronomi e cosmologi: il problema dell’equilibrio reciproco tra solidi e liquidi, particolarmente tra la terra e il mare, problema già trattato da Aristotele e, più tardi, da scienziati arabi e scolastici.

La redazione scritta di questa dissertazione tenuta da Dante quel giorno a Verona fu l’ultima opera latina del Maestro fiorentino: “Questio de aqua et terra”, composta circa un anno prima della sua morte, che riprese il tema di una discussione tenutasi a Mantova qualche tempo prima, anche se gli studiosi hanno disputato a lungo sulla sua autenticità: egli sostenne la tesi secondo la quale la terra abitata era una protuberanza emergente dalla sfera dell’acqua nell’emisfero boreale ed identificò la causa di tale protuberanza della terra nell’influsso delle stelle, in evidente contrasto con la sua concezione cosmologica esposta nell’Inferno (canto XXXIV), in relazione con la caduta di Satana. Ma Dante non si contraddice (smentisce) anzi quest’apparente contraddizione è la prova che egli è consapevole della differenza tra un’idea fantastica e l’elaborazione di un concetto scientifico; alla fine della “Questio” si definisce “filosofo minimo” e <<restò sempre fedele alla libertà intellettuale ispiratrice del suo lungo amore della sapienza, frutto della mente umana. E fu il raro caso di un eccelso poeta che volle unire la sua sublime capacità d’invenzione alla ricerca della verità del sapere e della libertà della ragione>>.39

La produzione letteraria medievale è caratterizzata da una spiccata tendenza didascalica e ancor più didattica, che si evidenzia soprattutto nelle opere finalizzate alla divulgazione delle conoscenze o all’educazione di principi morali e religiosi: sia la letteratura sacra sia quella più profana presenta scarsa invenzione e fantasia, facendo dell’arte lo strumento per dispensare monotoni avvertimenti morali, consoni alla visione cristiana medievale che concepisce la vita terrena come una preparazione a quella eterna. Anche la filosofia scolastica influenza ed ispira la letteratura con motivi di meditazione spirituale e morale, fino a quando, dopo la prima metà del Duecento, nella Facoltà delle Arti di Parigi, compaiono le opere allora conosciute di Aristotele, dando luogo a orientamenti diversi di pensiero, che si fronteggiano sul piano dialettico tra coloro che propendono per un atteggiamento “naturalista” e coloro che tendono verso una forma “razionalista”.

Dal IV secolo si va affermando il pensiero cristiano con la Patristica, la cui fonte basilare è il platonismo elaborato nella versione cristiana da Sant’Agostino, questa forma filosofica influenzerà la cultura occidentale fino al X secolo circa, ma dopo il Mille, in seguito ai profondi cambiamenti storici, nascono nuove esigenze culturali, meno dogmatiche e più pratiche, insieme alla necessità di scolarizzare: nasce la Scolastica che elaborerà gradualmente il sistema aristotelico e sarà la filosofia dei secoli XII-XIII e parte del XIV.

Tra la Patristica e la Scolastica vi fu una differenza fondamentale: la fede, la Patristica, sentiva la necessità di darsi un corpo dottrinale, commisurandosi alla ragione e individuando nella filosofia le formule a tutto ciò; la Scolastica, che aveva trovato le formule dogmatiche già determinate, si pone il problema di come la ragione possa arrivare alle verità di fede, ossia dà alla ragione il modo di commisurarsi alla fede. Durante il secolo XII abbiamo il periodo della maturità della Scolastica, con la scoperta del sistema aristotelico e con le correnti del pensiero arabo che s’infiltrano in quello del mondo latino, accrescendone notevolmente il patrimonio della ragione.40

Nelle Università, tra le tante discussioni dialettiche, fu di particolare importanza il problema degli “universali”, che dette luogo a orientamenti contrastanti (“realismo” trascendente (universalia ante rem), “realismo” immanente (universalia in re), e concettualismo (universalia post rem)con orientamento nominalistico), ma l’importanza storica di questo problema fu che, sorto come semplice questione logico-grammaticale, presto venne applicato alla teologia, permettendo la critica razionale nel campo della fede, scatenando la reazione dei teologi più intransigenti (San Pier Damiani), che non concordano con l’attività dialettica della ragione, applicata alla fede ed esaltano l’onnipotenza di Dio contro i principi razionali fondamentali. All’opposto si trova il razionalismo cristiano, con Sant’Anselmo d’Aosta, che è il maggiore esponente di questo pensiero e che fa del motto agostiniano “Credo ut intelligam”il suo emblema.41

Il fervente risveglio di pensiero, che si ha nel secolo XII, mette in luce un centro importantissimo e molto prolifico: la Scuola di Chartres, dove era vivo il senso della continuità storica col passato classico, l’amore per la dialettica, la scoperta di libri fino ad allora sconosciuti, gli studi naturalistici con il contributo della cultura araba, in metafisica alcuni studiosi svilupparono motivi platonici in senso panteistico, grazie alla loro arditezza, emblematica la celeberrima frase attribuita da Giovanni di Salisbury al suo maestro Bernardo di Chartres: <<Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique propriis visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea>>. (Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti).42

Ma la figura che meglio incarna lo spirito del tempo è Pietro Abelardo (1079-1142), acceso sostenitore dei diritti della ragione anche nelle indagini sugli oggetti di fede, è considerato, con Anselmo d’Aosta, come uno degli iniziatori del metodo scolastico; Bernardo di Chiaravalle (1091-1153), esaltatore dello spirito mistico nella forma antidialettica, fu il suo più inesorabile antagonista.

Nel secolo XIII ci fu un grande rinnovamento culturale, dovuto principalmente alla diffusione del pensiero aristotelico nel mondo latino, sia con le opere originali sia con le rielaborazioni degli Arabi; all’organizzazione delle Università (Parigi 1090 circa, Oxford 1096 circa, Bologna 1088, studi giuridici) e all’istituzione dei due grandi ordini religiosi: i Domenicani e i Francescani. Il mondo arabo aveva già assimilato precedentemente la filosofia e la scienza greche, ancora in gran parte ignote alla cultura occidentale: anche la filosofia araba si proponeva il tentativo di trovare una via d’accesso razionale alla verità rivelata e stabilita nel “Corano”, inoltre la filosofia araba di questo periodo pone le basi in quella greca, specialmente del neoplatonismo e dell’aristotelismo, evidenziando in tal modo molti caratteri di somiglianza con quella cristiana e ciò spiega l’influenza profonda che il pensiero arabo ha esercitato nella Scolastica nei secoli XIII e XIV, pur tuttavia rivelandosi in alcuni punti inconciliabili.43

Il sistema aristotelico dominava il pensiero greco, anche se con infiltrazioni neoplatoniche e la spinta alla speculazione di tale sistema era dato agli Arabi dalla necessità di stabilire se la dottrina razionale aristotelica poteva conciliarsi con quella rivelata dal Corano: più tardi il problema si sarebbe presentato analogamente nella Scolastica cristiana. I più grandi interpreti arabi di Aristotele, che influirono maggiormente nel pensiero occidentale furono Avicenna (attivo in Oriente nel sec. XI; fu anche grande cultore di medicina, con orientamento generale conforme alla dottrina di Galeno), e Averroé (attivo in Spagna nel sec. XII, il grande commentatore di Aristotele che sosteneva l’indipendenza delle verità di ragione da quelle di fede).44

Ibn-Sina, che in Occidente fu noto col nome di Avicenna, fu un famoso medico persiano, oltre che filosofo e massimo rappresentante del neoplatonismo (morì a 57 anni nel 1037), egli elabora una metafisica sull’affermazione della necessità dell’essere, ossia l’affermazione che tutto ciò che è o accade, è o accade necessariamente e non potrebbe essere o accadere in modo diverso, in altre parole: <<Le cose naturali, in quanto esistono, sono necessarie perché derivano necessariamente da Dio, essere necessario. Perciò la creazione non è un atto libero, ma un processo che ha la sua prima origine in Dio e che si svolge necessariamente. Tutto quello che esiste nel mondo naturale è quindi necessitato ad esistere. A. giustifica la predizione astronomica: l’azione di Dio sulle cose naturali si verifica attraverso il tramite degli astri e dalla conoscenza degli astri si può quindi desumere quella di ciò che accade sulla terra. Se l’uomo conoscesse perfettamente i movimenti degli astri, la sua predizione del futuro sarebbe infallibile; ma poiché la conoscenza non è completa, le sue predizioni sono spesso incerte o fallaci>>.45

Averroè (Ibn-Rashid), nacque a Cordova nel 1126 e morì nel 1198. Averroè fu il commentatore di Aristotele, il quale rappresenta “la regola e l’esemplare che la natura creò per dimostrare l’ultima perfezione umana”, il pensiero aristotelico è, quindi, la verità e Averroè si propone di esporla e chiarirla, inoltre sostiene che sia in pieno (fondamentale) accordo con la religione musulmana, anzi serve ad estrinsecare meglio la verità che tale religione contiene. Ma, secondo Averroè, l’insegnamento fondamentale del pensiero di Aristotele è la “necessità” di tutto ciò che esiste: il mondo è eterno, in quanto necessaria manifestazione di Dio stesso, quindi deriva dalla stessa natura di Dio, il quale è eterno. L’origine del mondo è tale che non può essere modificato dall’uomo, ma dirige l’azione dell’uomo, che non ha alcuna capacità di libertà di iniziativa. Tutto questo, ossia la necessità dell’ordine del mondo, fu molto importante per l’indagine scientifica, che, nel Rinascimento, sarà animata dalla fiducia di poter scoprire nei fatti naturali un ordine necessario. La conoscenza umana nasce dalla partecipazione dell’uomo all’intelletto divino e da questa partecipazione scaturisce una “disposizione” capace di astrarre le forme intelligibili dalle cose, formando i concetti: riprendendo e modificando il concetto di luce e dei colori aristotelico, afferma che come il sole illumina l’aria portando all’atto i colori delle cose, allo stesso modo l’intelletto attivo illumina quello potenziale e dispone l’anima umana, che fa partecipa di quest’ultimo, ad astrarre i concetti e le verità universali dalle rappresentazioni sensibili, ne consegue che l’intelletto è unico per tutti gli uomini ed è separato dalla loro anima. Da notare che sia la dottrina dell’eternità del mondo, che nega la creazione libera, sia quella della separazione dell’intelletto dall’anima, che nega l’immortalità dell’anima, erano in netto contrasto con il credo musulmano e con quello cristiano.46 Averroè sosteneva, inoltre, che l’attività razionale era la fede religiosa del filosofo e che le credenze religiose rappresentavano un’alternativa a tale attività: gli scolastici cristiani interpretarono questo pensiero come teoria della “doppia verità”, ossia una verità di ragione cui l’uomo arriva per mezzo della filosofia e una verità di fede rivelata e imposta dalle autorità religiose; a tale dottrina si appellarono molti filosofi durante il Medioevo e nel Rinascimento.47

Fino a tutto il XII secolo, per i filosofi conoscere e spiegare una cosa significava rappresentare tale cosa come simbolo e non ciò che appare nelle sue modalità di manifestazioni, perché mancava la concezione di una natura che avesse una struttura in sé e una intelligibilità per sé; ma nel secolo successivo, questo concetto si forma con la scoperta della fisica di Aristotele: l’impatto della filosofia aristotelica con le Sacre Scritture e la tradizione cristiana dà origine ad un aristotelismo cristianizzato, che conduce alla teologia scolastica.

Con le Crociate e gli scambi commerciali sempre più frequenti, poi con la conquista araba della Spagna si erano stabiliti stretti rapporti intellettuali tra l’Occidente cristiano e l’Oriente islamico, che arricchirono il pensiero latino con il ricco patrimonio filosofico e scientifico conquistato dagli Arabi, assimilando ed elaborando la cultura ellenica.48

Agli inizi del sec. XIII le scuole di Parigi si organizzarono in Università, differenziando quattro Facoltà: di medicina, di diritto, delle arti (comprendente matematica, lettere e filosofia) e di teologia. Alla nuova Università furono concessi dai pontefici larghi privilegi, la presero sotto la propria protezione con l’obiettivo di farne la roccaforte della fede e dell’ortodossia cattolica, sorvegliando il suo funzionamento e subordinando alla Facoltà di teologia tutte le altre, assicurandosi in tal modo che nel mondo della cultura rimanesse sempre lo spirito ecclesiastico cattolico, nonostante le agitazioni che avevano portato le correnti di pensiero arabe. I Domenicani e i Francescani furono il mezzo per attuare questo piano di teocrazia intellettuale, che, con l’aiuto dei pontefici, riuscirono ad abbattere l’accesa resistenza dei maestri secolari dell’Università di Parigi e ad ottenere alcune cattedre: fu proprio la rivalità sorta tra i due Ordini che dette luogo a una tradizione filosofica propria, che, a sua volta, dette un impulso fruttuoso allo sviluppo del pensiero scolastico.

Nei secoli XII e XIII, le numerose traduzioni latine delle opere di Aristotele e dei suoi commentatori, cominciarono a circolare nella cultura occidentale, che si pose l’esigenza di prendere posizione davanti ad una nuova visione dell’universo contenuta in esse, considerando che lo Stagirita divenne ben presto la personificazione della ragione umana a prescindere dalla rivelazione. I concetti aristotelici, ovviamente, erano in contrasto con il Cristianesimo, soprattutto in tre punti principali: l’universo è eterno o aveva avuto un principio? Dio agisce direttamente sul mondo per mezzo della Provvidenza o indirettamente tramite le Intelligenze celesti da Lui emanate? L’anima individuale è immortale o perisce col corpo? Tutto ciò generò accanite discussioni e insormontabili contrasti, con la conseguente condanna che inizialmente diede la Chiesa alle dottrine aristoteliche.

Un primo indirizzo di pensiero scolastico fu quello del francescano San Bonaventura da Bagnoregio (Giovanni Fidanza. 1221-1274), nel XIII secolo, il quale ha un rifiuto dello spirito dell’aristotelismo e riafferma il principio indissolubile dell’unità di fede e ragione proclamato da Sant’Agostino precedentemente al periodo scolastico, in quanto sostiene che solo la fede dà il nutrimento vitale alla ragione, conferendo valore alle indagini particolari, in tal modo Bonaventura coglie l’aspetto centrale della filosofia francescana: la presenza di Dio nel mondo, le cose della natura come segni di una realtà soprannaturale, una filosofia che prende in considerazione l’aspetto più superficiale delle cose, in quanto derivante dai sensi, l’anima conosce Dio e se stessa senza l’aiuto dei sensi esterni, trascurando la realtà più profonda che si può apprendere solo dalla rivelazione. Per il filosofo francescano la mente deve seguire un “Itinerario”che la guiderà a Dio: le considerazioni delle cose sensibili come “vestigia” o tracce di Dio, la riflessione dell’animo in se stesso come “imagine” di Dio, e la penetrazione mistica nella realtà eterna e trascendente, nel mondo ideale che è “similitudine” di Dio.49

Alberto dei conti di Bollstädt, meglio conosciuto come Alberto Magno, nacque a Lavingen (Svevia) nel 1193; fu maestro di teologia a Parigi e a Colonia, morì nel 1280. Egli fu il primo a rendersi conto che il processo di identificazione della ricerca filosofica con lo studio del pensiero aristotelico era inevitabile: la sua vastissima opera è un rifacimento personale di tutta l’enciclopedie di Aristotele, utilizzando anche gli interpreti arabi e giudaici. La sua pretesa consiste nel voler esporre le opinioni dello Stagirita e dei Paripatetici, con la convinzione che la filosofia di Aristotele sia l’opera più perfetta cui può arrivare la ragione umana. Alberto Magno separa nettamente la ricerca filosofica dalla teologia, in quanto la prima deve servirsi esclusivamente della ragione e procedere per via di dimostrazioni necessarie; la seconda si serve di principi ammessi per fede, stabilendo in tal modo una netta separazione tra la filosofia e la teologia.50 (NOTA Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1991, Vol. I, pp. 349-350.)

Completamente opposto l’indirizzo del domenicano Tommaso d’Aquino (1225-1274), destinato a trionfare nella Chiesa e che ritiene superabile il contrasto tra aristotelismo e Cristianesimo, dando una nuova svolta al pensiero cristiano con una profonda rielaborazione della filosofia aristotelica: secondo Tommaso, la ragione è autonoma rispetto alla fede, quindi indipendente dalla rivelazione, la filosofia o conoscenza razionale ha una sua competenza, distinta dalla teologia, le cui verità non sono dimostrabili in quanto soprarazionali, Dio non può essere intuito direttamente, perché la sua esistenza deve essere dimostrata con argomenti provenienti dall’esperienza sensoriale, ne consegue che l’impossibilità della visione diretta di Dio spinge alla necessità di dimostrarne l’esistenza a posteriori e Tommaso lo fa attraverso le “cinque vie”.51

Secondo Tommaso, il mondo è stato creato da Dio con un atto di libera volontà, ciò significa che l’esistenza del mondo non è necessariamente connessa all’essenza divina: Aristotele fa una distinzione tra potenza e atto per tutti gli esseri finiti, e tra materia e forma per tutti gli esseri corporei, la forma è comune a tutti gli individui della stessa specie, invece la “materia segnata” è ciò che differenzia un individuo da un altro della stessa specie (principio d’individuazione). L’uomo è un organismo corporeo, in quanto essere animale e, sia per l’Aquinate sia per lo Stagirita, il suo principio informativo è dato da un’anima vegetativa e sensitiva, ma essendo un essere ragionevole è sostanza spirituale, fornita di intelletto individuale, connesso e fuso con l’anima sensitiva e con quella vegetativa che informa il corpo, creato direttamente da Dio. La funzione fondamentale della conoscenza è l’astrazione: non esistono idee innate, quindi il processo della conoscenza razionale deve muovere dalla sensazione: “nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensu”. Nella sensazione il soggetto accoglie in sé la “forma sensibile” dell’oggetto; nell’intellezione separa dall’immagine sensibile la forma intelligibile (essenza concettuale). La verità è corrispondenza tra il concetto attuato nel nostro intelletto (universale post rem) e l’intelligibile che è nella cosa (universale in re), che, a sua volta, è il riflesso dell’idea della Mente divina (universale ante rem).52

L’opera di Tommaso segna una tappa decisiva nella Scolastica, il lavoro iniziato da Alberto Magno, suo maestro, viene da lui continuato e portato a compimento: l’aristotelismo diventa, attraverso la speculazione tomistica, accomodante e malleabile alle esigenze della spiegazione cristiana. Per Tommaso il pensiero di Aristotele appare come il termine ultimo della ricerca filosofica, arriva dove la ragione umana poteva giungere, al di là non c’è che la verità soprannaturale della fede e il compito che Tommaso si assume è quello di integrare e conciliare la filosofia con la fede, l’opera dello Stagirita con la verità rivelata all’uomo da Dio e di cui è depositaria la Chiesa.

Nell’Università di Oxford, molto importanti furono i francescani Giovanni Duns Scoto (1308) e Guglielmo D’Occam (1350): il primo accentuò la separazione tra fede e ragione e la natura soprarazionale delle verità rivelate; il secondo sostenne che il sapere intuitivo ha maggiore valore conoscitivo di quello concettuale (empirismo), e, avendo la ragione potere solo nel campo dell’esperienza, gli oggetti di fede sono per definizione trascendenti l’esperienza, quindi la fede e la ragione sono separate tra loro. Nei secoli XIV e XV la filosofia di Occam ebbe grande fortuna, ma allo stesso tempo fu l’elemento fondamentale del declino della Scolastica, il cui compito era stato quello di razionalizzare la fede, che ora viene dichiarata del tutto soprarazionale; la ragione umana si limita alla fisica e alla critica logica di se stessa e afferma gradualmente la sua libertà e la sua autonomia da ogni autorità divina e umana, sostituendo alla cosmologia aristotelica nuovi concetti anticipatori della scienza moderna.53 L’influenza di questa ricca e vivace atmosfera culturale, che animava le dispute filosofiche, teologiche, scientifiche e politiche della fine del secolo XIII e l’inizio del XIV, trova grande raffronto nelle opere poetiche e dottrinali di Dante, ma soprattutto nell’imponente sistema poetico-religioso-filosofico della “Commedia”.

Dante, come già detto, scrisse il “Convivio” tra il 1304 e il 1307, un’opera, composta da quindici trattati, come egli stesso definisce “sì d’amore come di virtù materiate”, ossia di contenuto filosofico, ma fu interrotta al termine del quarto trattato, nel primo egli esprime i caratteri dell’opera: il suo intento è quello di bandire un banchetto di sapienza per coloro che per vari motivi non hanno potuto compiere gli studi e sono stati sviati dalla sapienza e dalla filosofia, che sono i presupposti per il raggiungimento della perfezione dell’uomo, quindi Dante non ha intenzione di scrivere un’astratta enciclopedia filosofica, ma un’opera rivolta ad illuminare coloro che devono guidare i popoli, alle donne ispiratrici delle virtù negli uomini, e in grado di suscitare i buoni costumi perduti. Il secondo trattato, di commento alla canzone “Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete”, parla di come Dante si sia accostato agli studi della filosofia, in cui ha trovato l’amore, dopo il grande dolore per la morte di Beatrice.

La filosofia è detta da Dante “Donna gentile” che dà salute e felicità allo spirito; la “Donna gentile era stata già menzionata nella “Vita Nova”, ma con un significato molto diverso: rappresentava un’infedeltà alla memoria di Beatrice, mentre nel “Convivio” simboleggiala perfezione morale e l’ascesa verso la verità.54 Nel terzo trattato, elogio della sapienza e commento alla canzone “Amor che ne la mente mi ragiona”, l’ardore (passione) per la filosofia diventa un vero inno e l’amore per la verità è, insieme con la giustizia, l’ideale più alto. Nel quarto trattato Dante si distacca dai problemi filosofico-teologici per parlare della moralità e dove appare una prima sistemazione del suo pensiero politico.55

Sia nel “Convivio” sia nel “De Monarchia” Dante adotta il procedimento scolastico della “questio” posta e poi discussa nei suoi “articula” che la compongono, usufruendo anche del supporto delle “auctoritates” (la Bibbia, i classici, i filosofi), per arrivare al “responso”, l’esito conclusivo che chiude la discussione. Il ragionamento parte dall’universale per arrivare al particolare, usando gli strumenti della deduzione e del sillogismo, soffermandosi a discutere le obiezioni alle sue tesi. In questo schema rigoroso, Dante crea degli spazi con digressioni, che animano gli argomenti filosofici permeati dal suo ardore morale per la verità.56 Nel “Convivio”, Dante per spiegare cosa sia la filosofia si avvale della celeberrima affermazione con cui Aristotele inizia la “Metafisica”: il desiderio di sapere è connaturato in tutti gli uomini, poiché la scienza è l’ultima perfezione dell’anima umana <<Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che in ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti>>.57 Dante conosceva Aristotele solo indirettamente, soprattutto grazie ai “Commentaria” di Tommaso d’Aquino; per il Poeta Aristotele era il filosofo per antonomasia, nell’Inferno lo definirà <<’l maestro di color che sanno>>.58 Per Dante la filosofia è l’amore disinteressato della verità, la ricerca di quella sapienza nella quale gli uomini possono trovare la perfezione e la felicità.

Rifacendosi ai contenuti della Scuola peripatetica, il Maestro fiorentino sosteneva che solo in Dio, somma sapienza, si trova la fonte del sapere, principio unitario di molte scienze e forma di un’unica verità, infatti sia nel “Convivio” sia nel “De Monarchia”, egli rimane fermo nelle sue opinioni etiche e politiche. In vari passi del “Convivio” Dante insiste sul carattere divino della filosofia, avvicinandosi alle dottrine di Alberto Magno e ad inclinazioni (orientamenti) platoniche, considerando tale disciplina la più degna di studio per l’inscindibile unione tra l’anima e la verità.59

Ricostruire la formazione filosofica di Dante sarebbe estremamente complicato, in primo luogo l’incertezza dei dati a disposizione degli studiosi, in secondo luogo l’impossibilità di conoscere la derivazione del suo pensiero, criticamente ricco anche delle teorie di illustri insegnanti conosciuti a Firenze durante la sua gioventù: chiara è l’influenza di Brunetto Latini per la conoscenza dei classici e della letteratura francese e, soprattutto, con un’opera come il “Tresor”.

