LA SALA DELLO ZODIACO, Mantova

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La sala dello Zodiaco o del Falconetto (il pittore e architetto Giovanni Maria Falconetto, Verona 1468 – Padova 1535), è il vertice artistico del Museo. Non si conosce né il nome dell’artista né del committente, né il tempo dei lavori né l’uso della sala. Il primo ad occuparsi di questi affreschi fu Corrado Ricci, che datò le pitture tra il 1525/30, eseguite da artisti influenzati da Lorenzo Costa il Vecchio e da Giulio Romano. Il primo studio organico sull’intero ciclo zodiacale è di Paola Moretta e risale al 1918 ed apparve sulla “Rivista d’Arte”. La Moretta attribuiva anch’ella l’opera alla scuola di Lorenzo Costa il Vecchio. L’impresa di individuare il committente degli affreschi fu già affrontata anche da Ercolano Marani. Lo studioso mantovano, partendo dalle parole del Vasari, secondo il quale il Falconetto lavorava a Mantova per il signor Luigi Gonzaga concentrando la propria attenzione sul misterioso personaggio in abito nero e copricapo nero, con tre chiavi strette nella mano sinistra, appoggiato al pluteo del segno del Cancro, ipoteticamente propose dapprima il nome di Benedetto Tosabezzi, proprietario della casa. Quindi lo stesso Marani, scartato ragionevolmente il nome di Luigi Gonzaga della linea di Corrado, si dichiarò incline a ravvisare il Luigi Gonzaga citato dal Vasari in Luigi (o Luigi Alessandro) di Rodolfo Gonzaga, la cui dimora sorgeva tuttavia nella contrada del Grifone ed era costituita dal fabbricato che oggi ospita l’Archivio di Stato e dalla torre dei Gambulini. Luigi aveva ricevuto l’edificio in eredità dal padre Rodolfo e nel primo periodo della sua esistenza lo aveva eletto a sua residenza abituale, chiamando ad abbellirlo il pittore e architetto veronese Giovan Maria Falconetto. Oggi è invece universalmente condivisa almeno l’attribuzione dei dipinti al Falconetto proposta nel 1931 dal Fiocco, che datò l’opera attorno al 1520. Circa la datazione dei dipinti riteniamo di aver stabilito il “terminus post quem”, avendo osservato nel 1984 che due personaggi (uno nel Gemelli e l’altro nell’Acquario) sono stati tratti dall’incisione di Luca di Leida, “La conversione di san Paolo” del 1509. La sala misura misura m 9.70 x 15.40 x 6.30 e presenta le quattro pareti adorne dei segni zodiacali, uno su ciascuno dei lati brevi, cinque su entrambi quelli lunghi, così che i segni opposti si affrontano fra loro: ad Ariete si oppone Libra, a Toro Scorpione, a Gemelli Sagittario, a Cancro Capricorno, a Leone Acquario, a Vergine Pesci. Purtroppo la Libra è stata nascosta da un camino addossato alla parete forse nel XVII sec., ma la raffigurazione che decora la fronte della cappa, ripete probabilmente quella originaria perduta. Al soffitto a cassettoni lignei è ancora infisso il robusto anello di ferro che reggeva il perduto lampadario. Intorno, lungo le pareti, sono cassapanche di epoche diverse, e a destra del tavolo posto di fronte al camino assieme ad alcune sedie è un esempio seicentesco di cassaforte dal complicato meccanismo di chiusura. Aggiungiamo che al centro delle arcate la chiave di volta è costituita da una protome (gorgòneion, ossia una testa di Gorgone, con due serpentelli sporgenti sotto il collo, complicato di due ali, nell’Ariete, o affiancata da due uccelli; testa taurina; maschera teatrale virile comica; testa di Giove Ammone; aquila) che si ripete specularmente nel segno opposto. Inoltre alcuni motivi decorativi dei finti pilastri si ritrovano simili, ad esempio, a Verona, nel portale di via Carlo Cattaneo, 6. Affiancate da fantastiche figure teratomorfiche di grande interesse iconografico adornano la fascia superiore sedici rappresentazioni desunte (tranne il primo, il dodicesimo e il quindicesimo) da miti ovidiani, seminate, come i sottostanti medaglioni dei Cesari corredati di epigrafi, di globuli di cera dorata. Le diverse immagini zodiacali, che trovano il modello diretto nell’affresco attribuito al Pinturicchio del palazzo di Domenico della Rovere a Roma (di cui rimangono pochi lacerti), sono state formulate secondo un criterio che si ripete in modo simile nei vari segni. Perlopiù in primo piano la rappresentazione delle diverse attività dei mesi e sullo sfondo un mito classico o una pagina di storia antica, e un’architettura di epoca romana o bizantina. A sinistra o a destra del segno, che campeggia sulle nubi del cielo sotto la chiave di volta delle arcate, un personaggio([Giove in Ariete, Toro, Gemelli, Leone, Vergine, Sagittario, Capricorno; Giunone in Cancro e Scorpione; Giove (?) in Pesci) sporge da sopra l’uno o l’altro dei capitelli per collocare l’animale o altra figura in cielo e farne segno astrale: particolare scomparso nella Libra e assente nell’Acquario, sostituito dal volo di Ganimede verso il cielo sull’aquila di Giove. Le raffigurazioni dei mesi dovettero essere desunte da quelle dei citati affreschi romani, la cui fonte letteraria, da noi individuata e ormai accettata, fu il romanzo bizantino del XII sec. di Eustathios (o Eumathios) Makrembolites, “Ismine e Isminia”.

 

 

(nelle immagini: alcuni segni zodiacali)

Affiancate da fantastiche figure teratomorfiche di grande interesse iconografico adornano la fascia superiore sedici rappresentazioni desunte (tranne il primo, il dodicesimo e il quindicesimo) da miti ovidiani, seminate, come i sottostanti medaglioni dei Cesari corredati di epigrafi, di globuli di cera dorata. Procedendo dalla parete dell’ Ariete (parete settentrionale) verso destra si riconoscono i seguenti miti:
(click sulle foto per ingrandimento)

01 – Pan ebbro e sonnolento portato dai putti e da un satiro.
Fregio della parete settentrionale.
Al di sopra della prima finestra.

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02 – Giove, mutatosi in toro, rapisce Europa.
Fregio della parete settentrionale.
Al di sopra dell’Ariete.

