IL MONASTERO DI RADARI

 

Saggio di Loredana Fabbri

Alla memoria di Monsignor Mario Bocci, che fu per me un grande maestro, di cui ricorderò sempre le parole che spesso mi diceva:

<< Loredana, ricordati sempre questa frase ”Timeo Danaos et dona ferentes”>>.

 

PREMESSA

Questo lavoro è un tentativo di ricostruire la storia e la vita cenobitica del monastero di Santa Maria e San Benedetto di Morrona, non trascurando gli aspetti economici ed i rapporti con i laici che di questa abbazia sono condizionamento e risultato. Ho cominciato prendendo gli inizi dal lavoro di Rosanna Pescaglini Monti sulla famiglia dei Cadolingi, che hanno avuto una determinante importanza nel primo secolo di storia di questo monastero: i rapporti tra questa famiglia ed il cenobio si colgono chiaramente tramite diversi documenti. Molto è stato l’interesse della Santa Sede Apostolica, dell’arcivescovato pisano e del vescovato di Volterra verso questo monastero, al punto di essere causa e oggetto di molte divergenze tra gli arcivescovi e i vescovi pro tempore. Attraverso una quantità notevole di documenti reperiti nel corso di vari anni in diversi archivi della Toscana, è possibile ricostruire, pur con delle grosse lacune, la storia di questo monastero dal secolo XI alla fine del secolo XV, quando il vescovo di Volterra Francesco Soderini, manu armata, caccia i monaci e si impadronisce dell’abbazia, assegnandone i beni rimasti e l’edificio alla Mensa Vescovile di Volterra. In seguito e per molti secoli divenne la residenza estiva dei prelati volterrani, fino a quando, nel 1868, per leggi eversive all’asse ecclesiastico furono estromessi e il monastero venne venduto a privati. Le ricerche per il presente lavoro ebbero inizio molti anni fa e si protrassero per alcuni anni, in seguito, a causa di gravi problemi personali, il lavoro non poté proseguire e fu lasciato per anni incompiuto: ne è testimonianza l’opera “Odeporico delle Colline Toscane” di Giovanni Mariti, trascritta presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze, in quanto non ancora edita e che è stata presa come linea conduttrice del presente lavoro, anche se non sempre viene citata, come anche altri riferimenti che oggi potrebbero sembrare “obsoleti”, ma che in realtà sono validissimi, si veda, ad esempio, le pergamene dell’Archivio Vescovile di Volterra, che ho avuto la possibilità di consultare e trascriverne i punti salienti insieme a Monsignor Mario Bocci, allora archivista del detto archivio, anzi sono molti i suggerimenti ed i consigli che il Monsignore mi dette a quei tempi, consigliandomi di essere il più fedele possibile agli originali, compresi gli errori. Altra testimonianza importante è la Visita Apostolica del vescovo di Rimini Giovan Battista Castelli,”territorio” allora assolutamente impossibile da consultare, da me trascritta sempre sotto la guida di Monsignor Bocci, alla cui memoria è dedicato il presente lavoro. Per quanto riguarda le date dei documenti mi sono attenuta a quelle trovate negli stessi, senza considerare lo stile pisano o quello fiorentino, come anche per le misure e le monete: ho semplicemente riportato ciò che ho trovato scritto nelle varie fonti.

 

Ho voluto evidenziare come agli inizi del secolo XI il monachesimo toscano fosse diviso in monasteri isolati, imperniati nelle loro diocesi ed accumunati dal loro richiamarsi alla regola di san Benedetto. Questo quadro cambia in modo quasi radicale  circa un secolo più tardi, i monasteri vengono a far parte di due grandi congregazioni monastiche: la Camaldolese e la Vallombrosana, la cui storia, spesso, si intreccia con quella di grandi famiglie come i Cadolingi, i Gherardeschi, gli Aldobrandeschi, i Pannocchieschi ed altre che emergono per la loro ricchezza e potere. Certamente nel secolo X  ed anche fino alla metà circa di quello successivo, le fondazioni e le donazioni in favore dei monasteri non rappresentano ancora una cognizione di attività riformistica e di rinnovamento religioso, ma nascono chiaramente  dal concetto di espiazione per la salvezza dell’anima, fondare un monastero o fare una cospicua donazione ad esso rappresentava il mezzo per restare ancorati alla vita cristiana e allo stesso tempo era fonte di interessi politici e patrimoniali. In questo caso, il monastero di Morrona era già esistente, ma con la grossa donazione dei conti Cadolingi comincia la sua ascesa. In genere sono monasteri che conservano ancora la peculiarità di quelli privati, in cui la casata spesso si arroga il diritto di intervento e conferma nell’elezione dell’abate, di rappresentare il monastero nelle controversie giuridiche, certe volte anche nell’osservanza della regola e nella disciplina. Sono disposizioni che solo apparentemente sembrano rigoristiche, ma che in realtà sono dettate da interessi di carattere familiare, politico ed economico. Le bolle pontificie e i diplomi imperiali si orientano sempre di più a favore di una indipendenza giurisdizionale dei cenobi e ciò fa capire come i signori laici fossero interessati a queste fondazioni, che rappresentavano un ostacolo all’espandersi dei poteri vescovili nel contado. E’ in questo contesto che vediamo la fioritura di molte fondazioni e donazioni monastiche, non tanto come fuga dal mondo, ma principalmente come reazione alla situazione sociale ed anche come prospettiva di riscatto di se stessi, delegando a questi uomini ”più vicini” a Dio il compito di ottenere una vita migliore su questa terra e un posto nell’aldilà, quindi si affida alle preghiere dei monaci l’espiazione delle proprie colpe.

Anche se, come già detto, i documenti reperiti sono molti, andando avanti col tempo essi si fanno più rari, creando delle lacune non idifferenti, fino ad arrivare al XV secolo, dove la documentazione è veramente sporadica e non mi è stato possibile ricostruire una storia esaustiva dell’abbazia fino alla sua presa da parte del vescovo di Volterra, fatto documentato in modo particolareggiato.

Per la storia del monastero di Morrona si veda anche il lavoro di M. L. Ceccarelli Lemut, Tra Volterra e Pisa: Il monastero di S. Maria Di Morrona nel Medioevo ( secoli XI-XIII), Pacini, Pisa 2008.

Capitolo I Origini del monastero

L’abbazia di Santa Maria e San Benedetto di Morrona risiede nelle Colline Pisane su un poggio di tufo, diramazione di quello in cui è situato il centro di Morrona, che rimane più a sud rispetto alla badia.[1]

La storiografia tradizionale tramanda come data di fondazione il 1089, anno in cui Ugo o Uguccione, figlio del conte Bulgaro della famiglia dei Cadolingi, con la moglie Cilia fecero alla badia una cospicua donazione. Ma da questo documento appare chiaro che il cenobio era già esistente: << …per hanc cartula offerimus, tibi Deo, ecclesiam sancte Marie de monasterio et eiusdem ecclesie donamus, cedimus, tradimus omnia que predicte ecclesie modo habere et detenere videntur, cum casiaet terris et vineis, silvis et buscareis, culti set incultis omnibusque eorum pertinentiis… >>.[2] Prova di un’anteriore esistenza di questa badia è un’enfiteusi del 25 luglio 1092, in cui troviamo: <<…Martino reverendissimo abbas de ecclesia et monasterio divine et beate sancte Marie prope loco Morrona, ubi vocitatur monasterio Radari… >>.[3] Questo appellativo è presente anche in altri due documenti relativi all’anno 1098, per cui avanziamo l’ipotesi che la fondazione del cenobio possa risalire all’epoca longobarda, come farebbe supporre il nome “Radari”;[4]inoltre in uno dei suddetti documenti, cioè una donazione di beni posti in Casanova, il monastero viene menzionato con il titolo di Santa Maria e, per la prima volta, anche con quello di San Benedetto: da questo secondo titolo possiamo dedurre che la regola professata dai monaci era quasi sicuramente quella benedettina, come, del resto, lo era nella maggior parte dei monasteri toscani in questo secolo; anzi il dato comune del monachesimo toscano, che durante il secolo XI è ancora frammentato in singoli monasteri, è rappresentato solo dal loro indifferenziato richiamarsi alla regola di San Benedetto.

Diciassette anni dopo, nel 1109, la conduzione del cenobio passò ai monaci Camaldolesi con una donazione fatta da Ugo, figlio dell’omonimo conte al Sacro Eremo di Camaldoli della << …ecclesia et monasterio Domini Sancte Marie virgini, quot est constructum et edificatum, sive construendum vel edificandum in loco et curte mea, que nominatur Morrona, cum omnibus rebus et iuris sibi pertinentibus… >>,[5] l’atto è sottoscritto anche dall’abate camaldolese Gerardo, rettore del monastero. Fin dall’anno 1101 troviamo come abate di questa abbazia un certo Gerardo e se il rettore e l’abate fossero stati la stessa persona, ciò farebbe supporre che i Camaldolesi si fossero stanziati nel monastero ancor prima della donazione del conte Ugo all’Eremo di Camaldoli. [6]

Non è da escludere che al “passaggio” dall’ordine benedettino a quello camaldolese abbia contribuito molto Pietro Moriconi, tradizionalmente discendente dalla nobile famiglia dei Moriconi da Vico, monaco appartenente a quest’ultima regola e dagli inizi del XII secolo arcivescovo di Pisa, per scopi politici ed egemonici su questi territori. Pietro Moriconi morì nel 1119 e fu sepolto nella cattedrale di questa città.[7]

Completamente sconosciute e non documentate con certezza restano, dunque, le origini del monastero; certo la donazione dei Cadolingi al cenobio va inserita nel quadro più ampio della situazione monastica toscana intorno al Mille: la frammentarietà, di cui abbiamo già accennato, faceva sì che i singoli monasteri non avessero rapporti organici tra loro e frequentemente erano sottoposti alla tutela di proprietari laici, che avevano poteri di pieno governo sui monasteri stessi.

Grandi famiglie laiche fondarono e dotarono molti cenobi come segno del prestigio e dell’importanza raggiunta; una fondazione di monasteri e donazioni in loro favore non si inserivano, in questo periodo (inizio sec. XI), nel quadro di una consapevole lotta di riforma e di rinnovamento religioso, ma nascevano forse da altri motivi e tradizioni: da lunga data rappresentavano un classico mezzo di espiazione e di salvezza personale, inoltre sia le fondazioni che le donazioni facevano parte di una serie di interessi di carattere politico-patrimoniale che significavano il consolidarsi degli interessi politici ed economici della famiglia intorno ad un punto di forza rappresentato dal monastero stesso che diveniva, in tal modo, l’emblema di una nuova influenza e di un nuovo potere. Sono monasteri che conservano un carattere spiccatamente privato, dove la famiglia si riserva, generalmente, molti diritti che mirano ad interventi dettati da ragioni di carattere politico ed economico e da interessi puramente familiari: assicurarsi nuove solidarietà, nuovi appoggi e contrastare l’espandersi dei poteri vescovili nel contado. L’attività dei vescovi a favore delle fondazioni monastiche, che è quasi inesistente alla fine del secolo X, diviene più frequente nella prima metà del secolo successivo e rappresenta gli albori delle idee di riforma anche in Toscana. Un secolo dopo, questo aspetto del monachesimo toscano appare profondamente cambiato, tanto che la sua storia viene a riassumersi, per la maggior parte dei monasteri, nella storia delle due grandi congregazioni monastiche vallombrosana e camaldolese.[8]

Attualmente non resta più traccia di questa antica abbazia; quando nel 1788 Giovanni Mariti visitò questi luoghi, erano ancora visibili delle macerie di pietre quadrate e << …dei manifesti indizi di cose sacre… >>.[9]

Il 30 agosto 1152 l’abate Iacopo, col consenso del priore di Camaldoli e dei suoi monaci, vendette a Villano, arcivescovo di Pisa, i possessi di Montevaso e Montanino eccetto Riparossa, << …pro edificando clausura in loco qui dicitur Podium, que prius erat in loco que dicitur Abbadie Vetere… >>.[10]

Ancor oggi il luogo conserva lo stesso toponimo ed è possibile che i monaci avessero voluto trasferire lì il proprio cenobio sia per motivi di posizione, sia perché vi sorgeva la chiesa di Santa Maria, che assunse tanta potenza da far scadere la stessa pieve del castello ad un’importanza puramente formale.

La chiesa di Santa Maria e il chiostro

L’antica chiesa di Santa Maria divenne, dunque, proprietà del monastero nel 1089 con la cospicua donazione del conte Ugo dei Cadolingi al cenobio, ossia lo divenne legalmente, perché dalla frase riportata dal rogito, sembrerebbe che la chiesa appartenesse già “spiritualmente” ai monaci: << …per hanc cartula offerimus tibi Deo ecclesiam Sancte Marie de Monasterio et eiusdem ecclesie donamus, cedimus, tradimus omnia que monachi predicte ecclesie modo habere et detinere videntur… >>.[11]

L’edificio, tutto in pietre quadrate, sembra risalire al secolo VIII o IX, ma nessun indizio certo può testimoniare la data o almeno l’epoca della sua origine, i molti restauri subiti nel corso dei secoli non permettono un’esatta ricostruzione dell’interno di essa. Questa chiesa, purtroppo, non viene mai descritta nelle fonti reperite, ma solo citata, molte volte, come luogo in cui venivano redatti gli atti notarili. Bisogna arrivare al secolo XVI per avere qualche notizia di questo edificio con la visita apostolica del vescovo di Rimini Giovan Battista Castelli (1576), il quale ci informa che la chiesa << …in omnibus bene se habet, quia tectum fuit de novo coopertum et parietes incrustati et dealbati… >>;[12] mentre il pavimento era in pessime condizioni, ma il presule vide preparati i mattoni con i quali si doveva rifare la pavimentazione. L’altare, di pietra, aveva la lapide di marmo rotta in parte e sopra di esso vi era un’immagine molto antica ma ritenuta decente. Il campanile, a forma piramidale, era stato colpito da un fulmine e stava per essere restaurato, però aveva due buone campane. Erano già stati stabiliti e stavano per avere inizio anche altri lavori di ristrutturazione per la casa, residenza estiva del vescovo pro tempore di Volterra.[13]

Circa duecento anni più tardi la descrizione, molto dettagliata, della chiesa fatta da Giovanni Mariti, che corrisponde a quella del Targioni-Tozzetti, ci fa conoscere questo antico edificio quasi allo stato attuale: la facciata della chiesa, volta ad ovest e come tutta la costruzione in pietre quadrate, è divisa in tre spartimenti terminanti verso l’alto in tre archi. A destra della porta d’ingresso vi era un cippo sepolcrale infisso nel terreno, di epoca etrusca, che Mariti definisce di marmo pisano con poche decorazioni, riadattato a pila per l’acqua benedetta, attualmente rimosso.[14]

L’interno della chiesa, a navata unica, la cui crociera resta sopra il presbiterio, ha un’abside circolare che è stata incamerata nell’interno del monastero in epoca non definibile. Sempre all’interno, sulla destra, una pila di pietra porta scolpite le armi del vescovo volterrano Luca Alemanni (1598-1625). L’altare, posto ad est, rimane sopraelevato di sei scalini di mattoni, sopra di esso << …vi sono ventotto piccole quadrette poste a più ordini e di varia configurazione. Alcuni terminano a semicerchio, altri in angolo e alcuni in figura piramidale, che unite insieme formano un sol quadro. Al primo ordine di essi e nel mezzo vi è l’immagine di Maria… >>.[15] Questo è probabilmente il dipinto cui fa menzione anche il vescovo Castelli: attualmente resta solo la parte centrale raffigurante la Madonna con Bambino. Dietro l’altare c’è un coro piuttosto piccolo e a sinistra di esso una porta, oggi murata, che permetteva l’accesso al campanile; dalla parte opposta un’altra porta immetteva nel chiostro ed un’iscrizione su marmo portava la data dell’anno 1724: porta e lapide non sono più esistenti.

Lungo le pareti della chiesa sono dipinti, a figura intera, i dodici apostoli, affreschi che il Mariti ritiene risalenti al Seicento; ma gli ultimi due apostoli presso la porta d’ingresso furono restaurati dal pittore Domenico Tempesti.[16]

Nel lato nord, esterno alla chiesa, c’era una porta laterale murata (forse dal tempo in cui fu costruito il monastero?). Ad est di questa porta c’è il campanile a pianta quadrilatera, sempre in pietre quadrate, forse coevo alla costruzione della chiesa, << …ma dal piano ove sono le campane fino in cima è fatto di mattoni… >>,[17] infatti sappiamo di un restauro posteriore al 1576, anno della visita Castelli.

Le campane sono due: una più grande in cui ancor oggi si può leggere la seguente iscizione: “Mentem sanctam spontaneam honorem Deo et Patriae liberationem”. La più piccola porta la stessa iscrizione e l’anno 1327; nel secondo giro troviamo: “T.P.R. Dopni Bartholomei lucensis venerabilis abbatis monasterio Sancte Marie de Morrona Gherardus et Thadeus me fecerit”.[18]

La chiesa misura “44 braccia” dalla porta d’ingresso al catino del coro, nel corpo “13 braccia circa” e nella crociera “22 braccia e mezzo”.[19]

Il chiostro, piuttosto piccolo, è in pietre e mattoni, il cui ingresso principale è a sud, risalente al 1316, fu fatto costruire dall’abate pro tempore Silvestro, ai tempi della visita del Mariti c’erano ancora varie iscrizioni su marmo, una della quali in caratteri gotici, oggi non più esistenti; la parte del monastero sopra il loggiato era, come già detto, adibita a villa del vescovo di Volterra. Il Mariti lo definisce: << …di miserabile costruzione di pietre e mattoni e le pietre sono mal lavorate e peggio connesse, per cui non vi è niente di corrispondente all’opulenza monastica e non ha che far niente coll’edifizio della chiesa, il quale è assai più antico… >>.[20]

Nelle Colline Pisane si conoscono tre diverse grandezze di chiese, in base alle quali, con molte riserve, possiamo stabilire all’incirca il secolo in cui sono state edificate: le più antiche sono quelle piccole lunghe circa diciotto metri e larghe nove (lunghe circa dodici passi e larghe sei), che in origine furono oratori privati fatti erigere da feudatari per comodità delle loro famiglie. Questi oratori si cominciano ad edificare fin dal secolo IV, in seguito, a causa dell’incuria e del tempo furono ridotti in condizioni tali che Pipino re d’Italia, nel secolo IX, ordina che siano subito restaurati. Le chiese che possiamo definire di media grandezza misuravano circa 40 metri di lunghezza e venti di larghezza (lunghe venti o trenta passi circa e larghe dai dieci ai quindici passi), furono costruite tra il IX e il XII secolo circa, quando crebbe lo spirito della Chiesa e il numero dei fedeli, facendo sentire l’esigenza di spazi più ampi per accogliere la numerosa popolazione che accorreva dalla campagna circonvicina. A queste cappelle fu assegnato un prete e ad alcune di esse, in seguito, fu dato il titolo di pievi, prepositure e arcipreture. Le chiese più grandi potevano misurare dai sessanta ai novanta metri circa di lunghezza e dai trenta ai quarantacinque, metri di larghezza(quaranta, sessanta passi di lunghezza e venti, trenta di larghezza) erano le antiche chiese battesimali, cioè le pievi. I piccoli oratori e le cappelle di media grandezza restarono sottoposte a queste pievi, ma col passare del tempo e con l’edificazione di nuove chiese, gli oratori privati, che pure erano serviti al popolo, furono ridotti di nuovo a cappelle private o a semplici benefici.

La pieve di Morrona

Circa l’ubicazione della pieve di Morrona i pareri degli storici sono discordi: Targioni-Tozzetti sostiene che era situata dove era la casa del pievano, senza darne l’esatta posizione; Giovanni Mariti ipotizza che fosse la chiesa di Santa Maria del monastero; Repetti la colloca dentro il castello e poi, contraddicendosi, nell’estremità del paese.[22]

L’antica pieve di Morrona intitolata a Santa Maria e San Giovanni e più tardi anche a Santa Lucia, sorgeva distante dal castello circa tre chilometri in luogo detto GINESTRELLA, toponimo attualmente scomparso.[23]

L’esatta ubicazione della pieve si può evincere da una locazione del 1327 che l’abate del monastero di Morrona Bartolo fa a Cecco del fu Milio di cinque pezzi di terre costituenti il podere della << …plebis Sancti Iohannis de Morrona, quod est suprascpti monasterii et quod iam tenit plebanus Biancus in locatione a dicto monasterio… >>.[24] Il primo pezzo di terra, descritto nei suoi vocaboli e posto nei confini di Morrona, circonda la pieve ed ha un lato verso Oriente, uno “versus Stibbiolum”;[25] il terzo verso la via pubblica e “versus Vallem Orti”;[26] il quarto “in terra suprascripti monasteri”.[27] Il secondo pezzo di terra “positum ibi prope”,[28] ha un lato “in viis plublicis quibus itur Soianam et ad plebem predictam”.[29] Anche gli altri terreni, tutti confinanti tra loro, sono in Valle Orti, il cui toponimo è attualmente scomparso, ma da due relazioni e perizie di beni appartenenti alla Chiesa di Morrona, fatte fare all’inizio del Novecento dal pievano pro tempore, possiamo rilevare che due pezzi di terre posti in “Valdorto” confinano con il botro di Bucine, toponimo tuttora esistente.[30] Questo botro scorre sul fondo di una valle a destra della via che ancor oggi porta a Stibbiolo e a Soiana: la pieve sorgeva su questo lato della strada, dove attualmente è costruita una villa, nel cui terreno, secondo la tradizione orale, sono stati rinvenuti numerosi resti di ossa umane e una croce di ferro che era stata sepolta.

La prima volta che troviamo menzionata questa pieve è nel 1141 in un privilegio di Innocenzo II, con cui vengono confermati dei beni al cenobio di Santa Maria e San Benedetto, e tra questi figurano sia la pieve che la cappella di Morrona intitolata a San Nicola.[31]

Più tardi, nel 1176, l’arcivescovo di Pisa Ubaldo si fece aggiungere le pievi di Morrona e di Pava, estendendo maggiormente la sua giurisdizione, ma la pronta reazione volterrana fece sì che le due pievi tornassero alle loro diocesi.[32]

Nel 1214 la pieve ed il suo pievano furono causa di una lite (lite che si protrae nel tempo, di cui parleremo più avanti) sorta tra l’abate del monastero e il vescovo di Volterra per l’obbedienza che il pievano doveva al prelato e per il pagamento di un censo annuo di soldi quindici volterrani che l’abate doveva pagare al vescovo ogni anno per la pieve, in quanto detentore dello iuspatronato della pieve stessa; ma da quanto tempo il patronato spettava all’abate di Morrona?[33]

Dopo un periodo, che dalla metà del secolo X va fino alla metà circa del secolo XI, in cui l’autorità vescovile è in crisi e le pievi vengono alienate a laici sotto forma di livello o di beneficio, segue un altro periodo che comprende la metà del secolo XI e i primi decenni del XII, in cui vengono restaurati e recuperati i diritti del vescovo, viene ricostruita la compattezza dell’ambito pievano e riorganizzate le istituzioni canonicali. Il conflitto contro il possesso delle  decime e delle chiese da parte dei laici fa sì che esse vengano cedute spesso ai monasteri ed anche i Camaldolesi, come pure altri ordini monastici, cominciano ad ottenere numerose chiese e con queste la facoltà di cure delle anime. Dopo alcuni divieti, in vari concili e sinodi, ai regolari di arrogarsi l’esercizio dell’ufficio parrocchiale, nel Concilio lateranense del 1123 venne ordinato ai monaci di astenersi nel modo più assoluto dal celebrare messe pubbliche, visitare pubblicamente i malati, dare la penitenza e l’estrema unzione, perché tutto questo non era di loro competenza. I monaci, inoltre, nelle chiese da loro dipendenti, dovevano servirsi di sacerdoti investiti dall’ordinario diocesano.[34]

E’ molto probabile che il monastero abbia avuto lo iuspatronato della pieve in questo periodo, che coincide con il “passaggio” dai Benedettini ai Camaldolesi e con l’ascesa politica ed economica del cenobio.

Gli Abati di Morrona rispettarono sempre il divieto di esercitare il governo spirituale della pieve, facendola officiare al clero secolare, mentre si ingerirono con una certa prepotenza nell’elezione del pievano, arrogando a se stessi questo diritto, in quanto detentori del suddetto patronato.[35].

Nelle decime degli anni 1275-1276 la pieve non compare; da quelle degli anni 1302-1303 rileviamo che non pagava decima, mentre la chiesa dei santi Bartolomeo e Niccolò di Morrona pagava libbre 1.1[36]. Nel 1356 (Sinodo Belforti) la pieve pagava sette libbre come la cappella o chiesa suddetta.[37]

Nel catasto dei religiosi del 1427-29 appare che << …lo piovano di Morrona dà di censo l’anno, lo dì di santa Maria sopradetto, lire due, soldi cinque per la chiesa di Santo Bartolo da Morrona per la pieve di Santa Maria a Ginestrella… >>[38]. E ancora << …Pieve di Santa Lucia di Ginestrelle et di Santo Bartolo da Morrona unita insieme… >>[39], ciò farebbe supporre che la pieve sia stata unita con la cappella in un arco di tempo che va dal 1356 al 1427-29.

Nel 1576 il vescovo Castelli, durante la sua visita apostolica, scrive della pieve: << …Deinde vidit ecclesiam dirutam Sancte Lucie a Ginestrella a tanto tempore citra, quod non est memoria in contrarium. Cernantur vestigia parietum longes braccia 8, altitudines braccia 4 et nulla bona habere repertum est… >>[40]; il prelato decretò che sopra le rovine della pieve fosse eretta una grande croce come disponeva il concilio tridentino: possiamo avanzare l’ipotesi che la croce sia quella ritrovata sotterrata.

Capitolo II .Il secolo XII: contesto storico e ascesa del monastero

Il feudalesimo mutò ben presto la natura giuridica e il carattere del potere comitale e le funzioni del conte vennero ad essere considerate come semplice accessorio del “beneficium” che già veniva concesso al conte come ricompensa del suo operato, conseguentemente si giunse alla feudalizzazione della contea. Il vincolo che unisce il conte al sovrano si allenta e in seguito (secc. X-XI) si assiste alla decadenza del suo potere politico, attaccato anche dai feudatari che in questo periodo sorgono numerosi, tra questi i vescovi, i quali affermano sempre più la loro autorità nell’ambito della città.

Anche a Volterra, come altrove, gli imperatori, ai quali premeva l’amicizia dei vescovi, avevano continuamente favorito la curia con privilegi e immunità; forti di tutto ciò i prelati si lanciarono alla diretta conquista del potere comitale nella loro città, potere che venne riconosciuto dall’imperatore con l’intento di procurare al sovrano un fedele e vantaggioso alleato, in quanto i vescovi-conti, non disponendo del diritto ereditario del feudo, evitavano il pericolo di un insediamento nella città di vere e proprie dinastie feudali, tornando libera l’investitura ad ogni sede vacanza vescovile, come invece accadeva nel contado con i feudatari laici.

Nel Comitatus volaterranus, la giurisdizione temporale del vescovo si afferma nei secoli IX-XI: nell’ottobre 821 un diploma di Lodovico il Pio conferma i privilegi concessi da Carlo Magno; nell’845 furono concessi da Lotario “gli avvocati del vescovo”, insieme con il diritto d’ingresso dei pubblici funzionari nelle terre della Chiesa. Nell’874 Lodovico II sancisce i precedenti privilegi, conferma alla curia vescovile tutti i beni posseduti fino ad allora a qualunque titolo e ordina la rescissione di tutti i rogiti (contratti di donazione, concessioni, livelli etc.) effettuati nel periodo in cui il vescovo era fisicamente indisposto, disponendo la rivendicazione dei suddetti beni e decretando pene pecuniarie a chi avesse osato offendere o recare violenza alla proprietà del vescovato di Volterra.[41]

Adalberto marchese di Toscana, concede, nell’896, al presule volterrano il possesso e la giurisdizione civile dei castelli di Berignone, Montieri ed altri; mentre Ugo di Provenza, re d’Italia, dona alla sede episcopale alcuni possessi nel territorio di San Gimignano. Ai tempi di Ottone I L’autorità civile concessa ai vescovi volterrani era già abbastanza estesa, in seguito con i diplomi di Federico I ( 1164 ) e di Enrico Vi ( 1186, 1189, 1194 ), il vescovo venne ratificato con il titolo di “Principe del Sacro romano Impero e Conte palatino in Toscana” e acquistò il diritto di battere moneta, riconoscere consoli e podestà, creare conti, giudici e notai, legittimare spuri.[42]

Il periodo in cui si nota il massimo accentuarsi dei poteri è certamente quello dominato dal vescovo Ruggero, il quale appare per la prima volta come vescovo di Volterra il 24 maggio 1103 in un privilegio di Pasquale II a favore della Chiesa volterrana.[43] Divenne poi arcivescovo di Pisa nel 1123, dopo la scomparsa del suo predecessore Attone, morto fra il 29 agosto 1121 e il 24 marzo 1122, mantenendo la cattedra dell’episcopato volterrano.[44] Ruggero firmò con il titolo di arcivescovo i documenti spettanti la curia pisana e con il titolo di vescovo quelli riguardanti la curia volterrana, ma in un documento del 20 agosto 1128 appare con entrambi i titoli: << … vulaterensis episcopus ac pisanorum archiepiscopus… >>, si trattava di una sentenza a causa di una rimostranza dell’abate di Morrona, in territorio volterrano, contro l’arcivescovo di Pisa per dei possessi posti in episcopato volterrano. [45]

Ruggero non appartenne, come è stato ipotizzato in passato, alla nobile famiglia degli Opezinghi, originaria della zona tra Pisa e Volterra, dove aveva anche i suoi possessi,  bensì discendeva da due nobili famiglie lombarde e particolarmente importante fu la famiglia paterna, in quanto il padre Enrico (II) del fu Enrico apparteneva alla sesta generazione dei Gisalbertingi o Ghisalbertini, il cui capostipite Giselberto fu vassallo di re Berengario I, poi conte di Bergamo, infine conte del Sacro Palazzo. La madre del prelato << …Bilisia filia quondam Rogerii de loco Soresina… >>[46] apparteneva ad una famiglia della feudalità capitaneale milanese. Ruggero incrementò i beni della Chiesa volterrana prima nel 1111 con una cospicua donazione di terre poste << …in curte sua de Casano… >>[47] presso il fiume Era, poi nel 1115 con un acquisto della metà dei beni di Gerardo di Catignano e di Alberto del fu Villano entrambi di Pescia, i quali vendevano per pagare dei debiti; detti beni erano posti << …in castri Catignano, castello et curte de Catignano, Riparotta, Arsicile, Cambasi, Sancto Benedicto cum curte Muchio, curte Puliciano, Collemusciori, Camporobiano, Casallia, Fusci, Morrona, Montevaso, Petracassa… >>.[48]

Sconosciuti restano gli eventi che portarono Ruggero a ricoprire l’esercizio dell’episcopato di Volterra, poiché se nel secolo precedente non fu raro che prelati di origine lombarda fossero eletti negli episcopati di Firenze, Lucca e Pisa, nel secolo XII, con la riforma ecclesiastica si torna alla vecchia procedura, eleggendo vescovi provenienti dalla Chiesa locale.[49] Il vescovo Ruggero fu molto più intento alle cure temporali che a quelle spirituali, riassumendo in sé la figura imponente del vescovo-conte.

Quando a Volterra, in ritardo di un secolo rispetto ad altre parti d’Italia, nasce il libero Comune, l’unità patrimoniale e feudale dell’episcopato raggiunge il massimo: siamo alla metà del XII secolo.[50] All’origine del Comune volterrano stanno alcune potenti famiglie, legate da vincoli di parentela, vassalle e suddite del vescovo, queste famiglie stabilite in case-torri dominanti una parte della città, costituivano una piccola comunità, cui i feudatari del contado giurarono di difendere contro tutti nel gennaio del 1194. Quando queste famiglie ebbero la necessità di convertire i beni in loro possesso a titoli diversi, in proprietà definitive e stabili, si trovarono di fronte un vescovo-conte, che accampava e difendeva i propri diritti feudali sorretto da imperatori e papi. Le famiglie si coalizzarono: vassalli vicedomini e avvocati diventarono uomini del Comune e Consoli, staccandosi dai loro signori ecclesiastici, dando luogo ad una sempre più salda unità cittadina. E’ dunque intorno al governo vescovile che si formano i nuovi ceti dirigenti.

Il conflitto, sorto subito con la nascita del Comune, contro il vescovo era inevitabile: in gioco erano le giurisdizioni sul contado, molto ambito dai vescovi.

A Volterra, dalla metà del XII secolo fino al 1239 il vescovo appartenne sempre (con una eccezione) alla famiglia dei Pannocchieschi, grande famiglia comitale, di cui non sono conosciute le origini e l’appartenenza a questa famiglia del primo vescovo, cioè Galgano, è più presunta che reale, in quanto nessun documento ne attesta l’appartenenza e non si hanno notizie prima del suo episcopato. I Pannocchieschi possedevano cospicui beni nel territorio della città; ricordati nei documenti fin dal secolo X, presto si divisero in più rami che tennero signorie nel pisano, nel volterrano e in quel di Massa Marittima.[51]

Nel 1164 Federico Barbarossa conferì a Galgano Pannocchieschi l’investitura ufficiale della città e del comitato, probabilmente per fedeltà e riconoscenza per avere aderito al partito ghibellino, lasciata la curia pontificia e prestare obbedienza all’antipapa Vittore IV, nominato per volontà dell’imperatore in contrapposizione ad Alessandro III. L’atto del 1164 rappresentò certamente l’inizio di quel grande mutamento che vide Galgano trasformarsi da vescovo di Volterra in autorità comitale. Appena divenuto vescovo, dopo l’episcopato di Adimaro, di cui le ultime notizie si hanno nel 1146 e relative al 1150 sono quelle in cui viene menzionato Galgano come vescovo per la prima volta, aggiunse ai possedimenti della sua Chiesa alcuni beni ricevuti per donazione[52] e sempre nello stesso anno cercò di conquistare anche Montevaso, situato metà nella comunità di Castellina, diocesi di Pisa e metà in quella di Chianni, diocesi di Volterra, ciò non poteva non dar luogo a controversie tra i vescovi delle due città, una di queste è testimoniata in un lodo del 15 ottobre 1150, in cui il cardinale Guido, esaminate le molte testimonianze di ambedue le parti, riconobbe la legittimità del possesso di Montevaso all’arcivescovo pisano.[53] Nel 1158 un nuovo successo della politica espansionistica di Galgano portò alla curia volterrana una parte della corte di Gerfalco e di Travale (sul confine del territorio volterrano verso Siena). Di fronte a questa ostentazione di potere ci sono gli interessi concordati dei privati, che intendono difendere i propri beni e le loro libertà e dietro a queste persone c’è il Comune, che vede nel vescovo Galgano, sintesi del regime feudale, l’impedimento maggiore ai bisogni urbani di Volterra.[54]

L’episcopato ha ormai grandi possessi che arrivano fino alle porte di Pisa e di Lucca, Che permettono alla mensa vescovile di impinguarsi con le entrate e con i doni dei fedeli. Intanto il consolato si sta organizzando come istituto giuridico, emancipandosi sempre di più dalla tutela del vescovo, corrodendone a poco a poco le basi del potere. L’intrasigente vescovo, fulminatore di scomuniche, venne accerchiato nel suo palazzo, malmenato e ucciso in seguito ad una congiura popolare. La tradizione vuole che Gargano sia stato ucciso sulla soglia della cattedrale che cinquanta anni prima Callisto II aveva solennemente consacrata al cospetto del vescovo Ruggero.[55]

In venti anni di episcopato del Pannocchieschi l’urto tra Comune e Vescovato si era fatto cruento al punto di contaminare la sacralità.

Seguì un periodo di relativa calma durante l’episcopato di Ugo dei Saladini dei conti d’Agnano, già canonico di Padova, nominato da Alessandro III nel 1173, quindi parrebbe che dalla morte di Galgano (1171) alla nuova nomina la cattedra vescovile sia stata vacante e che per motivi di disordini seguiti all’uccisione del prelato i canonici per difendere la curia e i beni, avessero chiesto la protezione pontificia, accordata in un documento del 1171 e replicata negli anni 1175 e 1179 essendo vescovo Ugo; dopo la morte del quale i Pannocchieschi tornarono alla conquista del potere.[56]

Fu eletto vescovo Ildebrando Pannocchieschi e durante il suo episcopato sembrò che la fortuna fosse dalla parte della sua Chiesa: i privilegi, le concessioni, le protezioni pontificie si alternarono a quelle imperiali, appagando l’intraprendenza e la sete di potere di questo vescovo, che tuttavia seppe sempre mantenere la dignità dell’ecclesiastico.

