PER UNA STORIA DEL DIAVOLO NELLA SUA VITA PUBBLICA E PRIVATA

LOREDANA  FABBRI

“Gli estremi si toccano, il serio torna spesso al ridicolo”

Il diavolo ha il potere di comparire agli uomini

in forme seducenti e ingannatorie”

(Shakespeare)

 

“E’ il diavolo a lottare con Dio, e il loro campo di battaglia

è il cuore degli uomini”

(F. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov)

 

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Codex Gigas, ossia “Codice Gigante”: un manoscritto enorme, del peso di 75 chilogrammi, lungo quasi un metro, 50 centimetri di larghezza e circa 20 di spessore. Al di là delle dimensione, questo codice, passato da religiosi a sovrani, tra cui Cristina di Svezia, miracolosamente salvatosi da un incendio, e oggi custodito a Stoccolma, nella Biblioteca Nazionale, è noto, alla luce del contenuto, con un altro nome, piuttosto sinistro: la Bibbia del diavolo. Oltre alle Sacre Scritture, a opere di Isidoro di Siviglia, Giuseppe Flavio e altri, contiene esorcismi e scongiuri, ma soprattutto una enorme, inusuale, inspiegabile immagine a tutta pagina del diavolo, circondato da ombre e incorniciato dentro un anomalo riquadro (nella foto).

Il diverso grado di credenze, con la quale il lettore s’accinge a percorrere questa breve, ma veridica istoria, determinerà l’importanza, il diletto ed il terrore, che potrebbe inspirare e la ragione di coloro che non si piegano a credere quanto non trovino fortemente dimostrato, senza sconoscere che le tradizioni cattoliche sceverate dalla superstizione, hanno il merito d’essere conseguenti, accoglierà questo lavoro quale documento abberazioni dell’umana fantasia, della umana severità per l’errore ed ingegnosa potenza a tormentarsi con enti fittizi, come se la realtà di mille altri non ci soprastasse premendo inesorabilmente oltre la misura ordinaria della pazienza! […]. Se il Diavolo è una infelice invenzione dell’uomo, perché pure lo ha inventato tremarne e deriderlo, per foggiarlo a suo talento?

 

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I dannati, particolare del Giudizio universale, Michelangelo, Cappella Sistina, Vaticano

Ma intanto quale è questo spirito delle tenebre, uomo, serpente o dragone che sovrasta volando sull’orizzonte di tutti i tempi? Nel cielo egli bestemmia e si butta cogli angeli, sulla terra inganna e precipita l’uomo e si serve di questo “ come d’un cavallo cui sprona e conduce a suo talento”; ei lo affligge, lo tormenta, lo stimola al peccato, e, nell’abisso, il fornisce d’aver peccato e d’essergli stato obbediente>>. [1]

Nel 1842 viene pubblicato un articolo di CH. Louandre: “Le Diable, sa vite, ses moeurs et son intervention dans les choses humaines”, in “Revue des deux mondes, 4ème série, tome 31, 1842”, di cui l’autore era collaboratore. Lo scrittore, figlio dello storico francese Francois César Louandre, nacque ad Abbeville nel 1812 e si laureò in lettere a Parigi, dove dette il suo contributo a diverse opere del tempo e alla “Revue des Deux Mondes” dal 1842 al 1854. Scrisse numerosi articoli di storia e archeologia. Nel 1855 divenne redattore del “Journal of General Education”. Numerose le sue opere tra cui “La sorcellerie” del 1852. Morì nel 1882.[2]

L’autore anonimo del manoscritto da noi reperito scrive quasi certamente nella seconda metà dell’Ottocento, in quanto si tratta della traduzione, probabilmente dal francese (esiste una copia edita a Porto nello stesso anno in lingua portoghese) dell’opera summenzionata, seguendo il testo originale ma arricchendo talvolta anche con considerazioni personali.