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03 – Il mito di Meleagro (le Parche: Cloto, Lachesi e Atropo, l’una soprintendente alla nascita, l’altra alla vita, la terza alla morte degli uomini) e il piccolo Meleagro con la madre Altea che esibisce il tizzone spento dal quale dipendeva la vita del figlio.
Fregio della parete settentrionale.
Al di sopra della seconda finestra.

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04 – Èneo liba agli dèi dell’Olimpo (ma dimenticandosi di Diana) assieme al figlio Meleagro e alla moglie Altea.
Fregio della parete orientale.
Al di sopra del Toro.

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05 – Meleagro uccide il cinghiale calidonio (a quella caccia parteciparono anche i Dioscuri, che cavalcano sullo sfondo), la cui pelle egli avrebbe donato ad Atalanta; sul lato sinistro è raffigurata Diana.
Fregio della parete orientale.
Al di sopra del Cancro.

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06 – Altea brucia il tizzone da cui dipendeva la vita del figlio Meleagro, reo di averle ucciso i fratelli Ideo, Plesippo e Linceo, che volevano sottrarre ad Atalanta la pelle del cinghiale.
Fregio della parete orientale.
Al di sopra dei Gemelli.

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07 – Meleagro morente.
Fregio della parete orientale.
Al di sopra della Vergine.

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08 – Altea getta nel fuoco il tizzone da cui dipendeva la vita del figlio Meleagro.
Fregio della parete orientale.
Al di sopra del Leone.

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09 – Latona tra i figli Diana e Apollo.
Fregio della parete meridionale.
Al di sopra della prima finestra.

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10 – Apollo saetta sul monte Sipilo i figli di Niobe, madre di dodici (sei femmine e sei maschi) o di quattordici figli (sette maschi e sette femmine), ma il numero varia, che s’era vantata d’essere più prolifica di Latona, madre di soli due figli.
Fregio della parete meridionale.
Al di sopra della Libra.

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11 – Atteone, cacciatore mutato in cervo per aver visto Diana e le compagne al bagno, e sbranato dai suoi stessi cani.
Fregio della parete meridionale.
Al di sopra della seconda finestra.

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12 – Una figura muliebre (derivata dalla statua della Ninfa “alla spina” conservata agli Uffizi), offre un cinghialetto a Venere assisa sul delfino (fraintendimento, secondo lo Schweikhart, del mito di Polifemo che offre un orsetto a Galatea).
Fregio della parete occidentale.
Al di sopra dello Scorpione.

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13 – Cerere o Demetra in cerca della figlia Prosepina rapita da Plutone mentre coglieva fiori sull’Etna.
Fregio della parete occidentale.
Al di sopra del Sagittario.

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14 – Plutone rapisce Proserpina, figlia di Cerere.
Fregio della parete occidentale.
Al di sopra del Capricorno.

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15 – Il trionfo di Bacco e Arianna.
Fregio della parete occidentale.
Al di sopra dell’Acquario.

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16 – Apollo con la lira, Marsia legato all’albero, condannato ad essere spellato perché sconfitto dal nume di Parnaso nella gara musicale, e Olimpo, discepolo di Apollo, ma anche ritenuto ora padre ora, ma più spesso, figlio di Marsia, che pianse e seppellì il padre morto.
Fregio della parete occidentale.
Al di sopra dei Pesci.

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studio e ricerca a cura di Lucica Bianchi

fonte: sito ufficiale del Museo D’Arco, Mantova

Il trionfo della luce : strumento di verità o alfabeto metafisico?

Letture d’arte in Ambrosiana al quinto appuntamento

Il quinto ap­pun­ta­mento delle Let­ture d’arte presso la Pi­na­co­teca Am­bro­siana di Mi­lano (Piazza Pio XI, 2), che si terrà mer­co­ledì 25 feb­braio alle 18.00, af­fronta il tema della luce nei di­pinti an­ti­chi.
Da­gli ab­ba­glianti saggi bi­zan­tini ai « lumi » set­te­cen­te­schi at­tra­verso la ma­gia ca­ra­vag­ge­sca, la sto­rica dell’arte Fe­de­rica Spa­dotto in­tra­pren­derà un ex­cur­sus ana­li­tico, so­cio­lo­gico ed emo­zio­nale su uno dei temi più af­fa­sci­nanti per il pub­blico di ogni tempo : l’impalpabile at­mo­sfera della ma­te­ria che si fa poesia.

 

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Nella foto: Mi­che­lan­gelo Me­risi da Ca­ra­vag­gio, Ca­ne­stra di frutta, Pi­na­co­teca Ambrosiana

http://www.ambrosiana.eu/jsp/index.jsp

http://www.ambrosiana.eu/cms/letture_d_arte-2317.html

IL PONTE DI ARGENTEUIL

 

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Claude Monet, Il ponte di Argenteuil ,1874, Musèe d’Orsay

Nel corso del 1874, anno della prima mostra del gruppo impressionista, il ponte di Argenteuil fu rappresentato sette volte da Claude Monet mentre il ponte ferroviario, che scavalca la Senna a monte del paese, quattro volte. Il che dimostra quanto l’artista, che giocava sugli effetti di contrasto prodotti dal regolare fluire del corso d’acqua con la massa geometricamente costruita del ponte e dei suoi piloni soggetti ai riflessi, fosse legato a questo motivo.
Nel quadro qui raffigurato, il primo piano è occupato da barche a vela ormeggiate. Gli effetti di luce sugli alberi delle imbarcazioni ed anche sulle coperture dei tetti delle abitazioni visibili sulla sponda in secondo piano, permettono giochi di colori complementari (arancione e blu) che accentuano la vivacità della luce. Il Ponte di Argenteuil rivela una diversità nella fattura: contorni ancora chiusi degli elementi solidi o architetturali, come le imbarcazioni a vela ed il ponte, fluidità omogenea dell’acqua in primo piano, pennellata spezzata che compare sui riflessi in secondo piano.

Il Ponte di Argenteuil, un tema dipinto da molti impressionisti, è una composizione equilibrata, classicamente ritmata: gli alberi delle barche richiamano i piloni del ponte e la vela arrotolata, la sponda; l’azzurro dell’acqua in primo piano richiama l’azzurro del cielo mentre i verdi e i gialli vibrano nell’acqua come nella riva e negli alberi del fondo.