Con un diploma del 15 maggio 1185 di Federico I, vennero annullate tutte le alienazioni di beni della mensa vescovile volterrana fatte probabilmente dall’ antecessore di Ildebrando.[57] Il 26 agosto 1186 Arrigo VI concede in feudo al prelato circa settanta tra ville, castelli, terreni ( di alcuni di tali beni ricevette la metà, terza e quarta parte) posti nel contado volterrano e pisano e il governo della città di Volterra con tutte le giurisdizioni sovrane, oltre al diritto di eleggere consoli non solo a Volterra ma anche a San Gimignano, Casole e Monte Veltraio; quindi Ildebrando oltre alla carica di vescovo si trova ad avere anche funzioni di sovrano o quanto meno di vicario imperiale.[58] Sempre da Enrico VI ottiene la conferma del possesso delle miniere argentifere di Montieri e nel 1189 il diritto di batter moneta con l’o bbligo di una retribuzione annua di sei marche d’argento al regio erario, incrementando le entrate di questa curia tanto che nell’anno 1190 fu in grado di prestare a Enrico Testa, marescalco di Enrico VI, la somma di mille marchi d’argento.[59] Nel 1187 il papa accorda ai possessi e ai diritti della sede volterrana il perpetuo privilegio dell’apostolica benedizione e l’anno seguente la pieve di Colle Val d’Elsa è posta sotto la giurisdizione del Pannocchieschi.[60] Privilegi e immunità vengono anche accordati da Innocenzo III (1189).[61]

Dopo il 1190 i rapporti tra Ildebrando ed Enrico VI subiscono una rottura a causa dell’intesa dell’imperatore con Pisa, di cui ha bisogno per la sua impresa in Sicilia. Enrico VI dichiara fuori corso la moneta volterrana a beneficio di quella pisana; ma nell’estate del 1194 Ildebrando, riaccostandosi di nuovo all’imperatore, ottiene i poteri di Messo regio e Conte palatino, con giudizio sulle cause di prima istanza e di appello spettanti all’Impero.[62]

Le parole del Giachi danno un’idea molto chiara della personalità di questo principe della Chiesa: << …fu così intraprendente che non ebbe difficoltà di mescolarsi nei pubblici affari, e trattar personalmente tanto la pace che la guerra, di modo che fu poi dichiarato Prior Societatis Thusciae nelle fazioni contro l’imperatore Federigo. L’autorità che seppe procurarsi sopra la città e sopra altre parti della sua diocesi, lo portò a tanta grandezza che gli stessi imperatori Federigo e Arrigo lo ebbero in molta considerazione; e la repubblica fiorentina lo volle ascrivere nell’anno 1200 nel numero dei suoi cittadini, esimendo da ogni gravezza le terre e gli uomini soggetti al vescovado >>.[63]

Poco tempo dopo sorse un grosso contrasto tra il vescovo e i suoi canonici, che dette luogo alla secessione tra il capo della diocesi, investito dei poteri temporali, e il Capitolo della cattedrale, che ebbe una violenta reazione quando Ildebrando tentò di nominare canonici a lui fedeli. Innocenzo III dette ragione al Capitolo e i Volterrani si resero conto che per difendersi dal vescovo dovevano mettersi sotto la protezione pontificia.[64]

Troviamo ancora menzionato Ildebrando in un documento del 1211, ebbe dunque l’episcopato volterrano per circa ventisei anni e l’anno successivo troviamo sulla sedia vescovile Pagano Pannocchieschi, arcidiacono della cattredrale e nipote di Ildebrando.[65]

E’ in questo quadro storico-politico che si svolgono le prime vicende documentate del monastero di Radari, in cui i conti Cadolingi hanno avuto, nel periodo iniziale, un’importanza fondamentale.

La presenza della ricca e potente famiglia dei Cadolingi in questa zona è documentata solo dalla fine del secolo XII: nel secolo X i Cadolingi possedevano vasti territori nella zona intorno a Pistoia e nella Valle dell’Ombrone; fu con il conte Cadolo che verso la fine di questo secolo il loro patrimonio cominciò ad espandersi fino all’Arno ed egli stesso fondò il primo monastero della famiglia a Fucecchio. Verso la metà del secolo XI, con il conte Guglielmo detto Bulgaro, i possessi dei Cadolingi si espansero lungo la riva volterrana del fiume Elsa e, tra la fine di questo secolo e l’inizio del XII, Uguccione si impossessò di vasti terreni nell’alta valle del Bisenzio e nel punto d’incontro delle diocesi di Lucca, Pisa e Volterra.[66]

Una gran parte di questa enorme massa di beni era stata chiaramente usurpata ai vescovi di varie diocesi da tutti i membri della famiglia, ma il conte Guglielmo Bulgaro fu uno dei maggiori responsabili di sottrazioni di possessi vescovili e con solenne giudizio, che ebbe luogo il primo dicembre 1059 in Firenze,[67] davanti a papa Nicolò II, Guglielmo dovette restituire a Guido, vescovo di Volterra, la metà dei castelli di Puliciano, Colle Muscioli e tutti i beni che Adelmo e Gisla, fondatori della badia ad Elmo e benefattori di varie pievi della zona volterrana, prima di morire, avevano posseduto nei pivieri di Cellole, Chianni e San Gimignano.[68]

Il 18 febbraio 1113 moriva l’ultimo dei Cadolingi, Ugo o Ugolino: il suo testamento disponeva di lasciare la metà dei propri beni ai vescovi delle diocesi in cui questi erano ubicati.[69]

Ugolino, probabilmente, tormentato dal pensiero che l’estinguersi della propria casata fosse un castigo dovuto alla violenza dei suoi avi a danno delle chiese, disponeva in tal modo che i beni ecclesiastici tornassero alle varie diocesi. Già negli ultimi anni di vita, il conte aveva beneficiato alcuni monasteri, specie se eretti dai suoi antenati, tra i quali quello di Santa Maria e San Benedetto di Morrona con un rogito del 1106; altri nel 1107 in suffragio dei genitori e dei fratelli.[70]

Subito dopo la sepoltura del conte ebbe luogo la restituzione dei beni alle singole diocesi ed a questa cerimonia, oltre ai vescovi di Firenze, Lucca, Pistoia, Pisa, fu certamente presente anche Ruggero, vescovo di Volterra, il quale fu investito della metà del patrimonio che Ugolino possedeva “infra episcopatum vulterranum”. [71]

Ciò che accadde dopo la morte di Ugolino fu causa di urto fra Gerardo, abate del monastero di Morrona e il vescovo di Volterra, che subito ebbe delle pretese nei confronti del cenobio; ma l’abate non fu certamente d’accordo a cedere alle pressioni del prelato volterrano, tanto più che la badia, con una bolla di Pasquale II del 4 novembre 1114, si trovò ad essere sotto la protezione della Santa Sede Apostolica con gli altri monasteri dell’ordine Camaldolese.[72]

Il 21 maggio 1120 Callisto II, essendo presente a Volterra, accoglie sotto la protezione pontificia sia il monastero che i beni, che si espandevano fino a Massa e Montegemoli. Onorio II con sua bolla del 7 marzo 1125, confermano tutti i possessi e i privilegi.[73] Ma questi privilegi, rappresentanti il rafforzamento dei diritti e prerogative dell’abate, non posero fine alle pretese del vescovo fino all’anno 1128, quando Ruggero già divenuto arcivescovo di Pisa, oltre che vescovo di Volterra, << …resideret iuxta ecclesiam et monasterium Sancte Marie de Morrona cum suis iuris peritis et notariis et aliis probis atque nobilibus viris… >>,[74] esaminò con Guido, priore di quella abbazia, le ragioni dei possessi e restituì allo stesso priore << …quedam iniuste detinere de iustitia suprascripti monasterii. Te. Prefatus venerabilis episcopus causa cognita refutavit atque postposuit iam dicto monasterio in manu predicti prioris omnes res que continebantur in suis instrumentis quas ipse habebat et possidebat de Aquisiane curte et vulterrano episcopatu ut pote in Rialto et in Ripa Rossa et in aliis locis… >>.[75]

L’arcivescovo Ruggeri sfruttò l’occasione della temporanea fusione tra le diocesi di Volterra con quella di Pisa, perseguendo una politica a favore di quest’ultima città ed anche gli abati di Santa Maria e San Benedetto agirono in questa direzione, legando sempre più le sorti del cenobio e dei suoi possessi a Pisa e alla Chiesa pisana, che vi andò acquistando sempre più pretese e diritti.[76]

Con un breve del 23 gennaio 1134 diretto a Gerardo abate del monastero di Morrona, papa Innocenzo II ordina che egli resti nel possesso di tutti quei beni che erano stati concessi alla badia dal conte Ugo e dai suoi figli << …aut aliis catholicis… >>;[77] conferma tutti i possessi presenti e futuri; proibisce ad ogni vescovo ed a qualunque altra persona di molestare il monastero, togliere beni o diminuirli con qualsiasi vessazione o legge.[78]

Anche quando il monastero si trovò in difficoltà economiche, perché gravato da ingenti debiti, l’abate Gerardo si rivolse alla Chiesa pisana, vendendo, nell’anno 1135 il 29 marzo, dei beni a Uberto arcivescovo di Pisa per cinquecento soldi: si trattava della metà intera della terza parte << …de podio et castello et curte de Aqui, quod Vivaio vocatur et de podio et castello et curte et districto de Morrona… >>.[79] Nel 1141 l’abate Uberto, successore di Gerardo, si fece confermare da papa Innocenzo II << …in ipso castro et curte eius plebem et capellam eiusdem castri cum decimis. Ea que habetis in curte aquisana. Balneum et acqueductum usque in Casina terras qua habetis in palude et in pantano cum decimis eorum… >>. E il 22 novembre 1148 Eugenio III aggiunse la chiesa di Tora e quella di Collemontanino. [80]

In tal modo è spiegabile l’atto con cui l’arcivescovo di Pisa Ubaldo, relativo al 2 giugno 1199, concede al priore di Camaldoli, ricevente per l’abbazia di Morrona, la facoltà di eleggere e di istituire il pievano della chiesa di Collemontanino, facoltà che costò agli abati del monastero non pochi fastidi, come vedremo più avanti.[81]

Nel 1152, quando venne costruito il nuovo edificio del monastero, l’abate Iacopo, su consiglio di Rodolfo, priore di Camaldoli e col consenso dei suoi monaci, per sostenere le spese della costruzione, in altro luogo e nell’odierna forma, vendette ancora una volta alla Chiesa pisana, allora rappresentata dall’arcivescovo Villano, i beni che possedeva in Montevaso, Montanino e Mortaiolo, eccetto Riparossa, per un valore di quattrocento soldi pisani e un anello d’oro. Il documento fu rogato alla presenza degli abati dei monasteri di San Zeno e di San Michele in Borgo, dei consoli di Pisa e di altri importanti cittadini.[82] La Chiesa pisana venne in tal modo in possesso di ciò che avrebbe dovuto avere alla morte del conte Ugo.

Di grande interesse fu la strada del monastero per lo scambio commerciale tra Pisa e Volterra, che si vivacizzava col mercato di Pava (odierna Pieve a Pitti), traffico osteggiato dagli abitanti di Volterra fin dal 1252 con una chiara disposizione statutaria.[83]

Il patrimonio fondiario e l’economia del monastero attraverso i secoli

Secolo XII

 La grossa dotazione che il conte Ugo dei Cadolingi fece all’antico monastero di Radari nel 1089, consisteva, oltre a molti terreni “cultis et incultis” sparsi in vari luoghi, anche in numerose case ed alcuni mulini << …que sun in fluvio Caldana, cum aquis et aquiductibus… >>.[84] A questa donazione se ne vengono ad aggiungere altre tre nel 1098: la prima del 4 gennaio è di prete Albone del fu Buosi, che per suffragio dell’anima sua e dei suoi genitori offre alla chiesa e monastero la sua parte di patrimonio consistente in due pezzi di terra posti in Casanova: l’abate Eriberto riceve la donazione per sostentamento dei minaci presenti e futuri.[85] La seconda di tre pezzi di terra posti nei confini di Rivalto, viene fatta da Benzo e Gerardo del fu Saracino e da Oliva loro madre e mundualda il 7 gennaio, a Casanova e Rivalto “esclusa la terra figlinese e raimbertinga”;[86] la terza da Bianca vedova di Giudo e figlia del fu Imiglio il 6 luglio: i due pezzi di terra offerti si trovano nei confini di Casanova e sono coltivati a vigne.[87] Questi beni danno luogo alla formazione di un ingente patrimonio ed il cenobio comincia ad avere amministratori e feudo.

Durante la prima metà del XII secolo continua l’ascesa economica del cenobio sia con donazioni private, che con acquisti da parte degli abati.[88]

Ancora una volta i Cadolingi hanno un ruolo preminente nei confronti dell’abbazia accrescendone il patrimonio con due donazioni fatte da Ugo, figlio dell’omonimo conte, negli anni 1105 e 1107; vediamo dunque agire questa famiglia alla stessa stregua di tanti altri individui e gruppi familiari della zona. Con la prima il monastero entra in possesso del terreno che dall’altura su cui era edificato degrada nella valle fino al fiume Cascina, ad accezione di cinque staiora di terra vignata coltivata da Aldibrando di Gerardo.[89] Con la seconda, di un pezzo di terra chiamato Collina, posto nei confini di Morrona in luogo detto Villa Negoziana, ad eccezione di tre particelle, le cui prime due << …sunt feudu de filii Gualandi de Montorgnano… >>;[90] la terza è coltivata da Ildibrando di Gerardo Cinnami.[91] Otto staiora di terra seminativa << …ad staiores duodecimos panos… >> vennero a far parte dei beni del cenobio in seguito ad una donazione di prete Tenzo fu Gumberto il 9 dicembre 1105.[92]

Beni a Soiana, Soianella e Campagnana furono donati da Rodolfo del fu Davit, Gualando del fu Guidone, Mascaro del fu Marco. La chiesa dei santi Cristoforo e Lucia di Villa Negoziana con i suoi beni ed appartenenze, compreso ogni diritto di patronato, compresa la facoltà di istituirvi un prete, fu donata da Ildebrando fu Gerardo, la chiesa era anche dotata di cimitero.[93]

Altri terreni con relative appartenenze furono offerti all’abbazia da “Ragineri comitis de Pantano” nel 1115;[94] Rolandino fu Buoso donò la metà intera del suo patrimonio, l’altra metà sarebbe appartenuta al monastero se alla sua morte non avesse avuto eredi diretti, in caso contrario gli eredi avrebbero avuto l’obbligo di dare alla chiesa del monastero un affitto annuo di dodici denari per la festa di s. Stefano.[95]

Nella seconda metà del secolo XII le pie donazioni furono molto meno frequenti, forse a causa della lacunosità della documentazione e non dal fatto che queste venissero a mancare, gli atti di fine secolo registrano solo due donazioni ad una notevole distanza di anni da quelle sopraccitate. Nella prima, del 20 dicembre 1182, Iugeneta del fu Ildebranduccio e vedova di Guido di Tavernere offre ogni suo avere e se stessa al cenobio, di cui è abate pro tempore Marco, il quale in un codicillo promette in cambio di dare alla benefattrice, vita natural durante, << …victum, vestitum convenientem… >>.[96] La seconda risale al 7 agosto 1184: Corso del fu Opizone e sua moglie Berta donano tutte le loro proprietà mobili ed immobili poste nei confini di Morrona, Aqui e Montanino.[97]

Anche i beni pervenuti all’abbazia per acquisti degli abati dovettero essere piuttosto ingenti: i primi due risalgono rispettivamente al primo febbraio e al 6 aprile 1109, entrambi hanno come attore il conte Ugo dei Cadolingi, il quale vende, col primo, metà della sua porzione del castello e corte di Morrona con << …omnibus casis et cassini, vel casalini… >>.[98] Con questo acquisto gli abati vennero in possesso della maggior parte dei terreni circostanti Morrona. Con la seconda compera, il cenobio entra in possesso della metà di ciò che Ugo possiede in << …Aquisiana curte, cum alia medietatem de tota mea portione de castello quot (sic) nominatur Vivarium… >> ad eccezione del castello e corte di Santa Lucia.[99] Entrambi gli acquisti furono fatti per << …unum par pellium in prefinito… >>; nei codicilli, che seguono la “completio”, viene stabilito che se il conte avesse avuto un erede sia maschio che femmina, tutti questi beni sarebbero stati restituiti dagli abati, contro il pagamento di quaranta lire di denari lucchesi; mentre se Ugo fosse morto senza eredi anche l’altra metà dei suddetti bene sarebbe appartenuta al monastero. Ciò fa pensare ad un prestito con garanzia fondiaria più che ad una vendita. La zona indicata è quella ad est dell’attuale Casciana Terme, individuabili per il riferimento al fiume Caldana, che nasce ai piedi del colle di Vivaia, dove è ubicata questa località e di cui erano già note le proprietà terapeutiche di queste acque, infatti nel documento si fa riferimento alle “aquis et aqueductibus”; in questo luogo era concentrato un nucleo importante dei beni di questa famiglia e l’acquisizione di ciò da parte degli abati fece sì che i rapporti tra il monastero e il Comune di Aqui fossero più frequenti, dando luogo ad interminabili liti di cui parleremo più avanti.[100]

Dopo che all’abbazia di Morrona erano passati, sia per donazione sia per vendite vere o simulate, un’enorme parte dei beni che i Cadolingi avevano in questa zona, il monastero diventa il polarizzatore di questa importante parte della Tuscia, punto d’incontro di tre diocesi: Lucca, Pisa, Volterra, sfuggendo al controllo dei rispettivi vescovi, in particolare a quello di Volterra, diocesi di cui faceva parte. Ma dopo la morte di Ugo, nel 1113,che determinò l’estinzione di questa famiglia, ebbe logo la spartizione e la restituzione dei beni ai vescovi nelle cui diocesi erano situati, come dal testamento dell’ultimo conte.[101] Quando il vescovo di Volterra, come anche gli altri due, fu investito della metà dei beni posti nel suo episcopato e due anni più tardi (1115) acquistò dagli esecutori testamentari anche l’altra metà per la somma di centocinquanta lire di denari lucchesi, si ebbe lo smembramento di questo enorme patrimonio che comprendeva anche i beni della badia di Morrona.[102] Ebbe così inizio il processo di decadimento economico di questo monastero?

Altri terreni, situati nelle vicinanze dell’abbazia, furono acquistati nel 1134, 1136, 1139.[103]

Ci troviamo nell’impossibilità di identificare una serie di “loci dicti”, ora per la maggior parte dei casi scomparsi, per la cui localizzazione i documenti esaminati non forniscono alcun elemento: essi collegano in genere la loro origine a qualche caratteristica del paesaggio o al nome del proprietario o del conduttore, il mutamento dei quali, nel contesto di una diversa organizzazione agraria, ne ha probabilmente provocato la scomparsa.

Il patrimonio fondiario, pur non formando un unico blocco, presenta una certa compattezza: raramente, infatti, gli appezzamenti non confinano, almeno da un lato, con altri di proprietà del monastero. Tra i confinanti figurano anche dei privati, probabilmente esponenti di famiglie più abbienti della zona ed enti ecclesiastici come la chiesa dei ss. Nicola e Bartolomeo. La grande percentuale di fondi privi di indicazione di misura rende, purtroppo, il discorso quantitativo necessariamente generico. Nella maggior parte dei casi viene commerciato il singolo appezzamento, la “petia de terra” sempre definita nei suoi confini, oppure la “terra et res”, la “terra et vinea”, ubicata in uno o più luoghi, confinata e solo in pochi casi misurata. Questa prevalenza della “petia de terra” impone l’immagine di un enorme frazionamento agrario, del resto anche le quattro confinazioni indicate per ciascuna parcella e in cui compaiono con frequenza la “via” e il “fossatus” fanno pensare a una viabilità campestre e ad una rete di fossi piuttosto intensa.

La natura dei beni posseduti dal monastero varia: in gran parte si tratta, come già detto, di pezzi di terra, di mulini, di casine o casalini, più di rado di orti. I terreni sono coltivati a grano, vigne, olivi, prati e pascoli.

La forma di gestione, sulla quale siamo infirmati da quattro documenti risalenti al 1115, 1168, 1196, 1198 è l’affitto, che veniva concesso in cambio di un censo annuo in denaro da soddisfarsi nelle feste di s. Michele e s. Giovanni (4 dicembre).[104]

Dal patrimonio fondiario dell’abbazia furono alienati ancora dei beni con due vendite: abbiamo visto che quando il vescovo Ruggeri divenne contemporaneamente anche arcivescovo di Pisa, rivolse la sua politica a favore di questa città in connessione con la politica di espansione che Pisa perseguiva nelle Colline Pisane e nel contado volterrano fin dall’inizio del secolo XII. Anche gli abati di Morrona si orientarono in questa direzione, cercando di svincolarsi sempre più da Volterra e unendo le sorti del monastero a Pisa; infatti quando nel 1135 l’abate Gerardo si trova gravato da ingenti debiti, vende all’arcivescovo di Pisa Uberto quei beni che aveva acquistati nel 1109 dal conte Ugo.[105] Nel 1152, l’abate Jacopo vende ancora all’arcivescovo pisano tutti i beni che il monastero possiede in Montevaso e nei dintorni, per edificare la badia nel luogo detto Poggio, cioè presso l’antica chiesa di s. Maria dove ancor oggi la possiamo vedere.[106]

Vogliamo concludere l’argomento sull’economia di questo monastero nel secolo XII con le parole del Volpe: << Favorivano in questo tempo siffatto distendersi del dominio territoriale della chiesa e del comune pisano o la libera donazione degli abitanti di qualche castello, o le necessità finanziarie delle abbazie un giorno floride, ora in rapida decadenza, come quella di Santa Maria di Morrona […] i vecchi monasteri di origine longobarda e franca, se renitenti ad accogliere il moto riformista dell’XI secolo, insidiati da tutte le parti dai feudatari avidi, minati dalla sorda e tenace ribellione dei loro dipendenti, si trovano a poco a poco spogliati della terra ed onerati di debiti coi cittadini più ricchi per i quali simile impiego di denaro è un’ottima speculazione, perché non mancherà mai loro l’appoggio del comune contro gli abbati ed i feudatari del contado. E’ questo il caso, nel XII secolo, di molti monasteri del contado pisano, specialmente se hanno vicino un fiorente comune rurale col quale i contrasti sono inevitabili come quello di San Felice di Vada, San Salvatore di Sesto, presso Bientina, di Santa Maria di Morrona nel castello omonimo >>.[107]

 Secolo XIII

 La sporadicità dei documenti impedisce un’organica ricostruzione dei possessi che costituirono il patrimonio fondiario del cenobio anche per il secolo XIII.

I beni acquistati dagli abati, in un arco di tempo che va dal 1239 al 1272, sono appezzamenti di terre lavorative, con alberi, boscate e vignate, in alcuni dei quali sorgono anche case e casalini; se poi volessimo indicare quali alberi fossero coltivati dai contadini del monastero, potremmo compilare, in base alle nostre fonti, un inventario molto inconsistente, in quanto sono nominati solo fichi e peri, in numero maggiore gli ulivi.[108] I cerri e le querce, che pur costituivano la base della vegetazione arborea in queste colline, sono menzionati rarissime volte nei documenti, probabilmente questa lacuna è dovuta alla frequenza di queste piante che ne rendeva inutile la precisazione ed erano sottointese nel generico vocabolo di “albero”.

Vite e frumento sono le uniche colture cui le fonti si riferiscono più frequentemente, in special modo per la prima come di quella più pregiata: queste vigne erano disseminate un po’ dovunque. Quanto al frumento, base dell’alimentazione e base, in molti casi, delle unità di misura di questi terreni, lo troviamo nominato molto spesso anche come retribuzione dei censi che i contadini davano agli abati. Rare volte il pezzo di terra era lavorato a prato.

I riferimenti topografici degli acquisti sono, come per il secolo precedente, designati con “loci dicti” ed il quadro generale è sempre quello di un intenso frazionamento fondiario, in cui, dopo lo sfaldamento del manso, prevale incontrastata la “petia de terra”, ma nonostante ciò possiamo rilevare che il patrimonio fondiario del monastero si dislocava in modo piuttosto omogeneo intorno ad esso per un raggio molto vasto, anche se, data la mancanza di misure dei terreni nella maggior parte delle fonti, non ricostruibile dal punto di vista quantitativo.

Questi beni erano dati a livello o a locazione, ma non è specificato se a contadini o a coloni o ad altre persone di diversa condizione giuridica. Un livello risalente al 13 gennaio 1271 fu concesso dall’abate Alberto a prete Scolario, pievano della pieve di Morrona, per conto della stessa pieve, consistente in numerosi appezzamenti di terreno siti nei pressi intorno alla pieve, per una durata di ventisei anni.[109]

I censi, annuali, erano retribuiti sia in denaro (quasi sempre moneta pisana), che in cereali (grano, orzo, miglio), .[110]

Le nostre fonti non ci permettono di formulare un organico discorso sul punto essenziale dell’organizzazione della proprietà monastica, cioè sui sistemi di sfruttamento del lavoro contadino. L’accumulazione di terre da parte dell’abbazia durante i secoli XII e XIII con il continuo acquisto di terreni, incameramento di patrimoni familiari, organizzazione della propria ricchezza fondiaria intorno a chiese e villaggi, dovette essere considerata, probabilmente, anche come la ricomposizione di un dominio sulle famiglie contadine, in un quadro ormai decaduto dell’antica organizzazione per mansi.

Per quasi tutta la prima metà del secolo XIII nessuna donazione al monastero compare nelle fonti: l’ultima risale al 1184, per cui il cenobio non avrebbe ricevuto donazioni per un periodo di cinquantotto anni.[111] Avanzare delle ipotesi a questa mancanza di offerte da parte laica sarebbe cosa inopportuna e da fare con la massima cautela, d’altra parte il vuoto di donazioni degli anni che vanno dal 1184 al 1242, anno in cui troviamo la prima “cartula offersionis” di questo secolo, potrebbe essere una delle tante conseguenze della lacunosità della documentazione, come già altrove detto.[112]

Tale donazione è interessante per diversi motivi, perché è un’alienazione di beni cospicua, per l’ius patronato  delle due chiese e perché nel documento troviamo una frase che sembra fuori tempo: Scotto del fu Bernardo e Gregorio suo figlio danno a Benedetto, abate di Morrona, oltre ad ogni loro possesso posto nel castello di Montanino anche lo ius patronato della chiesa dello stesso luogo. Offrono, inoltre, il patronato della pieve di San Giovanni di Aqui << …et totam mansionem quam habet et tenet Benenatus quondam Pantonerii de qua consuevit reddere annuati quarras sex grani de Montanino et quam magister Contadinus, de eodem loco, habuit et tenuit a suprascripto Scotto actor et defensor ad penam quingentarum marcarum aurei… >>.[113] L’abate concesse loro un vitalizio annuo consistente in tre staia di grano e una libbra d’olio. E’ da notare la frase << …totam mansionem quam habet et tenet Benenatus… >>[114] in un documento del secolo XIII, bisogna considerare che il frazionamento fondiario è già intenso nel XII secolo, in cui prevale ormai il pezzo di terra o la terra con vigna, la terra con bosco, la terra con alberi; la decadenza del manso è già avvenuta anche se nella prima metà del secolo XII non è raro che alcuni atti notarili nominino il detentore di un complesso fondiario, anche se non si tratta più di un manso. Verso la metà del XII secolo, l’evoluzione della decadenza del manso è giunta al termine e generalmente i documenti menzionano i coltivatori raramente, nella maggior parte dei casi le alienazioni fondiarie non avevano ormai più per oggetto tutte le terre facenti capo a una famiglia contadina, ma singoli ed isolati pezzi di terre. Certo non può essere questo unico esempio a configurare quel tratto principale della struttura curtense, né possiamo desumere la persistenza di questa struttura nella zona alla fine della metà del secolo XIII da questa formula, in cui il manso figura compreso nei beni della pieve di Aqui alienati al monastero, è probabile che rappresenti più un’indicazione geografica che l’espressione di un legame strutturale. Sempre nella stessa carta, l’abate, col consenso dei suoi monaci, promette per sé e per i suoi successori, di dare << …ei vel suo herede aut cui ipse preceperit apud castrum Montanini toto suprascripte vite Scotti esse??? in dicto castro staria tria grani et libram unam olei ad pena dupli… >>.[115] Un altro rogito con la stessa data contiene la conferma dei beni da parte del donatore.[116]

Nella seconda metà del secolo tre sono le donazioni (reperite) fatte all’abbazia: la prima effettuata da Belcolore vedova di un certo Fabbri di Terricciola, che per rimedio dell’anima sua e dei suoi parenti dona a Gerardo abate un pezzo di terra con fichi e bosco, posto nei confini di Morrona in luogo detto Valle, terreno che viene affittato nello stesso giorno dall’abate a Guido fu Saracino di Morrona per sei panieri di grano buono l’anno.[117] Le altre donazioni sono due testamenti: con il primo, del 1286, il monastero entra in possesso di tre parcelle di terreno poste nei confini di Morrona, il testatore, Benvenuto del fu Giovanni dello stesso luogo, obbliga con una clausola l’abate ad affittare gli appezzamenti a Lenzo, Naccio e Donato, figli del fu Carbone e abitanti nello stesso luogo, per un censo annuo di sei quarre di grano. Il testatore, inoltre, lascia all’abbazia altri due terreni situati nelle vicinanze degli altri, uno dei quali con una casa, a condizione che Beldimanda, sua moglie, << …det annuatim suprascripto monasterio quarras duas boni et puri et nostratis grani ad reptam pisanam mensuram apud idem monasterio… >>.[118] Porta la stessa data il rogito con cui Alberto abate entra in possesso di questa cospicua offerta.[119]

Un pezzo di terra posto sempre nei confini di Morrona in luogo detto Cascina viene a far parte del patrimonio fondiario di Santa Maria e San Benedetto con testamento di Lupo fu Pellario di Morrona il 16 giugno 1288.[120]

Negli anni 1275-1276 la badia di Morrona pagava di decima libbre 25 e soldi10; nel 1276-1277 libbre 26 e soldi 6.[121]

Secoli XIV e XV

 All’inizio del XIV secolo, la badia di Morrona pagava di decima lire 14.18, ciò farebbe supporre che le rendite fossero molto diminuite dal 1276-77 quando, come abbiamo visto, pagava lire 26.6;[122] ma al tempo del Sinodo Belforti (1356) il monastero pagava di decima 90 lire,[123] questo farebbe ipotizzare una ripresa economica all’inizio della seconda metà di questo secolo: cosa poco probabile, perché il cenobio, come vedremo, ha un’evoluzione abbastanza rapida di quella decadenza economica iniziata già nel secolo XII. Chiara testimonianza è la bolla pontificia spedita da Bonifacio VIII al pievano di Chianni il 17 aprile 1300, perché si occupasse di rivendicare per il monastero tutti quei beni che erano stati alienati illegittimamente dagli abati, queste concessioni a laici e chierici avevano causato gravi danni economici al monastero.[124] Nella bolla non viene menzionato il nome del pievano, ma supponiamo che si tratti di un certo Giacomo, pievano a Chianni dal 1285; resta ignoto il motivo per cui Bonifacio VIII si rivolga a questo pievano per tale incarico, che in quei tempi rappresentava un esercizio di difficile attuazione e da conseguire con molta diplomazia.[125]

Nella prima metà del Trecento il monastero entra in possesso di vari pezzi di terra acquistati dagli abati, questi beni sono dislocati nei confini di Morrona ed Aqui, sono terreni boscati, campi, con ulivi ed alcuni hanno anche dei fabbricati.[126]

Sempre in questo periodo troviamo due donazioni: la prima, del 1324, è un testamento per il quale “Corbulus quondam Strenne” di Morrona dichiara di voler essere sepolto nel monastero di Santa Maria, lasciando 30 soldi di moneta pisana per il suo funerale, 40 soldi per il settimo giorno dalla sua scomparsa, 10 soldi per l’altare del monastero, 5 per quello della pieve e 5 per quello della chiesa di San Bartolomeo; lascia inoltre due pezzi di terra.[127] Il diritto di sepoltura era molto ambito perché i vantaggi economici che i monaci ne traevano dovevano essere non indifferenti, in quanto ogni corpo seppellito assicurava al cenobio lasciti ed elemosine nello stesso giorno del funerale, poco tempo dopo e generalmente una volta all’anno. Questo tipo di concessione non piaceva ovviamente ai titolari delle pievi, non contenti di perdere i diritti loro spettanti secondo il diritto ordinario.

Nella seconda donazione Ugolino fu Bonaccorso da Morrona e sua moglie Mingarda fu Morronese, dello stesso luogo, offrono, per la salvezza delle loro anime e dei loro peccati, se stessi e tutti i loro beni mobili e immobili presenti e futuri, rinunciano ad un salario, ma si riservano 22 lire di denaro pisano per dote delle loro figlie.[128]

Da una vendita di legna effettuata nel 1306, l’abate Corrado ricava 40 lire “pro utilitate et melioramento” del monastero: la legna si trova in luogo detto “Silva Abbatis” e viene acquistata da due abitanti di Soiana.[129]

Nello stesso anno il 18 di gennaio una grossa parte dei beni della badia fu data in feudo, o meglio in accomandigia dall’abate Corrado a Bonifacio, conte di Donoratico e signore della sesta parte della Sardegna: con la decadenza economica, il monastero si trovò probabilmente in grosse difficoltà specialmente col laicato, come dimostra anche la bolla di Bonifacio VIII, in quanto non era più in grado di esercitare la sua potenza sopra tutto e tutti come era avvenuto per il passato, quindi trovò nel conte di Donoratico più che un feudatario un protettore,[130]  << …erano luoghi, quindi, dove abbondavano boschi e pascoli anticamente comunali, passati poi con la conquista barbarica al fisco regio e donati a Grandi ed a monasteri. Vi avevan perciò nel IX, X, ed XI secolo prosperato vigorosamente nobiltà feudale ed istituzioni monastiche, due prodotti identici di una stessa età storica, della cui protezione e della cui rovina più tardi si giovano le comunità agricole germogliate sul terreno da quelle preparato e desiderose di rivendicare, come realmente rivendicano, quei diritti antichissimi sulle terre comunali: germogliate entro le corti signorili e monacali… >>.[131]

Al 1309 e successivamente al 1320 risalgono tre permute, un’altra è del 1347: con la prima l’abate Corrado cede nove pezzi di terra con ogni appartenenza posti nei confini di Morrona, in cambio di tre terreni appartenenti a Pardo di Bonaccorso abitante nello stesso luogo, la seconda, presente al rogito Bonaventura, priore di Camaldoli, l’abate Bartolomeo cede due case con “orticello”, ubicate in Morrona, in cambio di alcuni beni appartenenti a ser Francesco; sempre nello stesso documento viene permutato un pezzo di terra con un altro più vicino al monastero. che appare anche Nella terza permuta, due terreni di Pardo di Bonaccorso vengono ceduti a “Bartholomei de Eugubio”, allora abate del monastero, perché più vicini agli altri possessi dell’ente ecclesiastico, in cambio di terre confinanti con altre proprietà nel morronese. [132]    

Abbastanza numerose, sempre per quanto riguarda la prima metà di questo secolo, sono le locazioni di terreni, edifici e mulini, che rappresentano in modo esclusivo la conduzione del patrimonio fondiario del cenobio.[133]

Il censo annuo da soddisfarsi in occasione di varie festività era sia in natura che in denaro (sempre moneta pisana). I toponimi e i cosiddetti “loci dicti” sono sempre gli stessi, quindi non ci sono stati grandi cambiamenti rispetto al secolo precedente.