A proposito della possibilità di studio che Dante poteva avere avuto, specialmente durante l’esilio, il Petrocchi scrive: <<La biblioteca dell’Alighieri non fu certo molto ricca. La povertà del soggetto non lo consentiva, e così i continui traslochi da un luogo all’altro. Tuttavia si può opinare che possedesse una dozzina di auctores, tra classici e cristiani, un’epitome (magari una sola)storica e una geografica, o storico-geografica assieme, una piccolissima raccolta di poeti provenzali, francesi e italiani, forse le Razos de trobar di R. Vidal e la Summa di Guido Faba. Avrà consultato qualche biblioteca? Sarà andato, a Verona, nella Capitolare? Se lo avrà fatto, non avvenne certamente per scoprire classici sepolti nella polvere, per frugare nelle carte di codici dimenticati, ma per verificare luoghi ed espressioni di auctores che già conosceva>>.60

Su questo argomento le interpretazioni degli studiosi sono spesso in disaccordo: alcuni hanno sostenuto che la filosofia dantesca è prettamente scolastica e tomistica, altri hanno interpretato la filosofia di Dante basata su posizioni razionaliste di ispirazione aristotelica e tendenti all’averroismo, che proclamando l’autonomia della ragione avrebbe aperto la strada all’Umanesimo. Aristotele è sicuramente uno dei principali ispiratori del pensiero dell’Alighieri, come egli stesso riconosce in numerose citazioni, ma che volge lo sguardo all’aristotelismo cristiano di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, non tralasciando l’averroismo, tanto che il Poeta colloca in Paradiso Sigieri di Brabante; non mancano certamente impostazioni e concetti derivanti dall’agostinismo e dal platonismo.

La presenza di Sigieri nella prima corona del cielo dei sapienti da luogo a due problemi: il primo è che il pensatore averroista si trova in Paradiso presentato da T. d’Aquino, che fu suo avversario nelle dispute e contro di lui scrisse il “De unitate intellectus”; il secondo è che la morte invocata da S. , costretto a vivere sotto dura vigilanza della Curia, pare arrivare in ritardo e fu violenta. <<Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel Vico deli Strami, / silogizzò invidïosi veri>>.61 Questa è la breve presentazione che San Tommaso fa a Dante di Sigieri di Brabante, cioè la dodicesima e ultima delle luci che compongono la corona dei sapienti: Dante si trova nel quarto cielo, quello del Sole, dove gli Spiriti sapienti sono disposti in tre corone concentriche, che danzano e cantano intorno al Poeta e a Beatrice.62 Qui si trova anche Tommaso d’Aquino, il quale inizia l’elenco delle anime che formano questa prima cerchia di anime sapienti, ossia coloro che seppero essere saggi della sapienza richiesta dalle loro funzioni, partendo dalla sua destra dove si trava Alberto Magno, fino all’ultimo che si trova alla sua sinistra: Sigieri di Brabante.

Tra il 1260 e il 1265 a Parigi si diffonde l’Averroismo latino, che, come già accennato, non aveva bisogno di conciliare la fede con la ragione, poiché per Averroè la filosofia aristotelica è sapere dimostrativo e la verità è solo quella filosofica. Nel 1270 Stefano Tempier, Arcivescovo di Parigi, condannò l’Averroismo e alcune tesi tomiste, dividendo il pensiero cristiano tra i Domenicani, i quali difendevano le teorie di Tommaso d’Aquino e i Francescani che si rifacevano alle dottrine platoniche-agostiniane. Sigieri di Brabante era maestro presso la facoltà delle Arti, il quale fu sostenitore dell’interpretazione averroistica di Aristotele. Sigieri, noncurante dei contrasti tra i risultati della filosofia e gli articoli di fede, professava la dottrina della “doppia verità”, per la quale se le proposizioni di ragione sono in contrasto con quelle della fede, sono similmente accettabili per fede. Se Tommaso cercava di conciliare fede e ragione, Sigieri, invece, separa i due ambiti, non ritenendo vitali le contraddizioni tra questi.63 Nonostante la condanna del Vescovo di Parigi del 1270, Sigieri continua nel suo insegnamento, fino a quando, nel 1277 lo stesso Stefano Tempier condanna 219 proposizioni e con esse l’Averroismo e l’Aristotelismo; Sigieri venne citato dal Tribunale dell’Inquisizione con l’accusa di eresia, egli fece appello al Papa e fu costretto a restare presso la corte papale, che in quel periodo si trovava ad Orvieto, dove, tra il 1291 e il 1284, fu assassinato da un chierico che era al suo servizio.64

Fino a che punto Dante conoscesse la filosofia e le opere di Sigieri è argomento discusso tra i dantisti, comunque, come sostiene il Gilson, <<Dante, dunque, ha saputo di Sigieri almeno questo, che egli era uno dei rarissimi maestri contemporanei che si potessero scegliere per simboleggiare la filosofia pura, cioè un aristotelismo estraneo a ogni preoccupazione teologica>>, ossia una forma filosofica che il teologo-filosofo Tommaso d’Aquino non poteva rappresentare.65 <<Il minimo che Dante abbia potuto sapere di Sigieri è dunque che questo maestro aveva mantenuto una distinzione rigorosa tra ordine filosofico e ordine teologico […]almeno ci teneva a glorificarlo per aver sostenuto questa distinzione radicale tra i due ordini, ed è per questo che introduce Sigieri nel Paradiso>>.66

L’aristotelismo cristiano, di cui San Tommaso era il maggiore esponente, resta l’impronta più profonda che permea tutta la “Commedia”: <<l’amor che muove il sole e l’altre stelle>> questo è il verso che emblematicamente esprime l’aristotelismo cristiano palesato da Dante, dove aristotelicamente Dio è motore immobile del mondo, ma cristianamente è amore.

Teologia e cosmologia si collegano nella rappresentazione scolastica medievale che Dante ci fa dell’universo fisico: la struttura è quella aristotelica-tolemaica, al centro dell’universo si trova la terra sferica e immobile, circondata dalle sfere dell’aria e del fuoco, intorno alla terra ruotano , concentrici, i nove cieli materiali, oltre a questi si trova l’Empireo, il decimo cielo, immobile, immateriale, infinito, quindi non corpo ma luce intellettuale, che irradia da Dio e in cui Dio ha la sua sede nella vera e propria essenza. <<E di fronte all’angustia terrestre dei primi due regni, il Paradiso si dispone nella prospettiva delle sfere celesti, occupando l’intero sistema planetario […]Il Paradiso s’identifica con il firmamento, si converte nell’universo, partecipa dell’infinita presenza di Dio nel cosmo.E, pertanto, il viaggio di Dante si sviluppa nella successione ascensionale dello zodiaco, dal cielo della luna fino all’Empireo, dove fiorisce la candida rosa dei beati […] Forse questa di Dante è la concezione più austera della divinità unica e incommensurabile, universa e inestimabile. Il Poeta l’ha resa nella sua più sgomenta profondità, nel suo mistero insondabile. Il Dio di Dante è la categoria mentale dell’inconoscibile>>.67

L’elogio che Dante fa di Sigieri di Brabante, ponendolo accanto a San Tommaso in Paradiso, è stato causa di infinite congetture e di fiumi d’inchiostro da parte degli studiosi, proprio per le ambigue parole con cui il Poeta lo descrive e per la sua collocazione nel cielo del Sole, dove si trovano gli spiriti sapienti, dando adito ad incertezze sulla teologia e sul rapporto con la filosofia del Maestro fiorentino, soprattutto in questa terza cantica.

Maria Corti, insigne filologa, storica e dantista, propone una sua opinione per la lettura delle due terzine oggetto di tante discussioni: nel 1266 Sigieri era già conosciuto come rappresentante dell’aristotelismo radicale; nel 1270 San Tommaso scrive il “De unitate intellectus”, con cui confuta il monopsichismo,68 Sigieri risponde con due suoi scritti, ma tre anni più tardi, progressivamente il filosofo si avvicina alle posizioni dell’Aquinate, di cui fanno riscontro le ultime due opere che egli scrive (“De anima intellectiva” e “Quaestiones super librum De causis”), dove sembra, specialmente nella seconda, che ci sia un distacco dal monopsichismo. Se San Tommaso affranca Sigieri dal monopsichismo, Sigieri condiziona la formazione di San Tommaso col suo razionalismo: è così, secondo la Corti, che queste due grandi menti si influenzano a vicenda. La morte dell’Aquinate avviene nel 1274, quella del Brabantino nel 1283, Dante scrive il Paradiso circa trent’anni dopo, quando, anche nell’ambiente filosofico di Parigi, il filosofo era divenuto l’emblema dell’autonomia del pensiero filosofico laico e Dante ha seguito i suoi spostamenti quando nel 1276 fuggì da Parigi e venne in Italia, dove fu assassinato ad Orvieto. Sigieri, continua la Corti, merita di trovarsi in Paradiso ed è giusto che sia proprio San Tommaso a presentarlo al Poeta, poiché fu lui che lo guidò verso l’ortodossia e da lui comprese il concetto di filosofia separata dalla teologia.69 La Corti prende in esame anche la frase “a morir li parve venir tardo”, sostenendo che la vita del filosofo fu talmente dura che gli faceva desiderare la morte vera a quella civile. <<…prima i pensieri gravi, cioè pesanti psicologicamente che portano Sigieri a desiderare di morire del tutto; poi per antitesi la luce etterna, alquanto polisemica nella densità dei suoi richiami sia alla salvezza eterna sia all’eternità dei “veri” su cui la mente di Sigierio operò nei corsi parigini. Nelle sue sventure Sigieri ebbe dalla sorte un grande dono, l’omaggio intellettuale dei due uomini più grandi del secolo, S. Tommaso e Dante>>.70

Grandi conoscitori del pensiero medievale come Pierre Mandonnet, la cui opera diede grande impulso alle ricerche sulla filosofia del XIII secolo e, particolarmente, sui rapporti tra l’aristotelismo latino, l’averroismo e il tomismo, giungendo alla conclusione che Dante, tomista, probabilmente vide in Sigieri di Brabante un rappresentante della pura filosofia aristotelica, davanti alla quale anche un teologo come l’Aquinate poteva inchinarsi, in tal modo giustifica la presenza in Paradiso di Sigieri, di cui forse il Poeta fiorentino non conosceva con precisione la dottrina.71 Anche Giovanni Busnelli, Gesuita e studioso di Dante, fu un sostenitore autorevole della dipendenza del Maestro fiorentino da San Tommaso: per arrivare alla comprensione completa dell’arte e del pensiero danteschi, bisognerebbe avere una profonda conoscenza della filosofia e della teologia del Poeta, il quale, secondo Busnelli, aveva ripreso innanzitutto da San Tommaso e poi, tramite questo, da Aristotele e da tutti gli autori che poteva avere conosciuto: sostanzialmente fu un sostenitore di Dante tomista.72

Étienne Gilson, dopo avere confutato il tomismo dantesco di Pierre Mandonnet, nelle conclusioni della sua celebre opera “Dante et la philosophie” afferma che la presenza di Sigieri tra i beati del Paradiso è compreso nel problema più generale del rapporto tra lo spirituale e il temporale; che il Brabantino non si trova tra i sapienti come rappresentante del pensiero averroista, ma per la separazione tra filosofia e teologia avvenuta nell’averroismo latino e che tale separatismo filosofico rappresentò per Dante solo un corollario della separazione tra temporale e spirituale, ossia tra Impero e Chiesa come il Poeta idealizzava; se fosse veramente così, continua Gilson, sarebbe ugualmente sbagliato ipotizzare <<un Dante tomista per desumere da qui il suo atteggiamento verso la filosofia, o un Dante averroista per desumere da qui il suo atteggiamento verso la teologia>>.73

La “Commedia” evidenzia un Dante moralista e riformatore: egli fin dall’inizio dell’opera annuncia la venuta del “Veltro”, anche se non è chiaro chi sia, ma la sua missione è quella di giustiziere, che stabilirà l’ordine umano, rendendo il temporale all’Impero e lo spirituale alla Chiesa, sconfiggendo la Lupa, causa della cupidigia, principio dell’ingiustizia. Il trionfo della giustizia è assicurato dalla figura dell’aquila imperiale, simbolo dell’Impero e il rappresentante della Giustizia divina sulla terra è l’Imperatore. << E da questa ardente passione per la giustizia temporale ottenuta tramite l’Impero che bisogna senza dubbio risalire all’uso che D ha fatto della filosofia e della teologia. L’avversario cui pensa in modo assillante è il chierico che tradisce la sua missione sacra per usurpare quella dell’Imperatore: “Ahi, gente che dovresti esser devota / e lasciar seder Cesare in la sella, / se bene intendi ciò che Dio ti nota!” (Purgatorio, VI, 91-93)>>.74 La “Commedia”, continua Gilson, è l’opera di un poeta e come tale più vasta e più ricca delle passioni politiche del suo autore, in cui troviamo lì esaltazione di tutti i diritti divini: di quello dell’Imperatore, ma nello stesso tempo anche quello del Papa e quello del Filosofo, tutti i diritti sono partecipi come manifestazione della Giustizia divina. <<La Divina Commedia appare allora come la proiezione sul piano dell’arte, della visione di quel mondo ideale sognato da Dante, dove tutte le maestà sarebbero onorate secondo il loro rango e tutti i tradimenti puniti come meritano. E’ insomma il giudizio ultimo del mondo medievale da parte di un Dio che si informerebbe presso Dante prima di emettere i suoi ordini di cattura>>.75

Nella “Commedia” Dante ci fa vedere la Giustizia divina operante, beatificando i giusti nell’amore e annientando gli ingiusti nella sua indignazione, anche se non sempre appare oggettiva nei suoi giudizi, ma dobbiamo considerare che tale Giustizia non è altro che quella di Dante stesso, quindi si tratta di comprendere quest’uomo e la sua opera e non di giudicarli. La funzione del Poeta non è quella di favorire la filosofia o insegnare la teologia, tantomeno di addestrare l’Impero, ma quella di richiamare queste autorità al rispetto reciproco conferito dalla loro derivazione divina: quando una di queste autorità varca i limiti imposti da Dio, commette un deleterio crimine contro la Giustizia, ossia contro la più umana delle virtù, la virtù della Giustizia appare a Dante come la fedeltà verso alle suddette autorità, rese sacre dalla loro origine divina.76 <<E’ inutile pretendere di scoprire il maestro unico di cui sarebbe stato discepolo. Dante non può averne meno di tre alla volta. In realtà, in un dato ordine, egli ha sempre per capo colui che governa in quest’ordine: Virgilio in poesia, Tolomeo in astronomia, Aristotele in filosofia, san Domenico in teologia speculativa, san Francesco in teologia affettiva e san Bernardo in teologia mistica. E gli si troveranno molte altre guide. Poco gli importa l’uomo, purché in ogni caso sia certo di seguire il più grande. Questo è il terreno d’elezioni su cui sembra essersi sempre mantenuto il solo Dante veramente autentico. Se esiste, come viene assicurato, una “visione unificante”della sua opera, essa non si identifica né con una determinata filosofia, né con una causa politica, né con una teologia. La si troverà piuttosto nel sentimento così personale che egli ebbe della virtù della giustizia e delle fedeltà che essa impone. L’opera di Dante non è un sistema, ma l’espressione dialettica e lirica di tutte le sue lealtà>>.77 Nell’interpretazione di Gilson, Dante mette all’apice della piramide scientifica, non la metafisica, quale scienza divina, ma la morale, come la più umana di tutte.

Di parere completamente diverso è Bruno Nardi, il quale sostiene che Dante condivide il primato della metafisica su tutte le altre scienze come vuole la tradizione, inoltre Nardi evidenzia il motivo per cui Dante pone la morale più in alto delle altre scienze: perché la morale “ordina” le altre scienze, <<Dante dunque non contradice a quello che comunemente si pensava sul primato della Metafisica; e nel porre la Morale sopra tutte le altre scienze umane fu indotto da un motivo perfettamente aristotelico, giacché l’Etica addita all’uomo qual è il sommo bene e gl’indica la via per conseguirlo. La speculazione del vero è la più alta e più nobile operazione umana: ma il muovere l’intelletto ad apprendere le scienze speculative è proprio dell’Etica, anzi di quella parte dell’Etica che è la Politica o Etica sociale. Perciò l’Etica in generale e la Politica in particolare hanno un primato su tutte le scienze e le arti, sì pratiche che speculative, in quanto tutte coordinano e indirizzano al fine cui tutte tendono>>.78 In realtà, continua Nardi, questa non è un’idea straordinaria del pensiero medievale, poiché è sostenuta anche da altri autori come ad esempio Al-Farabi,79nel suo “Liber de scientiis”, tradotto da Gerardo da Cremona, ma anche da Alberto Magno, per cui se Dante pone l’Etica sopra la Morale non è così insolito come sembra al Gilson, il quale ritiene che nel “Convivio” la filosofia sia scolasticamente separata dalla teologia, senza essere subordinata a quest’ultima come per San Tommaso e quindi che distingua la filosofia umana da quella divina: <<Sicchè quello che il Gilson scrive, per spiegare come mai Dante, dopo aver posta la Morale sopra la Metafisica, insiste ancora sul primato della vita contemplativa, mi pare inutile sforzo di risolvere un’aporia inesistente>>.80

Anche se Dante, sostiene Nardi, non avesse avuto modo di conoscere direttamente il “Gran commento”di Averroè, che però cita molto spesso, anche se non avesse avuto la possibilità di studiare gli scritti degli averroisti, basterebbe la sua amicizia e le lunghe e abituali discussioni con Guido Cavalcanti per spiegare la sua conoscenza del pensiero averroistico: Dante conosceva molto bene la canzone del Cavalcanti “Donna mi prega”, in cui il pensiero aristotelico-averroista è evidente.81 “Donna mi prega” è una canzone dottrinale, che rappresenta il manifesto filosofico-letterario di Guido Cavalcanti, in cui egli si fa portavoce della teoria aristotelica-averroista: per il Cavalcanti il binomio amore-ragione è assolutamente fallace, perché l’amore non ha niente di salvifico, ma è un’esperienza drammatica che non rivela conoscenze e che si può vivere solamente con i sensi; un’ideologia amorosa in netto contrasto con quella che Dante esprime nella “Vita Nova”.82

<<Il Gilson, per quello che concerne Sigieri, ritiene che questi stia a rappresentare, nella Commedia, la Filosofia pura, la scienza profana separata dalla Teologia. E appunto per questa funzione rappresentativa e simbolica attribuita a Sigieri, Dante non può avere ignorato la netta distinzione che v’è, nella dottrina del brabantino, tra Filosofia e Teologia>>.83

La presenza di Sigieri di Brabante in Paradiso, Nardi la spiega dicendo che Dante valuta dal punto di vista di Beatrice, la cui figura sovrasta il quadro poetico e <<sa molto di più di quanto ne sapesse San Tommaso in terra>>, quindi l’Aquinate riconosce in Sigieri un’anima meritevole di stare insieme con lui nella corona degli spiriti sapienti. Secondo Nardi, in conclusione, San Tommaso e Sigieri di Brabante, antagonisti sulla terra, sotto la visione divina sono in una condizione di armonia e di accordo.

Comunque sia la presenza di Sigieri in Paradiso resta insolubile, ma una cosa è certa: che Sigieri di Brabante esercitò un fascino polemico sui suoi contemporanei e, con il suo razionalismo, influenzò la formazione di Tommaso d’Aquino; per Dante rappresentò colui che rivendicò l’autonomia del pensiero laico.84

Nella “Commedia”, Dante approfondisce ed estende l’idea del rinnovamento, che già è presente nelle precedenti opere, coinvolgendo in se stesso e nel suo destino individuale il rinnovamento di tutto il mondo che lo circonda: dalla religione all’arte, dalla Chiesa allo Stato. Anche se apparentemente questa grande opera è la visione profetica del viaggio del Poeta attraverso i tre regni ultramondani, viaggio che dopo aver conosciuto l’abisso del peccato, sale per la montagna del Purgatorio fino al Paradiso terrestre, dove, obliando i peccati e purificandosi nelle acque del Lete e dell’Eunoè, ha un rinnovamento completo della sua anima, che lo fa degno di portare a termine il suo viaggio attraverso le sfere celesti, fino al limitare del mistero divino. Dante non si propone di descrivere la preparazione della sua anima alla vita eterna, ma favorire il rinnovamento del mondo cui egli appartiene: nella lettera a Cangrande della Scala, afferma chiaramente che il fine del suo poema è quello di condurre alla felicità coloro che in questa vita vivono in uno stato di “miseria”, quindi il viaggio ultraterreno è quello di un uomo vivo che deve tornare tra i vivi per rendere manifesta tutta la sua esperienza, dalla quale il Poeta attende la rinascita del mondo a lui contemporaneo.85 Un ritorno alle origini <<Lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato è lo ritornare a lo suo principio>>.86

La Chiesa, secondo l’ammonimento e l’esempio di San Domenico e San Francesco, dovrà tornare all’austerità primitiva; lo Stato, rinnovandosi nell’idea imperiale di Roma, dovrà tornare alla giustizia, alla libertà, alla pace, come nell’età augustea, ed è proprio per questo che la “Commedia” è ricca di una realtà umana, perché determinata dall’intento di rinnovamento, di cui egli stesso si considera strumento insieme con la sua arte, che deve spronare stimolare gli uomini dalla loro miseria e condurli alla rinascita in un mondo rinnovato: <<Sul tramonto del Medio Evo Dante afferma, con tutta la potenza della sua arte, l’esigenza di quel rinnovamento che doveva essere la parola della rinascita>>.87

Per uno scrittore come Dante, che ha saputo sintetizzare tutto il mondo culturale cui appartenne, è ovvio che gli studiosi abbiano voluto indagare sull’origine di una cultura così vasta, che considerando la difficile esistenza che egli ebbe per molti anni della sua vita e per le precarie condizioni economiche che ebbe durante l’esilio, appare addirittura straordinaria. Tra i maggiori filologi e studiosi danteschi, Giorgio Petrocchi occupa un posto di grande rilievo e per ciò che concerne la formazione culturale del Poeta distingue tre fasi: la prima retorico-grammaticale è caratterizzata dall’insegnamento di Brunetto Latini, che non fu solo maestro di “ars dictandi” ma anche tramite della cultura francese; il secondo periodo filosofico-letterale è contraddistinto dai poeti fiorentini dell’epoca come Dante da Maiano e Guido Cavalcanti, dal nascente stilnovismo e da Guido Guinizzelli. Molto importante fu anche la frequentazione di Dante della Scuola francescana e di quella domenicana che si riunivano in Santa Croce e in Santa Maria Novella, il cui riscontro filosofico sarà evidente soprattutto nel “Convivio”. Con l’elaborazione della “Commedia”, specialmente della terza cantica, crebbe in Dante l’esigenza di una maggiore riflessione filosofico-teologica che distinse la terza fase.