“La rappresentazione dello spazio, non articolata, senza piani precisi, unisce il vicino e il lontano. Viola e gialli sono nell’azzurro dell’acqua come del cielo, eppure il loro tono diverso distingue la sostanza liquida dall’eterea, in modo da costruire lo specchio del fiume come base del cielo. La prospettiva geometrica è abbandonata per rivelare il fluire infinito della vita atmosferica. Ciascun colore è attenuato, ma il loro insieme è intenso, per rivelare la contemplazione del giorno che muore infocato all’orizzonte, mentre la gran vela si raffredda in penombra grigia. È la contemplazione del visionario che partecipa alla vita della luce, al suo lento morire al tramonto, al suo diffondere su tutta la natura un velo di malinconia” (Venturi).

 

Lucica Bianchi

CRISTIANESIMO E LA CHIESA RUSSA

Lungo il corso dei secoli VII-IX le pianure di quella che oggi è la Russia furono interessate da un massiccio popolamento, oltre alle popolazioni nomadi presenti nella zona già da millenni iniziarono a giungervi anche i vichinghi, chiamati dalle genti del posto variaghi, che ben presto stabilirono rotte commerciali dalla Scandinavia al Mar Nero e di lì fino a Costantinopoli. I normanni riuscirono ad imporsi ben presto come classe dirigente dei popoli stanziati nell’alta valle del Dnjepr, da qui poi cominciarono a espandersi.

La regione dove si stanziarono i vichinghi era costituita dall’area oggi corrispondente all’Ucraina settentrionale, una regione quindi molto ricca di grano. Fu grazie a questa risorsa che i vichinghi poterono accedere alle immense ricchezze messe loro a disposizione dal mercato cerealicolo di Costantinopoli, la quale essendo all’epoca la più grande città del mondo aveva continuo bisogno d’approvvigionamento di beni alimentari.

Visti gli stretti rapporti con la seconda Roma, i variaghi, diventati col tempo signori di Kiev, subirono ben presto l’influenza del cristianesimo. Fu grazie all’opera dei fratelli monaci Cirillo e Metodio, che le regioni della Russia meridionale e dell’Ucraina furono convertite al cristianesimo. Il cristianesimo della chiesa russa però ebbe poco a che fare col cristianesimo occidentale, infatti la chiesa ortodossa divenne ben presto egemone nella vita religiosa dei variaghi, alla fine del X secolo sulla spinta della popolarità di cui la nuova religione godeva fra la gente e anche per ingraziarsi l’imperatore bizantino, i principi di Kiev si convertirono al cristianesimo ortodosso.

Nel 989 Vladimir principe di Kiev decise di abbandonare il paganesimo e costrinse alla conversione il suo intero popolo, da questo momento grazie alla conversione e all’appoggio di Bisanzio il principato di Kiev diverrà lo stato egemone delle terre russe, con la conversione arrivò anche la struttura ecclesiastica sulla quale i bizantini mantennero il controllo, infatti il patriarca ortodosso di Costantinopoli si garantirà il diritto di nominare il metropolita di Kiev, assumendo quindi un controllo diretto sul vertice della chiesa russa e precludendo qualunque influenza cattolica sull’evangelizzazione delle steppe.

La Russia di Kiev della fine del X e inizio del XI secolo è uno stato potente e unito, ma già con i suoi eredi, l’antico stato si suddivide in principati autonomi, tanto che dalla metà del XII secolo inizia un lungo periodo di disgregazione politica.
All’inizio del XIII secolo le terre russe subirono i primi seri attacchi dal potentissimo esercito mongolo, sotto il comando del khan Batu nipote di Gengis Khan, tanto che nella metà del XIII secolo circa, quasi tutti i principati russi si trovarono sotto il potere dell’Orda d’Oro. Contemporaneamente, nell’Impero romano d’Oriente governa la dinastia Macedone (metà del IX – metà del XI secolo); con essa si avrà una nuova fioritura delle arti, denominata dagli storici come “rinascimento macedone”. Con l’arrivo del cristianesimo in Russia si iniziano a costruire le prime chiese in muratura, e con esse, si da impulso alle nuove arti – musive, pittoriche (affreschi, icone e miniature) e le arti applicate in genere. L’imponenza e la straordinaria portata di questi edifici e opere servivano a enfatizzare la grandezza del nuovo stato cristiano e dei principi di Kiev.Le icone più antiche a noi pervenute, sono databili tra XI – inizio XII secolo; molte di queste, sono state poi portate a Mosca, nel XVI secolo, dallo zar Ivan il Terribile. Nella Cattedrale della Dormizione, presso il Cremlino di Mosca, si conserva una di queste icone, di grandi dimensioni, dipinta sui due lati – La Madonna Odigitria con Bambino (metà del XI secolo), usata per le processioni. Sul retro troviamo l’immagine di San Giorgio, martire e guerriero, in ottime condizioni rispetto all’immagine principale, mostrante la lancia nella mano destra e la spada in quella sinistra. Di norma sul lato anteriore delle icone usate per le processioni venivano dipinte l’immagine della Madonna e sul retro – la Croce o la Crocefissione o l’immagine di un santo martire come manifestazione della Passione di Cristo.

 

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L’antica immagine della Theotokos, purtroppo, risulta assai rovinata: i riflessi, le ombreggiature, ma soprattutto lo sguardo malinconico di Maria, stilisticamente, collocherebbero l’opera nel XIV secolo, periodo in cui sarebbe stata pesantemente rimaneggiata. Della vecchia immagine del XI secolo, sono rimaste solo le grosse proporzioni e le pieghe appesantite dell’abito.La composizione densa e intensa, la resa voluminosa delle forme, con allusione alla realtà, trapela invece nell’immagine di San Giorgio, sia nel volto, sia nelle mani, sia nell’armatura dipinta con straordinaria verosimiglianza e precisione, soprattutto nella riproduzione delle giunture delle diverse placche della corazza. L’immagine eroica dell’irriducibile sostenitore e difensore della fede cristiana si manifesta grazie alle grandi proporzioni: infatti, la figura arriva quasi a toccare i margini della tavola. Il colore del volto, straordinariamente chiaro e luminoso, così diverso dalla scelta artistica del secolo successivo, rende quest’opera veramente unica.