L’argomento centrale di tale opera è, ovviamente, Satana onnipossente, onnipresente in tutte le epoche e in tutti i luoghi come signore malefico e nemico dell’umanità, verso la quale egli è sempre in lotta, anche se poi ci saranno tempi in cui la stregoneria sarà il mezzo con cui gli uomini invocheranno il Maligno per carpirgli i segreti che daranno potere e ricchezze, cioè per concretizzare il sogno che tutti gli esseri umani, di qualsiasi condizione sociale e in qualsiasi tempo, hanno sempre cullato dentro di loro e senza scrupoli si sono “venduti” al Diavolo.

Il presente articolo è basato sulla trascrizione di un manoscritto che a sua volta è la trascrizione di un’opera edita, quindi un riassunto di entrambi, qualcosa di più agevole e più veloce per la lettura, insomma una sintesi del manoscritto reperito. L’ignoto trascrittore vuole forse attestare l’orma del Maligno nel difficile percorso terreno dell’uomo, nei contrapposti di caos-ordine, cielo-terra, amore-odio ed anche come il Diavolo, essendo, in tutti i tempi, perennemente presente nella memoria e nel cuore degli uomini, abbia contribuito allo sviluppo di una parte della letteratura. La marea bibliografica sull’argomento, aumentata soprattutto negli ultimi decenni del secolo XX, mostra chiaramente come Satana sia un pretesto per raccontare ed evidenziare i fenomeni e le sciagure dei suoi seguaci e delle sue vittime; si sono messe in primo piano le attività magiche, stregoniche, taumaturgiche e le possessioni, relegando la figura del Diavolo ad una modesta posizione di secondo piano, ma anche da questa posizione è sempre l’architetto delle insidie tese agli uomini.

Il Diavolo, fin dai tempi remoti, ha suscitato negli uomini paura e curiosità, fascino e repulsione. Satana è sempre stato onnipresente come Dio: questa è la realtà fondamentale che sta alla base dell’intera credenza. Si tratta di un manicheismo semplicista, ma molto efficace che fa della vita terrena una battaglia perpetua tra il Maligno e le creature. Il Diavolo e il suo esercito infernale possono fare il male entro limiti tracciati da Dio, ma si tratta di limiti ampi, perché approfittano delle debolezze umane.

Molti sono i nomi che nei secoli sono stati attribuiti al Maligno, due però sono indubbiamente i più usati: Diavolo (dal greco diábolos, col significato di “accusatore”, “calunniatore”) e Satana (di derivazione ebraica, che corrisponde a “nemico”, “avversario”); mentre l’origine del termine Demonio, molto diffuso, allude alla pluralità (i dáimones, gli eterei accompagnatori dei Greci) ed è in questa accezione che in genere viene impiegato normalmente quando si allude a manifestazioni plurali: corte infernale, legioni, geni.[3]

Alcuni testi medioevale distinguono Satana da Lucifero, la tradizione afferma invece la loro unità, in quanto usa indistintamente i due termini per indicare un solo personaggio, il Diavolo, personificazione del male. Il nome di Lucifero nasce dall’associazione del principe di Isaia (14,12; stella del mattino o figlio dell’aurora), che precipita dal cielo a causa del suo orgoglio, con il cherubino di Ezechiele (28,15; in cui si dice che la sua condotta era sempre stata perfetta fin dalla sua creazione, fino a quando in lui ci fu l’iniquità). Queste due figure si uniscono in quella di Satana, quando sia avvenuta tale fusione non lo sappiamo, ma Origene, nel III secolo, usa questi nomi riferendoli allo stesso personaggio.[4]

La presenza di Satana nella vita quotidiana è testimoniata ampiamente sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, la credenza nel bene e nel male, questa dualità di poteri invisibili, costituisce l’idea fondamentale delle religioni orientali ed è all’origine delle più antiche cerimonie rituali. All’inizio dell’era cristiana, questa credenza compare nell’idea dualistica dei manichei, dando luogo ad una nuova concezione: quella del Diavolo, nemico e rivale di Dio e capace di dare ai suoi adoratori una forza in grado di sconvolgere l’armonia nell’opera divina, che originariamente comportava solo cose buone.