Riportiamo una stupenda “pagina” del Petrocchi: <<Il viaggio d’uno spirito vivente nell’aldilà non era estraneo alla cultura medievale, e probabilmente Dante nel tracciare le linee generali del suo poema si rendeva conto che non poteva evitare il confronto con la Visio sancti Pauli, con la Navigatio sancti Brandani, con la Visio Alberici ovvero con la Visio Tungdali, col Purgatorio di san Patrizio o con i poemi di Giacomino Veronese e di Bovesin de la Riva o col Libro dé Vizi e delle Virtudi, se si vuole anche con un opera musulmana, il Libro della Scala, tradotto dall’arabo in castigliano per ordine di re Alfonso.Dato e non concesso che l’Alighieri conoscesse tutta questa letteratura escatologica (ritengo che ne avesse letto soltanto qualche campione, ma molti anni prima, sì che gliene era rimasta un’impressione piuttosto generica), certo si è che egli ha voluto fare un’opera totalmente nuova, e per ampiezza di costruzione e soprattutto per completezza, giacché tutti i luoghi di tutti i regni dell’oltretomba cristiano dovevano essere oggetto della visita del personaggio-viator, dello studio analitico del poeta-profeta della rigenerazione dell’umanità. Tutta questa letteratura escatologica, comunque sia, andava riordinata secondo schemi più organici e sicuri, staccando il rapporto terra-aldilà, supponendo sin dall’inizio, che il protagonista fosse immerso in una visio in somniis, deducendo gli scomparti della tradizione filosofica dell’aristotelismo diretto o mediato attraverso la Scuola, scoprendo un rapporto immediato tra i segmenti della struttura e i personaggi da far emergere dalla propria memoria. Le affinità, quelle poche che ci sono, con i poemi duecenteschi, integrate dalla conoscenza di rappresentazioni delle arti figurative, arricchite da un confronto diretto coi classici, possono al massimo aver dato qualche porzione d’immagine o fatto emergere qualche cosa letta; non di più. Le due vere “fonti” del poema sono l’Eneide, quale costante ricordo d’una grande esperienza letteraria di descrizione di una discesa agli Inferi, e la Bibbia, come somma di visioni profetiche annunciate nel Vecchio, vissute nel Nuovo Testamento, e come grande costruzione mistico-visionaria. Un Sacrum commercium s’instaura tra Virgilio e san Giovanni Evangelista, tra altri autore classici e san Paolo o i Padri o i mistici della tradizione benedettina o di quella francescana. Questi grandi libri erano del tutto ignoti agli indotti autori di poemi o poemetti duecenteschi, o ne avevano una pallidissima idea, e così per la Etica nicomachea e la Retorica di Aristotele, per il De officiis di Cicerone, per tutto il patrimonio morale insito in Virgilio e in Stazio, in Agostino e Bernardo, in Alberto Magno o Bonaventura o Tommaso. Pare opportuno far ritornare alla nostra memoria qualche esempio: l’idea di collocare il Paradiso terrestre sopra la cima d’un altro monte era già presente in scritti di Padri della Chiesa orientale, e così san Bonaventura aveva situato il Paradiso in un’atmosfera pura, e la struttura dell’oltretomba risponde ai tre gradi conoscitivi elaborati da san Tommaso, questo per ciò che riguarda situazione della seconda e terza cantica; il sito dell’Inferno appare più vicino, invece, alla concezione classica, secondo lo schema aristotelico-tolemaico delle colpe. Tuttavia si tratta di elementi accessori, ché tutta la topografia e geografia morale dell’oltretomba è sottoposta ad una profonda revisione, sia per quel che concerne il vario paesaggio, sia per l’animazione d’esso attraverso simboli e figure di trapassati. Insomma il discorso sulle “fonti” della Commedia finisce per tornare alla potenza creativa del suo autore, il quale utilizza episodi della mitologia classica in forma estremamente libera, situandoli nell’aldilà (così come la selva popolata dalle Arpie, la diversa collocazione dei fiumi infernali, l’utilizzazione ad esempio dell’Ete e dell’Eunoè). >>.88

Dal Trecento al Cinquecento i numerosi manoscritti delle opere di Dante, ma soprattutto della “Commedia”, testimoniano la subitanea fama dantesca e del secolo XIV sono i commenti molto accurati del poema dei figli dello stesso Poeta: Jacopo, il terzogenito, nel 1322 circa scrisse in volgare le “Chiose alla cantica dell’Inferno”, privilegiando l’aspetto allegorico; Pietro, il secondogenito, lavorò a lungo all’esegesi delle opere del padre e il suo “Commentarium”, in latino, alle tre cantiche della “Commedia” resta l’interpretazione più importante del Trecento, grazie alla profonda conoscenza del pensiero dantesco, alle frequentazioni delle dottrine scolastiche e della letteratura classica (i due figli avevano seguito il padre nel suo esilio). Molto importante il commento di Jacopo della Lana, sia per la completezza sia per l’interesse agli aspetti dottrinali, filosofici e teologici. L’anonimo “Ottimo Commento”, scritto a Firenze tra il 1330 e il 1340, è da considerare una delle più importanti esegesi del poema dantesco: questo commento occupa un posto di primo piano, poiché l’anonimo scrittore frequentava Dante e conosceva bene le sue opere, con particolare attenzione, oltre al dato linguistico, anche a quello storico e cronachistico, che questo scrittore aveva appreso, nella maggior parte dei casi, da fonti dirette. Giovanni Boccaccio ebbe un vero e proprio culto per Dante: nel 1373 tenne numerosi incontri con il pubblico, cui leggeva il testo della “Commedia”, poi intraprese un lavoro di commento, lasciato incompleto al canto XVII dell’Inferno per la sopraggiunta morte nel 1375. Curioso è l’episodio raccontato da Boccaccio quando Dante si trovava a Verona e sentendo alcune donne che lo credevano veramente ritornato da un viaggio all’Inferno, il Maestro sorrideva compiaciuto e non si preoccupava di smentirle.89

Durante l’età umanistica la fortuna di Dante è decisamente in declino: viene privilegiato il latino sul volgare e rifiutato l’allegorismo medievale, i primi umanisti fiorentini come Leonardo Bruni e Coluccio Salutati rendono omaggio all’Alighieri, perché rappresenta l’ideale del poeta civilmente impegnato; nel Cinquecento, Pietro Bembo, petrarchista intransigente, rifiutò il modello dantesco, linguisticamente troppo rozzo per i nuovi gusti dell’epoca; non mancarono, tuttavia, in questo secolo le difese a favore di Dante, come quella di Galileo Galilei.90

Tra il XVI e il XVIII secolo, con la nascita del Barocco, l’opera di Dante quasi scompare: la cultura seicentesca condanna la letteratura del passato e a maggior ragione la “Commedia”, espressione di un mondo remoto e zeppa di volgari difetti espressivi. Nel Settecento, quando si affermano gli orientamenti del razionalismo illuministico volte alla semplicità della costruzione e dell’espressione letteraria, l’opera dantesca, ricca di invenzioni espressive e intensamente strutturata, viene definita da Melchiorre Cesarotti un “mostruoso guazzabuglio”; Vittorio Alfieri, difese e subì il fascino della poesia di Dante, ricca di spiriti libertari e indipendenti e ammirò il personaggio che accettò la sofferenza e l’esilio per la difesa dei propri ideali; anche per Giambattista Vico, difese Dante e lo considerò ”toscano Omero”, per avere rappresentato un’età ricca di fantasia e di immaginazione, primitiva ma appassionata. Non è però un caso che si tratti di due grandi anticipatori del Romanticismo, che durante l’Ottocento, in Europa e poi in Italia segnò un’eccezionale rifioritura di tutte le opere di Dante, principalmente della “Commedia”, che divenne il capolavoro assoluto della cultura romanza e il fondamento di tutta la tradizione occidentale.91

Il primo sostenitore della grandezza di Dante in Italia fu Ugo Foscolo, i cui scritti diedero l’inizio alla moderna critica dantesca: l’opera di Dante è valorizzata anche in relazione agli spiriti patriottici dell’Ottocento e all’esilio che tanta importanza ebbe agli inizi del nostro Risorgimento. Con Francesco De Sanctis, che, inserisce l’Alighieri nel suo disegno storico-ideale, come portavoce di una poesia fortemente passionale, che in nome dei concreti valori umani riesce a superare il misticismo e il neologismo del suo tempo, inizia tutto quell’immenso lavoro di critica sulla “Divina Commedia” e le altre opere del Sommo Poeta.

Dante è molto presente anche nel Decadentismo e Simbolismo di fine Ottocento, per riversarsi poi, in varie forme, nella letteratura del Novecento.92

Concludiamo con le parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II la sera del 31 agosto 1997, dopo la lettura e il commento di Vittorio Sermonti dell’ultimo canto del “Paradiso”: <<A distanza di quasi sette secoli, l’arte di Dante, evocando sublimi emozioni e supreme certezze, si rivela ancora capace di infondere coraggio e speranza, orientando la difficile ricerca esistenziale dell’uomo del nostro tempo, verso la Verità che non tramonta […] Stasera siamo stati invitati anche noi a farci pellegrini dello spirito e a lasciarci condurre dalla poesia di Dante a contemplar “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”, fine supremo della storia della vita umana […] l’approdo definitivo dell’esistenza, dove le passioni si placano e dove l’uomo scopre il suo limite e la sua singolare vocazione di chiamato alla contemplazione del Mistero divino>>.93

1 Dante Alighieri, De Monarchia, III, cap. XV. L’opera è stata scritta nell’ultimo decennio di vita del Poeta.

2 Cfr. G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Milano 1972, p. 100 e segg.

3 Cfr. A. Prosperi-P. Viola, Corso di Storia, Dal secolo XIV al secolo XVII, Milano 2004, pp. 40-41.

4 Ibid.

5 Cfr. F. Gaeta-P. Villani, Corso di Storia, Milano 1979, p 161.

6 Cfr. anche F. Gaeta-P. Villani, Corso di Storia, Milano 1979, p 157.

7 Ibid.

8 Cfr. A. Prosperi-P. Viola, Corso di Storia… cit., pp. 40-41.

9 “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere.” Dante Alighieri, Convivio (inizio).

10 Per la vita di Dante si veda l’ampia ed esaustiva biografia di Giorgio Petrocchi.

11 Cfr. F. Lamendola, Vi è contraddizione fra il Dante della “Monarchia” e quello della “Commedia”?, in

http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/cultura-e-filosofia/filosofia/4500-sul-pensiero-politico.di-dante

12 Paradiso, VI, vv. 22-27.

13 Paradiso, VI, vv. 103-108.

14 <<Fiorenza dentro de la cerchia antica, / ond’ella toglie ancora terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica… >>. Inizia qui la celeberrima rievocazione dell’antica e virtuosa Fierenze, in cui si raccoglie l’utopia politica e morale di Dante rivolta al passato, che suona a condanna della corrotta realtà contemporanea. Paradiso, XV, vv. 97-99.

15Cfr. B. Maier, I canti di Cacciaguida, in “Lectura Dantis”, Modena 1986, pp. 126-128.

16Cfr. Paradiso, XVI.

17 Paradiso, XVII, vv. 58-60.

18 Cfr. G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Milano 1972, p. 116.

19 Poche e incerte le notizie su questo personaggio, molte le ipotesi dei commentatori antichi e moderni, ma nessuna attendibile. Marco Lombardo è, con probabilità, semplicemente un espediente narrativo, un portavoce delle idee dantesche circa un argomento che ha una grande centralità nella concezione etico-politica e nell’esperienza umana dell’Alighieri.

20 Purgatorio, canto XVI, vv. 106-111.

21 Nel pensiero scolastico medievale la teoria dell’influsso degli astri sull’indole umana aveva carattere di verità scientifica: i nove cieli, ruotanti intorno alla terra, avrebbero trasmesso agli uomini e a tutta la natura, per mezzo delle intelligenze angeliche, i Decreti della Provvidenza divina.

22 G.Petrocchi,VitadiDante,in https://www.liberliber.it/mediateca/libri/p/petrocchi/vita_di_dante/html/testo.htm )

23 Cfr. Purg. XVIII, vv. 121-126; Conv. IV, 16,6.

24 Inf. I, vv. 101-111.

25 Cfr. Epistola XIII, sulla cui autenticità gli studiosi hanno molto discusso.

26 Paradiso. XVII, vv: 126-142.

27 Romeo di Villanova storicamente fu ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario IV, alla cui morte amministrò la contea e fu tutore della figlia Beatrice, che sposò Carlo I d’Angiò. Morì in Provenza nel 1250. Secondo la leggenda seguita da Dante, Romeo fu un pellegrino che, reduce da Roma, si fermò alla corte del conte di Provenza Raimondo Berengario, che lo nominò siniscalco (ministro), guadagnando la riconoscenza del conte per lo scrupoloso adempimento dei suoi doveri. Ma l’invidia mosse gli altri funzionari di corte ad accusarlo di disonestà presso il conte, il quale credette a quelle voci e lo invitò a rendere conto della sua amministrazione. Romeo dimostrò di aver accresciuto il patrimonio del conte di ben il venti per cento, sbugiardando così i suoi accusatori. Tuttavia offeso dalla diffidenza del suo signore, abbandonò la corte e, povero e vecchio, andò ramingo per il mondo. Certamente il significato è autobiografico. Giustiniano dice che se gli uomini sapessero il grande dolore e insieme la fierezza di Romeo nell’andare errante, povero e vecchio, mendicando il pezzo di pane, benché lo lodino assai, lo loderebbe ancora di più. Non è difficile immaginare che il primo tra gli uomini a capire il significato delle parole di Giustiniano-Dante, perché mentre scriveva questi versi, il Maestro fiorentino aveva già provato e forse provava ancora “come sa di sale lo pane altrui e come è duro lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”.

28 A. Momigliano, Dante, Manzoni, Verga, Messina-Firenze 1955, pp. 40-59.

29 B. Nardi, Dante profeta, in “Dante e la cultura medievale, Bari 1942, pp. 293-297.

30 Ibid.

31 Paradiso, XX, vv. 55-60.

32 Paradiso XX, vv. 112-117.

33 Publio Virgilio Marone, Eneide, II, 425-427.

34 Paradiso, XXVII, vv. 22-27.

35 Paradiso, canto XXVII, vv. 55-57.

36 Cfr. M. Sansone, Canto XXVII, in “Lectura Dantis Scaligera, III, a cura di M. Marcazzan, Firenze 1967, pp. 963-969.

37 Cfr. Paradiso, XXX, vv. 130-148.

38 Cfr. E. Gioanola, Letteratura Italiana, Milano 2001, I, p. 301.

39C. Vasoli, , Il contributo italiano alla storia del pensiero, in https://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:Filosofia%29/

40Cfr. E. P. Lamanna, Il problema della scienza nella storia del pensiero, Firenze 1951, p.182-188; Appunti presi durante vari eventi e lezioni.

41 Ibid.

42 Ibid.

43 Ibid.

44 Ibid.

45 N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1991, Vol. I, p. 342.

46 Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1991, Vol. I, p. 343.

47 Ibid., p. 344.

48 Nel campo della matematica gli Arabi avevano effettuato studi approfonditi di trigonometria applicata all’astronomia e studi di algebra applicata alla geometria. Nel campo dell’astronomia avevano compiuto ricerche, basandosi sullo studio dell’”Almagesto” di Tolomeo, fondando osservatori con grandi risultati. Nel campo della fisica avevano fatto ricerche di ottica ed esperimenti alchimistici. Per l’ottica si veda anche: L. Fabbri, Nell’ottica dell’”Homo sanza lettere”, in https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2019/11/18/nellottica-dell-homo-sanza-lettere/

49 Cfr. E. P. Lamanna, Il problema della scienza nella storia del pensiero, Firenze 1951, p.182-188; Appunti personali elaborati in occasione di vari eventi e lezioni.

50 Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie…cit., pp. 349-350.

51 La prima via (passaggio dalla potenza all’atto) parte dall’osservazione del movimento delle cose naturali: se tutto ciò che si muove è mosso da altro, affinché questo procedere non vada all’infinito è necessario arrivare ad un motore primo non mosso da altro. La seconda via tratta della reciprocità delle realtà naturali tra loro: l’una agisce sull’atra producendo effetti, ma secondo Aristotele nessuna cosa può essere causa di se stessa, quindi per ogni evento bisogna ripercorrere indietro la catena delle cause e degli effetti, fino ad arrivare alla prima causa efficiente, ossia Dio (altrimenti il processo sarebbe infinito). La terza via parte dalla contingenza della realtà che ci circonda: dal nulla non si crea nulla, quindi è necessario postulare l’esistenza di un primo principio originario di tutte le cose, cioè Dio. La quarta via ha origine dall’osservazione che non tutte le cose hanno lo stesso grado di validità, infatti una cosa è più o meno buona e nobile di un’altra, ma per fare tale paragone è necessario un termine di riferimento in cui tutte le proprietà sono al massimo grado, e questo è solo Dio. La quinta via sostiene che gli eventi, anche se realizzati da corpi ed enti naturali privi di intelligenza, sono orientati verso un fine di perfezione (ordine e bellezza), ma ciò che è privo d’intelligenza non può tendere al fine se non è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, ne consegue che ci sia un essere intelligente dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine, cioè Dio. Cfr. Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, Firenze 1964, pp. 180-186.

52 Cfr. E. P. Lamanna, Il problema della scienza nella storia del pensiero, Firenze 1951, p.182-188; Appunti elaborati in occasione di vari eventi e lezioni.

53Cfr.Ibid.; Appunti presi durante vari eventi e lezioni.

54 Cfr. M. Pazzaglia, p. 202-203.

55 Ibid.

56 Cfr. C. Vasoli, Il contributo italiano alla storia del pensiero, in https://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:Filosofia%29/

57 Dante Alighieri, Convivio, libro I, cap. I

58 Inferno, canto IV, v. 131.

59Cfr. C. Vasoli, Il contributo italiano alla storia del pensiero, in https://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:Filosofia%29/

60 G. Petrocchi, Vita di Dante, in https://www.liberliber.it/mediateca/libri/p/petrocchi/vita_di_dante/html/testo.htm

61 Paradiso, X, vv. 133-138. Dante usa il verbo leggendo, infatti le lezioni universitarie consistevano principalmente nella lettura dei testi; il Vico de li Strami era la “rue de Fouarre di Parigi, dove era venduta la paglia per i cavalli, dove si trovavano le scuole di filosofia, via che era detta anche “della paglia” per la consuetudine degli studenti di sedersi nella paglia per seguire le lezioni.

62 Gli altri spiriti sapienti sono, oltre San Tommaso, Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi l’Areopagita, Paolo Orosio, Boezio, Isidoro di Siviglia, Beda, Riccardo di San Vittore, Sigieri di Brabante.

63 Cfr. G. Reale – G. Antiseri, Storia della filosofia, Brescia 1997, vol. I, pp. 653-654.

64 Ibid.

65 È. Gilson, La filosofia nella Divina Commedia, in “Dante e la filosofia”, trad. di S. Cristaldi, Milano 1996, p. 17.

66 Ibid.

67 S. Battaglia, Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Napoli 1975, pp.44-46.

68 Il monopsichismo è una dottrina che afferma l’esistenza di un’unica anima universale, di cui le singole anime individuali sono manifestazioni, tale dottrina è alla base dell’averroismo e condannata più volte dalla Chiesa.

69 Cfr. M. Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze 1982, pp. 98-101.

70 Cfr. Ibid..

71Cfr.P. Mandonnet, Siger de Brabant et l’averroisme lati au XIII siècle, Luovain 1908-11.; https://www.treccani.it/enciclopedia/pierre/mandonnet_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

72 Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni/busnelli_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

73 É. Gilson, Dante e la filosofia, Traduzione di S. Cristaldi, Milano 1996, p. 21-23.

74 Ibid.

75 Ibid

76 Ibid.

77 Ibid.

78 B. Nardi, Dante e la filosofia, in “Studi danteschi, diretti da M. Barbi, vol XXV, Firenze 1940, p. 212.

79 Cfr. Ibid., p. 214. Al-Farabi (870-950) fu un filosofo di origine turca, nacque in Transoxiana e ricevette la sua formazione a Baghdad, dove studiò logica, grammatica, scienze, diritto, esegesi, filosofia, musica, matematica. Una parte cospicua degli scritti di Al-Farabi è dedicata al commento delle opere di Aristotele, dando un grosso contributo di trasmissione della filosofia greca, arricchita da due testi che presentano oltre alla filosofia aristotelica anche quella di Platone. Non a caso gli fu attribuito il soprannome di “Maestro secondo”, ossia dopo Aristotele. Cfr. http://www3.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-online/autori/htm/

80 B. Nardi, Dante e la filosofia.., cit., p. 221.

81 Ibid. . Ibid., pp. 234-235.

82 Molto utile per questo argomento è il lavoro di Maria Corti: “La felicità mentale, Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino 1983.

83 B. Nardi, Dante e la filosofia.., cit., p. 243.

84 Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e Filosofie nella Storia, Torino 1991, vol. I, pp. 339-400.)

85 Ibid.

86 Dante Alighieri, Convivio, VI, 12, 14

87 N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e Filosofie…cit., vol. I, p. 400.

88 G. Petrocchi, Vita di Dante, in https://www.liberliber.it/mediateca/libri/p/petrocchi/vita_di_dante/html/testo.htm

89 Appunti personali presi in occasione di vari eventi e lezioni; Cfr. E. Gioanola, Letteratura italiana, vol. I, Milano 2001, 305-308.

90 Ibid.

91 Ibid.

92 Ibid.

93 M. Muolo, da “Avvenire”, 2 settembre 1997.

MANOSCRITTI DELL’AFRICA ARABA, ETIOPICA E COPTA AL TEMPO DI FEDERICO BORROMEO, LETTI E CATALOGATI DA ENRICO RODOLFO GALBIATI ED EUGENIO GRIFFINI

 PAOLO NICELLI

 

Parlare delle acquisizioni dei manoscritti africani da parte della Veneranda Biblioteca Ambrosiana dal suo inizio fino ad oggi richiederebbe una relazione lunga che andrebbe ben oltre il tempo a me consentito in questa sede. Tuttavia, celebrando in questo periodo il centenario della nascita di Mons. Enrico Rodolfo Galbiati (1914 – 2004), già Prefetto dell’Ambrosiana e insigne studioso di Sacra Scrittura e di Orientalistica, vorrei ripercorrere il periodo iniziale di tali acquisizioni, che corrisponde alla prima metà del Seicento, e che vede proprio in Mons. Galbiati un attento narratore a partire dalla corrispondenza del Cardinale Federico Borromeo (1564-1631), che racconta questo periodo. Dirò anche dell’importante acquisizione del fondo di Eugenio Griffini (1878 – 1925), eminente orientalista dell’inizio del secolo scorso, che collaborò attivamente allo studio e alla catalogazione di vari manoscritti arabi, etiopici e copti dell’Ambrosiana.