Lucica Bianchi

La maternità: iconografia dei sentimenti e relazioni simboliche nei dipinti dell’Ambrosiana

Letture d’arte in Ambrosiana

 

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Jacopo Bassano – Riposo durante la fuga in Egitto(particolare), Pinacoteca Ambrosiana

Prosegue il ciclo delle Letture d’arte dei dipinti della Pinacoteca con una conferenza dedicata al tema della maternità (Iconografia dei sentimenti e relazioni simboliche)

Mer­co­ledì 28 gen­naio (ore 18.00) presso la Pi­na­co­teca Am­bro­siana di Mi­lano si è tenuto il quarto ap­pun­ta­mento con le “Let­ture d’arte”, in cui Fe­de­rica Spa­dotto ha passato in ras­se­gna, at­tra­verso i ca­po­la­vori del pre­sti­gioso mu­seo, con­cetti, si­gni­fi­cati, im­pli­ca­zioni cul­tu­rali e so­cio­lo­gi­che di uno dei temi più tra­sver­sali della sto­ria dell’arte.
Nel le­game tra ma­dre e fi­glio si di­pa­nano, in­fatti, i nodi cru­ciali di ogni po­polo nel suo rap­porto con il di­vino e la sog­get­ti­vità, in cui l’esperienza dell’Io si fonde con il mi­stero della vita e le sue stesse ori­gini.
Agli ar­ti­sti il com­pito di farsi in­ter­preti di un ric­chis­simo pa­no­rama, dove il tema della ma­ter­nità si rende con­te­ni­tore di si­gni­fi­cati sim­bo­lici e cri­sto­lo­gici, ol­tre a tra­smet­tere la sot­tile ele­gia di un sen­ti­mento da noi tutti condiviso.

 

http://www.ambrosiana.eu/jsp/index.jsp

http://www.ambrosiana.eu/ftp/Incontri_2014-2015/LA/Lettura_4/LA_IV_4-5.html

AMORE E PSICHE

“L’amore ci avviluppa sempre: siamo noi, con il nostro atteggiamento verso esso, a trasformarlo in fuoco oppure in luce.” 
Jean Guitton

 

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Antonio Canova, Amore e Psiche, 1788-1793. Marmo bianco, 155 cm. Musee du Louvre, Parigi

Amore e Psiche è un gruppo scultoreo realizzato da Antonio Canova tra il 1788 e il 1793, esposta al Museo del Louvre a Parigi. Ne esiste una seconda versione (1800-1803) conservata all’Ermitage di San Pietroburgo in cui i due personaggi sono raffigurati in piedi e una terza (1796-1800), sempre esposta al Louvre, in cui la coppia è stante. Delle tre versioni, la prima, cronologicamente parlando, è la più famosa e acclamata dalla critica. Da segnalare che presso Villa Carlotta a Tremezzo è visibile una replica della scultura commissionata ad Antonio Canova dal principe russo Yussupoff (oggi conservata al museo Ermitage di San Pietroburgo) eseguita tra il 1818 e il 1820 da Adamo Tadolini, derivata dal modello originale che lo stesso Canova aveva donato all’allievo prediletto Tadolini con l’autorizzazione di trarne quante copie ne volesse. L’opera rappresenta, con un erotismo sottile e raffinato, il dio Amore mentre contempla con tenerezza il volto della fanciulla amata, ricambiato da Psiche da una dolcezza di pari intensità. L’opera rispetta i canoni dell’estetica winckelmanniana, infatti, le figure sono rappresentate nell’atto subito precedente al bacio, un momento carico di tensione, ma privo dello sconvolgimento emotivo che l’atto stesso del baciarsi provocherebbe nello spettatore. Questo è il momento di equilibrio, dove si coglie quel momento di amoroso incanto tra la tenerezza dello smarrirsi negli occhi dell’altro e la carnalità dell’atto. Le due figure si intersecano tra di loro formando una X morbida e sinuosa che dà luogo ad un’opera che vibra nello spazio. La scultura è realizzata in marmo bianco, levigato e finemente tornito, sperimentando con successo il senso della carne, che Canova mirava a ottenere nelle proprie opere. La monocromia, in contrasto alla drammaticità e al pittoricismo barocco, è un canone del neoclassicismo che Canova riprende per menomare la carica espressiva. L’opera Amore e Psiche del 1788 è un capolavoro nella ricerca d’equilibrio. In questo squisito arabesco, infatti, le due figure sono disposte diagonalmente e divergenti fra loro. Questa disposizione piramidale dei due corpi è bilanciata da una speculare forma triangolare costituita dalle ali aperte di Amore. Le braccia di Psiche invece incorniciano il punto focale, aprendosi a mo’ di cerchio attorno ai volti. All’interno del cerchio si sviluppa una forte tensione emotiva in cui il desiderio senza fine di Eros è ormai vicino allo sprigionamento. L’elegante fluire delle forme sottolinea la freschezza dei due giovani amanti: è qui infatti rappresentata l’idea di Canova del bello, ovvero sintesi di bello naturale e di bello ideale. La scena, tratta dalla leggenda di Apuleio, appartiene alle allegorie mitologiche della produzione del Canova e per queste radici si accomuna al gruppo di Apollo e Dafne del Bernini, benché si differenzi dalle intenzioni di quest’ultimo (che desiderava suscitare stupore e meraviglia), allorché in Amore e Psiche si percepisce la tensione verso la perfezione classica ed una protesta contro la finzione, l’artificio ed il vuoto virtuosismo barocco. Ciononostante, quando l’opera venne esposta venne giudicata troppo barocca e berniniana, come era già accaduto per Ebe, criticata perché si poggiava su una nuvola.

 

Lucica Bianchi

 

INVITO AL MUSEO – Casa Museo Lodovico Pogliaghi

 

La vita e le opere di Lodovico Pogliaghi

 

Pogliaghi

Lodovico Pogliaghi (Milano 1857 – Varese 1950) nacque nel gennaio 1857 a Milano dall’ingegnere ferroviario Giuseppe Pogliaghi e da Luigia Merli, entrambi appartenenti a ricche e distinte famiglie borghesi milanesi. Frequentò il Liceo Parini di Milano per poi iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove fu suo professore Giuseppe Bertini (Milano 1825 – Milano 1898).

 

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Fantasia, facilità di esecuzione, ordine e profonda dedizione caratterizzano l’opera del pittore, scultore, architetto e scenografo Pogliaghi. Ai dipinti giovanili a carattere religioso e storico – nonché al restauro e alla decorazione di nobili dimore – affiancò presto la produzione scultorea, ambito che più gli riuscì congeniale. Si applicò con grande finezza ed eleganza anche alla grafica, alla glittica, all’oreficeria e all’arte vetraria. Fu insegnante d’ornato a Brera dal 1891 e fece parte dei più importanti consessi artistici.