A partire dall’era cristiana, con l’idea dogmatica di un solo Dio, sorgente del bene e del male, i poteri riconosciuti fino ad allora ai demoni si affievolirono e cessarono, momentaneamente, di ossessionare gli spiriti; ma nel III secolo d.C., i filosofi della Scuola di Alessandria, specialmente Plotino, mostrarono una stretta parentela con gli iniziati antichi, cercando di adattare le tradizioni esoteriche antiche con il nuovo misticismo del cristianesimo. L’azione dei demoni, considerata causa di tutti i mali, ossessionò gli uomini soprattutto in ciò che riguarda le malattie e l’origine demoniaca, o presupposta tale, di certi mali fisici, incitò i credenti alla recitazione di formule speciali.. L’esistenza del Diavolo fu proclamata negli atti del IV Concilio Lateranense del 1215, diffondendo a poco a poco una forma crescente di paura per le terribili manifestazioni di un’entità così potente.[5]

Il narratore, dopo una breve introduzione, si pone queste domande: <<Anche un problema potrebbe derivarne se il Diavolo è un angelo decaduto, perché pure peccò e peccava poté? Se il Diavolo è una infelice invenzione dell’uomo, perché pure lo ha inventato tremarne e deriderlo, per forgiarlo a suo talento? […] Rischiariamo adunque dapprima il mistero dell’origine del nostro protagonista>>.[6]

Il manoscritto continua, con voli pindarici, dicendo che la Sacra Scrittura parla spesso del Maligno, ma non troviamo scritto quando e perché Dio lo trasse dal nulla, tace sulla sua età, ma proprio per questo mistero, l’uomo è desideroso di sapere, di conoscere la verità su questa figura repellente e affascinante allo stesso tempo. Durante i primi secoli del Cristianesimo <<…Bardesane, ispirandosi alle tradizioni perfide del dualismo, innalza il Diavolo fino all’idea di causa e ne fa una specie d’essere sostanziale, cui oppone al Principio del bene. Prisciliano lo fa nascere dal caos e dalle tenebre. Taziano da un raggio della natura e della malvagità>>.[7]

L’Antico testamento, composto di testi scritti in diverse epoche: prima dell’esilio babilonese ai tempi di Gesù, non menziona il Diavolo. Nel Pentateuco e precisamente in Genesi, in cui dobbiamo distinguere due livelli: il racconto Jahvista, dal nome rivelato a Mosè, Jahvè ed il racconto eloista, che appella Dio Elohim, non viene mai accennato al Diavolo. Nella tradizione jahvista, si narra di Adamo ed Eva tentati dal serpente, ma non è specificato che il serpente sia il Diavolo.[8] In questa parte dell’Antico Testamento, l’identificazione del serpente con il Diavolo, la troviamo molto più tardi nel “Libro della Sapienza” (II:24), dove leggiamo: <<Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo (satan)>>, considerando che tale libro viene ritenuto scritto tra il III e il I secolo, il male viene attribuito a Dio, è da Lui che derivano sia il bene che il male, Jahvè è un Dio crudele, esigente, che spesso ricorre ad espedienti ed inganni per indurre l’uomo a sbagliare. E’ proprio questo Dio che ordina agli israeliti di sterminare gli abitanti della terra di Canaan e in Giosuè 11,20 leggiamo: <<Infatti era per disegno del Signore che il loro cuore si ostinasse nella guerra contro Israele, per votarli allo sterminio, senza che trovassero grazia, e per annientarli>>.

Dio prima spinge Abramo, che si è recato in Egitto, a fingere che Sara sia sua sorella e quando il Faraone si innamora di Sara e la fa portare nella casa sua credendola non sposata, Dio punisce il Faraone <<colpendo lui e la sua casa con grandi piaghe>>. [9]

Nella vicenda delle dieci piaghe d’Egitto, è Jahvè che indurisce il cuore del Faraone affinché non accolga la richiesta di liberare Israele e poi punisce quell’inasprimento dell’anima con le piaghe. Più volte infatti dice che il Signore rese ostinato il cuore del Faraone, che non volle lasciarli partire.[10]

Sempre in “Esodo” 4:21-24, Dio compie e dice cose orribili: <<Il Signore disse a Mosè : “Mentre tu parti per tornare in Egitto, sappi che tu compirai alla presenza del faraone tutti i prodigi che ti ho messi in mano; ma io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il mio popolo. Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito!”. Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire>>. Prima provoca il faraone poi lo punisce. C’è, dunque, un Dio terribile principio del bene e del male e non c’è necessità di un altro essere soprannaturale che induca l’umanità in tentazioni o semini malattie, morte e distruzioni.