 

1. RUOLO PROPULSORE DI FEDERICO BORROMEO

La figura centrale all’inizio delle acquisizioni di manoscritti della Veneranda Biblioteca Ambrosiana è quella del Cardinale Federico Borromeo, che fu arcivescovo di Milano, impegnatosi a fondo nella difesa della giurisdizione ecclesiastica contro i governanti spagnoli e nella difesa del Rito Ambrosiano, promuovendo anche l’attuazione della riforma cattolica nei suoi vari aspetti(1) . Federico volle soddisfare un suo grande desiderio, quello cioè di poter avere in Ambrosiana un certo numero di manoscritti provenienti dal Vicino Oriente e dal Nord-Africa(2) . Tale desiderio, andava di pari passo con l’ulteriore desiderio di istituire per il Collegio dei dottori lo studio delle lingue semitiche e orientali in generale, oltreché l’approfondimento delle culture e civiltà ad esse collegate di cui egli era un vero cultore. L’intento fu quello di avere a disposizione degli esperti di Orientalistica che potessero insegnare ai dottori della Veneranda Biblioteca lingue quali: l’arabo, l’ebraico, il copto, l’etiopico, il siriaco e l’armeno, unendosi così a coloro che si dedicavano allo studio del greco, del latino e delle diverse lingue europee. Questa preoccupazione per gli studi orientalistici dimostra l’attenzione che Federico aveva per la cultura in termini generali, ma in modo particolare per le nuove correnti esegetiche, che, dopo Erasmo, ponevano la Filologia e la critica letteraria e testuale alla base del metodo d’indagine e di conoscenza del senso letterale del testo, indispensabile per poi accedere a quello allegorico e anagogico della Sacra Scrittura. Nel suo articolo di presentazione dei primi decenni dell’Orientalistica in Ambrosiana, Mons. Enrico Rodolfo Galbiati, ci dice che tra i manoscritti di Federico vi era una miscellanea catalogata sotto il nome di: Studi sulla lingua ebraica (G 1 inf.)(3) , contenente degli appunti grammaticali e un fascicolo con passi biblici scritti in ebraico con traduzione italiana interlineare. Il manoscritto contiene dei lavori preparatori di opere in via di pubblicazione, con il confronto di alcune frasi della Bibbia latina, dei libri storici (dal Pentateuco alle Cronache), con il testo ebraico citato nella versione latina. In più vi è una versione siriaca, di cui Federico trascrive le parole testuali usando l’ebraico. Tenendo conto che la versione siriaca dell’Antico Testamento fu stampata nel 1645 (Poliglotta di Parigi), si può presumere che Federico si servì di uno dei due manoscritti conservati presso l’Ambrosiana(4) . Lo stesso manoscritto riporta, nella sua terza parte, i primi tre capitoli della Genesi, tradotti da una versione araba. Infatti, in essa vi è un doppio foglio incollato con il testo in arabo del primo capitolo della Genesi. Probabilmente, il doppio foglio proveniva dal Collegio dei Maroniti di Roma(5) , su richiesta di Federico stesso. Da qui possiamo notare il grande interesse che il Borromeo aveva per gli studi orientalistici. Nel manoscritto autografo: Memorie delli libri da scriversi dal Collegio Ambrosiano, Federico scrive che circa le lingue straniere come l’arabo, il persiano, l’armeno, è necessario redigere delle grammatiche e dei dizionari, con in più il bisogno di conoscere quelle lingue per poter leggere e per distinguere bene i loro alfabeti(6) . Questo amore per le lingue orientali delinea il personaggio di Federico Borromeo, amante della sacra Scrittura e dell’Orientalismo. In più denota la portata missionaria e culturale del suo studio, cioè anticipa, in un certo senso, la stessa visione e preoccupazione missionaria che vedremo essere parte dello spirito e delle iniziative di Francesco Ingoli (1579–1649), primo segretario della Congregazione di Propaganda Fide, istituita da Gregorio XV nel 1622(7) . Ingoli richiedeva, infatti, nella formazione dei missionari partenti e già presenti sul campo, la conoscenza approfondita della cultura, dei costumi e delle lingue delle popolazioni presso cui essi andavano, al fine di comprendere la dimensione antropologica, religiosa e sociale di quei popoli. Il tutto era finalizzato a promuovere con efficacia il messaggio e i valori evangelici. Siamo all’inizio del dibattito teologico sull’inculturazione del Vangelo nel tessuto culturale di intere popolazioni che ancora non avevano ascoltato il messaggio salvifico di Cristo. Federico desiderava avere per i suoi futuri dottori un maestro di siriaco e di arabo. Per questo scopo si rivolse ai Maroniti di Roma, tenendo conto del fatto che i maroniti cattolici del Libano di rito antiocheno, cioè siriano, usavano anche la lingua araba, pur conservando quella siriaca(8) nell’uso quotidiano della liturgia.

1) P. PRODI, Borromeo, Federico, in Treccani, L’Enciclopedia Italiana on-line, (www.treccani.it/enciclopedia/federicoborromeo_%28 Dizionario-Biografico%29/ ultima consultazione 27 aprile 2015); vedi anche i diversi contributi nel volume: D. ZARDIN (ed.), Federico Borromeo vescovo, Milano, Biblioteca Ambrosiana – Bulzoni Editore, 2003, (Studia Borromaica 17).

2) Su questi temi vedi i diversi contributi nel volume: M. MARCOCCHI – C. PASINI (edd.), Federico Borromeo, fonti e storiografia, Milano, Biblioteca Ambrosiana – Editrice ITL (Studia Borromaica 15); P. BRANCA, Gli interessi arabistici del cardinal Federico Borromeo nel quadro dello sviluppo degli studi orientali durante il Seicento, in Federico Borromeo, uomo di cultura e di spiritualità, S. BURGIO – L. CERIOTTI (edd.), Milano, Biblioteca Ambrosiana – Bulzoni Editore, 2002, (Studia Borromaica 16), pp. 325-333.

3) E. R. GALBIATI, L’orientalistica nei primi decenni di attività, in A. ANNONI (ed.), Storia dell’Ambrosiana, Il Seicento, Milano, Cariplo – Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, 1992, p. 89. Interessante è l’articolo di A.M. PIEMONTESE, La raccolta vaticana di Orientalia: Asia, Africa ed Europa, in C. MONTUSCHI (ed.), Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana III. La Vaticana nel seicento (1590-1700): una biblioteca di biblioteche, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2014, pp. 428-460. Sulla figura di Mons. Enrico Rodolfo Galbiati vedi: M. ADINOLFI – A. PASSONI DELL’ACQUA (edd.), Enrico Rodolfo Galbiati, un maestro, Casale Monferrato, Portalupi Editore, 2004; F. BRASCHI (ed.), Enrico Galbiati, liturgia ed ecumenismo. Per un’esperienza autentica del cammino verso l’unità, Milano, Edizioni La Casa di Matriona, 2014; A. PASSONI DELL’ACQUA (ed.), Enrico R. Galbiati (1914 – 2004): un prete ambrosiano con lo sguardo a Oriente. Convegno 7 maggio 2014, Milano, EDUCatt, 2014; P. FUMAGALLI, Enrico Rodolfo Galbiati, in C. BAFFIONI – R.B. FINAZZI – A. PASSONI DELL’ACQUA – E. VERGANI (edd.),Storia del pensiero religioso del Vicino Oriente. L’età bagratide, Maimonide, Affrate, III Dies Academicus 2012, Roma, Bulzoni Editore, pp. 300-303.

4) Si tratta della Pesittašdel VII secolo (B 21 inf.) e del manoscritto A 144-145 inf., eseguito a Gerusalemme tra il 1613 e il 1615.

5) GALBIATI, L’orientalistica, p. 91.

6) Manoscritto Z 109 sup. 16° loco, 17 loco: «[…] Intorno alle lingue straniere come l’Araba, Persiana, Armena, resta il carico di fare le grammatiche e li dittionari […]»; «[…] Vicina a questa fatica ve n’è un’altra curiosa e insieme utile, mentre si darà alle stampe tutti gl’Alfabeti delle lingue straniere nobili aggiungendovi regole per leggere […] In somiglianti linguaggi non è poco il sapere almeno leggere, et l’uno dall’altro distinguere, et riconoscerlo […]», in E. R. GALBIATI, L’orientalistica, p. 91.

7) Francesco Ingoli (1578-1649), giurista e professore di diritto civile e canonico. Studioso di astronomia, venne nominato da Gregorio XV segretario della Congregazione del Cerimoniale, poi segretario di Propaganda Fide, fondata nel 1622. Contro la politica del Patronato Real, (spagnolo) o Padronado Real (portoghese), Ingoli riformò la struttura stessa delle missioni, istituendo i delegati e i vicari apostolici, direttamente dipendenti da Roma e non dai reggenti di Spagna e Portogallo. Egli favorì la costituzione di seminari locali e la formazione del clero secolare e indigeno contro i privilegi degli ordini religiosi. Promosse il rispetto dei costumi e delle tradizioni dei popoli evangelizzati, promuovendo lo studio delle lingue locali da parte delle nuove generazioni di missionari. Fondò la Tipografia Poliglotta, ora Tipografia Vaticana. Su questo tema vedi: C. PRUDHOMME, Missioni cristiane e colonialismo, Milano, Editoriale Jaca Book, 2006, pp. 35-46; J. COMBY, Duemila anni di evangelizzazione, Torino, Società Editrice Internazionale, 1994, pp. 86-118; R. IANNARONE, La scoperta dell’America e la prima difesa degli Indios: i Domenicani, Bologna, PDUL Edizioni Studio Domenicano, 1992, pp. 145-215. Sull’istituzione di Propaganda Fide e le sue istruzioni ai vicariati apostolici vedi: M. MARCOCCHI, Colonialismo, Cristianesimo e culture extraeuropee. La istruzione di Propaganda Fide ai vicariati apostolici dell’Asia orientale (1659), Milano, Editoriale Jaca Book, 1980, pp. 15-59.

8) Si tratta della lingua siriaca della Mesopotamia settentrionale e della Siria. Lingua, questa, in cui fu scritta buona parte della letteratura cristiana. Nei secoli XVI e XVIII questa lingua veniva chiamata anche “caldaico” senza essere confuso con il “caldeo”, cioè l’aramaico biblico e giudaico. Su lingua e letteratura siriaca, cf. T. MURAOKA, Classical Syriac. A Basic Grammar with a Chrestomathy, Wiesbaden, Harrassowitz Verlag, 1997 (Porta Linguarum Orientalium, Neue Serie 19); M. ALBERT, Langue et la littérature syriaque, in Christianismes Orientaux. Introduction à l’étude des langues et des littératures, Paris, Les Éditions du Cerf, 1993, pp. 297-375; S. BROCK, An Introduction to Syriac Studies, Piscataway (NJ), Gorgias Press, 2006.

Nel novembre del 1609, Michele il Maronita(9) fu scelto come maestro di siriaco. Dopo un anno e mezzo d’insegnamento Michele Maronita venne incaricato dal Borromeo di compiere un viaggio lungo e difficoltoso nel Vicino Oriente, alla ricerca di manoscritti siriaci, arabi e persiani, oltreché greci. Michele Maronita poté partire per il suo viaggio il 13 giugno 1611, solo dopo molti mesi di attesa, con le dovute lettere di raccomandazione per l’Arcivescovo di Corfù, ottenute dal veneziano Vincenzo Quirini, il quale aveva già favorito Antonio Salmazia con lettere di presentazione per un precedente viaggio organizzato assieme a Domenico Gerosolimitano, insigne ebreo, convertitosi al Cristianesimo. Dal 1607 al 1608, il Salmazia assieme al Gerosolimitano compirono, delle esplorazioni a Corfù, nelle isole dell’Egeo e in Tessaglia alla ricerca di libri rari(10). Michele Maronita portava con sé anche dei doni per il Patriarca dei maroniti e alcune linee guida sul comportamento da tenere con le autorità locali per ottenere l’acquisto dei manoscritti desiderati: l’affabilità, la gentilezza e là dove fosse possibile una certa famigliarità con le persone che potevano indicare i luoghi di deposito dei manoscritti. Anche l’utilizzo degli interpreti aveva una sua ragion d’essere, per via dei diversi dialetti usati per le trattative di vendita. Poi l’uso discreto e coscienzioso del denaro dato a coloro che con certezza potevano donare dei codici di valore. In questo senso, non si doveva essere avari soprattutto con coloro che fossero stati riluttanti alla vendita dei manoscritti. Bisognava pagare i manoscritti per il loro reale valore, giungendo così allo scopo prefissato. Tuttavia, di fronte a una continua resistenza, si doveva, con scrittura certa, fissare un tetto oltre il quale non si doveva andare(11). Il viaggio di Michele Maronita durò due anni ed ebbe tristemente fine per la malattia mortale che lo colpì nella città di Aleppo alla fine del 1613. Prima di morire, Michele Maronita raggiunse Corfù, Zante e poi Creta, per poi proseguire per Tripoli di Siria, in visita all’Arcivescovo maronita. Da qui un certo numero di manoscritti furono catalogati e spediti a Milano. Poi visitò il monastero di Qannūbīn, sede del Patriarca dei maroniti Pietro Giovanni Maḥlūf, in carica dal 1608 al 1634, per il quale Michele Maronita tradusse una lettera di ringraziamento per i doni liturgici ricevuti da Federico Borromeo(12). Di seguito, Michele Maronita spedì a Milano dei libri caldei e poi si recò a Gerusalemme per preparare una copia dell’Antico Testamento in siriaco. Di tale copia, conservata in due volumi in Ambrosiana (A 144-145 inf.), E. R. Galbiati ci dice: […] che il primo (tomo) porta l’indicazione «scritto a Gerusalemme negli anni 1612-1614 per ordine del cardinal Federico». Al f. 408 r. del primo volume vi è un lungo colophon da cui risulta che quella parte fu scritta a Gerusalemme nel monastero della Madre di Dio Maria, che è chiamato Casa di San Marco, dei siriani ortodossi. Il secondo volume al f. 406 v. porta un lungo colophon: l’Antico Testamento fu continuato dal monaco maronita Elias di Ehden (Libano) e terminato il 25 maggio del 1615. L’incarico fu dato al guardiano dei francescani per eseguire l’ordine del cardinal Federico Borromeo. L’intervento del francescano fu dovuto probabilmente al fatto che nel frattempo Michele era morto(13) . Michele Maronita proseguì poi per Costantinopoli dove trovò il nobile veneziano Marco Paruta, il quale gli fu di grande aiuto nell’acquisto di manoscritti arabi e persiani di medicina, di astronomia e di matematica. Al suo ritorno a Gerusalemme il Nostro acquistò altri codici. In seguito, come già menzionato, Michele Maronita si recò ad Aleppo, città nella quale morì, probabilmente a causa di un’epidemia. Prima della sua visita ad Aleppo, Michele maronita visitò l’Egitto, come era nei suoi programmi, da dove probabilmente spedì dei codici molto importanti a Milano presso la Biblioteca Ambrosiana. Questo spiegherebbe l’arrivo a Milano del massimo tesoro siriaco costituito dai due codici: il B 21 inf., in due volumi, contenenti la famosa Peshitta dell’Antico Testamento, e il C 313 inf.,l’unicum della Versione siro-esaplare(14) . Entrambi i codici furono comperati dal monastero di Santa Maria Madre di Dio nel deserto di Skiti, in Egitto.

9) La lettera da Corfù del 7 agosto 1611 (G 206 bis inf. N. 230), riporta la firma di Michele Maronita, il quale si firmava in questa come in altre lettere con lo pseudonimo di «Michele Micheli», cioè Michele figlio di Michele.

10) S. LUCÀ, L’apporto dell’Italia meridionale alla costituzione del fondo greco dell’Ambrosiana, in C. M. MAZZUCCHI – C. PASINI (edd.), Nuove ricerche sui manoscritti greci dell’Ambrosiana, Atti del Convegno, Milano, 5-6 giugno 2003, Milano, Vita e Pensiero, 2004, p. 198; C. PASINI, La raccolta dei manoscritti greci all’origine dell’Ambrosiana: linee di acquisizione (in particolare la missione di Antonio Salmazia a Corfù negli anni (1616-1631), in Federico Borromeo, fonti e storiografia, M. MARCOCCHI – C. PASINI ( edd.), Milano, Biblioteca Ambrosiana – Editrice ITL, 2001, (Studia Borromaica 15), pp. 59-100.

11) Cfr. GALBIATI, L’orientalistica, p. 106.

12) L’originale della lettera (X 299 inf., ins. 1) è scritto in karšūnī (arabo in alfabeto siriaco) ed è stato tradotto in italiano dallo stesso Michele Maronita (G 206 inf., n. 230 bis).

13) GALBIATI, L’orientalistica, pp. 118-119.

2. CODICI POLIGLOTTI AMBROSIANI

Secondo E.R. Galbiati, sempre a Michele Maronita potrebbe doversi l’acquisizione del manoscritto pentaglotto B 20 inf. A, datato tra il XIII e XIV secolo15 , che contiene le Epistole di San Paolo, nelle cinque lingue etiopica, siriaca, copta, araba e armena – quest’ultima lingua è assente a partire dai ff. 176 fino alla fine; e del manoscritto tetraglotto B 20 inf. B, che contiene le Epistole Canoniche e gli Atti degli Apostoli, con l’esclusione della colonna in lingua armena. Entrambi i codici sono stati scritti in Egitto alla fine del XIV secolo, presso il monastero di san Macario. Da un’osservazione dei manoscritti, si nota la mano di più copisti per via della diversità delle calligrafie e della mancanza di uniformità nelle colonne. Circa il manoscritto B 20 Inf. A, l’impressione sarebbe quella del lavoro di un’équipe multilingue che operò fecondamente nella produzione dell’opera(16) . Una possibile relazione potrebbe esserci tra i manoscritti B 20 inf. A della Biblioteca Ambrosiana e il Salterio poliglotto del XIV secolo, conservato presso la Biblioteca Vaticana (Barberini Orientale 2), ivi giuntovi tramite il padre Agatangelo de Vendôme(17). Essi sarebbero associati alla figura di Rabban Ṣalībā (Maestro della Croce), probabile curatore e acquirente del B 20 inf. A., così come indicato nell’annotazione in B 20 inf. A f. 74 V: «Chiedo dunque a ogni fratello spirituale che sfoglierà questo libro di pregare per il peccatore che, debole e misero e perduto nei peccati, scrisse il libro in siriaco. E pregate per i miei padri, e i miei fratelli e i miei maestri, e per il sacerdote nostro Maestro della Croce, poiché egli si prese cura e acquistò questo tesoro spirituale; e ognuno, in conformità alla sua preghiera, possa ricevere la ricompensa dal Signore. Amen» (18) . Il riferimento al Maestro della Croce potrebbe indicare la persona stessa di Rabban Ṣalībā, ipotesi questa tutta da verificare. Da qui, risulta ancora incerto chi di fatto abbia curato il manoscritto e, più ancora, chi lo abbia acquistato, se Michele il Maronita, come ipotizzato dal Galbiati o Rabban Ṣalībā, come indicato nell’annotazione in B 20 inf. A f. 74 verso19 . Sulla stessa linea, bisognerebbe verificare lo stesso ruolo di Rabban Ṣalībā in relazione al Salterio poliglotto della Biblioteca Vaticana (Barberini Orientale 2). Il manoscritto cartaceo, B. 20 inf. A (Pentaglotto – San Paolo, epistole dall’Apostolo Pentaglotto (etiopico, siriaco, copto, arabo, armeno) include la lettera agli Ebrei e segue il seguente ordine: 1) Lettera ai Romani, (versetti iniziali 3, 29/30 aiḍan li-anna ’llāh wāḥid huwa ’lladī yubarriru ahl-hitān); 2) (46b) Prima lettera ai Corinzi; 3) (99b) Seconda lettera ai Corinzi; 4) (142a) Lettera ai Galati; 5) (160b) Lettera agli Efesini; 6) (176b) Lettera ai Filippesi; 7) (188b) Lettera ai Colossesi; 8) (199b) Prima lettera ai Tessalonicesi; 9) (208b) seconda lettera ai Tessalonicesi; 10) (214a) Lettera agli Ebrei; 11) (246b) Prima lettera a Timoteo; 12) (260a) Seconda lettera a Timoteo; 13) (268a) Lettera a Tito; 14) (273b) Lettera a Filemone. Due note interessanti in arabo ci dicono che la colonna araba del manoscritto originale, di cui non si ha notizia, fu scritta da un sacerdote di nome Ṣalīb (Rabban Ṣalībā) nel monastero dei siriani di Nostra Signora la Vergine (Maria)(20). E. R. Galbiati ci dice invece che nel manoscritto la scrittura etiopica è di tipo arcaico. Il colophon dice: « Sono terminate qui le epistole di Paolo apostolo in 14 libri. Pregate per me che le ho tradotte affinché si ricordi Cristo di me nel suo regno. Amen»(21)

14) GALBIATI, L’orientalistica, p. 108.

15) O. LÖFGREN – R. TRAINI, Catalogue of the Arabic Manuscrips in the Biblioteca Ambrosiana, I, Antico Fondo and Medio Fondo, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1975, p. 3.

16) Cfr. E. VERGANI, Colofoni siriaci della Biblioteca Ambrosiana. Scritte e annotazioni, in A. SIRINIAN – G. SHURGAIA (edd.), Colofoni armeni a confronto, Atti del Workshop, Bologna 12 ottobre 2012, (in corso di pubblicazione).

17) Cfr. D.V. PROVERBIO, Barb. or. 2 (Psalterium Pentaglottum), in P. BUZI – D.V. PROVERBIO (edd.), Coptic Treasures from the Vatican Library. A Selection of Coptic, Copto-Arabic and Ethiopic Manuscripts. Papers collected on the occasion of the Tenth International Congress of Coptic Studies (Rome, September 17th-22nd, 2012), Studi e testi, 472, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2012, pp. 163-174.

18) Traduzione ad opera di E. Vergani, che qui ringrazio.

19) Tuttavia, ci troviamo di fronte a delle ipotesi da verificare. Detto questo, non possiamo affermare con certezza che Rabban Ṣalībā abbia acquistato il manoscritto per la Biblioteca Ambrosiana.

20) Cfr. LÖFGREN – TRAINI, Catalogue, p. 3-4. 5 

21) E. R. GALBIATI, I manoscritti etiopici dell’Ambrosiana, in Studi in onore di mons. Carlo Castglioni, Milano, Giuffrè Editore, 1957, p. 340. Ricordiamo i contributi di Tedros Abraha, accademico della Classe di Studi Africani della Biblioteca Ambrosiana, sulla Lettera ai Romani e sulla figura di San Paolo, letto dalla tradizione etiopica: T. ABRAHA, La lettera ai Romani. Testo e commentari della versione etiopica, Aethiopistische Forschungen 57. Wiesbaden: Otto Harrassovits Werlag, 2001; IDEM, The Ethiopic Version of the Letters to the Hebrews, Volume 419 di Studi e Testi, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2004; IDEM, Paolo “lingua profumata”. Il maestro delle genti nella tradizione etiopica, in BARTOLOMEO PIRONE – ELENA BOLOGNESI (edd.), San Paolo letto da Oriente: Atti del convegno internazionale in occasione dell’anno paolino, Damasco 23-25 aprile 2009, Studia Orientalia Christiana, Monographiae, 18, Milano, Edizioni Terra Santa, 2010, pp. 179-216; IDEM, The Ethiopic Versions of 1 and 2 Corinthians, Roma, [s.n.] 2014.

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Fig. 1 – San Paolo Epistole Pentaglotto (B 20 inf. A, f. 110 recto)

Il manoscritto cartaceo B. 20 inf. B (Tetraglotto – Epistole Canoniche e Atti degli apostoli: Tetraglotto, arabo, copto siriaco, etiopico) fu scritto alla fine del XIV secolo nel monastero di San Macario, in Egitto. Il manoscritto contiene le Epistole Canoniche e gli Atti degli Apostoli in solo quattro delle lingue dei cristiani “monofisiti” (22) . Manca infatti la quinta colonna in Armeno. Esso segue il seguente ordine: A. (1- 54) le sette Epistole Cattoliche: Lettera di Giacomo; (13b) Prima Lettera di Pietro; (27a) Seconda lettera di Pietro; (35b) Prima lettera di Giovanni; (48b) Seconda lettera di Giovanni; (50a) Terza lettera di Giovanni; (51b) Lettera di Giuda. B. (55b-186) Atti degli Apostoli.

