Diavoli e Demoni nell’Inferno dantesco

Loredana Fabbri

                                                          Il sentiero per il Paradiso inizia all’Inferno

                                                                                                             (Dante Alighieri)

<<Ed ecco verso noi venir per nave/un vecchio, bianco per antico pelo,/ gridando: “Guai a voi, anime prave!/Non isperate mai veder lo cielo:/ i’ vegno per menarvi a l’altra riva/ ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo./ E tu che se’ costì,anima viva,/ pàrtiti da cotesti che son morti”./Ma poi che vide ch’io non mi partiva,/disse:”Per altra via, per altri porti/ verrai a piaggia, non qui, per passare:/ più lieve legno convie che ti porti”./ E ‘l duca lui: “Caron, non ti crucciare:/vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare”./Quinci fuor chete le lanose gote/al nocchier della livida palude,/che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote./ Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,/cangiar colore e dibattero i denti,/ratto che ‘nteser le parole crude./Bestemmiavano Dio e lor parenti,/l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme/ di lor semenza e di lor nascimenti./Poi si ritrasser tutte quante insieme,/ forte piangendo , a la riva malvagia/ch’attende ciascun uom che Dio non teme./ Caron dimonio, con occhi di bragia/ loro accennando, tutte le raccoglie;/ batte col remo qualunque s’adagia>>.[1]

È con queste terzine che Dante ci presenta il primo demonio che incontriamo nel terzo canto dell’Inferno: il regno del peccato e delle passioni, dove i dannati mantengono il loro carattere che li contraddistinse nella vita terrena, come se fossero vincolati per sempre ai peccati e alle passioni che marchiarono di vergogna la loro vita, quasi innalzati ad accezione universale del male. L’Inferno è popolato da personaggi derivati dalla mitologia classica, dalla storia passata, recente e contemporanea al Poeta, dalla cronaca della vita quotidiana, descritti con versi di scultorea incisività, essi appartengono a tutte le classi sociali: laici ed ecclesiastici, mercanti, principi, imperatori, cardinali e papi.

Caronte o come scrive Dante Caron, secondo l’uso medievale di rendere tronchi i nomi non latini,[2] figlio di Erebo e di Notte, è il vecchio laido nocchiero che traghetta le anime dei morti dall’una all’altra sponda dell’Acheronte, dove avranno accesso al mondo dell’Oltretomba. E’ la prima figura della mitologia pagana che troviamo direttamente nella vicenda dell’opera, cui presto ne seguiranno molte altre, realizzando così il sincretismo culturale del Medioevo di cui Dante è interprete magistrale. Sconosciuto ad Omero e ad Esiodo,  Caronte è una figura comune dell’aldilà dei Greci, dei Romani, degli Etruschi, egli accoglie con parole crudeli le anime, i suoi occhi terribili sembrano sprigionare fiamme, raccoglie le anime nella nave e le colpisce col remo se si attardano. Questo Demonio deve la sua fama a Virgilio, che lo descrive nel libro VI dell’”Eneide”, durante la discesa agli Inferi di Enea, ma la narrazione è più descrittiva e pittorica, quella di Dante, sulla falsariga di ciò che scrive Virgilio, risulta più drammatica e più impressionante, accentuando i tratti demoniaci del traghettatore e facendone uno strumento della giustizia divina.

Dante, riprendendo dalla cultura del suo tempo, segue la teoria tolemaica del geocentrismo e immagina la terra, al centro dell’universo circondata da nove sfere celesti ruotanti di moto diversamente veloce attorno ad essa, sedi dei pianeti: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Saturno, più una per le Stelle fisse e un’altra costituita dal Primo immobile, che trasmette il moto a tutti i cieli sottostanti: è l’Empireo, sede immobile di Dio. La terra, inoltre, è suddivisa in due emisferi, ma solo quello a nord è abitato dall’uomo e limitato ad est dal Gange e ad ovest dalle Colonne d’Ercole, mentre quello australe è interamente ricoperto dalle acque. Questa fantastica cosmologia è derivata dal Poeta in parte dalla scienza e dall’iconografia pagana e cristiana, in parte inventata e rappresenta l’intento di strutturare in modo organico tutto l’aldilà, basandosi su principi più vicini alla razionalità. Questo complesso cosmologico risulta perfettamente combinato con il sistema etico, che stabilisce il luogo e la peculiarità delle pene o delle beatitudini. Al centro di questa macchina sta, immobile, la terra, sede dell’uomo, sulla quale, quindi, piovono dall’alto le influenze celesti, mentre dal basso, dall’interno della terra dove dimora, sale l’influsso di Satana.

La “Commedia” fa parte della vasta tradizione dei viaggi oltremondani, Dante, però, all’inizio del suo pellegrinaggio, nomina solo due personaggi che hanno compiuto il viaggio nell’aldilà prima di lui: Enea e San Paolo, pur conoscendo altri viaggi nell’oltretomba presenti sia nella letteratura antica e tardo antica sia in quella cristiana. Come guida per l’Inferno e il Purgatorio sceglie Virgilio, cantore delle gesta di Enea, il quale fu il capostipite della discendenza da cui avrà origine l’Impero universale.[3] Il poeta latino fu molto ammirato nel Medioevo, tanto da considerarlo un poeta mago-taumaturgo o un “cristiano”, che avrebbe profetizzato la nascita di Cristo, come vogliono varie leggende, ma è nota l’inclinazione del tempo a modificare la realtà storica: i personaggi dell’antichità classica sono frequentemente equiparati a quelli contemporanei, a causa dello scarso senso della cronologia, questo non è il caso del Virgilio dantesco, in cui non troviamo carattere arbitrario, ma una base preziosa e una sintesi emblematica di tutta la classicità sia per la formazione letteraria e culturale sia per gli insegnamenti morali: Virgilio è per Dante il massimo “auctor”, <<”O de li altri poeti onore e lume / vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume. / Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore; / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore.>>.[4] Da questi versi si può desumere quanto sia importante per il Poeta la letteratura antica, posta quasi allo stesso livello della Bibbia, infatti si rivolge alla sua guida e gli chiede se il suo valore è adeguato a compiere un tale viaggio, ossia dal mondo mortale a quello immortale, Enea era disceso agl’Inferi, in quanto investito di una missione divina: fondare Roma e l’Impero. Se Dio fu così benigno con lui, pensando alle straordinarie conseguenze che ne sarebbero derivate, non deve sembrare contro ragione, Enea fu scelto da Dio nell’Empireo come padre di Roma e del suo Impero, destinati come luogo santo dove risiede il successore di Pietro.

Poi anche San Paolo andò ancora vivo nell’aldilà per trarne sostegno a quella fede cristiana, fondamentale per la salvezza. L’Alighieri, continua dicendo a Virgilio che lui non è né Enea né San Paolo, quindi per quali meriti dovrebbe fare un tale viaggio, poiché lui stesso non si reputa degno di tutto ciò.[5] Dante è il protagonista del suo viaggio oltremondano, nei precedenti testi latini invece è sempre un eroe ad affrontare la catabasi, perché dai classici era considerata un’impresa fatale, ma quello del Poeta fiorentino non è un viaggio eroico, che vuole celebrare la gloria del protagonista, ma un pellegrinaggio necessario per la sua salvezza, che diverrà esempio per tutta l’umanità.

Dante immagina l’Inferno come un’immensa voragine sotterranea a forma di tronco di cono, con la parte terminale (base minore) prossima al centro della terra, mentre la parte più ampia (base del cono tronco) è situata sotto Gerusalemme ad una distanza non precisata. Le pareti della voragine sono incise orizzontalmente a corone circolari, che formano nove ripiani concentrici, che vanno via via restringendosi come le gradinate di un anfiteatro, le loro coste, franate a causa del terremoto che accompagnò la morte di Cristo, permettono la discesa dall’uno all’altro.

I dannati sono distribuiti dall’alto verso il basso secondo lo schema aristotelico dell’”Etica Nicomachea”, che distingue tra i peccati d’incontinenza, puniti nei gironi dal secondo al quinto (lussuria, gola, avarizia, e prodigalità, iracondia e accidia), perché meno gravi; e i peccati di malizia, più gravi perché commessi consapevolmente, sono puniti nella zona più profonda, oltre le mura della città di Dite. Nel sesto cerchio troviamo gli eretici e nel settimo i violenti, nell’ottavo i fraudolenti e nel nono i traditori. Per questa disposizione dei dannati, Dante segue, se pure con estrema libertà e straordinaria capacità di elaborazione, anche il “De officiis” di Cicerone e il pensiero teologico di San Tommaso.

Le pene sono stabilite dal Poeta secondo la tradizione giuridica medievale e conformi alla consuetudine del diritto del suo tempo, basato sulla legge del taglione, sulla legittimità della violenza e della vendetta. I peccati sono puniti con una pena, che, per attinenza o per antitesi, si ricollega alla colpa commessa: la legge del contrappasso.

Nell’Inferno Dante descrive e rappresenta il male, il peccato, ossia l’elemento negativo e il sentimento dell’anima cristiana non può essere che di repulsione; ma rappresenta anche il bene, il divino che fa percepire l’aiuto, il conforto, la speranza a colui che intraprende questo viaggio ultraterreno. Il Poeta fiorentino è protagonista nell’Inferno, poiché attraversa la voragine, parla e avversa i dannati, ma è un protagonista statico, rispetto all’azione generale della cantica, perché in lui non avvengono mutamenti: alla fine del baratro egli è quello che era prima. Il viaggio nell’Inferno è un’esperienza sempre invariata, mentre il viaggio attraverso il Purgatorio porta Dante alla completa purificazione nelle acque dei due fiumi divini.[6]

Nella Divina Commedia l’Inferno è caratterizzato dal dramma, consistente anche nei rischi  cui va incontro il Poeta, dall’interesse dei personaggi per le vicende terrene a cui sono ancora strettamente vincolati, dalla varietà ed originalità con cui essi sono delineati; succede poi un Purgatorio, dove questi interessi si affievoliscono o vengono meno; poi un Paradiso in cui predomina la contemplazione intellettuale e dove Dante cerca di far fronte alla freddezza artistica e di suscitare l’interesse dei lettori con alte discussioni filosofiche, ma piuttosto estranee agli affetti umani. Molto interessante è il giudizio espresso da Giacomo Leopardi sulla “Commedia”, scritto nello “Zibaldone”: <<…inseriva l’accenno al progressivo impoverimento umano e poetico della Commedia in una lunga considerazione sul cristianesimo “più atto ad atterrire che a consolare, o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza”; perché all’infelice che “si trova impediti quaggiù i suoi desideri, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l’adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna” parlano con evidenza non “la promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera”, che egli “non può comprendere, né immaginare, né pur concepire o congetturare, in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione…”, ma la minaccia e la natura dei castighi e mali di cui egli ha purtroppo esperienza. Così “Dante che riesce a spaventar dell’Inferno, non riesce, né anche poeticamente parlando, a invogliar punto del Paradiso”>>.[7]

La cultura di Dante è medievale e scolastica, il suo pensiero filosofico oscilla tra Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, il quale viene posto in Paradiso nel gruppo degli spiriti sapienti, nonostante la condanna ecclesiastica.[8] Il Poeta si forma sui testi e sulle dispute che prevalevano nelle “scholae”, ma non conosciamo quasi niente sul corso di studi di Dante e sui testi da lui letti: attraverso le sue opere, come il “De Vulgari eloquentia” o la “Vita Nova”vediamo nominati, oltre Virgilio, suo “maestro” e suo “autore”, tra i poeti classici Ovidio, Stazio e Lucano, compaiono anche i nomi di Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio, i quali erano già presenti e diffusi nelle “scholae”, ma in Dante ci fanno capire come egli si fosse impadronito della cultura classica, anticipando i tempi ed elaborandola personalmente, un esempio lo abbiamo nel Limbo, dove parla dei grandi spiriti dell’antichità e menziona Omero <<che sovra li altri com’aquila vola>>,[9] che Dante non conosceva direttamente e non godeva di alcuna autorevolezza nel mondo medievale. È impossibile citare gli autori e le fonti di cui Dante si avvale nella Commedia, solo dopo un’attenta lettura di tutta l’opera possiamo farci un’idea delle conoscenze enciclopediche del Poeta fiorentino: del mondo classico, di quello medievale, delle speculazioni dottrinarie, della cultura francese e provenzale in lingua d’oc e d’oil, della lirica trobadorica, dei Cicli bretone e carolingio e della poetica italiana dalla Scuola siciliana allo Stil Novo.

 Quando il comune di Milano era impegnato nella guerra vittoriosa contro il Barbarossa, Firenze non aveva ancora raggiunto una posizione rilevante nel quadro politico italiano, ma un secolo dopo, la città era diventata uno dei più importanti centri economici non solo dell’Italia, ma di tutta l’Europa, contraddistinto da un ragguardevole numero di imprese e da una potenza finanziaria elevata, tra i mercanti fiorentini il commercio dei panni-lana era quello più esercitato: la materia prima e il manufatto semilavorato veniva importato dalla Francia, dalla Fiandra e dall’Inghilterra, a Firenze veniva raffinato e poi riesportato nei mercati italiani ed orientali. Questi mercanti non operavano singolarmente, ma erano organizzati in compagnie e questo consentiva loro di esercitare una vasta varietà di affari e una grossa disposizione di capitali, che consentì lo sviluppo di un’attività bancaria con altissimi profitti, questa attività fu incrementata, nel 1252, con la coniazione del Fiorino d’oro, una moneta a 24 carati, che si affermò rapidamente per i pagamenti internazionali, consentendo ai mercanti-banchieri fiorentini un enorme volume d’affari in tutta Europa. Verso la metà del Duecento la borghesia fiorentina era organizzata in sette “Arti maggiori”, in cinque “Arti medie” e nove “Arti minori”, ai rappresentanti di queste associazioni era affidato il governo di Firenze, poiché erano capaci di far fronte alle consorterie dei nobili. Le nuove forze economiche della città assunsero, quindi, direttamente il controllo politico su di essa a partire dalla seconda metà del ‘200.[10]

Le lotte tra i ghibellini, sostenitori del partito imperiale, e i guelfi, sostenitori del papa conclusosi con la definitiva vittoria di questi ultimi dopo il 1266, non arrestarono la crescita del ruolo delle arti nell’organizzazione politica della città: le vicende delle lotte di fazione a Firenze ebbero più importanza nell’ambito di una storia regionale di quello relativo all’evoluzione sociale e politica della città, infatti il sopravvento dei ghibellini al tempo di Federico II, il risveglio guelfo dopo la morte dell’Imperatore, quando i ghibellini esiliati, comandati da Farinata degli Uberti, furono vittoriosi nella battaglia di Montaperti, la definitiva affermazione dei guelfi dopo la morte di Manfredi, furono tutti avvenimenti dai quali si andò sempre più accentuando l’affermazione delle arti come elementi di governo, al di là dell’alternanza dei partiti al potere. Nel 1282 si costituì il governo dei Priori delle Arti (prima in numero di tre e poi di sei) che sostituì quello dei magistrati precedenti, i sei priori, eletti dalle arti, rappresentavano i sei “sesti”, ossia le sei ripartizioni topografiche della città. Con gli “Ordinamenti di Giustizia”, voluti da Giano della Bella nel 1292 e approvati nel 1293 i magnati (i cavalieri) furono esclusi dalle cariche pubbliche. La vittoria del ceto dei grandi mercanti poteva così dirsi completata. In seguito questa legislazione venne moderata e fu concesso ai magnati di accedere alle cariche pubbliche purché si iscrivessero ad un’arte, questo fu il caso dell’Alighieri che si iscrisse all’arte dei medici e speziali, ovviamente si trattava di una iscrizione puramente formale, ma ciò significava che i membri delle famiglie magnatizie potevano governare solo a nome e nell’interesse delle arti. Quando la borghesia fiorentina non pensa a far la guerra, pensa a far denaro, perfino i palazzi dei ricchi sono costruiti con criteri molto funzionali: a pianterreno i magazzini per i commerci, in alto le torri e gli spalti per la difesa.[11]  

Nonostante i disaccordi, Firenze è una città prospera, dove il denaro scorre abbondantemente e dove gli abitanti cominciano a scoprire gli agi del vivere: le case degli abbienti sono ancora spoglie, ma si comincia a tappezzare le pareti e a dotare i letti di lussuosi copriletti; i pasti sono più elaborati ed abbondanti, con carne, vino, spezie, sempre presente è la selvaggina, essendo la caccia un’inclinazione tradizionale dei Toscani, anche se sulle tavole mancano posate e tovaglioli, ma frequente è la presenza di un buffone o di un novellatore, nelle occasioni solenni intervengono anche i suonatori di vari strumenti. Da tenere in considerazione che la musica fa parte delle Arti liberali del Trivio e del Quadrivio e le persone colte sono tenute a conoscere almeno gli elementi fondamentali.[12]

L’infanzia di Dante trascorse sicuramente in Firenze, ad eccezione di alcuni brevi periodi passati a Camerata e a San Miniato a Pagnolle, poderi di proprietà degli Alighieri insieme con due appezzamenti di terreni, che costituivano il patrimonio della famiglia. Furono anni travagliati dalle lotte politiche, dalla morte della madre Bella (Dante aveva circa dieci anni), di adattamento ad una nuova vita familiare dopo il secondo matrimonio del padre e degli affari sbagliati e non sempre legali del genitore, che sembra essere stato un uomo mediocre e su di lui ci furono “voci” sgradevoli, tra queste quella di essere accusato di usura, “voce” raccolta e sparsa da Forese Donati, che, se vero, non dovette dare molti frutti, perché alla sua morte, i figli si trovarono in condizioni finanziarie molto modeste. Della madre, Bella, il Poeta non ne parla, nonostante le donne dantesche rappresentino l’amore, come quello folle di Francesca da Rimini o quello deformato dall’odio di Sapìa da Siena, ma nessuna rappresenta l’amore materno.

La prima formazione culturale avvenne in una delle varie scuole private della città, probabilmente quella del “doctor puerorum” della scuola più vicina alla casa degli Alighieri, in San Martino, in seguito frequentò gli studi del Trivio e del Quadrivio, ultimo ordine di studi laici per una città come Firenze priva di Università. Dante impara anche a scrivere versi, arte sperimentata da tutti gli intellettuali di Firenze, come anche dal suo maestro più noto, Brunetto Latini, Notaio della Repubblica, oltre che politico, scrittore e poeta: fu quindi una delle figure più rappresentative nella Firenze del XIII secolo. Il fatto che Dante lo consideri suo maestro, forse non si riferisce ad un maestro di una scuola vera e propria frequentata da lui stesso, ma al fatto che Brunetto fu maestro di retorica, di morale, di politica per tutta la città fiorentina e l’Alighieri ammirò molto quest’uomo colto, esperto di “ars dictandi” e teorico della politica, ne divenne suo amico e apprese da lui l’amore per il sapere.

Nella seconda metà del Duecento, Firenze è una libera Repubblica, predominata dall’elemento borghese, teoricamente soggetta all’autorità imperiale, ma è il tempo della “grande vacanza” dell’Impero e l’aristocrazia di sangue ha ceduto il passo a quella del denaro: anche il modo di poetare, lo Stil Novo, che trova in Dante il più grande esponente, rappresenta un ambito dove il mito della nobiltà di nascita è decaduto, il “cor gentil”cantato dai poeti, sull’esempio di Guido Guinizzelli, non è per nobiltà di sangue, ma per valori morali indipendenti dalla nascita.[13]

Il famoso atto notarile del 9 febbraio 1277 ci informa delle trattative prematrimoniali, con le quali Gemma Donati, che all’epoca aveva circa dieci anni, veniva promessa a Dante dodicenne, e viene fissato l’ammontare della dote: duecento fiorini piccoli, non era una grande somma, ma le doti venivano calcolate in base al patrimonio del futuro sposo; inoltre Gemma apparteneva ad una delle famiglie più in vista di Firenze e allearsi con i Donati era socialmente prestigioso: tanta precocità rientrava nell’usanza dell’epoca che vedeva nei matrimoni un’alleanza fra gruppi familiari. Il matrimonio sarà celebrato più tardi, tra il 1283 e il 1285 circa.[14]

Secondo la “Vita Nova”, Dante incontra Beatrice all’età di nove anni e si rivedono nove anni dopo, se, come sembra accertato, Beatrice è la figlia di Folco Portinari, importante cittadino e fondatore dell’ospedale di Santa Maria Nuova, i due incontri sono probabilmente un’invenzione poetica dell’Alighieri, perché le loro abitazioni si trovavano molto vicine e per quanto fossero rigide le regole di vita di una ragazza del XIII secolo, non sarebbero mancate le occasioni per incontrarsi. Il Poeta non parla dell’aspetto fisico di Beatrice se non per dire nel Purgatorio che i suoi occhi sembrano degli smeraldi e nel Paradiso dice che la sua fronte è così bianca da distinguere appena una perla che vi ricadeva come era la moda del tempo, comunque un matrimonio tra i due era impensabile: Dante era promesso a Gemma Donati e Beatrice andò sposa a Simone de’ Bardi e morì a soli venticinque anni circa nel 1290.[15]

Della cerchia di amici stilnovisti di Dante facevano parte Lapo Gianni e Cino da Pistoia, ma i due amici più cari furono Forese Donati e Guido Cavalcanti: due personalità completamente diverse, il primo era la dissennatezza personificata, il secondo la saggezza, Forese, detto eloquentemente “Malefami”, è il compagno di baldorie, del periodo della vita dissoluta di Dante e nonostante l’amicizia non si risparmiano certo le frecciate e le insinuazioni maligne, ne è una prova la celeberrima “Tenzone” composta da tre sonetti dell’Alighieri e dalle rispettive risposte del Donati, in cui i due poeti si scambiano insulti e ingiurie in tono comico conforme al genere mediolatino dell’”improperium”e della “tenso”. Guido Cavalcanti, maggiore di Dante di dieci anni, aristocratico, altero, amante della solitudine e sprezzante dei piaceri volgari, lo rimprovera per il suo modo di vivere e lo allontana da una vita biasimevole.[16]

            Nel 1289, l’Alighieri partecipa alle battaglie di Campaldino contro i ghibellini d’Arezzo (giugno) e a Caprona, per la resa del castello occupato da milizie pisane (agosto), il suo impegno politico era stato fino ad allora insussistente, sia per i suoi impegni letterari sia perché non avrebbe potuto esercitarlo data l’esclusione della nobiltà, anche se piccola come quella degli Alighieri, dagli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, solo dopo i “Temperamenti” autorizzati nel 1295, che concessero alla nobiltà di poter partecipare alla vita politica, a condizione di far parte di una Corporazione o Arte, si aprì per Dante una nuova prospettiva di vita.

Dopo essersi iscritto, quello stesso anno, alla Corporazione dei Medici e degli Speziali, dal novembre all’aprile 1296 egli fa parte dei Trentasei del Capitano del Popolo; viene ascoltato dal Consiglio dei Savi per i suoi autorevoli consigli e nel mese di maggio fa parte del Consiglio dei Cento, dove prende subito posizione contro la politica filo-papale di Corso Donati, schierandosi con l’ala più democratica e filo-popolare dei consiglieri. Dante parteggia, anche se con una visione molto personale, per i Cerchi, avversando le mire espansionistiche di Bonifacio VIII sulla Toscana, la parte popolare prevale e i Cerchi estendono il loro potere, Corso Donati viene allontanato da Firenze, anche in seguito ad uno scandalo e il Papa è intento ad un grande evento religioso: il primo Giubileo, che si svolgerà da Natale del 1299 a tutto il 1300. Roma fu meta di numerosissimi pellegrini provenienti da tutte le parti d’Europa: la tradizione vuole che Dante sia stato tra questi, basandosi soprattutto sui ricordi che il poeta ha della Città eterna, specialmente della descrizione che egli fa dei pellegrini che attraversano il ponte di Castel Sant’Angelo in doppio senso di marcia,[17] sicuramente sappiamo che nei primi mesi del 1300, Dante si recò a San Gimignano su incarico del governo dei Bianchi, per convincere i membri di questo Comune a partecipare alla riunione generale dei Guelfi toscani, per organizzarsi contro la pressante politica di Bonifacio VIII e del suo solidale Corso Donati, politica che si aggravò con la nomina pontificia di Matteo d’Acquasparta a legato papale per la Toscana, la Romagna e altri luoghi d’Italia. Con l’arrivo a Firenze del Legato pontificio, la situazione per i Bianchi e particolarmente per i Cerchi divenne molto critica, furono rinnovate le cariche dei Priori e l’Alighieri venne nominato tra i sei Priori per il periodo 15 giugno – 15 agosto e da qui cominciarono i guai per il Poeta, come egli sostiene in un’epistola andata perduta: <<Tutti mali e l’inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio>>.[18] Proprio in quel periodo scoppiò un cruento scontro tra i Grandi e i popolani, era la sera del 23 giugno, vigilia di San Giovanni, i priori furono costretti a prendere una decisione drastica e mandare al confino i capi dei Neri e dei Bianchi.

Nel 1301, Dante ha ormai assunto una posizione irremovibile contro il Pontefice, capitanando l’ala estrema e antipapale dei Bianchi, che ormai non hanno speranze, dopo l’accordo di Bonifacio VIII con Carlo di Valois stipulato ad Anagni il 5 settembre, utilizzando per i propri fini la spedizione nel territorio italiano del Principe francese, consapevoli del pericolo, i governanti fiorentini inviano un’ambasceria al Papa, di cui farà parte anche l’Alighieri, che sarà trattenuto a Roma dallo stesso Bonifacio, mentre gli altri due ambasciatori tornano a Firenze.

Il primo novembre Carlo di Valois con le proprie milizie entra in Firenze e rientrano anche tutti i Neri e Corso Donati; il 7 ha luogo l’insediamento della nuova Signoria, tutta composta dai Neri e cominciano i processi contro i Bianchi. Dante non si trova più a Roma e non sappiamo se riesce a tornare nella sua città e poi fuggire, certamente non si trova a Firenze nel gennaio 1232, poiché il Podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio firma la prima sentenza di condanna contro il Poeta e altri Bianchi il 27 gennaio, con l’obbligo di presentarsi per rendere conto delle proprie azioni e pagare una sanzione, pena l’interdizione dalle cariche pubbliche e due anni di confino: nessuno si presentò e il 10 marzo il Podestà emise la condanna a morte per Dante ed altri quattordici Bianchi. Cominciano così i difficili e gravosi anni d’esilio per questo grande personaggio, che ripone tutte le sue speranze nell’Imperatore Arrigo VII, ma rimase deluso perché invece di muovere subito verso Firenze, come egli sperava, Arrigo VII prende la strada verso Roma.[19]

La vita di Dante è, dunque, quella di un intellettuale impegnato nella vita culturale, politica e sociale del suo tempo, favorito dal clima di libertà della civiltà comunale, che consentì agli intellettuali di sentirsi parte integrante della società e nel caso dell’Alighieri di concepire la cultura come uno strumento di battaglia per il rinnovamento e la difesa dei più alti ideali umani: egli vide il disgregarsi dei valori religiosi, morali e politici del Medioevo, in cui credeva fermamente e si sentì investito della missione di difenderli e restaurarli, richiamando ai loro doveri il Papa e l’Imperatore, rimproverando duramente Guelfi e Ghibellini, principi e prelati, biasimò la corruzione umana e auspicò la venuta del “Veltro”, ossia di un grande riformatore che avrebbe restaurato gli antichi valori perduti.

Nel 1310 la discesa dell’Imperatore Arrigo VII in Italia sembra, come già detto, una risposta alle speranze di Dante, ma la sua venuta si rivelò presto un fallimento e dopo avere cinto la corona ferrea a Milano, solo dopo diciotto mesi poté cingere la corona a Roma, ma nell’estate del 1313 si ammalò e morì improvvisamente, mettendo fine all’ultima speranza del Poeta.

Dopo questa breve e non esaustiva, ma necessaria panoramica su Dante e il suo tempo, riprendiamo il discorso relativo all’Inferno e ai demoni che il Poeta troverà durante il suo cammino a fianco della sua guida.

Molte divinità sotterranee della mitologia pagana antica compaiono nell’Inferno dantesco, trasformati in mostri o demoni per suscitare terrore, spavento. All’inizio del V canto troviamo Minosse, che nella mitologia classica era il re di Creta, famoso anche come legislatore: figlio di Giove e d’Europa, ebbe vari figli, tra i quali Androgeo, il quale fu ucciso dagli ateniesi invidiosi della sua bravura di ginnasta: ne scaturì una guerra vendicatrice. Minosse, nel rito propiziatorio, per ingraziarsi il favore divino, avrebbe dovuto sacrificare a Giove uno splendido toro che Nettuno aveva fatto uscire dal mare, ma lo cambiò con un altro meno bello, così l’ira di Giove si scagliò contro la moglie del re di Creta, Pasife, facendola innamorare del toro. Da tale orrenda unione nacque un mostro, il Minotauro. La guerra fu vittoriosa per Minosse e gli Ateniesi furono obbligati a inviare a Creta ogni anno sette giovanetti, come premio nell’anniversario dei giochi istituiti in memoria di Androgeo, quando poi il Minotauro venne rinchiuso nel labirinto costruito da Dedalo, i giovanetti venivano uccisi dal mostro, fino a quando Teseo, con l’aiuto di Arianna, liberò Atene da questo obbligo. Dante conosceva questo mito, per la narrazione della guerra contro Atene e i Megaresi nelle “Metamorfosi” di Ovidio e per la loro diffusione nella maggior parte dei poemi latini.[20]

Minosse fu famoso come legislatore e come giusto: sembra che per primo abbia introdotto le leggi a Creta; dai poeti antichi, compreso Virgilio, fu indicato come giudice dell’Ade con Eaco e Radamanto, tuttavia Dante lo tramuta da giudice dei morti a quello dei dannati, facendogli assumere tratti demoniaci non riscontrabili nella tradizione classica, pur restando strumento della superiore volontà divina, in quanto giudice infallibile e inflessibile. <<Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: / essamina le colpe ne l’intrata; / giudica e manda secondo ch’avvinghia. / Dico che quando l’anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa; / e quel conoscitor de le peccata / vede qual loco d’Inferno è da essa; / cignesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa.>>.[21]

Il Minosse della Divina Commedia ha le sembianze del grottesco, ma non del comico, specialmente per la lunga coda, peculiarità assente in Virgilio, con la quale si cinge il corpo tante volte corrispondenti al numero del cerchio dove il dannato deve essere situato, la natura demoniaca dell’antico re di Creta scaturisce anche dall’avvertimento minaccioso, sotto forma di giusto consiglio che rivolge a Dante, e che in realtà serve ad alimentare i dubbi che avevano turbato l’Alighieri e ad insinuargli dei sospetti verso Virgilio.[22]

Nel suo percorso ultraterreno, Dante usa espressioni molto affettuose verso Virgilio, gli studiosi si sono chiesti i motivi della scelta dell’antico poeta come guida: forse perché è stato il cantore dell’Impero? O perché tra gli scrittori antichi menzionati nel “De Vulgari Eloquentia” certamente Virgilio detiene il primo posto? In epoca medievale egli fu ritenuto non solo un grande conoscitore del regno dei morti, ma fu considerato, lui pagano, un attendibile profeta di Cristo. <<Del resto a chi consideri la questione da un angolo schiettamente umano, non può sfuggire quanto vi è di commovente in questo cercar rifugio nell’amicizia d’un poeta vissuto tredici secoli avanti, proprio quando l’amicizia dei coetanei – una corda così vibrante nell’anima dantesca – vien meno, vinta dalla morte o dalla lontananza. Quanto al valore allegorico di Virgilio, si è forse troppo ripetuto che rappresenta la Ragione umana. Forse hanno visto più giusto quanti ravvisano in Virgilio la rappresentazione della Poesia intesa come Arte in generale. […] Maggiore interesse suscita Virgilio come uomo. E’ senza dubbio uno dei personaggi della Commedia più ricchi di sfumature, di complessità, anche di mistero. Una grave malinconia l’accompagna ovunque; essa nasce dal sentirsi escluso dalla Grazia. Nel regno dei morti, siano essi i dannati o le anime penitenti che attendono la salvezza, Virgilio passa come un estraneo, uno di fuori, ben sapendo che al termine del cammino tornerà alla quiete opaca del Limbo. Di qui i suoi silenzi, i suoi profondi turbamenti, quel tanto d’inespressivo che l’avvolge, per servirci d’un termine moderno, quasi d’un alone d’incomunicabilità. Dante accanto al maestro è un estroverso: grida i suoi entusiasmi e le sue paure, dibatte i suoi dubbi, recrimina, protesta, si racconta. Ma Virgilio rimane chiuso in se stesso. Il suo segreto , simile alla veste bianca che gl’illustratori popolari gli dettero, l’avvolge come una nube>>.[23]

Nel sesto canto dell’Inferno, (terzo cerchio), oltre a farci conoscere la biasimevole situazione politica di Firenze, Dante ci presenta un altro demonio, Cerbero, guardiano di coloro che in vita peccarono d’ingordigia e ora sono condannati in eterno a stare sotto una pioggia scura e maleodorante, mista a grandine e neve. Anche Cerbero è un mostro mitologico a tre teste, figlio di Tifeo e di Echidna, collocato a guardia dell’Ade, già descritto da Virgilio e da Ovidio, ma dal primo con i tre colli avvolti da serpenti e dal secondo con la bava velenosa; Ercole riuscì a catturarlo e a trascinarlo fuori dall’Ade. In Dante lo vediamo custode di un solo cerchio dell’Inferno, quello dei golosi, con caratteristiche mostruose molto accentuate e in relazione col peccato della gola: ha gli occhi vermigli, simbolo dell’avidità, la barba unta e nera, il ventre largo per l’insaziabilità, le mani dotate di artigli per afferrare il cibo e tormentare i dannati graffiandoli, spellandoli e facendoli a pezzi; emette dei latrati come un cane rabbioso.