Il male e la malattia sono concepiti come un castighi che vengono direttamente da Dio: nel brano di Esodo, 12: 29 in cui il Signore invia la decima piaga e fa morire tutti i figli primogeniti d’Egitto. Sembra sia Lui stesso ad uccidere: <<A mezzanotte il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto…>>. Ma pochi versetti prima (12,12-13) parlano anche di uno “sterminatore”, che sembra essere un soggetto diverso dal Signore: <<Il Signore passerà per colpire l’Egitto, vedrà il sangue sull’architrave e sugli stipiti: allora il Signore passerà oltre la porta e non permetterà allo sterminatore di entrare nella vostra casa…>> La teologia cristiana indica spesso nello sterminatore il Diavolo, ma questa è solo un’ipotesi che non giustifica i testi; in realtà, ai tempi in cui furono scritti c’era una certa sovrapposizione tra Jahvè e le creature che eseguivano i suoi comandi.

E’ nel V secolo a. C., nel libro di “Giobbe” che compare Satana, nel periodo successivo all’esilio d’Israele, quando il suo popolo passa dalla fase del nomadismo a quella stanziale, in cui la vita era meno pericolosa, proprio in questo periodo le scritture mostrano un Dio meno crudele ed esigente, da cui deriva tutto il bene: quindi si deve dare un’altra spiegazione alla derivazione del male. Dal libro di Giobbe, cap. 1 leggiamo:<<Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche satana andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a satana: “Da dove vieni?”. Satana rispose al Signore: “Da un giro sulla terra, che ho percorsa”>>. [11]

L’autore o meglio il trascrittore fa un lungo discorso sulle origini del Diavolo e dice che nella Giudea, al tempo di san Gerolamo, alcuni gli assegnavano per genitore Leviathan, il drago marino, altri il coro degli angeli che si unirono con le figlie dell’uomo prima del diluvio, ma da tale connubio, secondo la Scrittura, nacquero invece i giganti o i potenti dominatori della Terra. Dice che secondo sant’Agostino Dio avrebbe creato i buoni e i cattivi spiriti come fa un poeta, il quale, per dare risalto alle bellezze della sua opera, <<…vi sparge le antitesi…>>, ma nonostante la grande autorità che riconosce al vescovo d’Ippona, sostiene: <<…è probabile che l’artefice eterno, il quale ha fatto il mondo, vi abbia introdotto il male per una fantasia da retore. Questa la tradizione dogmatica, Satana ed i suoi angeli, innocenti e puri all’origine, appartenevano a quella classe d’intelligenze superiori che erano come le primizie della creazione>>.[12]

Continua spiegando che questi angeli abitavano le regioni della luce e Dio li aveva iniziati ai segreti della sua sapienza, ma presto decaddero dal loro posto elevato per orgoglio e per concupiscenza: <<… per orgoglio, cercando una maggiore elevazione delle proprie forze, senza chiederne la grazia, anzi disputando a Dio la possanza sovrana, […] per la concupiscenza domandando alle figlie degli uomini carezze e voluttà che pari spiriti non debbono conoscere>>.[13] Il Diavolo, quindi, non è altro che una creatura decaduta come l’uomo e da quell’istante in cui avviene la decadenza, comincia una nuova e desolata vita sulla terra, suo eterno esilio, avvolgendosi di ombre e di misteri, alienato dall’amore in cui era stato creato, egli è condannato alla pena più crudele: l’incapacità di amare <<…che malgrado le sue frequenti apparizioni e le numerose testimonianze di quelli che lo hanno veduto, egli è quasi impossibile di dare della sua persona una indicazione adatta>>.[14]