Sei retribuzioni di censi date dagli abati al presule volterrano risalgono agli anni 1315, 1318, 1322, 1333, 1335, 1340. Il primo censo viene soddisfatto il 22 ottobre 1315 dall’abate Bartolomeo, consistente in quindici soldi << …pro anno elapso […] pro censu Abbatie predicte et capelle de Morrona, annis singulis… >>[134] e davanti al vescovo e ad altri testi, essendo inadempiente << …promittens dictam solutionem… >>.[135] Il censo soddisfatto il 3 settembre 1318 consiste in due rate di quindici soldi ciascuna, siccome  << …non solutorum per duobus annis… >>.[136] Sempre l’abate Bartolomeo, rappresentato da Mansueto suo monaco, il 14 ottobre 1322, corrisponde al vescovo volterrano quarantacinque soldi a titolo di censo per la pieve di Santa Maria di Morrona e per la cappella di San Bartolomeo dello stesso luogo, lo stesso Mansueto, sempre a nome dell’abate << … finem refutationem et pactum de ultius non petendo dictum censum anni presentis et promittens per se et suos successores dictas confessus est refutationem et finem perpetuo firmam et ratam habere et non confacere ut veire sub obbligationem bonorum Episcopatus predicti… >>.[137] Il 29 dicembre 1333 Benvenuto, monaco del cenobio di Santa Maria di Morrona, in rappresentanza del suo abate corrisponde al vescovo di Volterra soldi quarantacinque di denaro pisano per censo della pieve e della cappella di Morrona, che era tenuto a soddisfare ogni anno per la festa dell’Assunzione. << …Renuntians exceptiam non date, tradite et numerate sibi dicte pecunie et omni exceptioni doli mali et infactum. Nec non promictens stipulatione solepni dicto dopno Benvenuto recipienti pro dicto domino abbate predictam confessionem solutionem renuntiationem et omnia suprascripta et quolibet predictorum firma rata et grata habere et tenere perpetuo et non contrafacere vel venire per se vel olim aliqua ratione vel causa de iure vel de facto, sub pena dupli dicte quantitatis pecunie et dupli omnium expensarum ac interesse litis et extra et sub obligatione sui et bonorum suorum… >>.[138] Il rogito per il censo risalente al 30 dicembre 1335, quando Giovanni di Ugolino di Casanova, procuratore del monastero morronese, a nome dell’abate, paga al presule volterrano non solo quarantacinque soldi di denari pisani, ma anche quindici soldi di denari volterrani per la pieve e cappella di Morrona, ha più o meno lo stesso tenore di quello precedente,[139] come anche quello relativo al 6 giugno 1340, essendo abate Silvestro d’Anghiari.[140]

Durante il secolo XIV sono solo tre i rogiti che ci informano delle elezioni e costituzioni di procuratori del monastero, nel primo, relativo all’anno 1334, Bartolo, abate del cenobio di Morrona e il pievano della pieve di Ginestrelle dello stesso luogo eleggono procuratore Fazio, abate del monastero dei Santi Giusto e Clemente di Volterra;[141] con il secondo, lo stesso abate con il rettore della chiesa di San Bartolomeo di Morrona eleggono a procuratore ancora l’abate del monastero dei Santi Giusto e Clemente di Volterra, il rogito risale all’anno 1336;[142] nel terzo documento datato 1343, l’abate Silvestro elegge procuratore e difensore del monastero di Morrona << … Funtinum porelli de Veneri, conversum dicti monasterii… >>.[143]

 

Fare un quadro della situazione economica e del patrimonio fondiario di questo cenobio è estremamente difficoltoso, ma per la seconda metà del secolo XIV è addirittura impossibile, in quanto le fonti, già lacunose, si interrompono bruscamente alla fine della metà di questo secolo, per riprendere in quello successivo, anche se in modo molto limitato, comunque da questa frammentarietà di notizie possiamo dedurne uno stato di generale decadenza e di miseria. Nella Costituzione camaldolese fatta nel Capitolo volterrano il 21 maggio 1351 il monastero di Morrona figura tra quelli mediocri, ma non sappiamo se è definito mediocre rispetto al numero dei monaci e per la grandezza dell’edificio oppure per i suoi possessi.[144]

Dalle collette dell’Ordine del XIV secolo, che coprono un periodo di tempo che va dal 16 luglio 1315 al 1324, possiamo rilevare che la badia di Morrona pagava tre fiorini, quando il monastero dei SS. Giusto e Clemente di Volterra pagava otto fiorini, ciò fu stabilito nel capitolo celebrato in Cortona nell’anno 1315. Nel capitolo del 1317 fu decretato: << …est ratio distributionis collecte sexcentorum florini aurei in duobus terminis solvendorum… >> da soddisfarsi il primo giorno di agosto e il primo di settembre, quindi come prima rata il cenobio di Morrona doveva pagare otto libbre e quattro soldi;[145] più avanti troviamo che il monastero pagava libbre sedici e quattro soldi, << … isti sunt que solverent collecte sua monasterio contingentis proxime imposite… >>.[146] Il mese di ottobre del 1320: << …infrascipta est ratio collecte MCC florinorum aureorum imposite pro negotiis ordinis maxime pro eam sancti Savini in monasterio Vulterris cum consiliarum ordinis videlicet… >>,[147] al monastero di Morrona spettavano undici fiorini e trentadue soldi. In data 1318 per la festa di Pentecoste << … infrascipta est distributionis collecte MCC florinorum aurei imposite pro negatus ordinis maxime pro eam monasterio sancti Savini in monasterio sancti Zanobi pisanis quando ibidem fuit generale capitulum celebratus… >>,[148] Il monastero di Morrona corrispose una somma di fiorini undici e trentadue soldi, << …infrascripta est pecunia exacta pro abbatem sancti Michaeli de Burgo pisani… >>.[149] Lo stesso importo lo troviamo il 27 aprile 1320 e in maggio dell’anno successivo gli otto fiorini sono scesi a sette e trenta soldi, per arrivare a sei e trenta soldi nel mese di dicembre. Nel 1323 Benedetto, procuratore del monastero di Volterra, paga la colletta per il suo monastero trattenendosi venti fiorini d’oro prestati per fare fronte a debiti del monastero. Allo stesso modo paga per il monastero di Morrona “dominus Vitali”, ritenendo per sé dieci fiorini che aveva dato in prestito per debiti. Il monastero di Morrona deve pagare per la colletta dello stesso anno ed entro determinati termini cinque fiorini d’oro << …et singulis annis sequentibus sibi monastrerium debet solvet… >> tre fiorini d’oro.[150] Il monastero, quindi, aveva corrisposto come prima rata fiorini cinque, come seconda fiorini tre, come terza e quarta quota fiorini cinque. << …Item solve abbatibus de Roma pro presentia… >> fiorini otto; residua la somma di due fiorini. Nel 1381 non viene menzionato il monastero di Morrona.[151]

Il 9 novembre 1390 da una bolla pontificia di Bonifacio IX apprendiamo che il papa ordina ai monaci del monastero di ricevere come abate Giorgio, già abate del monastero di San Michele in Borgo di Pisa, è questa la seconda volta che troviamo un abate eletto da un papa: infatti con una bolla emanata da Clemente V, nel 1313 maggio 24, viene eletto il nuovo abate di Morrona nella persona di Pietro di San Salvatore di Selvamonda, della diocesi di Arezzo, l’abbaziato cenobitico era vacante, per il passaggio dell’abate Bartolo al monastero di San Giovanni di Borgo San Sepolcro.[152] Questo può essere il sintomo di una decadenza non solo economica, ma soprattutto di una decadenza di quel potere che aveva contraddistinto le azioni e la condotta degli abati che si erano succeduti nel corso dei secoli. Questo declino del potere potrebbe essere stato la causa della concessione del feudo di Montanino e altri beni, al conte di Montescudaio. Ormai dell’antica potenza dell’abbazia non restava che il ricordo: l’ascendente che aveva avuto sopra ogni persona che aveva tentato di opporsi ai suoi privilegi o al volere di un abate, alla fine del XIV secolo era quasi nullo. Per difendere i beni restanti il generale dell’ordine Andrea e Giorgio abate di Morrona, col consenso dei suoi monaci, concedono in feudo perpetuo parte di questi beni a Niccolò conte di Montescudaio, cittadino pisano, figlio di Giovanni della famiglia dei Gherardeschi:[153] << …considerata presertim magna potentia et excellentia egregii et potenti viri Nicolai comitis de Montescudario. Considerato etiam quod memoratus dominus haberi possit pro fideli et defensore monasterii et ordinis supradicti… >>.[154] Già abbiamo visto che all’inizio del secolo una grossa parte dei beni vengono dati in feudo a Bonifacio conte di Donoratico, il quale però non lascia eredi, quindi nel 1393 tali beni passano a Niccolò non solo per le sue ottime qualità morali, ma perché è erede indiretto di Bonifacio. Il conte di Montescudaio viene, dunque, dichiarato difensore di questo monastero contro la vioenza dei laici che occupano indebitamente i beni della badia o non soddisfano gli obblighi pattuiti: << …et considerato etiam maxime per prefatum dominum generalem priorem et dictum dominum abatem grata devotionis obsequia et favoris que olim bone memorie magnificus et potens vir Bonifacius comes de Donoratico et sexte pertis regni Kallaritani dominus, cui per cartam rogatam a ser Oliveri Maschione notario olim Michaelii dominice incarnationis anno MCCCVI […] et etiam considerato quod prefatus comes Nicholaus est de prosapia et in patrimonio ut dicitur, prefati magnifici domini Bonifacii comitis et ex dicto domino comite Bonifacio nullus appareat filus masculus, seu descendentes, per hoc instrumentum dedit et tradit et libere concessit prefato domino comiti Nicholao de Montescudaio… >>.[155] I beni consistono in << …medietatem integram pro indiviso totius castri Montanino, Plebarii Balnei de Aquis et eius territorii, dominii o proprietatis… >>,[156] ad eccezione però del patrimonio sulla chiesa di Collemontanino: << …non intelligatur concessus patronatus ecclesiae Sancti Laurentii de Montanino et Rumitorium Terre Veteris et nove, qui et quod in hoc contractu non veniant… >>.[157]

Un documento del 5 maggio 1408 ci informa di una commissione data da Agostino Moriconi da Lucca, abate del monastero di San Pietro de’ Pozzuoli a Orlando, abate di Morrona, per agire in sua vece nella futura elezione del nuovo priore di Camaldoli. Il 16 giugno 1462, con una procura fatta da Iacopo di Andrea da Galatea, abate del cenobio di Morrona, a Benedetto del fu Masco di Andrea da Galata, suo nipote e priore di Santa Maria di Vincareto, “per rinunciare in di lui nome la detta badia di Santa Maria nelle mani del pontefice Pio II o di Mariotto, priore dell’Eremo e generale di tutto l’Ordine camaldolese”. Risale al 15 marzo 1464 un breve di Pio II diretto al priore e generale di tutto l’Ordine camaldolese, con cui gli demanda di consegnare per usufrutto un possesso del monastero di Santa Maria di Morrona a Iacopo, il quale era stato abate dello stesso monastero, affinché possa vivere in modo decente, ma di non andare oltre il sostentamento. Tale bene serve anche per compensare l’abate Iacopo di un credito di duecento fiorini che aveva fornito al suo monastero per avere dovuto sostenere una lite.[158]

Dal catasto dei religiosi degli anni 1427-29 si può tentare una ricostruzione dei beni posseduti dal monastero in quel tempo: nel castello di Morrona possedeva tre case ed un frantoio, un’altra casa era situata nei confini di Soiana.[159]

Dei numerosi mulini dislocati lungo il corso delle acque dei fiumi Caldana e Cascina, di cui abbiamo già fatto cenno ma ne parleremo più ampiamente nel successivo capitolo, ne restavano uno nei confini di Morrona ed altri due presso Aqui, di cui uno era terragno e l’altro francesco, cioè il primo aveva la ruota piccola e più bisogno di acqua, il secondo aveva la ruota più grande, ma occorreva un corso d’acqua più lungo .[160]

Sei poderi posti nei confini di Morrona ed Aqui facevano ancora parte delle proprietà della badia Camaldolese, insieme a numerosi pezzi di terreni, di cui però non conosciamo l’estensione, erano terre campie, vignate, ulivate, fruttate, boscate, pratate e collinate; tra queste figura anche un canneto “sull’acqua del Bagno” , cioè ad Aqui.[161]

Gli affitti menzionati sono quattro che l’abate pro tempore riceveva ed erano sempre retribuiti in grano.

Da tutti questi beni, il monastero traeva una rendita annuale di settecentosettantuno fiorini, diciotto soldi e cinque denari. Ma tra le varie spese ed i debiti il cenobio doveva pagare millecinquecentonovantaquattro fiorini, otto soldi e cinque denari, superando di gran lunga le entrate: da questi dati appare chiaro lo stato di abbandono e di miseria in cui versava la badia, nonostante i beni posseduti fossero ancora considerevoli.[162]

Le spese che doveva sostenere servivano al salario di un monaco, di un fante e di un cuoco; al censo annuo che il monastero doveva pagare al generale dell’ordine, all’eremo di Camaldoli, al vescovo di Volterra ed alla decima papale. Altre spese erano per il mantenimento delle tre case rimaste, << …che stanno molto male e chagiono e sono cadute… >>.[163] Doveva, inoltre, provvedere al mantenimento di un “monachetto”, che accudiva a << …Domenico Orlando  che fu abate della detta badia, perché lo detto è molto vecchio gli fu chonceduto per lo generale dell’ordine per la sua vecchiezza fiorini venticinque l’anno per suo vivere e vestimenti… >>,[164] il quale abate doveva restituire all’abate di San Zeno  otto fiorini che aveva preso in prestito; un fiorino all’abate di San Michele di Pisa e tre fiorini a Meo da Certaldo << …per panno che levò al sopradetto domino… >>.[165] Un oncio d’olio comperato da prete Masino di Terricciola e mai pagato; cinque fiorini presi in prestito da Donato, monaco di San Frediano (Pisa); anche a Barsotto di Corso l’anziano abate doveva restituire cinque fiorini avuti in prestito e a Iacopo di Chele di Chianni doveva nove sacchi di grano, tre fiorini e sette soldi.

Per la festa di Santa Maria di settembre, doveva pagare quattro fiorini.

Il monastero era gravato da molti debiti da soddisfare << …a più e più persone lo quale lo nome non si mette perché sono in molte persone… >>.[166] Gli eredi di Gherardo Canigiani dovevano avere ventisette fiorini, quindi vedendo che il debito non veniva estinto aveva preso in pegno un possesso dei migliori, posto nei confini di Morrona. Dovevano, infine, essere dati quattro fiorini << …al Generale per suo mulo che si schorticò essendo lo detto Generale al Bagno… >>. Per la festa di Santa Maria di settembre, doveva pagare quattro fiorni.

<< …Monasterium porro (sic) de Morona tanquam Eremi Manuale pluries confertur et visitatur. Censumque salmae unius olei Eremo persolvisse constat anno 1329 ad 1483, quod ab Episcopo Vulterrano D. Francisco Soderino vi et armata manu fuit occupatum dum visitaret illud atque in eo abbatem praeficeret… >>.[167]

Risale all’8 di giugno del 1464 la vendita di una casa ad un certo Nanni per la somma di 24 fiorini.[168]

Dopo la caduta di Pisa in potere dei Fiorentini (1406), la documentazione concernente l’abbazia si fa sempre più lacunosa, anche perché ormai era lontano il tempo in cui il cenobio aveva grande potere e ampli privilegi. Le guerre combattute tra Pisani e Fiorentini avevano depauperato l’economia locale e devastato il contado sul cui territorio si era combattuta la guerra ed il monastero non trovò più l’appoggio della Chiesa di Pisa, tanto meno nell’episcopato volterrano, i cui rapporti erano sempre stati molto instabili, talvolta burrascosi, nonostante la badia spettasse a questa diocesi. Dal 1406, dunque, il cenobio divenne di dominio fiorentino.

Capitolo III.  I rapporti degli abati con il clero e con i laici

 La vita, all’interno del cenobio, era piuttosto movimentata e gli abati ricoprivano una carica estremamente impegnativa, che li teneva ogni giorno immersi in problemi amministrativi, politici e spirituali. Come un signore nel suo dominio dovevano esercitare i loro diritti e far rispettare i doveri, difendere la propria autonomia dall’ingerenza dell’arcivescovo pisano, ma soprattutto dal presule volterrano, i cui rapporti furono sempre burrascosi, per terminare, nel 1482, con la presa del monastero “manu armata” da parte del vescovo.

Ma che genere di rapporti ci furono tra gli abati e il clero e tra gli abati e il laicato? Manca, purtroppo, una documentazione omogenea, infatti abbiamo dei “vuoti” in vari periodi di tempo, ma quella di cui disponiamo ci dà un’idea abbastanza chiara di tali rapporti.

Un documento dettagliato, del 23 maggio 1162, ci informa su una sentenza che pose fine ad una lite sorta tra l’abate e i consoli di Aqui: Pellario e Gerardo di San Casciano, consoli di Pisa, su consiglio di Ildebrando Pagano, giudice ordinario e dei suoi assessori, furono incaricati di definire questa controversia causata dalle pretese che l’abate aveva verso i consoli, Comune e popolo di Aqui, << …que non sinebant eum quiete possidere Nigothanam… >>, le cui terre erano poste nel distretto del comune di Aqui, ma facevano parte di un beneficio goduto dall’abbazia.[169] Con una “cartula offertionis” del 25 marzo 1104 il monastero era venuto in possesso di tutti i terreni, vigne, colti e incolti appartenenti alla chiesa di San Cristoforo e San Lucia di Negoziana; il donatore, Ildebrando del fu Gerardo, comprese nella donazione anche tutte le offerte, decime ed oblazioni di questa chiesa, che << …ab omni parte circumsacrata est cum cimiterio… >>;[170] inoltre l’abate aveva la potestà di eleggerne il rettore.

Al cenobio, quindi, apparteneva ciò che era oggetto della disputa: i consoli sostenevano il diritto di ogni castello di “campare et custodire” nel proprio distretto, pur riconoscendo la proprietà di queste terre al monastero, inoltre affermavano che per più di trenta anni il popolo di Aqui << …semper Nigothana campaverant et custodierant… >>.[171] L’abate, dal canto suo, dichiarava che il terreno in questione era sempre stato ritenuto libero e lavorato dai suoi “campari” senza alcuna contraddizione degli Aquisiani e del Comune; esigeva, inoltre, che gli fosse restituito un pezzo di terra di sedici staiora e mezzo che apparteneva alla sua chiesa: << …Plebanenses vero dicebant se per quadraginta annos et plus sine interruptionem prefatum terre petium per se tenuisse… >>.[172]

La disputa continua a lungo restando ferme le parti sulle loro dichiarazioni, infine la causa << …diu ante nos ventilata… >>,[173] fu studiata in tutti i suoi particolari, ma essendo i giudici rimasti molto dubbiosi, emisero la seguente sentenza: << …illi de Aqui pro curia et eius districtu mittant camparios in Negothana et custodiant. Abbas vero aut Morrona nullum camparium ibi ponat, aut per suos camparios custodiri faciat. Campaticum tamen abbas aut Morrona neque de bestiis, neque de aliis rebus tribuat. De hominibus de Nigithana abbatem absolvimus. Pantanum vero illi de Aqui scilicet plebanenses habeant et teneant sine molestia… >>.[174]

In questi anni, in Valdera, si ebbero alcune sollevazioni contro i Pisani: i cattani della zona si erano riuniti nel castello di Peccioli ed erano riusciti a mettere insieme tremila fanti e quattrocento cavalli, ma quando l’esercito pisano invase la Valdera (1163), dopo un breve assedio fu incendiato il castello di Pava, di conseguenza tutte le rocche di questa zona fino a Volterra si arresero, pagando imposizioni e dando ostaggi. Nonostante che il vescovo volterrano avesse ottenuta la giurisdizione politica di questi luoghi nel 1186 da Enrico VI, i Pisani continuarono a dominare su questi castelli, in quanto lo stesso imperatore con un diploma del 30 maggio 1193 aveva assicurato loro il dominio di queste corti. Il vescovo di Volterra reclamò presso il papa, il quale minacciò di interdetto i Pisani, affinché restituissero i castelli al prelato, ma avvalendosi del diploma imperiale continuarono il loro dominio e nel 1202 una delegazione pontificia scomunicò il potestà di Pisa, i suoi anziani e tutto il popolo.

Nonostante le pretese e l’intromettersi della Chiesa pisana, il monastero di Morrona rimase sempre sotto la giurisdizione vescovile di Volterra, anche se in alcuni documenti viene detto “in episcopatu pisano”. Questo equivoco può essere nato al tempo della duplice (fino al 1132) carica del vescovo Ruggero (arcivescovo di Pisa dal 1124) e continuato anche dopo la sua morte fino all’inizio della seconda metà del secolo XIII, tanto più che nei documenti non viene nominato l’arcivescovo o il vescovo pro tempore.[175] Ma i rapporti degli abati, che perseguirono nella loro politica filo-pisana e i vescovi volterrani furono, come già detto, sempre molto discutibili, specialmente durante il corso del secolo XIII, in cui gli abati aumentarono la loro potenza, appoggiati in questo dalla Santa Sede Apostolica, i cui papi emanarono varie bolle a favore dell’ordine Camaldolese e tra gli altri monasteri figurava sempre citato anche quello di Morrona.

E’ datato 25 giugno 1200 l’atto con cui Ubaldo, arcivescovo di Pisa e primate di Sardegna, concede a Martino priore camaldolese, ricevente per il cenobio di Morrona, e ai suoi successori la facoltà perpetua di potere eleggere ed istituire in perpetuo un sacerdote nella cappella di Montanino << …sine mea meorum successorum vel cuiuslibet alius contradictione cum popoli tantum predicte cappelle conscientia… >>.[176] E se il popolo non avesse voluto acconsentire all’elezione << …electus vero sacerdos et instituto debitas et consuetas reverentias predicto monasterio exhibeat… >>.[177] Il sacerdote, però, non poteva assolutamente essere un monaco.

E’ verso la fine del secolo XI che i monaci iniziarono ad avocare a sé il diritto di adempiere alla cura delle anime, ritenendo di possedere tutte quelle qualità indispensabili per tale ufficio: povertà, castità, vita comune. Il problema delle chiese ubicate presso i monasteri fu discusso al sinodo di Clermont del 1095, in cui venne decretato che il governo spirituale non fosse tenuto da monaci, ma da un prete eletto dal vescovo col consiglio dei monaci. Il sinodo di Poitiers del 1100 stabilì che il clero regolare potesse, su ordine del vescovo, predicare, battezzare, dare la penitenza e seppellire i morti, ma ribadiva che nessun monaco poteva attribuirsi il compito di esercitare le suddette attività.[178]

Molti anni dopo, troviamo, in un atto dell’8 settembre 1293, prete Iacopo del fu Corso di Quarrata, rettore della sopraddetta chiesa che offre per censo una candela di cera da una libbra all’abate del monastero di Morrona Alberto (pisano) nel giorno della festa della Vergine Maria , dimostrazione della dipendenza della pieve dal cenobio.[179]

Il 27 settembre 1212 viene stipulata una transazione tra l’abate Viviano e prete Orlando, cappellano della chiesa dei Santi Bartolomeo e Niccolò di Morrona, il primo, a nome dell’abbazia, promette di non esigere più la decima che << …recoligebat ab omni hominibus de Morrona vel aliquis capellanus suprascripte ecclesie recolligebat pro suprascripta ecclesia de Morrona vel pro suprascrpta abbathia in confinibus Morrone vel extra confines et ubicumque homines de Morrona laboraverin… >>.[180] Venne, inoltre, stabilito che prete Orlando e i suoi successori non avrebbero dovuto dare, oltre la decima che solevano pagare, << …de ovis, et lino et candela pro facto decime que solebant dari suprascrpte abbathie… >>.[181] L’abate, che si era intromesso d’autorità nella pieve e nella rettoria dei SS. Bartolomeo e Niccolò, rinunciò dunque alle decime, ma prete Orlando dovette promettere (per sé e per i suoi successori) di dare al monastero, ogni anno per la festa di san Michele in settembre e per la festa dei Santi, in luogo della decima << …unum modium grani de quarris viginti quatuor et unum modium inter ordeum et mileum et quarras duodecim spelde… >>.[182] In più promise di dare, entro suddetti termini, soldi quaranta di denari pisani, che era solito dare anche agli antecessori dell’abate Viviano.

Se i rapporti tra gli abati del monastero e gli arcivescovi pisani furono piuttosto frequenti e pacifici, quelli con i vescovi di Volterra non lo furono altrettanto,  basta citare tre documenti per capire i rapporti che intercorrevano. Il 21 ottobre 1214, il vescovo di Firenze cerca di “appianare” delle divergenze tra l’abate e l’episcopato di Volterra, quindi proferisce un lodo circa la causa che verteva tra prete Paolo, procuratore del vescovo volterrano da una parte e l’abate Viviano e prete Orlando dall’altra, circa l’obbedienza e riverenza che il vescovo pretendeva dal cappellano. La causa, col consenso delle parti, era stata affidata all’arbitrio del vescovo di Firenze, il quale decide: <<…ut predictus capellanus de Morrona seu plebanus qui nunc est vel pro tempore fuit faciat obedientiam episcopo vulterrano pro populo et abbas de Morrona singulis anni in festo Assumptionis Beate Marie virginis det vel dari faciat iam dicto domino episcopo vulterrano vel suo certo nuntio nomine census pro capella et blebe XV solidi denari vulterrani… >>.[183] Decide, inoltre, che tanto l’abate che il cappellano non possano imporre pubbliche penitenze << …scilicet criminalium peccatorum, nec causas matrimoniales audiant… >>.[184] E il cappellano “vocato ab episcopo” sia tenuto ad andare al Sinodo come gli altri chierici del vescovato.

Il presule fiorentino giudica anche che il vescovo volterrano, nonostante l’obbedienza che gli deve il cappellano, non possa comandargli nessuna cosa che sia contraria al monastero e all’abate o contro la loro libertà, << …nec alias exactione occasionem albergerie episcopus exigat a plebaum vel capellanum vel a plebe seu a capella per se vel per alium de monasterio nihil decimus quia credimus ipsum esse exentur ab anni prestationem et quia presbiter Paulus procurator nihil contra monasterium dicit… >>.[185] Le decisioni del vescovo di Firenze evidentemente non soddisfecero quello di Volterra, infatti il 15 agosto 1219, l’abate Viviano incarica Arrigo fu Ugolinello, suo castaldo, di offrire al procuratore di Pagano quindici soldi volterrani il giorno della festa dell’Assunta nella chiesa di Santa Maria in Volterra, come dal lodo del 21 ottobre 1214. Ma il denaro non fu accettato, quindi << …Arrigus nollet dictum et abbatem in penam incidere et gravamen inde habente dictus Arrigus deposuit dictos denarios sigillatos super altare beate Marie qua est in dicta ecclesia eodem suprascripto die… >>.[186]

L’anno successivo, il 15 agosto 1220, Gerardo fu Mulinari, nunzio dell’abate, è costretto a far rogare un atto in cui si attesta che il denaro è stato depositato sull’altare della chiesa di Volterra dal suddetto Gerardo, perché anche questa volta la somma, consistente in 15 soldi di denaro volterrano, viene rifiutata dal vescovo.[187] Una transazione dell’11 febbraio 1221 sembra mettere fine a queste controversie: prete Giovanni, procuratore del vescovo di Volterra a suo nome, rinuncia ad ogni diritto sulla pieve e sulla chiesa di San Nicola di Morrona, alienando tali diritti a Guido priore di Camaldoli, ricevente per l’eremo e il monastero di Morrona.[188] Anche nel secolo seguente troviamo vari rogiti, in cui l’abate di Morrona corrisponde al presule volterrano un censo annuo di quindici soldi di denaro volterrano per la rettoria dei Santi Bartolomeo e Niccolà di Morrona.

Ma i rapporti che intercorrevano tra i vescovi e gli abati non migliorarono con il tempo, infatti dopo molti anni, nel mese di gennaio 1284, l’arcivescovo di Pisa cerca di fare da arbitro nella secolare controversia dell’ius patronato della pieve e cappella di Morrona tra il vescovo di Volterra e l’abate Gerardo. Il presule volterrano si arroga tale diritto in quanto le due chiese si trovano nella sua diocesi ed episcopato; l’abate afferma che il patronato spetta al monastero, come da tempo immemorabile. L’arcivescovo pisano << …nil aliud possit facere quam contineatur in arbitro supradicto non possum absolutum dare responsum… >>,[189] sia perché esiste il compromesso del vescovo di Firenze del 1214, sia per la bolla di Alessandro IV del 1258, con la quale viene confermato a tutto l’ordine Camaldolese il patrocinio accordato dalla Santa Sede, evidenziando che tutti i monasteri erano uniti come un sol corpo al Sacro Eremo . Il presule pisano stabilisce che << …videtur questio de procurationem, rationem, visitationis qua si exempta est plebes vel cappella non debet visitari et procuratio non debet in rationem visitationis iustitia tam quam in privilegiis reservatur episcopum defraudari non debet… >>.[190] Circa un secolo più tardi, l’8 agosto 1345, quando era abate del monastero Silvestro di Anghiari, l’elezione del pievano di San Bartolomeo e San Niccolò avviene << …ex antiqua consuetudine electio et reformatio dicte ecclesie rectoris nolens quod dicta ecclesia in temporalibus nec spiritualibus substineat per vocationem diutinam? Lesionem inquisirit et requisirit… >>.[191] Sono presenti Coli di Corniano e Cinni Ganucci, consoli del comune di Morrona, i quali concordano per eleggere Niccolò di ser Iacopo di Morrona, già pievano di San Giovanni di Ginestrella. << … dicto presbitero Niccholao de suo ore proprio et suis manibus presentavit rogans eundem ut dictam eletionem debeat acceptare qui presbiter Niccholaus electus et presentatus respondit quod super hiis deliberare volebat et maturim cogitare et de predictis respondebit prout dominus instigabit… >>.[192] Segue l’elezione del pievano << …et nichilominus edictum ad hostium suprascripte ecclesie apponat et effigat et dimittat ita quod eiusdem edicti volentibus possit haberi copia. […] Et capiens? Eum per manum mittens eum in dictam ecclesiam et eius corporalem possessionem mittendo in manus eius hostia ecclesie et claves domorum et funes campanarum et libros et pannos altaris ecclesie suprascripte offerendo eum ante altare cantando solemniter Te Deum laudamus… >>.[193]

I mulini appartenenti al monastero e posti sui fiumi Caldana e Cascina dettero ingenti guadagni ma anche molti problemi agli abati sia nel secolo XIII che in quello successivo: il 3 febbraio 1223, Martino, allora abate della badia, col consenso di Guido priore di Camaldoli da una parte e Upezzino fu Ugolino con Guerriero fu Upezzino dall’altra affidano la loro controversia all’arbitrato di Martino, abate dell’abbazia di San Giusto di Volterra e a Bonaccorso notaio. La lite era sorta a causa del possesso di un mulino, al momento distrutto, posto in luogo detto Pantano, vicino al fiume Cascina nei confini di Soiana e di un acquedotto appartenente al mulino e posto nello stesso luogo. Venne stabilita la pena di 100 libbre di denari pisani nuovi per chi non avesse osservato ciò che sarebbe stato stipulato con la deliberazione. L’abate di Morrona, in presenza di tali arbitri, chiede a Guerriero l’ottava parte e a Upezzino la settima dei beni suddetti, in quanto abitati e detenuti per quarant’anni e appartenenti al monastero da tempo immemorabile; chiede, inoltre, le spese legali e venti libbre di denaro pisano nuovo per spese extra. I due rispondono e negano che tutto ciò appartenga alla badia, ma che sia di loro proprietà, poiché furono comprati da Seragone e Guidone fratelli e figli del fu Molinari di Vico, con rogito fatto da Bonaccorso notaio e per mezzo di un’altra compera fatta da Bonaccorso fu Orlandino ricevente per Berta sua moglie, con rogito del notaio Bartalochi fu Grillo, e per donazione della quarta parte fatta da Molinari con rogito di Bertolochi notaio. La lite continua restando ferme le due parti. L’abate insiste per fare annullare i suddetti contratti e riportare le cose allo stato primitivo. Dopo avere analizzato i vari documenti a loro disposizione i guidici deliberano << …per laudum sive laudamentum et amicabilem compositionem ita diffiniorem laudarem et pronuntiaverent que dictum molendinum et locum in quo dictum molendinum conservit esse et aqueductum eius gora eius et ruptarium et aquatarium que et que olim fuere suprascripti molendini vel ad eum pertinere aliquo modo… >>.[194]

Da una vendita del 1228, veniamo a conoscenza che Martino abate di Morrona vende, col consenso dei suoi monaci e per utilità del monastero, un mulino posto in luogo detto Pantano nei confini di Cevoli, a Upertino fu Ugolino e per la valutazione dell’immobile sono chiamati prete Giovanni rettore della chiesa di Morrona e Uberto fu Ventura, non leggibile la stima, pena cento libbre.[195] Quindi, cinque anni dopo la lite il mulino torna ad Upertino o Upezzino, ma l’anno successivo 1229 (AVV, sec  XIII, dec. III, n. XXVII) lo stesso Upezzino vende a Martino abate il mulino sopraddetto per cento libbre di denaro pisano, pena il doppio, << …cum macinis et aquiductis et cum omnibus suis pertinentiis et omnia iura… >>.[196] La sorte del mulino sembra non essere ancora definita: nel 1239, lo stesso Upertino lo vende di nuovo al monastero di Morrona, rappresentato dall’abate Simone, sempre con ogni sua appartenenza  e terreno circostante.[197]Alla fine il mulino viene dato in locazione dall’abate Simone a Boninsegna fu Brinichi.[198]

Il 15 dicembre 1230, in seguito ad un reclamo fatto da Uguccione, sindaco e procuratore del monastero contro Gerardo fu Ianuensis di Morrona, il cenobio ottiene la restituzione della metà “pro indiviso” di otto pezzi di terra posti nella zona circonvicina all’abbazia e quattro libbre di denari per le spese sostenute. I giudici, Rosselmino Malabarba e Uguccio fu Pandolfi Alberti, essendo Gerardo contumace non emettono una vera e propria sentenza, ma stabiliscono che entro l’anno Gerardo si presenti davanti ai giudici, altrimenti il monastero entrerà in possesso di tutti i suoi beni e dovrà anche pagare quaranta soldi per le spese.[199]

E’ del 9 novembre 1231 una transazione, in cui Tedisco fu Venaccio di Morrona mette fine alla lite vertente tra lui e Uguccione, sindaco del monastero a causa di un pezzo di terra campia posto nei confini di Aqui nel piano del fiume Cascina vicino al bosco della badia, rinunciando ad “omni iure et actionem” su questo terreno, pena il doppio della stima per sé e per i suoi eredi; Uguccione offre la remissione dei peccati.[200] L’anno successivo, il 20 di maggio, lo stesso Uguccione presentava ai consoli di Soiana, Ugo e Magliavacca, delle lettere scritte da Tedicio, capitano della Valle d’Era, affinché i pastori e gli animali del monastero potessero continuare a pascolare nei confini di Soiana come era sempre stata consuetudine (sotto giuramento), con pena di cento soldi per chiunque avesse trasgredito entro tre giorni, altrimenti avrebbe preso provvedimenti entro sei giorni, in quanto a lui spettava tale ufficio.[201]

Il 27 maggio 1232 il priore della chiesa di San Paolo a Orto, delegato del papa, è arbitro nella controversia sorta tra Paccino fu Durazzo di Morrona fatto citare da prete Giovanni, cappellano della chiesa e l’abate Martino, il quale ultimo chiede la restituzione di un pezzo di terra con vigne ed alberi e ogni competenza, posto nei confini di Morrona in luogo detto Valle con altri terreni; il priore acconsente alla restituzione, Paccino è contumace.[202]

Il 19 luglio 1236, Pagano vescovo di Volterra e Michele abate di Morrona nominano arbitro dello loro controversie Benedetto, abate d’Elmi e rettore della chiesa di San Martino. L’abate pretendeva che la pieve e la cappella di Morrona appartenessero “in spiritualibus” e “in temporalibus” al monastero in piena proprietà e che fossero completamente libere dalla giurisdizione vescovile, inoltre l’abate voleva pagare al vescovo per la pieve e la cappella solo quindici soldi di moneta volterrana. I loro rettori dovessero prestargli obbedienza e partecipassero al Sinodo come stabilito dall’arbitrato del 1214. Il presule volterrano accorda alcuni privilegi << …super decimis, mortuariis et aliis rebus… >> e concesse a prete Enrico, << …quo se gerit pro plebano plebis Sancte Marie seu Sancti Iohannis de Morrona… >> ad eccezione di quanto stabilito nel documento del 1214.[203] Questa carta ci fa capire quanta stabilità avessero tali contratti, accomodamenti, lodi, compromessi, basta confrontare questo rogito con quelli relativi al 21 ottobre 1214 e 11 febbraio 1221 e capire la precarietà di ciò che veniva stabilito, frutto, senza dubbio, di accordi presi tra i contraenti a favore delle loro convenienze.