Anche per descrivere Flegiàs, il Poeta prende spunto dalla mitologia classica e ne fa un demonio infernale, che poco ha a che vedere con Caronte, perché non è chiara la funzione che ha:  quella di traghettatore della palude Stigia, in tal caso richiamerebbe il compito di Cerbero, o quella del custode degli iracondi e accidiosi, condannati nel quinto cerchio, o entrambe le mansioni? Se  fosse quest’ultimo caso, il compito sarebbe molto adeguato, visto che etimologicamente il suo nome si accosta al verbo greco “flégo” che significa incendio, e, quindi, chi meglio di lui, incendiario, potrebbe avere il compito di imbarcare le anime e introdurre a Dite, la città del fuoco.[24] Flegiàs non ha peculiari caratteristiche fisiche come i precedenti demoni, ma è il simbolo dell’ira. Già ricordato da Virgilio nell’”Eneide” (Eneide, VI, vv. 618-620) e da Stazio nella “Tebaide” (Tebaide, I, v. 713 e segg.), fa parte della mitologia greca, figlio di Marte e di Crise, fu re dei Lapiti, per vendicare la figlia Coronide, sedotta da Apollo, appiccò il fuoco al tempio del dio a Delfi e per questo motivo fu sprofondato nel Tartaro.

Quando Dante e Virgilio giungono sotto le mura infuocate di Dite, vengono sbarcati da Flegiàs davanti all’ingresso, dove subito si affolla una grande quantità di diavoli: <<Io vidi più di mille in su le porte/ da ciel piovuti, che stizzosamente/ dicean: “Chi è costui che sanza morte/ va per lo regno de la morta gente?”>>.[25] Virgilio è costretto a trattare con loro, che corrono a sbarrare le porte della città. Questi diavoli non sono i demoni mitologici “adattati” in ambito cristiano, ma sono diavoli veri, che in epoca medievale gli uomini erano soliti vedere scolpiti sui capitelli delle colonne dei templi o dipinti nelle chiese, che, con il loro aspetto inquietante, accrescevano la paura delle pene dell’aldilà. Sono diavoli determinati e molto arrabbiati per il privilegio di cui gode Dante: vivo tra i morti, questo loro atteggiamento getta nello sconforto il Poeta e Virgilio è costretto a venire diplomaticamente a trattative con loro.

Nonostante Dite sia la città del fuoco, non ci sono grandi fiammate, poiché il Maestro fiorentino riserva il fuoco per gli eretici, posti in arche infuocate; per i violenti contro Dio distribuiti nel sabbione arido, dove le fiamme piovono lente e continue; per i simoniaci, collocati a testa in giù dentro delle buche e con il fuoco sulle piante dei piedi; infine per i consiglieri fraudolenti, che sono prigionieri dentro lingue di fuoco: sono tutti peccatori contro lo Spirito, quindi la giusta pena è quella di essere eternamente tormentati dal fuoco, uno dei simboli dello Spirito.

Sull’ingresso del quarto cerchio (canto VII), dove sono puniti gli avari e i prodighi, i due poeti sono accolti con parole strane da Pluto, custode del cerchio: <<Papè Satàn, papè Satàn aleppe!>>: gli studiosi hanno dato a queste parole varie interpretazioni, ma quale sia quella giusta non lo sappiamo, sembra che non sia un vero discorso, ma uno sfogo oppure l’inizio di un discorso minaccioso volto ad incutere paura, che Virgilio non gli lascia continuare. L’identificazione di questo demonio è molto problematica, poiché potrebbe trattarsi di Pluto, antico dio greco delle ricchezze, figlio di Iasio e di Demetra, nato forse a Creta; oppure di Plutone, figlio di Saturno (Cronos), dio classico degli Inferi e sposo di Proserpina: la seconda ipotesi sembra essere quella più probabile, perché Plutone, detto anche Dite, era, nel Medioevo, spesso rappresentato come figura diabolica ed era accostato alle ricchezze che sono custodite sottoterra.

La descrizione di Pluto è piuttosto generica e frettoloso è l’incontro dei due poeti con questo demonio: Dante lascia intuire che si tratta di un enorme mostro, in cui vi è una terrificante unione di fattezze umane e di sembianze animalesche, con prevalenza di questo secondo elemento. Il Poeta attira l’attenzione del lettore sull’effettiva futilità del demone: il quale prima è rapidamente accennato nel suo aspetto spaventevole e poi è colto nella sua reale impotenza di fronte al volere divino e nel susseguente improvviso accasciarsi, privo di ogni forza <<Quali dal vento le gonfiate vele / caggiono avvolte, poi che l’aber fiacca, / tal cadde a terra la fiera crudele>>. [26]

Il termine “daimon”si trova nella letteratura greca sia come sostantivo sia come verbo, poi fu accostato a cose ritenute malvagie dal Cristianesimo, quando tale religione voleva guadagnare terreno nei confronti del Paganesimo, quindi trasformò varie creature e antiche divinità in entità maligne: per l’Occidente un “demone” divenne sinonimo di malvagio, collegato al Diavolo e tentatori dell’uomo. Le prime demonologie si trovano già nella cultura mesopotamica, in cui il confine tra dei e demoni era molto confuso; in quella ebraica, che si può considerare la più antica, la Torah tratta ampiamente dei demoni menzionandone due tipi: Se’irim e Shedim, il primo riferendosi ad una specie di satiro, il secondo indicando falsi idoli e dei. Il Talmud, oltre dare consigli su come difendersi dai demoni, ne descrive alcuni come Asmodeus e Igrat, rispettivamente re e regina dei demoni, Samael, serpente della Bibbia, Shibbeta e Keteb Meriri, di natura più folcloristica. Durante il Medioevo i vari movimenti Kabbalistici contribuirono agli studi sulla demonologia.

Nell’Antico Testamento, i demoni non sono citati frequentemente, mentre nel Nuovo Testamento troviamo un inizio di gerarchia tra i demoni, poiché si legge che Belzebù è descritto come il principe dei demoni; nei Vangeli di Marco e Matteo, Gesù caccia gli spiriti maligni dai corpi degli indemoniati, nell’Apocalisse vengono citati questi spiriti infernali.

Nel 1272, Tommaso d’Aquino scrive il suo “Trattato sul male”, in cui parla della natura seducente del Diavolo e persiste sul “crimine di eresia della stregoneria”, poiché al tempo tale crimine era visto come un patto con Satana stesso, quindi la demonologia si sviluppa con l’approvazione delle autorità della Chiesa, per comprendere meglio la natura del male.[27]

Nel pensiero teologico cristiano medievale, la demonologia detiene un posto basilare, il tentatore dell’umanità, il torturatore dei dannati nell’Inferno: il Diavolo, per la gente del tempo, fu una presenza reale, ossessiva, la sua opera pareva manifestarsi sia nelle epidemie sia nelle catastrofi naturali e nell’epilessia dell’”indemoniato”, distruggendo psicologicamente e fisicamente la maggior parte degli uomini, determinando un aspetto fondamentale della religiosità. La vivace immaginazione popolare ispirava e condizionava, le descrizioni letterarie, le figurazioni artistiche ed anche le sacre rappresentazioni: in tanti luoghi, dipinti, sculture ricordavano al cristiano i temi della dannazione con esseri spaventosi pronti a martoriare gli sventurati, e ovviamente incidevano molto i ricordi di specifiche opere d’arte, <<…come il Giudizio giottesco della Cappella degli Scrovegni a Padova, nonché certi elementi di derivazione fantastico-popolare, non avranno mancato di agire anche su Dante: nelle cui asserzioni però, occorre,compare sempre, quanto meno sotteso, un rapporto preciso e diretto con il pensiero teologico scolastico>>.[28]  

Alle origini della demonologia cristiana c’è la ribellione dell’angelo prediletto da Dio, Lucifero, narrata nell’Apocalisse (Apoc. 12, 7-13.) e ignoto nel Vecchio Testamento, egli volle essere uguale al Creatore, peccando di orgoglio e di superbia: <<E così fu certo che ‘l primo superbo, / che fu la somma d’ogni creatura, / per non aspettar lume, cadde acerbo; >>, ossia Lucifero, la più alta delle creature, cadde imperfetto perché non volle aspettare di ricevere la sua perfezione dalla grazia di Dio;[29] ancora: <<Principio del cader fu il maledetto / superbir di colui che tu vedesti / da tutti i pesi del mondo costretto.>> :[30] Beatrice spiega a Dante come gli angeli furono creati per un atto d’amore da parte di Dio e gli dice che la causa della caduta di Lucifero, che aveva visto al centro della terra e su cui gravita il peso di tutto l’universo, fu la superbia. Furono numerosi gli angeli, appartenenti ai nove  ordini angelici, che si schierarono dalla parte di Lucifero, ma come lui furono cacciati con violenza dall’Empireo da quelli che erano rimasti fedeli, guidati dall’arcangelo Michele, tale puntualizzazione corrisponde alla “communis opinio” dei teologi, ad eccezione di Alberto Magno, il quale sostiene che al momento della ribellione gli ordini angelici non erano ancora stati costituiti. Come anche veniva presupposto che creature così perfette erano cadute in tale grave peccato perché non avevano ancora la completa conoscenza di Dio.[31] Dio aveva creato solo angeli buoni, una parte di essi peccò fuori dell’intenzione divina, ma non fuori della sua prescienza; il pensiero teologico rifiutava l’asserzione, considerata eretica, che Dio avesse dato origine ad angeli già malvagi, e tutto ciò, Dante lo scrive nel “Convivio”: <<Lo sole tutte le cose col suo calore vivifica, e se alcuna [se] ne corrompe, non è della ‘ntenzione della cagione, ma è accidentale effetto: così Iddio tutte le cose vivifica in bontade, e se alcuna n’è rea, non è della divina intenzione, ma conviene quello per accidente essere [nel]lo processo dello inteso effetto. Che se Iddio fece li angeli buoni e li rei, non fece l’uno e l’altro per intenzione, ma solamente li buoni. Seguitò poi fuori d’intenzione la malizia de’ rei, ma non sì fuori d’intenzione, che Dio non sapesse dinanzi in sé predire la loro malizia; ma tanta fu l’affezione a producere la creatura spirituale, che la prescienza d’alquanti che a malo fine doveano venire non dovea né potea Iddio da quella produzione rimuovere>>.[32]

Una terza specie di angeli viene posta da Dante nel vestibolo dell’Inferno, insieme alle anime dei vili: <<Mischiate sono a quel cattivo coro / de li angeli che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. / Caccianli i ciel per non esser men belli, / né lo profondo inferno li riceve, / ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli >>.[33] Anche se nessun passo della Sacra Scrittura parla di questi angeli, non si tratta di un’invenzione dantesca, poiché qualche notizia di questa terza specie di angeli si può trovare nelle leggende medievali, e il Poeta, non solo accoglie questa tradizione, ma la adegua alla condizione morale delle anime poste in quel luogo, particolarmente alla condanna del papa Celestino V, “colui che fece per viltade il gran rifiuto”.[34]

La caduta dall’Empireo sulla terra degli angeli ribelli era una considerazione accettata comunemente e il grande Fiorentino fa dire a Virgilio che Lucifero cadde dalla parte dell’emisfero australe: <<Da questa parte cadde giù dal cielo; / e la terra, che pria di qua si sporse, / per paura di lui fé del mar velo, / e venne a l’emisperio nostro; e forse / per fuggir lui qui loco voto / quella ch’appar di qua, e su ricorse>>.[35]

La teologia cristiana vide nella ribellione di Lucifero i principi del Bene e del Male e i loro opposti, costruendo su di essa una vasta struttura demonologica, in cui vennero aggiunti e potenziati i riferimenti biblici. Negli angeli caduti, fautori del Male, nacque una grande invidia verso l’uomo, il cui destino era quello di sostituirli presso Dio nell’Empireo, divenendo in tal modo “nemici dell’umana generazione”, ma Dio, cui è sottoposta ogni potenza, anche quella diabolica, si giovò di loro per mettere alla prova l’uomo sottoposto alle tentazioni ed è proprio in questa ottica che la teologia cristiana interpreta la tentazione del serpente e la cacciata dal Paradiso Terrestre di Adamo (Genesi), poiché l’uomo, se lo vuole, è in grado di resistere alle tentazioni del Maligno. I Diavoli, anche se confinati nell’Inferno, hanno la facoltà di aggirarsi tra gli uomini dimorando temporaneamente nell’aria, nella zona sublunare, per indurli in tentazioni di ogni genere fine al giorno del Giudizio, possono anche arrecare epidemie, provocare tempeste ed entrare nei corpi umani, procurando gravi malattie che costituiscono le caratteristiche degli indemoniati, come le paralisi, l’epilessia, il mutismo etc, di cui parlano spesso i Vangeli.

Nella lotta tra il Bene e il Male l’azione dei Diavoli viene contrastata dagli Angeli e questo contrasto diviene violento quando si tratta di prendere possesso dell’anima del defunto: <<Francesco venne poi, com’io fu’ morto, / per me; ma un de’ neri cherubini / li disse: “Non portar: non mi far torto>>.[36]Anche nel secondo balzo dell’Antipurgatorio, Dante incontra Buonconte da Montefeltro, morto nella battaglia di Campaldino, egli riuscì a fuggire, dopo essere stato ferito, nel luogo dove il fiume Archiano confluisce con l’Arno. Pentitosi in fin di vita era sorta una contesa tra l’Angelo che aveva presa la sua anima e il Diavolo che si era vendicato facendo strazio del corpo, trascinato e disperso nelle acque in piena: <<Io dirò vero e tu ‘l ridi tra’ vivi: / l’angel di Dio mi prese , e quel d’inferno / gradava: “O tu del ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lacrimetta che ‘l mi toglie; / ma io farò dell’altro altro governo!”>>.[37] Di queste lotte tra angeli e diavoli sono molto ricche l’arte figurativa, la produzione letteraria e l’agiografica, mentre il Poeta si allontana completamente dalla tradizione scolastica nel canto XXXIII dell’Inferno: Dante e Virgilio si trovano nella zona della Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti, condannati a restare in eterno supini nel ghiaccio con le lacrime ghiacciate negli occhi, uno di loro, frate Alberigo, noto per aver fatto uccidere a tradimento dei parenti invitati a pranzo, chiede di liberarlo da quel ghiaccio che gli impedisce uno sfogo al dolore con il pianto, in cambio rivela la sua identità e quella di un traditore genovese, Branca Doria, inoltre spiega anche come i due, ancora vivi col loro corpo, governato in realtà da un Diavolo, siano già all’Inferno. Dante in segno di disprezzo si rifiuta di alleviargli la pena.[38] Quello che Dante scrive risulta difficile da accettare teologicamente, anche se con molta audacia riesce a costruire questi fantasiosi versi da un passo del Vangelo di Giovanni.[39]

Dante, dunque, non ebbe nessuna pietà verso frate Alberigo che si era macchiato di una colpa così infame, ma non sempre il Poeta si comporta così con i dannati: spesso, nel suo cammino per l’Inferno, Dante è fortemente turbato alla vista degli atroci tormenti cui sono sottoposti i dannati, è colpito da grande pietà quando  sente Virgilio <<Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito / nomar le donne antiche e i cavalieri, / pietà mi giunse e fui quasi smarrito.>>,[40] sviene dopo avere ascoltato la storia di Francesca e Paolo, ha le lacrime agli occhi per la pena inflitta a Ciacco ed in altre occasioni, ma quando si commuove per lo strazio degli indovini, Virgilio lo redarguisce con terrificanti parole: <<Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi / del duro scoglio, sì che la mia scorta / mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi? / Qui vive la pietà quando è ben morta: / chi è più scellerato che colui / che al giudicio divin passion porta?>>[41], non si può avere pietà per i malvagi, qui siamo in presenza di peccatori per malizia e frode, che vollero prevenire il giudizio divino, quindi l’uomo ragionevole non deve sentire nessuna pietà. Tuttavia lo stesso Virgilio “smorto” per la commozione della pietà, che a Dante sembrerà effetto della paura, pronuncia queste parole: <<ed elli a me:”L’angoscia de le genti / che son qua giù, nel viso mi dipigne / quella pietà che tu per tema senti.>>.[42]

Da notare che il rapporto di Dante, avvertito da Virglio di non nutrire per queste anime sentimenti di pietà, con i condannati delle Malebolgie, che rappresentano un’umanità veramente degradata, è assente di una compartecipazione affettiva, ma è in forma distaccata, allontanandoli da sé, non si tratta certamente del rapporto appassionato che aveva caratterizzato gli incontri con le anime dei personaggi dell’alto Inferno.

La teologia del sentimento, come venne chiamata da Arturo Graf, nella maggior parte dei casi coincideva con quella popolare e ammetteva che le pene infernali potessero essere in qualche modo attenuate ai dannati, ipotesi negata dalla teologia raziocinate, dottrinale, scolastica: San Tommaso sostiene che nell’Inferno non ci può essere attenuazione della pena, dello stesso parere è San Bonaventura, anzi, sostiene che le punizioni inflitte da Dio sono minori delle colpe loro. San Bernardo di Chiaravalle cerca di dimostrare che i beati provano piacere nel vedere i tormenti a cui sono sottoposti i peccatori; perché quelle pene non riguardano loro, perché se tutti i malvagi verranno condannati, non potranno più preoccuparsi degli inganni diabolici e umani; perché la loro gloria sarà accresciuta dalla contrapposizione; infine perché quello che piace a Dio deve piacere ai giusti, quindi una moderazione delle pene elargite ai dannati, diminuirebbe la beatitudine degli eletti.[43]

Dante segue principalmente la teologia di San Tommaso, quindi non si discosta nemmeno per ciò che riguarda le pene infernali, anche se, come abbiamo visto, spesso dimostra una profonda pietà e talvolta qualche contraddizione con se stesso: parlando del vento impetuoso che travolge i lussuriosi, la chiama <<La bufera infernal, che mai non resta, / mena li spirti con la sua rapina: / voltando e percotendo li molesta. […] nulla speranza li conforta mai, / non che di posa, ma di minor pena.>>,[44] più avanti, nelle terzine in cui parla con Francesca da Polenta, fa dire alla donna: <<Di quel che udire e che parlar vi piace, / noi udiremo e parleremo a vui, / mentre che ‘i vento, come fa, ci tace.>>.[45] Nel VI canto, il Poeta dice: <<Io sono al terzo cerchio, de la piova / eterna, maledetta, fredda e greve:>>,[46] che fa urlare i dannati come cani, ma <<de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo>>,[47]quindi sembrerebbe che i dannati riescano a trovare un sollievo, anche se piccolo, al loro tormento. Nello stesso modo trovano un poco di sollievo i dannati che si trovano nell’ottavo cerchio, sono i barattieri che scontano il loro peccato immersi nella pece bollente, ma <<Come i dalfini, quando fanno segno / a’ marinar con l’arco de la schiena / che s’argomentin di campar lor legno, / talor così ad alleggiar la pena / mostrav’alcun de’ peccatori il dosso, / e nascondea in men che non balena. >>.[48] Così Dante ammette che i dannati possano avere qualche sollievo dalla loro pena e quelli che hanno commesso colpe meno gravi di coloro che si trovano nei cerchi più profondi, chiedono al Poeta di “vendicare” la loro memoria quando egli tornerà nel mondo dei vivi; San Tommaso sostiene che l’amore dei parenti e degli amici non attenua i tormenti dei dannati, anzi li acuisce, poiché se ne sentono indegni. Di opinione diversa sembra essere Dante, e un esempio lo troviamo con Cavalcante Cavalcanti, che pur dannato ama molto il figlio e non gli può certamente nuocere l’essere amato da lui; anche Brunetto Latini pare molto contento dell’affetto che il suo allievo gli dimostra.

E’ probabile che Dante faccia una distinzione tra i diavoli custodi dei cerchi infernali e quelli presenti sulla terra, nel XXI canto dell’Inferno troviamo: <<Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche / a quella terra che n’è ben fornita:>>,[49] mentre il Poeta arriva con la sua guida sul ponte della quinta bolgia, dove sono puniti nella pece bollente i barattieri, compare improvvisamente un diavolo con in spalla un dannato tenuto per i piedi e giunto sul ponte lo scaraventa nella pece dicendo agli altri diavoli che si tratta di un barattiere di Lucca, città che ne è ben fornita. I barattieri sono sorvegliati dai Malebranche, il più folto gruppo di diavoli infernali, dai nomi fortemente espressivi, che fanno intuire il libero sfogo della fantasia dantesca: Malacoda, Calcabrina, Alichino, Barbariccia, Ciriatto, Cagnazzo, Graffiacane, Farfarello, Libicocco, Rubicante, Scarmiglione. Il loro aspetto è sempre adeguato all’iconografia tradizionale, essi sono armati di uncini che strappano ai dannati le carni; anche nella bolgia dei seduttori troviamo una schiera di diavoli, come quelli delle raffigurazioni popolari: questi diavoli sono neri, hanno le corna, Ciriatto è “sannuto”, Cagnazzo mostra un muso non un volto, e sono tutti provvisti di artigli; il diavolo che butta nella pece dei barattieri “uno degli anziani di Santa Zita” è dipinto come le opere artistiche del Medioevo ce lo mostrano: <<Ahi, quanto egli era nell’aspetto fiero! / E quanto mi parea nell’atto acerbo, / con l’ali aperte e sovra i piè leggero! / L’omero suo, ch’era aguto e superbo, / cercava un peccator con ambo l’anche, / e quei teneva de’ piè ghermito il nerbo>>.[50] Dante fa una straordinaria pittura di questo demonio, prima coglie il fiero aspetto generale, poi l’atteggiamento sinistro crudele e feroce, le ali aperte che accrescano la rapidità dei movimenti. Le spalle sporgenti e angolose per la magrezza, proprio come venivano raffigurati i diavoli nelle antiche pitture; e con gli artigli teneva il peccatore per il tendine dei piedi.

I diavoli che spaventano tanto il Poeta nella quinta bolgia del cerchio ottavo, sono orribili, ma hanno anche del comico: fanno gesti infantili, volgari: <<Per l’argine sinistro volta dienno; / ma prima avea ciascun la lingua stretta / coi denti verso lor duca per cenno: / ed elli avea del cul fatto trombetta>>.[51]  

Fondandosi su varie espressioni dei Vangeli, i teologi sostenevano che i diavoli fossero tra loro distinti gerarchicamente e tutto ciò è evidentemente sviluppato nella prima cantica della Commedia: vicino alla gerarchia “militare” delle folte schiere di diavoli, appare una gerarchia “feudale”, in cui Lucifero è “Lo ‘mperador del doloroso regno”;[52] Proserpina è “la regina dell’etterno pianto”.[53] La perdita della beatitudine celeste ha operato nei diavoli un grande cambiamento, conservando della loro prima natura solo la competenza della scienza naturale e acquisita e la conoscenza del futuro, anche se nell’Inferno di Dante i diavoli non predicono il futuro, solo Caronte fa intendere che il Poeta è destinato al Purgatorio, tuttavia non godono della vera sapienza, ma sono incessantemente padroneggiati dall’invidia e dall’ira, quindi possono volere solo il male.[54]

Fin dalle origini, la demonologia riconosce incarnazioni diaboliche in bestie feroci, nocive all’uomo e in quelle particolarmente ripugnanti, nella “Commedia” mosconi, vespe e vermi torturano gli ignavi del vestibolo infernale;[55] questi animali diabolici sono il frutto delle credenze nate nei riti magici e poi entrate a far parte della demonologia popolare, anche le tre fiere che Dante incontra nel primo canto hanno natura demoniaca <<Questi la caccerà ogni villa, /fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno, / là onde invidia prima dipartilla>>.[56]  In seguito, ai suddetti animali venne affiancato il drago, mostro orribile e fantasioso, che oltre ad essere efferato come le altre bestie, aveva forme terrificanti, e divenne il simbolo del male per antonomasia. Le cattedrali europee romaniche e gotiche, nel Medioevo, si adornarono di questi mostri, anche l’agiografia ebbe una vasta fioritura, l’esempio più noto è quello di San Giorgio: la lotta di eroi tra il Bene e il Male. Dal punto di vista teologico l’assioma è che le forze del bene sono bellissime e quelle del male orrende, la rappresentazione antropomorfica del bene è l’angelo pensato come esaltazione e idealizzazione della figura umana: giovane, con un corpo perfetto, bellissimo, con ali bianche, attorniato da una luce radiosa, mentre il diavolo, di colore nero, è dotato di ali di pipistrello e fisicamente è un ibrido deformato di umano e di bestiale: con corna, grugno, coda, zoccoli, etc.