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Fig. 2 – Epistole canoniche e Atti degli Apostoli – Tetraglotto, Prima lettera di San Giovanni (B. 20 inf. B, ff. 35 verso e 36 recto)

22) Riportiamo il virgolettato per evitare l’uso eresiologico dell’aggettivo “monofisiti”

3. CODICI COPTI AMBROSIANI

Tra i manoscritti siriaci dell’Ambrosiana oltre all’Antico Testamento scritto a Gerusalemme solo i Salmi e Canti Biblici, con la versione in arabo karšūnī (G 31 sup.) e i Canoni Apostolici, Vite di Santi, Omelie (R 15 sup.), in arabo karšūnī, provengono dal Libano. Altri manoscritti cristiani in lingua siriaca, sarebbero stati scritti dai monaci Maroniti di Roma. Tuttavia, sebbene Michele Maronita avesse realizzato solo in parte le sue aspettative di acquisto di libri, si pensa che i manoscritti arabo-cristiani e arabo-islamici catalogati nel Vecchio Fondo(23) siano frutto dell’opera svolta dal Nostro, come coscienzioso servizio svolto a Federico Borromeo, nello svolgimento del suo viaggio in Vicino Oriente. Nella collezione dell’Ambrosiana in lingua etiopica, si trovano alcuni codici provenienti dall’ospizio abissino di Santo Stefano dei Mori, presso il Vaticano. Tali manoscritti sono stati studiati e catalogati dall’illustre orientalista Sylvain Grébaut, il quale trascorse un periodo di ricerca presso la Veneranda Biblioteca durante l’anno 1933 e in quell’occasione stabilì il Catalogo dei manoscritti etiopici pubblicati poi nel Catalogue des Manuscrits Ethiopiens de la Bibliothèque Ambrosienne, «Revue de l’Orient Chrétien», 3e Série, IX (XXIX), 1 et 2 (1933-1934), pp. 3-32. Secondo E.R. Galbiati, si trattava di una serie di cinque manoscritti tra cui i due famosi: Pentaglotto e Tetraglotto già menzionati, riportanti la colonna in lingua etiopica. La metodologia di catalogazione utilizzata dal Grébaut risulta essere diversa rispetto quella utilizzata dall’Ambrosiana. Egli raccolse e catalogò i manoscritti secondo le rispettive lingue, metodologia che lo stesso Galbiati continuerà a completamento del Catalogo del Grébaut, aggiungendo ai codici non ancora catalogati quelli di nuova acquisizione dell’Ambrosiana(24). Di questi manoscritti etiopici presentiamo qui X 104 sup. che nei ff. 3 verso e 4 recto, riportano la parte iniziale del Salterio Etiopico. A seguire, presentiamo X 104 sup. bis., che nei ff. 180 verso e 181 recto, riporta la parte iniziale del Weddāsē Māryām, l’Ufficio della Madonna per i sette giorni della settimana. Le schede di catalogazione sono dello stesso E.R. Galbiati: X 104 sup. (Grébaut n. I), (ff. 3 verso e 4 recto Parte iniziale del Salterio Etiopico) Manoscritto membranaceo (ff. 1-2 cart.); ff. 179; cm. 13,5 X 12; scrittura elegante ed arcaica (la lettera lō senza penducolo e forme angolose). Secolo XV; ff. 1-2 (cartacei, scrittura grossolana. Preghiera magica; inizio di un Calendario, altra invocazione magica; Salmo 132,3; immagine di Davide tolta dal Salterio Etiopico stampato nel 1513, ff. 3-153. Salterio; ogni decade è divisa dalla seguente mediante un fregio; dopo il Salmo 100 (f. 100), una pagina ornata; ff. 154 recto – 169 verso. Cantici dei Profeti (oltre le Odi del Canone Bizzantino la serie etiopica comprende anche il Canto di Ezechia e la Preghiera Apocrifa di Manasse); ff. 170-179. Canto dei Cantici, diviso in 5 sezioni. Il f. 179 V., è occupato da una ornamentazione colorata(25).

 

23) Per il Vecchio Fondo, vedi O. LÖFGREN – R. TRAINI, Catalogue, of the Arabic Manuscrips in the Biblioteca Ambrosiana, I, Antico Fondo and Medio Fondo, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1975; J. VON HAMMER – PURGSTALL, Catalogo dei codici arabi, persiani e turchi della Biblioteca Ambrosiana, «Biblioteca Italiana», 94, 1939, pp. 22-49, 222-348, in Galbiati, L’orientalistica, p. 119.

24) E.R. GALBIATI, I manoscritti etiopici dell’Ambrosiana, in Studi in onore di mons. Carlo Castglioni, Milano, Giuffrè Editore, 1957, pp. 329-353; ID., I fondi orientali minori (siriaco, etiopico, armeno) dell’Ambrosiana, in Istituto Lombardo, Accademia di Scienze e Lettere, Atti del Convegno La Lombardia e l’Oriente (Milano, 11-15 giugno 1962), Milano, Istituto Lombardo, Accademia di Scienze e Lettere, 1963, pp. 190-196. Circa la descrizione dei manoscritti fatta da E. R. Galbiati e di S. Grébaut, essa deve essere contestualizzata e inquadrata a sua volta nel processo di progressivo sviluppo della descrizione e catalogazione dei manoscritti orientali anche come implicita riflessione sui fenomeni culturali più ampi e complessi. Ben sapendo che vi sono altri metodi di catalogazione più moderni, con spirito di riconoscenza verso questi due grandi studiosi, riproponiamo una sintetica presentazione fondata sulla loro descrizioni dei manoscritti.

25) GALBIATI, I manoscritti, p. 141.

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 Fig. 3 – Salterio Etiopico (X 104 sup., ff. 3 verso e 4 recto) X 104 sup. bis. (Grébaut n. I), (ff. 180 verso e 181 recto. Parte iniziale del Weddāsē Māryām).

Manoscritto cartaceo; cm. 13,5 X 10 circa; scrittura sgraziata per mancanza di mezzi idonei. Sec. XVI. Gli 82 fogli di questo manoscritto, redatto probabilmente a Roma, insieme con i primi due (cartacei) del precedente, furono legati in un sol volume con il precedente membranaceo e più antico, scritto certamente in Abissinia da mano espertissima. Forse la legatura fu fatta dagli Abissini stessi di S. Stefano, essendo abituale nei manoscritti il trovare i salmi, Cantici e la Cantica uniti ai testi in onore di Maria che si trovano in questo manoscritto. Comunque, le due parti, di diversa dimensione, furono separate in due volumi nel restauro fatto a Modena nel 1956, per assicurarne la miglior conservazione. Si è tuttavia lasciata immutata la numerazione dei fogli; ff. 180 verso – 209 R. Weddāsē Māryām, il noto Ufficio della Madonna per i sette giorni della settimana; ff. 209 verso – 224 R. Weddāsē za’ Egze’etena M… anqasa berhān: l’altro consueto Ufficio a Maria «Porta della luce»; ff. 225 verso – 250 R. Anafora di Maria composta da Abbā Giyorgis. È un testo raro: dopo di essere stato portato a Roma (Vat. Et. 15, 193; 18, 122, 24, 138 verso), questo testo scomparve totalmente dall’Abissinia in seguito alle devastazioni belliche del secolo XVI. Ritrovata in una caverna di Kaffa, quest’anafora è in uso soltanto nella cappella reale di Adis Abeba (T. M. Semharay, La Messe Ethiopienne, Roma 1937, p. 98). Essa s’intitola dalle prime parole Ma‘azā Qeddāsē: Profumo di Consacrazione; ff. 250-260. Frammenti diversi: Simbolo di Nicea, Decalogo, Preghiera magica, tracce di un’immagine etiopica, due stampe europee, Calendario dei Santi (f. 257 verso), Preghiera, Mc 7, 31-35. I Colofoni sono ai ff. 179 recto; 209 recto; 224 verso – 225 recto: il proprietario è Kefla- Dengel, l’amanuense è Feqra-‘Egzi’e. Risulta che questo duplice manoscritto apparteneva al fondo Pinelli(26)

26) GALBIATI, I manoscritti, p. 141.

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 Fig. 4 – Weddāsē Māryām, (X 104 sup. bis., ff. 180 verso e 181 recto)

Un altro manoscritto in lingua etiopica custodito in Ambrosiana, del quale alcune pagine si stanno perdendo a causa dell’eccesiva fragilità, è il B 22 sup., di 182 fogli, scritto con un inchiostro molto corrosivo. Esso fu studiato e catalogato da Mons. E.R. Galbiati, che ne tradusse così il suo titolo: “Questo è (il libro de) le Ore di Kefla-Dengel figlio (spirituale) di Abuna Ewostatēwos, e il mio maestro è Abbā Kefla Seyon figlio di Abbā Tesfā-Hawāryāt”. Il libro delle Ore fu scritto a Roma al tempo di Clemente VIII e del sovrano dell’Etiopia Ya‘qob, che regnò dal 1597 al 1603. Il libro contiene due opere: A) I computi astronomici, composti da: 1) Il computo delle feste mobili nel periodo di 19 anni; 2) Le osservazioni sui moti del sole. B) Horologion, composto da: 1) Una serie di lezioni bibliche; 2) La Preghiera della mezzanotte; 3) La Preghiera del mattino; 4) La Preghiera dell’ora sesta; 5) La preghiera della quiete (Mc 13, 32-37. Custodisci di continuo, o Signore, in questa ora, nella quale hanno potere i demoni, e circondaci di una barriera con la forza degli Angeli, perché ecco il dominatore della notte); 6) L’inno che parafrasa il Pater Noster.

B 22 sup. (E.R. Galbiati), (ff. 1 verso e 2 recto. Parte iniziale de Il libro delle Ore di Kefla-Dengel).

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 Fig. 5 – Il libro delle Ore di Kefla-Dengel (B 22 sup., ff. 1 verso e 2 recto)

4. FRAMMENTI COPTO-ARABI AMBROSIANI

Nella collezione di manoscritti dell’Ambrosiana in lingua copta vi sono due frammenti in copto-arabo appartenenti al fondo di Eugenio Griffini(27), l’S. P. II. 18. Ter, che fa parte del Rituale copto per il conferimento del Battesimo e benedizioni connesse. I frammenti sono di inestimabile valore, in quanto dopo il Vangelo della presentazione di cui sono indicati i versetti finali (Lc 2, 34-35), viene la Preghiera di benedizione sulla Donna, che ha partorito un figlio maschio. La fotocopia allegata al frammento, qui non riprodotta, traduce il testo con qualche variante, così come è contenuto nell’Edizione cattolica del Rituale copto-arabo. La traduzione autografa di E. Griffini è riportata su alcuni foglietti allegati al frammento.

27) Eugenio Griffini, (1878-1925) fu un insigne orientalista. Fra il 1908 e il 1910 cominciò la catalogazione della prima collezione di 125 manoscritti nella Rivista di Sudi Orientali con il titolo: I manoscritti sud-arabici della Biblioteca Ambrosiana di Milano: saggio del catalogo per materie della prima collezione (coranica, tradizioni, dogmatica, mistica…), Roma 1910. Il catalogo fu poi proseguito con dei nuovi criteri sempre nella Rivista di Sudi Orientali, dal 1910 al 1919 (vedi: Catalogo di manoscritti arabi di Nuovo Fondo della Biblioteca Ambrosiana di Milano, I, Codici 1- 475, ibid. 1920). L’opera del Griffini fu poi ripresa dallo studioso orientalista svedese Oscar Löfgren e proseguita dall’arabista e orientalista Renato Traini. Su questo tema vedi: (http://www.treccani.it/enciclopedia/eugeniogriffini_(Dizionario-Biografico)/ ultima consultazione 27 aprile 2015); cf. P.F. FUMAGALLI, Raccolte significative dei manoscritti: Mosè Lattes, fondo Trotti, Giuseppe Caprotti, in G. VANETTI, Storia dell’Ambrosiana. L’Ottocento, Milano, IntesaBci, 2001, pp. 167-211, 194-206.

 (S. P. II. 18. Ter), frammento copto-arabo (Fondo Eugenio Griffini – 1)

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 Fig. 6 – Frammento del Rituale copto per il conferimento del Battesimo e benedizioni connesse (S. P. II. 18. Ter)

(S. P. II. 18. Ter), frammento Copto Arabo (Fondo Eugenio Griffini – 2).

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 Fig. 7 – Frammento del Rituale copto per il conferimento del Battesimo e benedizioni connesse (S. P. II. 18. Ter)

CONCLUSIONE

Ciò che abbiamo presentato in questo breve excursus sono solo alcune delle perle preziose che la Veneranda Biblioteca Ambrosiana custodisce con amore. Si tratta di un piccolo campionario dei fondi acquisiti al tempo di Federico Borromeo e in tempi più recenti. Ancora oggi, il Collegio dei Dottori dell’Ambrosiana custodisce con cura queste opere a cui, nel tempo, se ne sono aggiunte delle altre, non solo provenienti dal Nord Africa e dal Vicino Oriente, ma anche dall’Asia centrale e dall’Estremo Oriente. Lo studio delle lingue legato alla ricerca filologica, letteraria e dottrinale delle antichità cristiane, è condotto nel quadro degli studi storici dei testi appartenenti ad altre tradizioni religiose ben oltre il bacino del Mediterraneo. Così dalla Cina, dal Giappone sono giunte delle opere interessanti e una notevole documentazione utile all’attività dell’Accademia Ambrosiana, parte questa, che accanto alla Biblioteca e Pinacoteca, promuove ricerche e studi della Veneranda Biblioteca Ambrosiana. La neonata Classe di Studi Africani, che studia questi manoscritti come altri in lingua araba, copta, etiopica, berbera, si inserisce in un lavoro di ricerca filologica con la precisa ambizione di approfondire lo studio storico e di attualità del mondo culturale mediorientale e africano, prendendo in esame le aree nord africane e coinvolgendo anche quelle sub-sahariane. In questo senso, il desiderio del compianto Gianfranco Fiaccadori, insigne accademico dell’Ambrosiana, ispiratore e fondatore della Classe di studi Africani, era quello di coinvolgere gli studiosi della Classe in un opera di approfondimento delle realtà religiose, sociali e antropologiche dell’Africa, non solo araba, ma anche sub-sahariana. Approfondire la realtà culturale e umana di un continente così vasto e variegato quale quello africano, ancora soggetto a guerre intestine e tribali, dovute a questioni politiche ed economiche regionali e internazionali, non si presenta un compito facile. Tuttavia, è dovere nostro farci promotori di quei valori di giustizia e di pace che solo un dialogo culturale e inter-religioso può veramente favorire al di là di ogni interesse di parte, sia esso politico o economico. In questo senso, si potranno promuovere dei lavori di ricerca interdisciplinare che coinvolgeranno la Classe di studi Africani e le altre Classi dell’Accademia, nello spirito proprio di Federico Borromeo, che ha voluto creare questo luogo aprendolo alla comunicazione del sapere, oltre le frontiere geografiche, ideologiche e religiose. Non è retorico ricordare che lo studio dei manoscritti appartenenti alla tradizione cristiana orientale, come a qualsiasi altra tradizione religiosa, è un vero e proprio contributo alla preservazione e valorizzazione di un patrimonio dell’umanità. La sua custodia, analisi e interpretazione, è un nostro compito fondamentale, in quanto studiosi ed estimatori del loro eccezionale valore culturale, scientifico, storico-formativo e religioso.

PAOLO NICELLI

The Manuscripts of Arabic, Ethiopic and Coptic Africa, Collected at the Time of Federico Borromeo, read and catalogued by Enrico Rodolfo Galbiati and Eugenio Griffini The article briefly introduces the historical events which brought about the collection of Arabic, Ethiopic and Coptic manuscripts belonging to the Veneranda Biblioteca Ambrosiana (Ambrosian Library), at the time of Federico Borromeo (1564-1631), Archibishop of Milan and Founder of the Ambrosian Library. The research is based on the studies and cataloguing of E.R. Galbiati, biblist, orientalist and Prefect of the Ambrosian Library and E. Griffini, orientalist and philologist, who collaborated for several years with the same Library. The article underlines Federico Borromeo’s great interest for orientalist studies, looking at the possible institution of a Collegium of Doctores, which were able to read, translate and write scientific commentaries on these manuscripts. At the same time from this research it comes out Federico Borromeo’s idea of establishing a place of culture in the City of Milan, able to communicate the humanistic sense of learning through the attitude of dialogue, bridging relationships among different thoughts, cultures and peoples.

Nicelli P., [Manoscritti dell’Africa araba, etiopica e copta al tempo
di Federico Borromeo, letti e catalogati da Enrico Rodolfo Galbiati ed
Eugenio Griffini] in Paolo Nicelli (a cura di), L’Africa, l’Oriente
Mediterraneo e l’Europa. Tradizioni e culture a confronto, Biblioteca
Ambrosiana – Bulzoni Editore, Roma 2015, pp. 1-12.

Dr. Padre Paolo Nicelli, PIME
Dottore della Biblioteca Ambrosiana
Direttore della Classe di Studi Africani
Professore di Teologia Dogmatica, Missiologia, Studi Arabi e Islamistica.
Uff. (+39) 02-80692.325
E-mail: pnicelli@ambrosiana.it

website: www.ambrosiana.eu

GIOVEDI’ LETTERARI IN BIBLIOTECA

TALAMONA per due giovedì di febbraio e due di marzo

 

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QUATTRO INCONTRI ALLA SCOPERTA DEGLI AUTORI VALTELLINESI E DELLE LORO OPERE di Antonella Alemanni

In principio erano i focolari dove gruppi di uomini si trovavano per raccontarsi le giornate, fatte prevalentemente di battute di caccia. Poi sono venuti i simposi greci, i banchetti romani, le corti del medioevo e del rinascimento e più avanti i salotti e i caffè mentre nei contesti contadini per secoli e secoli si è avuta la realtà delle veglie con tutti che stavano nelle stalle a raccontarsi le storie e la vita. La casa Uboldi si propone come una particolarissima sintesi di tutte queste realtà, ne evoca gli echi di serata in serata, di evento in evento durante i quali si è parlato di tutto. Dall’ arte alla memoria storica, dagli sport di montagna ai viaggi, disquisizioni religiose e persino lezioni di astronomia oltre naturalmente la letteratura. Siamo pur sempre in una biblioteca e la biblioteca è fatta in primo luogo di libri da presentare, commentare, condividere, libri di cui discutere con chi li ha scritti per arricchirsi e aprire nuovi orizzonti, nuovi percorsi. È con questo spirito che il gruppo dei volontari della biblioteca ha voluto proporre questo ciclo di serate denominate GIOVEDI’ LETTERARI che ricordano anche nella dicitura un sapore di altri tempi quando animare salotti era una sorta di moda, un fenomeno di costume cui chi voleva essere dentro lo spirito del tempo doveva attenersi (pare che anche Margherita di Savoia quando stava al Quirinale organizzasse in casa sua degli eventi, dei salotti culturali che in tutta Roma erano diventati famosi proprio con la dicitura di giovedì letterari). Ed è così che a partire da giovedì 4 febbraio, un giovedì si e uno no fino al 17 marzo, ci si è ritrovati alle 20.30 per dare spazio e voce a quattro autori che attraverso racconti, poesie e riflessioni vogliono proporre ciascuno la propria personale visione del Mondo.

 

per leggere intero articolo click qui:   giovedì letterari 2

Aldo Manuzio, il perfetto equilibrio tra arte, tecnica e mercato.

di Donatella Salambat

Aldo Manuzio genio dell’umanesimo e fondatore dell’arte tipografica. In mostra all’Ambrosiana nel V° centenario della sua morte.

 

http://www.valtellinanews.it/articoli/Aldo-Manuzio-il-perfetto-equilibrio-tra-arte-tecnica-e-mercato-20151212/#prettyPhoto

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In un’epoca in cui il libro corre velocemente verso trasformazioni digitali, grandi gruppi editoriali si uniscono e l’e-book tenta di cambiare le nostre abitudini di lettura. La Biblioteca Ambrosiana, fondata dal cardinale Federico Borromeo (e  che ha oggi come prefetto monsignor Franco Buzzi) tuttora legittima espressione e vanto della Chiesa cattolica per essere uno dei centri mondiali d’irradiazione culturale, celebra con un evento straordinario la figura di Aldo Manuzio, uno dei più famosi tipografi ed editori d’Europa.

Nato a Bassiano (oggi comune di Latina) nel 1449, morì a Venezia nel 1515. Dopo anni di formazione umanistica vissuta tra Roma e Ferrara, si trasferì nel capoluogo veneto, città che fu per secoli crocevia di creatività, apertura culturale e fonte d’ispirazione per artisti, scrittori e umanisti.

Aldo Manuzio diventa uno dei maggiori tipografi del suo tempo, il primo editore moderno in quanto introduce innovazioni destinate a segnare la storia della tipografia e dell’editoria sino ai giorni nostri, come nell’ambito della punteggiatura l’apostrofo, il punto, la virgola ed il punto e virgola. In questa mostra si può constatare che tra le immagini appare il geroglifico con l’ancora e il delfino che dal 1502 diviene l’emblema della tipografia.

L’esposizione delle “Aldine”, curata dalla dott.ssa Marina Bonomelli, dell’Accademia Ambrosiana, e dal dott. Angelo Colombo, Catalogatore della Biblioteca, che si terrà presso la Pinacoteca Ambrosiana, dal 2 dicembre 2015 al 28 febbraio 2016, ripercorrerà il meticoloso lavoro di Manuzio, attraverso una selezione dei suoi stampati custoditi nella Biblioteca.

Aldo Manuzio rappresenta il perfetto equilibrio tra arte, tecnica e mercato e per comprendere al meglio la sua figura, ciò che ha rappresentato e tuttora rappresenta abbiamo rivolto alcune domande sia alla curatrice della mostra, dott.ssa Marina Bonomelli, sia al dott. Angelo Colombo, catalogatore della Biblioteca Ambrosiana e sia al Dott. Federico Gallo, direttore dell’Ambrosiana.

Rivolgiamo il primo quesito al dottore dell’Ambrosiana, Federico Gallo, direttore della Biblioteca.

Prima della Mostra delle “Aldine”, in Ambrosiana si è svolto un convegno internazionale su Aldo Manuzio. Qual è il bilancio degli studi presentati?

Il Convegno internazionale svoltosi in Ambrosiana il 19-20 novembre si è chiuso con un bilancio altamente positivo. Sono intervenuti, tra gli altri, i maggiori specialisti sull’argomento a livello mondiale. La biografia di Aldo Manuzio, la storia della sua attività, lo studio delle collezioni dei suoi libri hanno ricevuto nuova luce, nuovi dati, nuove prospettive per la ricerca. Particolarmente interessanti sono stati i momenti di dibattito tra gli studiosi, ai quali ha partecipato in modo costruttivo e competente il pubblico qualificato presente.

Alcune domande specifiche sull’obiettivo della mostra e il messaggio che vuole trasmettere le abbiamo invece rivolte ai curatori della medesima, il dott. Angelo Colombo e la dott.ssa Marina Bonomelli. Cominciamo con il dott. Colombo.

Che cosa vi siete prefissi con questa esposizione?

La mostra ha uno scopo didattico: far conoscere la figura e l’opera di Aldo Manuzio. Non vuole essere un evento riservato ad una ristretta cerchia di bibliofili, bensì aperto al grande pubblico per far conoscere un protagonista della nostra storia culturale. Manuzio fu stampatore, editore, umanista. Alla base della sua attività c’era un deale ben preciso: rivelare, far conoscere il bello, additare agli uomini la grandezza dei pensieri di Platone, la profondità delle ricerche di Aristotele, la suggestione delle liriche greche … pubblicare opere belle … moltiplicare i libri per tutti … far partecipi tutti della ricchezza spirituale della cultura classica.

Che cosa dice a noi contemporanei un personaggio come Manuzio?

Manuzio introduce nella sua stamperia alcune importanti novità, che sono all’origine del libro moderno. Per comprenderne il valore e la portata, potremmo definire Manuzio lo Steve Jobs dell’umanesimo: colui che ha saputo introdurre nella nuova arte della stampa, criteri insieme di bellezza e di efficienza, fino allora sconosciuti. Un vero salto di qualità!

Quali sono queste novità introdotte da Aldo e dalla sua stamperia?

La prima riguarda i caratteri di stampa: l’italico e il corsivo. La seconda il formato dei volumi: non più i grossi volumi che connotavano i manoscritti, ma il formato tascabile, in ottavo. La terza la disposizione grafica del testo, con l’utilissima introduzione della punteggiatura, che rende finalmente leggibili testi alle volte di ostica comprensione. Il suo messaggio per l’uomo d’oggi è riassumibile nelle sue stesse parole:

“ … se si maneggiassero di più i libri che le armi, non si vedrebbero tante stragi, tanti misfatti e tante brutture, tanta insipida e tetra lussuria …”

Con la dottoressa Marina Bonomelli ci siamo invece avventurati nelle campo delle sensazioni persnali.