Fino al Basso Medioevo, la credenza generale fu che Lucifero, cioè il portatore di luce, “l’essere dal bell’aspetto”, come lo chiama Dante nel XXXIV canto dell’Inferno, l’angelo più bello, più saggio, più potente, il quale non doveva rispetto e sottomissione a nessuno se non a Dio, commise la colpa di superbia, scaturita proprio da questa sua superiorità che gli fece pensare ad un’eventuale modifica delle decisioni divine, nonostante Dio lo avesse certamente dotato di libero arbitrio, come aveva fatto con gli altri angeli ed anche con gli uomini.  Secondo san’Agostino, e per la maggior parte della Patristica, questo mondo è, senza dubbio, il regno di Satana e gli uomini sono i suoi sudditi.

Dopo le diverse congetture sull’origine del Diavolo e sostenuta l’esistenza di questa creatura, viene fatta una riflessione sul fatto se egli sia un’intelligenza fornita di organi, di un corpo, di un vero spirito. Ma non può essere un vero spirito, perché un vero spirito <<…è ciò che l’occhio non può vedere, l’orecchio non può sentire. Ora si vede il Diavolo, al dire di molti, lo si intende, egli parla. E non è un corpo, poiché non si può afferrarlo sotto una forma tangibile e varca le distanze con la rapidità del pensiero. E’ un essere indefinibile…>>.[15]

Lo scrittore continua dicendo che negli ultimi tempi del paganesimo e nell’arco di tempo tra il mondo antico e quello moderno, riferendosi al periodo di tempo che segna la fine della storia antica e l’inizio del Medioevo, il Diavolo appare sotto forme di animali mitologici come il dragone, l’ippocentauro, il fauno <<…e i loro lascivi ardori similmente a quel genio ingordo che sotto forma di grosso e lungo serpente di colore ceruleo e verde usciva dalla tomba di Anchise e gustava le vivande sagrificate su quella ai Mani del sepolto…>>.[16] Spiega che il suo corpo è formato da vapori esalati dalla terra oppure da particelle meno pure della sostanza eterna, definendolo poi un simulacro impalpabile, sottile come le nubi, ma sul quale la freccia e la spada lasciano impronte dolorose e se bruciato col fuoco lascia le ceneri simili a quelle dell’uomo. Anche Omero, nell’Iliade, descrisse vulnerabili i Numi che sul campo di battaglia troiano combatterono a favore dei loro protetti. Ma durante il Medioevo il Maligno si materializza e nelle sue molteplici metamorfosi attraversa tutta la scala della creazione: da uomo informe e incompiuto, diventa nano o gigante, rugoso o morbido, può essere cieco come una talpa, nero come gli abitanti dell’Etiopia o come coloro che fondono il ferro; ha il muso di una tigre, le unghie come il cinghiale e può tramutarsi a suo piacere in rospo, in orso, in corvo, in upupa, in serpente, quest’ultima forma è particolarmente amata da Satana, perché gli ricorda <<…la sua prima vittoria e tramutandosi alcuna volta in coda di giovenco, il che non manca d’essere piccante e strano>>.[17]

Il Diavolo, quando vuole indurre al peccato i preti e i monaci, assume le forme seducenti di donne molto belle con <<… la pelle liscia e vermiglia, le dita tornite e sottili che incantano i cavalieri dell’Epopea, quella agilità e incurvatura di reni che la Bibbia ha maledetto perché è fatale all’uomo>>[18]

A questo punto del manoscritto troviamo narrati fatti accaduti in tempi diversi e a varie persone sia laiche che ecclesiastiche, che non seguono un ordine cronologico: noi riportiamo quelli più significativi e interessanti.