Se la demonologia dantesca è derivata dalle idee della teologia del tempo, ad eccezione di vari concetti sviluppati da Dante in modo molto personale, indipendenti da quella tradizione sono invece i numerosi personaggi mitologici presenti nell’Inferno e trasformati in demoni, come Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegiàs, le Furie, Medusa, Proserpina, il Minotauro i Centauri, le Arpie, Gerione, Caco e i Giganti. <<La simbiosi di demonologia cristiana e mitologia pagana operata da Dante viene di consueto spiegata come frutto d’imitazione letteraria della poesia classica, e pertanto la contaminazione è ricondotta al cosidetto “pre-umanesimo” dantesco. E’ questa, evidentemente, la soluzione più semplice e la più rispondente alla cultura e alla sensibilità moderne, e perciò la più chiara e immediatamente accettabile per tutti>>.[57]

Forse questa non è la spiegazione giusta, ma solo semplicistica, precisa Giorgio Padoan, esperto dantista, addirittura la definisce inesatta e fuorviante dal reale pensiero di Dante: sembra poco probabile che un cristiano scrupoloso come lui e un attento scrittore scolastico, abbia mischiato la demonologia cristiana con invenzioni poetiche pagane per motivi letterari, oltretutto non dimentichiamo che la questione demologica era, per i tempi in cui visse il Poeta, considerevole e seria. Comunque sia insieme con Satana o Belzebub o Lucifero troviamo nel doloroso regno i demoni mitologici, che sono più numerosi di quelli biblici ed hanno cariche molto più importanti, infatti i demoni biblici (ad eccezione dei Centauri e delle Arpie, che sono ripresi dalla mitologia) sono incaricati delegati di tormentare varie classi di dannati, mentre Caronte traghetta le anime, Minosse ha l’importante compito di giudice, Cerbero è il guardiano del terzo cerchio e Plutone del quarto, etc. Dante fu più volte criticato per avere mischiato il mito pagano con la credenza cristiana, e considerare questo come un anticipo di certe tendenze e usanze dell’Umanesimo non è completamente sbagliato, poiché echi e riflessi dei miti pagani si trovano nelle descrizioni dell’Inferno cristiano fin dai primi secoli della Chiesa, la quale non negò l’esistenza degli dei pagani, ma si limitò a negare la divinità e li trasformò in demoni, divenendo ospiti dell’Inferno, sudditi e aiutanti di Satana. Dio, gli angeli e i demoni erano esistiti da sempre e da sempre avevano partecipato (preso parte) agli avvenimenti umani di tutti i popoli, ad eccezione degli Ebrei, i quali furono in grado di dare una spiegazione ai fatti miracolosi e soprannaturali. I Padri della Chiesa sostennero che i pagani, divinizzando anche uomini di particolare valore e che per volere celeste avevano compiuto opere straordinarie (per es. Ercole), ma accanto al Bene agiscono sempre anche le forze del Male, che si manifestarono ai pagani con personificazioni e interventi magici, ossia per suggestione diabolica, vennero adorati anche entità di natura demoniaca. Queste divinità pagane, frutto della fantasia, rispecchiavano una realtà interpretata erroneamente, allora si cercarono gli equivalenti nella Bibbia e dove non era possibile non mancò il lavoro di fantasia, ed è proprio in questa prospettiva che va analizzata e recepita la mitologia pagana nell’Inferno di Dante, il quale parte da una certezza: la discesa agli Inferi di Enea, descritta in seguito da Virgilio, poeta e storico dell’Impero. Secondo l’Alighieri, Enea arrivò fino alla soglia del Tartaro, ossia fino alle mura della città di Dite, e vide molti demoni, quindi anche Dante, che accoglie pienamente l’opera virgiliana, incontra demoni unicamente mitologici, poiché i diavoli della tradizione biblico-cristiana si trovano tutti dentro la città di Dite, dove Enea non era entrato.[58]

 <<Si capisce che una tale costruzione risultasse inaccettabile ai teologi, derivando da una lettura dell’Eneide al servizio di un’ardita prospettiva politico-religiosa (l’Impero romano voluto dalla Provvidenza, ecc.)che fu non ultimo motivo della condanna della Monarchia. Ben presto la cultura e la mentalità umanistiche lessero l’Eneide  con occhi ben altrimenti storicistici, vedendovi non un libro escatologico e storico, ma esclusivamente un’opera d’invenzione poetica; e allora questa parte della costruzione dantesca, specie per la parte ispirata alla mitologia pagana, non s’intese più il profondo impegno dottrinale e la serietà dell’impostazione. La nuova cultura suggerì una spiegazione umanistica, che indicava in quelle riprese l’imitazione del letterato e la fantasia del poeta; la quale interpretazione, tra l’altro, offriva il non piccolo vantaggio di annullare le pesanti riserve dei teologi; e s’impose con tutti i crismi dell’attendibilità, tant’è che vige ancor oggi>>.[59]

Dante è ancora sconvolto dalla paura per l’incontro con i diavoli sotto le mura della città di Dite, quando, giunto con la sua guida all’ingresso della città, giungono improvvisamente le pericolose Erinni, le Furie dai capelli di serpente e il corpo di donna, le quali gridano e si lacerano il petto, minacciando il Poeta di farlo pietrificare da Medusa. Le tre Furie sono Megera, Tesifone e Aletto, figlie d’Acheronte e della Notte, destinate al servizio di Proserpina, regina dell’Inferno, come seminatrici di discordia e tormentatrici dei dannati, esse appaiono in cima alla torre: Megera a sinistra, Tesifone in mazzo e Aletto a destra; Dante molto spaventato si stringe alla sua guida e alla minaccia delle tre Erinni, Virgilio dice gli dice di non voltarsi indietro e di chiudere gli occhi per non vedere il capo di Medusa, la quale, secondo la mitologia classica, fu una delle tre Gorgoni, figlie di Forco, dio marino, uccisa da Perseo che le mozzò la testa, che aveva la potenza di pietrificare chiunque la guardasse, aiutandosi con lo scudo come fosse uno specchio e dalla testa tagliata uscì il cavallo alato Pegaso; Medusa è collocata da Dante tra i demoni a guardia della città di Dite, non compare direttamente ma viene evocata dalle tre Furie per trasformare il Poeta in sasso e impedirgli il passaggio. Anche Proserpina (Persefone), personaggio della mitologia classica, divenne moglie di Plutone in seguito al suo rapimento e poi collegata al culto dell’Oltretomba come regina degli Inferi, viene citata indirettamente, dicendo che le Erinni sono le ancelle della “regina dell’etterno pianto”.[60]   

Dante e Virgilio stanno per scendere verso il primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro il prossimo (tiranni, omicidi, ladri), immersi nel Flegetonte, fiume di sangue bollente e colpiti dalle frecce dei Centauri, quando in cima ad uno scoscendimento vedono il Minotauro, il quale è posto da Dante a guardia di questo luogo. La leggenda di questo personaggio è tra le più conosciute della mitologia classica: nato dalla mostruosa unione di Pasife, moglie del re di Creta, con un  bellissimo toro bianco di cui si era innamorata ed aveva fatto costruire una finta vacca nella quale nascondersi per avere rapporti sessuali con il toro. Il mostro, relegato nel labirinto costruito da Dedalo, fu ucciso da Teseo aiutato da Arianna, sorella del Minotauro, mentre portava il tributo annuo di sette giovani e sette fanciulle. Il Minotauro, spesso accostato al peccato di lussuria a causa delle sue origini, fu per Dante simbolo di violenza per la sua doppia natura umana e bestiale. Alla vista dei due poeti, il mostro si infuria, ma viene placato da Virgilio, il quale gli dice che nessuno dei due è Teseo e che Dante non è istruito da Arianna sua sorella, ma sono per vedere le pene dei dannati, tali parole spingono al parossismo la furia bestiale del mostro, così accecato dal furore i poeti riescono a passare indisturbati. I Centauri, creature mitologiche, avevano sembianze umane fino alla cintola e il resto del corpo equino. Essi sono rappresentati sia come cacciatori armati di arco e frecce sia come esseri dell’Aldilà: Virgilio, nel Vi libro dell’”Eneide”, li colloca all’ingresso dell’Ade, il loro compito è quello di colpire con le frecce chiunque dei dannati tenti di uscire dal fiume. In particolare vengono nominati dal Poeta tre di loro: Chirone, che sembra essere il capo della schiera, figlio di Crono e Filira, nella tradizione classica è ricordato per la sua grande saggezza e come maestro di Achille; Nesso, che innamoratosi di Deianira tentò di rapirla, ma fu ucciso da Ercole e Folo, che alle nozze di Piritoo e Ippodamia, si ubriacò e tentò di rapire la sposa, scatenando la guerra con i Lapiti. In seguito alle parole che Virgilio scambia con Chirone, i due poeti saranno presi in groppa da Nesso per deporli sull’altra sponda del Flegetonte. Dante associa ai Centauri anche Caco e lo colloca nell’VIII cerchio della VII Bolgia, dove sono puniti i ladri, ma non specifica se sia un peccatore o un demonio col compito di tormentare i dannati: <<Lo mio maestro disse:”Questi è Caco, / che sotto il sasso di monte Aventino / di sangue fece spesse volte laco. / Non va co’ suoi fratei per un cammino, / per lo furto che frodo lente fece / del grande armento ch’elli ebbe a vicino; / onde cessar le sue opere bieche / sotto la mazza d’Ercule, che forse / li ne diè cento, e non sentì le diece”>>.[61] La figura di Caco fa parte della mitologia classica, figlio di Vulcano, fu descritto da vari poeti latini, tra cui Virgilio, che nell’Eneide (Aen., VIII, 184 e segg.) fa raccontare la sua storia da Evandro a Enea, lo descrive come un gigante che emette fiamme, come un ladro di bestiame e un assassino: Caco ruba i capi più belli della mandria di Ercole, il quale l’aveva sottratta al re di Spagna e si era fermato nell’Aventino, per far perdere le tracce che avrebbero rivelato il luogo dove le aveva nascosti, Caco trascina le bestie per la coda, ma dalla caverna, i capi rubati sentendo passare il resto della mandria cominciarono a muggire, rivelando il luogo dove erano nascosti; Caco cercò la fuga per sfuggire all’ira di Ercole, che lo raggiunse e lo uccise. Dante invece lo raffigura come un Centauro che porta sulla groppa numerose serpenti e un drago ad ali spiegate dietro la schiena umana, che vomita fiamme contro chiunque gli si presenti. Virgilio spiega che Caco non è insieme ai suoi fratelli a causa del furto fraudolento che commise. Nella scena dantesca i Centauri rappresentano la cieca cupidigia e l’ira folle, attraverso cui si manifesta la bestialità umana.

I due poeti si addentrano, nel canto XIII, in una strana selva, che si scoprirà essere la foresta dei suicidi, è abitata dalle Arpie, mostri mitologici col corpo di uccello e la testa di donna che emettono strani versi: <<Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, / che cacciar dalle Strofadi i troiani / con tristo annuncio di futuro danno. / Ali hanno late e colli e visi umani, / piè con artigli e pennuto il gran ventre; / fanno lamenti in su li alberi strani>>.[62] Esse sono custodi del secondo girone del  VII cerchio, nidificano tra gli alberi dove sono prigionieri le anime dei suicidi, si cibano delle loro foglie, causando grandi dolori ai dannati. Nella mitologia classica, le Arpie sono figlie di Taumante ed Elettra e simboleggiano la violenza e la furia delle bufere, sono menzionate in varie opere della letteratura greco-latina, ma Dante fa un riferimento esplicito alla fonte da lui utilizzata per la sua rappresentazione di questi mostri, nell’”eneide” (Aen., III, 225 e segg.) Virgilio sostiene che esse abitano le isole Strofadi da cui fecero fuggire i Troiani preannunciando loro una terribile quanto ingannevole carestia. Questo canto si apre con l’immagine di un bosco inaccessibile: nella tradizione fiabesca e letteraria il bosco è un luogo designato alle pratiche d’iniziazione e alle metamorfosi magiche. Questo bosco dantesco sembra riprendere questo tratto distintivo magico-iniziatica: il Poeta pellegrino effettuerà un’altra tappa del suo doloroso viaggio iniziatico ai misteri dell’Oltretomba, attraverso la conoscenza del peccato in tutte le sue perverse rivelazioni, incluso la raccapricciante trasformazione in alberi, cui sono condannati i suicidi, che per Dante sono colpevoli di un peccato mostruoso, poiché si sono privati del più grande dono divino: la vita, quindi anche il luogo della loro pena ci riporta continuamente all’idea di anormalità e disumanità proprie del loro peccato.

Dante e Virgilio, giunti alla cascata assordante del Flegetonte, vedono una mostruosa figura che sale dal burrone come se nuotasse nell’aria, si tratta di Gerione, mostro demoniaco assunto anche questo dalla mitologia classica, cui Dante e Virgilio devono affidarsi per superare il dislivello. <<La faccia sua era faccia d’uom giusto, / tanto benigna avea di fuor la pelle, / e d’un serpente tutto l’altro fusto; / due branche avea pilose in sin l’ascelle; / lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste / dipinti avea di nodi e di rotelle. / Con più color, sommesse e sopraposte / non fer mai drappi Tartari né Turchi, / ne fuor tai tele per Aragne imposte. / Come tal volta stanno a riva i burchi, / che parte sono in acqua e parte in terra, / e come là tra li Tedeschi lurchi / lo bìvero s’assetta a far sua guerra, / così la fiera pessima si stava / su l’orlo che, di pietra, il sabbion serra. / Nel vano tutta sua coda guizzava, / torcendo in sù la venenosa forca / ch’a guisa di scarpion la punta armava>>.[63]  Gerione, figlio di Crisaore e di Calliroe, viene descritto da Dante come un mostro con la faccia di uomo giusto, il busto di serpente, due zampe pelose fino alle ascelle e artigliate, il dorso e il petto dipinti con nodi e rotelle simili ai drappi persiani, una coda biforcuta con un pungiglione avvelenato come quello di uno scorpione. E’ l’immagine della frode, ossia la rappresentazione del peccato punito nell’VIII cerchio, di cui il mostro è custode. Nella mitologia classica, Gerione era il re di tre isole iberiche e fu ucciso da Ercole che gli sottrasse una mandria molto bella; Dante arricchisce questa figura con particolari fantastici, la coda biforcuta e velenosa sta a significare che chi imbroglia è sempre pronto a colpire le sue vittime, i nodi e le rotelle che il mostro ha sulla schiena e sul petto simboleggiano, probabilmente, gli intrecci e i maneggi dell’inganno.[64]

I due poeti stanno superando l’argine che li condurrà al IX cerchio, quando Dante crede di scorgere, nella luce del crepuscolo, una città circondata da alte torri, ma Virgilio gli dice che l’aria oscura dell’Inferno gli fa vedere le cose in modo errato: <<Poi caramente mi prese per mano, / e disse: “Pria che noi siam più avanti, / acciò che ‘l fatto men ti paia strano, / sappi che non son torri, ma giganti, / e son nel pozzo intorno da la ripa / da l’umbilicoin giuso tutti quanti>>.[65] I Giganti, nella mitologia classica, erano figli di Gea e Urano e spesso erano raffigurati anguipedi, essi si ribellarono a Giove, con un folle e presuntuoso tentativo di dare la scalata al cielo, ma furono tutti uccisi in Tessaglia nella battaglia di Flegra. Dante li colloca intorno al pozzo che separa l’VIII dal IX cerchio dell’Inferno, non come demoni, ma, essendosi ribellati a Dio, associati al peccato di tradimento.

Nella Bibbia vengono menzionati soprattutto due giganti, Golia, ucciso da David e Nembrod, capo dei discendenti di Cam e primo re di Babilonia, fu secondo la tradizione patristica il promotore della costruzione della torre di Babele, suscitando lo sdegno di Dio e la confusione delle lingue come conseguenza; così Nembrod, oltre la pena inflitta agli altri giganti, è condannato alla confusione mentale di non essere compreso e di non comprendere; mentre nella Genesi è ricordato solo come un grande cacciatore,[66] Dante lo descrive di dimensioni smisurate: <<La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di san Pietro a Roma>>,[67] facendo riferimento alla pigna bronzea, che un tempo aveva forse adornato il Mausoleo di Adriano, poi collocata davanti alla Basilica di San Pietro. Le parole che Nembrod rivolge ai due pellegrini sono incomprensibili e Virgilio lo esorta a sfogare la sua ira con il corno che porta al collo, poi invita Dante a non parlare inutilmente con lui, dal momento che il gigante non capisce nessun linguaggio e il suo è sconosciuto agli altri. A non molta distanza trovano un altro Gigante, si tratta di Efialte, figlio di Nettuno e di Ifimedìa, il quale, insieme col fratello Oto, fu tra i più audaci nella battaglia contro Giove ed entrambi furono uccisi da Apollo, proprio perché avevano osato sfidare gli Dei, cercando di raggiungere l’Olimpo sovrapponendo i due monti Ossa e Pelio. Egli è descritto da Dante ancora più feroce, più pericoloso e più grande del primo, ha le braccia strettamente legate alla schiena con una catena che si avvolge al collo, in modo da non potersi muovere, in quanto dotato di una forza sovrumana, Virgilio passandogli accanto dice che Briareo era un gigante più forte di lui, udendo queste parole Efialte si scuote provocando un fortissimo terremoto che terrorizza il Poeta toscano, che chiede alla sua guida di poter vedere Briareo, Virgilio gli dice che si trova più distante ed è legato come Efialte, ma ha il volto più feroce. I due pellegrini raggiungono, infine Anteo, figlio di Poseidone e della Madre Terra, viveva in una grotta presso Zama, dove costringeva gli stranieri a combattere con lui e poi li uccideva, conservando i crani delle sue vittime per fare il tetto del tempio di Poseidone. Non partecipò alla battaglia contro Giove, perché vissuto dopo gli altri Giganti; si nutriva di carne di leone e il contatto con la terra gli conservava e aumentava la sua forza colossale. Fu ucciso da Ercole, che, dopo una lunga lotta, riuscì a sollevarlo da terra, diminuendo la sua forza finché Anteo morì. Nell’Inferno dantesco questo Gigante non è incatenato, a differenza dei suoi simili, in quanto non prese parte alla suddetta battaglia e non fece atto di superbia. Virgilio prega il Gigante di deporre lui e il suo discepolo in fondo al pozzo nel lago ghiacciato di Cocito, e Dante tornando sulla terra gli darà fama nel mondo con i suoi versi, ma certamente non in modo lusinghiero, quindi il discorso elaborato di Virgilio è da intendersi come antifrastico e la “captatio benevolentiae” è in senso ironico per suscitare la vanità del Gigante, che, convinto, depone delicatamente i due poeti per poi sollevarsi di nuovo come l’albero di una nave. I due Giganti Tizio e Tifeo sono solo menzionati.[68]

Le figure dei Giganti, soli protagonisti di tutto il canto XXXI, anticipano e preparano il Poeta all’incontro con Lucifero: i Giganti sono conficcati nella roccia ai margini del pozzo, come il re dell’Inferno lo sarà nel centro di Cocito, i Giganti si erano ribellati agli dei con il presuntuoso tentativo di dare la scalata al cielo; analogamente l’angelo più bello e più benvoluto da Dio si era ribellato perché voleva essere uguale a Lui; i Giganti non sembrano dotati d’intelletto, ma sono descritti come esseri enormi privi di razionalità, come Lucifero verrà descritto con peculiarità bestiali e come un enorme mostro peloso che divora le anime di Giuda, Bruto e Cassio. Dante segue la tradizione dei Padri della Chiesa, i quali definivano i Giganti come esseri mostruosi, di dimensioni eccezionali e realmente esistiti, ma non demoniaci. 

 Nel XXXIV canto, i due poeti arrivano al cospetto de “Lo ‘imperador del doloroso regno” e celeberrima è la rappresentazione dantesca di Lucifero, al centro della terra, conficcato nel ghiaccio di Cocito, con tre facce mostruose di colore diverso, simbolo della trinità infernale, contrapposta alla Trinità divina che è amore, potenza e sapienza infiniti: la faccia anteriore è vermiglia, simbolo dell’ira, quella di destra è giallastra, simbolo dell’invidia, quella di sinistra è nera, simbolo dell’odio, secondo le credenze del tempo, i principali moventi che spingono al tradimento: in ciascuna delle quali egli maciulla un peccatore, ma quali peccatori: i traditori di Cristo e di Cesare! Giuda, il tesoriere degli Apostoli, non è chiaro per quale motivo abbia pattuito la cattura di Gesù e la sua consegna ai Romani, per la somma di trenta denari d’argento. Dante lo considera soprattutto simbolo dell’avarizia e del tradimento, è collocato nella zona più profonda dell’Inferno ed è il peccatore che viene punito con la pena più grande. Bruto e Cassio,[69] i quali furono considerati dai Romani fedeli alla tradizione repubblicana gli uccisori del tiranno, ma durante il Medioevo furono ritenuti traditori della maestà imperiale nella figura di Cesare, reputato l’effettivo instauratore dell’Impero. Il Poeta considera pienamente appropriata la loro condanna, poiché la colpa dei tre dannati è per lui e per l’uomo medievale considerata una delle più gravi, perché commessa ai danni delle due supreme potestà su cui poggia il fondamento di un’ordinata vita terrena e della beatitudine di quella celeste. La loro collocazione non può essere che nelle fauci del male, da dove cola una sanguinosa bava a completamento del nauseante spettacolo.

Sotto ciascuna faccia di Lucifero spuntano due ali enormi, non pennute come quelle degli angeli o degli uccelli più nobili, ma simili a quelle dei pipistrelli, ricoperte di ripugnante peluria, che, agitandole continuamente, provocano un vento talmente freddo che fa gelare tutto Cocito. La rappresentazione di Lucifero non poteva essere più terrificante e insieme grottesca. Le arti figurative rappresentarono spesso, anche prima del periodo di Dante, i diavoli con ali di pipistrello e gli angeli con le ali pennute, il Poeta seguì nella raffigurazione di Lucifero la tradizione artistica del suo tempo. La descrizione insiste sulle dimensioni smisurate, paragonando la figura di Lucifero ai Giganti incontrati poco prima dai due poeti, che sembravano dei lillipuziani al suo confronto, e sottolineando la sua mostruosità in antitesi con la bellezza sfolgorante che lo distingueva (caratterizzava) prima della ribellione.  

Molto interessante è questo commento su Satana del Petronio, che riportiamo integralmente: << Questi, già Lucifero, scacciato dai cieli per la sua superbia, è precipitato sulla terra, e, scavatasi una sorte di voragine, nata dal ritrarsi del suolo dinanzi a lui, è rimasto confitto al centro del globo, e quindi dell’universo, simbolo del male e antitesi di Dio, mentre la terra che lo aveva fuggito è emersa agli antipodi di Gerusalemme formando la montagna del Purgatorio. E’ facile notare la saldezza concettuale e fantastica di questa struttura, e la forte unità con la quale Dante seppe legare tutti gli elementi della concezione biblica della storia dell’uomo: Dio, sommo bene, e Satana, sommo male, sono contrapposti antiteticamente, anche dal punto di vista della loro collocazione nel mondo; la caduta di Lucifero – che avrebbe dato luogo a tutta la storia umana futura, con la seduzione di Eva, la colpa dell’uomo, il riscatto operato da Cristo – spalanca la voragine infernale in cui è punito chi non ha saputo respingere la seduzione del male, ma spinge verso il cielo quella montagna del Purgatorio che sarà strumento di purgazione e di redenzione. Così i regni dell’oltretomba, quali li aveva concepiti e immaginati il cristianesimo, vengono collegati strettamente alla storia dell’uomo e alla storia sovrumana della creazione e poi della ribellione degli angeli. Egualmente notevole è, in questa concezione, il reciso antropocentrismo, in armonia, anche qui, con la visione della vita propria del medioevo: l’uomo è al centro della creazione e della storia; Dio lo creato, destinandolo alla felicità eterna, nel momento stesso in cui creava il mondo; esule sulla terra per la caduta di Adamo, egli è la posta di un conflitto continuo tra male e bene; intorno a lui e alla terra che abita ruotano le sfere celesti; per lui Dio si è incarnato e ha sofferto la Passione.[70]

Nella Bibbia non sono presenti riferimenti diretti e dettagliati della figura di Lucifero, né della sua cacciata dal Paradiso.[71] Il Nuovo Testamento ha ereditato vari concetti di Diavolo: è un angelo caduto, è il capo dell’esercito demoniaco, è il principe del male, è il non-essere, la cui funzione è quella di nemico principale di Cristo. Restava però il problema della teodicea: il Signore buono crea un mondo buono, deteriorato dal Diavolo e dai demoni, che arrecano ogni sorta di mali, ma anche dal libero arbitrio dell’umanità, che rappresentata da Adamo ed Eva, sceglie di fare il male anziché il bene, di conseguenza tramite l’azione di Satana, supportato dai demoni e dagli esseri umani caduti nel peccato, il mondo si è trovato sotto la dominazione del Diavolo, quindi il male esistente nel mondo non è dovuto al Dio buono, ma alle suddette creature.[72]

La dottrina del peccato originale è sconosciuta nel Vecchio Testamento, rara nella letteratura rabbinica, troviamo degli accenni nella letteratura apocalittica ed anche nel Nuovo Testamento non viene sviluppata, ma i Vangeli menzionano il peccato originale e riferimenti indiretti si possono trovare nel “Corpus Paolino”,[73] mentre nella “Lettera ai Romani” si parla del peccato originale: Paolo spiega che attraverso il peccato di Adamo, il peccato e la morte sono entrati nel mondo,[74] non viene accennato al ruolo di Satana, anche se possiamo dedurre implicitamente che è stato lui che ha indotto Adamo al peccato e ciò implicherebbe che il peccato di Satana sarebbe precedente a quello di Adamo, mentre la prima tradizione cristiana sosteneva prima la caduta di Adamo e poi quella di Satana. Il Diavolo è il signore del mondo degli uomini, perché può tentare chiunque, in quanto signore dei peccatori, è il principe di una legione di angeli caduti e dei demoni, ma la differenza tra i due generi è molto vaga nel Nuovo Testamento, come lo era stata nel tardo giudaismo. Nell’uso neotestamentario, la distinzione tra il Diavolo e i demoni è chiara nei termini “diabolos” e “daimonion”, mentre nella successiva tradizione cristiana questi termini perdono la loro efficacia e i demoni sono esseri sotto il comando di Satana che lo aiutano a ostacolare il Regno di Dio, per mezzo della possessione; il Diavolo, nel Nuovo Testamento è un tentatore, un bugiardo, un assassino, è causa di morte, della stregoneria, e dell’idolatria, danneggia gli uomini e ostacola la predicazione del Regno di Dio istigandoli al peccato e possedendoli spiritualmente.

Nella tradizione cristiana del tempo di Dante (e di Milton), il Diavolo è il re dell’Inferno dove punisce i peccatori e soffre egli stesso, ma nessuna di queste azioni vengono citate nel Nuovo Testamento, dove i riferimenti sono rari e poco chiari e l’Inferno viene indicato con i termini “Hades” e “Geenna”: il primo si trova sottoterra ed è il luogo dove dimorano le anime in attesa di ricongiungersi ai loro corpi con la Resurrezione; mentre il secondo è il sito del fuoco eterno, dove sono puniti i malvagi, ma non viene indicata la sua ubicazione, ma che cosa accadrà e quando sarà la fine del mondo? Il problema dell’Inferno è da inquadrare in quello più vasto dell’escatologia: la fine del mondo e la sconfitta di Satana sembrerebbero simultanee, ma il Nuovo Testamento parla in maniera oscura sia sui tempi sia sui modi.[75]

Numerose e varie interpretazioni sono state date alla caduta di Lucifero e degli angeli suoi seguaci, la cronologia; la natura della caduta; la geografia della caduta, e proprio l’incoerenza e l’ambiguità di questi racconti hanno consentito al pensiero cristiano di far nascere una vasta varietà di leggende circa la sconfitta del Diavolo, ognuna delle quali coerenti con l’insegnamento biblico da cui derivava. Altro tema escatologico è quello dell’Anticristo, a cui vengono associate le bestie e il drago ( Apocalisse, vv. 11-19), che si può identificare con il Diavolo e le bestie con i sui servi, mentre la bestia che viene dal mare simboleggia il potere di Roma. L’Anticristo e le due bestie sono aiutanti di Satana nella sua lotta contro Cristo alla fine del mondo, ossia l’antico eone, la forza del male che ostacola e impedisce il regno di Dio, che vengono gettati in uno stagno di fuoco e tormentati continuamente col Diavolo. ( Apocalisse vv. 19-20; 20,10) Nella tradizione iconografica il Diavolo è rappresentato con le corna, forse perché veniva associato con gli animali selvatici provvisti di corna, con Pan e i satiri, con la fertilità e la luna crescente, comunque sia queste immagini si associarono nel Cristianesimo primitivo e misero sulla testa del Diavolo le corna. Se i demoni del Nuovo Testamento si collegano con molti animali schifosi, Satana si connette al leone  e al serpente, anche se il primo non divenne importante per la tradizione iconografica, perché associato anche a Cristo e a Marco l’evangelista; il serpente, tentatore di Eva, sarebbe l’identificazione di Satana, anche se non è mai troppo evidenziata nel Nuovo Testamento, ma caldeggiata dalla tradizione cristiana posteriore, anche le ali, non menzionate nel Nuovo Testamento, ma spesso associate al Diavolo, che regna nell’aria, fanno parte della sua figura, sempre nella tradizione posteriore è rappresentato dai colori rosso e nero: solo nell’Apocalisse il rosso è considerato un colore negativo, è il colore del drago, della prostituta e della bestia che cavalca. (Ap. 12,3) Il nero deriva dal suo ruolo di signore delle tenebre e dalla sua associazione agli Inferi, dove si trova prigioniero dopo la caduta, tuttavia nel Nuovo Testamento Satana non viene mai rappresentato concretamente, perché esso è uno spirito, non un corpo, pur avendo la facoltà di cambiare aspetto per i suoi fini e trasformarsi anche in angelo di luce.[76]  

Dobbiamo considerare che il senso della paura fu già nell’uomo primitivo, che si trovò a combattere contro tanti pericoli e avversità naturali, ma l’uomo scoprì il valore del magico e del sacro, fondendoli spesso tra loro e arrivando così al culto di vari oggetti e di animali. D’altra parte l’uomo arcaico si era reso perfettamente conto della propria finitezza e la scoperta di questi due valori fu fondamentale per la propria vita, in quanto gli dette la possibilità di proiettarsi in ciò che l’uomo non avrebbe mai raggiunto materialmente: l’infinità. Aspirante alla salvezza si rivolse, quindi, per l’immediato presente alla magia e a quella per il futuro al sacro.[77]

Satana onnipresente come Dio: questa è la realtà essenziale che sta alla base dell’intera credenza. Un manicheismo semplicista, ma molto efficace fa della vita terrena una battaglia perpetua tra il Diavolo e le creature. Il Maligno e il suo esercito infernale possono fare il male entro limiti tracciati da Dio, ma si tratta di limiti estesi, perché approfittano delle debolezze degli uomini.[78]

Alcuni testi medioevale distinguono Satana da Lucifero, la tradizione afferma, invece, la loro unità, in quanto usa indistintamente i due termini per indicare un solo personaggio, il Diavolo, personificazione del male. Il nome di Lucifero nasce dall’associazione del principe di Isaia,[79] che precipita dal cielo a causa del suo orgoglio, con il cherubino di Ezechiele, la cui condotta era sempre stata perfetta fin dalla sua creazione, fino a quando in lui ci fu l’iniquità.[80] Queste due figure si uniscono in quella di Satana; quando avviene tale fusione non si sa, ma Origene, nel III secolo, usa questi nomi riferendoli allo stesso personaggio.[81]

            La credenza al bene e al male, questa dualità costituisce l’idea fondamentale delle religioni orientali ed è all’origine delle più antiche cerimonie rituali. Questa convinzione compare, all’inizio dell’era cristiana, nell’idea dualistica dei manichei, dando luogo ad una nuova concezione: quella del Diavolo, nemico di Dio e capace di dare ai suoi veneratori una forza in grado di sconvolgere l’armonia nell’opera divina, che originariamente comportava solo cose buone. L’esistenza del Diavolo fu proclamata negli atti del IV Concilio lateranense del 1215, diffondendo a poco a poco una forma crescente di paura per le terribili manifestazioni di un’entità così potente.[82]

Il viaggio oltremondano che Dante dice di avere realizzato nasce da un profondo bisogno di rigenerazione morale e spirituale, non solo a livello personale, ma per tutta l’umanità, travagliata da un clima storico-politico e religioso di crisi istituzionale: la decadenza dell’Impero, la supremazia del potere temporale del Papato su quello spirituale, con un’ulteriore mondanizzazione della Chiesa, la cui conseguenza era l’incremento della simonia, del nepotismo e della corruzione. La Firenze di Dante, con il suo sviluppo economico-commerciale, costituiva l’ambiente ideale di dissolutezza morale, che dilaga nella società del tempo e che vede l’abbandono dei vecchi valori cavallereschi per dare spazio alla bramosia di ricchezze e alle conseguenti aspre lotte interne della città, in cui il Poeta resterà coinvolto e che pagherà con l’esilio la falsa accusa di baratteria. Il messaggio profetico dell’Alighieri, nel suo capolavoro, annuncia la venuta di un Veltro,[83] ossia di un riformatore spirituale che avrebbe riportato i popoli sulla retta via, egli stesso si sente investito di una missione profetica e divina volta alla rigenerazione spirituale dell’umanità, che gli sarà confermata dall’avo Cacciaguida in Paradiso.[84]Dante non è più l’”exul immeritus”, come si firmava nella maggior parte delle sue lettere, ma un profeta latore di un messaggio universale, che, dopo Enea, propugnatore di Roma imperiale, e di San Paolo, risanatore della fede, si pone come riformatore politico e religioso.


[1] S. A. Barbi, Dante Alighieri, La Divina Commedia, Commento di Tommaso Casini, Firenze1959,Inferno, Canto III, vv. 82-111. I passi della prima Cantica riportati nel testo sono ripresi da questa edizione della Divina Commedia.

[2]Si tratta del fenomeno dell’ossitonizzazione, cioè rendere una parola ossitona facendo cadere l’accento tonico sulla sillaba finale.

[3] Cfr. Inf. II, vv. 10-33.

[4] Inf. I, vv. 82-87. Era tipico dello scrittore medievale affidarsi ad un’”auctoritas”, per dare validità a ciò che scriveva.

[5] Cfr. Inf. II, vv. 31-33.

[6] Cfr. B. Porcelli, Studi sulla “Divia Commedia”, Bologna 1970, pp. 3-5.

[7] Ibid.

[8] Cfr. Par. X, vv. 136-138. Sigieri di Brabante nasce nel 1240 circa e muore ad Orvieto nel 1282/3. Maestro a Parigi, fu considerato il più importante pensatore del pensiero averroistico del secolo XIII.   La prima condanna fu nel 1270, quando il Vescovo di Parigi condannò e vietò una serie di proposizioni filosofiche teologiche sostenute nei commenti e nelle lezioni dei maestri “averroisti”, che gli procurarono numerosi ed accaniti avversari. Quando la condanna fu rinnovata in modo più solenne e ampia nel 1277, Sigieri si recò a Roma per scolparsi, poi fu ad Orvieto, allora sede della curia papale, accettando la condanna e l’obbligo di restare internato presso la curia stessa, dove morene 1283 forse assassinato da un chierico, suo segretario. La presenza di Sigieri e l’elogio su di lui, che Dante mette in bocca a San Tommaso nel X canto del Paradiso, ha dato luogo a molte discussioni tra gli studiosi, infatti è noto che Tommaso avversò aspramente le dottrine averroistiche del Brabante (v. “De unitate intellectus”), il quale rispose alle critiche con il libro “De anima”, dove ribadiva la sua posizione razionalistica eterodossa e accettava solo in parte le accuse mossegli. E’ probabile che Dante lo abbia collocato tra gli spiriti sapienti per innalzare la memoria di un grande pensatore che l’invidia aveva cercato di sminuire. Cfr. N. Sapegno a cura di, La Divina Commedia, Paradiso, X, Bologna 1964, p. 136 in nota. I passi della terza Cantica riportati nel testo sono ripresi da questa edizione della Divina Commedia.