La sua prima commissione di rilievo fu il dipinto raffigurante la Madonna fra Santi (1878) per la chiesa parrocchiale di Solzago (CO), cui seguì la Natività della Vergine per la chiesa di San Donnino a Como nel 1885. Nel 1886 iniziò un nuovo progetto artistico che vide la pubblicazione delle Illustrazioni per la Storia d’Italiaedite dalla Casa Treves di Milano. Negli stessi anni cominciò un tirocinio sotto la direzione di Giuseppe Bertini, durante il quale collaborò all’arredamento del Museo Poldi Pezzoli e alla decorazione di Palazzo Turati a Milano.

Delle sue opere di decorazione occorre citare le pitture compiute nel salone centrale del Castello del Valentino a Torino, i cartoni per i mosaici delle lunette del Famedio milanese (1887) e della cappella mortuaria di Giuseppe Verdi e i complessi lavori eseguiti nella Cappella Cybo del Duomo di Genova. Scultore particolarmente prolifico, a lui si debbono il sepolcro di Quintino Sella a Oropa (1892), il Crocifisso per l’altar maggiore del Duomo di Milano (1926), il gruppo colossale della Concordia nel monumento a Vittorio Emanuele II a Roma, il tabernacolo di bronzo nella Basilica di San Vittore a Varese (1929), la tomba di Camillo e Arrigo Boito a Milano (1927), il sepolcro di Ludovico Antonio Muratori a Modena (1930), le porte del tabernacolo, un Crocifisso in argento e sei statue di bronzo per l’altar maggiore del Duomo di Pisa.

 

 

Tabernacolo San Vittore

Tabernacolo San Vittore

 

La sua opera più famosa è di certo la porta centrale del Duomo di Milano, alla quale lavorò alacremente dal 1894 al 1908 dalla sua casa al Sacro Monte di Varese, dove si conserva ancora il gesso originale.

 

 

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Porta Duomo di Milano

Porta Duomo di Milano

 

Lavoratore instancabile, univa una facile ispirazione a una eccezionale preparazione tecnica e culturale, una volontà tenace a una resistenza formidabile, una scrupolosa acutezza di esecuzione a un’estrema rapidità di creazione. Il suo percorso artistico è stato permeato da un’intransigente fedeltà alla tradizione e da una rigida disciplina accademica. Dibattuto tra gli ultimi aneliti del tardo Romanticismo e qualche timida apertura alla sensualità Liberty, Pogliaghi resterà sostanzialmente escluso dai movimenti rivoluzionari e dalle avanguardie che tra fine Ottocento e la metà del Novecento cambiarono completamente il volto dell’arte europea. Egli fu artista nel senso rinascimentale del termine, dedito com’era al costante affinamento virtuosistico delle sue abilità tecniche ed espressive.

Alla sua produzione artistica affiancò un’intensa ed eclettica attività collezionistica. La sua passione per antichità e bizarrerie lo portò a rendere la sua abitazione al Sacro Monte di Varese uno splendido scrigno di tesori, una preziosa Wunderkammer tardo ottocentesca. Qui si spense all’età di 93 anni, ancora nel pieno della sua attività artistica e collezionistica.

 

La Casa Museo

Lavorando al restauro delle cappelle del Sacro Monte di Varese, Pogliaghi rimase stregato – come molti prima di lui – dalla tranquillità e dalla bellezza di questi luoghi. A partire dal 1885 decise di acquistare vari terreni attigui sui quali iniziò a costruire la villa alla quale lavorò quotidianamente e alacremente fino alla morte, sopraggiunta nel 1950. Concepì l’abitazione come un laboratorio-museo dedicato al ritiro, allo studio e all’esposizione del frutto della sua passione collezionistica. L’edificio, progettato dallo stesso Pogliaghi, riflette il gusto ecclettico dell’epoca e l’interesse del proprietario verso tutte le forme d’arte, con sale ispirate ai diversi stili architettonici e un giardino all’italiana costellato di antichità e oggetti curiosi.

 

Casa Museo Pogliaghi-ingresso

Casa Museo Pogliaghi-ingresso

La villa, donata da Pogliaghi alla Santa Sede nel 1937 e oggi di proprietà della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, è stata aperta come museo dal 1974 e sino agli anni ‘90 del Novecento e ha riaperto al pubblico nel maggio del 2014.

 

Ingresso Giardino Museo

Ingresso Giardino Museo

 

L’allestimento, progettato per la nuova apertura, propone di avvicinarsi il più possibile all’allestimento degli anni ’50 del Novecento, conservando l’originale e personalissima disposizione degli arredi e delle opere dello stesso Pogliaghi.

 

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IL PERCORSO ESPOSITIVO

 

 

 

 

 

Sala della Madonna

La sala d’ingresso della casa museo è detta Sala della Madonna o Sala delle Collezioni per via dell’intenzione di Pogliaghi di esporvi i pezzi più preziosi e rappresentativi della sua collezione. L’allestimento, la scelta dei pezzi, la decorazione pittorica e le stesse vetrine sono state concepite e realizzate da Pogliaghi stesso.

La selezione degli oggetti esposti può essere considerata una sorta di campionario non solo delle passioni collezionistiche dell’eclettico artista, ma anche della storia dell’arte e dell’archeologia in generale. Sono infatti presentate opere dei più diversi materiali (terracotta, oro, argento, avorio, porcellana, carta, tessuto prezioso…) e provenienti dai più diversificati contesti storici, artistici e geografici. Tra i pezzi più significativi si segnalano un Cristo in croce dello scultore fiammingo Giambologna, una Madonna col bambino tedesca in legno policromo datata all’inizio del Cinquecento, vetri delle manifatture medicee e veneziane, statue e oggetti votivi orientali.

Sala del Telamone

Questa piccola stanza che congiunge l’ingresso con la Biblioteca di Lodovico Pogliaghi è anch’essa caratterizzata dall’eclettismo e dalla grande eterogeneità dei materiali esposti: un forziere settecentesco, una Madonna lignea umbra di XIV secolo e un telamone padano di XII secolo.