Nel 1121, il Diavolo apparve con tre teste ad un monaco e gli ordinò di adorarlo perché pretendeva di essere la Trinità; invece nel XVI secolo apparve sotto forma di crocefisso, altre volte vestito con abito sacerdotale, con il pastorale in mano,   la mitra in testa e benediceva la gente che si inginocchiava al suo passare. Si diceva, addirittura, che era arrivato al punto di cantare i vespri nella chiesa del monastero di Clairvaux, in cui aveva pregato san Bernardo, ma ciò non deve suscitare meraviglia perché Satana ha sempre aspirato agli onori sacerdotali. Passano gli anni, scorrono i secoli, tutto cambia, ma non il Maligno, che rimane immutabile nella sua malvagità, il suo odio contro l’uomo è così forte che un giorno fu udito dire che provava più soddisfazione andare all’Inferno con l’anima di un dannato che ritornare in cielo nella sua primitiva felicità

Gli Ebrei attribuivano a Satana l’invenzione delle armi e degli ornamenti femminili, cioè di ciò che uccide i corpi e vince le anime.

Il Diavolo, spesso, fu paragonato, secondo le dottrine indiane, al Principio cattivo, che nel dualismo persiano si chiama Ariniane mentre in Egitto veniva appellato col nome di Tifone, i quali valutavano, come Satana, l’idea del delitto, del dolore, della morte, la lotta perenne delle tenebre con la luce e della menzogna con la verità. Ma tra il Maligno e gli spiriti del male orientali c’è un abisso, Ariniane e Tifone trionfano sul dio buono fino ad usurparne il trono, il Diavolo, invece, è sempre vinto: Dio conserva l’onnipotenza.[19]

Nel Medioevo, continua l’anonimo, la teologia, la filosofia, la stregoneria talvolta si uniscono e si confondono, tuttavia furono d’insegnamento per quanto riguarda l’azione, la caduta e il carattere del Diavolo. L’intenzione dell’autore è quella di seguirlo passo per passo dalla sua infanzia alla sua giovinezza, poi nella sua caduta e in tutte le fasi della sua vita pubblica e privata, che distinguerà in periodi precisi: <<I lettori non paurosi il vedranno prima della venuta di Cristo, come potente rivale ed oppressore contendere con Dio l’adorazione dei popoli; poi uscita la Buona Novella che da Sionne si diffuse per tutta la terra, lo vedremo diffendere gli altari del mondo pagano; attraverso il Medio Evo, assedierà i monaci e i fanti, si farà suggeritore complice e onnitore di tutti i delitti, l’autore di tutti i disastri; nel XVI° secolo vorrà metter bocca in tutte le dispute religiose, a tutte le arguzie; sarà hussita, luterano, calvinista, […] e talvolta anche papista>>.[20]

L’autore sostiene che presto saranno seimila anni da quando il Diavolo fece la prima comparsa sulla terra e l’umanità subisce le dolorose conseguenze di questa terribile manifestazione. Da quando tentò e fece cadere nel peccato Eva, inorgoglito per questo primo trionfo, non ha perso mai nessuna occasione di intervenire maleficamente negli affari di questo mondo e sotto vari nomi (Belzebub, Deval, Belfagor, Adramelec) contese al vero Dio l’adorazione dei popoli. Il mondo, che a causa del peccato di Eva, era assoggettato alla servitù del Maligno, doveva redimersi ad opera di una donna: Cristo annuncia alla Terra che sua Madre ha schiacciato la testa del serpente, il Diavolo, allora, sentendosi detronizzato, raccoglie tutta la sua malvagia audacia e tenta, invano, di fare di Dio la sua preda.

Nel V secolo Salviano, addolorato per il protrarsi del politeismo, esclamava: <<…ubique daemon…>>, [21] il quale, come sant’Agostino, vedeva nel culto degli idoli tutti i peccati dello spirito infernale.