Dopo pochi mesi, il 10 dicembre 1236, il priore camaldolese presentò all’arcidiacono fiorentino Mugnaro le lettere apostoliche chieste contro prete Enrico del Collemontanino, poiché il priore pretendeva che l’istituzione della pieve di Morrona appartenesse a se stesso e sostiene che don Enrico si sia intromesso “in suum preiudicium et gravamum” in essa. Prete Enrico si difende dicendo che quel rescritto apostolico era surrettizio, perché era stato omesso di dire che la detta pieve era nella diocesi di Volterra ed era stata dotata di diversi privilegi dal vescovo di quella diocesi e che era stato taciuto anche che il vescovo di Volterra si trovava in possesso o quasi di eleggere il pievano di essa << …et in eo qued existit tacitum qualiter episcopus vulterranus est in possessione vel quasi iuris eligendi plebanum in ipsa … >>.[204] Prete Enrico sostenne anche che il detto decreto fosse arbitrario per essere stato ipotizzato che si fosse intruso nella chiesa, quando invece era stato istituito dal vescovo di Volterra. L’arcivescovo fiorentino così si pronunciò: << …nullam eorum tanquam dilatoriam admittendam esse, nec aliquam ex ipsis admitto, presertim cum earum quedam pertineant ad negotio principale… >>.[205]

Le controversie tra l’abate del monastero e prete Enrico continuarono, ma nel frattempo fu rogato un atto dal notaio Pellegrino il 16 aprile 1237, in cui quattordici uomini di Morrona giurarono fedeltà all’abate e ai suoi successori.[206]

Il 27 aprile 1237, ancora una disputa tra l’abate Martino e il vescovo di Volterra Pagano è causata dalla nomina del vescovo diretta a Enrico come pievano della chiesa di Collemontanino nella diocesi di Pisa. L’abate e il prete Enrico nominarono arbitri di tale controversia Martino, abate di San Michele in Borgo di Pisa, Giovanni pievano di Pava, Scotto fu Bernardo del Collemontanino e Bonaguida fu Ardizzone, ma, il 13 maggio dello stesso anno, troviamo come arbitri solo Martino e Scotto.[207] Finalmente nella sentenza emessa il 9 agosto, essendo contumace prete Enrico, i due giudici riconobbero le ragioni dell’abate, al quale il pievano doveva restituire la pieve e i suoi beni, la sua nomina ed istituzione furono dichiarate nulle.[208]

Il 15 ottobre 1241, Guido, priore di Camaldoli, delega Michele monaco dell’Eremo, di precedere all’elezione dell’abate di Morrona in sostituzione di Simone deceduto il 4 ottobre. L’incaricato del priore, dinanzi a Guido e Bruno, monaci della badia di Morrona e Spinello, Morronese, Bernardo, Martino conversi, dichiara che l’elezione dell’abate da tempo immemorabile spettava pleno iure al priore di Camaldoli, quindi elegge il nuovo abate nella persona di Benedetto, già camerario di Camaldoli, (segue un’ampia spiegazione della cerimonia). Il giorno successivo, sempre davanti ai testimoni, stabilisce che per ciò che si riferisce ai beni mobili ed immobili appartenenti al cenobio, << …ut de cetera non vendat vel alienat seu in feudum novum et iure feudi novi det alicui mundi persone vel personis de possessionibus et rebus immobilibus dicti monasterii… >> senza il consenso del priore di Camaldoli e del capitolo dello stesso cenobio, pena la scomunica.[209]

Un documento del 31 marzo 1250, ci fa capire che l’abate doveva contrastare anche con prete Enrico, pievano della pieve di Morrona, il quale attribuisce a sé e ai suoi successori il diritto di scegliere il cappellano della chiesa dei santi Bartolomeo e Niccolò dello stesso luogo, inoltre rivendica il potere di investire i cappellani sulle cose spirituali e temporali. Il notaio Bonaccorso fu Spinelli di Morrona, sindaco del monastero mise fine a questa disputa e prete Enrico, che inizialmente insiste nel dire  che l’abate e gli altri uomini presenti avevano torto, dovette rinunciare alle suddette pretese, pena duecento libbre di denari pisani.[210]

In uno dei soliti privilegi pontifici a favore dei Camaldolesi emanato da Innocenzo IV il 29 novembre 1252 si trova menzionata anche la badia di Morrona., cui seguono due bolle pontificie relative al 5 e 28 aprile 1255, indirizzate all’abate del monastero di Morrona in favore del patronato sulla chiesa di Montanino, nonostante la cessione di Scotto del fu Bernardo e del figlio Gregorio del 1242, papa Alessandro IV dovette intervenire contro il rettore della pieve di Aqui, il quale aveva istituito il rettore della pieve di montanino, andando contro la << …antiqua et approbata et hactenus pacifice observata consuetudine… >>, che ne attestava il diritto al monastero.[211]

Il giorno della festa dell’Assunta, cioè il 15 agosto 1255, Michele, abate di Morrona, dà a Domenico, monaco del monastero di San Giusto di Volterra, rappresentante Ranieri vescovo di questa città, quindici denari pisani d’argento, per soddisfare l’arbitrato e il provvedimento già stabilito da Giovanni vescovo di Firenze per la pieve e la cappella di Morrona, di cui il monastero detiene l’ius patronato ed ogni pertinenza.[212] Il documento è rogato da Filippo fu Baroni notaio e si riferisce ancora a quel lodo emesso dal vescovo di Firenze nel 1214, con cui il presule stabilì che l’abate di Morrona pagasse di censo quindici soldi di denari volterrani, censo che poi fu rifiutato dal vescovo di Volterra nel 1219. Lo stesso notaio stipula un’inibitoria, l’8 settembre 1255, che Michele abate, fa al prete Danesi, rettore della cappella di San Nicolò di Morrona, affinché non paghi nessuna colletta al vescovo di Volterra e che non presti nessun servizio segreto o manifesto al presule in pregiudizio dei diritti del monastero e qualora questi imponesse qualche elemosina, non agire senza il consenso dell’abate. Dopo un anno esatto, l’abate Michele viene trasferito da Morrona al monastero di San Zeno di Pisa; Mainetto, abate di San Michele d Pisa e delegato dal priore di Camaldoli lo elegge abate del suddetto monastero << …ac induxit in corporalem possessionem predicto monasterio tangendo muros dicte ecclesie cum ingredi non possent dicta ecclesia et sic tangendo portam clausam dicti monasteri non valentibus ingredi ipsum claustrum eodemque die dictus Michael promisit obediantia iuxta regulam… >>.[213]

Il 13 ottobre 1257, il monastero di Santa Maria e San Benedetto di Morrona riceve la visita e la riforma fatta da Ranieri, eremita camaldolese, visitatore e vicario di Martino priore di Camaldoli. In primo luogo fu interrogato l’abate Michele, davanti al notaio Orlando di Bonaccorso di Morrona, relativamente alle cose temporali e spirituali. Dopo avere descritto minuziosamente questi due argomenti, si procede alla stesura del rogito, redatto dal suddetto notaio.[214] Non differisce molto l’altra visita reperita, risalente all’8 agosto 1345, in cui Iacopo, abate del monastero di San Pietro in Pozzuoli e Bartolomeo, priore di Santa Maria in Valle Perugina, nominati visitatori dell’Ordine dal priore di Camaldoli Giovanni, visitano il monastero di San Giusto di Volterra e poi quello di Morrona. Dall’ispezione tutto risulta nella norma. L’atto fu rogato nel capitolo del monastero da Antonio di Bonaguida di Morrona alla presenza di Francesco di ser Nello di Arezzo e Blasio fu Vanni di Città di Castello testi.[215]

Il 22 luglio 1260, Iacopo, arciprete e vicario del vescovo di Volterra e i monaci del monastero di San Giusto dello stesso luogo, eleggono abate del medesimo cenobio Michele, già abate di Morrona. La confermazione di tale elezione avviene il 31 luglio << …Idem domino Michael abbas S. Iusti putuit humiliter confirmationem a domino Martino abbate de Cerreto vicario seu delegato domini Iacobi prioris camaldulensis super dicta electione facienda, quam obtinuit cum administratione promisiti que manualem obedientiam… >>.[216] Dopo pochi mesi, il 28 maggio 1261, Bartolo, vicario generale di tutto l’Ordine Camaldolese, fu incaricato da Iacopo, priore dell’Eremo << …prehabita renunciatione in suis manibus facta per domino Michaelem, qui segerebat pro abbate S. Iusti de Vulterris, eo quia in preiudicium provilegior ordinis receperat confirmationem a vicario domini electi vulterrani, eidem domino Michaeli confirmationem contulit in..o potius elegit… >>.[217]

E’del 20 febbraio 1275 una transazione tra Gerardo, abate del cenobio di Morrona e alcuni uomini del comune del Bagno a Aqui, avente ad oggetto la definizione di una vertenza relativa alla manomissione del bagno, pena cento marchi d’argento.[218]

Il 28 agosto 1278, Tarlato di Arezzo, potestà di Pisa, il capitano Rinaldo da Riva e gli Anziani del popolo di Pisa avendo appreso che, a danno del Comune di Pisa e del Monastero di Morrona, da parte di alcuni, erano stati fatti dei nuovi lavori nel Bagno ad Aqui e nel suo acquedotto, lavori che avevano danneggiato gravemente le immunità del cenobio. Quindi le persone menzionate scrivono ai consoli, ai sindaci, al Consiglio e al Comune di Aqui perché si conservino illesi i diritti del Comune di Pisa e del monastero e dispongono di far togliere tutte quelle novità e le fosse che erano state fatte nel Bagno e nell’acquedotto, dove erano i mulini della badia, fino al fiume Cascina, che tutto fosse rimesso allo stato primitivo e che in futuro non fossero fatti lavori che potessero portare danno sia al Comune di Pisa che al monastero di Morrona. Ma i consoli di Aqui fecero, probabilmente, orecchie da mercante, infatti segue un altro documento in cui vengono rinnovate le stesse disposizioni. Dalla testimonianza di vari testimoni si rileva che le novità consistevano in alcune deviazioni di vari corsi di acqua, lasciando i mulini della badia senza acqua, quindi non erano in grado di macinare, perché l’acqua riprendeva il consueto corso sotto i mulini.[219] Il 25 settembre 1278, il Comune di Pisa, in persona del notaio Leopardo, affermò che non avendo il vescovo di Volterra alcuna giurisdizione sul medesimo Comune, non aveva la facoltà di dare ordini circa la controversia tra il monastero di Morrona e il pievano di Aqui, come invece aveva fatto con sua lettera al podestà, agli anziani, al capitano e al consiglio di Pisa.[220] Su questa controversia viene trovato un accordo il 29 ottobre 1278, quando Jacopo eremita camaldolese, visconte e procuratore dell’Eremo e priore di Camaldoli e Gerardo abate del monastero da una parte e Feo pievano della chiesa di Aqui dall’altra, il quale era responsabile della deviazione delle acque e che da tempo cercava di dare fastidio al monastero circa l’uso dell’acqua per i mulini, quindi in nome di detta chiesa, promette di rilasciare in futuro sempre libero il corso delle acque per i detti mulini e di rinunciare a qualsiasi privilegio e diritto che aveva sopra i medesimi. Per questa promessa e rinuncia il pievano riceve un pezzo di terra posto in luogo detto Pantano, col patto di aggregarlo ai beni della sua pieve e di non alienarlo mai sotto qualsiasi titolo.[221]

Il giorno della festa principale del monastero, e della pieve di Morrona (8 settembre 1293), prete Iacopo fu Corso di Quarrata, rettore della chiesa di Montanino, offre ad Alberto pisano, abate del monastero, per censo un cero di una libbra.

Il primo gennaio 1297, con un rogito viene annullato << …revocavit, cassavit et irritavit et nullius valoris esse voluit ipsum perpetuo per hoc presens instrumentum annullanza… >> un atto in cui Ugo Guitti, giudice e cittadino pisano, dà al monastero di Santa Maria sei staia di grano l’anno << …iure perpetuo in fedum contra iura et statuta Camaldulensis ordinis sine consensu licentia et auctoritate prioris camaldulensis sub cuis iurisditione est dictum monasterium… >>.[222] Ciò era stato stabilito da Gerardo “olim” abate del monastero senza il consenso del priore dell’Eremo.

L’abate pro tempore di Santa Maria di Morrona e i suoi predecessori avevano concesso ad alcuni laici e chierici a vita o a censo annuo, decime, terre e altri beni, ledendo però i diritti del monastero, quindi papa Bonifacio VIII essendo venuto a conoscenza di tale situazione, con suo breve del 17 aprile 1300, incaricò, come accennato precedentemente, il pievano della pieve di Chianni di rivendicare per il cenobio tutti quei beni che erano stati alienati illegittimamente.[223] Cinque anni dopo, il 6 agosto 1305, troviamo che Duccio fu Corrado di Morrona, di sua spontanea volontà, dichiara a Leopardo di Orlando, notaio dello stesso luogo e sindaco e procuratore del monastero, che vari pezzi di terre, posti nei confini di Morrona, sono di proprietà dell’abbazia con tutte le loro appartenenze. Duccio confessa che queste terre sono da lui lavorate e avute in affitto e censo, quindi restituisce l’affitto, il censo e il reddito. Molti dei toponimi di queste terre sono rimasti invariati, ciò rende possibile la loro ubicazione.[224]

Venuto a mancare prete Neri rettore della chiesa dei SS.  Bartolomeo e Nicolò, il 27 aprile 1311 fu eletto “Folle dicte Folluccie clerico quondam Berti”. L’elezione fu fatta nel coro della chiesa del monastero dall’abate Bartolo, “pro una voce tantum ex causa iuris patronatus” e da Nuccio fu Cioni e Vanni fu Pucci Fabbri, consoli del comune di Morrona “alia voce tantum”.[225]

E’ del 2 o del 5 gennaio 1312 un’istanza fatta al potestà di Pisa Federico di Montefeltro, capitano generale del Comune e del popolo pisano, in cui si dice che per molti privilegi e concessioni papali e donazioni fatte al cenobio di Morrona, tra le quali anche quella del Bagno ad Aqui e dell’Acqedotto dello stesso Bagno fino al fiume Cascina. Viene rievocato ciò che era accaduto molti anni prima, cioè la deviazione delle acque fatta da Feo, pievano della pieve di Aqui. Da questo documento veniamo a conoscenza che il monastero possedeva lungo l’acquedotto cinque mulini tuttora attivi e che nessuna persona ha potuto in passato, né può costruire al presente ed in futuro alcun mulino nel detto acquedotto. Ciò viene specifcato perché l’anno precedente la Repubblica di Pisa, mentre era potestà Federico di Montefeltro, aveva fatto restaurare vari bagni delle terme di sua appartenenza, tra questi figura anche quello di Aqui, era stato fatto un nuovo condotto per lo scarico delle acque delle terme, ma tutto questo fu fatto con criterio di non danneggiare nessuno.[226]Temendo che i mulini del monastero venissero danneggiati o addirittura che fossero costruiti nuovi mulini, l’abate ricorre al potestà e fa istanza perché fosse provveduto a far  rinnovare e rispettare ciò che era stato stabilito anni prima, che senza l’espressa volontà dell’abate fosse vietato costruire nuovi mulini sopra il nuovo canale.[227] Subito dopo, nei primi mesi del 1313 un documento attesta una convenzione fatta da Donzeno, sindaco e procuratore del monastero, a Ugolino fu Corso e Ferrante, per la quale si dava ordine di riordinare, murare, tagliare siepi ed ogni altra cosa che poteva nuocere ai mulini posti nel canale che da Aqui andava fino al fiume Cascina.[228] Se molti anni prima era stato chiuso il nuovo canale come per volontà dell’abate del monastero, ora il nuovo acquedotto viene lasciato per utilità delle Terme. Gli abati erano molto potenti e accaniti difensori dei loro beni, per cui questa istanza fu fatta con molto impegno dall’abate, tanto che la descrizione dei fatti passati e presenti sembra molto forzata ed esagerata. Certamente il nuovo canale fatto fare dal Montefeltro aveva un’altra direzione e, come il vecchio, andava a scaricare le acque prima nel Caldana e poi nel Cascina e questo poteva dare luogo all’edificazione di altri mulini. La “gelosia” degli abati per i mulini e per il canale è evidente anche quando “Vanne Domini Guidonis de Vade”, cittadino pisano, vuole edificare un mulino Sul fiume Caldana nei pressi del Bagno di Aqui, nell’anno 1325 (4 giugno); la reazione dell’abate e dei monaci la possiamo immaginare: divieto assoluto di fabbricazione, perché per i monaci tale acquedotto apparteneva all’abbazia da tempo immemorabile.[229] Non arrivando a nessuna conclusione ed accordo, nell’agosto dell’anno successivo, troviamo che era stato proposto che l’abate vendesse a Vanni un pezzo di terra presso un altro già di sua proprietà e dell’acquedotto di Caldana. L’abate scrive una lettera a Bonaventura, priore di Camaldoli ed ottiene di vendere il pezzo di terra per un prezzo conveniente a Vanni, col vincolo, però, di non potere edificare il mulino.[230] Ma un rogito del 24 luglio 1325, ci informa che Bartolo, abate del monastero morronese, col consenso dei suoi monaci e di Antonio da Verghereto, riuniti nel capitolo del cenobio di Morrona, << …fecit, constituit atque ordinavit suum et dicti monasterii procuratorem et nuntium spiritualem presbiterum Michaelem quondam Pardi de Corniano, rectorem Sancti Bartholi de Morrona, presentem et suscipientem in omnibus et singulis casis litibus et questionibus… >>, la lite era originata << …per iactum trium lapillorum et alium modum quemqumque dicto sindico et procuratur videbitur omnibus et singulis construentibus vel edificantibus aut construere vel edificare volentibus aliquid edificium super aqua seu cursu aut aqueductu aut alveo aque Caldane Balnei de Aquis a dicto Balneo usque in flumine Cascine vel in alio quocumque loco dicti monasteri aut dicto monasterio pertinente… >>.[231] L’abate dà l’incarico al procuratore di far valere i diritti del monastero.

Il 28 marzo 1303, Ugo Guicci, giudice e avvocato della chiesa di Santa Maria di Morrona, davanti a Guidone notaio e teste, << …liberavit et absolvit fratrem Nicoluccium, monacum et sindicum suprascripte ecclesie et monasterii Sancte Marie, […] domino Ugoni dare et solvere tenetur et debet per suo salario et mercede usque ad festum Sancte Marie de augusto… >>, davanti a Guidone notaio e testimone, Niccolò <<    …dedit et solvit suprascripto domino Ugoni… >> libbre nove e dodici soldi di denaro pisano. Ugone promette di dare nella stessa festa sei staia di grano. [232]

Un rogito datato 26 luglio1317, mette fine ad una contestazione tra Iacopo, notaio di Morrona del fu Bartolomeo e Bartolo, abate del monastero,  per un pezzo di terra con “fichi et remore” e ogni pertinenza, confinata e posta presso Morrona.[233]

Il 12 settembre 1323, Bartolo, abate del monastero di Santa Maria, davanti a Michele notaio, presente come teste, interroga personalmente Giustino fu Miglio di Morrona circa un pezzo di terra, parte campia e parte boscata, posto tra Soiana e Morrona, in luogo detto Stibbiolo con i suoi confini e proibisce a Giustino di lavorare ed entrare nel detto terreno, in quanto di proprietà del monastero. << …ab hodie in antea non intret nec intrare debeat, aut laboret seu laborare debeat vel faciat laborari petium unum terre… >>.[234]

Il 13 settembre 1331, Antonio procuratore del monastero, a nome dell’abate, fa rogare un atto in cui << …inibuit et vetuit Vanni quondam ser Nini de Morrona, que tenet et conducit… >> tre pezzi di terra: il primo con olivi in luogo detto L’Aia Vecchia, confinato; il secondo con fichi e altri alberi in luogo detto Chiusura, con i suoi confini; il terzo vignato in luogo detto Scopeto, confinato. Presentemente questi pezzi di terre non vengono lavorate dal suddetto Vanni, al quale viene chiesto un risarcimento di 25 lire di soldi pisani, perché non lavorando bene queste terre, fa un torto all’abate e al monastero.[235]Tali documenti fanno capire, ancora una volta, quali fossero i rapporti tra gli abati e i laici, specialmente in tempo di decadenza dell’abbazia, queste continue controversie fanno supporre che insieme alla progressiva diminuzione di prosperità si aggiungesse anche il declino del potere.

Il 23 gennaio 1335, essendo vacante la chiesa di San Lorenzo di Montanino, l’abate di Morrona Bartolo, patrono della suddetta chiesa, procede all’elezione del nuovo rettore, nella persona di Gregorio, fiorentino, monaco camaldolese.[236] Nello stesso anno, il 26 marzo 1335, Bonaventura, priore di Camaldoli, essendo vacante l’abbaziato del monastero di Morrona, nomina abate Bartolo “de Eugubio”.[237]

Con bolla emanata da Clemente V, il 24 maggio 1313, viene eletto il nuovo abate di Morrona nella persona di Pietro di San Salvatore di Selvamonda, della diocesi di Arezzo, l’abbaziato cenobitico era vacante, per il passaggio dell’abate Bartolo al monastero di San Giovanni di Borgo San Sepolcro.[238]

In data 8 agosto 1345, Silvestro di Anghiari, abate pro tempore del cenobio di Morrona, essendo da molto tempo vacante la rettoria della chiesa dei Santi Bartolomeo e Niccolò, nomina rettore della medesima chiesa, di cui gli abati avevano, per antica consuetudine, lo ius patronato, prete << …Nicholao nato ser Iacobi capitanei de Morrona, plebano Sancti Iohannis de Ginestrella…>>, chiedendo consiglio circa la nomina a “Dottuccium Coli de Corniano et Cinum Ganuccii de Morrona”, consoli dello stesso comune. Nel documento viene descritta la cerimonia dell’immissione nel possesso della chiesa.[239]

Le guerre tra Pisani e Fiorentini avevano demolito, distrutto, diroccato tutti i castelli del contado e devastato i raccolti, anche la badia di Morrona certamente ne patì le conseguenze e dopo la caduta di Pisa sotto il potere di Firenze,  il 9 ottobre 1406, quando i fiorentini guidati da Gino Capponi, riuscirono ad impossessarsi della città pagando con 50.000 fiorini il capitano del popolo Giovanni Gambacorta che fece aprire la porta di San Marco. Anche la badia divenne di dominio fiorentino e il monastero non poté più contare sul sostegno di Pisa e tantomeno su quello dei vescovi di Volterra, nonostante la badia si trovasse nella diocesi di questa città, d’altra parte i rapporti con il vescovato volterrano non erano mai stati molto tranquilli, infatti vedremo che proprio il prelato di Volterra sarà la causa della fine di questo monastero.

Il 5 maggio 1408 Agostino Moriconi, abate del monastero di San Pietro di Pozzuoli delega Orlando, abate di Morrona di agire in sua vece nella futura elezione del nuovo priore di Camaldoli.[240]

Nonostante il potere di questo monastero fosse decaduto, gli abati continuarono a far valere i propri diritti, per quanto era loro possibile, anche nel secolo XV. Il 3 di giugno 1454 l’abate pro tempore ottenne dagli “Ufiziali Rerum et Bonorum Rebellium et Bannitorum Communis Florentie” la revoca della licenza accordata agli uomini del comune di Bagno a Aqua e di Parlascio di poter costruire un mulino atto a macinare con le acque che uscivano dalle terme, cioè da quell’acquedotto che fu costruito quando era potestà di Pisa Federico di Montefeltro, contro i loro privilegi e diritti. Ma il 25 luglio dello stesso anno, sembra che l’abate e i suoi monaci avessero cambiato idea, infatti trovano un accordo con i Comuni di Bagno a Acqua e Parlascio. In questo documento viene esposto che il monastero aveva posseduto in passato cinque mulini nel corso delle acque delle terme e che i contadini dei luoghi circonvicini avevano avuto grandi vantaggi per macinare, ma le guerre tra Pisani e Fiorentini li avevano distrutti in buona parte, creando forti disagi a coloro che dovevano macinare. Per sopperire a queste difficoltà gli abitanti dei comuni vicini avevano pensato di fabbricare un mulino sul canale che veniva dal Bagno, cioè quello che era sempre stato negato e proibito dagli abati, i quali sostenevano che fin dalla fondazione della badia, il corso delle acque delle terme era sempre stato di loro appartenenza e viene citata la donazione del conte Ugo. Finalmente venne concordato che gli uomini dei vari comuni interessati potevano costruire un mulino con casa, idoneo a macinare sopra il tanto discusso canale: << …Et teneantur solvere uomine annui census in festa Beate Marie de mense septembris unum candelabrum cere libre unius… >>.[241]

Gli ultimi documenti relativi al XV secolo risalgono al 16 giugno 1462 e al 15 marzo 1464: il primo si tratta di un mandato di procura fatto da Iacopo di Andrea da Galatea, abate di Morrona a Benedetto del fu Masco di Andrea suo nipote e priore di Santa Maria di Vincareto, per rinunciare a suo nome alla suddetta badia di Morrona e rimetterla nelle mani del pontefice (Pio II) o di Mariotto, priore dell’Eremo e generale di tutto l’ordine Camaldolese, documento citato precedentemente.[242] Il secondo è un breve di Pio II diretto al priore di Camaldoli, con cui ordina di costituire un usufrutto su un bene del monastero di Morrona a Iacopo, il quale fu abate del cenobio, per poter condurre una vita decente e per ripagarlo di un credito di 200 fiorini che in passato aveva fornito al monastero per avere dovuto sostenere una lite, probabilmente si tratta di spese legali.[243] Seguono quattro bolle pontificie, una di Paolo II del 1467; le altre tre di Sisto IV datate rispettivamente: 1476; 1478; 1483, in cui si dice dei beni del monastero annessi alla Mensa vescovile di Volterra.[244]

Capitolo IV. La presa della badia

 La soppressione del monastero è documentata nei particolari da Pietro Delfino, Generale dell’ordine Camaldolese, in una lettera (in latino) del 13 settembre 1482, diretta a Ventura, abate dell’abbazia di San Michele di Murano, la cui traduzione fa perdere molta dinamicità alla stessa. Il Generale camaldolese scrive all’abate che era dovuto restare alcuni giorni a Siena, perché al suo arrivo era assente il Protettore; il giorno seguente, di buon mattino, arrivarono Antonio da Orvieto e Andrea d’Aquileia, figlio della sorella del cardinale di detta città, i quali portarono la notizia della morte dell’abate di Morrona e insistettero perché il generale Camaldolese si recasse subito a quella abbazia.[245]

Partito da Siena, in quello stesso giorno, arrivò a Morrona il giorno seguente e nonostante avesse sperato in una calda accoglienza, scrive il Generale molto impermalito, a fatica fu fatto entrare dopo due lunghe ore di attesa: << …Ubi sperantes grate nos admittendos, vix duarum horarum spatio impetrare potuimus ingressum… >>.[246]

I monaci e gli uomini del castello di Morrona avevano, nel frattempo, eletto abate don Mauro e, temendo che il Generale e il suo seguito potessero eleggere un altro, non permettevano loro di entrare nel monastero. Nello stesso tempo arrivò un parente di Antonio de’ Pazzi con molti cittadini fiorentini, ai quali fu subito aperta la porta.[247] Pietro Delfino non nascose la propria ira per l’indegnità del fatto: veniva escluso il legittimo superiore religioso mentre erano intromessi arbitrariamente dei laici: << …Non potuimus non moveri admodum indignitate rei, quod excluso religionis patre, laici admitterentur pro arbitrio… >>;[248] quindi, fece ordinare di riferire a don Mauro che se gli era impossibile farli entrare, almeno lui venisse alla porta, minacciandolo che se avesse rifiutato la proposta si sarebbero rivolti contro di lui in modo molto più deciso: il Generale era disposto ad attendere un’ora non di più, prima di procedere giuridicamente contro il neoeletto come ribelle e disprezzatore dell’autorità. Don Mauro ebbe paura di ciò che aveva detto il Generale e andò alla porta seguito da molte persone, con parole di scusa verso se stesso e verso gli uomini che custodivano il monastero, dicendo che essi non volevano altro abate che lui, inoltre supplicò umilmente il superiore di dare conferma alla propria elezione.

Fatti entrare nell’abbazia, fu concesso il perdono da parte del Generale, ma non la conferma dell’elezione, perché prima della partenza da Siena, Pietro Delfino aveva mandato a Firenze un ambasciatore al Priore degli Angeli, perché accettasse la nomina di abate di Morrona.[249]

Poco tempo dopo arrivò Bartolomeo Soderini, vicario del vescovo di Volterra Francesco Soderini, fratello del futuro gonfaloniere di Firenze Pier Soderini (compendio di immoralità e corruzione curialesca) per prendere possesso dell’abbazia in nome del suo vescovo, ma non gli fu permesso nemmeno di avvicinarsi all’edificio, quindi ripartì pieno di furore. Il vento di fronda, che per secoli è spirato tra il vescovato di Volterra e il monastero si fa ora più forte e il presule volterrano, il giorno dopo all’alba, approfitta e parte “manu armata” con i suoi soldati alla conquista della badia. Con i suoi duecento uomini armati entrò nel castello di Morrona, cominciò a minacciare il popolo e ad ordinare che non gli si opponessero: << …abbatiam Morrona sua esse, eamque si aliter non posset, per vim expugnaturum… >>.[250] Nel frattempo da Morrona e da altri luoghi circonvicini erano arrivati molti laici per difendere il monastero con qualsiasi genere di armi e si erano disposti alle porte, nei punti più vulnerabili, sopra i tetti per sorvegliare il nemico e vigilare. Non ancora finito il pranzo fu gridato l’allarme per l’arrivo del drappello vescovile: in un attimo tutti gli uomini armati si disposero sui tetti, sui muri, alle finestre per respingere con spade, frecce, spingarde ed altre armi di fortuna il nemico. Ma l’arrivo di Macerio impedì la lotta che certamente sarebbe stata feroce, inoltre agli uomini ordinò di tornare alle proprie case pena la testa. [251]

Per tre ore Pietro Delfino e gli altri cercarono di persuadere Macerio a procrastinare l’investitura al vescovo, almeno finché essi non avessero ottenuto udienza a Firenze. Fu fatica sprecata, perché egli insistette nel dire che doveva eseguire gli ordini ricevuti e adempire il mandato.

Il Generale Camaldolese scrisse subito una formale protesta e accusa << …ad dominium hac de re , plurimum conquesti de illata nobis ab episcopo injura… >>,[252] poi affidato il monastero a don Mauro, che, per la venuta del vescovo, era stato frettolosamente confermato abate, si dispose a partire, dopo avere avuto dal neo abate la promessa di difendere con ogni mezzo i diritti del monastero a Roma e dovunque fosse necessario.

Il Generale partì in fretta per non vedere con i propri occhi il momento in cui il presule volterrano avrebbe fatto il suo ingresso nella badia, poco dopo arrivò il Priore degli Angeli, ma appena fu informato della partenza di Pietro Delfino ed anche che il vescovo aveva già occupato il monastero, ritornò subito a Firenze: << …supervenit eadem hora prior Angelorum, qui ubi comperit minime nos adesse, et episcopum iam obtenuisse monasterium, Florentiam rediit… >>.[253]

Il giorno seguente il Generale arrivò a Siena con il suo seguito e riferì, addolorato e mesto per gli inutili sforzi, l’accaduto al cardinale protettore, esternando l’amarezza e la meraviglia di vivere in tempi e tra gente che permettevano di essere cacciati vergognosamente dalle proprie case per consegnarle ad estranei, oltre la rapina delle rendite dei monasteri. Il Cardinale lo consolò, lodando la sua diligenza nel difendere l’abbazia, << …qua non stetisset per nos, quin ordini servaretur… >>,[254] inoltre, lo esortò a stare di buon animo e gli disse di ascrivere all’infelicità dei tempi ciò che era accaduto, << …Hortari ut bono animo essemus, quodque accidisser, temporum infelicitati adscriberemus, quatenus immunis a calamitatibus inveniretur nemo… >>;[255] ma che non sempre la spada del divino furore sarà affilata contro di loro e verrà un giorno in cui ci sarà una serena pace per il popolo cristiano, infine promise, che al suo ritorno a Roma, avrebbe fatto tutto il possibile contro la prepotenza dell’invasore del loro monastero.

La lettera fu scritta da Fontebono, il 13 settembre 1482.[256]

I beni del monatero furono assegnati alla Mensa vescovile di Volterra e l’edificio fu trasformato in residenza estiva dei prelati volterrani fino al 1868, quando fu espropriato alla Chiesa e venduto a privati.

 APPENDICE

LISTA DEGLI ABATI

Martino         1092

Eriberto         1098

Gerardo         1101-1123

Guido            1128

Gerardo         1133-1139 (menzionato fino al 1139)

Uberto           1141            

Guidone                      1148

Jacopo           1152-1153

Ugo               1168

Marco           1182 (menzionato anche nel 1184)

Ubaldo          1196

Guido            1198

Viviano         1212-1220 (menzionato nel 1214, 19, 20)

Martino         1223-1232 (menzionato nel 1224, 28, 29, 31, 32)

Nicola           1236 (menzionato nel 1237)

Simone         1239 (menzionato nel 1240, 41 anno della sua morte il 4 ottobre)

Benedetto     1241 (eletto il 15/16 ottobre 1241 e menzionato nel 1242, 43, 44, 45)

Michele        1255 (nel 1256 di settembre Michele viene eletto abate di un altro monastero)

Guidone        1262 (menzionato nel 1263,64,66,67,68)

Alberto         1271 (menzionato nel 1272)

Gerardo        1275-1284 (menzionato nel 1277,78,84)

Alberto         1293 (viene detto pisano)

Gerardo        1297 (olim abbas mon.)

Alberto         1298

R……..         1301 (non decifrabile)

Corrado        1306-1309 (menzionato fino al 1309)

Bartolo         1311- 1318 (Bartolo de Anglario, menzionato nel 1312,13,15,16, 17,18)

Pietro            1313 ( nel 1313 troviamo menzionato Bartolo)

Silvestro       1316 ( nel 1316 troviamo menzionato Bartolo)

Cum…         1318 (il nome dell’abate cambia, ma non è leggibile; risulta che il 7 febbraio è sindaco e procuratore Gherio fu Inghiramo)

Bartolo         1319

Bartolomeo  1320-1336 (Bartholomeo lucensis o de Luca, lo troviamo menzionato negli anni 1321, 22, 23, 25, 27, 29, 31, 32, 34, 35, 36)

Silvestro       1340 (de Anglario, menzionato nel 1343,45)

Bartolomeo  1347 (de Eugubio di cui troviamo la sua elezione il 26 marzo 1335?)

Pietro           1350

Giorgio        1389-1390

Gregorio      1390-1394 (nel 1390 il 19 di ottobre troviamo ancora Giorgio abate)

Martino       1405-1406 (Martino Guiducci, già oriore di San Severo di Perugia, fu eletto il 20 maggio)

Orlando       1408

Iacopo         1457

Iacopo         1462 (di Andrea da Galeata, forse lo stesso che troviamo nel 1457)

Iacopo         1468 (troviamo “stato abate” e forse trattasi sempre della stessa persona)

Mauro         1482

Questa lista è stata desunta dalle numerose pergamene consultate presso l’AVV e dai documenti reperiti nella B.C.V.

[1] La comunità di Morrona è una frazione del comune di Terricciola, da cui dista poco più di un chilometro; << …risiede presso la vetta delle colline cretose che dalla parte di levante acquapendono in Val-d’Era, mentre dal lato opposto scendono in Val di Cascina… >>; << …Giurisdizione di Peccioli, Diocesi di Volterra, Compartimento di Pisa… >>. E. Repetti, Dizionario Geografico, Fisico e Storico della Toscana, III, Firenze, A. Tofani e G. Mazzoni 1833-1845, p. 614. Intorno al Mille Morrona dipendeva dalla consorteria dei conti Cadolingi; dopo l’estinzione della famiglia (1113) la Chiesa pisana vi esercitò giurisdizione sovrana: il 17 marzo 1199 Ubaldo, arcivescovo pisano, emanò un placito in cui ordinava ai consoli di Morrona e a tutta la comunità di ubbidire all’arcivescovo loro padrone e che in nessun tempo tentassero alcuna cosa contro la Chiesa di Pisa e il suo onore. I Morronesi furono sempre dalla parte ghibellina e nel 1238 anche questo Comune inviò i suoi rappresentanti a Santa Maria a Monte per stabilire le convenzioni fra i diversi partiti della lega ghibellina toscana. Nel 1294 i ghibellini della Val d’Era, guidati da Neri di Janni da Donoratico, si radunarono a Morrona e << …unitisi con le genti del conte Guido da Montefeltro, potestà di Pisa, fecero una sanguinosa zuffa contro l’oste guelfa fortificatasi in Peccioli di Val-d’Era… >>. Morrona seguì la sorte di altri castelli delle Colline Pisane e nel 1496, durante la guerra tra Firenze e Pisa, cadde in potere dei Fiorentini, ai quali si sottomise con atto pubblico. Cfr. E. repetti, cit., III, p. 614.

[2] C.f.r., G. Mariti, Odeporico o sia Itinerario per le Colline Pisane, Ms. 3511, III, Biblioteca Riccardiana, Firenze; G. Targioni-Tozzetti, Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, I, Firenze, Stamperia Imperiale 1768, pp. 216-222; E. Repetti, cit., I, pp. 20-21; III, pp.614-615; J. B. Mittarelli et Costadoni, Annales Camaldolenses Ordini Sancti Benedicti, Venetiis, 1755-1773; P. F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum, Italia Pontificia, III, Etruria, Berlino apud Weidmannos 1908, pp. 292-293; G. Lami, Deliciae Eruditorum, XVI, Firenze 1736-1755.

Il conte Ugo, figlio di Guglielmo detto Bulgaro, nipote del conte Cadolo fondatore dell’oratorio di Fucecchio, dal suo primo matrimonio ebbe due figli: Ugo e Lotario; rimasto vedovo, sposò in seconde nozze Cilia o Cecilia, dalla quale ebbe altri due figli: Ugolino e Rainuccio, che compaiono nel rogito e sono chiamati “proximarum parentum”, forse per distinguerli dagli altri due che di Cilia erano figliastri. C.f.r. G. Mariti, cit., J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 96 in appendice.

[3] Archivio Vescovile Volterra, sec.XI, dec. X, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi volterrani fino al 1100, Esame del Restum Volaterranum, con appendice di pergamene trascurate da Fedor Schneider in “Rassegna Volterrana”, XXXVI-XXXVII; XXXVIII-XXXIX, Volterra, Accademia dei Sepolti 1972, p. 71, n. 96. L’atto fu rogato nella chiesa di Santa Maria del monastero da Guido notaio regio; alla subscrptio verbale segue un codicillo di circa tre righe purtroppo indecifrabili.

[4] C.f.r. A.V.V., sec. XI, dec. X, n. V-VI. Gli atti furono rogati rispettivamente presso il castello di Santo Pietro e in Casanova da Guido notaio regio. Questo antroponimo, che non dovette essere molto diffuso nella zona delle Colline Pisane, appare in una carta lucchese dell’VIII secolo: “…Gauspert viri devoti filio Raduare…”. C.f.r. L. Bertini, Indici del Codice Diplomatico Longobardo, II, Bari 1970, p. 259.

[5] J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 213 in appendice.

[6] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. I. Troviamo menzionato questo abate fino al 1139, quindi Gerardo ebbe la guida spirituale e temporale di questo monastero per circa quarant’anni. Crf. A.V.V., sec. XII, dec. IV, n. XV.

[7] Nel 1115 Pietro Moricone ricevette in enfiteusi dall’abate Gerardo la terza parte dei castelli di Aqui, attuale Casciana Terme, e di Vivaia, castello che sorgeva a circa un chilometro ad ovest di Casciana Terme, sopra il quale ebbero la signoria i Cadolingi, che lo cedettero al monastero di Morrona con una vendita del 1109. Cfr. E. Repetti, cit., V, pp. 794-795. << Santa Maria in Morrona (Volterra) risulta tra i trasferimenti dei monasteri affidati a Camaldoli entro il 1113>>. W. Kurze, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana Medievale, “Studi Diplomatici, Archeologici, Genealogici, Giuridici e Sociali”, Acc. Senese degli Intronati, Siena 1989, p. 249.

[8] Cfr. G. Miccoli, cit., p. 47 e segg.

[9] G. Mariti, cit.

[10] G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p. 216 e segg.; G Mariti, cit.; J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 460 in appendice.

[11] J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 96 in appendice.

[12] A.V.V., Visita Apostolica del vescovo Castelli del 1576, c. 444 r. e segg.

[13] Ibidem

[14] C.f.r. G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p.216 e segg. Il quale sostiene di averne visti altri simili a Treggiaia, Monte Foscoli e nella pieve di Morrona.