Biblioteca

Originariamente contente preziosi incunaboli, pergamene, autografi e cinquecentine, oggi la biblioteca di Lodovico Pogliaghi è stata trasferita presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano – ente proprietario della casa museo e della collezione – che ne garantisce la corretta conservazione e accessibilità. La rimozione delle scaffalature, scomparse già dalla prima apertura al pubblico, ha permesso di dare maggiore visibilità alla decorazione progettata e realizzata dallo stesso Pogliaghi. Benché i lavori siano rimasti incompiuti, è chiaro l’intento di rendere l’atmosfera di uno studiolo rinascimentale toscano. La stanza è oggi utilizzata per esporre una parte della produzione di medaglie e placchette commemorative di Pogliaghi. Noto e apprezzato incisore, Pogliaghi ha difatti lavorato a moltissimi soggetti richiesti dalle più diversificate committenze.

La biblioteca ospita inoltre un prezioso tavolo intarsiato d’avorio, uno splendido bozzetto in terracotta dellaSanta Bibiana (1624-1626) di Gian Lorenzo Bernini e alcuni degli oli su tavola della sua collezione, tra cui unaMadonna del latte (XVI secolo) del piemontese Defendente Ferrari.

Sala Rossa

La Sala Rossa o Salone prende il nome dagli splendidi damaschi settecenteschi cremisi che Pogliaghi utilizza come tappezzeria e alla cui sommità colloca un fregio decorativo da lui realizzato con putti alati, dall’effetto fortemente tridimensionale, che reggono ghirlande e tondi figurati. Sempre settecentesche sono le preziose specchiere e i lampadari in vetro di Murano, esemplificativi della grande passione di Pogliaghi per i vetri antichi. Domina la sala un grande vaso cinese tardo Ming incorniciato e sorretto dalla montatura bronzea del Pogliaghi.

Dal Salone si accede al piacevolissimo balcone – dominato da una riproduzione del tripode realizzato dallo scultore per l’interno del mausoleo canoviano a Possagno – dal quale è possibile godere di un meraviglioso colpo d’occhio sulla vallata e i laghi. Ad incorniciare il balcone due vetrine di ceramiche e porcellane occidentali e orientali. Sono rappresentate molte manifatture italiane (Faenza, Lodi, Bassano del Grappa, Laveno) e straniere (Cina, Giappone, Meissen, Compagnia delle Indie). Spiccano infine alcune opere pittoriche, tra cui: una tavoletta con Cristo portacroce del pittore lombardo seicentesco Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, una tela con un Nano deforme da Pogliaghi attribuito (erroneamente) a Caravaggio e una Madonna con bambino attualmente considerata di Giambattista Tiepolo.

Galleria dorata

Dopo aver attraversato un piccolo ambiente di congiunzione decorato da Pogliaghi con tessuti antichi e pietre lavorate, si accede alla Galleria dorata che si configura come una sorta di modellino in scala 1:4 di un’importante commissione che Pogliaghi ricevette da oltre i confini nazionali. Si tratta infatti di un progetto in gesso, stucco dorato e specchi del bagno per la reggia del terz’ultimo Scià di Persia da realizzarsi in oro zecchino in dimensioni quattro volte maggiori. Lo Scià per ringraziare Pogliaghi del progetto gli regalò le caleidoscopiche lastre di alabastro che dominano la finestra della stanza e, probabilmente grazie alla sua intercessione, Pogliaghi riuscì ad acquisire nella sua collezione i sue rari sarcofagi egizi datati tra 900 e 700 a.C. che spiccano nell’ambiente. Da segnalare sono infine la Testa virile da Pogliaghi attribuita allo scultore rinascimentale Tullio Lombardo, ma forse riferibile alla statuaria romana del periodo aureliano, e il modelletto bronzeo del Giambologna per l’Ercole e Nesso della Loggia della Signoria a Firenze.

Atelier

Dalla Galleria dorata si accede direttamente al grande studio dell’artista, utilizzato da Pogliaghi e dai suoi aiuti per lavorare alle imponenti commissioni che hanno caratterizzato la sua attività. Qui sono riuniti modellini e riproduzioni eseguite da Pogliaghi stesso delle sue opere più importanti. In particolare si segnalano gli Angeliporta-cero eseguiti per l’altare maggiore della Chiesa Primiziale di Pisa, un bozzetto per la Pietà della Cappella espiatoria di Monza, i Profeti per la Basilica del Santo a Padova, il gruppo della Concordia per l’Altare della Patria di Roma e alcune imposte bronzee per la porta centrale della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Domina la sala la maggiore commissione ricevuta da Pogliaghi che lo assorbirà completamente tra 1894 e 1908: la porta centrale del Duomo di Milano. Incorniciato dalla splendida scalinata in marmo di Candoglia, il modello in gesso in scala 1:1 sorprende e affascina il visitatore con la sua prorompente e scenografica teatralità. Le formelle in gesso – dopo aver subito il processo di fusione a cera persa per ottenere l’opera finale in bronzo – sono state assemblate, rilavorate, incerate e in parte colorate dall’artista per ottenere una personale riproduzione dell’opera. Così come il Duomo milanese, la porta è dedicata alla Madonna e propone sul battente di sinistra i misteri dolorosi della storia di Maria e su quello di destra i misteri gaudiosi. I due battenti sono sormontati da elemento fisso nel quale spicca l’incoronazione della Madonna assunta in cielo da Cristo tra angeli e santi significativi per la città di Milano.

All’interno dell’ambiente compaiono anche delle opere della collazione dell’artista, in particolare si segnalano le due tele del pittore genovese Alessandro Magnasco, attivo tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, e due modellini di grandi scultori italiani dell’Ottocento e del Novecento: Giuseppe Grandi e Francesco Messina.

Esedra

All’interno di questo ambiente che si ispira chiaramente al Pantheon romano, Pogliaghi raduna gran parte della sua collezione antica, tra cui troviamo esempi di arte egizia, etrusca, greca, romana e rinascimentale. Molti pezzi sono modificati, ricomposti e assemblati da Pogliaghi in pastiche tipici del gusto eclettico ottocentesco.

All’interno delle vetrine raduna ceramiche e altri materiali archeologici di varia provenienza.