Quanto tempo l’ha impegnata a pensare la mostra e quanto tempo le è occorso per allestirla?

L’allestimento di questa mostra ha comportato un accurato lavoro, durato più di anno, di ricognizione e analisi del patrimonio delle aldine della Biblioteca Ambrosiana che conserva in tutto ben 296 esemplari, una collezione preziosissima, fra le più rilevanti a livello internazionale. Una suggestiva selezione di 30 aldine è esposta in mostra, in un percorso tematico-cronologico lungo il quale il visitatore potrà ammirare le edizioni più rappresentative della produzione aldina, come anche gli esemplari più singolari di questa collezione.

C’è un lavoro di Manunzio che predilige e che trova spazio nella mostra da lei curata?

In realtà sono due le opere che prediligo e che segnano in modo profondo e durevole la storia del libro. La prima è l’Hypnerotomachia Poliphili del 1499,in assoluto il più bel libro illustrato del Rinascimento, per la varietà della composizione tipografica con cui Aldo sa unire il testo alle immagini. La seconda è il Virgilio del 1501, il primo libro in formato portatile e stampato con il carattere corsivo, opera con la quale Aldo dà avvio alla produzione dei classici latini, greci e in volgare.

 

VALTELLINA NEL PARADISO DELLO SCIALPINISMO

TALAMONA 18 dicembre 2015 con Beno alla scoperta delle montagne

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RACCONTI, AVVENTURE E IMMAGINI COME UN DOCUMENTARIO IN PRESA DIRETTA

Le montagne sono le cattedrali della terra. con i loro portali di roccia, i mosaici di nubi, i colori dei torrenti e gli altari di neve. Così Lucica Bianchi, assessore alla cultura nel presentare questa serata dedicata appunto alle montagne, un discorso che riprende in parte le parole del comunicato stampa preventivamente diffuso per annunciare la serata medesima, permettendo così a tutti gli appassionati di montagna di poter trovare spazio e momenti di condivisione nell’ascoltare i racconti di Beno, Enrico Benedetti, classe 1979, una laurea in ingegneria elettrica e una sconfinata passione per la montagna alla quale ha dedicato tutte le sue energie attraverso molteplici attività: alpinista, corridore, pastore, scrittore, fotografo, divulgatore ed editore di libri e pubblicazioni sul territorio alpino valtellinese e sulla sua cultura fra cui, sopra tutti, la rivista trimestrale LE MONTAGNE DIVERTENTI, nata nel 2007. Ma è sulla sua attività di fotografo che Beno tende a dare un maggiore accento raccontandola così: “La mia fotografia va di pari passo con il mio modo d’andare in montagna, senza badare alla lunghezza degli avvicinamenti o all’isolamento dei luoghi, e si distingue per scatti in ambienti severi: dalle vette delle montagne, alle creste o alle pareti anche nelle condizioni meteo più strane.”  Una serata per approfondire la conoscenza delle nostre montagne durante la quale si è parlato di scialpinismo in occasione dell’apertura della stagione ed è stato presentato il libro ALPI SELVAGGE che racconta l’arco alpino a tutto tondo. Una serata che ha preso il via a partire dalle ore 20.30 alla Casa Uboldi e che è stata ben accolta anche dal sindaco Fabrizio Trivella che questa sera, come lui stesso ha detto nel suo intervento di saluto, non è intervenuto alla serata in veste di amministratore, ma in veste di sciatore, di sci alpinista amatoriale “scio fin da bambino cominciando con la discesa e finendo per convertirmi allo scialpinismo, un modo più spirituale di vivere la montagna. Riguardo a questa serata non si può che apprezzare l’operato dell’assessore Bianchi che accanto a tematiche legate all’arte e alla cultura alta riesce anche a proporre serate come queste, tematiche più godibili da un maggior numero di persone” che infatti riempivano la sala “difficilmente nell’organizzare le nostre serate abbiamo riempito la sala come questa sera” ha osservato ancora il sindaco “dunque significa che il tema è davvero stimolante per tutti”.

A questo punto ha preso la parola Beno stesso cominciando a introdurre il suo racconto “questo doveva essere un incontro di presentazione del libro ALPI SELVAGGE, ma ho pensato di non fare una presentazione classica, di non presentare il libro sempre nello stesso modo e così ho pensato di proporre come corollario una serata sullo scialpinismo per riuscire a vedere un po’ di neve a dicembre quest’anno”.

Il racconto di Beno è cominciato dalla fine si può dire, con una prima presentazione dedicata alle gite da lui effettuate in montagna proprio quest’anno con immagini realizzate in modo anche un po’ grezzo, perché, come lo stesso Beno ha puntualizzato “in montagna si pensa più a sciare che a girare delle immagini”. Ed ecco ora il suo racconto.

La Valtellina secondo me è il paradiso dello scialpinismo perché per il 90% le montagne valtellinesi sono completamente sconosciute e quindi si riesce ancora a fare esplorazione ed è quasi un lusso poter dire questo a 100 km da Milano. Quel che mi piace fare quando vado in montagna è proprio questo, esplorare, conoscere. È molto raro incontrare altre persone durante queste escursioni. La Valtellina, rispetto ad altre zone alpine dove ho viaggiato, ha la splendida particolarità di avere in pochissimo spazio tantissime valli e tantissime montagne, se pensiamo ad esempio alle Dolomiti c’è una singola montagna che la vedi a chilometri di distanza. Qui ci sono montagne con distese infinite di valli. Una volta salita una montagna viene la frenesia di andare alla scoperta delle altre, capire se si può sciare. Le mie escursioni sono spesso il risultato di anni e anni di preparazione e di osservazioni. Bisogna tornare nello stesso posto più e più volte prima di pianificare precisamente l’escursione vera e propria. Il tempo non è buono oppure non si ha tempo, bisogna che questi due elementi vengano a coincidere, bisogna che nevichi per andare a sciare. Per questo ci sono annate buone in cui cadono fino a due metri di neve, come due anni fa e annate meno buone piene di notti serene, che se per tutti sono una gioia, per uno sci alpinista sono un incubo.

Il racconto di Beno era accompagnato sia dalle immagini che dalla musica, sottofondi di musica pop rock a sottolineare la versatilità delle sue passioni.

Finalmente a febbraio di un anno caratterizzato da notti serene e da spolverate (il 2013) il tempo è cambiato. Una bella nevicata consente di partire per un’altrettanta bella gita. Le prime nevicate possono essere pericolose per il rischio valanghe, ma i veri sci alpinisti non le evitano perché per chi ha questa passione sono i momenti migliori.

Le gite classiche

Queste escursioni sono molto diverse dalle gite classiche che possono venire in mente più facilmente a tutti e dunque fanno si che i luoghi siano piuttosto affollati. Un luogo per una gita classica può essere ad esempio Cima Piazzi scendendo da passo del Foscagno che richiede abilità sciistiche di base. Non è un luogo in realtà così frequentato, non è molto facile da trovare, ma è comunque una delle gite più classiche e famose. Un’altra meta classica è punta Cadini che siccome ha poco dislivello quando viene aperta la strada in aprile è trafficata come al supermercato, come in città all’ora di punta. I giorni migliori per godersi questa gita sono quelli infrasettimanali in periodi in cui ha nevicato da poco così da non trovarsi tutti insieme così come accade in val Tartano dove tutti si ritrovano sui medesimi percorsi. Le gite sono bellissime però dover fare la fila anche in montagna non è molto emozionante. In Val Masino poca gente esce dai soliti percorsi montani del Sasso Moro appena sopra gli impianti sciistici di Palù, oppure Pizzo Scalino che conta sulla cima almeno settecento persone di domenica. Da pizzo Scalino la cima regala una splendida vista sulla val di Togna e la val Fontana, due posti eccezionali per chi ama lo sci. Le due cime che ritengo più interessanti sono quelle accanto a pizzo Scalino. Bisogna andarci esplorarle e conoscerle partendo da zero perché non si sa nemmeno come salire, come trovare un percorso, bisogna procedere per tentativi ed errori, riorganizzare più volte. Comunque ne vale la pena.

A questo punto Beno ha presentato due discese da lui effettuate in val Fontana. Nel suo archivio Beno ha i ricordi, le immagini di almeno seicento gite di scialpinismo. Per stasera ha scelto di portare quelle di sci ripido.

La val Fontana è composta da una sfilza di montagne sul cui fondo si intravede Talamona, dunque dalla statale si può intravedere un piccolo brandello di val Fontana. Dal 2004 ho cominciato a pianificare la mia esplorazione della val Fontana, di tutte le cime che vi si trovano. Alcune sembrano appetibili per lo sci, altre, come la vetta di Ron, sembrano totalmente repulsive, però a questa montagna che guarda direttamente il fondovalle valtellinese c’ero particolarmente affezionato allora ho cominciato a condurre i miei tentativi nei modi più strampalati. Nel 2004 decido di voler salire in invernale. Per quanto riguarda l’attrezzatura ero ancora agli albori, equipaggiamento molto artigianale, arrangiato. A cavallo del periodo di Natale il primo giorno affondando nella neve ho battuto traccia fino all’altitudine di 2008 e il giorno dopo sfruttando questa traccia sono salito fino a 3050 raggiungendo quasi la vetta mentre stava scendendo la notte, il che mi ha costretto a tornare indietro. Questi posti sono caratterizzati da pendii adatti più ai camosci che alle persone, ma non ho proprio potuto fare a meno di tornarci nel 2006 col mio amico Matteo approfittando di una splendida nevicata da un metro a novembre. Sulle guide turistiche le informazioni relative alla cima di Ron per quanto riguarda i consigli per escursionisti e sciatori recano “assolutamente da evitare con neve” e questo mi attraeva particolarmente, come una sfida che dovevo assolutamente vincere. In realtà poi questa salita non offriva particolari problemi tranne che per il fatto che era stretta. Dapprima a novembre con Matteo e poi il 26 dicembre da solo per la mia discesa con gli sci. Dopo la val Fontana un’altra montagna che volevo assolutamente sciare era pizzo Calino perché è una montagna strana a forma di tronco di piramide, con la punta piatta grande come un campo di calcio, ricorda un po’ il cratere di un vulcano, come se questo monte fosse un po’ il Vesuvio valtellinese. Credevo di poter scendere questa montagna con gli sci perché la via normale che sale dallo spigolo di destra non ha grandi pendenze soprattutto in presenza di molta neve, però bisognava studiare e aspettare le condizioni ottimali. Ho studiato e osservato dal 2005 al 2008 poi nel 2008 nei giorni di Natale non c’è neve per tre giorni. Cio vuol dire che sulla montagna c’è la giusta quantità di neve senza cornici, le condizioni ideali. Ho fatto la mia escursione il giorno stesso di Natale del 2008 seguita dalla discesa con gli sci lungo il pendio accompagnato da un gruppo di camosci sulla cresta montuosa. Quel giorno ero da solo arrivo al punto dove si lascia la macchina e mi ritrovo impantanato rischiando che salti tutto. Fortunatamente incontro un cacciatore che mi ha aiutato con la macchina poi ognuno è andato per i fatti suoi finchè alla sera ci siamo ritrovati nello stesso momento e nello stesso punto dopo che ho disceso in sciata continua più di duemila metri di dislivello. Di fronte al Calino c’è il monte Combolo. Chi guarda questo monte da Ponte in Valtellina dopo le prime nevicate afferma di vedere sulla parete il volto della Madonna che rende il monte famoso ai credenti del luogo, mentre i non credenti nello stesso punto ci vedono Madonna la cantante. Questa montagna di per sé non è difficile da sciare però ha dovuto aspettare tanti anni perché è pericolosissima per le valanghe. Dalla cima c’è tutto un pendio che scende a quaranta gradi immettendosi in una valle sempre più stretta che infondo diventa un canyon. La pala sud della montagna esposta al sole tende facilmente a scaldarsi e a creare valanghe che scendono fino a valle spazzando via tutto sul loro cammino. Ci sono poche piante disposte a ciuffettini qua e là. A gennaio di due anni fa col mio amico Giovanni abbiamo trovato le condizioni ideali per la gita sognata da tempo, una arrampicata sul pendio seguita da discesa libera con sci. Alla salita vera e propria, il 25 gennaio, è preceduta due giorni prima una salita preliminare per studiare le condizioni della neve. Gli ultimi metri prima della vetta erano più scivolosi a causa del vento che ha fatto ghiacciare la neve. Il mio amico era particolarmente in forma e mi distanziava spesso. Salendo si intravedevano le piste dell’Aprica. Dalla cima si poteva poi intravedere il gruppo del Bernina. La maggiore difficoltà in alto sono le rocce nascoste sotto la neve poi il bello comincia dopo i primi 100 m. una delle più belle emozioni quando si condivide una salita con gli sci è, tanto per citare una frase di un altro mio amico Pietro, arrivare sulla cima per stringere la mano al compagno, come simbolo appunto della condivisione dello sforzo. Un’altra montagna che mi ha fatto dannare è la corna Brutana che si trova nel comune di Tresivio ed è la sua cima più alta che si affaccia sulla Valtellina e si trova vicino alla vetta di Ron e presenta a sud una parete che può sembrare del tutto rocciosa, ma in realtà ha al suo centro un canale nevoso nemmeno troppo ripido che ritenevo sciabile. Il problema di questa parete è che è orientata a sud e questo rende difficile trovare una neve che sia nelle condizioni adatte per consentire una discesa con gli sci. Di solito o la neve è ghiacciata oppure è farinosa con pericolo di valanghe e quindi bisogna aspettare i giorni con pericolo 4 per provare l’escursione. Quando ci sono andato è stato in compagnia di un mio amico di Caspoggio, uno dei migliori sciatori valtellinesi, molto spericolato. Due giorni prima di andare con questo amico, visto che sembravano esserci le condizioni giuste ho provato ad andare da solo, ma una volta in salita la neve si è rivelata non molto stabile. Finalmente arriva il giorno. Una nevicata, seguita da un pomeriggio di sole, l’ideale per una bella gita a quattro con anche le fidanzate in attesa in una piazzola sicura che possono dunque ammirarci dal basso come due puntini sul fianco della montagna. Il segreto dello sci ripido sta tutto nell’atteggiamento mentale, nel superare le paure e acquisire sicurezza in sé stessi. Solo così si evitano errori e dunque anche di farsi male. La cima del monte dava su un canale incuneato che dava il via a tutta una serie di curve e poi ad un tratto ripido. Una volta rientrati dal canale principale tutto diventa più bello e più facile. Un’altra pazzia che avevo in mente da anni era quella di poter sciare la montagna del Painale. Rocciosa e uniforme su tutti i lati più o meno, particolarmente ripida sulla parete nord ovest un’altra che tende ad essere verticale in basso, la parete sud ovest a strapiombo e la parete est dove i primi escursionisti di fine Ottocento erano riusciti a trovare una via, è una montagna che, dopo molte salite, ho ritenuto potesse prestarsi per dare una possibilità anche agli sciatori. Anche questa montagna la salgo con l’amico spericolato di Caspoggio. C’è una speranza per poter sciare probabilmente sulla cresta, ma è ancora da testare. Noi si è ripiegato sulla parete est, non altissima, intorno ai 400 m che però presenta una grossa barra di rocce. Bisognava capire se fosse possibile salire comunque, aggirarla in qualche modo e poi capire come organizzare la discesa con pendenze che si aggirano intorno ai sessanta gradi. Col mio amico saliamo in un giorno in cui la neve non è particolarmente bella, prevalentemente ghiacciata coi passaggi stretti tra le rocce e una discesa che complessivamente metteva in difficoltà con le picozze, ma il mio amico la scendeva a salti con gli sci. Nel complesso e se si esclude la parte finale, il Painale è stata la montagna più difficile tra quelle affrontate. Tra le vette valtellinesi, le Orobie in particolare, la più famosa è il pizzo di Coca dalla cui vetta scende un lungo canalone diretto a nord ovest. Dagli anni Ottanta questo monte è diventato un classico dello sci ripido. Ci si è finiti a fare una gita qui per caso, avendo inizialmente in mente un’altra montagna che però quel giorno programmato per quella gita aveva un notevole rischio valanghe che ha spinto ad optare per il pizzo di Coca esposto a nord con una buona neve al contrario delle esposizioni est con neve troppo instabile. Il canalone di discesa del Coca è molto famoso coi suoi 1200 m di dislivello in sci ripido, un must per gli specialisti di questa disciplina da provare almeno una volta nella vita, ma anche due o tre con la neve bella come quella di quel giorno. La montagna che si era pensato di scalare originariamente era il pizzo di Scotes, la sesta cima più alta delle Orobie con una pala rivolta a nord ovest molto ripida che scende fino a digradare in un vallone  della Piota, un vallone che sfocia su delle cascate di ghiaccio. In un’annata eccezionale come il 2014 le cascate di ghiaccio erano ridotte ad una striscia di una ventina di metri e per il resto era tutto sciabile allora finalmente è arrivato l’anno scorso il momento anche per la gita allo Scotes che si può osservare da Teglio con un binocolo per studiarlo e programmare l’escursione. La cima è preceduta da un avvallo ripidissimo ma prima di raggiungerlo c’è un tratto più pianeggiante con una barra di rocce. Mi è capitato di leggere schede tecniche che riportavano temperature di quaranta gradi, ma sono state redatte da persone che qui non sono mai salite. Io e il mio amico Giovanni salendo abbiamo trovato una cima dalla neve immacolata cui è seguita una discesa molto ripida. La ripidità si può dedurre dagli spostamenti della neve. Una difficoltà nello sci ripido consiste nel saper scegliere l’attrezzatura corretta che non deve essere mai troppo leggera, ma affidabile. Chi risparmia sul peso deve essere abilissimo a sciare perché l’attrezzatura leggera è sottoposta a maggiori sollecitazioni ambientali. Una volta discesa la parte alta del vallone, ritorno alle cascate da fare sempre in discesa e dopodiché il percorso si snoda in mezzo ad un labirinto di grossi massi. Questa montagna è visibile dalla valle e vedendola si può notare chiaramente che è adatta ad essere sciata. Nonostante questo non si trova mai nessuno lassù e neanche nei valloni vicini eppure vi sono zone su questa montagna che non richiedono neppure troppo sforzo per essere sciate. Una volta chiusa questa esperienza la mia attenzione si è concentrata sulla Val Malenco dove si trova una montagna caratterizzata da rocce scure e cime repulsive, il pizzo di Recastello di 2888 m che sorge completamente in terra bergamasca sul retro della valle. col mio amico di Caspoggio molto spericolato l’abbiamo raggiunta direttamente dalla Valtellina con gli sci. Particolarmente interessante per la discesa, la parete nord. L’itinerario seguito è stato particolarmente lungo, dal passo di Bondone si scende al lago del Marmellino e da li si risale alla cima di Recastello. Il tutto con un dislivello di 3004-3005 m. Il mio amico qui è stato particolarmente spericolato scegliendo per la discesa un percorso pieno di rocce che non si sapeva bene come andava a finire. Restando sulle Orobie una cima molto interessante è il Medasc caratterizzato da sette picchi frequentati soprattutto d’estate per discese alpinistiche, ma io volevo provare a fare una discesa con gli sci. Nel 2012 si comincia a provare la traiettoria di sinistra un po’ stretta. Ci si ritorna un’altra volta nel 2014 e ci si accorge che questa via è piena di voragini così il mio amico Giovanni decide di optare per la via di destra caratterizzata da tutta una serie di placche rocciose inaccessibili su cui però si può scendere quando si deposita la neve sopra. Questa non è stata la discesa più difficile del 2014, ma è stata la più pericolosa per via della nutrita presenza di ghiaccio che rendeva la neve dura e compatta come marmo. Non sempre intestardirsi per voler scendere a tutti i costi una montagna comporta dei buoni risultati. Il corno di Braccia l’avevo salito in tutti modi. Nelle guide moderne nessuno diceva che c’era un accesso sulla parete nord. In un libro di fine Ottocento ho letto di alcuni pionieri che partiti da Sondrio che un passaggio lo hanno trovato, ma è un canaletto stretto difficile da scovare. Subito non l’ho trovato nemmeno io quando sono andato apposta a cercarlo. Dopo un mesetto decido di tornare e riprovarci, ma mi sono scontrato con una grande valanga, c’erano persino i gipeti che volteggiavano e io mi sono trovato li vicino al versante che veniva trascinato a valle. le valanghe spesso hanno una velocità pari a quella di una persona che cammina, ma questo non impedisce loro di trascinare tutto con se. E mentre si stava li ad osservare la valanga il gipeto portava via a poco a poco i pezzi di una carcassa, forse proprio quella di un animale morto travolto dalla valanga. Questo gipeto insieme ad un altro esemplare sono la prima coppia di gipeti insediatisi in Val Malenco dopo anni in cui erano estinti sterminati dalla superstizione popolare, soprattutto dei pastori che temevano di vedersi portare via gli agnelli. Appena al di là delle creste della Valmalenco, una valle rinomata per lo scialpinismo, si trova un’altra valle, la Val di Forno che dal Maloja si incunea fino ai versanti settentrionali della Val Masino. Un posto incredibile per lo sci che si può raggiungere in camminata da Chiareggio. Dietro monte del forno c’è passo Vatseda e dietro ancora vari versanti tra cui la discesa della cima di Rosso. Al nostro amico spericolato dei salti un po’ troppo temerari rompono gli sci a percorso appena iniziato. Si procede lungo valle Rosso finchè da lontano si vede arrivare qualche perturbazione e allora si va verso nord della cima di Rosso coi suoi 45-50 gradi di dislivello che l’amico temerario ha disceso con uno sci legato con lo scotch, ma poi ha fatto seguito un’altra avventura sul pizzo del Torrone Centrale con un versante ripido che scende sul versante nord la cui difficoltà è un crepaccio terminale di 6-7 m. Nel 2014 è arrivata molta neve che ha chiuso il crepaccio così la salita è stata possibile, dopo aver fatto quella della cima di Rosso. Io col mio amico temerario partendo dalla Val Malenco, mentre altri due amici sono partiti dal Maloja finchè ci siamo trovati in mezzo alla valle alle 7.30 di mattina perché qualcuno doveva andare a lavorare. Una valle enorme che dalla fine dell’Ottocento si è abbassata mediamente di 180 metri di spessore. Li l’amico temerario ha voluto gareggiare con un gruppo di ragazzi accampati nella valle per girare un documentario sullo sci ripido. Solo che loro avevano degli sci più spessi e specifici lui degli sci più standard. Lui così si ribalta due volte e la seconda perde uno sci. Così gli presto un mio sci. In salita sono andato io con uno sci solo e poi lui è sceso dal pendio con uno sci solo. Oltre a questa piccola selezione il nostro territorio presenta altre mete sciistiche interessanti, in val Masino, il Canal Corto, una cresta rocciosa su cui si scia nel lato che rimane dietro, io con un amico ci sono andato nel 2009, una discesa ripidissima che è sempre sul dosso piano, ma con una barra di rocce che protegge l’altopiano sommitale. Una neve che sembrava glassa, nonostante tutto faceva caldo perché l’estate era alle porte. E poi il Ligoncio sciata dopo un po’ di salite a piedi e due tentativi. Il vero sci estremo è questo: trascinarsi per tre ore sugli sci per sciare effettivamente solo un’ora e mezza incontrando ostacoli climatici come la grandine e cercando di individuare la traiettoria migliore, tenendo conto che alcuni passaggi sono particolarmente problematici, strettoie, barre di roccia. Nulla che potesse spaventare il mio amico temerario che scivolava tranquillo tra curve e passaggi stretti distanziandomi parecchio. In questo sta l’essenza dello sci. La val Masino offre altre cime interessanti, due tutte vicine su cui sono salito e sceso. La cima della Moldasca o ferro centrale (le cime infatti sono le cime del ferro) poi c’è il ferro orientale con salita a S. La Moldasca reca dietro i colossi del Cingalo del Badile tra l’Italia e la Svizzera. Io l’ho fatta da entrambe le parti e la cosa più lunga è il ritorno coi mezzi pubblici più che i 2500 m di dislivello. Per quanto riguarda il ferro orientale, esiste una guida di scialpinismo che dice che questa cima si raggiunge facilmente dalla cresta, ma in realtà la salita si è rivelata ardua così sono tornato indietro accontentandomi della salita fatta l’inverno prima da un’altra parte.