[15] Il Mariti, confermato dal Repetti, sostiene che questo polittico, oggi purtroppo ridotto alla tavola centrale, sia ritenuto anteriore a Cimabue, perché degli esperti ”…vi ravvisano in maniera senza forma e senza intelligenza alcuna delle parti, come pure il colorito monotono, ed il piegare indeciso mostrano l’arte nel suo naturale meccanicismo, e al di fuori di ogni buon principio ed ogni regola, ma comunque si sia certo che sono molto antiche…”. G. Mariti, cit. C.f.r. E. Repetti, cit., I, p. 20. Gli affreschi sono attualmente molto deteriorati a causa dell’umidità.

[16] La porta e la lapide viene menzionata dal Mariti nella sua opera; le notizie concernenti lo stato attuale sono della scrivente, la quale ha esaminato minuziosamente tutte le parti dell’edificio. Domenico Tempesti: pittore pisano nato nel 1688, formatosi nell’accademia domestica di Domenico Ceuli, fu padre del famoso pittore Giovanni Battista, morì nel 1766. Per ulteriori notizie su questo pittore si veda: R. P. Ciardi a cura di, Settecento pisano. Pittura e scultura a Pisa nel secolo XVIII, Cassa di Risparmio di Pisa, Pisa 1990.

[17] G. Mariti, cit.

[18] Tali notizie sono della scrivente, la quale ha esaminato il luogo più volte.

[19] Cfr. G. Mariti, cit. Si pensa che il Mariti nella sua descrizione abbia usato come misura il braccio fiorentino, equivalente a 58,60 centimetri. La chiesa, dunque, sarebbe lunga circa 26 metri, larga 7,5 e nella crociera 13,5 metri.

[20] G. Mariti, cit… Il Mariti vide la seguente iscrizione su marmo in caratteri gotici:”Hoc opus fecit fieri donnus Silvester De Anghiare abbas uius monasteri. MCCCXVI. Sulla sinistra ai piedi della scala che portava all’appartamento per il pievano un’altra lapide recava questa iscrizione:”Hoc S. fieri fecit donnus Iacobus Andreae De Galeata abbas huius monasterii et successor. MCCCCLVII”. Accanto a questa iscrizione sepolcrale vi era un’arme o qualcosa di simile su cui erano scolpite due teste in profilo di uomo. Niente di tutto questo è oggi esistente. G. Mariti, Odeporico… cit., Attualmente il chiostro non si presenta molto dissimile all’epoca in cui fu visto dal Mariti: in seguito a restauri è stato riportato alla luce il loggiato, che era stato incamerato in una parete e intonacato.

[21] Cfr. G. Mariti, cit., pp.55-57. Il passo equivaleva a 1,48 metri circa.

[22] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p. 203; G. Mariti, cit.; E. Repetti, cit., III, p. 614.

[23] Troviamo i titoli di S. Maria e S. Giovanni per la prima volta in un documento del 19 luglio 1236, più tardi, nel 1427, è contitolare anche santa Lucia. Crf. A.V.V., sec. XIII, dec. IV, n. XXVII; A.S.F., Catasto n. 193, c. 609 v.

[24] A.V.V., sec. XIV, dec.III, n. LV.

[25] Ibid., Località con poche case a breve distanza dal centro abitato, sulla via che da Morrona porta a Soiana; il toponimo è invariato.

[26] Ibid.

[27] Ibid

[28] Ibid.

[29] Ibid.

[30] Cfr. A.P.M. (Archivio Parrocchiale Morrona). Le due perizie furono fatte fare da don Giuseppe Levrini pievano di Morrona nei primi anni del 1900

[31] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. V, n. I; F. Schneider, Regestum… cit., p. 58, n. 166.

[32] Cfr. A.S.P., Fondo atti pubblici, Iaffè, II, n. 12692; P. F. Kehr, cit., III, p. 327, n. 42; N. Caturegli, cit., n. 516.

[33] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. II, n. XVII.

[34] Cfr. C. Violante, Pievi e Parrocchie nell’Italia Centrosettentrionale durante i secoli XI e XII, in Le istituzioni ecclesiastiche della “societas christiana” dei secoli XI-XII. Diocesi, Pievi e Parrocchie, Milano, Vita e Pensiero 1-7 settembre 1974, p. 653 e segg.

[35] Cfr. P. Guidi a cura di, Tuscia. La decima degli anni 1274-1280, I, in Rationes Decimarum Italiae, Città del Vaticano, Poliglotta Vaticano 1932, p. 161.

[36] P. Giudi a cura di, op. cit., II, p. 200

[37] Cfr. Archivio Storico Comunale Volterra, (D’ora in poi A.S.C.V.) Sinodo Belforti, c. 51 r.

[38] A.S.F., Catasto n. 193, c. 609 v.

[39] Ibid.

[40] A.V.V., Visita apostolica di monsignor Giovanni Battista Castelli vescovo di Rimini del 1576, c. 445 r.

[41] Cfr. L. Pescetti, Storia di Volterra, Pisa 1985, p. 41 e segg.

[42] Cfr. A. F. Giachi, Saggio di ricerche storiche sopra lo stato antico e moderno di Volterra, Sala Bolognese, rist. anast., p. 207 e segg.; M. Bocci, Annuario della Diocesi di Volterra, Firenze 1981, p. 15; L. Pescetti, cit. p. 57.

[43] Cfr. F. Schneider, Regestu… cit, p. 49, n. 138; C. Violante, L’origine lombarda di Ruggero vescovo di Volterra e arcivescovo di Pisa, Accademia Nazionale dei Lincei, Serie VIII, Vol. XXXV, fasc. 1-2, Roma 1980.

[44] Cfr. C. Violante, L’origine lombarda di Ruggero vescovo di Volterra e arcivescovo di Pisa, “Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche”, Serie VIII, vol. XXXV, Fasc. 1-2 gennaio-febbraio 1980, Accademia Nazionale dei Lincei, p. 11 e segg.

[45] A. V. V., sec. XII, dec. III, n. VII; Cfr. L. A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, III, Milano 1738-1742, p. 1143; F. Schneider, Regestum… cit., p. 56, n. 159; N. Caturegli, cit. p. 202, n. 307; C. Violante, L’origine…cit., p. 11, nota 3.

[46] C. Voilante, L’origine… cit., p. 13 e segg.

[47] F. Schneider, Regestum… cit., p. 53, n. 148; A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 447

[48] F. Schneider, Regestum… cit., p. 54, n. 150; R. Davidsohon, Storia di Firenze, p. 561 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi… cit., p. 31.

[49] Cfr. C. Violante, L’origine…, cit., p. 17.

[50] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 46 e segg.

[51] Ibid.

[52] Ibid.

[53] Cfr. F. Schneider, La Vertenza di Montevaso del 1150, Bullettino Senese di Storia Patria, XV, Siena 1908, p. 12 e segg.

[54] Cfr. L. Pescetti, Storia…cit., p. 57; A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 204.

[55] Ibid.

[56] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p.57

[57] Ibid.

[58] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., V, pp. 804-805

[59] Per la restituzione e per i frutti <<…furono assegnate ad Ildebrando le rendite tutte che le città di Lucca e di Siena pagavano al re, il pedaggio delle porte di Siena, di Castelfiorentino e di Poggibonsi e le rendite ancora, che ritraeva il regio erario da più e diversi castelli nominati nel contratto che ne fu stipulato, che doveva il vescovo per le miniere di Montieri, per la regalia della moneta e del fodro>>. A. F. Giachi, Saggio… cit., p 209; Cfr anche E. Repetti, Dizionario… cit., V, p. 805.

[60] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 57

[61] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., V, p 805

[62] Cfr. L Pescetti, Storia… cit., p. 58

[63] A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 208

[64] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 60

[65] Ibid.

[66] Cfr. R. Pescaglini Monti, La Plebs e la Curtis de Aqui nei documenti altomedievali, “Bollettino Storico Pisano”, L, Pisa 1981, pp. 9-15.

[67] Cfr. F. Schneider, Regestum… cit., p. 46, n. 126; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., VI, p 228.

[68] Cfr. P. F. Kehr, Regesta… cit., III, p. 300; F. Schneider, L’ordinamento pubblico nella Toscana medievale, trad. it. A cura di F. Barbaloni di Montauto, Firenze 1975, pp. 270-271, nota 233.

[69] Cfr. M. Cavallini- M. Bocci, Vescovi…cit., p. 30; R. Pescaglini Monti, cit.., p. 10.

[70] Cfr. A. V. V., sec. XII, dec. I, n. XII; dec. I, n. XI; F. Schneider, Regestum… cit., pp. 50-51, nn. 140-143; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 31.

[71] Cfr. R. Davidsohn, Storia di Firenze, trad. it., I, Firenze 1956-1968, p. 565 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 31.

[72] Cfr. R. Pescaglini Monti, cit., pp. 13-14.

[73] Per la prima bolla Cfr. P. F. Kehr, Regesta…cit., n.1, p. 293; N. Caturegli, Regesta…cit., p. 180, n. 285; per la seconda bolla Cfr. J. B. Mittarelli- Costadoni, Annales…cit., p. 285 e 306 in appendice.

[74] A. V. V., sec. XII, dec. III, n. VII; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1143; G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., pp. 2216-2222; F. Schneider, Regestum…cit., p. 56, n. 159; N. Caturegli, Regesta…cit., p. 202, n. 307.

[75] Ibid.

[76] Già nel 1115 Pietro Moriconi, allora arcivescovo pisano, ebbe in enfiteusi dall’abate Gerardo la terza parte del castello e distretto di Vivaia e della corte di Aqui con ogni pertinenza, ad eccezione però di ciò che apparteneva al monastero prima della donazione del conte Ugo, con lìobbligo di pagare ogni anno in settembre 12 denari di moneta corrente. Cfr. N. Caturegli, Regesta…cit., pp. 152-153, n. 247. Sempre nello stesso anno, l’arcivescovo Pietro fece fare un giuramento di fedeltà ai castellani e agli abitanti di Vivaia, che promisero di difendere la sua persona, i suoi beni e quelli dei suoi successori, eccettuando sempre quei beni appartenenti alla chiesa e monastero di Morrona, che si trovavano nei confini e appartenenze del castello. Cfr. J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 248 in appendice; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1116.

[77] A. V. V., sec. XII, dec. IV, n. VI; F. Schneider, Regestum…cit., p. 57, n. 162.

[78] I documenti pontifici in favore dell’ordine Camaldolese, in cui è sempre menzionata la badia di Morrona, ed altri indirizzati direttamente agli abati, sono numerosi ed hanno sempre lo stesso tenore: confermano beni e privilegi come quelli degli imperatori Lotario e Corrado II del 1137 e del 1139. Ne segnaliamo alcuni: 1137 aprile 22 (Innocenzo II); 1141 gennaio 30 (Innocenzo II); 1146 febbraio 7(Eugenio III); 1154 marzo 14 (Adriano IV); 1176 aprile 11 (Alessandro III); 1179 aprile 23 (Alessandro III); 1184 luglio 7 (Lucio III); 1187 dicembre 23 (Clemente III); 1198 Maggio 5 (Innocenzo III); A. V. V., sec. XII, dec. varie; L. A. Muratori, Antiquitates…cit. ; J: B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit.; A. F. Giachi, Saggio…cit.; F. Schneider, Regestum…cit.; N. Caturegli, Regasta…cit.

[79] L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1153; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 349 in appendice.

[80] A.V.V., sec. XII, dec. V, n. 1; per la bolla di Eugenio II si veda P. F. Kehr, Italia…cit., III, n. 4, p. 293. Il toponimo Tora, tuttora esistente si riferisce ad un piccolo torrente che sorge nei pressi di Gello Mattaccino, nel comune di Casciana Terme, si presuppone che la suddetta chiesa fosse ubicata vicina al torrente.

[81] Cfr. AVV., sec. XII, dec. X, n. XV.

[82] Cfr. F. Schneider, La Vertenza…cit., pp. 3-22; G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., pp.216-222; J. B. Mittarelli.Costadoni, Annales…cit., III, p. 460 in appendice; E. Repetti, Dizionario…cit., I, p 20. << Favorivano in questo tempo siffatto distendersi del dominio territoriale della chiesa e del comune pisano o la libera donazione degli abitanti di qualche castello, o le necessità finanziarie delle abbazie un giorno floride, ora in rapida decadenza, come quelle di Santa Maria di Morrona e del Beato Giustiniano di Falesia, i cui abbati dichiarano espressamente di vendere per bisogno di denaro…>>. G. Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa. Città e contado, consoli e podestà. Secoli XII e XIII, Firenze 1970, p. 12.

[83] Cfr. M. Bocci, La Badia di Morrona e un prepotente Vescovo di Volterra, in “Volterra”, anno III 1964, n. 3 marzo e 5 maggio.

[84] J. B. Mittarelli- Costadoni, Annales… cit., III, p. 96 in appendice. Nel 1097 Ugo e Lotario, figli del conte Ugo fecero redigere un editto contro chiunque tagliasse, predasse, saccheggiasse, rubasse, incendiasse o facesse danno in tutti i dintorni della chiesa e del monastero, i trasgressori sarebbero incorsi in pene pecuniarie e scomunica.

[85] Cfr. A. V. V., sec. XI, dec.  X, n. IV; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 78, n. 119. La pena stabilita fu di 40 soldi d’argento e la maledizione. Il luogo, che tuttora conserva lo stesso toponimo, è una fattoria ubicata tra Terricciola e Selvatelle; Casanova è citata fin dal 780 come corte dei fondatori del monastero di San Savino. Nel 1102 l’abbazia di Carigi vi aveva dei beni, in seguito, la famiglia degli Upezzinghi ebbero il patronato della chiesa (S. Bartolomeo) e alcuni beni. La rocca fu smantellata nel 1164 dai Pisani. Nel 1238 gli uomini di Casanova parteciparono al trattato per la Lega stipulato in Santa Maria a Monte, nel 1289 vi si scontrarono i Ghibellini della Valdera e i Guelfi di Peccioli. Cfr. E. Repetti, Dizionario…cit., I, pp. 492-93.

[86] Cfr. A.V. V., sec. XI, dec. X, n. V. La pena sancita è di 60 soldi d’argento.

[87] A. V. V., sec. XI, dec. X, n. VI. Riportiamo la minatio: “…penam de optimus (arientum) solidos sexsaginta et que hanc cartula offersionis infrangere vel disrupere seu tollere adque contendere presumserit sit maledictus ab omnipotenti Deo et sancta Maria mater Eius…”

[88] Il 10 giugno 1099 Bernardo fu Gerardo, con suo testamento, dispone alcune elergizioni in denaro a favore di enti ecclesiastici situati in Pisa e nella diocesi: tra questi compare anche il monastero di Morrona (nonostante situato nella diocesi di Volterra), cui viene donata la somma di 20 soldi. Cfr. M. Tirelli Carli, Carte dell’Archivio Capitolare di Pisa, “Thesaurus Ecclesiarum Italiae”, III, Roma 1977, pp. 172-74.

[89] Cfr. A. V. V. ,sec. XII, dec. I, n. VIII; F. Schneider, Regestum…cit., p. 50, n. 140.

[90] A. V. V., sec. XII, dec. I, n. XI. Il documento è datato 19 febbraio 1107. Molto elaborata la minatio, anche se abbastanza frequente nei documenti tiscani dei secoli X-XI. “…Et siquilibet persona massculo vel femina quo minime credo suprascripta petia de terra quale super legitur quas in predicta ecclesia et monasterio optuli tollere vel minuare vel subtraere sive alienare presumserit aut aliqua […]causationis inferre voluerit deleat ei Deis optimus nomen eius de libro viventium et cum iusti non scribantur fiat pertipes cum Dathan et Abiron quos aperuit terra os eorum deglutivit sit socius Ananie et Thaèhire qui fraudatam pecunia mentiti sunt apostolis partem quoque habeat cum Pilato et Erode et Nerone et Juda traditore. Sit dannatus cum Simone mago que gratia Sancti Spiritus venundare voluit; sit demersus de ab altitudine celi in profundum in inferni et cum diabolo sit in infernum seper […] susus et in die iudicii ante divini tribunal non resurgat…”.

[91] Ibid.

[92] A. V. V., sec. XII, dec.I, n.IX. Cfr. anche M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p.55, n. 6, che erroneamente riportano “a staiora di 10 pani”, anziché 12.

[93] Per la prima donazione Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 54, n. 1.  L’offerta consiste nell’ottava parte di beni posti nei confini di Morrona. E’ questo il primo documento in cui troviamo menzionato l’abate Gerardo per la prima volta ed è datato 21 aprrile 1101. Con la seconda donazione, il 13 febbraio 1110, il monastero entra in possesso di tutta l’intera parte di case, terre, uomini, mobili e immobili del chierico Gualando fu Guidone notaio, tali beni erano posti nella corte di Soiana e in altri vari luoghi. Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. II, n.XVI; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 60, n. 18. Il rogito per la terza donazione è del 28 luglio 1111, il donatore offre alla chiesa di s. Maria “…que est fundata et edificata in loco et finibus in Poi, que est super planum de Valle de Cascina et prope castellum vestrum de Morrona…”, molti terreni colti e incolti ( vigne, boschi, prati, pascoli, oliveti), con diverse “cassini” e “casalini” posti nei territori di Soiana, Soianella, Campagnana e altri luoghi. A.V.V., sec. XII, dec. II, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 60, n.19. La quarta donazione riporta la data del 25 marzo 1104, Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. VI.

[94] Si tratta di beni ubicati “…in illo Pantano, quod infrascripta ecclesia et rectores eius adquesiverunt ab Uguccione comite et Cilia uxore eius…”. La carta è datata 17 febbraio 1115. Cfr. F. Schneider, Regestum…cit., p. 54, n. 151.

[95] Cfr. A:V.V., sec. XII, dec. III, n. III. Datata 26 marzo 1124.

[96] Cfr. A.V.V., sec. Xii, dec. IX, n. IX. Il rogito fu stipulato da Bartolomeo notaio imperiale con pena del doppio della stima e il lougo dove fu redatto è “in ospitale infrascrpti monasterii”, ospedale che non dovette avere grande importanza, perché oltre a questa prima volta che lo troviamo menzionato, lo ritroviamo menzionato in un privilegio di Gregorio IX del 28 giugno 1227 e in un altro documento relativo all’anno 1284 (5 gennaio), Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. XXX; non compare nemmeno in M. Battistini, Gli spedali dell’antica diocesi di Volterra, Pescia 1932.

[97] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. IX, n. VII.

[98] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. XII, n. XIV.

[99] Cfr. L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1107.

[100] Vivaia, toponimo tuttora esistente, che si trova tra Casciana Terme e Parlascio. I conti Cadolingi di Fucecchio vi ebbero la signoria. Cfr. E. Repetti, Dizionario…cit., V, pp. 794-795 e I, pp. 38-39.

[101] Cfr. R. Davidsohn, Storia…cit., p. 565 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p.31. “ Col testamento lasciò ciò che gli restava del suo, dopo pagati i debiti considerevoli ai vescovi delle respettive diocesi. Così la corte di Bagno a Acqua nella valle di Cascina, sul confine delle diocesi di Pisa e Volterra, venne all’arcivescovo pisano, tranne quello che ne era impegnato nella vicina badia di Morrona…”. F. Schneider, La Vertenza…cit., p.5.

[102] Cfr. F. Schneider, Regestum…cit., p. 54, n. 150.

[103] Per la prima cfr. A.V.V., sec. XII, dec. IV, n. VIII. Pergamena mutila, sul cui retro possiamo leggere: “Venditio facta abbatie Morrone de petio terre posito loco dicto Negozano per Ildebrandum et frates. Per la seconda Cfr. M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 78, n. 67. La vendita fu fatta da Opizzo abate della chiesa e monastero dei ss. Ippolito e Cassiano, consistente in tre vigne ed altri beni “ad Fuscianum”, che erano pervenuti alla sua chiesa per donazione di Rolando fu Ildebrando. Per la terza Ildebrando fu Bernardo aliena al monastero tutti i suoi beni posti nei confini di Negoziana, Morrona e Vivaio “par pellium grisiarum pro solidi viginti et octo in prefinito”. Cfr. ibid.

[104] Per il primo documento Cfr. J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 248 in appendice. L’abate Gerardo dà la terza parte del castello e corte di Vivaio e Aqui in enfiteusi a Pietro Moricone per un censo di 12 denari annui da soddisfare in settembre. Tali beni sono gli stessi acquistati nel 1109 dal conte Ugo. Il secondo è una locazione di un pezzo di terra in luogo detto “Guazo Ardinghi” “…cum aqua que vocatur Caldane super se habentem”, che l’abate dà a Gerardo di Teziciro per fabbricarvi un mulino, per un censo annuo di 4 soldi lucchesi per la festa di s. Giovanni in dicembre, pena 200 soldi. Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. VII, n. XIII; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 90, n. 101.Nel terzo documento troviamo che l’abate Ubaldo concede in livello a “Ianuensi “ fu Considerato 10 pezzi di terra con ogni loro edificio e pertinenze, di circa 65 staiora, per un censo annuo di 16 soldi di moneta pisana corrente, da pagarsi a settembre perc la festa di s. Michele e sua ottava; pena 100 lire, inoltre Genovese deve all’abate 20 soldi pisani “pro servitio dicti libelli”. Cfr. M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 108, n. 151. Nel quarto, l’abate Guido dà un pezzo di terra ad Aliotto fu Baldicione, ubicata presso Morrona, di 11 staiora, per un censo annuo di 12 denari, pena 100 soldi di denari buoni. Cfr. Ibid.

[105] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit.,, I, pp. 216-222; N. Caturegli, Regesto…cit., pp. 225-226, nn. 337-338-339; E. Repetti, Dizionario…cit.,  I, pp. 20-21.

[106] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit.,I, pp.216-222; N. Caturegli, Regesto…cit., p. 291, n. 425; E. Repetti, Dizionario…cit., I, pp. 20-21; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 460, n. 299 in appendice.

[107] G. Volpe, Studi sulle istituzioni Comunali a Pisa, Firenze 1970, p. 12 e 41

[108] Cfr. A.V.V.,1239 gennaio 13, Giunta fu Carbone vende a Simone abate un pezzo di terra posto tra Morrona ed Aqui, per 30 soldi di denari nuovi pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. IV, n. XIX. 1243 gennaio 30, Ubaldo fu Lunardo di Morrona vende a Benedetto abate un pezzo di terra con vigna posto nei confini di Morrona in luogo detto Pescaria, per 7 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. V.  1244 luglio 13, Contrus fu Galgano e Iacopo suo fratello vendono a Benedetto abate la metà di un pezzo di terra con ogni sua pertinenza, posto nei confini di Aqui presso il mulino del monastero, per 400 soldi di moneta nuova pisana, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. VII. 1250 agosto 29,Enrichetto fu Enrichetto di Soiana vende a Bonaccorso fu Spinelli, sindaco del monastero, di cui è abate Guidone, un intero pezzo di terra campia posto nei confini di Morrona in luogo detto Prato la Valle, per 8 libbre di denari nuovi pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. IXI. 1262 novembre 6, Pellegrino fu Benentendi notaio di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra posto nei confini di Aqui oltre il fiume Cascina in luogo detto Aqua Viula, presso il bosco del monastero, per 9 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. X. 1263 settembre 25, Bartolomeo di Morrona (paternità non leggibile) vende all’abate Guidone due interi pezzi di terre posti nei confini di Morrona, in luogo detto “Podio le Cavi”, con peri e ulivi; il secondo in luogo detto “valdelecavi”, entrambi per 35 denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. Vii, n. XX. 1264 settembre 29, Bartolomeo fu Cenati di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra posto nei confini di Morrona in luogo detto “Valle Orsi”, per 400 denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXV. 1266 settembre 21, Maestro Ventura fu Giovanni di Morrona vende a Guidone abate due interi pezzi di terra con vigna, fichi e altri alberi, posti nei confini di Morrona in luogo detto “Chiusdino”, per 20 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXXIV. 1267 aprile 15, Martino fu Riccobe ne di Morrona vende al solito abate un pezzo di terra con alberi, posto nei confini di Morrona in luogo detto “bal de le Cave”, per 8 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXXVI. 1267 ottobre 11, Isabella vedova di Iacopo fu Macchi e figlia di Bonacontri di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra lavorativa posto nei confini di Morrona, in luogo detto “Valle Sive ad Ripalba”, per 8 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, XXXIX. 1268 febbraio 27, Ranuccio fu Spinello di Morrona vende al suddetto abate un intero pezzo di terra lavorativa posto nei confini di Morrona in luogo detto “Miliari”, di 4 staiora e più, per 8 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. VIII. 1272 agosto 31, Inghiramo fu Giacomo Gualandelli di Morrona vende ad Alberto abate un pezzo di terra campia posto tra i confini di Morrona in luogo detto “Sterpeto”, di 4 staiora per 8 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VIII, n. VII.

[109] A. S. F. , Diplomatico Camaldoli, 1271 gennaio 13, Alberto abate, dà a livello a prete Scolario, pievano della pieve di Morrona, tutte le terre , vigne etc. poste intorno alla pieve, per un periodo di 26 anni, l’affitto annuale è di 18 quarre di grano e lire 25.

[110] Cfr. A.V.V., 1224 marzo 15, Martino abate dà a livello perpetuo a Beruccio fu Periccioli un pezzo di terra con ogni appartenenza ed edifici, per 4 quarre di grano all’anno, pena 20 libbre. Sec. XIII, dec. III, n. XII. 1231 gennaio 23, Martino abate, per migliorare il monastero, dà a prete Giovanni, cappellano della chiesa di s. Nicola di Morrona un pezzo di terra lavorativa, posto nei confini di Morrona in luogo detto “La Valle”, censo annuo 2 denari di moneta pisana, pena il doppio. Sec. XIII, dec. IV, n. I. 1240 febbraio 11, Simone abate, per utilità e migioramento del monastero, dà in locazione a Boninsegna fu Brinichi di Gallicano, per 12 anni, un mulino posto nei confini di Soiana in luogo detto “Pantano”, con casa, terra ed ogni sua pertinenza, pena 50 libbre se in tali anni il mulino non avesse funzionato e macinato bene; il censo annuo consisteva in “staria decem et octo boni grani et staria decem et octo inter ordeum et mileum”. Sec. XIII, dec. IV, n. XLIX. 1245 luglio 12, Benedetto abate dà a livello ad Enrico pievano della pieve di Morrona un pezzo di terra in parte vignata, posto vicino alla pieve e la metà di un altro pezzo di terra boscata vicino al primo, lavorato dagli uomini di Morrona, dai quali il monastero riceve la decima; per un censo annuo di 8 quarre di grano buono, una libbra di incenso e al posto delle decime “et oblationum et primitiarum” 10 quarre di grano buono e 25 soldi di denaro pisano, pena 100 libbre. Sec. XIII, dec. V, n. VIII. 1255 dicembre 4, Michele abate dà in locazione a Bario di Casaioli e a Salimbene suo fratello, figli del fu Bergi di Aqui, un pezzo di terra lavorato a prato e giunchetto, posto nei confini di Aqui in luogo detto “Plano de Aqua viva”, per 24 anni, con l’obbligo di fare una “foneam” perché l’acqua scorra a valle del poggio ed un censo annuo di 6 quarre di grano, pena 10 libbre e il doppio del valore stimato se ci saranno danni. Sec. XIII, dec. Vi, n. XXXV. 1259 settembre 5, Michele abate, dà in locazione a prete Pane e Porro di Quarrata, rettore della chiesa dei ss. Bartolomeo e Nicola di Morrona “in vita sua tantum” “totam primitiam et oblationem populi communis Morrone” che spettavano al Monastero; il censo è di 10 soldi di denaro pisano annuo, pena il doppio; inoltre il prete si impegna di mantenere la cappella nello stato attuale, pena 100 libbre di denaro pisano. Sec. XIII, dec. VI, n. LXIX.

A.V.V., 1279 giugno 9, Bonaccorso fu Spinello, sindaco e procuratore del monastero di Morrona, col consenso di Gerardo abate, dà in locazione a Bontalento fu Provinciale e a Provinciale detto Ciale fu “Menculi” entrambi di aqui, un pezzo di terra boscata posta nei confini di Aqui in luogo detto “Pozzale” e la quarta parte di un altro terreno posto in luogo detto “Catasta sine Asino Bonanno”, per un periodo di 25 anni; censo annuo di 25 denari pisani, pena 50 denari pisani e l’obbligo di non sub locare. Lo stesso documento contiene la locazione di altri 7 pezzi di terra a uomini di Aqui, per complessive 1083 staiora, la maggior parte dei quali aveva molti frutti ed olivi. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXX. 1298 luglio 22, Alberto abate dà in locazione a Brandino fu Bonaccorsi di Morrona un pezzo di terra “agrestum”, posto nei confini di Aqui in luogo detto “Steccaia”, per 29 anni ed un censo annuale di tre quarre di grano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. X, n. XXXII.

[111] V. nota n. 95 del presente lavoro.

[112] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. X, n. I.

[113] Ibid.

[114] Ibid.

[115] Ibid.

[116] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. V, n. II.

[117] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. VIII, n. LXXIII.

[118] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. XLVI.

[119] Ibid.

[120] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. LX.

[121] Cfr. P. Guidi a cura di, Rationes Decimarum…cit., I, pp. 153 e 161.

[122] Cfr. P. Guidi a cura di, Rationes…cit., II, p. 200.

[123] Cfr. A.S.C.V., Sinodo Belforti, c. 54 r.

[124] <<…quam predecessores eorum decimas, terras, domos, vinea, ortos, silvas, prata, pascua, remora, molendina possessiones iura iurisdictiones et quedam alia bona ipsius monasterii datis super hoc licteris confectis exinde publicis instrumentis interpositis iuramentis factis renuntiationibus et penis adiectis in gravem ipsius monasterii lesionem, nonnullis clericis et laicis aliquibus eorum ad vitam quibusdam vero ad non modicum tempus et aliis perpetuo ad firmam vel sub censu annuo concesserunt quorum aliqui super hiis confirmationis licteras in forma comuni dicuntur a Sede Apostolica impetrasse…>>. A.V.V., sec. XIII, dec. X, n. XLIII (manca la bolla, esiste solo la traccia). Per la comunità di Chianni si veda L. Fabbri, Le comunità di Chianni e Rivalto (secc. XI-XIX) Chianni delle Colline Pisane, “Rassegna Volterrana” anni LXI-LXII 1987, p. 35.

[125] Cfr. L. Fabbri, Le comunità…cit., p. 35.

[126] Cfr. A.V.V., 1318 febbraio 7, Helia fu Upezini di Morrona vende a Gherio fu Inghirami dello stesso luogo, ricevente per il monastero un pezzo di terra campia, posta nei confini di Morrona in luogo detto “Alipoli”, con ogni diritto, di 2 staia e 45 per 5 denari pisani minuti. Sec. XIV, dec. II, n. LVIII. 1321 gennaio 12, Giovanni detto Vanni fu Brandino, Simonetta vedova di Brandino e Contessa moglie di Vanni, per loro necessità ed indigenza, vendono all’abate Bartolo un pezzo di terra campia posta in luogo detto “Ghiermandi” con ulivi, per 20 lire di soldi pisani. Nello stesso documento è redatta anche la locazione che l’abate fa allo stesso Vanni per 10 anni con censo annuo di 2 staia di grano buono da soddisfarsi per la festa di Santa Maria in agosto, pena il doppio. Sec. XIV, dec II, n. (mancante); 1321 giugno 30, Nino fu Ganeto e Guida sua moglie e figlia di Piero di Morrona, a causa di necessità e indigenza, vendono a Gheri fu Inghirami dello stesso luogo, ricevente per il monastero un pezzo intero di terra campia e boscata, posto nei confini di Morrona in luogo detto “Vallarcho”, per 2 lire e 10 soldi di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XXIV, dec. III, n. IV. 1321 ottobre 13, Vanni fu (paternità illeggibile) vende a Gherio fu Inghirami, procuratore del monastero, un pezzo di terra con casa posta nei confini di Morrona in luogo detto “Le Date”, per 5 lire di denaro pisano minuto, pena il doppio. Sec. XIV, dec. III, n. XII. 1329 febbraio 10, “Tura quondam Bandi” di Morrona e suo figlio Guido vendono a  Bartolo abate del monastero ogni edificio posto nel loro “casalino” con ogni diritto, ubicati in Morrona, per 20 lire di denaro pisano minuto, pena il doppio. Sec. XIV, dec. III, n. CXIII. 1332 gennaio 23, Bonamico fu Bonaccorsi di Ceppato vende a Bartolomeo abate del monastero un pezzo di terra posto nei confini di Aqui in luogo detto “Mercatale” con ogni diritto, per 20 lire di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIV, dec. IV, n.XII.

[127] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. III, n. LXXV. Il documento è rogato nella casa del testatore da Michele fu Pardi notaio imperiale il 25 marzo 1324.

[128] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. IV, n. XXI. Il rogito risale all’8 giugno 1334.

[129] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. XXX. L’atto fu rogato l’8 giugno 1306.

[130] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., I, pp. 216-222. In toscana il termine divenne accomandigia e si applicò soprattutto in diritto pubblico per indicare il riconoscimento di un’autorità superiore fondato su espliciti rapporti di sudditanza.

[131] G. Volpe, Studi…cit., p. 20.

[132] Per il primo documento Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. LIV. Il rogito fu fatto da Gerardo fu Bonaccorsi di Cisanello notaio imperiale, davanti al pezzo di terra del monastero in luogo detto “La Croce”. Dai toponimi in cui erano posti questi beni, possiamo notare che l’abate tendeva a disfarsi dei possessi più lontani dal monastero, cercando di impossessarsi di quelli che invece erano ubicati nelle immediate vicinanze, ma appartenenti a privati cittadini. Questo lo possiamo vedere anche dal documento relativo all’anno 1320 in cui sono rogate due permute relative a due case poste nel castello di Morrona e a terre distanti dall’abbazia con altri beni molto più vicini; il cattivo stato di conservazione di questa pergamena impedisce di rilevare altre notizie. Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. II, n. LXVII. Per il secondo documento Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. V, n. XXVIII.

[133] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. XXXV (1307 giugno 28); sec. XIV, dec. II, n. VIII (1311 gennaio 17); sec. XIV, dec. II, n. XIII (1312 febbraio 5); sec. XIV, dec. II, n. ? (1316 marzo 17); sec. XIV, dec. II, n. XLIX (1317 luglio 29);  sec. XIV, dec. II, n. LVII (1318 febbraio 7); sec. XIV, dec. II, n. LIV (1318 ottobre 2); sec. XIV, dec. III, n. V (1321 luglio 8); sec. XIV, dec. III, n. XXV (1322 agosto 20); sec. XIV, dec. III, n. XVIII (1322 settembre 12); sec. XIV, dec. III, n. XXIX (1322 settembre 13); sec. XIV, dec. III, n. IX (1322 settembre 14); sec. XIV, dec. III, n. LV (1327 febbraio 4); sec. XIV, dec. III, n. CXV (1330 luglio 30); sec. XIV, dec. IV, n. VII (1332 giugno 30); sec. XIV, dec. V, n. X (1343 settembre 22); sec. XIV, dec. V, n. VII (1343 novembre 14); sec. XIV, dec. V, n. XV (1345 dicembre 10).

[134] AVV., 22 ottobre 1315, sec. XIV, dec. II, n. XXXV.

[135] Ibid.

[136] AVV. 3 settembre 1318, sec. XIV, dec. II, n. LII.

[137]AVV. 14 ottobre 1322, sec. XIV, dec. III, n. XXXIV.

[138] AVV. 29 dicembre 1333, sec. XIV, dec. IV, n. XVII.

[139] Cfr. AVV. 30 dicembre 1335, sec. XIV, dec. IV, XXXV.

[140] Cfr. AVV. 6 giugno 1340, sec. XIV, dec. IV, n. LXXI.

[141] Cfr. BCV (Biblioteca Comunale Volterra), Ms. 9335, Index Membranorum Archivi Abbatie SS. Iusti et Clementi volterrani, pars III, Studio D. Jos. Gherardini abbatis, anno MDCCLXIX.

[142] Ibid.

[143] AVV, sec. XIV, dec. V. n. V.

[144] Cfr. G. Mariti, Odeporico…cit.

[145] ASF., Camaldoli Appendice, n. 83, cc. non numerate.

[146] Ibid.

[147] Ibid.

[148] Ibid.

[149] Ibid.

[150] Ibid.

[151] Ibid

[152] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. II, n. XVI.

[153] Cfr. G. Targioni –tozzetti, Relazione…cit.,I, pp. 216-222; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., VI, p. 589 in appendice; G. Mariti, Odeporico… cit. Il Mariti riporta il documento per esteso.

[154] G. Mariti, Odeporico… cit.

[155] Ibid.

[156] Ibid.

[157] Ibid.

[158]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, pp.186-187, n. 76; Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798.

[159] Cfr. A.S. F., Catasto religiosi, n. 193, cc. 606 v.-611 r.

[160] Ibid.; si veda anche: Dizionario della lingua italiana, Accademia della Crusca, ed. IV (1729-1738), v. 5, p. 64.

[161] Ibid.

[162]A.S.F., Catasto religiosi, n. 193, cc. 606 v.-611r. “ 1427-1429. Vescovado di Volterra. Sostanze del Monastero della Badia di Morrona chontado di Pisa dell’ordine di Chamaldoli.