[9] Inf. IV, v. 96.

[10] Cfr. F. Gaeta-P. Villani, Corso di Storia, I, Milano 1979, pp. 234-235.

[11] Ibid.

[12] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante, in “I Grandi di Tutti i Tempi”, vol. 3°, Verona 1965, pp. 5-17.

[13] Cfr. Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17. 

[14] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17.

[15] Cfr. M. L. Rizzatti, Dante… cit., pp.5-17.  

[16] Forese appartiene al ramo più importante della famiglia dei Donati, fratello di Corso e Sinibaldo, bramosi di potere, cugino di Dante per parte della moglie, egli, a differenza dei fratelli, si tiene lontano dalla politica. Dante rinfaccia all’amico la trascuratezza verso la moglie Nella e le voci che circolano sulla sua origine; Forese risponde ricordando la brutta fama di suo padre Alighiero e la sua posizione economica, che se non fosse per i suoi fratellastri si troverebbe all’ospizio dei poveri. Cfr M. L. Rizzatti, Dante… cit., p. 21. 

[17] Cfr. Inf. XVIII, 28-33.

[18] “ Popule mee, quid feci tibi?”. Conosciamo il contenuto di questa lettera perduta grazie a Leonardo Bruni, da lui vista probabilmente nell’archivio della Cancelleria fiorentina, il quale può avere aggiunto qualcosa di suo, ma si tratta di una testimonianza diretta molto importante. Questa epistola è menzionata anche da Giovanni Villani nella sua “Cronica”.  La frase biblica latina (Mich. 6, 3), è l’incipit di questa epistola, che secondo il Bruni, sarebbe stata scritta da Dante da Verona nei suoi primi anni d’esilio e diretta non solo “a’ particolari cittadini del reggimento”, ma a tutto il popolo di Firenze. Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/popule -mee-quid-feci-tibi_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[19] Cfr. G. Petrocchi, Il Purgatorio di Dante, Milano 1978, pp. 9-19.

[20] Ovidio, Met., VII 456-516; VIII 1-263; G. Padoan, Minosse, in “Enciclopedia Dantesca” http://www.treccani.it/enciclopedia/minosse_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[21] Inf., V, vv. 4-12.

[22]G. Padoan, Minosse, in “Enciclopedia Dantesca” http://www.treccani.it/enciclopedia/minosse_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[23] M. L. Rizzatti, Dante… cit., p. 21. 

[24] Nella mitologia classica Dite era il nome di Plutone e del regno dei morti, Dante lo attribuisce sia a Lucifero sia alla città dei morti.

[25] Inf. VIII, vv. 82-85.

[26] Inf., VII, vv. 13-15; Cfr G. Padoan, Pluto G. Padoan, Pluto, in Enciclopedia Dantesca (1970) http;//www.treccani.it/enciclopedia/pluto_%28Enciclopedia-Dantesca%29/ Un’altra masnada di diavoli appare a Dante nella bolgia dei seduttori “Di qua, di là, su per lo sasso tetro / vidi demon cornuti con gran ferze, / che li battìen crudelmente di retro”. Inf., XVIII, vv. 34-36.

[27] Cfr. S. Urso, La Demonologia, Parte I) https://archaeus.it/la-demonologia-parte-prima-origine-e-storia/

[28] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[29] Par. XIX, vv. 46-47.

[30] Par. XXIX, vv. 55-57.

[31] Cfr. G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[32] Dante Alighieri, Convivio, XII, 8-9.

[33] Inf. III, vv. 37-42.

[34] Cfr. Inf. III, vv. 37-41, 59-60; G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[35]Inf. XXXIV, vv. 121-126. Lucifero cadde giù dal cielo da questa parte, e la terra, che prima della sua caduta emergeva in questo emisfero australe, per paura si riparò con le acque del mare come se fossero un velo e si spostò nel nostro emisfero e la terra che appare di qua, per non avere contatto con lui, dette origine alla cavità detta “natural burella” e si spinse in alto dando origine alla montagna del Purgatorio.

[36] Inf. XXVII, vv. 112-114. Dante si trova nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, dove sono condannati i consiglieri fraudolenti. L’anima con cui sta parlando è quella di Guido da Montefeltro, che gli racconta la propria vita di capo militare e poi di frate francescano, in vita ebbe fama di giovarsi più dell’astuzia che della forza. Alla sua morte l’anima fu contesa a San Francesco, che voleva portarlo in Paradiso e dal Diavolo che dimostrò trattarsi di un peccatore a causa del consiglio fraudolento che dette a Bonifacio VIII, in guerra con i Colonna, si rivolse al Montefeltro per conquistare Palestrina assediata e vincere la guerra, promettendogli l’assoluzione in anticipo. Il consiglio fu di promettere molto e mantenere poco.

[37] Purg., V, vv. 103-108.

[38] <<Oh!, diss’io a lui, “or se’ tu ancor morto?”. / Ed elli a me: “Come ‘l mio corpo stea / nel mondo su, nulla scienza porto. / Cotal vantaggio ha questa Tolomea, / che spesse volte l’anima ci cade / innanzi ch’Atropòs mossa le dea. / E perché tu più volentier mi rade / le ‘nvetriate lagrime dal volto, / sappie che, tosto che l’anima trade / come fec’io, il corpo suo l’è tolto / da un demonio, che poscia il governa / mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto. / Ella riuna in sì fatta cisterna; / e forse pare ancoro lo corpo suso / de l’ombra che di qua dietro mi verna. / Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso: / elli è ser Branca Doria, e son più anni / poscia passati ch’el fu sì racchiuso”. / “Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni; / ché Branca Doria non morì unquanche, / e mangia e bee e dorme e veste panni”. / “Nel fosso su”, diss’el, “de’ Malebranche, / la dove bolle la tenace pece, / non era ancor giunto Michele Zanche, / che questi lasciò il diavolo in sua vece / nel corpo suo, ed un suo prossimano / che ‘l tradimento insieme con lui fece. / Ma distendi oggimai in qua la mano; / aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi; / e cortesia fu lui esser villano.>> Inf. XXXIII, 124-157.

[39] Ioann. 13, 27, “Et post buccellam introiti in eum Satanas” (E allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Per cui Gesù gli disse: Quel che fai, fallo presto.)

[40] Inf. ,V., vv. 70-72.

[41] Inf., XX, vv. 25-30.

[42] Inf., IV, vv. 19-21.

[43] Cfr., A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Torino 1892, V. I,p. 260 e segg. La Chiesa non si pronunciò su tale dubbio, ma nel non pregare per i dannati era implicita la negazione della mitigazione delle pene.

[44] Inf., IV, vv. 31-33; 44-45.

[45] Inf., IV, vv. 93-96.

[46] Inf., VI, vv. 7-8.

[47] Inf., VI, v. 15.

[48] Inf., XXII, vv. 19-24.

[49] Inf. XXI, vv. 39-40.

[50] Inf., XXI, vv. 31-36. Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/

[51] Inf., XXI, vv.136-139. Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/

[52] Inf. XXXIV, v. 28

[53] Inf. IX, 44. Proserpina figlia di Giove e di Cerere, moglie di Plutone e regina dell’Inferno.

[54] Cfr. G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[55] Inf. III, vv. 65-69. “Questi sciaurati, che mai non fur vivi, / erano ignudi e stimolati molto / da mosconi e da vespe ch’eran ivi. / Elle rigavan lor di sangue il volto, / che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi / da fastidiosi vermi era ricolto.”; cagne bramose sbranano i dilapidatori, Inf. XIII, vv. 124-129; XXI, vv. 44-45 e 67-69.) le mani dei ladri sono legate con delle serpi, Inf. XXIV, vv. 94-105.

[56] Inf. I, vv. 109-111. La lupa, simbolo della cupidigia, potrà essere definitivamente debellata solo da un misterioso “veltro” o cane da caccia, che dopo averla cacciata da ogni città e averla ricollocata all’Inferno, la farà morire con dolore.

[57] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[58] Cfr. A. Graf, Demonologia di Dante, https://www.liberliber.it/online/autori-g/arturo-graf/demonologia-di-dante/ ; G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[59] G. Padoan, in “Enciclopedia Dantesca”, http://www.treccani.it/enciclopedia/demonologia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[60] Inf. IX, vv. 38-54. La figura di Proserpina compare tre volte nella Commedia, in quella citata nel testo, come regina dell’etterno pianto, nel cato X, v. 44 “la faccia della donna che qui regge”, identificandola con Ecate e la Luna, parole dette da Farinata degli Uberti; in Purg., XXVIII, vv. 49-51, in cui è paragonate a Matelda, la donna che accoglie Dante nel giardino dell’Eden. “Proserpina è dunque segnale del cammino progressivo dell’intellettuale dall’oscura selva del peccato alla luminosa selva del Paradiso terrestre, e della capacità di Dante di portare, insieme con Beatrice, a completa maturazione il processo di acquisizione di cultura e di fede iniziato con Virgilio…”R. Mercuri, Proserpina, http://www.treccani.it/enciclopedia/proserpina_(Enciclopedia-Dantesca)/

[61] Inf., XXV, vv. 25-33.

[62] Inf. XIII, vv. 10-15.

[63] Inf., XVII, vv. 10-27.

[64] Cfr. https.//www.treccani.it/enciclopedia/gerione-%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[65] Inf., XXXI, vv. 28-33.

[66] Genesi 10, 8; XI 1-9.

[67] Inf. XXXI, vv. 58-59.

[68] Ibid., v. 124.

[69] Mario Giunio Bruto, nonostante avesse ricevuto molti benefici da Cesare, fu dalla parte di Pompeo durante la guerra civile tra i due. Dopo la battaglia di Farsalo (48 a.C.) passò dalla parte di Cesare e l’anno successivo fu nominato Governatore della Gallia Cisalpina, nel 45, tornato a Roma fu il principale fautore, insieme a Cassio, della congiura in cui fu ucciso Cesare, successivamente fuggì in Oriente con Cassio, dove si scontrò con Ottaviano e Antonio a Filippi (42 a.C.), sconfitto si uccise. Anche Caio Cassio Longino seguì la stessa sorte, anche se, dopo la fuga, ottenne il comando delle province orientali, ma dopo il colpo di Stato di Ottaviano e Antonio fu ritenuto fuori legge e battuto a Filippi da Antonio si uccise.)

[70] G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palermo 1970, p. 106.

[71] Sulle origini di Lucifero Cfr, L. Fabbri, Il Diavolo e l’Acqua santa, in “Chi ha disprezzato il giorno delle piccole cose?, Aversa 2007, pp. 323-324.

[72] Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel mondo antico, Bergamo 1990, p. 143 e segg.

[73] Cfr. I Corinzi 15, 20-22 e 44-50; Galati 5, 4; Efesini 2, 3; II corinzi 11. 

[74] “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito […] Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. […]Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza  di uno solo tutti saranno costituiti giusti. La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore.>>  La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1974, pp. 2424-2426.

[75]Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel mondo antico, Bergamo 1990, p. 143-154.

[76] II Corinzi 11,14; Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo…, cit., pp.143-154

[77] Cfr, L. Fabbri, Il Diavolo e l’Acqua santa, in “Chi ha disprezzato il giorno delle piccole cose?, Aversa 2007, pp. 323-324.

[78] Ibid.

[79] “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora?Come mai sei stato steso a terra , signore dei popoli?” Isaia 14, 12.

[80] “Tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato, perché non si trovò in te la perversità. Per l’abbondanza del tuo commercio, tutto in te s’è riempito di violenza, e tu hai peccato; perciò io ti caccio come un profano dal monte di Dio, e ti farò sparire, o cherubino protettore, di mezzo alle pietre di fuoco. Il tuo cuore s’è fatto altero per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saviezza a motivo del tuo splendore…” Ezechiele, 28, 15-16.

[81] Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel Medioevo, Bari 1987, prefazione.

[82] Cfr. L. Fabbri, Il Diavolo… cit., p.

[83] Inf., I, vv. 100-102.

[84] Par. XVII, vv. 133-135.

RAFFAELLO: INTERPRETE DEL CONNUBIO TRA IL BELLO DI NATURA E IL BELLO ARTISTICO

di Loredana Fabbri

 “Il pittore ha l’obbligo di fare le cose non come le fa la natura, ma come ella le dovrebbe fare”

                                                                                                                              (Raffaello Sanzio)

 

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                                                                                                       “Raffaello è sempre riuscito a fare quello

                                                                                                              che gli altri vagheggiavano di fare”

                                                                                                                                 (W. Goethe)

Cosimo de’ Medici governa Firenze per trent’anni, fino alla sua morte avvenuta nel 1464. La forma di governo è la repubblica ed egli non assume titoli particolari, ostenta una vita da privato cittadino, ma si comporta chiaramente da “signore”, amministrando il potere coadiuvato da uomini a lui fedeli, trattando da pari a pari con principi italiani e stranieri, facendosi protettore delle lettere e delle arti e nel 1439 il suo prestigio è accresciuto da un eclatante successo diplomatico: lo spostamento da Ferrara a Firenze del Concilio che doveva sancire la riunificazione delle Chiese d’Occidente e d’Oriente. Cosimo è molto abile, sa agire con razionalità, saggezza e moderazione, ma il suo modo di vivere non è più quello di un mercante: riceve ed è ricevuto da principi e imperatori, organizza giochi e tornei in cui la nuova aristocrazia si mette in mostra, anche gli eventi familiari diventano occasione per fare sfoggio di grandi sfarzi.

Già nella prima metà del XV secolo, Firenze è una città ricca e politicamente potente ed è in questo clima che la cultura assume un importante ruolo politico e ideologico: Coluccio Salutati e Leonardo Bruni ricoprono per decenni la carica di cancellieri del Comune di Firenze e a loro è affidata la divulgazione del prestigio di questa città ad un pubblico colto, ma l’arte, come forma di comunicazione sociale, aveva la possibilità di raggiungere un pubblico più vasto, motivando la ripresa di investimenti pubblici nell’ambito artistico, che nella città medicea risultano moltiplicati già alla fine del Trecento, fornendo, in molti casi, l’opportunità per il manifestarsi di quella grande rivoluzione artistica che fu il Rinascimento.

Nei trattati sulla pittura, l’architettura e la scultura, Leon Battista Alberti sostiene che l’artista medievale era responsabile solo dell’esecuzione dell’opera, poiché i contenuti gli erano imposti; ora, invece, deve trovarli e definirli, in quanto è proprio l’artista che determina autonomamente l’orientamento ideologico e culturale del proprio lavoro: l’arte non è più un’attività manuale (mechanica), ma intellettuale (liberalis); la forma non è più semplicemente un’esposizione o trasposizione in figura, ma possiede un suo intrinseco contenuto e questo contenuto che si manifesta e si realizza nella forma che cosa è se non la realtà? L’arte, quindi, diventa un processo di conoscenza finalizzato non tanto alla conoscenza della cosa quanto alla conoscenza dell’intelletto umano, alla facoltà di conoscere.[1]

Complessivamente il Quattrocento è, per l’Italia, un periodo di pace: non si verificano invadenze straniere, ingerenze politiche di potenze europee, ma alla fine di questo secolo, nel 1494, dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, il re di Francia Carlo VIII scende in Italia con il suo esercito per conquistare il Regno di Napoli. Piero de’ Medici, figlio e successore di Lorenzo, si sottomette al re francese e gli cede Pisa, ma la reazione popolare determina la fine del regime mediceo: Piero viene cacciato da Firenze, dove si instaura un nuovo governo, rappresentativo di tutti i ceti sociali, di cui il massimo organo legislativo è il Gran Consiglio, che si riunisce in una sala del Palazzo della Signoria e comprende tremila membri, ossia un quinto della popolazione maschile adulta della città. A dominare i primi anni della nuova Repubblica fiorentina è un frate, priore del convento di San Marco: Girolamo Savonarola, il quale sa suscitare grandi entusiasmi, ma anche incertezze e crisi nelle folle. Il suo progetto è quello di fare di Firenze la nuova Gerusalemme, in contrapposizione alla ricca e corrotta Roma dei papi, egli condanna il lusso, il decadimento dei costumi, la corruzione nella cultura e nell’arte, che hanno traviato gli uomini dall’autentico Cristianesimo. Savonarola finisce sul rogo nel 1498 e con lui si chiude la stagione culturale ed artistica dell’Umanesimo, spalancando la porta alla nuova cultura del tormentato Rinascimento cinquecentesco.

I primi decenni del Cinquecento vedono un’Italia che è ancora uno dei paesi più fiorenti e ricchi d’Europa, con città e corti che sono centri di cultura, dove la vita artistica e il sapere sono all’avanguardia, ma l’effettiva debolezza politica e militare degli stati regionali la rendono facile ed ambita preda delle nuove potenze nazionali e di quella imperiale, la penisola resterà sostanzialmente esclusa dalle grandi novità del secolo: la Riforma protestante, l’espansione dei commerci atlantici, le conquiste extracontinentali, tutto ciò determinerà una marginalità sia rispetto ai centri politici decisionali sia ai mutamenti sociali e culturali europei.

Il Cinquecento è un secolo drammatico e pieno di contrasti, in cui si assiste alla mutazione dei valori religiosi, politici, filosofici, scientifici e artistici, dai quali scaturiranno le idee su cui si fonderà la struttura culturale dell’Europa moderna. L’arte non è più osservazione e riproduzione dell’ordine del creato, ma ansiosa ricerca della propria natura, della ragion d’essere e dei propri fini: non ha più senso rappresentare nell’arte la forma dell’universo se questa è sconosciuta ed oggetto d’indagine, come non ha senso contemplare l’armonia del creato se Dio non si trova là, ma nell’interiorità dell’anima che combatte per la propria salvezza.[2]

Nell’arte, durante il XVI secolo, assistiamo da un lato all’esaltazione della grandezza e della dignità umana, ma in senso aristocratico, dall’altro al superamento delle rigide regole dell’arte quattrocentesca, attraverso nuovi ideali di nobiltà e di grazia, dando vita all’ultima fase di un percorso di ripensamento iniziato nel secolo precedente, consistente nel superamento della prospettiva prettamente geometrico-matematica, nella conquista di esatte conoscenze anatomiche, in una resa più naturalistica ed espressiva delle figure e in un rapporto più intimo e profondo con la cultura classica: l’Umanesimo comprende, dunque, il Rinascimento. Durante il Cinquecento non viene recuperata la mentalità greca, ma viene riscoperta, dando una rinnovata energia alla speculazione umana, iniziata grazie anche allo sviluppo dei mercati, all’invenzione della stampa, che agevola gli studi: l’uomo vuole conoscere sempre di più. Rinascimento, dunque, non è la rinascita contro l’inciviltà, non è la cultura contro le barbarie, il sapere contro l’ignoranza, ma nascita di un’altra civiltà, di un’altra cultura, di un altro sapere. [3]

Anche in campo artistico il legame con l’antichità fu basilare: attraverso il linguaggio dell’arte antica, gli artisti prendevano polemicamente le distanze dal mondo medievale e riproponevano la dignità dell’uomo e la sua centralità nel creato e nella storia, coniugando, come sosteneva Machiavelli, “una continua lezione delle cose antique” con “una lunga esperienza delle moderne”. Si cominciava, comunque, ad avere un nuovo rapporto con la natura, un modo nuovo di guardare, rappresentare e interpretare la realtà: gli artisti del Rinascimento furono grandi cultori dell’antichità, ma furono anche acuti indagatori della natura, scienziati, matematici e tecnici. Questo rinnovamento esistenziale viene individuato nel “ritorno al principio”, concetto prettamente religioso: il principio è Dio e il ritorno a Dio è il compimento del destino umano, che consiste nel ripercorrere inversamente il processo emanativo, per il quale gli uomini si sono allontanati da Dio e nel ritornare a Lui, ma nel Rinascimento il ritorno al principio assume un significato storico e umano, secondo il quale il principio cui si deve ritornare consiste in una specifica situazione del passato della civiltà e la grandiosa arte di questo periodo, ha come emblema questo ritorno alla natura, che intende rappresentare ed esprimere nella sua forma più autentica, al di là delle immagini astratte e convenzionali dell’arte medievale, quindi il riconoscimento di Dio non esclude tuttavia lo spirito prevalentemente antropocentrico, che si differenzia da quello sostanzialmente teocentrico del Medioevo.[4]

In campo artistico il Rinascimento è legato soprattutto alle maestose figure di Bramante, Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Donato Bramante fu più fedele all’esperienza reale della visione e meno persuaso della necessità di un modo matematico di concepire la prospettiva. Leonardo, allievo del Verrocchio, sviluppò un concetto dell’arte come forma di conoscenza fondata su basi scientifiche, sostituendo l’idea filosofica che l’artista dovesse imitare la natura con quella dell’indagine scientifica delle leggi di natura, indispensabili per comprenderla e ricrearla nell’opera d’arte; entrambi dettero vita ad un’arte di impronta classica che influenzò a fondo il contesto artistico lombardo, ancora molto legato alla tradizione gotica. Michelangelo Buonarroti ebbe il merito di superare l’orientamento tradizionale nei confronti dell’arte antica, cercando di riflettere consapevolmente sui modelli classici deducendo dal loro studio la premessa necessaria a quella rinascita degli ideali del mondo antico che l’Umanesimo si proponeva. Il quarto grande protagonista del Rinascimento fu Raffaello Sanzio, il quale, molto giovane, si trasferì a Firenze per studiare l’arte toscana, prima di andare a Roma; fu molto influenzato da Leonardo e da Michelangelo, specialmente nella composizione piramidale dei dipinti leonardeschi e nell’arte del ritratto, in cui Raffaello primeggiò, avvolgendo il soggetto nel paesaggio circostante.

La vita dell’Urbinate è molto conosciuta, ma alcuni fatti, anche se noti, vale la pena ricordali: come morì Raffaello? Cosa sappiamo di vero sulla sua sepoltura nel Pantheon?

Secondo le innumerevoli biografie egli si era ammalato circa quindici giorni prima della morte, con febbri molto alte, quindi gli vennero praticati dei salassi, come era usanza dei tempi per ogni tipo di patologia, queste febbri, secondo alcuni, erano causate da esagerati sforzi amorosi, forse un modo di dire diplomatico per menzionare una malattia venerea, vista la sua nomea di libertino; altri invece sostenevano che fosse affetto dalla malaria, o da un colpo di freddo, o ancora dal troppo lavoro, fu ipotizzato anche l’avvelenamento, la peste  e l’utilizzo di pigmenti tossici. Fu anche detto che il medico di Leone X andò dal malato solo in punto di morte, cosa poco probabile vista l’amicizia, almeno apparente, che c’era tra l’artista e il Papa, il quale sembra che sia stato a trovarlo circa sei volte durante i quindici giorni di malattia. Ma la vera causa della morte di Raffaello rimane sconosciuta e sembra incredibile che un uomo così amato e stimato da tutti non sia stato sottoposto ad accurate visite mediche e siano stati sottovalutati i sintomi che manifestava, anche se non è conosciuto il suo stato di salute prima della morte.

Una cosa molto strana, per il suo tempo, fu che non gli venne fatta nessuna maschera funeraria e ancora più strano il fatto che non esista nessun oggetto personale, nemmeno la sua corrispondenza, ad eccezione di qualche dubbia lettera, come vedremo più avanti. Sembra che un certo notaio Apocelli, forse Johannes Jacobus Apocellus, operante a Roma dal 1518, abbia raccolto le sue volontà, che videro quasi unico erede Giulio Romano, suo migliore allievo, ad eccezione di alcuni lasciti ad altre persone e, del suo patrimonio, ammontante a sedicimila ducati, destinò mille scudi per la manutenzione del Pantheon, dove desiderava essere sepolto, così sostiene il Vasari, ma di questo testamento non si conserva traccia.[5]

Raffaello muore a Roma il Venerdì Santo 6 aprile 1520, a soli trentasette anni, era nato ad Urbino il 6 aprile del 1483, giorno del Venerdì Santo, alle tre di notte iniziava la sua breve vicenda terrena, così intensa e eccezionale da essere considerata leggenda, coincidenze che troviamo negli scritti del Vasari, il quale farà coincidere perfino l’ora dei due avvenimenti, le tre di notte; da queste date discordano la maggior parte degli studiosi. Il Sanzio  viene sepolto nel Pantheon, dove troviamo l’epitaffio scritto da Pietro Bembo: “Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori” (Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’esser vinta, ora che egli è morto, teme di morire), secondo alcuni studiosi, in quel periodo il Bembo non si trovava a Roma, quindi è poco probabile che lo abbia composto questo scrittore. L’epitaffio originale fu tolto nel 1820 e distrutto due anni dopo per ordine del Papa: Perché? Anche su questa iscrizione spira aria di mistero?

Nel 1833, il Professor Giuseppe Del Chiappa[6] scrive una lunga lettera a Defendente Sacchi[7]  “Sullo scoprimento delle ceneri di Raffaello Sanzio”, il quale si trovava a Roma proprio in quei giorni, infatti egli racconta che dopo poco il suo arrivo nella Città eterna, si sparse la voce che fossero stati ritrovati i resti del grande artista e lui poté assistere a questo avvenimento e descriverlo nei suoi particolari.

I motivi che indussero a cercare le spoglie di Raffaello furono sostanzialmente di natura economica: sia da parte del Vaticano sia da parte dei collezionisti che volevano potenziare il valore e commercializzare le opere dell’artista.

Il 9 settembre la Congregazione <<detta de’ virtuosi del Panteon sotto l’invocazione di San Giuseppe di Terra santa, la quale è composta di soli artisti, inviata dal suo degno reggente il cav. Fabris in cospirazione del capitolo de’ canonici dello stesso, cioè di S. M. della Rotonda, e coll’assenzo del Governo>>[8] iniziava le indagini per il ritrovamento dei resti di Raffaello per collocarli in luogo degno dell’artista. Dai documenti, continua la relazione, era noto che il corpo era stato tumulato sotto l’altare della Madonna del Sasso nel Panteon (chiesa di Santa Maria della Rotonda), per suo volere come da testamento. Appena iniziati gli scavi furono trovate delle ossa non appartenenti a Raffaello, ma a vari santi e martiri, quindi lo scavo continuò <<…e dentro un arco chiuso a sassi legati a cala, e posto in fondo all’altare istesso e immediatamente sotto il ceppo della statua della Madonna, ne si parve finalmente il deposito dell’Urbinate. E questo memorabile scoprimento avvenne il dì 14 del corrente al mezzodì in punto, e due ore dipoi ne apparve lo scheletro col suo teschio…>>. Smentendo in tal modo la credenza, durata moltissimi anni, che il teschio conservato all’Accademia di San Luca fosse quello di Raffaello. Del Chiappa continua dicendo che tale equivoco nacque perché il noto pittore Carlo Maratta, 153 anni dopo la morte dell’urbinate, gli eresse un busto e, cominciò a circolare la voce che egli avesse anche dissotterrata la testa, che fu tenuta come una preziosa reliquia, <<Né importa che io qui ti discorra del lucro che se ne ritrasse, mentre tutti volevano di quel teschio un gesso, e ne andarono infiniti per l’Europa […] E i giovani artisti ponevano le matite e i pennellini su quel teschio ond’ispirarsi, e levarsi al bello ideale, al bello pittorico raffaellesco>>.[9] In realtà la testa apparteneva, come sostiene Del Chiappa, a un uomo degnissimo, ma era ben altro che il grande artista. I resti di Raffaello, ridotti a mero scheletro, erano chiusi in un una cassa di abete, che sia per l’umidità sia per 313 anni che si trovava in quel luogo, era quasi del tutto distrutta. Lo scheletro giaceva con le mani giunte ed incrociate sul petto, la testa era un poco rialzata, le mascelle avevano ancora con tutti i denti. I resti vennero puliti dalla patina che li ricopriva e dall’argilla depositata dalle inondazioni del Tevere, penetrate dentro alla tomba. <<Né qui mi piace di lamentare e quasi riprendere la trascuranza o poca sollecitudine o provvidenza di quei che ne tumularono le ossa, vale a dire del non aver collocato il suo corpo in un’urna marmorea onde fosse al coperto dalle ingiurie del luogo e degli anni>>,[10] il narratore esprime con queste ed altre parole lo sdegno per una sepoltura non degna del personaggio: dentro la cassa non fu messo nessun indizio (pergamena, medaglia etc.) che indicasse l’identità del defunto, la quale, dopo accurati esami, non fu messa in dubbio: <<Egli è di certezza morale che sia desso, perocché tutte cospirano le circostanze del luogo e della figura dello scheletro e dell’età di esso, e le iscrizioni che sono fuori, e quella di Maria Bibbiena già stata sposa a Raffaello; colla quale però egli non giacque pur mai mentre visse, e che essa pur volle essere posta appresso lui morta, dappoiché non le fu dato di starvi viva…>>.[11] Maria Antonietta Bibbiena, nipote del Cardinale di Bibbiena, Camerlengo di Leone X dei Medici, promessa sposa di Raffaello, non fu mai sua sposa e il suo desiderio di essere sepolta accanto a lui appare piuttosto strano, perché la donna morì vari anni prima dell’urbinate

Intorno allo scheletro furono trovati dei tubetti di ottone cilindrici, che furono individuati come rinforzi per stringhe che servivano per allacciare gli abiti, sotto ai resti fu trovata una “stelletta” d’acciaio, che, da alcuni, fu creduta un oggetto facente parte del distintivo dei cubiculari, camerieri segreti del Papa e Raffaello fu cubiculare di Leone X; altri invece lo definirono un pezzo del fermaglio con cui il pittore teneva la tunica che indossava.[12] Tutto questo avvenne con la massima cautela: tutte le porte chiuse ad eccezione di quella laterale e segreta del tempio, vigilata giorno e notte dalle guardie svizzere, i rogiti fatti da pubblico notaio, le varie tappe del ritrovamento immortalate dai disegni di Vincenzo  Camuccini.[13]

Del Chiappa continua dicendo che il luogo verrà inizialmente protetto con una sbarra per tenere a distanza la folla che vorrà visitare e rendere omaggio a una simile personalità, in seguito, le ossa verranno poste in un’urna di marmo e lasciate nello stesso luogo, che era quello desiderato dallo stesso Raffaello.

Questa non fu l’unica relazione, ma molte altre cronache attestarono l’esumazione del 1833, ognuna con particolari discordanti dalle altre, che dettero e danno tutt’oggi adito a molti misteri sia sulla morte sia sui resti di Raffaello.