Ma le gite sono troppe per raccontarle tutte e dunque a questo punto Beno è passato alla presentazione del libro.

Alpi selvagge

Questo libro è il prodotto degli sforzi congiunti di 17 fotografi e di due autori di testi con lo scopo di fare un omaggio all’arco alpino, in particolare le 24 cime ritenute più rappresentative associando a ciascuna cima una specie animale anch’essa ritenuta rappresentativa, una sorta di simbolo per ciascuna cima descritta. L’intero arco alpino è molto lungo. Si parte dal colle di Caribona in Liguria fino a Vienna. Le montagne richiedono una trattazione molto vasta, anche perché di ogni montagna, come Beno ha fatto notare raccontando le sue avventure sulla neve e le cime, c’è moltissimo da dire, infiniti dettagli e curiosità. Ed è proprio la descrizione di una sfaccettatura diversa di ogni montagna la parte che Beno ha avuto nella realizzazione di questo libro, che stasera è stato presentato avvalendosi di una presentazione realizzata con una scelta di foto tratte dal libro medesimo. Il tutto partendo da una domanda: perché una montagna può risultare più famosa o più importante delle altre? Magari perché tale montagna ha una forma bellissima oppure per le storie degli uomini che sono saliti, che hanno fatto della conquista di quella specifica vetta la loro missione o per gli animali che ci vivono, per i particolari fenomeni geologici o climatici che vi si verificano o magari per la presenza di ghiacciai dalle proporzioni inimmaginabili.

Il viaggio del libro parte da un gruppo di monti nelle alpi Liguri famose per il loro interno con 40 mila chilometri di grotte calcaree. Una montagna in questa parte dell’arco alpino è divenuta tristemente famosa quando nel 2012 vi si è disperso il primario di chirurgia di Lecco durante un’escursione ed è stato ritrovato morto qualche tempo dopo, un paio d’anni dopo per la precisione con i due amici saliti con lui. Si diceva all’inizio che sono stati associati degli animali ad ogni montagna trattata. Un’associazione non facile perché gli animali tipici delle alpi sono presenti un po’ su tutto l’arco alpino e dunque a volte le associazioni sono state casuali. In alcuni casi invece come in quello del Gran Paradiso l’associazione è stata d’obbligo. Il Gran Paradiso di per sé non ha niente di che. In alcune descrizioni di inizio Novecento si legge che “ha roccia, ma non troppo, ghiaccio, ma non troppo, è alta ma non troppo, gli italiani ci tengono particolarmente semplicemente perché si tratta dell’unico Quattromila delle alpi che sorge completamente in territorio italiano”. L’animale rappresentativo di questo monte non poteva che essere lo stambecco. A fine Ottocento questi animali erano stati quasi completamente sterminati per delle stupide credenze come quella di un ossicino che gli stambecchi hanno vicino al cuore che preserverebbe dalle malattie cardiache improvvise o quella delle corna afrodisiache (un luogo comune che riguarda molti animali e anche per parti diverse dalle corna ndr), insomma per un motivo o per l’altro questi animali erano diventati trofei di guerra e pure in Svizzera non ce n’era più neanche uno. Essendo trofeo ambito, il re ne voleva un po’ per sé da cacciare. La sua riserva di caccia è diventata il nucleo di quello che oggi è il Parco Nazionale del Gran Paradiso, creato negli anni Venti del Novecento e preservato ora non più dalle guardie reali ma dal Corpo Forestale dello Stato. Gli stambecchi viventi oggi sono tutti discendenti di quei pochi esemplari preservati dal re per la sua caccia personale. Lo stambecco è uno splendido animale perfettamente adattato ai pendii ripidi coi loro zoccoli che si aprono sul davanti. L’età di uno stambecco si stabilisce contando i nodi sul corno. A me recentemente è capitato di trovare un corno (senza cervo perché capita che li perdono) con 27 nodi. Un nonno stambecco. Parlando delle alpi questa sera vi accennerò le principali. Il Monte Bianco, la più alta dell’arco alpino (ma non la più alta d’Europa perché recentemente ho scoperto che questo primato va ad un monte dell’Europa Orientale che mi pare stia sul Caucaso il Monte Ebron ndr) eccezionale sotto ogni punto di vista; altezza a parte un dato interessante è la cima, una cupola di ghiaccio che si trova a una quarantina di metri più in alto rispetto alla cima rocciosa e quaranta metri più ad ovest per via dell’azione dei venti. La storia della prima salita del monte a fine Settecento è particolarmente interessante. Erano stati promessi dei soldi a chi ci fosse riuscito da uno scienziato di Ginevra cui occorreva che qualcuno arrivasse in vetta per poter fare delle verifiche sperimentali sul barometro di Torricelli. Dopo ventisei anni due giovani riescono ad arrivare in vetta e lo scienziato che stava ad osservarli da lontano col binocolo per essere sicuro che tutto si svolgesse in regola ha chiesto che i due l’anno successivo lo accompagnassero, resosi conto che la salita non presentava particolari problemi. Una salita eccezionale perché questo scienziato si è portato dietro di tutto. Diciassette portatori che recavano damigiane di vino, tenda, un piccolo laboratorio scientifico per gli esperimenti in vetta, il suo letto e addirittura una stufa a legna. Essendo il monte Bianco dunque il monte più alto di tutti ed essendo che una funivia ne raggiunge facilmente le pendici ormai, ai giorni nostri ci salgono milioni di turisti ogni anno dunque il monte Bianco purtroppo non è più un posto dove fare esplorazione perché, sebbene sia un massiccio grandissimo c’è sempre tantissima gente. Io ci sono stato col mio amico Giovanni che in questo modo concludeva la sua esplorazione dei Quattromila delle alpi con cinque creste appunto situate sulla vetta principale del monte Bianco. Sulla cima del monte Bianco, abbiamo scoperto, non solo c’è molta gente, ma è tutta gente che lascia “ricordini” come quelli dei cani per le strade delle città, ma per accamparci siamo comunque riusciti, fortunatamente, a trovare un punto tutto con la neve bianca. Sulla cima dove saremmo dovuti salire ad un certo punto c’era un elicottero che portava via da quella stessa cima un gruppo di alpinisti come fossero delle salsicce. Il mattino dopo ci avviamo per la Cresta del Diavolo per raggiungere le famose cinque creste rocciose caratterizzate da un granito rosso, ruvido, generalmente solido, dove si alternano appunto passi di roccia a selle di neve e ghiaccio. All’inizio siamo soli, ma poi siamo raggiunti da carovane di gente; lì infatti le guide vengono pagate profumatamente per portare clienti e dunque la montagna diventa luogo di buisness, anche d’avventura ma regolata, dove tutti vanno negli stessi punti a fare le foto ricordo di fretta perché sono molti i gruppi che salgono. Una volta che noi raggiungiamo la cresta da scendere poi a corda doppia si sale si riscende un po’ di volte fino ad arrivare al punto dove avevamo visto l’elicottero che portava via come dei salsicciotti gli alpinisti. Arrivati li si scopre che è una calata nel vuoto da cui non ci si riesce più a liberare se non arriva appunto l’elicottero. Quando siamo arrivati c’era un gruppo di tedeschi che si stavano calando. L’ultima cresta rischiava di non essere conquistata per via della presenza di un ricordino particolarmente sovradimensionato che però non ha scoraggiato il mio amico dal compiere la sua impresa, la parte più coraggiosa di tutta la traversata. Dopo il monte Bianco non poteva mancare il Cervino, forse la montagna più bella delle alpi cui sono legate molte storie di alpinisti che l’hanno scalata, storie a volte tragiche; quella però cui la montagna è associata nell’immaginario collettivo è l’impresa di Walter Bonatti, la scalata della parete nord, un’impresa voluta per ricordare un gruppo di alpinisti che, cento anni prima, proprio su quella parete sono morti mentre erano di rientro dalla conquista della vetta: erano legati insieme in una cordata, è bastato che uno scivolasse per far precipitare tutti, tranne tre alpinisti che si sono salvati perché la corda (che a metà Ottocento era di canapa) si è rotta così loro non sono stati trascinati. Anche un altro monte, lo Iunfrao è associato ad imprese alpinistiche tragiche, ma è famoso soprattutto per l’imponente ghiacciaio dell’Aresh il più grande ghiacciaio delle alpi che è solo uno dei ghiacciai che occupano i vari versanti di questa montagna. I dati di questo grande ghiacciaio sono impressionanti: grande come 12 mila campi da calcio, 900 m di spessore nel punto più spesso e se pensassimo di mantenere l’attuale popolazione mondiale sciogliendone le acque ponendo che ogni abitante del mondo beva un litro di acqua al giorno, con l’acqua di questo ghiacciaio l’umanità potrebbe sopravvivere sei anni. è impressionante soprattutto se si considera il progressivo assottigliamento dei nostri ghiacciai che ormai non basterebbero al fabbisogno di una famiglia media per una settimana. Per quanto riguarda le montagna Valtellinesi nel libro c’è il pizzo Badile cui è associato il gallo Cedrone. Poi abbiamo il pizzo Bernina che è l’ultimo Quattromila delle Alpi a est delle stesse con una vasta distesa di neve mista a ghiaccio, la più vasta di tutto l’arco alpino. C’è poi la cima che porta alle Dolomiti con le loro rocce chiare i cui effetti cromatici si possono apprezzare in particolar modo all’alba e al tramonto. Sulle Dolomiti soggiorna spesso il nostro fotografo di punta, un ragazzo che ha realizzato la maggior parte degli scatti li ha fatti tra i diciannove e i vent’anni, un grande appassionato con una tecnica eccezionale, è riuscito, con mesi di appostamenti in tenda o in capanno, ad immortalare gli animali più difficili, uno di quei fotografi che cercano di  acquisire confidenza con gli animali da fotografare cercando di scomparire nell’ambiente, di mimetizzarsi al punto tale che gli animali giungono a considerarli come parte dell’ambiente, come se fossero rocce o alberi e poi usando varie tecniche ingegnose. In questo modo ha fotografato i cuculi, che depongono le uova nei nidi di altre specie che diventano genitori adottivi a tempo pieno, anche perché, una volta che il cuculo esce dall’uovo, butta fuori dal nido le uova e gli eventuali altri piccoli che vi trova al suo interno; ha fotografato anche il martin pescatore un bellissimo uccello dal piumaggio azzurro e arancione un po’ cangiante, difficile non solo da fotografare, ma anche da avvistare perché è molto veloce. Per scovarlo bisogna seguirne un esemplare per un po’ e conoscere le sue abitudini. Si tratta infatti di un uccello abitudinario che caccia sempre nello stesso posto e si mette sullo stesso rametto a mangiare il pesce che ha catturato, perché è di pesce che si nutre. Il nostro fotografo, Jacopo, ha passato mesi a fare amicizia col martin pescatore fino appunto, come dicevamo prima, ad apparire come un elemento del paesaggio, nascosto nel suo capanno, mentre studiava le tecniche migliori per catturare i momenti significativi. Ha montato la macchina fotografica su una slittina galleggiante, ha costruito gabbie di vetro da mettere sottacqua collegata ad un cavo di scatto remoto lungo otto metri. Naturalmente i fotografi (e non solo quelli di natura) devono fare tantissimi scatti per ottenerne uno solo che è quello giusto, perfetto, che si trova nel mucchio e neanche sempre c’è (conosco addirittura un fotografo che si occupa di altri generi, ma che dice sempre che se una persona che vuol fare questo mestiere riesce a realizzare nell’arco di tutta la vita cento scatti ottimi è un bravo fotografo, questo per dire che bisogna puntare sulla qualità e non sulla quantità, pochi ma buoni insomma ndr). Dallo scatto perfetto però si può notare la particolarità di questo animale, una membrana che gli copre gli occhi rendendoli impermeabili e permettendogli dunque di immergersi. Nel libro c’è tutta la foto sequenza (mostrata anche nella presentazione proiettata ndr), immersione, cattura del pesce, consumazione del pasto. In generale tutte le foto di animali che si trovano nel libro sono opera di Jacopo e sono di una qualità eccezionale. Bisogna tenere conto che Jacopo, che lo ricordiamo è un ragazzo di poco più di vent’anni, pubblica per TIME, NATIONAL GEOGRAPHIC è uno dei più bravi fotografi d’Italia. Restando sulle Dolomiti parliamo della cima della Marmolada, che ci fa conoscere un altro ragazzo prodigio. Un ragazzo che a ventitré anni è salito per una via molto difficile sulla montagna con pochi attrezzi senza dire nulla a nessuno, una via molto rocciosa di 1200 m di dislivello. Altri alpinisti lo hanno visto salire quasi allo sbaraglio da solo, nel libro c’è pure una parte di un’intervista che questo ragazzo ha rilasciato in seguito in cui dichiara che la via non è difficile ci sono solo un paio di strapiombi che richiedono attenzione e accorgimenti particolari. Uno strapiombo che si apre su 600 m di vuoto che va saltato avendo dall’altra parte un appiglio largo un dito. Comunque questo ragazzo è ancora vivo e sta continuando a fare questo tipo di scalate con una tecnica davvero sopraffina. È un ragazzo straniero dal nome impronunciabile che a vederlo sembra il classico secchione della classe timido e occhialuto per nulla portato all’attività fisica ed è invece tra i cinque più forti rocciatori al mondo con un forte autocontrollo. Nel libro si incontrano anche le tre cime di Lavaredo (una splendida foto con la via Lattea sullo sfondo), poi le montagne su cui Messner ha mosso i primi passi e poi arriviamo alla montagna più orientale dell’arco alpino che sorge vicino a Caporetto, località divenuta tristemente famosa durante la Grande Guerra, una piana dritta di pascolo senza capannoni. La cosa che mi è piaciuta di più di questa terra quando l’ho visitata sono i fiumi che escono di colpo dalla montagna con un’acqua talmente trasparente che la si nota solo sentendo il bagnato sui piedi. Il Trigla, la montagna più orientale dell’arco alpino è anche la montagna nazionale della Slovenia caratterizzato da un fenomeno ottico spettacolare chiamato fantasma di Broken che io sono riuscito a vedere appena ci sono andato. Per vederlo bisogna avere il sole basso alle spalle e la nebbia di fronte. Si tratta di una sorta di arcobaleno circolare con l’immagine di chi sta osservando come stampata in mezzo. Alzando le braccia, nel riflesso di questa immagine compaiono lunghissime. La particolarità è che ognuno vede solo il suo fantasma di Broken. Se voi state osservando il vostro fantasma di Broken e c’è in quel momento una persona accanto a voi, il vostro non lo vede, è tutta una questione di posizione e di gradi, basta essere sfasati di pochissimo per non vederlo più. Io ho scoperto questo fenomeno su un libro di fine Ottocento che racconta di una spedizione in val di Togno di Bruno Galli Valerio con altre persone tra cui tre cacciatori che raggiunse il passo del Forame; arrivati in cima, fucile alla mano per via degli orsi, raccontano di vedere tre fantasmi cui puntano il fucile, ma che a loro volta puntavano il fucile verso la spedizione. Da quando l’ho letto l’ho visto 10 volte perché a quel punto sapevo dove guardare, è facile ovunque ci sia nebbia bassa. Per chi è appassionato di fotografia, una piccola curiosità: il fantasma di Broken è difficile da fotografare e lo è per un motivo preciso ed è che, essendo un’illusione ottica non ha una posizione precisa nello spazio una profondità e dunque la macchina fotografica non può determinare la profondità di campo, regolare la messa a fuoco. Dunque le foto non rendono mai davvero la reale bellezza di questo insolito fenomeno.

Il momento dell’acquisto dei saluti e degli autografi

A questo punto Beno ha concluso, il suo ricco racconto dando alcune informazioni di servizio. Il libro presenta tre copertine diverse più una quarta in edizione limitata, una per ogni zona delle alpi. Per chi fosse stato in ritardo coi regali di Natale era possibile acquistare tre copie a 50 euro dunque un prezzo inferiore di quello di ogni copia singola che era 20 euro.

Dopo la presentazione di Beno, l’assessore Lucica Bianchi ha voluto condividere i pensieri personali suggeritigli dall’ascoltare gli avventurosi racconti delle gite in montagna, ha voluto in particolar modo mettere l’accento sul senso di libertà che le montagne sanno trasmettere, sottolineando che lei non ci va come alpinista.

In sala tra il pubblico erano presenti anche gli amici di Beno coprotagonisti delle sue avventure che sono stati dunque omaggiati (grande assente lo sciatore spericolato) e poi è venuto il tempo del dialogo, delle domande, dei libri da comprare con le dediche che Beno si è offerto gentilmente di fare.

La fidanzata di Beno vendeva i libri e ha portato alcune copie della rivista MONTAGNE DIVERTENTI così mi è venuto di chiedere qualche delucidazione sull’iter che ci vuole per fondare e portare avanti una rivista. Un grosso impegno. Bisogna andare in tribunale, fare la registrazione, avere un pubblicista che faccia da direttore responsabile, avere soldi da investire per la stampa, avere un locale dove stampare che non per forza deve essere una tipografia vera e propria purchè sia registrata legalmente come sede, bisogna avere dei bravi collaboratori che abbiano voglia di lavorare, che consegnino i pezzi in tempo, compatibilmente con i tempi della stampa. C’è stato un periodo nella storia in cui si fondavano riviste a gogò. Oggi si aprono blog e siti, ma anche in questo caso c’è tutto un iter dietro. Per quanto riguarda le avventure di Beno mi restava un’ultima curiosità mentre mi firmava la mia copia del libro. Sarà stato nella zona dove fu ritrovata la mummia del Similaun? Risposta. No. Magari una prossima gita. E chissà, una prossima serata.

Antonella Alemanni

L’AFRICA, L’ORIENTE MEDITERRANEO E L’EUROPA

L’AFRICA, L’ORIENTE MEDITERRANEO E L’EUROPA
Tradizioni e culture a confronto
a cura di Paolo Nicelli
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La Classis Africana dell’Accademia Ambrosiana inaugura, con questo primo volume della nuova Collana, un’articolata serie di studi e ricerche dedicate alle molteplici tradizioni, culture, lingue e società dell’immenso continente. Vale l’osservazione dell’Accademico Fondatore Gianfranco Fiaccadori alla cui memoria il libro è dedicato, ove si sottolinea il ruolo dell’Etiopia: «provincia africana dell’Oriente Cristiano che con l’Europa e il mondo mediterraneo ha avuto relazioni ab antiquo e fin dal Rinascimento ha attirato l’attenzione degli Europei per il suo carattere conservativo. Siamo a Milano, ma pochi sanno o ricordano che nel 1459 il duca Francesco Sforza pregava il negus Simon Iacopo ossia Zar’a Yā‘qob di inviargli le opere di Salomone perdute in Occidente». Già il Centro Studi Camito-Semitici, quasi precursore dell’odierna Classe di Studi Africani, trovò significativo tenere in Ambrosiana la seduta inaugurale del 1 giugno 1993. I dieci studiosi, autori delle accurate ricerche qui pubblicate, rappresentano un’ideale continuazione ed un rinnovamento della tradizione ambrosiana, insieme con tutti gli Accademici Fondatori che sono all’origine della nuova Classe di studi, ed ai molti altri accademici e studiosi che in vario modo offrono generosamente il contributo delle loro ricerche sul tema dell’Africa, l’oriente mediterraneo e l’Europa. Tradizioni e culture a confronto.

(tratto dalla copertina della collana)

 

Newsletter della Veneranda Biblioteca Ambrosiana

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Venerdì 11 settembre, ore 9:30. 

Il Prefetto dell’Ambrosiana, mons. Franco Buzzi,ha  inaugurato idealmente il nuovo anno di iniziative in Ambrosiana 2015-2016, annunciando una preziosa mostra di antiche pergamene (secoli IX-XII), “Acque della Lombardia medievale. Racconti di vita quotidiana nelle pergamene della Biblioteca Ambrosiana di Milano”:  «Il bene prezioso dell’acqua è sempre stato occasione di “pace” e di “guerra” tra gli uomini: dai pozzi biblici di Abramo e Giacobbe, agli accordi faticosi per il controllo delle rogge in Lombardia, tra Medioevo e Ottocento, passando attraverso il tema moderno del diritto commerciale a solcare i mari (vedi Ugo Grozio, Mare Liberum)». La mostra è organizzata dal Dottore Aggregato della Veneranda Biblioteca Ambrosiana Rita Pezzola. Da qui si possono visualizzare: l’immagine di una pergamena >>>, una sintetica presentazione della mostra >>>, il progetto educational >>>, una proposta specifica per le scuole di Sondrio >>> e un’immagine di Rita Pezzola  >>>, che presenta la mostra e il suo valore didattico.

Giovedì 17 settembre dalle 16.30 alle 20.15.

Il secondo Seminario multidisciplinare, interculturale-interreligioso, sul tema Significato di cura e malattia nelle prospettive laica e religiosa si terrà presso l’Aula Magna della Clinica Mangiagalli della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico >>>. Ondate migratorie stanno sconvolgendo e coinvolgendo milioni di persone in tre continenti, Africa, Asia, Europa. Si rend necessaria anche in campo sanitario una strategia formativa che integri diversi livelli e aree di conoscenza. Medici ed operatori sanitari di fronte a nuove sfide deontologiche ed etiche, che coinvolgono malati di differenti etnie, lingue, culture e religioni, richiedono nuove iniziative di formazione ed informazione. Tra le nuove frontiere della formazione a una piena cittadinanza globale, accanto ad ambienti significativi come scuole, università, carceri ecc., si pongono anche gli ospedali e le case di cura, luoghi di costruzione di solidarietà.

Sabato 19 settembre 2015, dalle 9:30 alle 18:15

Le vie delle spezie, tra cucina e medicina, tra oriente e occidente

rievocate in Ambrosiana da studiosi di tante università: Torino, Udine, Bergamo,  Milano, Venezia, Roma, Napoli, presentati dal Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana e dal Presidente dell’Accademia delle Antiche Civiltà >>>

In Pinacoteca Ambrosiana

Venerdì 11 settembre.

Sempre più numerosi i Visitatori, giunti dinanzi alla Sala di Raffaello, sostano per vedere da vicino l’opera di restauro iniziata sul più grande disegno del Rinascimento, La Scuola di Atene, base del grande affresco nelle Stanze Vaticane. Sul monitor scorrono le immagini del trasferimento dell’opera sui cavalletti e davanti, dietro una parete trasparente, gli esami per lo stato dell’inestimabile opera e l’avvio delle operazioni per la salvaguardia della preziosa carta montata su tela. Comode poltrone per rivedere ciò che è già avvenuto e per seguire da vicino quanto dinanzi ai loro occhi si sviluppa.

Nuova luce in tante Sale della Pinacoteca >>>

Sino al 28 settembre 2015.

 In 7 vetrine in mostra antichi e rari manoscritti >>>, da Seneca alle Favole persiane, da Aulo Gellio alla Bibbia ebraica e all’Evangeliario greco, dalle Sure coraniche in scrittura Kūfī al Planisfero cinese  艾儒略, 万国全图 (Hangzhou, 1623), per illustrare, in tema di EXPO 2015 il Dialogo tra popoli e culture per nutrire la pace >>>

In Accademia Ambrosiana

Lunedì 14 settembre 2015 ore 17:30.