In primo: Un pezzo di terra parte champia chon ulivi e altri frutti e parte vignata, èosta nei chonfini di Morrona; lavoralo giusto di Giovanni d’Andreadi Romagna; rende ne l’anno di metà a misura pisana: biada staia 6 a soldi 6 a sacca; vino barili 30 a soldi 6 il barile; olio orcia 8 a lire 5 lorco. Uno podere posto in detti chonfini di Morrona, tenello Francescho di Puccino e Solvestro suo chompagno da Morrona. Prende l’anno di fitto : grano saccha 20 a soldi 45 il saccho (la stima del grano è sempre la stessa: soldi 45 a sacco). Uno podere posto nei predetti chonfini di Morrona, tenelo Antonio di Lupo da Morrona e prendene l’anno di fitto: grano saccha 6 e mezzo. Uno podere posto nei chonfini di Morrona, tenelo Giuliano di Ceo da Morrona, prendene l’anno di fitto: olio libbre 6, grano saccha 1. Uno pezzo di terra ulivata posta in esso predetti chonfini di Morrona, tenello Michele di Batino da Morrona, prendene l’anno di fitto grano saccha 10. Due pezzi di vigna posti in esso predetti chonfini, teneli Antonio di Lupo, prendene l’anno di fitto vino barili 2 a soldi 20 il barile. Due chase poste nel castello di Morrona, tene l’una Lorenzo di Ruffia da Cholle Montanino e danne di pigione l’anno lire 5, tiene l’altra Lorenzo di Nanni barbiere da Morrona e rende l’anno lui e sua famiglia si veda oltro………. Uno podere posto nei sopradetti chonfini di Morrona, luogo detto a Ginestrello, tenello Giovanni da Soiana, prende l’anno di fitto grano saccha 7. Uno pezzo di terra cho mulini poste ne predetti chonfini di Morrona, Tiello Biagio di Vannuccio da Morrona, rende l’anno di fitto olio libbre 7 a soldi 25 denari 6 a libbra. Cierti pezzi di terra posti ne sopradetti chonfini di Morrona, tiegli Sobene di ser Guido da Soiana e rendene l’anno di fitto grano saccha 3. Più e più pezzi di terre posto per metà ne sopradetti chonfini di Morrona e per metà ne chonfini di Soiana, tiegli Andrea di Lucha da Soiana e rendene l’anno di fitto grano saccha 2, olio libbre 2 a soldi 25 e denari 6. Un pezzo di bosco chon ghianda posto nel predetto chonfine di Morrona, tiene Bartolomeo di Ricchino da Soiana e rende l’anno di fitto in denari lire 6. Più e più pezuoli di terra poste nelle chonfini di Soiana, tielle Marcho di Giovanni e messer Chelino da Soiana e rendene l’anno di fitto grano quarre 3 a soldi 11 e denari 3 la quartina. Più e più pezzuoli di terra posti nelli sopradetti chonfini di Morrona, li quali tenghono le predette persone e Salvestro da Morrona e rendene l’anno di fitto grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quartina. Antonio di Bartolomeo da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quarra. Pasquino di Puccino da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quartina. Giovanni di Puccino da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Lando di Ghaddo da Morrona dà d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Pieri d’Antonio di Lelmo da Morrona dà d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Uno di fitto d’uno fattoio posto nel chastello di Morrona del quale so l’anno di mezzo ollio libbre 12 a soldi 25 e 6 a libbra. Più e più pezzuoli di terra posti nelli detti chonfini di Morrona e per metà nelli chonfini di Terricciuola, li quali sono parte champie e parte vignate, le quali tenghono le frascritte persone, cioè: Binduccio di Giovanni e Antonio di Lorenzo Celino di Turo e Nicholaio di Brettone e Bartolo di Landuccio e Francesco fabro da Terricciuola, rendono tutto l’anno di fitto i detti nominati di sopra: grano saccha 2. Nelli chonfini dello chomune del Bagno a Aqua due mulini, cioè luno teragno e laltro francescho, de quali lo mulino terragno macina ello mulino francescho no perché sotto di stima tiegli Marcho d’Andrea di Romagna e rendone l’anno di fitto grano saccha 25. Ella bate di sopradetta badia è tenuto alla metà della spesa che acchonciasse per rispese delli detti mulini. Una vigna posta all’orto  alle sopradette mulino, la quale tiene Pagholo di ser Tomaso da Ceuli e rendene l’anno di fitto in danari lire 7. Un pezzo di terra posta nei sopradetti chonfini del Bagno a Acqua, la quale si chonosce come la chiudenda della bate, rende l’anno di fitto grano saccha 1, olio libbre 1 a soldi 25 a libbra. Uno podere posto nei sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto la Chaldana, la quale tiene Lorenzo di … (illeggibile) del Bagno e rende l’anno di fitto grano saccha 16. Uno pezzo di terra posto nelli sopradetti chonfini del Bagno in luogo detto la Serra, la uale tiene Tomeo di Giovanni lo Casamulo e rende l’anno di fitto grano saccha 8 a soldi 45 a saccha.Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini, tiello Checcho di Guccio e Tommeo di Giovanni e Giovanni d’Ugholino e Tome..lo dal Bagno, rendone l’anno di fitto grano saccha 8. Un pezzo di terra parte champia e parte pratata posta ne sudetti chonfini del Bagno, la quale tiene Giubileo da Parlascio e rende l’anno di fitto grano saccha 6. Un pezzo di terra pratata posto ne sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto Acquaviva, lo quale tiene Calisto di Pagholo e Biagio di Bartolo da Parlascio e rendene l’anno di fitto grano saccha 4. Uno podere posto ne sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto in Gojano, lo quale tiene Lenzo di Giovanni da Morrona e prendene l’anno di fitto grano saccha 19. Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini del Bagno, lo quale tiene Bartolo di Cinovo dal Bagno e rendene l’anno di fitto grano saccha 1. Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini del Bagno, la quale tiene Niccholao di Giovanni e rende l’anno di fitto in denari lire 1 soldi 2. Più e più pezzi di terra parte champia e parte pratata posta in de sopradetti chonfini del Bagno, gli quali tiene Mozano d’Andrea da Chasciana e rendene l’anno di fitto grano saccha 6. Pezzi tre di terra posti ne sopradetti chonfini del Bagno, li quali tiene Niccholaio di Nardo di Chasciana e rendene l’anno di fitto grano saccha 6. Uno pezzo di terra champia posta ne sopradetti chonfini del Bagno, lo quale tiene Stefano di Giannello da Chasciana e rende l’anno di fitto grano saccha 1. Uno pezzo di terra champia posta ne sepredetti chonfini del Bagno in luogo detto Ginestreto, lo quale tiene Rinaldo di Petraia e rendene l’anno di fitto grano saccha 2. Più e più pezzi di terre chollinare posti ne sopradetti chonfini del Bagno in luogo detto il Poggio delle Forche,li quali tiene Puccino di Giovanni da Chasciana e Marcho di Bartolo del Bagno e rendone l’anno di fitto grano saccha 3. Gl’infrascritti sono coloro li quali sono censuari e livellari della sopradetta Badia, cioè in primo: Antonio di Lippo da Morrona dà di censo l’anno per una chasa posta nel chastello di Morrona soldi 5 denari 6 (8 settembre). Ser Guido da Soiana dà di censo per una chasa posta nel chonfine di Soiana e danne di censo l’anno lo dì di Santa Maria di settembre lire 5 soldi 0 denari 6. Vanni d’Orso del Bagno dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria di settembre soldi 16 denari 6 d’uno chaneto e d’una ruota da rotare fuori, posta in sulla acqua del Bagno. Duto di Raiano da Chaprona dà di censo l’anno (8 settembre, per dei beni) posti in Petraia soldi 11. Lo prete di Santo Donato di Terricciola dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria sopradetta libbre 1 di rena perché lo detto bade a parte di portinaggio della detta el detto di Santo Donato di Terricciuola. Lo pivano di Morrona dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria sopradetto lire 2 soldi 5 per la chiesa di Santo Bartolo da Morrona per la pieve di Santa Maria a Ginestrella.”

[163] Ibid.

[164] Ibid.

[165] Ibid.

[166] Ibid.

[167] O. M. Baroncini, Chronicon…cit., p. 124 (121 ter).

[168] Cfr. AS.P., Diplomatico n. 23, R. Acquisto Monini, p. 39.

[169] Cfr. AVV., sec. XII, dec. VII, n. VI; sec. XII, dec. VII, n. XIII; Nella prima pergamena non è mai citato il nome dell’abate di Morrona, ma da altri documenti siamo a conoscenza che nel 1153 era abate Iacopo e nel 1168 Ugo, quindi non possiamo stabilire con esattezza quali dei due abati fu quello che prese parte alla lite. Cfr. anche F. Schneider, Regestum…cit., pp. 67-68, n. 190; J. B. Mittarelli.Costadoni, Annales…cit., III, p. 460 in appendice.

[170] AVV., sec. XII, dec. I, n. VI. Il documento fu rogato da Guido notaio del Sacro Palazzo in Negoziana, con pena del doppio del beneficio e 200 soldi d’argento.

[171] AVV., sec. XII, dec. VII, n.VI.

[172] Ibid.

[173] Ibid.

[174] Ibid. La sentenza fu pronunciata nella pieve di Aqui; nella subscriptio troviamo: Ildebrando giudice, Gerardo console, Ildebrando giudice ordinario, Gerardo di Gunfredo console e assessore e “Uguicione de Casanvilia” notaio e giudice ordinario, che “hoc laudamentum scripsi”.

[175] I documenti concernenti questo equivoco cominciano l’anno 1153 e terminano nel 1258. Cfr. G. Mariti, Odeporico…cit.

[176] AVV, sec. XIII, dec. X, n. XV; F. Schneider, Regestum…cit., n. 249.

[177] Ibid.

[178] Cfr. C. Violante, Pievi …cit., pp. 697-698  Pievi e Parrocchie nell’Italia centrosettentrionale durante i secoli XI e XII, Milano 1974.

[179] AVV., sec. XIII, dec. X, n. IX.

[180] AVV. Sec, XIII, dec. II, n.X.

[181] Ibid.

[182] Ibid.

[183] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XVII.

[184] Ibid.

[185] Ibid.

[186] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XXXIX.

[187] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XLII.

[188] AVV:, sec. XIII, dec. III, n I.

[189] AVV, sec. XIII, dec. IX, n. XXX.

[190] Ibid.

[191] AVV. Sec XIV, dec. V, n. XIII.

[192] Ibid.

[193] Ibid.

[194] AVV., sec.XIII, dec. III, n. VIII.

[195] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. III, n XX.

[196] AVV. sec  XIII, dec. III, n. XXVII.

[197] Cfr. AVV. sec.. XIII, dec.IV, n. XLIV.

[198] L’11 febbraio 1240, Simone abate, per utilità e migioramento del monastero, dà in locazione a Boninsegna fu Brinichi di Gallicano, per 12 anni, un mulino posto nei confini di Soiana in luogo detto “Pantano”, con casa, terra ed ogni sua pertinenza, pena 50 libbre se in tali anni il mulino non avesse funzionato e macinato bene; il censo annuo consisteva in “staria decem et octo boni grani et staria decem et octo inter ordeum et mileum”. AVV., Sec. XIII, dec. IV, n. XLIX.

[199] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. III, n. XXX.

[200] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec.IV, n. IV.

[201] Cfr. AVV, sec. XIII, dec. IV, n. VIII.

[202] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. IV, n. IX.

[203] Cfr. AVV., sec.XIII, dec. IV, n. XXVII.

[204] AVV. Sec:XIII, dec. IV, n. XXVIII.

[205] Ibid.

[206] Cfr. AVV. Sec.XIII, dec. IV, n. XXIX. I nomi dei quattordici uomini sono i seguenti:Gerardo molinaius de Morrona, Ranoctinus Mainecti, Geniduccius quondam Januensi, Ubaldus quondam Riciardini, Junta quondam Corboli, Hormanectus quondam Gacti, Ranentus et Rustichellus germani quondam Io…anecti, Bertoldus quondam Carbonis, Rubertus quondam Vernacci, Pollarious quondam Carbonis, Jambone quondam Bernardini, Hormanecttus quondam Guidonis, Bonesigna quondam Bencivenni”.

[207] Cfr. AVV., sec.XIII, dec. IV, n. XXXI.

[208] Cfr. AVV:; sec.XIII, Dec. IV n. XXXII.

[209] Cfr. L. Schiaparelli, Regesto di Camaldoli, Loescher 1907, T. IV, pp. 63-64.

[210] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. V, n. XV.

[211] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VI, nn. XXV e XXV bis; F. Schneider, Regestum…cit., nn. 664-665.

[212] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VI, n. XXX.

[213] AVV., sec.XIII, dec. VI, n. XXXII; A.S.F., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 396, n. 64.

[214] Cfr. ASF., Diplomatico Camaldoli; Camaldoli, San Salvatore (eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680.

[215] Cfr. ASF., Camaldoli appendice, n. 89, c. 45 v. e r.

[216]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 398, n. 79.

[217]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 399, n. 82.

[218] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VIII, n. XXXIV

[219] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXI. Il  documento è molto lungo. Si cfr. anche F. Schneider, Regestum…cit., nn. 845-850, pp. 286-287. Lo Schneider riporta l’anno 1277, forse riferisce la data allo stile pisano?

[220] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VIII, n. LXXI.

[221] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXII; O. M. Baroncini, Chronicon Camalduli, ex Scripturis eius decerp-tum et ad nostra tempora deductum, Biblioteca di Arezzo ms. 343, p. 124 (121 ter)”Transacta quoque est anno 1278, stylo Pisano, er Mense octtobri Differentia AquaeductusMolendini ipsius Monasterii, quod ad Balneum de Aquis dicitur, ut D. Feus plebanus S. Mariae de Morona suisque successores praedictum acqueductum velut proprium praefati Monasterii semper liberum et expeditum manutenere teneantur, et D. Abbas Gerardus de Morona, atque D. Jacobus eremita vicecomes Camalduli in plebem praedictam transtulerunt, atque plebano tradiderunt unam petiam terrae star. XVI, loco qui dicitur Pantano in Plebario de Aquis pacto quod semper pro Mensa dictae Plebis sit, nec unquam vendi aut transferri possit, quae rata habuit confirmans D. Paganellus episcopus Lucanus, manu Guidonis Petri notarii”.

[222] AVV., sec. XIII, dec. X, n. XXX.

[223] Cfr. AVV, sec.XIII, dec. X, n. XLIII esiste solo traccia della bolla.

[224] Cfr. AVV, sec. XIV, dec. I, n. XXVIII

[225] Cfr. AVV, sec. XIV, dec.II, n. II.

[226] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., I, p. 208)

[227] Cfr. AVV, sec. XIV, dec. II, n. XII.

[228] Cfr. AVV., sec. XIV, (decade e numero mancanti nel documento).

[229] Cfr. AVV. Sec. XIV, dec. III, n. LXXX.

[230] Cfr, G. Mariti, Odeporico… cit.

[231] AVV., sec. XIV, dec. III, n. LXXXII.

[232] AVV. Sec. XIV, dec. I, n. XXVI.

[233] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. II, n. XLVIII.

[234] AVV., sec. XIV, dec. III, n. LXVII. Il toponimo è tuttora esistente.

[235] Cfr.  AVV., sec. XIV, dec. IV, n. II?

[236] Cfr. AVV., sec.XIV, dec. IV, n. XXXIX

[237] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. IV, n. XXVI.

[238] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. IV, n. XXVI.

[239] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. V, n. XIII.

[240] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680).

[241] G. Mariti, Odeporico…cit.

[242] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680). V. pag. 27.

[243] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680).

[244] Cfr. ASF. Camaldoli appendice, n. 83, cc. non numerate; B.G.V. (Biblioteca Guarnacci Volterra), Repertorio dell’Achivio di Badia, G. Gherardini MDCCLXIX, Inventario 9335.

[245] Cfr. A.S.C.V., Codice 12516, T, c. 72 v. e r.; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., t. VII, pp. 315-316.

[246] Ibid.

[247] Appartenente alla nobile famiglia De’ Pazzi, di centrale importanza nella storia di Firenze.

[248] Ibid.

[249] Probabilmente si tratta del priore del monastero camaldolese di Santa Maria degli Angeli, fondato nel 1295 da Guittone d’Arezzo, appartenente all’ordine dei frati Gaudenti, in luogo detto “Cafaggio”, fuori del secondo cerchio delle mura, dove, attualmente è pazza San Michele Visdomini e via de’ Servi. Nel 1348 l’Eremo venne ingrandito e furono incorporate varie case appartenute alle famiglie degli Alfani e degli Adimari. Nel 1378, era stato trsformato in deposito per i cittadini possidenti: fu saccheggiato nel 1378 durante la rivolta dei Ciompi. Oggi resta la ex chiesa di Santa Maria degli Angeli in via Alfani a Firenze. Cfr. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_Santa_Maria_degli_Angeli_(Firenze)

[250] Ibid.

[251] Ibid.

[252] Ibid.

[253] Ibid.

[254] Ibid.

[255] Ibid.

[256] Ibid.

IN MEMORIAM

TALAMONA 6 novembre 2015 commemorazione della festa del 4 Novembre

UN RICORDO DEI CADUTI PER LA PATRIA E PER LA LIBERTA’
Come ogni anno, Talamona ricorda una pagina importante della Storia. Una pagina fatta di grandi ideali e di enormi sacrifici. Talamona ogni anno commemora il 4 novembre, una festa nazionale in onore delle forze armate e ad imperituro ricordo dei caduti di ogni guerra e lo fa anche grazie alla collaborazione del Gruppo Alpini che ogni 4 novembre (oppure ogni domenica immediatamente successiva) organizza una giornata conviviale al proprio tempietto, per ritrovarsi tutti uniti nel ricordo del passato ad apprezzare la pace del presente. Quest’anno l’evento che chiamerà a raccolta la comunità sarà di fronte al monumento dei caduti. Cio che non cambia è il fatto che, come avviene da circa tre anni a questa parte, anche la Casa Uboldi, in concomitanza con queste giornate, dedica una delle sue ormai proverbiali serate del venerdì ad approfondimenti su questa ricorrenza, dunque a riflessioni sulle due guerre mondiali, memorie e testimonianze e di conseguenza sui valori della patria, della pace e della libertà. Eccoci dunque ancora qui questa sera a partire dalle ore 20.30 per un nuovo viaggio nel passato “tutti qui così numerosi e soprattutto tanti giovani per onorare, per rendere un omaggio in più alle migliaia di eroi che hanno sacrificato il bene supremo dell’uomo, cioè la vita, affinchè oggi tutti noi si possa vivere in pace” così l’assessore alla cultura Lucica Bianchi ha presentato, dopo i doverosi ringraziamenti di rito, questo nuovo evento che comprende anche la partecipazione degli allievi della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo Giovanni Gavazzeni di Talamona attraverso disegni da loro realizzati e presentati, messi in mostra insieme ad una selezione di disegni eseguiti nell’arco degli ultimi trent’anni dagli ormai ex allievi del medesimo istituto.
Saluto del sindaco Fabrizio Trivella
A questo punto la parola è passata momentaneamente al sindaco di Talamona Fabrizio Trivella che ha manifestato la sua gioia di fronte a tanta numerosa partecipazione popolare, soprattutto per la presenza delle giovani generazioni “questa sera ripercorreremo delle pagine molto importanti della nostra Storia che è fondamentale continuare a ricordare” ha esordito il sindaco che tra le altre cose ha ricordato come il 4 novembre non significa per l’Italia solo la cessazione delle ostilità con l’Austria e la vittoria, ma anche, proprio grazie a tale vittoria, il definitivo raggiungimento dei suoi confini storici (in realtà non proprio definitivo perché dopo il secondo conflitto mondiale, proprio in quelle stesse zone sono state apportate ai confini italiani ulteriori modifiche che a tutt’oggi perdurano ndr) e cio significa che per l’Italia il 4 novembre è festa nazionale, data in cui in seguito è stata istituita la giornata delle forze armate proprio in ricordo dei tanti soldati periti nel raggiungimento dell’unità nazionale, per la libertà di questa patria costruita con tanta fatica “il ricordo dei soldati caduti deve essere in primo luogo un inno alla pace” ha proseguito il sindaco che ha voluto poi condividere con gli astanti un aneddoto personale risalente ai suoi vent’anni. Il nonno alpino lo portò con sé ad una riunione di suoi commilitoni che si erano persi improvvisamente di vista all’indomani dei fatti dell’8 settembre 1943. Non tutti purtroppo erano li a ricordare. C’era chi non ce l’aveva fatta a scappare e tornare a casa, chi non si era salvato. Quelli che c’erano però, ricordavano con trasporto quanto avevano vissuto anche a nome di chi non c’era più. “questa esperienza è stata molto importante per me per toccare con mano quello che altrimenti sarebbe rimasto solo un racconto indiretto di eventi che per me, così come per tutti i più giovani, di allora e ancor più di adesso, sarebbero rimasti eventi lontani di cui non sarebbe stato possibile comprenderne la vera entità. Spero che questo evento aiuti a comprendere il valore del sacrificio per la patria e per la pace”
La Grande Guerra. Un video per ricordare
A questo punto l’assessore Lucica Bianchi ha ripreso la parola e ha proposto la visione di un video. Le immagini dei soldati lanciati all’attacco tratte da video originali di repertorio erano intervallate dal racconto degli eventi fondamentali del conflitto sul fronte alpino. Si riporta qui di seguito il testo che scandiva le immagini (non eccessivamente crude per non urtare la sensibilità dei presenti ha poi specificato l’assessore).
L’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria il 24 maggio 1915. Il comando delle forze armate italiane fu affidato al generale Luigi Cadorna. A partire dal 15 maggio 1916 l’esercito austriaco intraprende una vasta operazione militare passata alla storia come strafexpedion. A luglio Cadorna prepara una nuova offensiva sulla sponda destra dell’Isonzo nei pressi di Gorizia. Il 9 agosto si svolge la battaglia di Gorizia. L’attacco provocò la morte di 21.630 soldati italiani e 52.940 feriti. Il 24 ottobre 1917 inizia la battaglia di Caporetto. L’esercito austro-tedesco avanza per 150 km in direzione della pianura. Le truppe italiane, impreparate ad una guerra difensiva e duramente provate dalle precedenti battaglie dell’Isonzo, non ressero l’urto delle forze nemiche e dovettero ritirarsi fino al fiume Piave. Cadorna aveva imputato l’esito infausto della battaglia alla viltà dei suoi soldati, ma all’indomani della disfatta venne sostituito con Armando Diaz. Dopo Caporetto le operazioni belliche si concentrarono sull’altopiano di Asiago, sul monte Grappa e lungo il Piave. Il 29 ottobre 1918 l’Austria chiede l’armistizio, il 3 novembre un reparto di bersaglieri sbarca a Trieste. Il 4 novembre il generale Armando Diaz annuncia la vittoria.
Dopo questa cronaca, intervallata dalle immagini e accompagnata da un sottofondo musicale al tempo stesso malinconico e solenne, il video si conclude con l’audio originale del proclama di Armando Diaz.
Intervento dell’assessore Lucica Bianchi
Stasera parleremo di guerra, parleremo di eroi, parleremo di valori, ma soprattutto parleremo della vita perché le migliaia di giovani eroi erano soliti scrivere, nei loro diari, nelle loro lettere, nei loro testamenti che un soldato che muore per la patria non è mai morto. La guerra che scoppiò nel 1914 fu un avvenimento nuovo nella storia dell’umanità perché fu la Prima Guerra Mondiale, una guerra che vide lo scontro di tutti i grandi stati che metteranno le loro capacità produttive nel campo dell’industria moderna e della tecnica per preparare strumenti di offesa e difesa. Fu una guerra di massa, combattuta per terra, per mare e nell’aria con l’impiego di armi mai usate prima: carri armati, aerei, sommergibili, gas e con il ricorso a nuovi mezzi di lotta economica e psicologica. Viene combattuta dai belligeranti sino all’esaurimento delle forze. una guerra le cui vittime e i cui danni andarono ben oltre qualsiasi calcolo previsto e finì col portare radicali sconvolgimenti all’economia internazionale, alla geografia mondiale aprendo così la via a ripercussioni e conseguenze che dureranno a lungo anche nel dopoguerra. L’umanità deve mettere fine alla guerra oppure la guerra metterà fine all’umanità. Ho scelto queste parole, che possono sembrare bibliche, perché biblico sotto molti aspetti fu l’evento della Grande Guerra. Parliamo di cinque anni di ostilità, cinque anni di conflitto mondiale che sembrano essere stati dimenticati troppo in fretta, oscurati dalla successiva Seconda Guerra Mondiale studiata, trattata e documentata, ricordata quasi ad oltranza da tutti i media ed è un grave peccato nonché errore, perché la Prima Guerra Mondiale ha gettato quasi tutte le basi della seconda, creando i presupposti per la nascita di movimenti politici e avvenimenti storici che hanno segnato il futuro, di dittature che hanno avuto un ruolo predominante nell’arco di tempo che va dal 1920 al 1945 e in alcuni paesi anche oltre. Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiara guerra all’Austria-Ungheria. Comincia così per l’Italia una guerra senza precedenti nella sua Storia, una guerra mondiale con ben ventuno Paesi coinvolti. Nel 1915 un soldato dal fronte occidentale il cui nome non ci è mai stato dato sapere scriveva la sua ultima lettera a casa e nel finale di questa lettera si legge: se romperete il patto con noi che moriamo oggi, noi non riposeremo mai, anche se spunteranno papaveri su tutti i campi della Terra. Allora credo che sia doveroso per noi ricordare, riflettere, fermarci un attimo, giusto il tempo per rivolgere un pensiero, un semplice pensiero a questi eroi perché i nomi incisi su tutti i monumenti e anche sul nostro monumento dei caduti non sono solo parte di un elenco, ma sono dei giovani che hanno offerto la loro vita, il loro sangue, affinchè oggi, quei nobili ideali che hanno animato il loro coraggio possano animare le nostre vite. Il 4 novembre 1918 segnò la fine di una lunga guerra che aveva insanguinato tutta l’Europa. L’Italia vi aveva partecipato per liberare le province di Trento e Trieste, per ristabilire quindi i suoi confini la dove la natura li aveva già segnati naturalmente con una corona di meravigliose montagne. Più di seicentomila soldati italiani morirono e alla loro memoria ogni comune dedicò un monumento o una lapide che ne reca incisi i nomi per sempre. Oggi onoriamo quei nomi, quei caduti, visitiamo questi monumenti leggiamoli quei nomi. Sono stati scritti per mantenere viva la memoria di chi è morto per dare una patria più grande e gloriosa tutta unita entro le linee che le Alpi scintillanti di ghiacci e i mari azzurri di acque profonde hanno per essa tracciato. Fermiamoci ogni tanto davanti al monumento, al nostro monumento, leggiamo i nomi su di esso incisi, ascoltiamo ogni tanto la voce dei giovani soldati talamonesi che dalla lapide del monumento a loro dedicato chiedono soltanto una cosa. Non essere dimenticati. Per tutte le vittime della guerra, per tutti gli eroi oggi il nostro ricordo e il nostro amore sono vivi e profondi.
La professoressa Maria Luisa Silipo e i suoi piccoli artisti in erba
È venuto ora il momento degli alunni della scuola media che “attraverso l’espressione artistica e il loro impegno molto sentito” ha introdotto l’assessore “ci tenevano a portare il loro tributo, il loro saluto di onore, di rispetto e di amore”. Ad introdurre i ragazzi la loro insegnante di arte Maria Luisa Silipo che li ha accompagnati in questo percorso di trasfigurazione della guerra nell’arte. “il lavoro che hanno svolto quest’anno gli allievi dell’Istituto Gavazzeni” ha spiegato la professoressa “ha colto i sentimenti che avrebbero potuto provare i reduci nel ritrovarsi oggi quindi da un lato la gioia di ritrovare le persone care ancora in vita, la fine della guerra, il ricongiungimento con la famiglia, ma dall’altra parte i ricordi dolorosi che rimarranno sempre impressi nel loro cuore e nei loro occhi. I ragazzi con molta sensibilità hanno colto questi sentimenti e li hanno espressi attraverso delle tavole grafiche” queste tavole sono state presentate dai ragazzi stessi o dalla professoressa. Eccone la carrellata. I lavori più significativi scelti tra quelli dei ragazzi di terza e di seconda.
Per prima la tavola di Giacomo Mario Menegola, una sorta di manifesto per la pace che lui stesso ha brillantemente spiegato.

1

Il disegno raffigura dei ragazzini che fanno il girotondo intorno ad un falò e indossano delle magliette su cui sono riportate le bandiere degli stati partecipanti alle due guerre mondiali, ognuno la maglietta della sua nazione. Nel falò brucia la bandiera del nazismo, a simboleggiare la fine della dittatura e di ogni ostilità in Europa, in più bruciano due fucili, simbolo ognuno di ciascuno dei due conflitti. Sopra i ragazzi sorge un sole che rappresenta l’unione europea con al centro una colomba che testimonia il lungo periodo di pace che l’Europa sta vivendo dalla fine del secondo conflitto mondiale e ha simboleggiato l’istituzione dell’Unione Europea. A sinistra troviamo il monumento per i caduti di Talamona con lo stemma del comune e la bandiera italiana che reca la scritta NON DIMENTICARE riferita alle guerre e ai caduti.
A seguire il disegno di Simone Riva presentato dalla professoressa

2

Sono raccolte alcune immagini della guerra e dei simboli di pace che sintetizzano il tema trattato in modo stilizzato e personale.
È stato poi il turno della piccola Nives presentare il suo disegno

3

Questo disegno rappresenta due mani che si stringono e insieme formano un tronco d’albero forte e resistente, un albero della pace che da come frutti l’amore, la comprensione e la generosità verso gli altri. Il simbolo deriva dalla copertina di un album dei Nomadi intitolato MA NOI NO. Di questo album particolarmente significativa è la canzone I RAGAZZI DELL’ULIVO che parla dei bambini e dei ragazzi vittime delle guerre dei grandi.
Ecco ora il disegno di Claudia e così come lei lo ha raccontato.

4

In questo disegno è rappresentato l’occhio del reduce di guerra al cui interno è rappresentata una vita nuova di speranza e felicità senza più dolore, ma con un albero spoglio ad indicare l’impossibilità di dimenticare quanto si è vissuto. anche i colori intorno all’occhio disegnato vogliono essere un simbolo di speranza futura di felicità e gioia
Il disegno di Karima raccontato da lei

5

Nel disegno è rappresentato il mondo che si vede dall’universo in cui regna la pace simboleggiata dalla colomba e dall’arcobaleno che scaccia via con la pioggia tutti i ricordi negativi che in qualche modo restano comunque, nonché dalle mani che si uniscono in un gesto di fratellanza formando un cuore.
Il disegno di Matteo raccontato dalla professoressa

6

È qui rappresentata una pagina e attraverso il disegno della penna antica si vogliono simboleggiare tutti i soldati che hanno scritto una pagina della Storia con il loro sangue
E ora quello di Leonardo Perlini sempre raccontato dalla professoressa

7

Si rappresentano qui due lacrime. In una, quella colorata, c’è la gioia e quindi il ritorno alla vita dei reduci mentre nell’altra grigia ci sono i ricordi della guerra appena trascorsa e dunque il dolore per quanto è accaduto.
A seguire il disegno presentato da Laura e Sofia

8

Un cannone che spara fiori come simbolo di pace semplice ma significativo. Un altro simbolo di pace è la colomba che porta un fiore nel becco. Sul cannone è posto come memoria un cappello degli alpini e in una pergamena sopra compare la scritta riportata al tempietto degli alpini.
Il disegno di Sebastiano Simonetta presentato sia dalla professoressa che da lui stesso

9

Un lavoro significativo che simboleggia il dipanarsi dei ricordi e degli eventi come se fossero le scene di un film riavvolte in una bobina che rappresenta anche in questo caso una sorta di ruota della pace che capovolge il corso degli eventi. In bianco e nero sono rappresentati i ricordi relativi alla guerra mentre a colori la nuova vita in epoca di pace. Un contrasto, quello tra guerra e pace, tra vita e morte, caratterizzato anche dalla scelta dei colori sullo sfondo.
In ultimo il disegno di Benedetta (purtroppo non tutti i disegni esposti sono stati commentati, ma alcuni erano comunque molto eloquenti).

10

Il disegno illustra la famosa canzone di Fabrizio De Andrè LA GUERRA DI PIERO un testo molto impegnativo, che mette in luce il fatto che, per la maggior parte degli uomini coinvolti nella guerra, non c’è onore o riconoscimento individuale o anche solo una sepoltura degna, migliore di un campo su cui crescono i papaveri. La maggior parte dei soldati non ha un’identità a noi nota e nemmeno una croce che ricorda il luogo dove sono caduti, dove sono sepolti. Il soldato della canzone incarna la follia della guerra. Vede un nemico, vuole colpirlo guardandolo negli occhi, ma viene a sua volta colpito e ucciso dal nemico stesso restando nel campo dov’è caduto su cui crescono i papaveri.
La canzone LA GUERRA DI PIERO è stata recitata da tutti i ragazzi in cerchio. Qui di seguito si riporta il testo.
Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma son mille papaveri rossi

lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente

così dicevi ed era inverno
e come gli altri verso l’inferno
te ne vai triste come chi deve
il vento ti sputa in faccia la neve

fermati Piero , fermati adesso
lascia che il vento ti passi un po’ addosso
dei morti in battaglia ti porti la voce
chi diede la vita ebbe in cambio una croce

ma tu no lo udisti e il tempo passava
con le stagioni a passo di giava
ed arrivasti a varcar la frontiera
in un bel giorno di primavera

e mentre marciavi con l’anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore

sparagli Piero , sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra a coprire il suo sangue

e se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore

e mentre gli usi questa premura
quello si volta , ti vede e ha paura
ed imbraccia l’artiglieria
non ti ricambia la cortesia

cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chiedere perdono per ogni peccato

cadesti interra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato un ritorno

Ninetta mia crepare di maggio
ci vuole tanto troppo coraggio
Ninetta bella dritto all’inferno
avrei preferito andarci in inverno

e mentre il grano ti stava a sentire
dentro alle mani stringevi un fucile
dentro alla bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole

dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.
Secondo intervento di Lucica Bianchi
All’assessore Lucica Bianchi il compito di ringraziare l’impegno di questi ragazzi e di apprezzare il loro sguardo fresco e ancora in gran parte disincantato su un passato duro e difficile. La presenza dei ragazzi ha indotto l’assessore a riflettere su un episodio specifico della Grande Guerra, quello dei ragazzi del 99 cioè nati nel 1899 e coscritti per la chiamata alle armi durante le fasi ultime e più critiche del conflitto quando molti di loro non avevano neppure 18 anni.
I ragazzi del 99. Un video per ricordare.
Anche per questo ricordo è stato utilizzato un video. Immagini con testi e musiche sono sempre il modo migliore per imprimersi nel cuore un messaggio, una storia, specie se chi ascolta è molto giovane e coltiva molto questi nuovi linguaggi.
Questo video illustra soprattutto luoghi, monumenti, bassorilievi, in particolar modo a Bassano del Grappa, teatro principale della vicenda. Si riporta qui di seguito il testo in sovraimpressione sul video che racconta brevemente e con enfasi (anche retorica) questa storia.
Nel 1917 la chiamata. Dal 10 novembre al 31 dicembre di quell’anno si verificarono le prime battute di arresto per l’esercito che resero necessari questi ulteriori arruolamenti. In seguito ad un proclama del comando supremo dell’esercito italiano i ragazzi del 99 ebbero il loro primo battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico… in un superbo contrattacco hanno trionfato! Alcuni battaglioni austriaci che avevano osato varcare il Piave sono stati annientati. 1200 i prigionieri catturati e alcuni cannoni presi dal nemico sono stati riconquistati. In quest’ora suprema di dovere e onore nella quale le armate con fede salda e cuore sicuro arginano sui monti e sul fiume l’ira nemica che l’esercito sappia che i nostri fratelli della classe 1899 hanno dimostrato di essere degni del retaggio di gloria che su di essi discende. Un sottoufficiale dichiarò di aver osservato le loro mani grandi e robuste avvezze ai lavori pesanti, mani da figli di contadini falegnami e artigiani e i volti pieni dell’ingenua spontaneità della loro giovinezza. Non esistono dati certi riguardo ai giovani soldati caduti sui campi di battaglia, ma il ricordo di questi giovanissimi combattenti resta scolpito nella memoria popolare. Tra questi ragazzi il più longevo è stato Delfino Borroni, scomparso nel 2008.
Un racconto fantastico… se si dimentica che in fin dei conti si tratta di giovani poco più che adolescenti mandati direttamente al macello.
Commiato
All’assessore Lucica Bianchi l’onere anche dei saluti conclusivi. “vorrei che tutti vedessero questa serata non come conclusione di un evento, ma come un anticipo della giornata di domenica quando tutto il paese renderà onore agli eroi talamonesi caduti” ha dichiarato l’assessore prima di leggere alcuni passaggi di un piccolo libro di memorie di guerra scritto da Buongiorno Tasca che racconta le gesta della brigata Pavia, una delle più rinomate, ma anche e soprattutto le gesta di coloro che furono soldati sul campo dell’onore per dare a noi una patria più grande e ricordarli non solo è un sacro dovere per il tributo di gratitudine che dobbiamo loro, ma è una nostra necessità di vita interiore. Come le gole arse dalla calura cercano le limpide fontane per abbeverarsi e ristorarsi così l’anima nostra ha sete di luce brama di forza e di bisogno di esempi che sospingano e sollevino nelle dure prove della vita e lo preparino alla prova che un domani la patria minacciata può chiederci, quella dell’ultimo sacrificio. Dobbiamo quindi prepararci ad essere forti perché soltanto se riusciamo ad essere forti riusciamo ad essere liberi. Dopo questa lettura il ringraziamento ai ragazzi e a tutti coloro i quali sono intervenuti a questa serata partecipata.
Beata l’epoca che non avrà bisogno di eroi. È una frase che si sente spesso dire. Finora un’epoca simile non è ancora arrivata. Ogni epoca ha avuto i suoi eroi mitici o storici che fossero e ognuno ha avuto la sua celebrazione. Questi eroi di epoca in epoca sono andati ad accumularsi e chissà che le memorie che hanno creato con le loro gesta non possa contribuire a costruire piano piano un mondo che ricorderà si ancora gli eroi del passato ma che esso sia un passato lontano e non si abbia più da piangere nuovi eroi nel presente e soprattutto nel futuro. Un’epoca in cui gli eroi potranno riposare in pace il sonno dei giusti con la serena consapevolezza che il mondo non avrà mai più bisogno di invocarli e che le file di coloro che sono caduti non si ingrosseranno più.