 

Le collezioni

Nell’arco di sessant’anni Pogliaghi raccolse nella sua abitazione al Sacro Monte di Varese una prestigiosa e consistente collezione di opere d’arte. Questa comprendente preziosi reperti archeologici egizi, etruschi e di epoca greco-romana (ceramica, sarcofagi, statuaria, glittica, vetri), pitture e sculture databili tra il Rinascimento e l’epoca barocca (tra cui pregiate statue lignee del XV e XVI secolo, un bozzetto di Bernini, due modellini del Giambologna e tele di Procaccini, Magnasco e Morazzone), una ricca collezione di tessuti antichi europei e asiatici (eccezionale la collezione di tappeti orientali), pregiati arredi storici, curiosità e oggetti bizzarri da tutto il mondo. Accanto alla sua collezione – allestita con gusto personale e ottocentesco tendente all’horror vacui – la villa conserva bozzetti, gessi, disegni e materiali di lavoro di Pogliaghi, tra cui gli splendidi gessi originali della porta maggiore del Duomo di Milano, recuperati dopo la fusione a cera persa e riassemblati e rilavorati dallo stesso Pogliaghi. Parte della collezione, con un allestimento museale, è visibile – su richiesta – negli ambienti, restaurati e nuovamente allestiti nel 2005, del Rustico della Casa Museo Lodovico Pogliaghi.

 

In totale la villa ospita più di 1500 opere tra dipinti, sculture e arti applicate e circa 580 oggetti archeologici.

 

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Collegamenti esterni:

 

(studio a cura di Lucica Bianchi)

SULLA TERRAZZA, RENOIR

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Pierre Auguste Renoir, Sulla Terrazza
1881, Olio su tela, cm 100,5 x 81
Chicago (Illinois), Art Institute

Secondo alcuni la tela sarebbe stata dipinta nel giardino dell’abitazione del pittore in Rue Cortot, nel 1879, secondo altri sulla terrazza del ristorante Fournaise di Chatou, nel 1881. Sicuramente però il dipinto appartiene alla stagione del denso cromatismo en plein air della Colazione dei canottieri. La modella, in centro, è l’attrice Jeanne Darland che posa insieme a sua sorella minore. Il dipinto, quasi a grandezza naturale, fu probabilmente eseguito a Chatou, una località di villeggiatura in riva al fiume poco distante da Parigi, dove Renoir passò la primavera del 1881. L’artista ha usato la ringhiera del terrazzo per suddividere orizzontalmente lo spazio pittorico in sfondo e primo piano: i colori intensi delle figure in primo piano si fanno più sfumati in lontananza. Per evitare che i colori si mischiassero troppo e mantenere così la purezza, Renoir li ha mescolati direttamente sulla tela con la tecnica del wet-in-wet (bagnato su bagnato), accostandoli o sovrapponendoli l’uno sull’altro prima che si fossero asciugati.

Renoir aveva la tendenza a diluire i propri colori più di quanto non facessero gli altri Impressionisti, applicandoli con pennellate fluide e leggerissime. Questa delicata tecnica, che permette al fondo chiaro di trasparire, è usata nel caso della pelle traslucida della bimba e per gli occhi azzurri. Per contrasto, il vivace cappello è dipinto a impasto, a dimostrazione della maestria e dell’abilità con cui Renoir dipingeva i fiori.

I fiori sul cappello della sorella minore sono stati ottenuti con spesse pennellate a impasto applicate con la tecnica del wet-in-wet.
Renoir aveva la tendenza a diluire i propri colori più di quanto non facessero gli altri Impressionisti, applicandoli con pennellate fluide e leggerissime. Questa delicata tecnica, che permette al fondo chiaro di trasparire, è usata nel caso della pelle traslucida della bimba e per gli occhi azzurri. Per contrasto, il vivace cappello è dipinto a impasto, a dimostrazione della maestria e dell’abilità con cui Renoir dipingeva i fiori. I fiori sul cappello della sorella minore sono stati ottenuti con spesse pennellate a impasto applicate con la tecnica del wet-in-wet.

Il rosso fiamma del cappello della sorella maggiore è intensificato dai lampi luminosi delle foglie verdi: l’uso accorto dei complementari accostati consente infatti degli esiti brillanti e luminosi. Lo stesso rosso squillante ricompare in tutto il dipinto: nei gomitoli di lana, nel fiore rosso sul cappellino della sorella più piccola e nel nastro che corre tra la vita e il braccio della sorella maggiore. Il verde brillante della foglia sul cappello della sorella maggiore è ottenuto mescolando il verde smeraldo e il giallo di Napoli.

Le mani sono costituite da strati fluidi e sottili di colore applicati wet-in-wet con un pennello sottilissimo. Nelle mani della sorella maggiore, Renoir fa un uso delicato degli effetti visivi dei colori caldi e freddi: i rosa caldi e il dorato sembrano venire in avanti, mentre le fredde ombre azzurre indietreggiano.

I luminosi gomitoli di lana nel cesto sembrano rappresentare la gamma di colori base del dipinto e la tipica tavolozza impressionista. Ricompaiono di nuovo i complementari rosso e verde, ma qui si tratta di un rosso più puro e meno mischiato di quello del cappello. Strisce di biacca (color bianchetto) sono chiaramente visibili nei gomitoli rossi e rosa. Il contrasto sia di trama sia di colori con le aeree circostanti, dipinte con assoluta sicurezza, e le pennellate singole dei gomitoli esprimono fisicamente la lunghezza dei fili di lana.

La composizione è giocata su un crescendo che si perde nella profondità grazie a un zigzagare di linee leggermente ascendenti talune più marcate di altre.

 