Molto interessante per conoscere alcuni aspetti della già celeberrima vita dell’Urbinate sono le famose sette lettere e i sei sonetti che restano degli scritti attribuiti a Raffaello, anche se alcuni di questi testi sono considerati estranei alla sua produzione letteraria, mentre altri contengono solamente i concetti, in quanto la forma è stata attribuita a scrittori come il Castiglione o il Bembo, suoi amici nel periodo che l’artista visse a Roma, il paragone con quelle scritte dal Sanzio non lascia dubbi, anche se si può notare un continuo miglioramento culturale rispetto ai suoi primo scritti. Nonostante privi d’interesse letterario, questi scritti hanno un notevole valore documentario, specialmente la lettera a Leone X, nella quale troviamo << talune idee che dovettero esser correnti in un periodo densissimo di fatti capitali per l’arte>>, gli altri riportano notizie sulle opere compiute o in programma dello stesso Raffaello, su avvenimenti o persone, che li rendono interessanti e preziose non solo per le notizie, ma soprattutto per la personalità dell’autore.[14]

Le composizioni poetiche non meritano certamente gli elogi della sua arte pittorica, ma valgono la pena di essere maggiormente conosciute.

Nella prima lettera, un promemoria per “Meneco”, ossia Domenico Alfani, pittore e amico di Raffaello, si può notare, nonostante le varie correzioni, specialmente le erronee unioni di più parole, la modesta preparazione letteraria del giovane artista.[15]

Importante per le notizie circa la vita e l’attività dell’artista è la prima lettera allo zio “Simone de Batista di Ciarla da Urbino, “Carissimo quanto patre”, fratello di Magia, madre dell’artista, scritta da Firenze il 21 aprile 1508, anche questa lettera dimostra la mediocre preparazione letteraria del Sanzio, ma è importante per le varie notizie intorno alla vita e all’attività dell’artista: <<Averia caro se fosse possibile d’avere una letera di recomandazione al gonfalonero di Fiorenza dal signor prefetto […] me faria grande utilo per l’interesse de una certa stanza da lavorare, la quale toca a Sua Signoria de alocare…>>.[16] Si tratta del Confaloniere Pier Soderini, al quale Raffaello era già stato raccomandato nel 1504 al suo arrivo a Firenze, il lavoro da assegnare era forse la Sala del Consiglio in Palazzo Vecchio, di cui una parte doveva essere affrescata da Leonardo, che però vi aveva rinunciato e lasciato la città; la data della lettera dimostra che il 21 aprile 1508 Raffaello si trovava ancora a Firenze. Mentre nella lettera successiva, indirizzata al “Francia”, Francesco Raibolini, pittore bolognese e datata 5 settembre dello stesso anno, l’artista si trovava a Roma. L’autenticità della missiva è sempre stata messa in dubbio: sembra poco probabile che a distanza di poco più di quattro mesi, che la separano dalla precedente, l’artista fosse sovraccarico di lavori in Roma da dover ricorrere ai collaboratori per eseguire il ritratto commissionato dal destinatario, il quale aveva mandato a Raffaello un suo autoritratto come modello, di cui si parla nella lettera: << …pregovi a compatirmi, e perdonarmi la dilazione e longhezza del mio che, per le gravi e incessanti occupazioni, non ho potuto sin ora fare di mia mano, ché ve l’avrei mandato fatto da qualche mio giovine, e da me ritocco, che non si conviene…>>.[17]

La lettera a Baldassarre Castiglione, senza firma e senza data, è probabilmente una copia, l’originale andò perduto, riferibile al 1514 circa, lo stile, molto più elevato delle altre, ha fatto supporre agli studiosi che Raffaello l’abbia dettata a Pietro Aretino, che però è incerta la sua presenza in quel periodo a Roma, o a Pietro Bembo, molto amico dell’artista. Nella lettera troviamo una possibile allusione alla Stanza Vaticana dell’”Incendio del Borgo”, affrescata dal 1514 al 1517 e alla nomina di Architetto di San Pietro del 1° aprile 1514: <<Nostro Signore con l’onorarmi m’ha messo un gran peso sopra le spalle. Questo è la cura della fabrica di San Pietro. Spero bene di non cadervici sotto…>>.[18]

Molte le notizie che possiamo trovare nella seconda lettera allo zio, “carissimo in locho de patre”, scritta il 1° di luglio 1514, in cui lo informa sui nuovi e redditizi incarichi affidatigli da Leone X: <<…ché fin in questo dì mi trovo avere roba in Roma per tre mila ducati d’oro, e d’entrata cinquanta scudi d’oro, perché la Santità di nostro signore mi ha dato perché io attenda alla fabbrica di San Petro trecento scudi d’oro di provisione, li quali non mi sono mai per mancare sinché vivo, e son certo averne degl’altri, e poi sono pagato di quello [che] io lavoro quanto mi pare a me, e ho un’altra stanza per Sua Santità a dipingere, che montarà mille duecento ducati d’oro…>>.[19] La Stanza che il Papa gli ha dato l’incarico di affrescare è sicuramente identificabile con quella dell’”Incendio del Borgo”, perché la precedente, quella di Eliodoro era già ultimata, anche se da poco tempo e il 1° agosto 1514 l’artista riceveva il saldo dei pagamenti. Raffaello comunica allo zio, tra le altre cose, che Bernardo Dovizi Bibbiena, Cardinale di Santa Maria in Portico gli aveva offerto in sposa la propria nipote Maria Bibbiena, la quale sarebbe morta prima dell’Urbinate: <<Sono uscito da proposito della moglie; ma, per ritornare, vi rispondo che voi sapete che Santa Maria in Portico me vòl dare una sua parente, e con licenza del zio prete e vostra li promesi di fare quanto Sua reverendissima Signoria voleva; non posso mancar di fede: simo più che mai alle strette, e presto vi avviserò del tutto; abiate pazienza che questa cosa si risolva così bona, e poi farò – non si facendo questa – quello [che]voi vorite; e sapia che se Francesco Buffa ha delli partiti, che ancor io ne ho, ch’io trovo una mamola bella, secondo [che] ho inteso, di bonissima fama lei e li loro, che mi vòl dare tre mila scudi d’oro in docta, e sono in casa in Roma, che vale più cento ducati qui, che duecento là: siatene certo>>.[20] E’ da notare lo spirito pratico di Raffaello, completamente privo di ogni forma di romanticismo sia per quanto riguarda il matrimonio con Maria Bibbiena sia per quello proposto dallo zio, ed è probabilmente questo senso pratico che gli permette di gestire proficuamente le sue botteghe e un gran numero di allievi, di cui parleremo più avanti.[21] Secondo Vasari l’artista avrebbe indugiato ad accettare un matrimonio così prestigioso perché Leone X gli avrebbe prospettato la possibilità di una nomina cardinalizia.[22] La lettera continua dicendo che egli deve stare a Roma per attendere alla Fabbrica di San Pietro <<…ché sono in loco di Bramante, ma qual loco è più degno al mondo di Roma? Qual impresa è più degna di San Petro, ch’è il primo tempio del mondo? E che questa è la più gran fabrica che si sia mai vista, che monterà più d’un milione d’oro; e sappiate che ‘l papa ha deputato di spendere sessantamila ducati l’anno per questa fabrica, e non pensa mai altro>>.[23] Giulio II affianca Raffaello, per questo lavoro, ad un personaggio notissimo, ma molto anziano: Giovanni Giocondo da Verona, il quale possedeva una cultura enciclopedica: latinista, grecista, botanico, architetto, epigrafista,  il 1° novembre 1513 fu nominato architetto di San Pietro e nel giugno dell’anno successivo, quando arrivò a Roma, Leone X gli assegnò la posizione principale nella Fabbrica di San Pietro, come successore del defunto Bramante, probabilmente per la sua notorietà come grande ingegnere, infatti ogni giorno il Papa si riuniva con entrambi gli artisti per discutere sulla nuova costruzione e sempre prevalsero le scelte di fra Giocondo. Durante l’anno passato insieme, Raffaello cercò di apprendere i segreti dell’architettura dell’anziano frate e di fare tesoro delle sue esperienze; fra Giocondo morì il 1° luglio 1515.[24] Questa lettera testimonia, oltre a notizie importanti anche alcuni progressi nella scrittura compiuti dall’artista durante il suo soggiorno a Roma, nonostante il persistere di forme dialettali, errori grammaticali e di sintassi.

La sesta lettera è indirizzata a Fabio Calvo,[25] umanista e amico di Raffaello, in cui l’artista lo ringrazia per avergli inviato la traduzione in italiano del “De Architectura” di Vitruvio e promette di preparare le illustrazioni, ciò significa che da agosto 1514 egli è interessato al trattato di Vitruvio e non conoscendo il latino si avvale di questa versione. Migliorata la grammatica e la sintassi, ma non da tutti gli studiosi questa lettera fu ritenuta autentica.

Il 1° agosto 1514 venne ufficializzata la nomina fatta da Leone X a Raffaello come architetto della Fabbrica di S. Pietro, carica già ottenuta “de facto” a partire dal 1° aprile a seguito della presentazione di un proprio modello per la nuova basilica. Pochi giorni dopo, il 27 agosto, il Pontefice nominò Raffaello, tramite un breve redatto da Pietro Bembo, “Praefectus marmorum et lapidum omnium”, non solo di tutti i marmi e le lapidi scavati a Roma, ma anche entro un raggio di dodici miglia dalla città, per rifornire di materiali la Fabbrica di S. Pietro, richiedendo che ogni antica iscrizione venisse sottoposta all’Urbinate prima dell’eventuale riutilizzo, con lo scopo di rivalutarne l’importanza per lo studio della letteratura e della lingua latina.

Nell’autunno del 1519, l’Urbinate inviò la famosissima lettera a Leone X, aiutato nella stesura da Baldassarre Castiglione: incaricato dal destinatario di studiare il territorio di Roma in relazione alle sue rovine per eseguire la pianta dell’antica Roma imperiale, la missiva è un allegato alla raccolta di disegni, in cui l’artista, anche se nella retorica intonazione del dettato, deplora le preoccupanti condizioni delle strutture esposte a secoli di incuria e alla razzia dei materiali, di cui si era fatto riuso durante il Medioevo. Raffaello espone, non senza sfoggio di erudizione,[26]il metodo adottato per distinguere le strutture del periodo imperiale da quelle posteriori e i principi e le idee che hanno portato a tale opera; descrive poi le modalità tecniche usate in questo importante lavoro di ricognizione.

Dal punto di vista del contenuto si possono distinguere tre parti: la prima, introduttiva, è inerente alle “reliquie” di Roma e all’opportunità di salvaguardarle, quindi viene enunciato lo scopo culturale del lavoro; la seconda parte costituisce un’ecfrasi storico-architettonica, dall’epoca romana ai tempi in cui vive l’artista: molto importante è il passo dove viene spiegata la scomparsa dell’arte classica, non solo causata dai fatti storici, come le invasioni barbariche, ma soprattutto dall’incuria e dall’ottusità degli uomini ed anche dai precedenti pontefici, che hanno utilizzato i monumenti antichi come giacimenti di materiale e le statue di marmo come calcina.[27]

Quando nel 1515 Raffaello viene nominato Prefetto alle antichità di Roma, da papa Leone X, non esisteva il concetto di conservazione e tutela dei monumenti antichi, ma con il suddetto incarico, l’Urbinate si trova nella necessità di codificare un enorme patrimonio disperso per vari motivi, come possiamo capire da quello che scrive, e non certamente classificato, quindi egli gode anche fama di grande studioso di architettura e di conservatore dei beni architettonici del suo tempo.

Tra la perfezione dell’epoca classica e quella dei “barbari”, l’età moderna, legata allo studio e all’imitazione di quel mondo perduto, si poteva considerare in una posizione intermedia, mostrando come Raffaello aveva chiaro il concetto di “Rinascita”, basata sull’assimilazione dell’arte antica come archetipo prezioso.

La terza parte della lettera si riferisce ai lavori pratici di rilievo grafico-strutturale degli edifici antichi, quindi ha un tenore prevalentemente tecnico. Il disegno di tutti gli edifici, diviso in tre parti: la pianta, l’esterno, l’interno con le loro decorazioni, deve seguire regole ben precise, fino a parlare di teoria di architettura generale.

L’importanza della lettera è sottolineata anche da Baldassarre Castiglione nell’epigramma composto in occasione della morte del Divino pittore: <<Mentre tu con mirabile ingegno ricomponevi Roma tutta dilaniata e restituivi a vita e all’antico decoro il cadavere dell’Urbe lacero per ferro, per fuoco e per il tempo, destasti l’invidia degli Dei; e la morte si sdegnò che tu sapessi rendere l’anima agli estinti, e che tu rinnovassi, spezzando le leggi del destino, quando era stato a poco a poco distrutto>>. Essa è importante anche perché rappresenta una delle ultime testimonianze dell’artista, che, purtroppo, morì dopo pochi mesi, anche se la possibilità che Raffaello fosse l’ispiratore di questa lettera fu messa molte volte in dubbio dagli studiosi, comunque sia, riflette la mentalità della società romana al tempo di Leone X e vi si può cogliere sia l’accenno a quella che sarà poi la politica della tutela e l’affermazione che l’arte antica deve essere uno stimolo per i moderni per “uguagliarla et superarla”.

Raffaello, come già detto, si dilettò anche nella poesia, se pure le composizioni poetiche non occuparono certamente un posto centrale nella sua carriera artistica, ma ci mostrano come lo zoppicante illetterato del 1508, a distanza di poco tempo, abbia fatto dei passi da gigante anche nella fluttuante lingua rinascimentale ed esprimono la mentalità eclettica dell’artista.

Dei sei sonetti conosciuti (il sesto è notoriamente apocrifo), i primi cinque sono annotazioni a margine dei disegni preparatori della “Disputa del Sacramento”, affresco eseguito nel 1509 e quindi ritenuti autentici.

Il loro tema è l’amore, la passione che arde e tormenta: nel primo Raffaello si rivolge ad Amore, che lo ha “invischiato” attraverso gli occhi, il volto e la bella voce di una donna; afferma di ardere d’amore al punto che <<…né mar né fiumi spegnar potrian quel foco…>>,[28] ma ciò non gli spiace, perché ardendo si consumerà e non si sentirà più avvampare dalle fiamme; rivolgendosi poi alla donna, le ricorda quanto sia doloroso staccarsi dalle braccia candide allacciate al suo collo, quindi non aggiunge altro temendo che sul suo amore cali la morte. Nel secondo, dopo aver appurato l’incapacità di esprimere i propri sentimenti, paragonandosi a San Paolo, il quale dopo essere sceso dal cielo ed avere avuto esperienza dei misteri divini, non disse a nessuno ciò che aveva visto, si rivolge alla donna di cui è innamorato invocando il suo aiuto: << Ma pensa ch’el mio spirto a poco a poco/ el corpo lasarà, se tua mercede / socorso non li dia a tempo e loco>>.[29] Nel terzo sonetto l’artista si lamenta del distacco nell’”ora sesta”, ossia all’alba, dalla sua amata, ricordando dolcemente l’ “asalto” amoroso avvenuto tra i due amanti poco prima e il pensiero di lasciare la sua donna lo fa sentire come coloro che hanno perso la propria stella nel mare. Nel quarto l’Urbinate dichiara la sua intenzione di tenere segreto il suo amore e di non far trapelare con nessuno il suo sentimento e nel quinto, probabilmente la passione amorosa si era affievolita, perché dichiara di volersi dedicare completamente alla sua arte. Ma se leggiamo i sonetti nella seguente sequenza, possiamo seguire la nascita e la fine di un grande amore, un amore non solo “cortese”, ma anche molto carnale: il sonetto “un pensier dolce”(sonetto III) fu forse scritto dopo il primo convegno; Raffaello rievoca l’”asalto”e la separazione, il “patir”. Dice di essere stato sciocco e: <<mai mi ero ingannato a tal punto; eppure, le son grato d’avermi resistito. Era notte: tutto potevo osare, ma ansia e trepidazione mi tolsero ogni ardire>>. Il monologo prosegue in “S’a te servir”(sonetto IV): <<Se ti è parso, o dio dell’Amore, che io sdegnassi di servirti, per il modo da me tenuto in quell’occasione, tu ben ne conosci la causa pur senza che la scriva. Ero sopraffatto da te, e contro di te non esiste valido riparo>>.

La situazione appare cambiata in “Amor, tu m’envesscasti” (sonetto I). L’innamorato è ora sicuro di sé e disposto conoscere tutti i pregi della propria donna: gli occhi luminosi, il roseo volto, il “bel parlar” e il tratto delicatamente femminile. A poco a poco s’infiamma, arde, è felice, vorrebbe avvampare di nuovo: troppo soffrì a sciogliersi dalle braccia di lei e altro che tace.

Pare che la dama tema per il proprio buon nome esaudendo troppo di frequente alle richieste dell’amante e questi in “Como non podde”(sonetto II), le giura silenzio sul loro segreto. Non riferirà ciò che vide né ciò che fece, mai verrà meno al dovere della riservatezza. Certamente ella si denigra amandolo; ma egli morirà se non riceve aiuto da lei, sia pure con prudenza.

La relazione amorosa sembra non avere avuto vita lunga, un altro amore legava l’artista: quello dell’arte, alla quale egli si propone, nel V sonetto, di dedicarsi completamente, sciogliendosi dal legame che gli carpisce gli anni migliori.

Raffaello elogia l’esempio dei grandi che si affaticano a raggiungere la gloria e supplica da esso lo stimolo per risvegliare il proprio pensiero ozioso (che viene meno ai propri doveri, mancando a impegni presi) e conquistare una fama maggiore.[30]

Ma chi fu l’ispiratrice dei sonetti, ammesso che ne esistesse una? Da quasi tutti gli studiosi fu proposta la Fornarina, dopo infinite divergenze sull’identità di questa donna, la cui immagine compare nella celeberrima opera della Galleria Borghese e nella “Velata” della Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, oltre che in alcune composizioni sacre. Sembra però strano che la senese Margherita di Francesco Luti, fornaio nella contrada romana di Santa Dorotea, alias Fornarina, che nel 1517 acconsentì a posare seminuda nel ritratto e che veniva richiesta come modella anche da altri pittori, verso il 1509 pretendesse tanta riservatezza; inoltre è poco verosimile che una medesima donna mantenesse impegnato a lungo Raffaello, dal Vasari e dai contemporanei  presentato come protagonista di molteplici imprese amorose, che davano luogo a numerosi pettegolezzi, si può ipotizzare che la donna dei sonetti sia stata qualche dama appartenente ad una famiglia importante, della quale si ignora il nome; la stessa, forse, alla quale si riferisce il Vasari, ricordando come, nei primi tempi del soggiorno romano, il pittore <<…in luogo importante andava di nascosto ai suoi amori>>;[31] certamente si può escludere che la donna misteriosa sia stata Maria Bibbiena, sua promessa sposa, verso la quale l’artista forse non ebbe, come abbiamo potuto anche evincere dalla seconda lettera allo zio, pensieri così ardenti e appassionati.

Nessuno ha la certezza che Raffaello si sia rivolto ad una donna o i sonetti non siano altro che un esercizio per misurarsi con la letteratura e stare con la “moda” del tempo di scrivere componimenti di imitazione petrarchesca e infarciti con le teorie neoplatoniche di Marsilio Ficino, il quale, oltre ad avere frequenti contatti con la corte di Urbino, era il fulcro della corte Medicea. Attraverso i sonetti, l’Urbinate racconta una storia d’amore, che raggiunge il grado superiore dell’estasi passando anche dall’esperienza carnale, egli aspirava al terzo stadio dell’amore platonico, dove avviene la fusione degli spiriti, i quali hanno l’opportunità di innalzarsi fino al mondo delle idee, in tal modo la ricerca dell’amore tendeva a uno stato di grazia, in grado di trasportare l’anima ad una spiritualità più alta, consentendo il passaggio ad un mondo superiore (come a Dante e a Petrarca), da cui si poteva osservare la realtà nei suoi tratti essenziali e nei suoi valori fondamentali. In Raffaello questo rapimento amoroso è il punto di partenza per raggiungere la fusione dello spirito, non escludendo l’implicazione sensuale e carnale, seguendo un culto neoplatonico che troviamo nella filosofia di Marsilio Ficino, di cui l’artista conosceva certamente il pensiero. Ficino aveva distinto quattro stadi, in cui l’anima percorreva una discesa, allontanandosi dalla verità di Dio, con la conseguente perdita di una visione illuminata e illuminante della realtà (prigionia dell’anima). La salvezza avviene attraverso il “furore divino”, ossia il percorso inverso al primo, dove il primo gradino è formato dal furore poetico, sotto l’egida delle Muse, che risveglia l’anima e ne elimina i disturbi; il secondo è quello misterico, salvaguardato da Bacco e reso sostanziale dall’orfismo, dove avvengono sacrifici e purificazioni, atti ad eliminare il caos che ha disorientato l’uomo dall’ascesi spirituale e dalla conseguente conoscenza; il terzo è il furore della divinazione privilegiato da Apollo, esso consente all’anima di accedere sopra della sfera della razionalità, arrivando a possibilità di divinazione e chiaroveggenza; il quarto è l’affetto d’amore, ossia il più nobile e potente, di cui tutti gli altri gradi hanno necessariamente bisogno. Raffaello cerca di percorrere la risalita attraverso il rapimento amoroso, non separato dall’amore carnale, per arrivare alla verità rivelata.[32]Così scriveva l’artista: <<La Bellezza è la linfa che ha reso viva la mia arte, ma si è rivelata anche la mia unica e grande debolezza. La natura mi ha voluto sensibile alle virtù femminili, non ho saputo resistere ai diletti carnali, mi sono fatto incantare da molte donne; non di meno, conosco l’Amore vero…>>.

<<Nacque adunque Raffaello in Urbino, città notissima in Italia, l’anno MCCCCLXXXIII, in Venerdì Santo, a ore tre di notte, da un tale Giovanni de’ Santi, pittore non meno eccellente, ma sì ben uomo di buono ingegno, e atto a indirizzare i figli per quella buona via, che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua bellissima gioventù>>.[33] Con queste parole Giorgio Vasari ci annuncia la nascita di Raffaello: nell’anno 1483 la Pasqua cadeva il giorno 30 marzo, ma se veramente era nato il Venerdì Santo doveva essere il 26 o il 28 secondo che il computo venga fatto basandosi sulle tavole astronomiche dell’anno 1483 o su quelle del Calendario Giuliano. Lo scrittore fece anche coincidere l’ora della morte con quella della nascita: le tre di notte del 6 aprile 1520. Raffaello lavorava alla “Trasfigurazione” quando si ammalò, e la tavola incompiuta fu posta a capo del letto funebre, <<la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore>>.[34] Ma quanto è attendibile la biografia del Vasari? Al tempo non si usava annotare la data e l’ora della nascita, mentre la data della morte era, nella maggior parte dei casi, registrata.

La biografia dell’Urbinate è descritta da molti studiosi del passato e moderni, ma quella del Vasari è la più famosa, non sempre aderente alla realtà, per creare un’immagine mitica di Raffaello, ma è un valido documento per mostrare la fama dell’artista nel suo tempo.

Giovanni de Santo, il padre, pittore in rapporto con la corte dei Montefeltro, dovette offrire al figlio un determinante stimolo culturale, nonostante la prematura morte nel 1494, la madre era morta nel 1491. In un documento del 10 dicembre 1500, Raffaello, non ancora diciottenne, viene già definito “magister” e anche se la sua formazione nella bottega del Perugino non risulta documentata, egli fu certamente in rapporto con Bernardino Pinturicchio, con il quale collaborò alla progettazione degli affreschi per la Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena nel 1502, l’anno successivo fu a Perugia: è di questo periodo il tempio dello “Sposalizio della Vergine”, che colloca l’artista al vertice della ricerca pittorica a proposito della pianta centrale, tema analizzato da artisti come il Perugino e Luca Signorelli. Nell’opera di Raffaello si nota non solo il distacco dal maestro, ma soprattutto il superamento dello stesso: nell’Urbinate il tempio è il cardine di tutta la composizione, che infonde armonia e mette in evidenza i personaggi, anche grazie all’ampliarsi, come un ventaglio, della pavimentazione lastricata della piazza; la collocazione raffaellesca è invertita: a sinistra del sacerdote la Vergine con le sue compagne, a destra San Giuseppe con i corteggiatori amareggiati. Raffaello muove i personaggi e le cose, rendendo il tutto sublime senza pesantezze, l’opera è un insieme di simboli in perfetta armonia tra loro. Nel dipinto del Perugino il tempio appare sullo sfondo e le figure in primo piano, “tagliando”in due parti l’opera, che non riesce a comunicare il clima di pace, la rappresentazione di un luogo paradisiaco. Quest’opera segna il momento in cui Raffaello si distacca da ogni soggezione ai modi del Perugino, collegandosi alle più avanzate ricerche architettoniche condotte da Bramante e Leonardo, segnando la fine della fase giovanile e l’inizio del periodo artisticamente maturo.[35]

Nel 1504, in autunno, Raffaello si trasferisce a Firenze con la famosa lettera di presentazione scritta dalla duchessa Giovanna Feltria Della Rovere al Gonfaloniere Pier Soderini, ritenuta, da alcuni studiosi un falso settecentesco. Il Soderini non poté dare al giovane pittore nessuna commissione, perché aveva di recente acquistato il “David” di Michelangelo e stava progettando le grandiose opere della Sala del Gran Consiglio, quindi si trovava in ristrettezze economiche. Ma dopo poco tempo l’artista ebbe commissioni da facoltosi cittadini per i quali dipinse opere famose come la “Madonna del Cardellino”, strinse amicizia con molti artisti e intellettuali del tempo, protagonisti del pensiero neoplatonico e il soggiorno fiorentino fu fondamentale nella sua formazione, che gli permise di approfondire lo studio dei modelli quattrocenteschi e soprattutto le innovazioni di Leonardo e Michelangelo: <<Studiò Rafaello in Fiorenzale cose vecchie di Masaccio, e vide ne i lavori di Lionardo e di Michele Agnolo cose tali, che gli furono cagione di augumentare lo studio in maniera per la veduta di tali opere, che gran miglioramento e grazia accrebbe in tale arte>>.[36] In poco tempo divenne il più stimato ritrattista del periodo: i due ritratti di “Agnolo Doni” e “Maddalena Strozzi” sono un esempio di come i due grandi del Rinascimento abbiano indotto Raffaello a seguire le nuove espressioni che rivolgono attenzione particolare ai sentimenti umani, al paesaggio e al dinamismo. Nel secondo ritratto la donna assume una posizione che rimanda inevitabilmente a quella della “Gioconda”, ma a differenza di Monna Lisa, nel ritratto raffaelliano è evidente la ricerca dell’armonia nel viso e nel paesaggio e i dettagli accurati degli abiti e dei gioielli mostrano quella matrice fiamminga che troveremo sempre nello stile di Raffaello, anche nel primo ritratto possiamo notare la morbidezza degli abiti dell’uomo in contrapposizione della durezza del suo sguardo, mostrando ancora una volta il suo studio sulla resa materica dei tessuti, che nonostante l’espressività dei volti li rendono molto distanti dalla penetrazione psicologica di Leonardo. L’influenza di Michelangelo appare evidente nell’opera “Il trasporto di Cristo al Sepolcro”, realizzata per una famiglia di Perugia, in cui la figura di Cristo ricorda nella posizione del corpo e nel braccio abbandonato la “Pietà”, anche la figura dell’ancella accovacciata a destra è un richiamo michelangiolesco. Nel cosiddetto periodo fiorentino (1504-1508 circa) la cultura del giovane Urbinate, a contatto con la tradizione toscana del Quattrocento (Masaccio, Donatello, Luca della Robbia) e con le grandi novità della “maniera moderna” di Fra Bartolomeo, Leonardo da Vinci e Michelangelo, subisce un’importante crescita.[37]

Come nel 1504 l’artista si era trasferito a Firenze per il bisogno di un nuovo e più idoneo campo dove esprimersi, circa quattro anni dopo, probabilmente sentendo di avere messo a frutto ciò che poteva offrirgli l’ambiente fiorentino, abbandonando improvvisamente vari e importanti lavori, come la tavola commissionata dalla famiglia Dèi, per la loro cappella in Santo Spirito, si trasferì a Roma: il Vasari fa risalire la causa di questo spostamento a papa Giulio II, desideroso di servirsi di Raffaello in Vaticano, dietro suggerimento di Bramante, che sarebbe stato unito al giovane concittadino  da “un poco di parentela”, tuttavia non documentata.[38]

Giulio II, grandissimo mecenate e desideroso di lasciare una traccia indelebile nella storia, il quale ha convocato una serie di artisti per far decorare i suoi appartamenti: si tratta di quattro stanze che dovranno servire a scopo di rappresentanza e propaganda e devono affermare il potere del Papato e il prestigio personale di Giulio II. Raffaello viene messo alla prova con una parete su cui dovrà esprimere il concetto di teologia e la struttura gerarchica della Chiesa, l’artista dipinge “La disputa del Sacramento” che soddisfa talmente tanto il Pontefice che gli affida l’intera decorazione delle stanze, allontanando tutti gli altri artisti che erano già all’opera.

Ogni stanza ha un tema portante ed ogni parete rappresenta un aspetto specifico di quel tema: la prima è la “Stanza della Segnatura” (1508-1511), così detta per avere ospitato, dal 1541, il Tribunale ecclesiastico della “Signatura gratiae”. Nel 1507 papa Giulio II lasciò l’appartamento abitato dal suo predecessore Alessandro VI Borgia, affrescato dal Pinturicchio con temi mitologici, ermetici e astrologici, e si trasferì al piano superiore dei Palazzi Apostolici, questa Stanza fu voluta nella sua forma artistica dal Papa stesso perché doveva essere la sede del suo studio e della sua biblioteca personale, la cui tematica generale è il Sapere.[39] La Stanza, parte integrante del nuovo appartamento voluto dal Papa, fa parte delle quattro affrescate da Raffaello: quella di Eliodoro, 1511-1514), con la tematica dell’affermazione del Potere spirituale e temporale del Papa;[40] dell’Incendio del Borgo e di Costantino.

La seconda stanza è quella di Eliodoro (1511-1514), con la tematica dell’affermazione del Potere spirituale e temporale del Papa.[41]

La terza stanza è chiamata la “Stanza dell’incendio del Borgo” (1514-1517) e la tematica è la celebrazione del papa Leone X mediante episodi miracolosi, riguardanti altri papi di nome Leone[42]

La quarta stanza è la cosiddetta la “Stanza di Costantino” (1517-1524), ha come tematica “Il Trionfo del Cristianesimo sul Paganesimo”,[43] questa stanza fu eseguita interamente dagli allievi di Raffaello su cartoni del Maestro. La decorazione delle Stanze è, insieme alle Logge Vaticane, la più grande impresa pittorica di Raffaello, che lo impegna fino al 1520, anno della sua morte: l’ultima Stanza verrà completata dal suo collaboratore più talentuoso: Giulio Romano.

Nelle Stanze Vaticane troviamo l’unione di due menti somme: Giulio II e Raffaello, il primo ha lasciato molti dubbi dal punto di vista religioso, ma è stato il più grande mecenate tra tutti i pontefici, è il papa della nuova Basilica di San Pietro di Bramante, della Cappella Sistina e di Michelangelo, delle indulgenze che portarono, in seguito, alla scissione tra Cattolici e Protestanti. Uomo molto ambizioso che si serviva della cultura anche per la sua imperitura memoria, grande umanista che riuscì a fare di Roma il centro supremo del Rinascimento. Il secondo, un genio che ha saputo rappresentare con la sua arte l’equilibrio tra il Vero e il mondo della realtà. Gli affreschi realizzati dall’Urbinate nella Stanza della Segnatura esprimono l’apice del primo classicismo cinquecentesco e, per secoli, sono stati un modello di euritmica unione tra la lingua figurativa moderna e quella ammirevole degli antichi, nonché armoniosa coesione tra le varie maniere italiane.