Il Metropolita Ilarion del Patriarcato di Mosca in Ambrosiana per l’edizione latino-russa dell”Opera Omnia di S. Ambrogio >>>

Settembre 2015.

 Recensito il volume dell’Accademia Ambrosiana Classe di Studi Greci e Latini, Miscellanea Graecolatina I, nella rivista universitaria della Zborník Filozofickej, Fakulty Univerzity Komenského v Bratislave, Graecolatina et Orientalia  XXXV–XXXVI 2014 >>>

Martedì 13 ottobre 2015, ore 18. 

I manoscritti ebraici medievali. Conferenza pubblica del Prof. Malachi Beit-Arié, Accademia delle Arti e Scienze,

Gerusalemme, Israele >>>

Dal 12 al 22 ottobre 2015.

Corso breve di Codicologia e Paleografia ebraica. Docenti e Contenuti >>>  Programma >>>


9-11 novembre 2015.

Accademia Ambrosiana  Classis Orientalis  SEZIONI Araba Armena Ebraica Siriaca

Մերձաւոր Արեւելքի Հետազօտութիւններու Դասախումբ مسق تاسارد قرشلا  ىندلاا

ܐܪܕܣ ܐܫܪ̈ܕܕ ܠܥ ܐܚܢܕܡ ܐܬܝܥܨܡ הקלחמה ידומילל חרזמה בורקה

VI Dies Academicus 2015  GLI STUDI DI STORIOGRAFIA. Tradizione, memoria e modernità

Milano, Piazza XI, 2 – Sala delle Accademie “Enrico Rodolfo Galbiati”

In Mediateca

Presentazione del film di antoinedelaroche sulle Letture d’Arte 2014 2015. Un racconto pieno, denso di emozione. Con la cadenza più giusta possibile tra immagine e parola. L’ingresso delle voci, ogni volta, è, a loro volta, come per le immagini, un’apparizione. C’è tensione sempre viva e sviluppo costante di un’idea:

“L’arte si può raccontare”. Un’idea antica che aveva esplicitato per iscritto lo stesso Federico Borromeo, fondatore dell’Ambrosiana, all’inizio del Seicento. Da qui la visione >>>     (durata 25′). 

Il ciclo delle Letture d’Arte 2015 2016 riprenderà ad ottobre. Così per tutti gli altri “Incontri in Ambrosiana”. I relativi programmi saranno resi noti nella prossima edizione della newsletter.

​il Curatore

Staff Redazionale NL-VBA

tel. +39 02 80 69 24 21- fax +390280692215

e-mail: newsletter@ambrosiana.it

INTRODUZIONE STORICA .FEDERICO BORROMEO E LA BIBLIOTECA AMBROSIANA

“Ci siamo abbattuti in un personaggio,
il nome e la memoria del quale, affacciandosi,
in qualunque tempo, alla mente, la ricreano con una placida
commozione di riverenza, e con un senso giocondo
di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore,
dopo la contemplazione d’una molteplice
e fastidiosa perversità! Intorno a questo personaggio
bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole:
chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia
d’andare avanti nella storia, salti addirittura
al capitolo seguente…”

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La Biblioteca Ambrosiana (ed. 1840)

L’8 dicembre 1609, la Città di Milano assistette ammirata alla cerimonia di inaugurazione della Biblioteca Ambrosiana, prediletta creatura dell’amatissimo cardinale Federico Borromeo. Dal Palazzo arcivescovile, il cardinale giunse nel primo pomeriggio alla Chiesa di S. Sepolcro, accompagnato da un corteo di dignitari ecclesiastici e civili e da due ali di folla. Accolto da musica e cori si sedette al centro della chiesa, avendo ai lati il Gran Cancelliere spagnolo don Diego Salazar e il Presidente del Senato di Milano Giacomo Mainoldi Gallarati. Luigi Bossi, il canonico teologo del Capitolo metropolitano, pronunciò la prolusione che descriveva la fondazione della Biblioteca, avvenuta due anni prima, e la creazione del Collegio dei Dottori. Dalla Chiesa di San Sepolcro, il corteo delle autorità, fra squilli di tromba e sotto un padiglione di tessuto che copriva l’intero percorso, giunse  davanti alla porta dell’Ambrosiana, che fu spalancata perché potesse il cardinale entrare per primo. E fu lo stesso Federico a fare da guida fra i tesori della imponente collezione della Biblioteca, mostrandone con orgoglio la immensa ricchezza. Le ombre della sera calavano su una Milano ormai invernale, quando il cardinale uscì dalla Biblioteca per rientrare nel Palazzo Arcivescovile.

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G. C. Procaccini, Federico Borromeo

La Biblioteca destò da quel momento l’ammirazione degli studiosi e dei visitatori che giungevano a Milano: nel 1623, Galileo inviava al cardinal Federico una copia del suo Saggiatore, nella speranza che esso potesse entrare a far parte dell’«eroica et immortale libreria»; nel 1662 il Principe di Condé si lasciava sfuggire un lapidario «très belle» d’ammirazione; Montesquieu osservava nel 1728 che la Biblioteca era «extrêmement bien tenue; on y voit qu’il a eu des bibliothécaires  savants»; Girolamo Tiraboschi scrisse sul finire del XVII secolo che «la Biblioteca Ambrosiana offerse gran pascolo alla dotta curiosità e alla maraviglia. Infatti l’erezione di essa è una delle cose memorabili di quel secolo e può bastare essa sola a rendere immortale il nome del cardinale Federigo Borromeo, che ne fu il fondatore»; e, senza dimenticare le parole di John Evelyn («imponente»), Gilbert Burnet («molto signorile»), Gabriel Naudé («straordinaria»), celeberrime restano quelle di Alessandro Manzoni (I Promessi Sposi, cap. XXII): «Federigo ideò questa Biblioteca Ambrosiana con sì animosa lautezza, e la eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per fornire la quale di manoscritti, oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de’ più colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati e quattordicimila manoscritti».

Milano, dunque, a partire dal 1609 possiede la seconda biblioteca aperta al pubblico in Europa, essendo stata preceduta nel 1602 solo dalla Bodleian Library di Oxford. Concepita come una biblioteca “generale”, volta allo studio di tutte le scienze che compongono il sapere universale, dalla classicità greco-latina alla letteratura cristiana, dalla teologia alla filosofia dalla linguistica al diritto e alla musica, dall’Occidente all’Oriente, dall’Antichità al Medioevo e al Rinascimento, l’Ambrosiana aveva quasi le caratteristiche di una università degli studi, allora assente a Milano. Si trattava di una struttura organica, equilibrata e del tutto all’avanguardia per lo spirito del tempo.

Per la costruzione e l’arricchimento del patrimonio codicologico e librario della Biblioteca, Federico organizzò, già a partire dal 1601, una vera e propria campagna di acquisti, sguinzagliando i suoi agenti ai quattro angoli del mondo occidentale, uomini che misero a disposizione laboriosità, scienza e spesso anche arditezza veramente non comuni. L’idea era di costituire un centro culturalmente attivo, palestra di studi al servizio e in difesa del cattolicesimo e luogo di raccolta dei più importanti testi del pensiero occidentale e orientale, arabo e persiano, ebraico, bizantino, copto, armeno, classico greco e latino e perfino cinese.

La multiculturalità del progetto federiciano era tesa non tanto e non solo alla conservazione dei documenti, quanto al loro studio e alla ricerca di un possibile dialogo e convivenza delle diverse culture, senza rinunciare alla identità cristiana di cui Federico era vivo e fervido interprete. In altre parole, il lavoro intellettuale fioriva dalla raccolta e dalla cura del patrimonio librario e non si esauriva in esso, e anzi, l’accumulo del “tesoro” non era destinato ad accrescere il prestigio di chi materialmente lo possedeva e tutelava, ma alla sua trasformazione in sapere vivo.

In questa linea va interpretata anche la creazione della Pinacoteca: il 28 aprile 1618, infatti, Federico Borromeo donava la sua collezione di quadri disegni e stampe a quella che nel 1620 sarebbe diventata la Pinacoteca Ambrosiana, dallo stesso cardinale successivamente arricchita con capolavori come la Canestra di frutta del Caravaggio, l’Adorazione dei Magi di Tiziano, il Musico di Leonardo, il cartone della Scuola di Atene di Raffaelo, numerosi dipinti di scuola leonardesca e dei fiamminghi, in particolare di Jan Brueghel, e migliaia di disegni. Anche la Pinacoteca rispondeva all’idea federiciana di elaborazione e di trasmissione del sapere, un sapere che doveva essere non solo documentato ma diventare vivo, farsi ricerca e trasmissione: essa divenne non solo un’esposizione ma uno strumento didattico, per quell’Accademia del disegno, articolata nei corsi di pittura, scultura e architettura, che nata assieme all’idea della Pinacoteca, sopravvisse fino al suo trasferimento tardo settecentesco a Brera.

Oltre a una necessaria ed esaltante celebrazione dei tesori della Biblioteca e della Pinacoteca, l’Ambrosiana è stata, è e deve rimanere sorgente di ricerca, di dialogo, di conoscenza, di approfondimento, di civiltà, di cultura e di spiritualità, sempre nella linea di quel motto che Manzoni pone a ideale sigillo dell’opera di Federico Borromeo: “L’intento continuo nella ricerca e nell’esercizio del meglio”.

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Biblioteca Ambrosiana, oggi 

Bibliografia di riferimento

  • Ferro, Federico Borromeo ed Ericio Puteano. Cultura e letteratura a Milano agli inizi del Seicento, Roma, Bulzoni, 2007
  • Milano atelier culturale della Controriforma, a cura di D. Zardin e M.L. Frosio, «Studia Borromaica», 21, 2007
  • Borromeo, Paralella cosmographica de sede et apparitionibus Daemonum, introduzione e cura di F. di Ciaccia, Roma, Bulzoni, 2006
  • Cultura e spiritualità borromaica tra Cinque e Seicento, a cura di F. Buzzi e M.L. Frosio, «Studia borromaica», 20, 2006
  • Carlo e Federico: la luce dei Borromeo nella Milano spagnola, a cura di P. Biscottini, Milano, Museo Diocesano, 2005.
  • Federico Borromeo fondatore dell’Ambrosiana, a cura di F. Buzzi e R. Ferro, «Studia borromaica», 19, 2005
  • Bonomelli, Cartai, tipografi e incisori delle opere di Federico Borromeo, Roma, Bulzoni, 2004
  • Federico Borromeo principe e mecenate, a cura di C. Mozzarelli, «Studia borromaica», 18, 2004
  • Borromeo, Semina rerum, sive De Philosophia Christiana, introduzione e cura di C. Continisio, Roma, Bulzoni, 2004
  • Federico Borromeo vescovo, a cura di D. Zardin, «Studia borromaica», 17, 2003
  • Federico Borromeo. Uomo di cultura e spiritualità, a cura di S. Burgio e L. Ceriotti, «Studia borromaica», 16, 2002
  • Federico Borromeo. Fonti e storiografia, a cura di M. Marcocchi e C. Pasini, «Studia borromaica», 15, 2001
  • Cultura politica e società a Mialno tra Cinque e Seicento, a cura di F: Buzzi e C. Continisio, «Studia Borromaica», 14, 2000
  • Cultura e religione nella Milano del Seicento. Le metamorfosi della tradizione «borromaica» nel secolo barocco, a cura di A. Cascetta e D. Zardin, «Studia Borromaica», 13, 1999
  • Agosti, Collezionismo e archeologia cristiana nel Seicento: Federico Borromeo e il Medioevo artistico tra Roma e Milano, Milano, Jaca Book, 1995
  • Besozzi, I testamenti di Federico Borromeo, NED, 1993
  • Jones, Federico Borromeo and the Ambrosiana. Art, Patronage and Reform in Seventeenth-century Milan, Cambridge, Cambridge University Press, 1993
  • Storia dell’Ambrosiana, 4 voll., Milano, Cariplo, 1992-2002
  • Marcora, Catalogo dei manoscritti del card. Federico Borromeo nella Biblioteca Ambrosiana, Milano, Biblioteca Ambrosiana, 1988
  • Aimi, V. De Michele, A. Morandotti (a cura di), Septalianum Musaeum. Una collezione scientifica nella Milano del Seicento [Catalogo della Mostra. Museo civico di storia naturale di Milano], Firenze, Giunti-Marzocco, 1984
  • Prodi, Borromeo, Federico, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 13, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1971, pp. 35-37
  • Martini, ‘I tre libri delle laudi divine’ di Federico Borromeo. Ricerca storico-stilistica, Padova, Antenore, 1975
  • L. Gengaro, G. Villa Guglielmetti (a cura di), Inventario dei codici decorati e miniati (secc. VII-XIII) della Biblioteca Ambrosiana, Firenze,Olschki, 1968
  • Prodi, Nel IV centenario della nascita di Federico Borromeo. Note biografiche e bibliografiche, in “Convivium”, XXXIII (1965), pp. 337-359

Newsletter della Veneranda Biblioteca Ambrosiana

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Newsletter della Veneranda Biblioteca Ambrosiana
Milano, agosto 2015

 

 

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Gentili Lettrici e Lettori, ​​
in rete sul Sito-Ambrosiana potrete trovare la registrazione ►● del I°  Convegno internazionale «I saperi dell’arte» Renaissance. History/Historiography Congress “Storia e storiografia dell’arte del Rinascimento a Milano e in Lombardia. Metodologia. Critica. Casi di studio “, promosso a Milano congiuntamente alla Fondazione Trivulzio il 9-10 giugno 2015 con gli 8 video che raccontano le due giornate di dibattito ► 1    –   2    –   3    –   4    –   5    –   6    –   7    –   8
e la presentazione del film di antoinedelaroche sulle Letture d’Arte 2014 2015 in HD e raccolto in Mediateca. Un racconto pieno, denso di emozione. Con la cadenza più giusta possibile tra immagine e parola. L’ingresso delle voci, ogni volta, è, a loro volta, come per le immagini, un’apparizione. C’è tensione sempre viva e sviluppo costante di un’idea: “L’arte si può raccontare”. Un’idea antica che aveva esplicitato per iscritto lo stesso Federico Borromeo, fondatore della Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana. Da qui la visione ►●  (durata 25′)

Sui progetti in cantiere tenta di farne una sintesi Pierluigi Panza sul Corriere della Sera del 6 agosto 2015 ►●, dopo la richiesta di un’intervista al Prefetto dell’Ambrosiana, mons. Franco Buzzi. Alla fine del suo utile pezzo Panza conclude: “Tutt’altro che chiusa in sé, l’Ambrosiana è il bastione milanese più spinto verso la conoscenza della cultura di altri mondi”. Ricordando anche il convegno su “I saperi dell’arte”, si può concludere che è anche il bastione più aperto al dibattito critico per la cultura del nostro mondo. Come si attueranno i progetti in cantiere ricordati sul Corriere, così continueranno i convegni su “I saperi dell’arte” insieme a tutti gli altri momenti di dibattito progettati e realizzati in Ambrosiana.

Ambrosiana, luogo di storia. Nel 70° anniversario della fine della seconda guerra mondiale e della fondazione delle Nazioni Unite lo Stato della Città del Vaticano ha pubblicato un’emissione filatelica molto suggestiva ►● : una mano ferita sullo sfondo cupo delle macerie della guerra e al fianco, contro un cielo sereno, i simboli della ricostruzione e il Palazzo di vetro delle Nazioni Unite che dovrebbe garantire la pace a tutti i popoli del pianeta. Gli anneriti fili spinati si trasformano in colorati fili d’un arcobaleno. La newsletter dell’Ambrosiana, per la ricorrenza, ricorda la Sala Borromeo della Biblioteca Ambrosiana dopo i bombardamenti della notte tra il 15 e il 16 agosto 1943 con i resti del Monumento di Benedetto Cacciatori (1840) a Gilberto V Borromeo Arese ►●, +1837, ultimo dei Borromei regnanti sull’antica contea soppressa nel 1797 da Napoleone. Intanto l’Ambrosiana con il paziente lavoro di costruzione dell’Accademia, con la sua scelta di studi aperti al mondo, praticati in otto classi di studio con oltre trecento accademici di vari continenti, soddisfa in concreto l’esigenza di unità dei popoli della terra e la ricerca umanistica. Qui l’elenco delle attività dell’anno accademico 2014-2015  ►●

Due testimonianze. 
Dall’Africa grazie al prof. Vermondo Brugnatelli si è svolta, graditissima, la visita all’Ambrosiana di una troupe della tv marocchina”tamazight-tv”, canale 8 della tv nazionale. La registrazione delle riprese e delle interviste in Ambrosiana è stata così mandata in onda in Marocco durante una notte di ramadan  ►●
Dalla Russia grazie a mons. Francesco Braschi è giunta la firma di un accordo con Accademia delle Scienze del Tatarstan, una Repubblica della Federazione Russa, con capitale Kazan. Qui i firmatari dell’accordo ►●  e la firma dell’accordo ►●
Nel ripartire con il trenino che dall’aeroporto lo riconduceva a Mosca, il 30 luglio, Braschi ripensava certo con stupore alle bellezze artistiche del Cremlino di Kazan, delle Chiese ortodosse e delle Moschee. Non poteva non riflettere a quanto possono offrire la Biblioteca Nazionale e la Biblioteca dell’Accademia Teologica ortodossa, con i loro tesori di grande interesse per l’Accademia Ambrosiana, dalla Classe di Studi Slavistici, alle classi del Vicino e dell’estremo Oriente. Ma ciò che rimarrà come centro di riflessione è il “modello tataro” nelle relazioni tra le religioni e le culture, osservato così da vicino.

Pinacoteca. Una visita alla Pinacoteca Ambrosiana oggi permetterebbe di ammirare tutta la collezione donata da Federico Borromeo, fondativa della stessa Pinacoteca, con un un’illuminazione d’avanguardia, che, mentre protegge le opere dal riscaldamento della luce, dona una potenza visiva strabiliante. Quasi le opere fossero retroilluminate. Ogni dettaglio acquista risalto e visibilità piena e la Sala dei Fiamminghi ne è l’esempio più incantevole. Sul grande scalone d’ingresso, ora in piena luce, il monumento a Giuseppe Bossi con il suo ritratto scolpito dal Canova, le copie in grandezza naturale degli esemplari vaticani del Laocoonte e della Pietà di Michelangelo. Ora, per la prima volta, in alto sulle pareti del grande scalone, possono risultare pienamente leggibili le grandi tele scenografiche (400 x 585 cm.)del Busca (1625-1684) e del Lanzani (1641-1712) e quella mistica (348 x 259 cm.) del Crespi (1597-1630). Alla fine del percorso, nella Sala Federiciana, percorse le teche che custodiscono i fogli originali del Codice Atlantico di Leonardo, ecco uno dei simboli dell’Ambrosiana: l’opera che Federico Borromeo non volle affiancare a nessun’altra, la Canestra di frutta di Caravaggio, nonostante lungamente e inutilmente ne avesse cercata un’altra che la affiancasse.

Con l’augurio di una buona festa e di una serena continuazione delle vacanze,

il Curatore
dr. prof. Fabio Trazza

Nota: costituito dal Prefetto anche il nuovo Staff che accompagnerà la Newsletter per la prossima stagione 2015-2016 

DIES ACADEMICUS CLASSE DI SLAVISTICA VENERANDA BIBLIOTECA AMBROSIANA

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Comunicato stampa

Traduzioni e rapporti interculturali degli slavi con il mondo circostante Ricca di 400 anni di storia, la Biblioteca Ambrosiana, nota per la sua importantissima collezione manoscritta e libraria e per la sua ricchissima pinacoteca, ha visto la fondazione, nel 2008, della Accademia Ambrosiana, i cui statuti sono stati rinnovati e confermati dal Cardinal Angelo Scola, che ne ha altresì solennemente inaugurato l’Anno Accademico il 22 ottobre 2014. Costituita non da libri od opere d’arte, come la Biblioteca e la Pinacoteca, l’Accademia racchiude una ricchezza ancora più preziosa, perché capace di far vivere e fiorire le prime due: quella degli studiosi che la compongono, accademici di chiara fama e giovani ricercatori di promettente ingegno. Raccolti in classi di studio, costoro hanno il compito di far “fruttificare” il patrimonio dell’Ambrosiana, unendovi la creatività e lo studio personali, in modo da innescare e tenere vivi processi di crescita del sapere capaci di produrre una nuova cultura umanistica. Nell’ambito dell’Accademia Ambrosiana, che con le sue varie Classi ha lo scopo di promuovere (così recita lo Statuto) “in modo coordinato e sistematico ricerche e pubblicazioni”, “contribuendo a suscitare un sempre più vasto interesse nel mondo scientifico e insieme a rendere la Veneranda Biblioteca Ambrosiana un luogo di confronto e di scambio per gli studiosi delle altre istituzioni accademiche”, la Classe di Slavistica trova la sua ‘specificità’ nel riferimento alla Biblioteca Ambrosiana, intesa non solo come ‘deposito’ di ‘materiale culturale di ambito slavistico’, ma piuttosto come sistema culturale integrato, esso stesso degno di indagine. Gli ambiti di studio della Classe non sono così limitati al solo patrimonio librario e codicologico afferente all’ambito slavo posseduto dalla Biblioteca Ambrosiana, ma si estendono da un lato allo studio della figura di Ambrogio e della sua tradizione negli ambiti linguistico-culturali slavi e dall’altro alla ricerca storica collegata ai carteggi, agli incontri e agli scritti dei Prefetti e dei Dottori, e più in generale a quanto riguarda la storia delle relazioni tra l’Ambrosiana (e quindi l’ambito milanese) e i Paesi slavi, dal XVI secolo ai giorni nostri. Il 26 e 27 maggio prossimi la Classe di Slavistica terrà il sesto Dies Academicus, dedicato al tema: Traduzioni e rapporti interculturali degli slavi con il mondo circostante. Durante il Dies Academicus si celebrerà l’investitura dei Neo Accademici prof. Anatolij Turilov (Accademia delle Scienze di Mosca) e prof. Serena Vitale (Università Cattolica di Milano). Oltre a ciò, si affianca alle giornate di studio la presentazione del quinto volume della collana “Slavica Ambrosiana”, espressione della Classe e dedicata al tema (frutto del lavoro dell’anno accademico 2010-2011): “Libro manoscritto e libro a stampa nel mondo slavo (XV-XX sec.)”. Interverranno numerosi studiosi e docenti universitari provenienti da Atenei italiani e internazionali: A. M. Totomanova (Sofia), D. Stern (Gand), A. Naumow (Venezia), D. Frick (Berkeley), S. Temčinas (Vilnius), N. Marcialis (Roma), J. Klein (Leida), H. Kleipert (Bonn), R. Marti (Saarbrücken), C. De Michelis (Roma), Luca Bernardini (Milano). Il convegno avrà luogo, per tutta la giornata del 26 maggio e per la sessione mattutina del 27 maggio, nella Sala delle Accademie, con ingresso da Piazza Pio XI, 2. La sessione pomeridiana del 27 maggio avrà invece luogo presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, aula G127, con ingresso da Largo Gemelli, 1. Le due giornate sono aperte al pubblico e a ingresso libero, fino ad esaurimento dei posti in sala. Accademia Ambrosiana – Classe di Slavistica Sesto Dies Academicus: Traduzioni e rapporti interculturali degli slavi con il mondo circostante Milano, Biblioteca Ambrosiana – Sala delle Accademie (ingresso da Piazza S. Sepolcro) Martedì 26 maggio, ore 15.30-20.00 – Mercoledì 27 maggio, ore 9,30-12,30 Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore – Aula G127 Mercoledì 27 maggio, ore 15,00-18,00 Per maggiori informazioni: http://www.ambrosiana.itsegreteria.slavistica@ambrosiana.it . Tel. : 02 80692.1; Fax 02 80692.215.

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