                                                                                              Antonella Alemanni

 

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L’AFRICA, L’ORIENTE MEDITERRANEO E L’EUROPA

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Tradizioni e culture a confronto
a cura di Paolo Nicelli
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La Classis Africana dell’Accademia Ambrosiana inaugura, con questo primo volume della nuova Collana, un’articolata serie di studi e ricerche dedicate alle molteplici tradizioni, culture, lingue e società dell’immenso continente. Vale l’osservazione dell’Accademico Fondatore Gianfranco Fiaccadori alla cui memoria il libro è dedicato, ove si sottolinea il ruolo dell’Etiopia: «provincia africana dell’Oriente Cristiano che con l’Europa e il mondo mediterraneo ha avuto relazioni ab antiquo e fin dal Rinascimento ha attirato l’attenzione degli Europei per il suo carattere conservativo. Siamo a Milano, ma pochi sanno o ricordano che nel 1459 il duca Francesco Sforza pregava il negus Simon Iacopo ossia Zar’a Yā‘qob di inviargli le opere di Salomone perdute in Occidente». Già il Centro Studi Camito-Semitici, quasi precursore dell’odierna Classe di Studi Africani, trovò significativo tenere in Ambrosiana la seduta inaugurale del 1 giugno 1993. I dieci studiosi, autori delle accurate ricerche qui pubblicate, rappresentano un’ideale continuazione ed un rinnovamento della tradizione ambrosiana, insieme con tutti gli Accademici Fondatori che sono all’origine della nuova Classe di studi, ed ai molti altri accademici e studiosi che in vario modo offrono generosamente il contributo delle loro ricerche sul tema dell’Africa, l’oriente mediterraneo e l’Europa. Tradizioni e culture a confronto.

(tratto dalla copertina della collana)

 

L’Islâm: la storia, la religione e il dibattito con la modernità

COSA SIGNIFICA ISLÂM?

autore: Dr. Padre Paolo Nicelli, PIME
Dottore della Biblioteca Ambrosiana
Segretario della Classe di Studi Africani
Professore di Teologia Dogmatica, Missiologia, Studi Arabi e Islamistica.

 

Religione universalista e missionaria che indica lo stato di sottomissione a Dio del credente musulmano.  Il termine islâm è un sostantivo verbale tradotto con «sottomissione», nel senso di abbandono, consegna totale di sé a Dio. La radice verbale è aslama, congiunzione causale di salima (essere o porsi in uno stato di sicurezza).  “Per i musulmani l‘islâm non è soltanto un sistema di fede e di culto, o per così dire una sfera dell’esistenza distinta da altre sfere cui sono preposte autorità non-religiose che amministrano leggi non religiose. Esso indica piuttosto il complesso della vita e le sue norme comprendono elementi di diritto civile, di diritto penale e persino di quello che noi chiameremmo diritto costituzionale.”

(B. Lewis)

 

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click sul link sotto per leggere l’intero saggio

L’Islam-storia, religione, modernità (1)

Le conoscenze cartografiche e di navigazione greche, arabe e iberiche

Le conoscenze cartografiche e di navigazione greche, arabe e iberiche (Dal XIII al XIV secolo)

Le rotte di navigazione commerciali e i sultanati dell’Estremo Oriente: islamizzazione e spezie (Dal XIV al XVII secolo)

                                                         

                         Dr. p. Paolo Nicelli (Dottore della Biblioteca Ambrosiana)

Dal Mediterraneo alla globalizzazione

Nel contesto di questa presentazione, finalizzata a sviluppare il tema delle comunicazioni marittime e commerciali dal XIII al XIV secolo, desideriamo brevemente percorrere nel tempo le rotte di navigazione dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico, per poi giungere, nell’Oceano Pacifico, all’Arcipelago malaysiano, indonesiano e filippino, grazie agli studi geografici e cartografici medievali e moderni che hanno unito mondi e culture diverse. Le rotte di navigazione mercantili necessitavano di geografi e cartografi esperti, che potessero tracciare le vie di comunicazione più praticabili dalle navi, per giungere ai porti e nelle zone interne dei paesi d’Occidente e d’Oriente. Questo richiedeva ai cartografi l’indicazione dei rilievi montuosi, dei fiumi, dei laghi, dei venti, dei confini e delle città di quelli che divennero i principali «nodi commerciali» per l’Occidente e per l’Oriente. Grazie allo sviluppo delle scienze geografiche e cartografiche un ponte culturale e commerciale si aprì tra questi due mondi, non più lontani nelle distanze, ma vicini nella comunicazione globale.

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La “Geografia di Tolomeo”

Ms. Ambrosiano cc. II, 119, I D 527 inf. ff. 94 verso e 95 recto

Le rotte di navigazione commerciali e i sultanati (2)

(click sul link sopra per la lettura dello studio sull’argomento)

LA LATTERIA VALENTI DI TALAMONA: UNA STORIA DI SAPERI E DI SAPORI

TALAMONA 19 settembre 2015 seconda e ultima serata dell’iniziativa “TALAMONA SCRIGNO DI CULTURA”, nel contesto delle GIORNATE EUROPEE DEL PATRIMONIO 

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l’allestimento per la serata 

IN OCCASIONE DELLA SECONDA E ULTIMA GIORNATA EUROPEA DEL PATRIMONIO UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DEL CIBO TIPICO COME MOTORE DI CIVILTA’ E IDENTITA’ CULTURALE di Antonella Alemanni

Nell’edizione di quest’anno la coincidenza delle giornate europee del patrimonio con l’evento internazionale di EXPOMILANO 2015 dedicato al cibo offre svariate opportunità di progettare eventi, momenti di riflessione, di condivisione o di dibattito intorno al tema dell’alimentazione, ma non soltanto dal punto di vista di sostentamento, ma anche come patrimonio tradizionale e identitario di una comunità. Il cibo ha da sempre occupato un posto centrale nel rapporto tra uomo e natura, tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Questa è una realtà caratterizzata da una forte dimensione sociale che si rifletteva non solo in tavola, ma anche nei rapporti di convivenza e di lavoro all’interno di una comunità. In questa chiave di lettura l’alimentazione nonché la produzione del cibo si presenta come un fenomeno alquanto sfaccettato e composto nel suo interno da un insieme di aree funzionali che rendono il cibo un vero e proprio fatto sociale estremamente ricco e rispondente ad una forma plastica di rappresentazione collettiva. Su queste premesse, l’evento di stasera si propone attraverso un suggestivo itinerario di esplorare il mondo della produzione casearia nei suoi aspetti sociali e culturali mettendone in risalto da un lato le complesse relazioni con le emozioni individuali e simboliche e dall’altro le caratteristiche di consumo, di elemento economico e identitario. Così Lucica Bianchi, assessore alla cultura di Talamona ha presentato i contenuti di questa serata alla casa Uboldi a partire dalle ore 20.45 “un viaggio che parte dal nostro passato per traghettarci nel presente” lo ha definito il sindaco Fabrizio Trivella, intervenuto subito dopo “un percorso per organizzare il quale tutti in amministrazione abbiamo messo impegno e passione”. Un viaggio svoltosi con la partecipazione di Vincenzo Cornaggia, presidente del consorzio per la tutela del Bitto storico e Casera, ma soprattutto in compagnia di un Virgilio d’eccezione: Simona Duca ex assessore alla cultura e ora volontaria animatrice della biblioteca e di molte sue serate (quelle che non anima le presenta) che questa sera ha illustrato la storia della latteria Valenti argomento della sua tesi di laurea.

Breve intervento di Vincenzo Cornaggia

Il consorzio per la tutela del bitto e del casera è nato da un’esigenza dei produttori e delle loro cooperative di proteggere dei prodotti che fanno parte della tradizione come appunto il Bitto e il Valtellina Casera. Quest’ultimo risale al Cinquecento mentre il Bitto ha origini addirittura celtiche, ma senza una denominazione che permette di identificarlo sul mercato non avrebbe il potenziale che ha invece avuto. Il consorzio è nato grazie all’impegno di tutti coloro che fanno parte della filiera produttiva di questi prodotti tipici dagli stagionatori ai commercianti. È nato nel 1995 quindi è un consorzio relativamente giovane. Nel 1996 siamo riusciti ad ottenere la DOP (denominazione origine protetta) per i nostri prodotti e questo ha comportato un ulteriore impegno del consorzio che ha dovuto dotarsi di un organismo di controllo che è il CSQA, ha dovuto supportare tutti i soci per quanto riguarda le pratiche burocratiche e dare una mano nella produzione. Oggi questa scelta sta pagando in modo giusto e corretto perché chi fa parte di questo circuito riesce tutt’ora ad avere un prezzo decoroso del latte mentre chi purtroppo resta fuori in questo momento è veramente in sofferenza quindi ben vengano le tradizioni e i modi giusti e corretti di valorizzarle.

Intervento di Simona Duca: il lungo cammino della latteria Valenti 

Simona Duca ha raccolto, nel corso di tre anni di lavoro per la sua tesi di laurea, l’avventura umana, sociale e culturale della latteria Valenti tuttora attiva. Una storia che stasera ha condiviso col pubblico tramite una presentazione interattiva e una narrazione animata. Una storia che Simona ha fatto partire da una data, quella dell’Expo di Milano del 1881. In quell’occasione la latteria Valenti, aperta ufficialmente da un anno, ha ricevuto un importante riconoscimento per la più che ottima qualità del suo burro: una medaglia d’oro di prima categoria e un premio in denaro di mille lire che all’epoca erano una cifra non indifferente. Un risultato per nulla scontato, punto di arrivo di un’avventura travagliatissima che parte da lontano. Bisogna tornare indietro di circa trent’anni per capire questa storia, nella Valtellina di metà Ottocento, una terra alla deriva sotto tutti i punti di vista: ambientale, sociale, umano, culturale. A quell’epoca il nostro territorio faceva ancora parte dell’impero austroungarico. L’imperatore, a seguito di una ispezione territoriale, istituisce una commissione di inchiesta formata da vari studiosi, scrittori, soprattutto agronomi, capeggiata dall’agronomo Stefano Iacini, uno dei migliori nel suo campo all’epoca, il quale conclude che lo sfruttamento intensivo dei boschi e l’abbattimento scellerato degli alberi ha portato ad un vero e proprio cambiamento climatico (e pensare che nel Cinquecento, almeno a Talamona c’erano statuti avanzatissimi per disciplinare lo sfruttamento dei boschi, possibile che sono bastati poco meno di tre secoli per dimenticarseli? Ndr) un cambiamento che ha avuto come conseguenze più alluvioni e grandinate che hanno devastato i raccolti. La popolazione si è trovata dunque indebolita dalle carestie e dunque più esposta alle malattie, dovute appunto in parte al clima pessimo e in parte alla scarsa alimentazione, malattie come tubercolosi, scrofolosi, pellagra, rachitismo. Una popolazione talmente sofferente che ha fatto si che proprio in quegli anni la parola cretino entrasse nel vocabolario come sinonimo di valtellinese. Come se non bastassero le malattie delle persone, anche le viti e i bachi da seta, le risorse economiche principali, si ammalavano. Come conclusione della sua inchiesta Iacini scrisse: il 90% della popolazione valtellinese vive in condizioni di poca fortuna (il che voleva dire arretratezza e indigenza con la gente che arava persino i pochi campi coltivati senza usare gli animali per la maggior parte). Fino al 1859 occuparsi di queste problematiche era competenza degli austriaci. Dopo il 31 maggio 1859 diventa competenza del Regno d’Italia del quale la Valtellina entra a far parte un paio d’anni prima dell’unificazione e della proclamazione ufficiale il 17 maggio 1861. A chiunque se ne occupi comunque resta il problema di capire come bisogna agire per risolvere la situazione. Gli austriaci finchè il compito è toccato a loro hanno provveduto a rimboschire abbassare le tasse e ad istituire una lotteria per i poveri nell’ambito della quale tutti quanti erano obbligati a comprare almeno un biglietto, persino i religiosi. Dal 27 luglio 1860 ha inizio il Risorgimento in Valtellina anche grazie all’operato di Luigi Torelli colui il quale ha issato la bandiera sulla cima del Duomo durante le Cinque Giornate di Milano e che in quella data di luglio istituì una sorta di commissione, un Consorzio Agrario, che strappò al governo italiano la promessa di abbassare le tasse e di poter trattenere sul territorio valtellinese il 48% delle riscossioni da reinvestire per il rilancio. Di questa commissione faceva parte anche Clemente Valenti. A questo punto bisognava accordarsi circa le risorse su cui puntare per il rilancio territoriale. Il territorio valtellinese già dal Quattro-Cinquecento era per la maggior parte coltivato a vite a terrazza (che svettano orgogliosamente ancora oggi lungo la strada verso Sondrio ndr) ma facendo parte di un’Italia unita non era pensabile riuscire a porsi sul mercato col vino dovendo competere coi vigneti piemontesi, toscani e quant’altro anche se per la maggior parte i consorziati erano proprietari di viti ed era nei loro interessi tentare questa strada. Nemmeno i bachi da seta risultarono una risorsa praticabile. Ci voleva qualcosa di peculiare del territorio. Di certo non i prodotti agricoli, assolutamente improponibili vista la vicinanza con la ricca e fertile pianura padana. Restava a questo punto l’allevamento. I pascoli crescevano spontanei e non si ammalavano, erano abbondanti, la transumanza era una tradizione di lunga data. Le bestie sane e nutrite producevano latte da cui i valtellinesi sapevano trarre ottimi prodotti derivati. Ecco dunque la risorsa giusta su cui puntare: i prodotti caseari considerando che i valtellinesi si ritenevano i migliori casari sulla piazza. Il primo banco di prova per testare questa risorsa si presentò in occasione dell’Expo di Parigi del 1878 una delle prime manifestazioni a dare ampio spazio alla produzione di formaggi anche perché pure i francesi coi loro 150 mila tipi di formaggi diversi avevano un certo talento in materia e oltretutto la furbizia di organizzare l’Expo in primavera- estate in un’epoca senza frigoriferi che rendeva impossibile a tutti i Paesi partecipanti (tranne ovviamente il loro) trasportare formaggi freschi. Va da sé che i francesi si regalarono praticamente una vittoria schiacciante. Il secondo posto lo ebbero a pari merito Inghilterra e Svizzera che presentavano formaggi stagionati, invecchiati anche di molti anni giudicati innovativi che più invecchiavano più acquisivano qualità. Al terzo posto Olanda e Austria. Gli olandesi avevano introdotto un nuovo tipo di margarina chiamato burrina e gli austriaci un burro fatto di autentico burro per il 40% e poi arricchito per il restante con polvere di patate. L’Italia ottenne una menzione speciale per la vasta tipologia di formaggi grazie alla quale avrebbero potuto tener testa ai francesi se non fosse che si trattava di prodotti non commerciabili perché non vi erano metodi precisi per produrli. Ogni casaro lavorava autonomamente con metodi empirici nella sua cantina ognuno si faceva la sua forma diversa dalle altre. Questo è stato l’aspetto penalizzante. La peggio comunque l’hanno avuta i formaggi spagnoli giudicati letteralmente insipidi e dall’aspetto zozzo. Dopo l’esperienza tutto sommato incoraggiante dell’Expo al Ministero dell’Agricoltura ci si industriò a rendere commerciabili i prodotti caseari introducendo delle normative e dei protocolli di produzione unificati e istituendo tre scuole di formazione per casari e direttori di latteria. Una scuola superiore di agricoltura a Milano e due stazioni sperimentali, una a Reggio Emilia e una a Lodi. Da queste scuole i migliori passavano direttamente agli stage in Svizzera e poi in Danimarca a studiare Chimica poiché le università nordeuropee sono state le prime a mettere a punto prodotti chimici destinati all’industria casearia. Da queste scuole uscirono grandi nomi del settore come Gaetano Cantoni (che disse la storica frase il progresso si fa dove si produce il formaggio) e Carlo Pisona da Milano Luigi Manetti da Lodi e Luigi Zanelli da Reggio Emilia, autori di trattatelli molto efficaci sui metodi di produzione casearia. Una volta istituite le scuole bisognava fondare le latterie che andavano incentivate, così si istituirono con esse dei premi in denaro per la somma di 250 lire (una somma non da poco se si considera che per fondare la latteria Valenti ce ne sono volute 350) da assegnarsi alle latterie che rispettavano tre criteri di garanzia: in primo luogo la commerciabilità data da allevatori esperti e bestiame sano da metodi di produzione unificati e approvati a livello nazionale e dalla sperimentazione scientifica. Queste metodologie prevedevano la creazione di locali appositamente adibiti per la produzione e lavorazione del latte, un associazionismo rurale (il che voleva dire che i casari dovevano mettere insieme le loro risorse e il loro latte senza più fare ognuno per sé come si era sempre fatto precedentemente) sulla base delle quali fondare latterie a sistema sociale e non più turnario dove per sistema sociale si intendeva un unico casaro che per tutta la stagione seguisse interamente la produzione casearia, uno scelto tra tutti gli associati e non tutti gli associati a turno. Sulla carta insomma c’erano tutti gli elementi volti a favorire una maggiore commerciabilità dei prodotti. Tutte queste innovazioni però non significavano semplicemente dei ritorni economici, ma nelle intenzioni di chi li aveva messi a punto essi avrebbero dovuto portare anche a dei progressi socio culturali. Nuove metodologie unificate non potevano prescindere da una buona istruzione di base e dunque non erano più pensabili casari analfabeti. Ora per imparare il mestiere si studiava, si progrediva socialmente, associandosi si condividevano le risorse, le si ottimizzava, più risorse significava per gli stessi casari in primo luogo più ricchezza e benessere. Ormai il territorio lo si poteva considerare ufficialmente rilanciato e a confermare cio fu la definitiva consacrazione all’Expo del 1881. Bisogna però considerare che se le cose sulla carta sono abbastanza semplici da sistemare una volta trovato un percorso, non lo sono altrettanto nella realtà. La reticenza dei contadini che non si aprono alle innovazioni, alle collaborazioni, alla possibilità di imparare si è rivelata un ostacolo non da poco per Clemente Valenti che più di chiunque altro ha combattuto per portare nel territorio tutte le innovazioni finora citate, per creare la latteria di Talamona e renderla competitiva a livello nazionale in modo da concorrere per i premi messi in palio e ottenere tutti i vantaggi economici e socioculturali finora descritti. Una lotta che ha dovuto tener conto anche delle “lobby delle viti” all’interno del Consorzio Agrario che avevano tutto l’interesse di veder fallire il progetto della latteria per riportare l’attenzione nuovamente sulla produzione del vino. Tuttavia Baridelli, presidente del consorzio agrario e proprietario lui stesso di viti, decide, nel 1874 di dare un’opportunità a Valenti incaricandolo di occuparsi del progetto latteria per provare a portare in Valtellina le nuove normative e metodologie varate a livello nazionale per la produzione casearia un’opportunità che Valenti coglie al volo essendo fortemente convinto che il futuro è nelle latterie e potendo contare anche sull’aiuto e il pieno sostegno di Don Pietro Tirinzoni membro del comizio agrario che non ha interessi nel campo della viticoltura. Per prima cosa, affinchè tutto funzioni, bisogna prendersi cura delle mucche, perché sono loro a fornire materia prima. Valenti sfrutta la tradizione già presente sul territorio di far crescere tra le viti un po’ di erba per le mucche e si fa recapitare dalla Danimarca semi di trifoglio viola, una pianta che le mucche amano, per piantarla tra le viti. Nel 1875 poi è la volta della stesura, sempre da parte di Valenti, del primo statuto organico per le latterie sociali di tutta la Valtellina e della fondazione, nei locali a pianterreno di Palazzo Valenti, del primo nucleo di quella che diventerà la latteria Valenti che però chiuderà dopo tre settimane. Motivo? I contadini, come si è accennato prima. Reticenti, diffidenti gli uni verso gli altri, ma anche verso queste spinte progressiste, poco inclini ad attenersi ai regolamenti. Perdipiù visto che i finanziamenti regionali tardavano, Valenti, per avviare il tutto, si era visto costretto a richiedere a tutti i contadini 5 lire di tassa che nessuno poteva dare. A completare l’opera giunge, nel 1875, la morte di Pietro Tirinzoni. Sarebbe stata la fine se quell’anno le viti non si fossero ammalate di filossera permettendo a Valenti di continuare il suo progetto, perché, essendo le viti ammalate, il latte era ancora l’unica risorsa su cui puntare. Gli anni dal 1876 al 1879 vedono Valenti impegnato a scrivere lettere ai comizi agrari e al ministero dell’agricoltura e a prendere contatti (tramite uno zio, Geremia Valenti che vive a Milano) con la realtà delle scuole tecniche superiori di cui si è parlato precedentemente, in particolar modo con Gaetano Cantoni affinchè tenesse delle conferenze in Valtellina per indottrinare la popolazione. Simona a questo punto ha letto un estratto di una delle lettere febbrili scritte dal Valenti in quel periodo di lotta per un sogno. Le latterie sociali, convenientemente sviluppate, sono destinate a mutare le attuali infelici condizioni del nostro commercio del formaggio e ad apportare un benefico vantaggio alle popolazioni della nostra vallata. Gaetano Cantoni non verrà mai in Valtellina, manderà a sostituirlo Luigi Manetti che terrà due conferenze una a Morbegno e una a Grosotto per coinvolgere sia l’alta che la bassa valle. La reticenza dei contadini (e in parte anche dei membri del comizio agrario) giocherà un ruolo anche qui insieme ad una sfortunata combinazione di fattori. I comizi si sono tenuti dapprima in una domenica delle palme e comunque in periodo di fienagione. Un po’ per onorare le feste, un po’ per non trascurare i campi, quasi nessun contadino si presenta ai comizi del Manetti che dunque parla a Valenti al comizio agrario e a quei pochi contadini che si sono presentati, ma, a sorpresa, parla in dialetto e questo trasforma l’iniziale diffidenza in una certa simpatia anche se in realtà si trattava di interventi pieni di critiche. Manetti fa notare una cosa semplice. D’estate quando ci si ritrova tutti insieme in alpeggio si condividono le mucche, il latte, i locali per fare il formaggio la resa è maggiore rispetto che in inverno quando ognuno fa per conto suo e dunque perché non comportarsi tutto l’anno come in estate, associandosi permanentemente? A fornire ulteriori stimoli di miglioramento arrivano nel 1879 dapprima un concorso del Ministero dell’Agricoltura con il premio in palio all’EXPO di Milano del 1881 (quello che, come abbiamo già detto è stato vinto) e poi sempre dal ministero un aiuto economico di 250 lire stanziate per chiunque intendesse aprire una latteria. In Valtellina sorgono quelle di Talamona, Bormio e Grosotto che però per avere il premio in denaro devono fornire garanzie. Clemente Valenti nel frattempo è diventato sindaco di Talamona e può così garantire attraverso il comune. Nel 1880 scrive un nuovo statuto per la latteria sociale di Talamona togliendo dal regolamento le cinque lire di tassa che comparivano nel primo regolamento e aggiunge ai finanziamenti statali 140 lire di tasca propria. Nel complesso le spese serviranno a risistemare i locali di lavoro al prezzo di 233 lire e a prendere a noleggio i macchinari con tutto il restante. I locali li fornirà il pittore Giovanni Gavazzeni amico e dirimpettaio di Clemente Valenti che fornirà al prezzo d’affitto di 100-110 lire annue i locali al pianterreno della sua casa. Per lavorare nella sua nuova latteria Clemente Valenti vorrebbe casari che sappiano leggere e scrivere, ma in quegli anni il massimo cui può aspirare sono i semianalfabeti. Il primo assunto si chiamava Carlo Ciaponi che se la cavava coi numeri al punto che ogni allevatore portava in latteria la sua parte di latte contrassegnata da un numero, un’usanza che si è mantenuta nel tempo. Il regolamento della latteria è stato firmato il 18 gennaio 1880, la latteria sociale nasce ufficialmente il 27 febbraio (a Grosotto nacque qualche tempo prima, ma ancora con sistema turnario) e conta 41 soci e 65 mucche cifre destinate col tempo ad aumentare soprattutto dopo il successo all’EXPO Milano 1881. Un successo che se non si traduce in effettiva commerciabilità dei prodotti non serve. La produttività della latteria negli anni Ottanta dell’Ottocento si aggirava intorno a 50 kg di burro a settimana lasciando il restante latte per la lavorazione di formaggi magri e semigrassi che si vendevano a Morbegno e tuttalpiù a Lecco. Come espandersi? Preparando meglio i casari ad esempio. Nel 1883 la latteria Valenti diventa il secondo Regio Osservatorio di caseificio in Italia (il primo è Portici) cioè una scuola che prevedeva corsi teorici e pratici con tanto di stage da cui uscivano i migliori casari cui tutte le latterie, perlomeno dei dintorni, facevano riferimento, una delle prime scuole italiane ad ammettere dal 1885 anche donne molte delle quali madri che educando i figli trasmettevano loro quello che avevano imparato. Per studiare da Valenti arrivavano da tutt’Italia. A questo punto Simona ha letto un estratto della sua tesi, un aneddoto relativo ad un ragazzo sardo con tanto di lettera scritta dal medesimo. Nominati all’ultimo momento non fu semplice raggiungere Talamona (per i praticanti casari ndr). In particolar modo non tutti avevano le idee chiare sul corso, sullo svolgimento e soprattutto sul viaggio per raggiungere il paese. In particolar modo questo ragazzo scrive: sono stato nominato almeno per il prossimo trimestre del corso pratico e teorico di caseificio di codesta latteria con assegno di 50 lire mensili per pagare vitto e alloggio e mi dovrò trovare da lei entro il 15 corrente. Io non conosco codesti luoghi ne alcuno sa dirmi condizioni a riguardo del corredo del mio collocamento perciò mi rivolgo a lei, onorevole direzione, pregandola della gentilezza di indicarmi se gli alunni vengono alloggiati in uno stabilimento, in un albergo o in case private, quale bagaglio si deve portare cioè solo gli abiti o se sono necessari anche materasso e biancheria da letto e prego anche di indicarmi quali pratiche sono necessarie per procurarmi vitto e alloggio. Praticamente si andava alla ventura iscrivendosi già maggiorenni. Fortunatamente Clemente Valenti aveva molti riguardi verso i suoi allievi. I maschi alloggiavano nelle case nei dintorni della latteria mentre le ragazze al terzo piano del Palazzo Valenti con la servitù. Una  di queste ragazze, originaria di Osopo, anni dopo scriverà una lettera al Valenti per ringraziarlo di averla fatta sentire a casa e per mandare gli auguri di Natale con anche dei doni: un carretto giocattolo per il figlio Guido e una lingua salmistrata per lui e la sua gentil signora (i maschi invece scrivevano solo per richiedere lettere di raccomandazione quando volevano concorrere come direttori di latteria). Luigi Zanelli, formatosi a Reggio Emilia in visita nel 1885 in Valtellina dovette riconoscere gli alti standard di qualità raggiunti. Ma restava ancora da risolvere la questione della commercializzazione su larga scala dei prodotti. In tal senso un trampolino di lancio lo fornisce un’esposizione nazionale organizzata a Lodi nell’ambito della quale la Valtellina entra in contatto con ditte e commercianti a livello nazionale. Un po’ grazie a questi contatti un po’ tramite il passaparola i prodotti circolano, in particolar modo il burro, fiore all’occhiello, che nel 1886 sta sulle tavole degli alberghi di Montecarlo, ma che fa la sua bella figura anche negli alberghi valtellinesi in particolar modo alle terme di Bormio dove giunge un notaio di Roma, tale Cerretti,  che farà conoscere alla sua cerchia di conoscenti il burro valtellinese e contribuirà ad aprire i commerci con Roma. Col tempo i commerci si espandono in tutto il Piemonte, la Liguria parte della Francia, a Terni al Grand Hotel Europe e all’estero, a Londra ad Atene per circa un anno e ad Alessandria d’Egitto per poco meno (il problema era il trasporto, non c’erano le celle frigorifere, bisognava avvolgere il burro in stracci umidi e riporli in tole di latta rivestite con paglia). Fu anche per seguire queste rotte commerciali che  Clemente Valenti volle la stazione di Talamona. Gli inizi come sempre furono un po’ difficili. Un tale Melchiorre Sordi non riteneva il burro di Talamona commerciabile perché era di colore giallino e perdipiù aveva insinuato il dubbio che fosse impastato. Valenti si arrabbiò e il resto è storia. Una storia che lascia spazio anche alla leggenda, una leggenda che vuole che il nostro burro sia arrivato anche a Calcutta. In realtà era successo che una ditta londinese che commerciava anche a Calcutta avesse avanzato questa proposta, ma non se ne fosse fatto nulla poi. Sempre da Londra giunsero proposte per modernizzare la produzione, per adeguarsi ai gusti della gente che apprezzava i formaggi grassi, per fare i quali però bisognava non produrre il burro che era il prodotto di punta. Si pensò allora di innovare il burro, creando il burro salato. Da Londra avevano preparato le etichette, Valenti ha preso contatti coi direttori di latteria, ma gli allevatori non volevano saperne. C’è sempre nella popolazione questa tendenza a bloccarsi di fronte alla prospettiva di fare i salti di qualità veri e propri. Ma non si può non dare comunque merito al Valenti e all’avventura della latteria senza la quale noi tutti oggi saremmo molto diversi.

Non ho potuto fare a meno di pensare, mentre ascoltavo, a come il latte in questa storia abbia assunto un’ulteriore motivazione per essere definito fonte di vita. Non solo perché nutre gli infanti, ma perché l’ha resa migliore a tutti e a tutti ha dato l’opportunità di essere migliori.

Antonella Alemani

TALAMONA SCRIGNO DI CULTURA. SCORCI DI NOVECENTO IN VALTELLINA

TALAMONA 18 settembre 2015 la prima delle due serate dell’iniziativa TALAMONA SCRIGNO DI CULTURA

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SCORCI DI NOVECENTO IN VALTELLINA ATTRAVERSO LA SCRITTURA DI INES BUSNARDA LUZZI E IL CANTO CORALE

UN SAGGIO DELLA DOTTORESSA FAUSTA MESSA E UN PICCOLO CONCERTO DEL CORO VALTELLINA PER UNA CELEBRAZIONE DELLA NOSTRA IDENTITA’ DI POPOLO

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Con la nuova amministrazione, vecchie iniziative di successo riaprono i battenti. E così eccoci qui stasera alla Casa Uboldi alle ore 20.45 a furor di popolo per la prima di due nuove serate nell’ambito dell’iniziativa delle giornate europee per il patrimonio, un’occasione unica per chi vi aderisce di riscoprire e valorizzare tutti quegli elementi che vanno a costruire e mantenere salda l’identità di un territorio e del popolo o dei popoli che lo abitano. Ed ecco che Talamona quest’anno in occasione di questa iniziativa si trasforma in uno scrigno di cultura “che si apre mostrando i suoi tesori” ha commentato l’assessore alla cultura Lucica Bianchi in chiusura di questa serata. Ma cominciamo da principio. Il tesoro che questa sera Talamona e tutta la sua comunità hanno voluto ricordare a se stesse non è un patrimonio immateriale o un capolavoro artistico (tutte cose peraltro molto importanti) bensì una persona, una persona che purtroppo non c’è più, ma che per più di una generazione di talamonesi ha significato molto, determinandone l’istruzione e la formazione. Stiamo parlando di Ines Busnarda Luzzi, colei alla quale è intitolata la nostra biblioteca e alla quale erano già state dedicate serate in un periodo in cui l’intera struttura della Casa Uboldi era ancora, per così dire, in rodaggio. Ed eccoci ancora qui tutti a ricordare di nuovo la figura di questa maestra che è stata anche una notevole scrittrice nonché un’istituzione socio culturale per Talamona che divenne sua patria d’adozione dopo il matrimonio.

Questa sera di fronte ad una platea di tutte le età  la dottoressa Fausta Messa (docente di materie letterarie in un liceo sondriese nonché direttrice dell’Istituto Sondriese per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea) ha esposto i contenuti del suo saggio su questa importante figura pubblicato in un quaderno di studi intitolato SCORCI DI NOVECENTO IN VALTELLINA edito proprio dallo stesso istituto diretto dalla dottoressa Messa. Un saggio attraverso il quale è stato possibile scoprire (o riscoprire a seconda se si conosceva già la maestra Ines come tutti la chiamavano) la vita di questa donna, le sue opere tratte sempre dal suo vissuto personale e dalle memorie della sua terra. “libri dei quali non bisogna guardare la quantità quanto piuttosto il messaggio che sta dietro la sua produzione” ha esordito l’assessore alla cultura Lucica Bianchi introducendo l’intervento della dottoressa Fausta Messa “questa sera faremo appunto un viaggio alla scoperta di questo messaggio. Parlando proprio l’altro giorno con la dottoressa Messa, le riflessioni fatte in merito ci hanno portato sul territorio dell’Umanesimo. L’abbiamo chiamato così per esprimere quello che di più umano, di più profondo ognuno di noi può trovare negli scritti di Ines Busnarda Luzzi” a questo punto la parola è passata ufficialmente alla dottoressa Fausta Messa per il suo intervento suddiviso in più parti.

Ines Busnarda Luzzi una scrittrice di montagna

Buonasera a tutti sono molto contenta di essere qui stasera ad omaggiare questa scrittrice che mi ha molto colpito quando ho letto le sue opere proprio nella biblioteca a lei intitolata. UNA SCRITTRICE DI MONTAGNA è il sottotitolo del mio saggio intitolato ATTRAVERSO LA SCRITTURA DI INES BUSNARDA LUZZI. Qualcuno si chiederà come mai ho scritto questo saggio e poi l’ho pubblicato in un quaderno dedicato agli studi sulla Resistenza. Ho pensato che fosse giusto perché, leggendo i libri di Ines Busnarda Luzzi e avendola anche conosciuta avendo conosciuto la figlia Giulia qui presente stasera tra il pubblico, ho pensato fosse doveroso renderle questo omaggio in virtù del suo impegno civile, sociale e culturale nei confronti della sua comunità. Lei credeva profondamente nei valori della Resistenza, quei valori che sono stati declinati nei principi fondamentali della nostra Costituzione, credeva molto nella giustizia, nel cammino che la Storia deve fare verso la giustizia, perché purtroppo questo cammino è sempre aperto e la fine di questo cammino ancora non si vede. Mi sembrava quindi giusto fare questo studio e pubblicarlo su questo quaderno, un quaderno speciale perché è uscito nel trentennale dell’Istituto ed è dedicato a una donna sindacalista e al suo interno contiene vari saggi dedicati a donne: donne semplici, donne colte, comunque tutte unite dall’ideale dell’istruzione e dell’educazione perché tutte sono state maestre, chi di sartoria, chi maestra elementare, comunque tutte innamorate della cultura e soprattutto animate dal desiderio di comunicarla. È molto bello a proposito che in queste serate si celebri la cultura perché mi sembra che Ines sia stata una signora della cultura, un’animatrice culturale, una dispensatrice di cultura, sia della cultura alta, che lei ha sempre amato fin da quando era bambina e sui banchi di scuola ha cominciato a leggere e a scrivere dimostrando fin da subito la sua vocazione per la scrittura, sia la cultura contadina, agropastorale che lei ha riscoperto in età adulta.