Nella lotta tra la Chiesa d’Oriente e la nuova fede, l’acerrimo nemico dei cristiani non è considerato Cesare, ma il Diavolo. Gli anacoreti, dimenticati nella Tebaide, sono perseguitati da Satana nella loro solitudine, affliggendoli col rammarico, col desiderio dei piaceri abbandonati o appena intravisti e ancora ignoti, con l’angoscia che fa dubitare della bontà divina, ma soprattutto con quella tristezza profonda paragonabile allo spleen, che può portare l’uomo al suicidio.[22] A santa Pelagia mostra continuamente degli irresistibili gioielli con cui erano pagate le sue prestazioni quando era bellissima e giovane.[23]

Sant’Antonio fu, senza dubbio, il più perseguitato dal Diavolo: <<Antonio vuol leggere: Satana gli nasconde i suoi libri. Antonio incrocia le mani, piega le ginocchia, leva gli occhi al cielo ed invoca lo spirito di meditazione e le estasi silenziose: Satana, per isturbarlo, intuona i Salmi. Talora l’assale con armi più costosi, assume le forme attraenti d’una donzella, il sorriso, la voce, gli occhi penetranti; o disperato di non poterlo vincere colla minaccia, col disturbo, colla legge de’ sensi, vuol sedurlo col garbo di amichevoli e servili offizi; gli accende la lampada, gli fornisce acqua dalle vicine fonti. Finezze sprecate! Antonio risponde colla preghiera e col segno della Croce, sicché il Diavolo veggendosi vinto, ringhia il  muso, digrigna i denti e come fanciullo istizzito batte il sodo col piede e qualche volta fare gli cade innanzi in ginocchio e gli chiede perdono>>.[24]

Il narratore continua dicendo che una sera in una chiesa di Alessandria d’Egitto, dove tutti i diavoli si erano dati convegno, san Macario li vide sotto forma di fanciulli etiopi che correvano qua e là tra i monaci, alcuni passavano la mano sulle palpebre di quest’ultimi per addormentarli, altri mettevano loro un dito in bocca per farli sbadigliare, ciò accadeva ogni giorno, quando i monaci si trovavano all’ora del coro, per distrarli dalle loro funzioni. Satana ispirava un tale terrore che i monaci si alzavano la notte per stare in guardia: la loro difesa era la preghiera contro questo nemico che non dormiva mai. Nei monasteri occidentali la situazione non cambiava, specialmente quando qualcuno cercava di creare un luogo di preghiera, il Diavolo lo perseguitava con le sue perversità.[25]

Durante il Medioevo, prosegue l’autore, Satana, cosciente che l’ordine di san Benedetto gli sottraeva molte anime, sferrava contro questi monaci i suoi attacchi più violenti. Un giorno l’abate di Cluny, di cui non viene menzionato il nome, si era messo in viaggio per effettuare delle visite pietose e per conquistare delle anime, il Maligno si trasformò in una volpe e lo aspettò in un’imboscata dove gli saltò al collo per strozzarlo. Sulpizio il Pio, mentre andava di notte in una chiesa, preceduto da una fanciulla con un cero acceso in mano, incontrò Satana che prima spense il cero e poi lo assalì e tentò di cavargli gli occhi con le sue unghie.

Al tempo di san Norberto, perseguita molto i laici: va nelle loro cucine per avvelenare i loro cibi e quando vogliono bere si fa vedere nel fondo della ciotola sotto forma di un enorme rospo carico di veleno; a Citeaux sparge sul pesce escrementi di cavallo al posto della salsa. Nel XII secolo perseguita l’abate Guiberto nel suo convento di Nogent-sur-Seine, portandogli ogni notte ai piedi del letto i cadaveri di coloro che erano morti di morte violenta; più tardi, tra i frati Domenicani di Firenze, tormentò il Savonarola: <<…quando l’ardito oratore faceva la ronda di notte, lo spirito maligno adunava intorno a lui vapori sì densi che il domenicano si trovava come chiuso in una prigione di nubi, quando volea dormire lo riscuoteva gridando: “Savonarola!”, mutando ogni volta il tono della voce>>.[26]