Lucica Bianchi

LUCE E COLORE. TURNER E LA TEORIA DI GOETHE

Il motivo per cui le teorie dei colori di Isaac Newton (1642-1727) e di Wolfgang Goethe (1749-1832) vengono presentate insieme nonostante le separi un secolo di tempo, è che dagli inizi dell’800 furono percepite come antagoniste l’una dell’altra. Lo stesso Goethe quando mandò alle stampe nel 1808 la sua Teoria dei Colori, pensava di avere dato un colpo di grazia alle teorie scientifiche di Newton. Goethe ed una vasta cerchia di artisti ed intellettuali, pensavano che la teoria di Newton fosse un errore, un eccesso di fiducia da parte dell’uomo nei confronti delle sue capacità razionali, e che un fenomeno naturale come quello dei colori, apportatore di intense emozioni estetiche ed emotive, non potesse essere spiegato attraverso una teoria scientifica meccanicistica. La teoria di Newton, nonostante il tentativo di Goethe, rimase la base per gli sviluppi successivi della ricerca scientifica sui fenomeni legati all’ottica e alla luce, mentre la teoria di Goethe ebbe un certo seguito nel mondo dell’arte, perché poneva al centro della fenomenologia dei colori l’uomo e i suoi sensi. Tale attenzione da parte di Goethe al ruolo attivo dei sensi nella visione dei colori si rivelò, comunque,un intuizione valida scientificamente, come dimostrarono i risultati delle ricerche condotte nell’800, in tempi diversi, dai due scienziati britannici Thomas Young (1773-1829) e Charles Maxwell (1831-1879).Il pittore e incisore inglese William Turner ha assorbito la teoria di luce e ombra di Goethe e ha raffigurato la loro relazione in varie sue opere. L’artista esprime l’idea che ogni colore è una combinazione individuale di luce e ombra, cercando di rispondere anche ai concetti “del più” e “del meno” che Goethe ha ideato per creare un collegamento tra l’occhio e le emozioni. Pose grande attenzione alla post-immagine che resta sulla retina dopo la visione dell’immagine stessa. Attraverso questa il più si rivolge a colori come il rosso e il giallo mirata ad evocare ottimismo e sentimenti positivi, mentre il colore blu dà contrasto come se creasse l’emozione di malinconia e desolazione. Secondo il concetto di Goethe, il giallo si sottopone ad una transizione della luce che si oscura nel momento in cui la luce raggiunge il suo massimo bagliore, così come il sole splende nel cielo, e tende ad luce bianca che è senza colore. Ma la luce diventa più profonda e trasforma il giallo in arancione e infine alla tinta rossa. Turner illustra il processo transitorio del giallo nelle fasi della luce mostrando come, se l’osservatore si sposta dal centro, gli estremi della tela sono più scuri.

Lucica Bianchi

 

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nell’immagine: W.Turner, Mattino dopo il diluvio, 1843,Tate Gallery, Londra

L’ALBERO DELLA VITA

“Chi vuole sapere di più su di me, cioè sull’artista, l’unico che vale la pena di conoscere, osservi attentamente i miei dipinti per rintracciarvi chi sono e cosa voglio.”
Gustav Klimt

 

 

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L’ Albero della vita è un’opera del noto pittore austriaco Klimt, realizzata per i lavori di allestimento della residenza di Bruxelles dell’industriale Adolphe Stoclet. L’opera completa si compone di 3 pannelli: L’Albero costituisce la parte centrale; le altre due parti rappresentano L’Attesa e L’Abbraccio.Correva l’anno 1905 quando Adolphe Stoclet affidò a Klimt il lavoro. La famiglia Stoclet era composta da attenti collezionisti d’arte, appassionati di arti indiane e buddiste: Klimt volle proprio tenere in considerazione questi interessi del committente: di fatto il Palazzo Stoclet si pone come uno dei più significativi episodi dell’arte del Novecento come insuperato esempio di integrazione delle arti.Klimt disegna un fregio per la sala da pranzo che viene realizzato con sue precise indicazioni dagli artigiani della Wiener Werkstätte. Si tratta di un mosaico di marmi, corallo, pietre dure e maioliche. L’albero della vita, come anticipato, costituisce solo il pannello centrale dell’intera opera: le raffigurazioni dei tre pannelli sono ricche di simboli che riunificano tutti i temi cari a Klimt: i motivi floreali, la figura della donna, la morte della vegetazione che rinasce attraverso il ciclo delle stagioni.Nel primo pannello, sotto uno degli alberi, vediamo una danzatrice che rappresenta L’ attesa, un atteggiamento che si può definire tipico nella femminilità espressa da Klimt.Nel terzo pannello troviamo L’abbraccio, che si realizza nella coppia: la figura nel suo insieme costituisce un preludio al notissimo quadro del Bacio. L’abbraccio tra l’uomo e la donna rappresenta la riconciliazione tra i due sessi. L’oro che forma un’aureola intorno alla coppia dona all’opera intera grande valore, aumentando la sua preziosità.In questa sua idea l’artista viennese deriva spunti formali dall’arte dell’antico Egitto (la danzatrice ha il volto posto di profilo e gli occhi – dal taglio allungato – rivolti in lontananza), dall’arte del mosaico bizantina (di cui la città di Ravenna è per Klimt esempio fondamentale) e dall’arte giapponese. La successione dei pannelli vuole raccontare con delicato fascino una sorta di favola: una giovane ragazza attende il suo amato tra i rami dorati dell’albero della vita; alla fine realizza il sogno di congiungersi a lui, con passione.Nelle figure di questa appare evidente il contrasto tra il trattamento naturalistico sia dei volti che delle braccia dei protagonisti, e l’astratto appiattimento decorativo delle vesti: questo è da considerare un elemento tipico del “periodo d’oro” di Klimt, di cui fanno parte anche le opere del Bacio e Le tre età della donna. Nell’Attesa la donna è adornata con splendidi monili: la sua massa di capelli neri viene prolungata in modo piuttosto innaturale per offrire un collegamento visivo tra il viso, la spalla (nuda) e le mani. Queste sono orientate con un passo di danza nella stessa direzione dello sguardo. La testa si trova fuori asse rispetto al corpo: al di sotto di essa in un lungo triangolo che nasconde completamente il corpo, si sviluppa l’abito della danzatrice. La stoffa del vestito è composta da triangoli la cui geometria è addolcita dal motivo dei riccioli dorati dell’albero della vita, ma anche dall’inserzione di occhi stilizzati, un motivo che ricorre più volte all’interno dell’intero fregio.L’Abbraccio è una rielaborazione della scena conclusiva del Fregio di Beethoven realizzato da Klimt nel 1902.Sebbene vi sia anche in questo pannello una grande attenzione agli ornamenti, ogni aspetto è concepito dall’artista come contrapposizione alla danzatrice: la prima donna appare fredda, in un movimento sospeso; l’uomo e la donna abbracciati sono rappresentati invece in un magico momento di realizzazione e pace. Mentre nel vestito della danzatrice la geometria delle forme è rigida, negli abiti della coppia prevalgono le forme della natura vegetale e dei più morbidi cerchi.Riportando lo sguardo all’insieme dell’opera si nota come le figure umane siano riconoscibili solo grazie agli elementi anatomici di testa e arti superiori: non esiste tridimensionalità.A Vienna sono conservati i cartoni con cui Klimt realizzò il fregio: essi testimoniano come il metodo di lavoro dell’artista seguisse la precisione di un’opera finita, utilizzando colori a tempera e ad acquerello, applicazioni in argento e oro, matite e gessetti.

 

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la sala da pranzo della residenza Stoclet  

 

Lucica Bianchi