Dalla costiera dei Cech al Mondo attraverso uno sguardo femminile

Io anni fa avevo letto CASE DI SASSI nell’edizione del 1982. Adesso mi è capitato di rileggere l’edizione successiva che credo sia del 1984 e ho trovato una pagina che non avevo visto precedentemente che mi ha dato la conferma di alcune cose che avevo già intuito. Scorrendo la bibliografia messami a disposizione dalla figlia di Ines insieme a queste splendide fotografie di famiglia, avevo visto che Ines aveva scritto in maniera molto viva soprattutto a partire dagli anni Ottanta. Aveva scritto anche precedentemente, ma il corpus più significativo della sua opera lo si ritrova proprio a partire dagli anni Ottanta e così avevo pensato: Ines era ormai in pensione dal 1978, i suoi figli erano grandi e poteva dedicarsi maggiormente alle sue passioni e avrà voluto scrivere, ma scrivere, ma scrivere che cosa? Evidentemente all’improvviso Ines si era resa conto che quel mondo da cui lei proveniva, quel mondo che l’aveva fatta crescere e maturare, diventare donna e maestra, quel mondo non c’era più, era sparito, perché ormai anche i piccoli paesi di montagna si spopolavano, non c’era più un’economia basata sull’agricoltura e sull’allevamento, soprattutto in montagna. Allora, ho pensato, le sarà sorta dentro l’onda dei ricordi e di tutte le narrazioni che la sua prima maestra ed educatrice, sua madre, nel corso della vita le aveva fatto e probabilmente Ines ha sentito il bisogno e il dovere morale di far rivivere quel mondo, un mondo durissimo, nei confronti del quale Ines non aveva nessuna nostalgia, un mondo che non aveva nessuna voglia di riproporre ai giovani quel modello di vita che lei aveva vissuto e da cui in un certo senso aveva anche cercato di scappare studiando, diventando maestra e quindi spezzando quella catena che sembrava appunto costringere tutti gli abitanti del suo paese di Naguaredo, ma anche tutti gli altri paesi di montagna, a restare legati al lavoro durissimo di quei pochi appezzamenti di terreno che si riusciva a strappare e a dedicarsi all’allevamento riuscendo semplicemente a sopravvivere. Si lavorava moltissime ore senza riuscire ad accumulare molto di più dello stretto necessario. Dunque a distanza di tanti anni Ines sente il dovere morale di trasmettere ai giovani un mondo che non c’è più, un mondo difficile nei confronti del quale però bisogna essere riconoscenti. Se noi tutti ora stiamo meglio e siamo riusciti a raggiungere determinati traguardi di cultura e civiltà lo dobbiamo infatti anche a tutti quei nostri antenati che si sono sacrificati così tanto proprio per mantenere la terra e per trasmetterla poi in eredità ai loro figli tant’è vero che Ines scrive (tratto da CASE DI SASSI ndr) nella dolce e tribolata terra di Naguaredo passava in quel tempo la mia fanciullezza e quella dei miei coetanei. Ma l’adolescenza ci separava, portava i maschi a Roma a fare i commessi di bottega e lasciava noi ragazze a coltivare insieme ai genitori campi, prati e selve belli all’apparenza sino alla poesia, ma succhiatori di energie e di sudori, tanto che senza quel contributo proveniente dalla forza delle braccia di giovani ed anziani rimanevano aridi e selvaggi come ora sono diventati. Tutto è diventato arido, ci dice Ines, selvatico perché nonostante la scienza ecologica venga insegnata a scuola e sia diventata di moda non ci sono più i pastori, le donne pastore e gli agricoltori di montagna che tengono pulita la terra, che raccolgono la legna caduta per terra e liberano i sentieri da erbacce e sterpi. Tutto è inselvatichito, il bosco avanza e si riappropria dei vecchi pascoli. Scrive ancora Ines in quel tempo nessuno di noi, giovani ed anziani, avrebbe potuto supporre che si potesse abbandonare quella terra a se stessa, che potesse venire il tempo in cui non si vangasse, non si seminasse, che si potesse fare a meno di coltivare e raccogliere i cereali che ci davano pane e polenta, che sarebbe venuto il tempo in cui molte specie di uccelli sarebbero emigrate per sempre dalla nostra terra, che i prati non si sarebbero più falciati ne che non ci sarebbe più stata una mucca in tutto il paese che con il suo bronzino dal suono d’argento vi avrebbe pascolato d’autunno. Quindi rendendosi conto di questo  Ines decide di ripercorrere a ritroso quel mondo, di ritrovare se stessa bambina. Lei ormai è una donna adulta, un’insegnante a riposo, non è più quella persona che viene da quel mondo però fa lo sforzo di ritrovare se stessa bambina e lo sguardo con cui lei bambina si rivolgeva a quel mondo.

Raccontare per vivere: le parole come atto d’amore e di educazione tra madre e figlia

Sicuramente, e io questo l’ho percepito moltissimo, la voce narrante che è scaturita dentro al suo cuore nel suo ricordo era la voce della sua mamma, un personaggio che è la voce narrante e protagonista del capolavoro di Ines intitolato NASCERE SOTTO UNA STELLA. In questo libro Ines chiama sua madre Erminia. I personaggi del libro sono tutti reali, ma Ines, per una sorta di pudore personale e di rispetto verso i compaesani, attribuisce a ciascuno uno pseudonimo. Il libro da anni non è più ristampato ed è diventato introvabile, ma per molte persone è stato ed è ancora significativo per ritrovarci dentro ognuno la storia dei propri “vecchi”. Leggendo questo libro ho dunque capito che il flusso del racconto, il narratore primario è proprio la madre. Io immagino che, nella durezza della vita che la madre di Ines aveva condotto, forse l’unica consolazione e svago era raccontare e confidarsi con sua figlia e in questo modo insegnarle e prepararla alla vita con un’educazione molto severa e intransigente perché la vita è dura e i giovani devono essere attrezzati per affrontarla. Questo è ancora, io ritengo, un grande insegnamento di Ines Busnarda Luzzi: l’educazione deve essere severa, non si può essere blandi perché altrimenti, anche se non viviamo più sui monti, la vita ovunque ci mette di fronte a delle prove nonostante la tecnologia e le comodità cui ci siamo abituati.

La memoria materna: essere donna, essere uomo, l’amore

Dunque tutta la memoria materna nutre il racconto di Ines. La madre che l’aveva sempre sostenuta nel suo desiderio di studiare e che aveva poi felicemente salutato la sua unione con un professore di matematica anch’egli proveniente dal mondo contadino. La memoria materna per Ines prende corpo soprattutto nel già citato romanzo NASCERE SOTTO UNA STELLA di cui ora leggerò l’incipit, secondo me un inizio di romanzo veramente riuscitissimo e molto raffinato. Ines dopo aver raccolto i materiali preparatori e i suoi ricordi in CASE DI SASSI pubblicato nel 1982 si cimenta poi con questo romanzo in una prova molto più difficile che è la stesura appunto di uno scritto letterario e anche di un certo spessore una saga familiare il cui inizio è molto denso: come al solito si svegliò al primo nghenghe della bambina. Doveva essere ancora presto e doveva aver dormito ben poco data la fatica e la sofferenza che le procurava quel risveglio. Il cuore le mancava e la mente le oscillava paurosamente fra realtà e sogno tuttavia, prima che la piccola riprendesse i vagiti Erminia riuscì a muoversi e spostarsi a destra sull’orlo del letto cercando di non pesare troppo sul saccone di grano turco per non farlo scricchiolare. Scivolò verso i piedi del letto e strisciò fuori tastando il pavimento coi piedi nudi evitando di toccare la culla. Quando fu in piedi la toccò con le mani, la guardò lungo gli orli ondulati fino ai pomelli degli angoli e si orientò verso la vocetta che stava diventando acuta, avvolse l’esserino nelle coperte, la strappò dal pagliericcio e se la strinse al petto. La bimba sentendosi muovere ed avvertendo la presenza della madre per un attimo tacque. Erminia cercò con i piedi i suoi zoccoli. Il pavimento di calcestruzzo era gelido come tutto l’ambiente intorno. Li trovò ma nell’infilarseli i chiodi dell’uno batterono contro quelli dell’altro. Erminia s’irrigidì tutta, trattenendo il respiro. La voce insonnolita, ma già un po’ stizzita di suo marito la sciolse e le bruciò il cuore. – eri già fuori? Non si può più dormire qui! Chi lavora avrebbe il diritto di dormire! Non sei capace di regolarla in modo da farla dormire una notte? Cos’ha in corpo quella lì?- Erminia sentiva bollirsi dentro rabbia e dolore, ma siccome era più il dolore le si formò un nodo alla gola e la voce le uscì strozzata – è che ha fame, non ho potuto darle latte a sufficienza, ora provo ancora tu dormi, vedrai che poi dormirà anche lei-. A questo punto Erminia cerca di allattare la bambina. In casa non avevano una mucca da latte, non avevano niente e lei era devastata dalla mastite che le faceva uscire dal seno più sangue che latte e rendeva l’allattamento molto doloroso. Dunque Erminia è disperata. La porta della stanza si aprì con un lieve cigolio. Batté contro la parete –allora? Non vuole mangiare o non ne hai?- scattò aspro il marito. Erminia sobbalzò al rumore e alla voce improvvisa –ohimè lei succhia poverina ha fame- rispose – ma io sono tutta una piaga e ne esce più sangue che latte- -ho capito- disse ironico lui –nemmeno a latte sei buona-. Ecco come questo inizio fa capire quale modello di uomo e di donna Ines interiorizza. L’ambiente era aspro e duro per tutti e il matrimonio non era certamente basato sugli affetti, sullo scambio di sentimenti, sul prendersi cura l’uno dell’altra, sulla tenerezza. Tutti questi sentimenti emergono un poco tra gli anziani e coi bambini, ma non più di tanto. Tra marito e moglie c’era una sorta di contratto economico e un aiutarsi l’un l’altro per lavorare e per venirsi incontro nelle fatiche domestiche e della campagna per poter tirare avanti e sopravvivere alla miseria perché la miseria era dura e il destino dei maschi già a dieci-dodici anni era quello di andare via di casa presto per andare nelle città a lavorare ed essere impiegati come garzoni per sedici ore al giorno e pagati pochissimo, perché pur essendo la montagna già spopolata (il paesello di Naguaredo aveva all’incirca cento abitanti nel 1920) la terra non era sufficiente a sfamare tutti e dunque i maschi dovevano andare a lavorare a bottega in qualche grande città, Roma soprattutto, per riuscire ad accumulare una miseria e mentre erano via alleggerivano l’economia famigliare. Per quanto riguarda le bambine facevano la scuola dell’obbligo. Le più fortunate riuscivano ad arrivare in quarta elementare, qualcuna in quinta, ma poi anche il loro destino era quello di lavorare. Persino i giochi dei bambini avevano in fin dei conti una finalità pratica. Ines descrive questi giochi in CASE DI SASSI giochi che in qualche modo dovevano abituare i bambini alla durezza della vita, abituarli ad andare poi col bestiame al pascolo, andare a raccogliere i funghi, i mirtilli, la legna. Momenti di vero e proprio svago non ce n’erano mai, ma tutto era finalizzato all’utile, anche il rapporto con la natura che era un rapporto lavorativo, un rapporto che ne permetteva il mantenimento. In cambio della fatica dell’uomo la natura restituiva i suoi tesori e tutto si manteneva grazie a questo ciclo armonico fatto di povertà e di durezza che inquadrava anche i rapporti tra le persone, tra uomo e donna, le dinamiche famigliari. Il padre di Ines ad un certo punto emigra nel Connecticut per cercare un lavoro migliore rispetto a quello che il territorio poteva offrire, lasciando la madre sola ad occuparsi di tutto. Questa madre diventa un modello di donna tenace di montagna che lavora senza risparmiarsi anche più di uomo in campagna in casa in giro facendo quel che serve e grazie a questo suo impegno riesce a comprare una mucca che apporta latte e un maggior benessere in casa. Nonostante l’economia in casa cresca il sistema educativo è sempre rigido perché le difficoltà della vita sono sempre in agguato il padre al suo ritorno sarà severissimo e non perdonerà momenti di svago. Ines però vuole studiare appoggiata dalla madre. Quando anche il padre tornerà dall’America riuscirà a frequentare la quarta poi la quinta poi ad intraprendere il percorso che la porterà a diventare maestra e ad uscire dall’atavico cerchio di fatica che aveva sempre caratterizzato la vita dei suoi avi.

Vivere per raccontare: dalla memoria alla storia alla civiltà

Mentre la madre di Ines aveva raccontato per sopravvivere, per avere un appoggio affettivo, Ines, secondo me, a partire da un certo periodo della sua vita, vive per raccontare quindi il suo racconto si costruisce sul filo della memoria però non si limita a questo perché per lei la memoria non è nostalgia non si ferma al desiderio di rievocare i bei tempi andati dimenticandosi delle sofferenze come spesso succede. Quella di Ines è una memoria che si potrebbe definire militante, educatrice, la memoria di una donna di cultura, insegnante che è sempre insegnante in ogni momento della vita e che dunque dalla memoria passa alla riflessione sulla Storia per cercare di capire se davvero la storia porta verso il progresso. La Storia è allontanamento dalla barbarie e avvicinamento alla civiltà oppure è regresso? Ines riflette molto su questo tema e lo fa attraverso un altro romanzo, in verità piuttosto breve, intitolato E NOI PAGHIAMO, ambientato durante la seconda guerra mondiale e in particolar modo durante la Resistenza a Naguaredo e poi una parte anche nel primo dopoguerra. Un libro scritto con grande equilibrio probabilmente con l’aiuto di Giulio Spini. Negli archivi dell’Istituto della Resistenza a Sondrio è emersa una lettera che Giulio aveva mandato a Ines e dalla quale si comprende che lei aveva mandato una bozza del libro chiedendo consigli. Giulio Spini ha per questo romanzo gli stessi giudizi che ho avuto io. Ne parla di un romanzo ben scritto, equilibrato, ma che necessita di un maggiore sviluppo dei dialoghi e manca del pathos del romanzo NASCERE SOTTO UNA STELLA forse perché meno partecipato, forse perché Ines punta maggiormente sull’indagine storica (col risultato di creare anziché un romanzo quella che oggi si chiamerebbe una docufiction ndr) sulla riflessione appunto. Ines presenta la Resistenza in questo romanzo con tutto il dramma di una vera e propria guerra civile che comporta morte, famiglie distrutte, paesi che perdono quasi del tutto i loro abitanti in special modo i piccoli paesi. La guerra civile è ancora peggio perché va ad intaccare il senso di comunità molto forte e importante in questi mondi rurali. La vita dura richiedeva spessissimo a queste genti di lavorare insieme di aiutarsi di essere comunità ad esempio durante la fienagione, la potatura, i raccolti, le semine, quando qualcuno si ammalava fare anche la sua parte. La Resistenza fa si che bisogna per forza schierarsi o coi partigiani o coi nazifascisti e questo crea un clima di tutti contro tutti che cozza letteralmente contro il fatto di sentirsi fortemente appartenenti ad una comunità sebbene con tutti gli screzi del caso. Una figura emblematica da questo punto di vista che compare nel libro è la figura storica di don Giuseppe Cantone parroco di Roncaglia che si schiera con la Resistenza ma è pieno di dubbi, soprattutto quando entra a diretto contatto con la violenza presente da entrambe le parti. Una violenza che però nell’ambito dell’antifascismo è determinata da un progetto superiore e umano, da ideali di libertà eccetera cosa che il nazifascismo non è anzi è l’esatto opposto. Dunque schierato con dolore dalla parte dei partigiani si ritroverà partecipe di episodi drammatici, tra cui uno che non è raccontato nel libro di Ines, l’episodio di due partigiani giustiziati perché sorpresi a rubare per i quali don Cantone ha offerto invano la sua vita. Per quanto riguarda Ines invece le è capitato di assistere all’esecuzione di una ragazza accusata di essere una spia. Nel suo libro racconterà questi fatti facendone una lettura da storica e da insegnante per consegnare una lettura della Resistenza come portatrice di pacificazione nazionale soprattutto attraverso la stesura della Costituzione. In particolare Ines pone l’accento su una vicenda che ha toccato praticamente tutte le famiglie della Valtellina che è quella dei deportati militari. Quattro o cinquemila giovani più o meno nel nostro territorio fatti prigionieri soprattutto dopo l’8 settembre una vicenda di cui anche altri scrittori locali più recentemente hanno parlato. Di questi giovani per molto tempo le famiglie non hanno saputo più nulla. Ines ad esempio racconta la storia di Giacomo la cui mamma Amalia, anziana del paese che narra la vicenda poi alla stessa Ines molti anni più tardi. Giacomo rientra in paese e fa l’esperienza di molti reduci in quegli anni che ritornano e sono sconvolti per come sono accolti, come dei traditori, sconvolti dal fatto che la guerra ha devastato persino i loro piccoli paesi di montagna. Era arrivato in Italia dopo innumerevoli sfibranti tappe che in quel momento non voleva ricordare. In ogni luogo dove si era fermato aveva visto miseria e distruzione ed ogni volta aveva pensato a quando, varcato il confine, avrebbe potuto lasciare indietro quelle visioni squallide e deprimenti. Ma anche in Italia aveva trovato distruzioni e gente che cercava di cavarsela alla men peggio e a Narosa (cioè Naguaredo nota della professoressa durante la lettura riportata ora da chi scrive) non poteva immaginare che anche lassù avrebbe trovato un disastro simile. Guerra si, ma apocalisse no. Intanto camminava, era stanco, ma camminava per la strada che entrava nella notte per arrivare alla sua Narosa. Un paio di persone lo oltrepassarono, gli dettero uno sguardo ed affrettarono il passo. Giacomo prese tutte le accorciatoie che conosceva. Era contento che fosse notte, preferiva non essere visto da gente che lo conosceva. Un paio di giorni prima non avrebbe pensato così, ma giunto in Italia, dal modo in cui veniva guardato, aveva preso coscienza della precarietà del suo aspetto. Domani, dopo che si fosse lavato bene, vestito da cristiano, mangiato a sufficienza sarebbe stato un altro. Forse la mamma aveva avanzato un po’ di minestra oppure gli avrebbe preparato un’insalata di verze crude che avrebbe mangiato col pane, tanto pane e non gli importava che fosse raffermo o ammuffito gli bastava che fosse pane, bianco o nero faceva lo stesso. Il pane e la polenta erano nei sogni di questi soldati che avevano patito moltissimo la fame e tornano dai campi di concentramento dimagriti di trenta-quaranta chili. Il primo impatto con il paese fu un profumo caro e stuzzicante che si era disperso nel labirinto della sua fame fatta di sapori e profumi di cui non ce n’era uno che non fosse falso e illusorio. Quello che ora sentiva era un profumo sicuro di cibi che d’ora in poi sarebbero esistiti anche nella realtà, odore fragrante di bruciato  

Il mondo perduto della società agropastorale: la Storia tra progresso e barbarie, guerra, emigrazione, paura, lotte sociali e diritti.

La Storia ha visto lo spopolamento delle montagne e la scomparsa di un mondo che oggi non esiste più se non forse in luoghi sperduti di altri continenti. Un mondo scomparso dapprima per via delle emigrazioni e delle guerre poi con le dittature, le persecuzioni, gli scontri sociali. Una storia che, pur attraverso tante fatiche, ha portato alla conquista dei diritti, quelli ben declinati nella Costituzione che però non possono considerarsi una conquista definitiva. Ines infatti è sempre stata dalla parte dei più deboli, delle donne, sempre e comunque proiettata verso il futuro pur comprendendo l’importanza di non dimenticare il passato. Ha scritto ad esempio una raccolta di racconti CLAUDINA DELLE ERBE in cui presenta molti tipi di donne di montagna di città ma sempre ascrivibili ad una comune tipologia di donna interiorizzata e ingabbiata nel ruolo di mater dolorosa. Ines vuole sottolineare questa condizione della donna incapace di avere dall’altro sesso il meritato riconoscimento. Un mondo raccontato con partecipazione, ma ripetiamolo, senza nostalgia di quando si scriveva con penna e calamaio. Ines aveva imparato ad usare il computer e usava la tecnologia.

E noi paghiamo: il racconto della Seconda Guerra Mondiale della Resistenza e del Dopoguerra dalla visuale di un piccolo villaggio sulla costiera dei Cek

Ho già anticipato prima alcuni brani di questo libro che ci permette di passare dalla riflessione sulla Storia alla civiltà al fatto che l’epopea dolorosa della guerra di liberazione, i partigiani e i reduci non ricevono il giusto spazio nelle coscienze e nel ricordo di cio che è stato. Ines in questo senso va controcorrente nelle sue opere e si dimostra progressista.

La poetica: la scrittura come insegnamento di moralità e di stile

Essendo un’insegnante di lettere mi interessava analizzare la scrittura di Ines non solo il Mondo e la cultura che lei fa affiorare nei suoi libri, ma anche lo stile, la poetica appunto. Poetica significa la visione personale di ciascuno scrittore circa la letteratura e la scrittura e lo stile personale utilizzato per trasmettere questa sua visione del mondo. Secondo me la scrittura per Ines è sempre stato insegnamento. Ines è sempre insegnante anche quando scrive e proprio per questo fa delle scelte particolari di lessico e di sintassi. Lei, come tutti gli insegnanti e genitori che si sono formati negli anni Cinquanta ritiene che il dialetto sia uno svantaggio e che ai bambini vada insegnato l’italiano corretto perché, come poi dirà anche don Milani successivamente negli anni Sessanta, essere fuori dalla vita nazionale significa essere fuori socialmente e svantaggiati. Dunque Ines fa una scelta di italiano standard pur ambientando le sue storie in tempi e luoghi dove si parlava prevalentemente dialetto, una scelta che va a scapito del realismo di cio che poi viene raccontato e della creazione autentica dei personaggi, ma una scelta dettata dalla consapevolezza che usando il dialetto con l’andar del tempo i suoi libri non sarebbero più stati capiti, una scelta dettata dal voler essere maestra di italiano anche quando fa la scrittrice.

Case di sassi: di strumenti, di tecniche, un modello educativo

Questo libro di cui ho già parlato non è un romanzo, ma una raccolta di memorie su persone, luoghi e fatti della sua infanzia che secondo me fungono da materiale preparatorio per la stesura del romanzo NASCERE SOTTO UNA STELLA cui si aggiunge una seconda parte forse dettata da richieste avute a Talamona di raccontare la vita di un tempo, gli antichi mestieri e la scuola. Accogliendo queste richieste Ines trasmette un mondo di saperi, strumenti e tecniche che appartengono ad un mondo che ormai non c’è più e dunque queste tecniche ormai sono andate perdute. Ma non solo questo mondo di saperi, di competenze, che permettono a chi ne fa parte di riuscire a sopravvivere praticamente con nulla, o comunque con quel poco che la natura offre, cosa che non riesce più a nessuno oggi nel cosiddetto mondo moderno, un mondo in cui tutti sanno fare tutto o comunque tutto il necessario per la sopravvivenza, un mondo che si pone anche come un modello educativo, un mondo su cui Ines, pur senza rimpiangerlo, riflette. Riflettendo sul modello educativo ricevuto e sui nuovi modelli educativi della moderna pedagogia dovuti anche e soprattutto ad un più generale cambiamento dei sistemi di vita entrati in vigore a partire dagli anni Settanta e Ottanta e operando una sorta di comparazione, Ines si è resa conto che, se nel passato c’era troppa durezza, troppo autoritarismo ora si va invece verso un eccesso di lassismo, un eccesso contrario e dunque forse valeva la pena ripercorrere queste vie per avere un modello di moralità. Dunque credo che la sua scrittura avesse questo scopo, quello di essere una scrittura educativa e di denuncia dettata dal bisogno di giustizia, una scrittura a tesi che non si trova nei romanzi autobiografici, ma nei testi di riflessione. Una scrittura che risponde alla necessità di analizzare un argomento, un problema per trovare razionalmente delle soluzioni o comunque di denunciare come quando prende a cuore la condizione femminile, ma anche, in un altro libro intitolato CHIUSURA ANTICIPATA la condizione degli anziani in casa di riposo sfiorando anche il tema del suicidio raccontando di un uomo che fa questa scelta nel momento in cui si sente sradicato dal suo mondo e dai suoi affetti. Una denuncia contro una società sempre più individualista e spietata nei confronti della fragilità, ricca, ma foriera di solitudine e disagio. Una denuncia che risponde ad un bisogno di giustizia.

L’impegno civile: una serena e operosa vecchiaia al servizio della propria comunità

Gli ultimi anni della sua vita vedono Ines particolarmente impegnata nella scrittura e nella divulgazione di temi storiografici. Gli interessi maggiori Ines li riversa sulla Storia e sulla Scienza e lei mette la sua operosità a disposizione della comunità.

Conclusioni

A questo punto, come conclusione del suo intervento la dottoressa Fausta Messa ha presentato più ampliamente il volume che contiene la storia di Ines Busnarda Luzzi così ampliamente rievocata questa sera. In questo quaderno Ines si trova in buona compagnia. Nel quaderno 11-12 dell’Istituto Sondriese di studi sulla Resistenza sono infatti contenuti altre storie interessanti: quella di Angela Samaden, una giovane che, attraverso lo studio, diventa maestra e ispettrice scolastica e dunque si emancipa socialmente; la storia di Rosa Da Sogno, maestra proveniente da una famiglia borghese madre di un grande economista; la storia di Rosa Genoni; quella dell’ospedale psichiatrico di Sondrio; quella di una maestra di 74 anni che ritrovandosi senza pensione è costretta a fare l’accattona e rischia di essere arrestata finchè il ministro credaro si interessa al suo caso e riesce a farle avere la pensione. Insomma un contenuto pienamente aderente al titolo SCORCI DI NOVECENTO IN VALTELLINA  raccontati da questo istituto da trent’anni con passione e contando su esigue risorse (come chiunque fa cultura in Italia ndr) per trasmettere a tutti il nostro patrimonio civile e culturale attraverso le testimonianza e la divulgazione dei valori della Costituzione.

Non è senza una certa partecipazione emotiva che ho ascoltato questa piccola conferenza, con la consapevolezza che la mia vita di oggi, la possibilità di acquistare libri, di informarmi, di scegliere se sposarmi e avere figli oppure no, deve molto a queste figure che per prime nel nostro territorio hanno lottato per affermarsi, figure che dovrebbero entrare nella grande Storia. È curioso ad esempio il fatto che Ines Busnarda Luzzi e Grazia Deledda siano partite più o meno dagli stessi presupposti, ma la prima è rimasta confinata nel suo territorio mentre la seconda è riuscita a diventare sinora l’unica donna italiana a vincere il Nobel per la letteratura, così come è curioso che le opere di Ines non vengano più ristampate e non conoscano più diffusione.

Concerto del coro Valtellina

È venuto ora il momento di ascoltare una scelta di brani del coro Valtellina che, un po’ come i racconti di Ines Busnarda Luzzi ci riportano ad un mondo scomparso che rivive nel canto in sei canti scelti appositamente dal coro per allinearsi con lo spirito di questa serata come LA VALTELLINA che è un vero e proprio inno alla terra UL PRA DE FIUR che racconta le storie d’amore di una volta così come LE MASCHERE che narra di quando si approfittava dei travestimenti del carnevale per incontrarsi clandestinamente, DANZA MACABRA ispirata alla leggenda dei cavalieri che ballarono con le fanciulle di San Giorgio e al mattino si trasformarono in ossa e infine LA VALLE e LA CANZONE DEL BOSCAIOLO finestre su di un mondo ormai scomparso. Una conclusione degna di questa serata offerta dal coro che, partendo da Talamona è diventato col tempo rappresentativo di tutta la Valtellina. Una conclusione durante la quale non sono mancati ulteriori tributi e onori alla protagonista indiscussa di questa serata.

Antonella Alemanni

TALAMONA – UNO SCRIGNO DI CULTURA

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Il 18 e il 19 settembre, in occasione dell’importante evento Giornate Europee del Patrimonio 2015, l’Amministrazione Comunale di Talamona ha promosso presso la biblioteca del paese due interessantissime serate.

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Fausta Messa, docente di materie letterarie e latino, Istituto G.Piazzi/L.Perpenti, Sondrio

Il venerdì, alla presenza di un numeroso e attento pubblico, la brava e coinvolgente professoressa Fausta Messa ha piacevolmente illustrato tappe salienti del lungo ed affascinante viaggio compiuto, per molti anni, nel mondo della cultura dalla scrittrice Ines Busnarda Luzzi – per i Talamonesi la maestra Ines -, alla quale nel 2011 è stata dedicata la nuova biblioteca.Una vera grande donna che Talamona ha avuto l’onore di avere tra i suoi cittadini; una donna semplice, umile, modesta, dotata di straordinarie capacità, profonda sensibilità e grandissima umanità che – fortemente animata dalla passione, dallo spirito di ricerca storico-scientifica e dall’amore per la verità – ha speso una vita intera a favore della conoscenza e ha rivestito un ruolo fondamentale per la scoperta e la salvaguardia del patrimonio culturale, soprattutto della gente di montagna.

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Coro Valtellina

La seconda parte dell’incontro ha avuto come protagonista – sotto l’abile guida del direttore Mariarosa Rizzi – il Coro Valtellina che ha proposto alcuni brani accuratamente scelti dal suo vasto repertorio in cui, in maniera decisa e delicata al contempo, emergono le bellezze naturali dei paesaggi alpini, l’attaccamento alla propria terra, il mantenimento delle tradizioni, il valore dei legami affettivi, la forza dell’amore, le fatiche di vecchi mestieri.

Prosa e musica: due differenti forme artistiche che, con strumenti diversi, tendono all’ambizioso obiettivo di dare voce al passato, promuovendo e valorizzando la cultura d’altri tempi. A tale elemento comune si deve il felice connubio e la buona riuscita della serata.

Scrivere, cantare, narrare per ricordare, per non dimenticare, per rinsaldare le proprie radici, per contribuire a formare, rinforzare, consolidare il senso di appartenenza ad una comunità, per vivere e crescere in modo consapevole e gioioso.

Grazie alle preziose testimonianze e alla “presenza” della carissima maestra Ines che, con la consueta saggezza, discrezione e pacatezza, aleggiava nell’aria dell’ampia sala, si è creato un positivo e complice clima relazionale, capace di catturare, con la mente e con il cuore, i presenti.

Sentiti ringraziamenti a Talamona per averci offerto la possibilità di curiosare dentro uno scrigno ricco di tesori… e, in particolare, un doveroso grazie all’appassionata Lucica BianchiAssessore alle Politiche Culturali e all’Istruzione del Comune.

Infine, a titolo personale e a nome del Coro Valtellina ringrazio nuovamente per il gradito invito alla lodevole ed apprezzata iniziativa.

Cinzia Spini, presentatrice del Coro Valtellina

ACQUE DELLA LOMBARDIA MEDIEVALE

Comunicato stampa numero 5, 3.9.2015

IL BIM CELEBRA I 60 ANNI CON UNA MOSTRA ALL’AMBROSIANA

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Venerdì 11 settembre nella sede del Bacino Imbrifero Montano dell’Adda, a Sondrio, si è svolto l’incontro di presentazione del Progetto Educational della mostra Acque della Lombardia medievale – Racconti di vita quotidiana nelle pergamene della Biblioteca Ambrosiana di Milano (secoli IX-XII). L’esposizione, in programma alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, dal 6 ottobre all’11 novembre 2015, curata da Rita Pezzola e Federico Gallo, in collaborazione con il Bim e l’associazione culturale Ad Fontes, proporrà un affascinante viaggio attraverso 12 pergamene risalenti tra il IX e il XII secolo, che hanno come oggetto i paesaggi e le vie d’acqua lombarde, in grado di dimostrare quanto questo elemento naturale fosse di primaria importanza nella vita della Valtellina e dell’intera regione. Accanto a esse, s’incontreranno reperti archeologici, provenienti dai musei del territorio, che contestualizzeranno l’argomento trattato nei testi antichi. La giornata inizierà alle 9.30 col saluto e l’introduzione di Nicola Montrone, dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale di Sondrio, cui seguirà l’intervento di Carla Cioccarelli, presidente Bim Adda sulle ragioni del Progetto Educational e si concluderà con la presentazione di Rita Pezzola, dottore aggregato della Biblioteca Ambrosiana, sui contenuti e sui valori formativi della mostra. L’itinerario della rassegna si configura come particolarmente adatto alle scuole della provincia di Sondrio, sia per le tematiche affrontate, le pergamene selezionate, le numerose località documentate nelle antiche scritture (Tresivio, Ponte in Valtellina, Sondrio, Tresivio, Teglio, Mello, Dubino), la provenienza dei reperti esposti. “Considerate le peculiarità dell’esposizione – ha detto il presidente del Bim Carla Cioccarelli – il suo profilo scientifico e la destinazione didattica, il Bim dell’Adda, per celebrare i suoi primi 60 anni di attività, ha scelto di offrire alle scuole della provincia di Sondrio l’opportunità di visitare gratuitamente la mostra di Milano”.

Ufficio stampa Bim Sondrio

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Newsletter della Veneranda Biblioteca Ambrosiana

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Venerdì 11 settembre, ore 9:30. 

Il Prefetto dell’Ambrosiana, mons. Franco Buzzi,ha  inaugurato idealmente il nuovo anno di iniziative in Ambrosiana 2015-2016, annunciando una preziosa mostra di antiche pergamene (secoli IX-XII), “Acque della Lombardia medievale. Racconti di vita quotidiana nelle pergamene della Biblioteca Ambrosiana di Milano”:  «Il bene prezioso dell’acqua è sempre stato occasione di “pace” e di “guerra” tra gli uomini: dai pozzi biblici di Abramo e Giacobbe, agli accordi faticosi per il controllo delle rogge in Lombardia, tra Medioevo e Ottocento, passando attraverso il tema moderno del diritto commerciale a solcare i mari (vedi Ugo Grozio, Mare Liberum)». La mostra è organizzata dal Dottore Aggregato della Veneranda Biblioteca Ambrosiana Rita Pezzola. Da qui si possono visualizzare: l’immagine di una pergamena >>>, una sintetica presentazione della mostra >>>, il progetto educational >>>, una proposta specifica per le scuole di Sondrio >>> e un’immagine di Rita Pezzola  >>>, che presenta la mostra e il suo valore didattico.

Giovedì 17 settembre dalle 16.30 alle 20.15.

Il secondo Seminario multidisciplinare, interculturale-interreligioso, sul tema Significato di cura e malattia nelle prospettive laica e religiosa si terrà presso l’Aula Magna della Clinica Mangiagalli della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico >>>. Ondate migratorie stanno sconvolgendo e coinvolgendo milioni di persone in tre continenti, Africa, Asia, Europa. Si rend necessaria anche in campo sanitario una strategia formativa che integri diversi livelli e aree di conoscenza. Medici ed operatori sanitari di fronte a nuove sfide deontologiche ed etiche, che coinvolgono malati di differenti etnie, lingue, culture e religioni, richiedono nuove iniziative di formazione ed informazione. Tra le nuove frontiere della formazione a una piena cittadinanza globale, accanto ad ambienti significativi come scuole, università, carceri ecc., si pongono anche gli ospedali e le case di cura, luoghi di costruzione di solidarietà.

Sabato 19 settembre 2015, dalle 9:30 alle 18:15

Le vie delle spezie, tra cucina e medicina, tra oriente e occidente

rievocate in Ambrosiana da studiosi di tante università: Torino, Udine, Bergamo,  Milano, Venezia, Roma, Napoli, presentati dal Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana e dal Presidente dell’Accademia delle Antiche Civiltà >>>

In Pinacoteca Ambrosiana

Venerdì 11 settembre.

Sempre più numerosi i Visitatori, giunti dinanzi alla Sala di Raffaello, sostano per vedere da vicino l’opera di restauro iniziata sul più grande disegno del Rinascimento, La Scuola di Atene, base del grande affresco nelle Stanze Vaticane. Sul monitor scorrono le immagini del trasferimento dell’opera sui cavalletti e davanti, dietro una parete trasparente, gli esami per lo stato dell’inestimabile opera e l’avvio delle operazioni per la salvaguardia della preziosa carta montata su tela. Comode poltrone per rivedere ciò che è già avvenuto e per seguire da vicino quanto dinanzi ai loro occhi si sviluppa.

Nuova luce in tante Sale della Pinacoteca >>>

Sino al 28 settembre 2015.

 In 7 vetrine in mostra antichi e rari manoscritti >>>, da Seneca alle Favole persiane, da Aulo Gellio alla Bibbia ebraica e all’Evangeliario greco, dalle Sure coraniche in scrittura Kūfī al Planisfero cinese  艾儒略, 万国全图 (Hangzhou, 1623), per illustrare, in tema di EXPO 2015 il Dialogo tra popoli e culture per nutrire la pace >>>

In Accademia Ambrosiana

Lunedì 14 settembre 2015 ore 17:30.

Il Metropolita Ilarion del Patriarcato di Mosca in Ambrosiana per l’edizione latino-russa dell”Opera Omnia di S. Ambrogio >>>

Settembre 2015.

 Recensito il volume dell’Accademia Ambrosiana Classe di Studi Greci e Latini, Miscellanea Graecolatina I, nella rivista universitaria della Zborník Filozofickej, Fakulty Univerzity Komenského v Bratislave, Graecolatina et Orientalia  XXXV–XXXVI 2014 >>>

Martedì 13 ottobre 2015, ore 18. 

I manoscritti ebraici medievali. Conferenza pubblica del Prof. Malachi Beit-Arié, Accademia delle Arti e Scienze,

Gerusalemme, Israele >>>

Dal 12 al 22 ottobre 2015.

Corso breve di Codicologia e Paleografia ebraica. Docenti e Contenuti >>>  Programma >>>


9-11 novembre 2015.

Accademia Ambrosiana  Classis Orientalis  SEZIONI Araba Armena Ebraica Siriaca

Մերձաւոր Արեւելքի Հետազօտութիւններու Դասախումբ مسق تاسارد قرشلا  ىندلاا

ܐܪܕܣ ܐܫܪ̈ܕܕ ܠܥ ܐܚܢܕܡ ܐܬܝܥܨܡ הקלחמה ידומילל חרזמה בורקה

VI Dies Academicus 2015  GLI STUDI DI STORIOGRAFIA. Tradizione, memoria e modernità

Milano, Piazza XI, 2 – Sala delle Accademie “Enrico Rodolfo Galbiati”

In Mediateca

Presentazione del film di antoinedelaroche sulle Letture d’Arte 2014 2015. Un racconto pieno, denso di emozione. Con la cadenza più giusta possibile tra immagine e parola. L’ingresso delle voci, ogni volta, è, a loro volta, come per le immagini, un’apparizione. C’è tensione sempre viva e sviluppo costante di un’idea:

“L’arte si può raccontare”. Un’idea antica che aveva esplicitato per iscritto lo stesso Federico Borromeo, fondatore dell’Ambrosiana, all’inizio del Seicento. Da qui la visione >>>     (durata 25′). 

Il ciclo delle Letture d’Arte 2015 2016 riprenderà ad ottobre. Così per tutti gli altri “Incontri in Ambrosiana”. I relativi programmi saranno resi noti nella prossima edizione della newsletter.

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