Raffaello fu anche un grande imprenditore, specialmente negli ultimi anni della sua carriera, il ricorso a un vasto numero di collaboratori nacque soprattutto dai numerosissimi impegni affidatigli da Leone X e dalle committenze private: l’artista non aveva il tempo materiale per fronteggiare personalmente tali incombenze, quindi la necessità di affidarsi alla bottega e ai suoi assistenti si fece sempre più impellente.[44]

Sia le Botteghe più importanti, come quelle del Verrocchio e del Ghirlandaio, sia gli artisti più famosi si avvalevano ripetutamente dei loro modelli tramandati da cartoni e disegni, che erano tenuti gelosamente conservati. Con Raffaello abbiamo un cambiamento: il disegno non era più ritenuto un semplice mezzo di lavoro ereditato, ma rappresentava il momento in cui l’artista concepisce la creazione artistica originale, in tal modo l’opera d’arte è, per l’Urbinate, un’intuizione che si attua nel disegno, che diventa, in tal modo, <<la diretta trasposizione visibile del pensiero dell’autore. La realizzazione viene dopo, e può essere demandata ad altri, poiché l’essenza vera dell’arte sta nell’ideazione e non più nell’esecuzione >>.[45] Anche Leonardo e Michelangelo consideravano <<l’atto creativo come unica base dell’attività dell’artista, Raffaello ne dette una lettura tutta personale, attuata in un inedito modello di lavoro collettivo>>,[46] progettando e portando a compimento interi cantieri concepiti come opere d’arte, dove erano impiegati una pluralità di diverse competenze e dove egli stesso non aveva un ruolo personale.

Arrivato a Roma, l’artista cominciò ad avvalersi della collaborazione di famosi artisti nelle diverse attività: orafi, incisori, ebanisti, carpentieri, i quali contribuirono a diffondere la sua fama in tutta l’Europa e ad assicurargli ingenti guadagni. <<E sempre tenne infiniti in opera, aiutandoli et insegnandoli con quello amore che non ad artifici, ma a figliuoli proprii si conveniva. Per la qual cagione si vedeva che non andava mai a corte che partendo di casa non avesse seco cinquanta pittori tutti valenti e buoni che gli facevano compagnia per onorarlo. Egli insomma non visse da pittore, ma da principe>>.[47] La possibilità di dirigere interi cantieri l’ebbe nel 1512, quando iniziò la costruzione (ex novo) della cappella sepolcrale in Santa Maria del Popolo, commissionatagli da Agostino Chigi, di cui Raffaello si occupò del progetto architettonico e di ogni aspetto delle decorazioni, ispirandosi all’antichità classica, ma anche al periodo paleocristiano: la cupola, il tamburo e i pennacchi dovevano essere ricoperti con l’antichissima tecnica del mosaico, ma sia per il tamburo sia per i pennacchi il lavoro non fu completato e, in seguito, dopo la morte dell’artista, vennero affrescati. Agostino Chigi, illustre banchiere senese e grande amico di Raffaello, era già riuscito a distogliere l’artista dai suoi impegni in Vaticano, affidandogli le decorazioni della Villa Farnesina, il cui progetto era stato affidato a Baldassarre Peruzzi, concittadino del Chigi. [48] L’amicizia che legava Raffaello ad Agostino Chigi fu, a dir poco, singolare: quando la focosa passione per la Fornarina distrasse l’Urbinate dal suo lavoro commissionato da Leone X, questi si rivolse al Chigi perché lo incentivasse (motivasse) a terminare le Logge superiori in Vaticano, sapendo che il banchiere aveva un certo carisma sull’artista. Agostino accettò di fare da intermediario, ma pensò soprattutto ai lavori che l’amico doveva finire per la sua villa, fece rapire la ragazza e disse al pittore che lo avrebbe aiutato a ritrovarla se egli avesse lavorato con più alacrità, ma Raffaello, vedendo che la sua amata non tornava, cadde di nuovo in uno stato di apatia, che gli impediva di lavorare, così il Chigi mise fine a questo finto rapimento e ospitò i due amanti nella sua villa.[49]

Nello stesso tempo in cui Raffaello stava affrescando la terza Stanza (Incendio del Borgo), il Papa lo incaricò di approntare i cartoni per gli arazzi destinati alla Cappella Sistina, per fare fronte a tutti questi impegni fu necessario affidare la realizzazione completa dei lavori a tutti i suoi allievi, non sempre con ottimi risultati, tanto che nell’enorme cantiere delle Logge Vaticane, sempre su commissione di Leone X, il suo coordinamento fu più meticoloso.[50]  Questo, purtroppo, fu l’ultimo grande cantiere dell’artista, poiché dell’ambiziosa opera del Pontefice, di costruire una superba villa suburbana, in un terreno sulle pendici di Monte Mario, per riecheggiare il fasto delle ville dell’antica Roma, Raffaello riuscì a vedere solo l’inizio.[51]

Con la morte di Raffaello ebbe fine tale modello di lavoro, che solo il Maestro, con il suo carattere disponibile e il suo carisma, era riuscito a tenere insieme senza conflitti e gelosie: <<lavorando ne l’opere in compagnia di Raffaello stavano uniti e di concordia tale che tutti i mali umori nel veder lui si amorzavano, et ogni vile e basso pensiero cadeva loro di mente: la quale unione mai non fu più in altro tempo che nel suo>>, queste parole del Vasari concludono la biografia sull’artista.[52]

Quando Raffaello si ammalò stava lavorando alla tavola della “Trasfigurazione”, che rimase incompiuta e <<Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ogni uno che quivi guardava>>, così scrive il Vasari. Il quadro era stato commissionato all’artista nel 1517 da Giulio de’ Medici (futuro papa con il nome di Clemente VII), e destinato alla cattedrale di Narbona, ma per la stessa cattedrale, il Cardinale aveva incaricato anche Sebastiano del Piombo, che faceva parte del gruppo di Michelangelo, di realizzare un quadro sulla Resurrezione di Lazzaro, quindi per l’Urbinate significava affrontare un confronto con il Maestro fiorentino e dimostrare che non era inferiore. Raffaello, per dare maggiore ricchezza alla sua opera, aggiunse all’episodio della Resurrezione quello della guarigione dell’indemoniato, ma i due episodi restano visibilmente separati, quasi fossero due dipinti posti uno su l’altro.

Raffaello è consapevole della sua eccezionale bravura e la usa come mezzo di razionalizzazione dello spirito, concepito dal neoplatonismo: a differenza di Leonardo, il quale colloca la scena nell’ambito di una logica di cui vuole dominare il sistema, Raffaello la pone in uno scenario idealistico tenuto insieme dalla forma, che si prende carico di un compito esplicativo ed espressivo di una teoria che la destrezza tecnica riesce a motivare. Egli è stato l’interprete di una bellezza classica, canonica, tale che nelle sue opere non si distingue più tra il bello di natura e quello artistico, perché egli è riuscito ad eliminarne la barriera: egli è andato oltre al concetto dell’arte come imitazione della natura, la sua non è stata solo capacità di imitare l’apparenza delle cose, ma di comprendere anche l’equilibrio, l’armonia, la grandiosità calma e serena. Ma cos’è la bellezza?

Anton Raphael Mangs (1728-1779),[53]pittore, storico e critico d’arte, artista considerato come uno dei maggiori esponenti del Neoclassicismo e grande ammiratore di Raffaello, nel suo trattato “Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei”, pubblicato a Zurigo nel 1762 (Edito anche in Italia nel 1780 con il titolo “Opere di Antonio Raffaello Mengs primo pittore della Maestà di Carlo III”), teorizza l’imitazione dei grandi maestri come unico strumento in grado di pervenire alla bellezza ideale, quella che non esiste in natura, ma che è il frutto di una scelta di ciò che in natura è eccellente, sostiene il concetto del bello ideale che perfeziona la natura trascendendola, collocando gli ideali della cultura neoclassica in tre punti basilari: la superiorità dell’antico e la sua imitazione non servile; la scelta e il concetto della bellezza ideale; la supremazia dell’intellettualismo del disegno contro il sensualismo del colorito, (ossia il disegno greco, le espressioni di Raffaello, i chiaroscuro del Correggio e il colore di Tiziano). Mengs sostiene che la perfezione appartiene solo a Dio, non all’uomo, il quale è capace di comprendere solamente ciò che cade sotto i sensi, quindi il Signore gli ha voluto improntare un’idea visibile della perfezione, questa è ciò che si chiama “bellezza” e si trova in tutte le cose create, ogni volta l’idea che abbiamo di una cosa e il nostro senso intellettuale non possono andare, nell’immaginazione, oltre ciò che vediamo nella materia creata. <<Platone chiama i movimenti che la bellezza produce nell’anima, una ricordanza della suprema perfezione; e crede esser questo il motivo della sua forza incantatrice>>,[54]ossia l’anima è commossa dalla bellezza perché è dall’anima stessa che deriva trasportata da un’effimera beatitudine, <<che ella spera ed aspetta presso Iddio per tutta l’eternità, ma che si perde subito in tutte le materie>>. La bellezza è, quindi, in tutte le cose, perché la natura non fece niente che fosse inutile, la bellezza rapisce ed incanta, trasporta i sensi dell’uomo fuori dall’umano, attrae tutti, perché è la luce di tutte le materie e la similitudine della divinità stessa. <<L’arte della pittura vien detta una imitazione della natura: laonde sembra che nella perfezione debba ella esserle inferiore; ma ciò non sussiste se condizionatamente. Vi son delle cose della natura, che l’arte non può affatto imitare, ed ove questa comparisce assai fiacca, e debole in confronto di quella, come, per esempio, nella luce e nell’oscurità. Al contrario ha l’arte una cosa molto importante, in cui supera di gran lunga la natura, e questa è la bellezza. La natura nelle sue produzioni è soggetta ad una quantità di accidenti: l’arte però opera liberamente, poiché si serve di materie del tutto flessibili, e che niente resistono. L’arte pittorica può scegliere da tutto lo spettacolo della natura il più bello, raccogliendo e mettendo insieme le materie di diversi luoghi, e la bellezza di più persone: all’incontro la natura è costretta a prendere, verbigrazia, per l’uomo la materia soltanto alla madre, ed a contentarsi di tutti gli accidenti; onde è facile che gli uomini dipinti possono essere più belli di quello che sieno i veri>>.[55] L’arte può superare la natura e “l’avveduto” pittore può scegliere le cose più belle che vi sono <<e produrre con questo artifizio la più grande espressione e dolcezza>>.[56] Mengs sostiene che Raffaello è: << il primo tra’ Pittori più grandi, non per essere egli stato più ricco degli altri in possedere maggior quantità di parti perfette della sua Professione, ma per averne posseduta la qualità più importante; poiché componendosi la Pittura di Disegno, di Chiaroscuro, di Colorito, d’Imitazione, di Composizione, e d’Ideale, è certo che Raffaello possedé il Disegno, e la Composizione in alto grado, e l’ideale sufficientemente; mentre Correggio si rese eccellente soltanto nel Chiaroscuro; e Tiziano riuscì egregio solo nel Colorito, e nella Imitazione della Natura. Onde Raffaello si può dire il più stimabile, perché possedé le parti più necessarie, e più nobili dell’Arte: Correggio le più amene, e più incantatrici: Tiziano si contentò della pura necessità, che è la semplice imitazione della Natura>>.[57]

Più avanti, nel suo trattato, Mengs parla molto del grande Urbinate: <<Egli non usò l’ideale nella Pittura più oltre del naturale; ma n’ebbe molto nell’esecuzione de’ caratteri, che voleva rappresentare. Non si oppose a ciò la Bellezza, con cui fece le teste delle Madonne, perché questo proviene dalla bellezza dell’Espressione. Raffaello faceva visibili la modestia, la nobiltà, la pudicizia, e l’amore verso il suo divin Figliuolo; e perciò c’incanta. Ma chi ha la finezza di gusto converrà meco, che se la figlia di Niobe fosse in un’espressione consimile, supererebbe di molto le Vergini di Raffaello, e sembrerebbe, che questi avesse dipinta una Regina con tutta la grazia, e nobiltà; e l’Artista antico una Divinità, e la Madre degli Dei>>. Raffaello, continua Mengs, modificò e migliorò la Natura per quello che riguarda l’Espressione, ma per ciò che concerne la Bellezza la lasciò come l’aveva trovata: di solito egli dava alle figure che dipingeva un’aria molto gradevole, ma erano sempre persone umane, infatti il suo Cristo, paragonato a Giove o ad Apollo, non è che un uomo e i suoi Padri Eterni in Natura si possono trovare anche più belli, ma affinché queste figure sembrassero divine, egli avrebbe dovuto dare loro un’aria più maestosa e nascosto quelle parti che rivelano la mortalità, come la pelle rugosa, gli sguardi torbidi, indizi che mostrano la debolezza della Natura ed è veramente inopportuno rappresentare il Creatore sottoposto alle miserie umane.[58] <<Giacchè è prevalso l’uso di rappresentarlo sotto la figura d’un attempato, convien farlo in modo, che comparisca venerabile d’età, ma senza le sue imperfezioni, e che ci riempia l’immaginazione della grande idea, che dobbiamo avere dell’Onnipotente; ma per fare ciò non è necessario attenersi tanto alla verità, come ha fatto Raffaello, che lo ha effigiato con le miserie della vecchiaja>>.[59] I Greci, prosegue Mengs, che furono mirabili nella parte dell’Ideale, non rappresentarono le figure degli Dei mostrando le vene, i tendini, ossia non mettendo in evidenza quei tratti come negli umani. Gli “Antichi” furono superiori a Raffaello anche nell’Armonia: <<Egli conobbe come dovea far la fronte, per esempio, serena, o torbida, pensierosa, o allegra, ec., ma non avvertì qual naso, e quali guance andassero bene a quella fronte. Quando gli Antichi facevano una fronte piana, e serena, facevano anche il naso quadrato, e le guance della stessa forma, e carattere. Finalmente il particolare degli Antichi è, che per una parte del viso si può conoscere il carattere di tutto il restante. Raffaello non ha questo vantaggio, potendosi togliere il naso d’uno de’ suoi visi, e sostituirvene un altro senza far dissonanza. Le sue Vergini hanno tutte una fronte serena, credendo così di manifestare la nobiltà, e il pudore: lo stesso è nelle teste delle figlie di Niobe. Raffaello faceva questo per motivo d’Espressione, e non di Bellezza; perché se avesse conosciuto il bello ideale avrebbe unito a quella fronte un naso di contorno moderato, e non così caricato come l’ha fatto. Faceva rotondette le guance delle predette immagini, per dare alle sue Vergini l’aria di gioventù; ma ciò non concorda con la verità, perché una persona, che abbia le guance carnose, ha sempre la fronte divisa in varie parti pel volume de’ muscoli. L’Antico non è così: tutte le parti si concordano con loro. Le bocche delle Vergini di Raffaello hanno tutte un piccolo movimento di riso, per denotare l’amore, e l’innocenza della gioventù; ma questo non si accorda con la vera bellezza. Lo stesso potrebbesi dire dell’Espressione di modestia, che metteva negli occhi. Da ciò io inferisco, che Raffaello non era ideale nella Bellezza, ma solamente nell’esecuzione dell’Espressione. Chi è poco soddisfatto delle mie ragioni mi dica, perché Raffaello non fece Angeli sì belli, come dovevano essere? Poiché figure puramente ideali ha campo l’immaginazione del Pittore di spaziarsi nella Bellezza quanto vuole. Mi dica ancora, perché non dipinse Venere, e le Grazie nel gusto degli Antichi, o in un altro, che almeno gli si avvicinasse? Quando egli non avea alcuna Espressione forte da dipingere era un puro imitatore della Natura, né sapeva, che cosa fosse Bellezza ideale. Quindi io per poter conchiudere, che Raffaello aveva gusto squisito, e poco ideale nel disegno; nel Colorito meno; e nel Chiaroscuro niente. Che nel generale della Composizione avea molto ideale, e nell’Espressione anche molto, e molta Bellezza. Da ciò si deduce quanto egli debba essere lodato nella Composizione, nell’Espressione, e nella simmetria de’ corpi di certi generi di figure; e si deduce altresì, che il suo gusto del Disegno era eccellente; e che egli ha aperto il cammino de’ belli panneggiamenti, benché pochissimo variati>>.[60]Mengs sostiene la teoria del bello ideale, cioè di una bellezza formata dalla scelta opportuna di varie parti perfette, dando a Raffaello il primato per il disegno e l’espressione, al Correggio per la grazia e il chiaroscuro, a Tiziano per il colore.

Durante la sua breve vita, Raffaello ebbe tutto quello che un artista può desiderare, non fece parte certamente di quegli artisti il cui riconoscimento avvenne molto tempo dopo la scomparsa, come, ad esempio, Caravaggio. Gentile e disponibile con tutti, quasi presago di un destino che presto avrebbe visto la sua dipartita, lavorò sempre alacremente e non perse l’occasione di trasmettere le sue conoscenze ai suoi collaboratori: <<Dicesi che ogni pittore che l’avesse conosciuto, se lo avessi richiesto di qualche disegno che gli bisognasse, egli lasciava l’opera sua per sovvenirle>>.[61]

Come si può vedere sia nelle madonne del periodo fiorentino, sia nelle opere di quello romano, il sentimento della natura è, in Raffaello, una costante molto importante della sua pittura.

Raffaello pone al centro delle sue opere l’ideale di bellezza, di equilibrio compositivo e di perfezione formale, la sua arte segna il trionfo dell’armonia tra l’uomo, la natura e la storia, in sintonia con la mentalità raffinata, aristocratica e colta del suo tempo, che fanno di lui il pittore più completo ed amato del Rinascimento. Seppe fondere la più alta tradizione quattrocentesca con gli apporti più innovativi del Cinquecento in una visione completa, personale e unitaria, con una grande padronanza dei mezzi espressivi e un “linguaggio” chiaro e preciso, che resero il suo stile inconfondibile.

 

NOTE

[1] Cfr. G. C. Argan, Storia dell’Arte italiana, Milano 1981, pp. 75-76.

2 Cfr. L. Fabbri, L’Universo in una stanza: Manfredo Settala e l’Ambrosiana, in “https://itesoriallafinedellarcobaleno.com/2018/04/17/luniverso-in-una-stanza-manfredo-settala-e-lambrosiana/

3Il preconcetto dell’età romantica di una frattura tra Medioevo e Rinascimento è stato avversato dal tedesco Konrad Burdach, che ha mostrato come il Rinascimento abbia avuto le sue radici nell’idea di rinascita politica e religiosa dello Stato romano, l “humanitas” del Quattrocento si concretizzò dunque in questa prospettiva di riconciliazione tra fede e spirito nazionale, concetto avvalorato anche dallo studioso italiano Eugenio Garin.

4Il ritorno alla natura assume un significato centrale anche nei filosofi naturalisti del XVI secolo (Telesio, Bruno, Campanella). Cfr. N. Abbagnano-G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino 1986, vol. II, pp. 15 e segg.

5Cfr. M. E. Graziani, Il mistero della tomba di Raffaello e altre storie. http//:la-morte-di-raffaello-da-urbino.blogspot.com/2016/

6Giuseppe Antonio Del Chiappa visse tra 1781 e il 1866, fu docente di Clinica Medica e Terapia Speciale per chirurghi dal 1819 al 1854, quasi inesistenti le notizie sulla sua vita, numerosissimi e reperibili i suoi scritti. Una lapide, in calcare nero di Saltrio, voluta dal figlio Ludovico, un anno dopo la morte del padre (1867) si trova presso l’Università degli Studi di Pavia, la cui scritta non aggiunge niente a quanto sopra.  http://pellegrinidelsapere.unipv.eu/scheda-nomi.php?ID=61

7Defendente Sacchi nacque a Casa Matta di Siziano nel 1796, fu giornalista, filosofo e scrittore, si occupò di storia, letteratura, storia e critica dell’arte, romanzi e novelle, oltre agli innumerevoli articoli nelle più importanti riviste culturali dell’epoca, fu direttore del “Cosmorama Pittorico”, rivista illustrata fondata a Milano, di cui Carlo Cattaneo fu assiduo collaboratore. Fu corrispondente di Fauriel e di Melchiorre Gioia. Per la sua attività editoriale ebbe numerosi riconoscimentie venne ammesso come socio nella “Reale Accademia delle Scienze di Torino”; nel 1840 creò una Civica Scuola di Pittura a Pavia, lo stesso anno morì a Milano e la sua prematura scomparsa fu attribuita ad un fisico debole, malato e provato da dolori, i suoi beni furono impiegati per l’apertura della suddetta Scuola. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/defendente-sacchi_%28Dizionario-Biografico%29/. Per la biografia di questo personaggio si veda anche: Autobiografia di Defendente Sacchi (prefazione e commento di Maria Fanny Sacchi), Pavia 1899.

8D. Sacchi, Le Belle Arti a Milano nell’anno 1833. Relazione di Defendente Sacchi, Si aggiunge una lettera sullo scoprimento delle ceneri di Raffaello Sanzio scritta da Roma il 17 settembre 1833 dal Prof. Giuseppe Del Chiappa, Milano 1833, pp. 37-43.

9Ibid., p. 39.

10Ibid., p. 40.

11Ibid., pp. 40-41. Maria Antonietta Bibbiena, nipote di Bernardo Dovizi da Bibbiena, nominato cardinale da Leone X per ricompensarlo del sostegno che il Bibbiena aveva dato durante il conclave del 1513. Il Cardinale la promise in sposa a Raffaello, ma il pittore non si unì mai in matrimonio con Maria, la quale morì diversi anni prima dell’artista, quindi pare poco probabile che i resti siano proprio quelli della nipote del Cardinale. Cfr. M. E. Graziani, Il mistero della tomba di Raffaello…, cit.

12“La stelletta o sperone non aveva nulla a fare con l’abbigliamento dei cubiculari, né poteva essere una fibbia per fermare la tunica, che non era certo un indumento usato all’epoca. Tuttalpiù poteva essere il simbolo dell’Ordine dello Sperone di origine Templare i cui appartenenti venivano sepolti con i loro speroni. Anche i puntalini della veste non figuravano né nell’abbigliamento dei cubiculari, né potevano appartenere ai borzacchini, perché è impensabile che Raffaello fosse stato sepolto con degli stivali ma senza alcun abito, i cui resti si sarebbero dovuti in parte reperire. E’ più probabile che tali oggetti fossero stati messi li di proposito assieme alle spoglie”. M. E. Graziani, Il mistero della tomba di Raffaello…, cit.

13Vincenzo Camuccini nacque a Roma nel 1771 da modesta famiglia, rimase orfano molto giovane e fu indirizzato alla pittura dal fratello maggiore Pietro, che lo aiutò anche economicamente. Fu uno dei più importanti pittori del Neoclassicismo italiano e il suo stile si accostava molto a quello di Raffaello. Frequentò gli ambienti ospedalieri di Roma per i suoi studi sui cadaveri con lo scopo di capire il funzionamento dell’anatomia umana. Durante il corso degli anni la sua fama crebbe molto, tanto che Pio VII lo nominò Direttore generale della Fabbrica di San Pietro ed ebbe l’incarico di Sovrintendente ai Musei Vaticani, incarico che in passato era stato di Michelangelo, Bernini etc. Sempre nella Città Eterna aprì un importante laboratorio frequentato da molti artisti italiani e stranieri. Fu anche restauratore: numerosi gli interventi di restauri nelle chiese romane da lui compiuti; nel 1806 fu eletto Principe dell’accademia di San Luca, quattro anni dopo gli successe Antonio Canova, Camuccini ricoprì di nuovo la carica nel 1826. Morì a Roma nel 1844. Cfr. E. Gombrich, Dizionario della pittura e dei pittori, Einaudi Editore, 1997.

14“Le sette missive e i sei sonetti qui riuniti sono ciò che rimane dell’opera letteraria di Raffaello. Sebbene il Vasari alluda, peraltro assai confusamente, a ulteriori prose del Sanzio, è da credere che la sua attività in tal senso si estendesse non molto oltre i saggi superstiti. Per di più taluni dei testi pubblicati son da ritenersi estranei all’urbinate, mentre altri conservano di lui soltanto il concetto, essendone la forma riferibile a scrittori ben più versati. Baldassar Castiglione fu sicuramente uno di coloro che prestarono la propria penna al pittore; cui pertanto, sarebbe vano attribuire la sonora rotondità di stile e la vivezza delle immagini improntanti la lettera a Leone X; così come al Bembo o a qualcun altro dei numerosi umanisti che in Roma si legarono a Raffaello, va attribuita l’abile, “cortigiana” scorrevolezza dell’epistola al Castiglione medesimo. Il paragone con le lettere vergate dal Sanzio non lascia adito a dubbi, quantunque l’artista palesi un continuo accrescimento culturale rispetto alla forma tanto stentata dei suoi scritti più antichi. Nondimeno l’importanza di queste poche pagine ben meritava la presente raccolta. Il carattere stesso dei testi riuniti, così autonomi l’uno rispetto all’altro, si oppone a una definizione complessiva della loro validità: il volerla tentare equivarrebbe affrontare l’esame che, per comodità del lettore, si è creduto meglio premettere a ogni singolo scritto. Comunque, specie la lettera a Leone X riveste un valore documentario assai notevole, conservandoci talune idee che dovettero esser correnti in un periodo densissimo di fatti capitali per l’arte. Nelle altre, notizie su opere raffaellesche compiute o in programma, su avvenimenti o persone, costituiscono pure un elemento di elevato interesse, e talora la portata ne è insostituibile. Ma, quand’anche fosse da scorgervi non più d’un mero contributo, magari marginale, alla conoscenza di chi compose o ispirò queste lettere, la personalità dell’autore è tale per cui sarebbero ugualmente preziosissime”. Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti, a cura di Ettore Camesasca, Milano 1956, pp. 9-10.

15Cfr. Ibid., p. 13.

16Ibid., pp. 17-18.

17Ibid., p. 23.

18Ibid., p. 29.

19Ibid., pp. 33-34.

20Ibid.

21Raffaello si riferisce a Don Bartolomeo Santi, zio paterno e suo tutore. Non sono state reperite notizie su Francesco Buffa, mediatore di matrimoni, come appare dalla lettera.

22Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/ 

23E. Camesasca a cura di, Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti… cit.,  pp. 33-34.

24Ibid., p. 34. “ [il  papa]Mi ha dato un compagno, frate doctissimo e vecchio de più d’octant’anni; el papa vede che ‘l puol vivere poco: ha risoluto la Sua Santità darmelo per compagno, ch’è uomo di gran riputazione sapientissimo, acciò ch’io possa imparare, se ha alcun bello secreto in architectura, acciò io diventa perfettissimo in quest’arte; ha nome fra’ Giocondo e ogni dì il papa ce manda a chiamare, e ragiona un pezzo con noi di questa fabrica”. Giovanni Giocondo nacque a Verona o nei dintorni della città nel 1434 circa, visto che Raffaello, nel 1514, gli attribuisce più di ottanta anni, anche se negli otto anni precedenti aveva navigato fino al Peloponneso per controllare le fortificazioni veneziane, percorreva in barca e a cavallo lunghe distanze, saliva su torri e campanili per ispezionare dall’alto terreni e progettare sistemazioni idrauliche. Non si hanno notizie sulla sua famiglia e nei primi cinquant’anni della sua vita, le prime informazioni sono del 1489, quando era già famoso per la sua cultura che abbracciava molteplici campi. A partire dagli ultimi anni del Quattrocento è documentata anche la sua posizione religiosa: nei vari documenti egli è sempre chiamato frate e sembra essere appartenuto all’Ordine Francescano, anche se Vasari ed altri studiosi lo dicono appartenente all’Ordine Domenicano. E’ probabile che fino all’età di trentacinque anni Fra Giocondo sia rimasto in Veneto e che la sua formazione culturale sia avvenuta in quest’ambito, ricco di studi filologici e antiquari, frequentò Pietro Bembo, Luca Pacioli, Aldo Manuzio e altri; fu grande studioso di Vitruvio, di cui pubblicò a Venezia nel 1511 il “De architectura”, l’importanza di questa edizione, oltre alla precisione filologica, letteraria e tecnica, era dovuta all’apparato iconografico, basilare per la chiave di lettura dell’opera vitruviana. Nel 1489 si trovava a Roma, dove fu consulente per il progetto del palazzo del Cardinale Riario e dove svolgeva la sua attività di epigrafista; sempre lo stesso anno sembra sia stato a Napoli presso Alfonso II, e, l’anno successivo, abbia seguito Carlo VIII in Francia, dove collaborò alla ricostruzione del ponte di Notre-Dame, quello precedente, in legno, fu distrutto il 25 novembre 1499. Fu molto ricercato per creare e ammodernare fortificazioni, data la sua esperienza anche in questo campo dell’architettura. Intensa fu la sua attività di ricerca di codici antichi, tra i tanti, il ritrovamento più importante fu il manoscritto di Plinio il Giovane, nei pressi di Parigi. Innumerevoli furono i suoi lavori e le collaborazioni per la costruzione di importanti edifici, fino a quando nel giugno 1514 arrivò a Roma e Leone X gli assegnò la posizione principale nella Fabbrica di San Pietro, per la sua fama di grande ingegnere. Numerosissimi i suoi scritti.  Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-giocondo-da-verona_(Dizionario-Biografico)/

25Marco Fabio Calvo nacque a Ravenna nel 1440 circa, coltivò interessi archeologici, antiquari e medici, tradusse dal greco il “Corpus Hippocraticum”, collaborò con Raffaello al grandioso progetto di ricostruzione della topografia di Roma antica, di cui parleremo nella lettera a papa Leone X, probabilmente per la sua fama di esperto di antiquaria. Per Raffaello, che non conosceva il latino, tradusse in volgare il “De Architectura” di Vitruvio, di essa restano due redazioni manoscritte conservate alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, in una delle quali possiamo leggere questa postilla: “…tradocto di latino in lingua e sermone proprio e volgare da Messere Fabio Calvo ravennate, in Roma in casa di Raphaello di Giovan de Sa(n)cte da Urbino e a sua instantia…”, infatti, sappiamo che fu ospitato e trattato con particolare considerazione e cura dall’artista. Morì a Roma durante il sacco del 1527. Cfr.http://www.treccani.it/enciclopedia/marco-fabio-calvo_(Dizionario-Biografico)/  

26“Onde essendo io stato assai studioso di queste tali antiquitati, e avendo posto non piccola cura in cercarle minutamente e in misurarle con diligenza, e leggendo di continuo li buoni auctori e conferendo l’opere con le loro scripture, penso aver conseguito qualche notizia di quell’antiqua architectura”. E. Camesasca a cura di, Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti… cit.,  p. 51.

27E’ noto che la calcina si può ricavare anche dal marmo.

28E. Camesasca a cura di, Raffaello Sanzio. Tutti gli scritti… cit.,  p. 79.

29Ibid., p. 80.

30Cfr. Ibid., pp. 79-88.

31G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e archi tettori, Vita di Raffaello da Urbino, Firenze 1568.

32Cfr. M. Bernardelli Curuz, Raffaello: le sue poesie d’amore in originale e nella versione dell’italiano di oggi. Qui – Stile Arte https:

33G. Vasari, Le vite… cit.

34Ibid.

35Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/ “Lo Sposalizio della Vergine” è datato 1504, sulla facciata del grande edificio troviamo la firma di Raffaello, l’opera è conservata presso la Pinacoteca di Brera di Milano.

36G. Vasari, Le vite… cit.

37Per un’ampia biografia su Raffaello si vedano oltre a quella del Vasari: E. Müntz, Raphael. Sa vie, son oevre et son temps, Paris 1886; P. De Vecchi, Raffaello, Milano 1975; B. Santi, Raffaello, in “I protagonisti dell’Arte italiana”, Firenze 2001.

38“E questo avvenne perché Bramante da Urbino, essendo a’ servigi di Giulio IIper un poco di parentela che avevano insieme e per essere di un paese medesimo, gli scrisse che aveva operato col papa che, volendo far certe stanze, egli potrebbe in quelle mostrare il valor suo” . Giorgio Vasari, Le Vite… cit.“ La data del trasferimento di Raffaello da Firenze a Roma non è conosciuta, ma il primo pagamento ricevuto per i lavori nei palazzi vaticani risale al 13 gennaio 1509, per decorazioni ed affresco realizzate nella Stanza della Segnatura “ad bonum comptum picture camere de medio eiusdem Sanctitatis testudinate”  Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/

39Sulle pareti troviamo: La disputa del Sacramento (Teologia); La Scuola di Atene (Filosofia); Allegoria della Giustizia e San Romualdo consegna a Gregorio IX le Decretali (Diritto); Il monte Parnaso con Apollo e le Muse (Poesia).

40Alle pareti: La cacciata di Eliodoro dal Tempio (Punizione per chi tenta di sottrarre beni materiali ai sacerdoti); La liberazione di San Pietro dal Carcere (Dio soccorre il suo rappresentante in terra); La Messa di Bolsena (Celebrazione del Corpus Domini); L’incontro di San Leone Magno con Attila (La Chiesa sottomette gli eserciti nemici).

41Gli affreschi eseguiti nella Stanza di Eliodoro sono una sfida assunta da Raffaello con i linguaggi figurativi del suo tempo: egli vuole dimostrare di saper padroneggiare sia l’eroismo anatomico di Michelangelo, sia l’appassionato cromatismo dei Veneti, come la scioltezza narrativa e compositiva dei rilievi antichi e gli effetti luministici della pittura nordica. 

42Alle pareti: Leone III incorona Carlo Magno (il potere temporale dei Re viene concesso dal Papa); Il giuramento di Leone III (Il Papa è responsabile delle sue azioni solo di fronte a Dio); L’incendio di Borgo (Leone IV invoca e ottiene l’aiuto divino); La battaglia di Ostia (Leone IV affronta in battaglia i saraceni).

43Sulle pareti: La visione di Costantino a Ponte Milvio; La battaglia di Costantino; Il Battesimo di Costantino; La donazione di Roma.

44S. Pasti, Raffaello e l’invenzione di una magnifica utopia, ovvero l’opera d’arte come progetto globale, https://www.aboutartonline.com/raffaello-elopera-darte-come-progetto-globale-linvenzione-di-una-magnifica-utopia/

45Ibid.

46Ibid.

47G. Vasari, Le vite… cit.

48Cfr. Ibid. La parte scultorea della Cappella fu affidata ad uno degli allievi preferiti da Raffaello: Lorenzetto, a cui, negli ultimi giorni di vita, dette l’incarico di innalzare sulla sua tomba, nel Pantheon, una scultura della Madonna con Bambino (Madonna del Sasso). Agostino Chigi nacque a Siena nel 1465 circa da una famiglia di ricchi mercanti e presso il padre Mariano fece il suo apprendistato. Nel 1487 si trasferì a Roma, dove cominciò la sua ascesa, che lo vide banchiere, imprenditore e armatore più ricco d’Europa: prestò denaro alle più grandi famiglie italiane ed europee, finanziò imprese belliche, organizzò feste sontuose per i papi, ebbe importanti rapporti d’affari con Alessandro VI, Giulio II e Leone X, fu un grande mecenate. Dopo la morte della prima moglie, Margherita Saracini, dalla quale non aveva avuto figli, sposò, dopo vari anni di convivenza, la bellissima cortigiana conosciuta a Venezia Francesca Ordeaschi, da cui ebbe cinque figli, l’ultimo dei quali nato dopo la sua morte; il matrimonio fu celebrato il 28 agosto 1519 da papa Leone X, matrimonio che fece molto scalpore: una donna dal passato molto criticabile e amante del Chigi quando era ancora viva la moglie, che riuscì a conquistare e sposare uno degli uomini più potente del tempo. In tal modo la bella Francesca entrò (già prima del matrimonio) nella meravigliosa Villa Farnesina (Villa Chigi: Farnesina, perché acquistata dai Fanese nel 1580), progettata da Baldassarre Peruzzi, nello stile del Rinascimento toscano (tra il 1508 e il 1511) e affrescata da Raffaello con la favola di Amore e Psiche (tratta dalle Metamorfosi di Apuleio) per celebrare l’amore di Agostino e Francesca. La morte colse Agostino Chigi pochi giorni dopo quella di Raffaello: il10 aprile 1520 e la giovane moglie gli sopravvisse solo sette mesi. I funerali del banchiere furono celebrati a Santa Maria del Popolo alla presenza di più di cinquemila persone e furono degni di un sovrano con otto ordini di frati, 36 vescovi, un grande numero di preti secolari e cardinali, 86 carrozze con la famiglia del Papa, il feretro era circondato da 250 torce, quando i cardinali ne avevano diritto a 100.  Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-chigi_%28Dizionario-Biografico%29/  

49Cfr. . http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-chigi_%28Dizionario-Biografico%29/    

50Ibid. Nel 1515 venne ultimata la costruzione delle Logge, iniziate da Bramante, di cui Raffaello aveva preso le redini come architetto e nel 1519 furono conclusi anche i decori del piano centrale, per la pavimentazione fu chiamato da Firenze Luca della Robbia il Giovane, figlio di Andrea e nipote del più celebre Luca.

51Il Vasari descrive come un posto di rigogliosa bellezza naturale il terreno che Leone X aveva comprato sulle pendici di Monte Mario nel 1515, lo scopo di quest’acquisto era quello di costruire una maestosa villa suburbana con boschi, giardini, specchi d’acqua, zone invernali ed estive disposte secondo i venti, impianti termali, , saloni, logge, un teatro e tante opere d’arte , per far rivivere l’opulenza delle ville suburbane di Roma antica. Raffaello è l’architetto di questo ambizioso progetto, coadiuvato da Antonio da Sangallo il Giovane, purtroppo la morte coglie l’artista quando i lavori non sono ancora arrivati a metà; anche Leone X muore il 1° dicembre 1521 e il tutto viene ereditato da Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII, cugino di Leone X, ma anche lui muore nel 1534 lasciando questo grandioso progetto di Raffaello solo un sogno. Cfr. S. Pasti, Raffaello e l’invenzione di una magnifica utopia, ovvero l’opera d’arte come progetto globale, https://www.aboutartonline.com/raffaello-elopera-darte-come-progetto-globale-linvenzione-di-una-magnifica-utopia/

52Non erano ancora passati due mesi dalla morte di Raffaello, che cominciarono i primi contrasti per la divisione e la preminenza nei lavori di restauro di Villa Madama, iniziati nel 1518 su progetto dell’artista. A testimonianza di ciò sono due lettere datate 4 e 17 giugno 1520, scritte da Giulio de’ Medici al Cardinale Mario Maffei, il quale controllava i lavori, dove lo prega di ristabilire la pace e l’armonia tra Giulio Romano e Giovanni da Udine, che sotto la guida di Raffaello avevano lavorato per anni in accordo. Cfr. Ibid.  

53Anton Raphael Mengs nacque ad Aussig (Repubblica Ceca) nel 1728, compì i suoi studi a Desdra e nel 1741 andò a Roma, dove studiò la pittura classicista del XVII secolo, le statue antiche del Belvedere e le Stanze di Raffaello. Nel 1744 fu di nuovo a Desdra, dove venne nominato pittore di corte; due anni dopo tornò a Roma: si convertì al Cattolicesimo e sposò Margarita Quazzi, popolana romana. Alcuni anni dopo entrò a far parte dell’Accademia di San Luca e nel 1771 ebbe la carica di Principe della stessa Accademia. Nel 1755 termina la copia dell’affresco “Scuola d’Atene” di Raffaello, su commissione del duca di Northumberland e sempre nello stesso anno conosce e stringe amicizia con Johann Joachim Winckelmann, accomunati dall’interesse per le antichità romane, il quale definisce Mengs come il maggiore artista del suo tempo e anche di quelli a venire. Questo fu un periodo molto proficuo per l’artista e tra le numerose opere, nel 1761, ultimò quella che lo rese molto famoso: l’affresco del “Parnaso” per il salone della villa del Cardinale Alessandro Albani, dove si riscontrano numerosi riferimenti col “Parnaso” affrescato nella Stanza della Segnatura da Raffaello. L’anno successivo viene pubblicato il suo trattato “Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei”, dove teorizza il suo concetto di bellezza ideale e confuta la pittura dei secoli XVII e XVIII, criticando, della prima, l’uso del chiaroscuro, il sentimentalismo angoscioso e devoto; della seconda le tematiche vuote di scopi morali e formativi. Mengs soggiornò alcuni anni in Spagna presso la corte di Carlo III, tornò a Roma nel 1777, dove morì due anni dopo. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/anton-raphael-mengs/

54A. R. Mengs, Opere di Antonio Raffaello Mengs. Primo pittore della Maestà del Re cattolico Carlo III, Pubblicate dal Cav. D. Giuseppe Niccola D’Azzara, Bassano MDCCLXXXIII, p. 7 e segg.

55Ibid., p. 18.

56Ibid.

57Ibid., p. 131.

58 Cfr., Ibid., pp. 171-172. Come si può vedere sia nelle madonne del periodo fiorentino, sia nelle opere di quello romano, il sentimento della natura è, in Raffaello, una costante molto importante della sua pittura.

59Ibid.

60Ibid., pp.172-174.

61G. Vasari, Le vite… cit.

 

 

 

 

 

 

 

L’UOMO SENZA LETTERE

Autore: Lucica Bianchi

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“Acquista cosa nella tua gioventù, che ristori danno alla tua vecchiezza. E se tu intendi la vecchiezza aver per suo cibo la sapienza, adoperati in tal modo in gioventù che a tal vecchiezza non manchi il nutrimento”

Leonardo da Vinci, 1452-1519

Certe qualità eccezionali di cui danno prova esseri umani sono spesso doni piovuti loro dal cielo, ma ciò è naturale. Soprannaturale è invece che bellezza, virtù e talento possano confluire profusamente in un unico individuo rendendolo superiore a tutti gli altri uomini qualunque cosa egli faccia. Ogni sua azione sarà infatti così miracolosa da rivelarsi per quel che è: un fenomeno di origine divina, non il semplice risultato dell’ingegno umano. Leonardo da Vinci fu uno di questi fenomeni. C’erano in lui, oltre a una bellezza fisica mai sottolineata abbastanza, una facilità e una felicità d’azione sconfinate. Aveva cosi tante qualità che ovunque volgesse la sua attenzione riusciva a trasformare un problema insolubile in una cosa facile a farsi, e fatta alla perfezione. Alla sua forza fisica, possente, si associava abilità, ardimento e una nobiltà d’animo regale e prodiga di sé.

La fama di Leonardo fu illimitata: valicò i confini dell’epoca e raggiunse i posteri.

Non fosse stato tanto versatile e irrequieto, Leonardo sarebbe diventato un raffinato uomo di lettere e un erudito. Intraprese studi di ogni tipo, ma dopo un po’ si sentiva sazio e piantava tutto. E’ vero che iniziò molte opere d’arte senza mai finirle, ma era perché la sapeva troppo lunga in materia. Considerava la perfezione artistica che aveva in mente irraggiungibile sul piano pratico. Nemmeno con le sue stesse mani poteva venire a capo delle imprese grandiose e difficili che era solito immaginare.

Il suo maestro fu Andrea del Verrocchio, che all’epoca stava lavorando a una tavola raffigurante un San Giovanni in atto di battezzare Cristo. Leonardo ebbe il compito di dipingere nella tavola un angelo con in mano delle vesti. Allora era giovanissimo, ma lo disegnò cosi bene che l’angelo fece fare brutta figura alle figure dipinte da Andrea. Pare che Andrea, indispettito che un ragazzino ne sapesse più di lui, non volle più saperne di prendere in mano i pennelli.

E allora: è possibile, oggi, conoscere e “vedere” Leonardo da Vinci? Ovvero apprezzarlo nella sua opera e nel contesto delle vicende dell’arte, come si può fare per moltissimi altri artisti? Domanda apparentemente paradossale e incongrua, visto che su di lui è stata pubblicata una biblioteca di migliaia di tomi che si accresce di altre migliaia di contributi ogni anno, mentre istituzioni importanti sono solamente dedite alla conservazione e allo studio dei suoi “Codici”, e la “Gioconda” è notoriamente il quadro più conosciuto al mondo, oggetto di devoti pellegrinaggi anche da parte di genti che nulla conoscono della pittura occidentale. Ogni giorno escono libretti divulgativi in cui Leonardo è indicato come “il più”: “il più” grande genio della storia dell’umanità, “il più” grande scienziato, “il più” profetico nunzio dell’età delle macchine, e cosi via all’infinito, elencandone le benemerenze in campi dello scibile che invece datano da pochi secoli, e che Leonardo neppure conosceva. Domanda però giustificata dall’evidente frattura fra la documentazione archivistica nota e l’immagine dell’artista presso i contemporanei, fra la costruzione del mito dopo la sua morte, e le fasi successive, passate attraverso scoperte, infinite discussioni attributive, tentativi disperati per fermare in qualche modo il degrado progressivo e rapidissimo dell’unica sua opera pittorica del tutto certa: il “Cenacolo” di Milano.

 Giungere dunque a lui, attraverso simili intrichi, ricollocarlo in qualche modo nel suo tempo, appare impresa quasi disperata. E’ possibile evitare di considerarlo “l’uomo più ostinatamente curioso della storia” secondo la definizione di Sir Kenneth Clark, o l’espressione del “genio umano e universale” di Goethe? Comunque, Leonardo era già considerato la sintesi dell’età del Rinascimento nell’apologia costruita da Giorgio Vasari, che anche in questo caso, si dimostra un grande romanziere. A fine Ottocento Edmondo Solmi aveva intuito ed esposto: “Noi dobbiamo capovolgere questo giudizio dei contemporanei. Essi misurano l’intero Leonardo nelle sue manifestazioni pratiche, e lo definirono vario, instabile, mutabile; noi, contemplando la sua vasta teoria, alla quale dedicò le forze di tutta la vita, dobbiamo definirlo intento ad un solo proposito e fermo di fronte ad ogni contrasto. Dagli anni primi della giovinezza fino alla morte egli infatti drizzò le sue forze ad un unico intento: la conoscenza delle leggi dei fenomeni, la descrizione delle forme naturali.” Ma Leonardo in realtà, non fu assolutamente capace di costruire una teoria, almeno nelle accezioni scientifiche e filosofiche, e ideologiche, che noi diamo al termine. Non fu né sistematico né sperimentale, ma portò l’arte dell’osservazione, sostenuto dal meraviglioso ed eccezionale talento di disegnatore, ai vertici possibili nel suo tempo. E tale osservazione trasferì in quella pittura che così diventa un’ arte di sottile invenzione, la quale con delicata a attenta speculazione considera tutte le qualità delle forme. Questa tensione fra l’osservazione e le qualità formali costituì un assillante rovello, determinante per l’insoddisfazione nei confronti dell’opera limitata e incompiuta. Ed è proprio questa tensione fra Arte e Natura, Pittura e Osservazione, portata ad un estremo limite di perfezione e gentilezza a costituire il motivo primo del fascino di Leonardo da Vinci. Questa inesausta ricerca era certamente rara, ma del tutto coerente con il suo tempo, negli anni in cui gli artisti cominciano a emanciparsi dalla condizione artigianale, aspirando essi stessi a quell’ideale di “Uomo Universale”.

Chiunque volesse vedere fino a che punto l’arte è in grado di imitare la natura, basta guardare Leonardo da Vinci.

Leonardo da Vinci rappresenta il culmine della tradizione ingegneristica italiana quattrocentesca: egli più di ogni altro artista-ingegnere precedente e contemporaneo riesce a staccarsi dalla dimensione artigianale per assumere quella del dotto tecnologo.

Il percorso di riqualificazione culturale e professionale degli ingegneri quattrocenteschi è espresso in maniera esemplare dalla biografia di Leonardo da Vinci. Leonardo comincia la sua carriera a Firenze come apprendista presso la bottega di Andrea del Verrocchio e la conclude come ingegnere e pittore al servizio del re di Francia Francesco I. La sua maturazione intellettuale sul piano scientifico si completa con il tentativo, poi fallito, di elaborare una nuova meccanica a partire da un’integrazione tra i teoremi dei filosofi e le esigenze costruttive degli artigiani.

L’eccezionalità dell’ascesa sociale e culturale di Leonardo è suggellata dalle parole di Benvenuto Cellini il quale, quando narra il momento della sua morte, lo descrive con l’appellativo di “grandissimo filosafo”. Sarebbe tuttavia un errore considerare Leonardo come la massima espressione del genio rinascimentale staccandolo dal contesto culturale degli altri artisti-ingegneri quattrocenteschi a contatto con i quali si è formato e con i quali ha condiviso gli sforzi per l’affermazione del sapere tecnico e per il riconoscimento della dimensione intellettuale degli “omini senza lettere”. I legami con la tradizione sono fin troppo evidenti, tuttavia è opportuno riconoscere a Leonardo il merito di essere stato l’ingegnere che più di ogni altro ha saputo dar voce e visibilità grafica ai “sogni tecnologici” condivisi dalla maggioranza degli artisti-ingegneri del Quattrocento.

Dopo l’infanzia trascorsa a Vinci, Leonardo si trasferisce a Firenze col padre, Piero, e nel 1469 entra nella bottega di Andrea del Verrocchio, nella quale si afferma come pittore e apprende tutti i segreti che costituiscono il bagaglio tecnico di un abile artigiano. Il primo riferimento di un interesse di carattere tecnico da parte di Leonardo si ha in occasione della realizzazione e messa in opera, da parte del Verrocchio, dell’enorme sfera di rame che sovrasta la cupola di Santa Maria del Fiore nel 1472. Da un riferimento più tardo alla tecnica utilizzata per la saldatura delle enormi lastre di rame che costituiscono la sfera, attraverso specchi ustori, veniamo a conoscenza della presenza nel cantiere dell’Opera del duomo del giovane Leonardo, il quale in quest’occasione ha modo di visionare le macchine progettate da Filippo Brunelleschi. È infatti significativo notare come nei suoi primi progetti di macchine l’elemento più ricorrente sia la vite, ampiamente usata da Brunelleschi.

Gli anni milanesi

Nel 1482 Leonardo lascia Firenze per trasferirsi a Milano al servizio di Ludovico il Moro, dove rimane per quasi 20 anni. Sul piano artistico questo periodo è caratterizzato, oltre che dall’attività pittorica (Cenacolo, Vergine delle rocce, Dama con l’ermellino), anche dai preparativi per la fusione del monumento equestre a Francesco Sforza che però, a causa dell’invasione francese di Milano, non viene portato a termine.

Durante gli anni milanesi Leonardo si impegna anche in studi di natura tecnologica e architettonica. Intorno al 1487 sembrano risalire i suoi disegni relativi alla città ideale a due livelli, così concepita per far fronte ai problemi di sovraffollamento urbano. Le città devono essere progettate secondo un’organizzazione razionale degli spazi, separando le aree destinate all’attività produttiva e commerciale dagli spazi destinati alla vita sociale. Durante questo periodo formula anche il progetto di un trattato sull’acqua, che per Leonardo costituisce una premessa necessaria per la risoluzione di problemi di carattere idraulico, come la costruzione e la manutenzione dei canali.

Con l’invasione francese del 1499 Leonardo abbandona Milano insieme all’amico e maestro Luca Pacioli, che lo aveva introdotto allo studio della matematica e della geometria. Dopo aver soggiornato a Venezia e a Firenze, nel 1502 entra al servizio di Cesare Borgia come ingegnere militare. Per lui esegue rilievi topografici e piante di città e regioni dell’Italia centrale, come lo splendido disegno della pianta di Imola. Nel 1503 è nuovamente a Firenze, dove offre prestazioni di consulenza e assume incarichi ingegneristici nella guerra contro la città di Pisa, proponendo alla magistratura fiorentina uno studio per la deviazione del corso dell’Arno così da tagliare fuori dal corso del fiume la città nemica, progetto che poi risulterà inattuabile.

Nel 1508 torna nuovamente a Milano, per entrare al servizio, con la qualifica di “peintre et ingénieur ordinaire”, del governatore francese Carlo d’Amboise, per il quale studierà il sistema idrico lombardo. Dal 1513 al 1516 è a Roma, dove alterna gli studi di anatomia a progetti di carattere idraulico per la bonifica dell’Agro Pontino e per il porto di Civitavecchia.

Nel 1516 si trasferisce in Francia, alla corte di Francesco I, al servizio del quale resterà fino alla morte.

 

GIOTTO, L’ITALIA

 La mostra su Giotto a Milano.

di Roberta Delmoro

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Nell’immagine un dettaglio del polittico Baroncelli

Si è aperta la mostra a Palazzo Reale a Milano Giotto, l’Italia (2 settembre 2015 – 10 gennaio 2016). L’evento conclude il semestre Expo 2015 con lo spessore culturale di un progetto scientifico lungamente meditato dai curatori, Pietro Petraroia (Éupolis, Milano) e Serena Romano (Université de Lausanne), studiosa di alto profilo e autrice di notevoli, recenti studi di approfondimento sui pittori giotteschi a Milano e in Lombardia in relazione alla committenza viscontea (la medesima ha curato con Mauro Natale la precedente mostra a Palazzo Reale: Arte lombarda dai Visconti agli Sforza. Milano al centro dell’Europa, 12 marzo – 28 giugno 2015).

L’esposizione si è avvalsa di un comitato scientifico di notevole spessore, composto dal presidente Antonio Paolucci, da Cristina Acidini, Davide Banzato, Giorgio Bonsanti, Caterina Bon Valsassina, Gisella Capponi, Marco Ciatti, Luigi Ficacci, Cecilia Frosinini, Marica Mercalli, Angelo Tartuferi, e dell’allestimento sapiente di Mario Bellini. Il catalogo, Electa editore, conta 150 illustrazioni, accessibile al costo di 35 euro in libreria e di 32 euro in mostra.

Ci si può domandare: perché Giotto a Milano? L’originalità e al contempo l’unicità di questa mostra, che raccoglie per la prima vola ben 14 capolavori del maestro, esposti con sensibilità e discrezione, lasciando trasparire tutta la sacralità delle opere nel rispetto di una corretta gradazione della luce e di una giusta collocazione rispetto allo sguardo del visitatore, sta nell’aver scelto una sede che può apparire periferica relativamente alle origini fiorentine del pittore. In verità la sede di Palazzo Reale simboleggia il momento della più tarda attività del maestro, che ormai vecchio, e col suo seguito di aiuti, approdava infine a Milano, lungamente desiderato e convocato dal signore Azzone Visconti, onde affrescare la perduta sala magna della sua splendida dimora, il cosiddetto Broletto Vecchio. Fatto demolire in buona parte su ordine di Galeazzo II Visconti, ma risorto in età sforzesca, l’edificio venne poi radicalmente trasformato nell’attuale Palazzo Reale e le sale espositive della mostra si collocano idealmente a pochi passi dall’antica sala magna di Azzone. Il cronista milanese Galvano Fiamma descrive una Vanagloria Mondana, accompagnata da un ciclo, probabilmente, di Uomini Illustri, che coi loro colori saturi e preziosi, con la lucentezza degli smalti e la concretezza delle carni mutarono, anche in Lombardia, il corso della storia dell’arte.

L’arrivo di Giotto a Milano, così come era accaduto nel resto d’ Italia, dal cantiere di Assisi, a Roma, a Rimini, a Padova, a Firenze, a Napoli, comportò un rapido aggiornamento della pittura locale sui suoi modelli e sul suo stile e qui si coglie il senso della mostra e del suo titolo: Giotto, l’Italia. Il pittore, con la sua bottega e coi suoi seguaci, rappresentò l’unificazione del linguaggio della storia dell’arte italiana, prepotentemente riapertasi al naturalismo, dopo i linearismi sinuosi e i preziosismi della pittura bizantina, e similmente alla pittura romana, presa a modello e lungamente studiata da Giotto. Le opere esposte, tra cui si contano il polittico di Badia, assieme ai successivi frammenti provenienti dagli affreschi giotteschi della chiesa fiorentina di Badia (1295-1310 ca.), il polittico di Santa Reparata, lo strepitoso polittico Stefaneschi (secondo decennio del Trecento) per la prima volta nella storia uscito dalla Città del Vaticano, collocato anticamente sull’altare maggiore della vecchia San Pietro in Vaticano, il raffinatissimo polittico Baroncelli (1330) e il polittico di Bologna (1332-1334 ca.) sono capolavori di capitale importanza che documentano il variare e maturare via via dello stile del maestro e della sua bottega negli anni e i modelli che il pittore lasciò nel suo frequente peregrinare e sui quali si formarono tanti artisti e seguaci in giro per l’Italia.

La logica espositiva della mostra, a opera di Bellini, è stata giocata su due elementi: il ferro e la luce. Tonnellate di “ferro nero” – e il riferimento, e l’omaggio diremmo alla famiglia di Giotto, figlio e fratello di fabbri ferrai, sono sottintesi – rivestono pavimenti e pareti creando un’oscurità appena solcata dalle venature bluastre che sono proprie di questo materiale “grezzo” e che ripropongono le dimensioni e altezze degli altari sui quali sono stati collocati i polittici e i pannelli. Sui pavimenti a terra sono state riportate in grossi caratteri bianco su nero le didascalie e la planimetria della chiesa di Badia, in modo da non obbligare l’osservatore all’avvicinarsi ed allontanarsi dai soliti “scomodi” cartellini. La luce: che rompe l’oscurità illuminando solo i capolavori, che risaltano così di luce propria e della giusta dimensione cultuale restituita, spesso perduta nelle affollate sale espositive dei musei…

Iniziano e concludono la mostra le sale didattiche, attente e didascaliche, pensate per spiegare Giotto e per renderlo in un certo qual modo, come la lingua italiana, alla portata di tutti.

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info utili: Giotto, l’Italia. Palazzo Reale a Milano, fino al 10 gennaio 2016.

Orari Lunedì 14.30-19,30 – gli altri giorni della settimana orario continuato dalle 9,30 alle 19,30; giovedì e sabato chiusura alle 22.30.

Catalogo Electa (32 euro in mostra). Ingresso (intero) euro 12, comprensivo di audioguida. Riduzioni per giovani inferiori a 26 anni, ultrasessantacinquenni, gruppi adulti, riduzioni speciali per gruppi organizzati da Fai e Touring.

Altre tariffe speciali per famiglie. Informazioni, prenotazioni e prevendita biglietti 0292800821 – visite guidate e didattica 0239469837 – 0220404175

VENERE E MARTE

“Non si sdegni Apelle di essere eguagliato a Sandro: già il suo nome è noto ovunque”.
(Ugolino di Vieri, Epigrammata III, 23)
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VENERE E MARTE
Venere e Marte è un dipinto a tempera su tavola (69×173 cm) di Sandro Botticelli, databile al 1482-1483 circa e conservato alla National Gallery di Londra. L’opera viene in genere datata a dopo il ritorno dal soggiorno romano (1482), per gli influssi classicheggianti che l’autore avrebbe potuto studiare sui sarcofaghi antichi della città eterna. Essa viene inoltre messa in relazione con gli altri grandi dipinti della serie mitologica, commissionati forse dai Medici: la Primavera, la Nascita di Venere e la Pallade e il centauro. La presenza delle vespe nell’angolo in alto a sinistra ha anche fatto pensare che si trattasse di un’opera commissionata dai Vespucci, già protettori di Botticelli, magari in occasione di un matrimonio. Il formato orizzontale farebbe così pensare alla decorazione di un cassone o di una spalliera. La scena raffigura Venere mentre osserva, consapevole e tranquilla, Marte dormiente, distesi su un prato e circondati da piccoli fauni che ruzzano allegri con le armi del Dio. I satiri sembrano tormentare Marte disturbando il suo sonno, mentre ignorano del tutto Venere, vigile e cosciente: uno ne ha l’elmo che gli copre completamente la testa mentre, con un altro, ruba furtivo la lancia di Marte; un altro sta per suonare un corno di conchiglia nell’orecchio del dio per svegliarlo; un quarto fa capolino dalla corazza sulla quale il dio è adagiato. Nonostante il contorno scherzoso dei fauni, nel dipinto serpeggiano anche elementi di inquietudine, come il sonno spossato e abbandonato di Marte o lo sguardo lievemente malinconico di Venere. Il significato del dipinto è oscuro, ma quasi sicuramente andava letto secondo le tematiche filosofiche dell’Accademia neoplatonica. In particolare sarebbe la figurazione di uno degli ideali cardine del pensiero neoplatonico, ossia l’armonia dei contrari, costituita dal dualismo Marte-Venere. La fonte d’ispirazione di Botticelli sembra ragionevolmente essere infatti il Symposium di Ficino, in cui si sosteneva la superiorità della dea Venere, simbolo di amore e di concordia, sul dio Marte, simbolo di odio e discordia (era infatti il dio della guerra per gli antichi). Secondo il critico Plunkett il dipinto riprenderebbe puntualmente un passo dello scrittore greco Luciano di Samosata, in cui viene descritto un altro dipinto antico raffigurante le Nozze di Alessandro e Rossane, in cui alcuni amorini giocavano con la lancia e l’armatura del condottiero. La scena sarebbe un’allegoria del matrimonio, in cui l’Amore, impersonato da Venere, ammansirebbe la Violenza, di cui Marte è la personificazione. L’opera potrebbe dunque essere stata realizzata per il matrimonio di un membro della famiglia Vespucci, protettrice dei Filipepi (come dimostrerebbe l’inconsueto motivo delle api in alto a destra) e quindi questa iconografia sarebbe stata scelta come augurio nei confronti della sposa. È anche possibile però che gli insetti simboleggino semplicemente le “punture”, cioè le spine dell’amore. Marte starebbe vivendo la “piccola morte” che segue l’atto sessuale, che neanche uno squillo di tromba nelle orecchie riesce a destare; il fatto che i faunetti lo abbiano depredato della lancia simboleggia anche il suo disarmo davanti all’amore. Un’altra interpretazione possibile è quella dell’incontro tra Venere, raffigurante i piaceri catastematici, e Marte, i piaceri dinamici, presente nel proemio dell’opera De rerum natura del poeta latino Lucrezio. Nell’opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche dell’arte di Botticelli. La composizione è estremamente bilanciata e simmetrica, che può anche sottintendere la necessità di equilibrio nell’esperienza amorosa. Il disegno è armonico e la linea di contorno tesa ed elastica definisce con sicurezza le anatomie dei personaggi, secondo quello stile appreso in gioventù dall’esempio di Antonio del Pollaiolo. A differenza del suo maestro però, Botticelli non usò la linea di contorno per rappresentare dinamicità di movimento e sforzo fisico, ma piuttosto come tramite per esprimere valori anche interiori dei personaggi. L’attenzione al disegno inoltre non si risolve mai in effetti puramente decorativi, ma mantiene un riguardo verso la volumetria e la resa veritiera dei vari materiali, soprattutto nelle leggerissime vesti di Venere. I colori sono tersi e contrastanti, che accentuano la plasticità delle figure e l’espressionismo della scena. Grande attenzione è riposta nel calibrare i gesti e le torsioni delle figure, che assumono importanza fondamentale.

Lucica Bianchi

 

UMANESIMO. FILOSOFIA E CULTURA

 

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Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, 1509-1511, Musei Vaticani, Città del Vaticano 

Nel Medioevo la filosofia era un’attività svolta soprattutto nelle università e nelle scuole cattedrali. Dalla seconda metà del Trecento, lentamente, le cose cominciano a cambiare: i filosofi non sono più necessariamente professori o appartenenti a ordini monastici o comunque persone legate al mondo ecclesiastico. Si viene formando, innanzi tutto in Italia, una nuova classe intellettuale: funzionari politici, cancellieri, segretari, burocrati, amministratori. Alla vita contemplativa e allo studio nelle università molti di loro preferiscono l’impegno nell’attività pubblica. Allo studio assegnano compiti civili, pedagogici, politici, anche di critica della società. È un grande cambiamento culturale. Il ritrovamento di testi del pensiero antico andati perduti durante il Medioevo, la diffusione della conoscenza del greco, la nascita della filologia, un nuovo senso della storia, l’amore per la cultura classica (i cosiddetti studia humanitatis, cioè gli studi letterari, storici e filosofici) consentono dopo secoli di leggere Platone e Aristotele nella lingua originale e danno nuovo impulso al pensiero. La lettura degli antichi alimenta negli umanisti una rivalutazione delle possibilità dell’uomo e delle sue opere: gli eroi e gli autori del mondo greco e romano diventano esempi di virtù da imitare. Sarà soprattutto Platone, praticamente sconosciuto di prima mano nel Medioevo, a segnare la filosofia dalla seconda metà del Quattrocento alla fine del Cinquecento, anche se l’aristotelismo continua a essere dominante nelle università. È un Platone letto alla luce del neoplatonismo e riconciliato con il cristianesimo nella convinzione che le verità della filosofia, compresa quella pagana, facciano parte di una sapienza originaria, in cui erano anticipati o adombrati i contenuti, se non la lettera, della Rivelazione. Di questa sapienza fanno parte anche gli scritti cosiddetti “magico-ermetici”, perché allora attribuiti al mitico Ermete Trismegisto. Il Rinascimento sarà infatti anche il “tempo dei maghi”. Si comprende poco di questa straordinaria e complessa epoca se si dimentica che, per quanto strano possa sembrare oggi, allora il mondo della magia non era ai margini, ma al centro della grande cultura europea. Il Rinascimento è un’epoca di grandi contrasti: dibattiti sull’anima ma anche sull’astrologia, esaltazioni delle capacità e della «dignità» dell’uomo ma anche forme di scetticismo radicale, ricerca del vero nella contemplazione filosofica ma anche rivalutazione delle arti meccaniche e delle tecniche, della ricerca empirica e dell’osservazione diretta delle cose. Tutti aspetti decisivi e gravidi di conseguenze.

L’Umanesimo nasce in Italia. Le ragioni sono molte. Innanzitutto, in Italia si era sviluppata la civiltà dei comuni, la cui vita politica, culturale ed economica era vivacissima. Erano sorte scuole cittadine per la formazione di personale burocratico e politico, in cui si studiavano i classici come modelli per scrivere lettere, discorsi e altri documenti amministrativi. In seguito, con la nascita delle signorie, le corti attrassero gli intellettuali; spesso i signori svolsero un ruolo importante nel promuovere l’arte, la cultura, lo studio. Inoltre, in Italia erano molte le testimonianze dell’antico impero romano: monumenti, opere d’arte, manoscritti, codici. Per la posizione strategica nel Mediterraneo, infine, l’Italia deteneva il monopolio dei rapporti con i paesi del Medio Oriente, e quindi era un facile approdo per gli intellettuali dell’impero bizantino. Intellettuali e funzionari politici Gli umanisti furono spesso funzionari al servizio di un signore: davano consulenza legale, scrivevano lettere ufficiali e compivano ambasciate. Alcuni furono al servizio della Repubblica di Firenze, come Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1374-1444); altri operarono presso la curia pontificia: lo stesso Bruni, ma anche Pietro Paolo Vergerio (1370-1444), Poggio Bracciolini (1380-1459), Leon Battista Alberti (1404-1472). Altri centri della cultura umanistica furono Napoli e le principali città delle signorie padane: Milano, Pavia, Verona, Mantova, Bologna, Venezia, Ferrara.

 

 

Durante il Medioevo erano stati pochi gli intellettuali in grado di comprendere e tradurre la lingua di Platone e Aristotele. In Italia tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento giunsero a più riprese intellettuali bizantini che insegnarono il greco, alcuni su invito degli umanisti, altri al seguito dell’imperatore Giovanni Paleologo durante il concilio di Ferrara nel 1438 (che proseguì il concilio iniziato a Basilea nel 1431) e quello di Firenze nel 1439 (in cui si tentò la riconciliazione tra la Chiesa occidentale e la Chiesa greca, divise da secoli), altri ancora dopo la presa di Costantinopoli (1453) da parte dei turchi. Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento arrivò in Italia Manuele Crisolora che insegnò a Firenze e a Pavia. Negli anni successivi arrivarono Giorgio Gemisto (1355-1452), detto Pletone (parola dallo stesso significato di Gemisto, cioè “pieno”, ma dal suono simile a quello di “Platone”); Giorgio Trapezunzio (1395-1484), traduttore dal greco; Giorgio Scholaris (1405-post 1472), detto Gennadio; Teodoro Gaza (1411-1475), giunto in Italia per il concilio di Ferrara e rimastovi come insegnante e traduttore; Giorgio Argiropulo (1410-1491), insegnante di greco e traduttore; Giovanni Bessarione (1403-1472), che fu vescovo di Nicea e poi cardinale. Grazie all’insegnamento di questi intellettuali si cominciarono a leggere le opere di Platone e Aristotele nella lingua originale. Vi furono nuove versioni dal greco: Bruni tradusse l’Etica e la Politica di Aristotele, il monaco camaldolese Ambrogio Traversari (1386-1439) le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio e i testi dei Padri della Chiesa d’Oriente. La riscoperta di Platone era destinata ad avere una importanza decisiva soprattutto nella cultura del Rinascimento. Nel Medioevo l’opera completa di Aristotele fu conosciuta tardi – risulta in circolazione soltanto tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo – ma Platone era noto solo attraverso un frammento del Timeo tradotto e commentato nel IV secolo dal neoplatonico cristiano Calcidio, o grazie a fonti di seconda mano. Traduzioni latine del Menone e del Fedone compiute intorno alla metà del XII secolo avevano avuto scarsa circolazione. Nell’impero bizantino, invece, la conoscenza di Platone non era venuta meno. Gli intellettuali bizantini diedero anche vita a una polemica sul primato di Platone o Aristotele, e su quale dei due sostenesse tesi vicine alle dottrine cristiane riguardanti la trascendenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la Trinità. Gli umanisti cercarono di ricostruire il testo originale delle opere antiche, di capire il significato di parole che nel tempo erano state usate in modo diverso. Ma la filologia non fu solo espressione di erudizione e di amore del passato: nella battaglia culturale in cui gli umanisti si impegnarono, la filologia divenne uno strumento di studio della verità delle tesi esposte nelle opere. Per fare questo, occorreva tenere conto che un testo era stato scritto in un determinato periodo storico, quando vigevano certi usi linguistici e non altri, quando erano circolanti alcune tesi filosofiche e non altre. Per gli umanisti la comprensione della verità del testo presupponeva insomma la comprensione del contesto intellettuale e della lingua utilizzata; in caso contrario, la comprensione era falsata. Bruni ad esempio sostenne che Aristotele era stato tradito dalle traduzioni latine e reso estraneo a se stesso. La filologia umanistica porto le prove inconfutabili in un caso molto importante. Lorenzo Valla (1405-1457) dimostrò nel 1440 che la cosiddetta Donazione di Costantino era un falso.

 

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Donazione di Costantino, Oratorio di San Silvestro, Roma 

Secondo questo documento, quell’imperatore aveva donato al Papa l’intero Impero romano d’Occidente. Per secoli la Chiesa aveva fatto valere questo scritto come giustificazione del suo primato sul potere temporale dei sovrani. Valla dimostrò che non poteva risalire all’epoca di Costantino, perché vi comparivano termini burocratici che non potevano essere in uso allora. Inoltre il testo dava per scontata la supremazia di Roma sulle altre Chiese, che a quel tempo non si era ancora affermata. Anche il Codice giuridico giustinianeo, che continuava a essere preso come riferimento per la legislazione, fu oggetto di indagine. Filologia e Sacre scritture Non rimasero immuni dallo studio dei filologi nemmeno le Sacre scritture. Vi fu chi trattò l’Antico Testamento come una cronaca di eventi storici, suscettibile di analisi, correzioni e integrazioni. Sulla base dell’originale greco, Valla corresse il testo allora circolante del Nuovo Testamento. Tutto ciò non poteva non avere importanti conseguenze sulle questioni dottrinali, nelle quali molti umanisti, in primo luogo lo stesso Valla, furono quindi impegnati.

Lorenzo Valla

Lorenzo Valla

 

Anche se molti umanisti insegnarono nelle università discipline come grammatica, retorica e filosofia morale, la polemica fra la nuova cultura umanistica e la vecchia cultura universitaria fu forte. Bersaglio degli umanisti fu Aristotele, ma soprattutto l’aristotelismo: ai loro occhi era assurdo l’ossequio verso un filosofo che, come scrisse Petrarca, era solo un uomo, per quanto grande, quindi non aveva potuto capire certe verità. Aristotele, disse Valla, non si era impegnato nelle opere civili che rendono grandi gli uomini. Per molti versi Lorenzo Valla, diviso tra l’insegnamento di retorica ed eloquenza e l’impiego di segretario, prima presso Alfonso d’Aragona di Napoli e poi a Roma come segretario apostolico, è il modello dell’intellettuale umanista, in cui si uniscono attività politica, ricerca filologica, culto degli antichi e valorizzazione dell’uomo. Valla esprime una netta condanna della filosofia del tempo e lancia un progetto di riforma. La filosofia, sostiene, ha perduto l’originario amore per la sapienza e si è trasformata in una sorta di professione, degenerata nel mero commento dei testi altrui e nell’uso di un linguaggio barbaro e rozzo, il cui tecnicismo serve solo a celare il vuoto del pensiero e a creare confusione. Perché non usare invece un linguaggio più vicino a quello corrente e nello stesso tempo più chiaro ed elegante? Occorre volgersi ad altri modelli, come Platone e Cicerone, che coltivarono sia l’amore per il sapere sia quello per lo stile letterario. L’attacco al linguaggio della Scolastica Valla sottopone a una critica serrata e a una vera e propria “potatura” il linguaggio tecnico della logica e della metafisica, sulla base di criteri grammaticali e di correttezza linguistica: termini come ens (“ente”) o haecceitas gli sembrano “oscuri e barbari”, anzi “in gran parte sciocchi”. Dall’uso incolto della lingua erano sorti termini a cui non corrispondeva nulla. Ad esempio, al termine ens, che giudica troppo astratto e privo di vero significato, Valla preferisce il più concreto res (cosa). Neppure la teologia viene risparmiata dalla critica. Valla rifiuta le dispute teologiche tipiche delle università e propugna una teologia che esponga la Bibbia secondo i nuovi metodi filologici. Rimprovera ad Agostino e Tommaso di aver commesso errori per ignoranza del greco, lingua dell’Antico e Nuovo Testamento. Rimprovera a Severino Boezio e Giovanni Damasceno di aver parlato da filosofi in teologia, introducendo la metafisica e la dialettica in un ambito dal quale dovevano restare fuori e fornendo così un pessimo esempio agli autori successivi. Per Valla, lo studio della Bibbia deve essere condotto senza l’ausilio della filosofia aristotelica e delle sue interpretazioni universitarie. La teologia, come forma di sapere superiore, non ha bisogno della filosofia. Questo uso indebito non ha fatto altro che generare eresie. La filosofia non può pretendere di sostituirsi alla visione cristiana del mondo, la quale garantisce la vera felicità anche in questa vita.

La contrapposizione tra la virtù degli uomini e i beffardi disegni della sorte è un tema ricorrente nella cultura umanistica. Era ereditata dalla cultura romana, nella quale Fortuna era una divinità incostante, pronta a portare gli uomini in un attimo dal successo alla miseria e viceversa. Per gli antichi romani, però, Fortuna poteva essere domata dall’uomo virtoso, una tesi che gran parte degli umanisti fece propria. Il termine “fortuna”, dunque, non aveva il significato positivo che ha oggi, ma indicava gli eventi imprevisti che potevano opporsi ai progetti umani. La lotta contro la sorte era ritenuta una caratteristica dei grandi uomini. Solo grazie alla virtù l’uomo può avere la meglio sulla Fortuna e sperare di raggiungere l’eccellenza.

La ruota della fortuna in De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio

La ruota della fortuna in De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio

Per Leon Battista Alberti la virtù trionfa sulla sorte avversa e fa approdare alla gloria. Gli uomini sono pienamente responsabili dei loro beni e dei loro mali. “Tiene giogo (cioè rende servi) la fortuna solo a chi se gli sottomette”, scrive Alberti: è la mancanza di virtù a rendere forte il fato e mandare in rovina gli uomini. Per compensare la loro fragilità, gli uomini devono sviluppare le migliori tendenze della loro natura, facendo leva sulla forza d’animo. La virtù, secondo Alberti, consiste nell’azione morale e politica nella città e nelle relazioni umane. A essa si accompagna la ragione, che distingue gli uomini dagli animali. La virtù crea un mondo costituito da volontà giuste e opere oneste. La dimensione dell’uomo è l’impegno, perché l’uomo non è nato per “marcire giacendo”. È in questo modo, e non nell’isolamento, che l’uomo obbedisce veramente alla volontà di Dio e raggiunge la felicità. È evidente a questo punto che la virtù a cui pensano gli umanisti non è una virtù ascetica. Ad esempio, nei Libri della famiglia (1443) di Alberti la riflessione etica si intreccia con l’aspetto economico. Alberti esalta l’importanza della cura della “masserizia”, cioè della proprietà terriera e della casa padronale, come un ambito in cui si sviluppa la virtù della moderazione. Nello spiegare come vadano gestite le ricchezze della casa, ripropone il tema stoico della “indifferenza” dei beni materiali: non conta il possesso, ma l’uso che se ne fa. Perciò sia l’avarizia sia lo sperpero vanno condannati. La ricerca del profitto è invece lodata, purché sia condotta con prudenza e onestà. Virtù e razionalità devono essere componenti dell’agire umano in ogni ambito, anche in quello economico.

Attraverso riflessioni come queste si fanno largo nell’Umanesimo temi in contrasto con quelli tradizionali della cultura cristiana: il motivo della fortuna e della responsabilità umana, che relegano in secondo piano quello della Provvidenza; la considerazione positiva della ricerca degli onori e della virtù civica, condannata dalla Chiesa come forma di vanità; la fiducia nelle capacità dell’uomo e la valorizzazione delle opere, in contrasto con l’immagine dell’uomo debole, fragile, incapace che emergeva spesso dalla letteratura religiosa e con il pessimismo che pervadeva larga parte della cultura medievale. L’uomo è chiamato a realizzare la propria natura, le proprie capacità, prendendo esempio dai grandi personaggi dell’antichità.

 

a cura di Lucica Bianchi

L’UMANITA’ DI CRISTO NELL’ESTETICA RINASCIMENTALE

http://www.ambrosiana.eu/…/Ar…/20141119_III-Lettura_Arte.pdf

 

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Mercoledì 26 novembre giunge il terzo appuntamento con le Letture d’arte presso la Pinacoteca Ambrosiana.
Il tema dell’incontro vede il Rinascimento vestirsi di raffinati contenuti cristologici, indagati dalla storica dell’arte Federica Spadotto nella prospettiva del confronto.
I codici estetici di questo fondamentale periodo verranno messi in relazione con gli omologhi medioevali ed i futuri esiti controriformisti, in una prospettiva d’indagine iconologica densa di fascino e significati « non sospetti ».
L’ampio excursus attraverso i capolavori di Bramantino, Bernardino Luini e Tiziano conservati nella Pinacoteca, si accompagnerà al confronto con esemplari nordici contemporanei, nello spirito di un redivivo classicismo pervaso di cristianità.
Presiede Mons. Franco Buzzi, Prefetto dell’Ambrosiana.
http://www.ambrosiana.eu/cms/letture_d_arte-2317.html
Segreteria di progetto « Letture d’arte »
(dr. Fabrizio Dassie)
Informazioni:
letturearteambrosiana@gmail.com

 

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BRAMANTINO, Madonna col Bambino, Santi Ambrogio e Michele, Pinacoteca Ambrosiana

 

 

LEONARDO DA VINCI e il TRATTATO DELLA PITTURA

 

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Quando, dopo la morte di Leonardo da Vinci, Francesco Melzi tornò in Italia, essendo stato nominato erede universale, portò con sé tutto quanto si trovava nelle stanze messe a disposizione del Maestro nel Castello di Amboise.

Il materiale ereditato consisteva essenzialmente nelle carte sulle quali Leonardo aveva per tutta la vita trascritto appunti e tracciato pensieri artistici e scientifici; come si può ben immaginare si trattava di una mole sterminata di fogli che interessavano i mille argomenti che nel corso della sua esistenza avevano occupato la mente di quello che ancora oggi è ritenuto il più grande genio mai apparso fra gli uomini.

Francesco Melzi tenne fedelmente con sé tutto il materiale, avendone grande cura fino alla morte, avvenuta nel 1570. Consultò e usò quel materiale per costituire il cosiddetto Libro di Pittura,noto anche come Trattato della Pittura di Leonardo, raccogliendo in un unico manoscritto-il Codice Vaticano Urbinate Latino 1270 della Biblioteca Apostolica Vaticana- scritti e pensieri sparsi del Maestro riguardanti la pittura, citando anche fogli che ora non sono più reperibili. Frutto del genio poliedrico di Leonardo, il “Trattato” è la summa del suo pensiero pittorico e rappresenta una delle espressioni più alte e significative del Rinascimento.

“La pittura si estende nelle superficie, colori e figure di qualunque cosa creata dalla natura, e la filosofia penetra dentro ai medesimi corpi, considerando in quelli le lor proprie virtú, ma non rimane satisfatta con quella verità che fa il pittore, che abbraccia in sé la prima verità di tali corpi, perché l’occhio meno s’inganna.”

L’ultimo decennio del secolo ventesimo sarà ricordato nella storia degli studi vinciani per la posizione centrale assunta dal Trattato o Libro di Pittura. Nel 1992 è apparso il libro di Claire J. Farago con un’analisi estesa e approfondita in direzione del testo e delle fonti dedicate alla prima parte del Libro, nota come “Paragone” o “Paragone delle Arti”. Nel 1995 viene stampata preso Giunti la nuova edizione, corredata di facsimile, del testo conservato nel Codice Vaticano Urbinate 1270, a cura di Carlo Pedretti e Carlo Vecce, cui viene restituita l’intitolazione appropriata di Libro di Pittura, dopo che, a partire dalla prima edizione (di un testo incompleto) del 1651, l’opera aveva acquisito il titolo di Trattato della Pittura. Nel 1989 era apparsa, per cura di Kemp e Walker una raccolta cospicua di scritti leonardeschi sulla pittura.

Viene così data risposta alle attese degli studiosi di Leonardo di cui si era fatto interprete, nel 1982, Sir Ernst H. Gombrich nell’intervento con cui prese parte alle celebrazioni per il quinto centenario della venuta di Leonardo a Milano. In quella occasione Gombrich notava che le proposte e le osservazioni contenute nel Libro della Pittura erano state studiate meno compiutamente che non il corpus leonardesco degli studi anatomici o le sue ricerche di meccanica. E poneva tra le aspirazioni degli studiosi una nuova edizione del Libro che prendesse in esame “il rapporto tra teoria e pratica in Leonardo, il valore e lo scopo di ogni sua annotazione e la relazione esistente tra la sua concezione e la tradizione in cui si inserisce.”

I motivi di questa tardiva considerazione per la silloge allestita da Francesco Melzi devono essere ricercati nella diffidenza degli studiosi di fronte a una compilazione che ci dà, oltre le conoscenze, la misura dell’entità del lascito leonardesco che è andato perduto, se si considera che solo un terzo del materiale raccolto nel Libro della Pittura è attestato da autografi sopravvissuti. Tuttavia, la nuova attenzione concentrata sul Libro ha permesso di avvalorare l’ipotesi del Pedretti secondo cui la raccolta melziana che è ora il Codice Vaticano Urbinale Latino 1270, non sia stata semplice iniziativa postuma dell’allievo, ma sia stata iniziata insieme, tra maestro e discepolo, ospiti di Francesco I, negli ultimi anni di vita del Maestro. Le indagini di Carlo Vecce hanno inoltre dimostrato che il manoscritto Vaticano fu allestito con caratteristiche che fanno pensare all’intento dei suoi autori per una destinazione tipografica dell’opera.

Il primo capitolo del “Paragone”, che è l’atrio dell’intero Libro di Pittura, si pone la questione se “la pittura sia scienzia o no”. Alla domanda Leonardo risponde per un verso definendo “scienzia” in termini aristotelici, “Il discorso mentale il qual ha origine da suoi ultimi principi”, per un altro negando che abbiano verità le scienze che “principiano e finiscano nella mente”, senza il controllo dell’esperienza.

“Io credo che invece che definire che cosa sia l’anima, che è una cosa che non si può vedere, molto meglio è studiare quelle cose che si possono conoscere con l’esperienza, poiché solo l’esperienza non falla. E laddove non si può applicare una delle scienze matematiche, non si può avere la certezza.”.

E’ la posizione stessa di Leonardo. Se noi lo seguiamo nello svolgersi della sua attività e del suo pensiero su un filo cronologico, noi vediamo chiarissimo che il suo punto di partenza è la pittura: egli comincia a studiare l’anatomia per meglio rappresentare la figura umana (Codice Atlantico, foglio 444r-studi per un dispositivo di scavo, con studi anatomici del corpo umano); egli comincia a studiare la geometria a scopo di rappresentare la prospettiva dello spazio(Codice Atlantico, foglio 784-fondamenti della geometria e della pittura); i suoi studi sulle ombre sono in relazione alla sottigliezza del suo chiaroscuro ed anche i suoi studi di meccanica sono facile riconducibili  alla pratica delle botteghe artistiche fiorentine quattrocentesche (Codice Atlantico,foglio 816r-studi di meccanica, annotazioni su ombre e lumi e sulle nuvole).

E’ cosa straordinaria come in lui perpetuamente arte e scienza rampollino l’uno dall’altra, inesauribilmente; ma è altrettanto vero che proprio in lui si può cogliere alla radice, il diramarsi l’una dall’altra: diramarsi che in tutta la sua opera ci fa tornare al cepo originario, che costituisce anche l’avvio stesso all’autonomia della scienza e dell’arte.

“Se tu sprezzerai la pittura, la quale è sola imitatrice di tutte l’opere evidenti di natura, per certo tu sprezzerai una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme, aire e siti, piante, animali, erbe e fiori, le quali son cinte d’ombra e lume. E veramente questa è scienzia e ligittima figliola di natura, perché la pittura è partorita da essa natura, ma, per dire più corretto, diremo nipote di natura, delle quali cose partorite è nata la pittura; adunque rettamente la dimanderemo nipote di natura e parenti di Dio…”

 

 

a cura di Lucica Bianchi

(le citazioni in corsivo sono estratte dal Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci)

 

Biografia consultata:

A.Marinoni, op.cit.

A Marinoni, I manoscritti di Leonardo da Vinci e le loro edizioni in Leonardo Saggi e Ricerche, Roma, 1954

Claudio Scarpati, Leonardo scrittore, Vita e Pensiero Editore, Milano,2001

A.M.Brizio, Scritti scelti di Leonardo, Torino, 1952

Scritti di storia dell’arte in onore di Lionello Venturi, Vol I, De Luca Editore, Roma, 1956

 

SCULTURA NEL RINASCIMENTO – LA “PIETA'”

 

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Realizzata da Michelangelo alla fine dell’Quattrocento durante il suo primo soggiorno romano, la Pietà vaticana è una delle prime sculture dell’artista fiorentino. Gli fu commissionata dal colto cardinale francese Bilhères de Lagraulas, ambasciatore di Carlo VIII  e fu realizzata su modello dei dipinti e delle statue nordiche di medesimo soggetto.

Lo scultore crea un’opera di medie dimensioni e carica di eleganza, pathos e drammaticità sussurrata. La Madonna, coperta da un’ampia e drappeggiata veste e con le fattezze di una giovane donna che non ha conosciuto il peccato, tiene sulle ginocchia con dolcezza e rassegnazione il corpo senza vita del Figlio. Cristo, cinto in vita da un semplice velo, esprime attraverso il volto contratto e le membra abbandonate tutto il dolore e lo strazio di chi invece si è fatto carico delle brutture del mondo intero.

La Pietà, dettaglio con il volto di Cristo.

La Pietà, dettaglio con il volto di Cristo.

Il gruppo scultoreo, di forma piramidale, è realizzato con una perfezione tecnica e un’eleganza formale propri di Michelangelo e mostra una bellezza quasi ideale nei volti. I corpi sono modellati morbidamente e carichi di grazia e armonia, mentre i visi sono delicati e scolpiti finemente. 

La Pietà, dettaglio con il volto della Madonna.

La Pietà, dettaglio con il volto della Madonna.

 

C’è un’estrema compostezza nei gesti e nelle espressioni che conferisce solennità alla scena. Il dolore di una madre per la perdita del figlio, che qui si carica di valore universale, non è urlato né esibito con violenza, ma è trattenuto e racchiuso nell’infinita dolcezza e accettazione con cui la Madonna sorregge Cristo, ma questo gesto rende la sofferenza ancora più straziante.

La materia è levigata con estrema cura, tanto da dare alla superficie un aspetto lucido e quasi trasparente.L’opera è stata firmata  dall’artista per evitare false attribuzioni: sul busto della Madonna si legge infatti la dichiarazione orgogliosa: Michaelangelus Bonarotus florent(inus) faciebat. 

Inizialmente destinata dal suo committente alla chiesa di Santa Petronilla, la Pietà è oggi una delle maggiori attrattive della Basilica di San Pietro in Vaticano.

 

                                                                                                                                                                                                                                            Lucica

 

 

fonte: Guida alla Basilica di San Pietro, Città del Vaticano

LE BELLE ARTI

Cristo crocifisso in un dipinto italiano del XIII secolo, le cui caratteristiche stilizzate seguono il disegno e gli schemi tradizionali.

Cristo crocifisso in un dipinto italiano del XIII secolo, le cui caratteristiche stilizzate seguono il disegno e gli schemi tradizionali.

La definizione delle “belle arti” si adatta a quel tipo di musica, di poesia, di prosa, di pittura, di scultura, di architettura eccetera, in cui sentiamo la forte influenza della personalità dell’artista.

Questo termine distingue ad esempio la letteratura dal giornalismo, una sinfonia da una canzone di successo, un capolavoro della pittura da un manifesto e una scultura in marmo da una statuina di cera.

sotto, Cristo dipinto da Giotto, l'artista fiorentino che ruppe la tradizione medioevale e seppe infondere nelle proprie opere la sua personalità creativa e una piena conoscenza della validità della realtà umana.

Cristo dipinto da Giotto, l’artista fiorentino che ruppe la tradizione medioevale e seppe infondere nelle proprie opere la sua personalità creativa e una piena conoscenza della validità della realtà umana.

Tali distinzioni sono ovviamente esatte solo in linea molto astratta e generica. E’ la qualità dell’idea dell’artista e della relativa realizzazione in una forma d’arte che giustifica l’uso della definizione “belle arti” per descrivere quell’opera.

Lo scopo ci dà un altro mezzo per capire la definizione di cui sopra: le “belle arti”, infatti, non hanno uno scopo immediato e facilmente definibile. Un buon lavoro di ebanisteria è in fondo un mobile e ha uno scopo preciso, ma molti buoni dipinti non hanno una funzione così immediata e ovvia, se si eccettua un certo fine decorativo, che è tuttavia sempre limitato.

L’artista, sempre inteso nel significato pieno del termine, usa questa libertà per cercare nuove idee, per trovare nuove forme di espressione. In questo senso, lo studio di un artista è come un laboratorio scientifico: come lo scienziato tenta incessantemente di estendere con nuove scoperte i confini della conoscenza, così l’artista nel suo lavoro cerca continuamente di trovare migliori e nuovi modi d’espressione. E ancora, come le scoperte dello scienziato sono sfruttate dai tecnici e dall’industria, così l’opera dell’artista favorisce nuovi sviluppi delle arti di massa.

Dato che l’opera dell’artista è spesso sperimentale, è difficile capirla a prima vista e questa asserzione è particolarmente vera per quanto riguarda le arti del XX secolo. Le opere del Rinascimento, del resto, contenevano  elementi immediatamente interpretabili, ma anche elementi che erano contemporaneamente profondi e sottili, cosa non facile a essere spiegata in poche parole. Per capire esattamente, dobbiamo infatti passare parecchio tempo in una galleria di dipinti del Rinascimento. Dopo un certo periodo, ci accorgiamo di aver progredito dallo stadio iniziale, in cui vedevamo i dipinti come pure e semplici illustrazioni di certi avvenimenti, a uno stadio in cui incominciamo a intravedere il mondo sotto una nuova prospettiva, una prospettiva che è in certo qual modo espressa dai quadri.

Se si vuole apprezzare l’opera di un artista, bisogna perciò rinunciare ai giudizi-lampo e studiarla con pazienza. Questo è vero, particolarmente oggi, quando l’artista, come accade in molte altre professioni, è divenuto uno specialista: cinquecento anni fa un uomo colto si poteva interessare di quasi tutto lo scibile del suo tempo, mentre oggi sono pochi gli industriali che pretendono di capire che cosa fanno i loro impiegati-scienziati. Ciò è valido anche per l’artista: non possiamo aspettarci di capire la sua opera ad un primo sguardo.

Data la difficoltà di spiegare in termini semplici le creazioni delle “belle arti”, molti critici d’arte ripiegano sull’idea che si debba essere nati con una speciale “simpatia”(cioè compartecipazione) per poter capire l’opera di un artista. Ma la comprensione non è così semplice: richiede una grande pazienza, la buona volontà di apprendere dall’opera d’arte stessa, di ascoltare e di leggere a lungo.

Marta Francesca,Matilde,Lucica