Se Satana riesce a sollevare grandi tempeste nell’animo umano, ci riesce perfettamente anche nella natura, infatti è lui che soffia con violenza facendo cadere i raccolti maturi per terra e scoperchiare i tetti delle chiese; è lui che agitandosi nell’inferno dà luogo ai terremoti sulla terra, è lui che incendia le vie delle città attizzando la fiamma. In una città del nord della Francia, di cui non si menziona il nome sia nel manoscritto che nell’originale, si può vedere un quadro risalente al XV secolo sullo sfondo del quale, in un cielo azzurro intenso, è dipinto un recinto e al di fuori di questo si può vedere una lunga fila di frati e di Scabini, i quali portavano una cassa a forma di chiesetta: è la cassa di san Foillan, il fuoco è divampato in un sobborgo della città e gli Scabini con i frati vestiti di bianco e dei giovani coristi vestiti di rosso si sono recati nel luogo dell’incendio con le reliquie del santo, che miracolosamente spengono il fuoco, ma il Diavolo che sta spiando, riesce ad alimentare l’incendio con un grosso mantice da fucina <<… coll’ardore di un alchimista che vede la mossa dell’oro radunarsi in fondo al suo grogiolo e il fuoco avesse voluto insegnare che il mantice del Diavolo nelle città incendiate è più possente che le ossa dei santi>>.[27]

Satana è incendiario, complice, avvelenatore, assassino ed anche regicidio: nel 1340, a Parigi, fu l’artefice di un complotto tramato da Roberto l’Inglese ed alcuni monaci tedeschi contro Filippo di Valois; <<Nel 1416 strozza Miron de Montlhery per mezzo di Ugo di Crepy, suo parente. Filippo ripudia Berta, rapisce Bertrada; Giovanni Senza-Paura fa uccidere il duca d’Orleans, ma è il diavolo che volle l’assassinio e l’adulterio…>>.[28]

Nel secolo XII, in Sassonia, il Diavolo contende agli angeli il corpo di un usuraio che tramite la confessione si era riconciliato con Dio e la sua salma era stata esposta nella cappella di un conoscente. Quattro sacerdoti stavano pregando per la sua anima, quando improvvisamente quattro diavoli neri e quattro angeli luminosi vennero a sedersi ai lati del “cataletto” e ciascuno di loro, da entrambe le parti, recitarono un versetto dei salmi, ma i diavoli invocarono parole che punivano mentre gli angeli parole consolatorie, poiché l’usuraio si era avvicinato a Dio prima del trapasso: gli angeli ebbero la meglio e l’anima dell’uomo volò verso il Paradiso.[29]

Ma nel Medioevo, contrapposta alla visione drammatica dell’aldilà dantesco, troviamo anche l’ironia dei trovatori, nella fantasia dei quali, Satana si spoglia <<…del suo carattere oscuro e minaccioso. Esso non è più il leone ruggente che si aggira intorno ai santi, è un allegro compagnone, il quale aspetta il momento che i curati dicono la messa per andare a bere colle loro serve il vino delle decime>>.[30] Egli canta, scaccia la malinconia, seduce le badesse e gioca con i frati mendicanti la sua armatura e il suo cavallo per una tazza di vino. Anche l’Inferno assume un altro aspetto, ai fiumi di fuoco, alle piogge di zolfo, agli stagni di ghiaccio, i trovatori sostituiscono supplizi grotteschi che provengono dalla loro visione poco ortodossa della vita: <<La triste patria dei dannati diventa una vasta cucina, ove il diavolo mutato in guattero fa cuocere i malvagi in grandi caldaie e mangia lessati o con salsa ad aglio gli usurai e le meretrici>>.[31]

Nel secolo XVI, continua l’autore, Satana diventa anche teologo, impara la lingua ebraica e studia la logica. A Ginevra aiuta Calvino, in Germania commenta la Bibbia ed i Concili con Lutero: <<…si direbbe che le simpatie dell’orgoglio e della rivolta riavvicinano il riformatore e il demonio>>.[32] Qualsiasi cosa faccia Lutero, il Diavolo gli è sempre vicino, incoraggiandolo e scoraggiandolo, spesso deridendolo, lo incoraggia alla guerra e gli consiglia la pace, mettendo in lui il dubbio che lo stesso Lutero aveva gettato nel mondo cattolico. Il riformatore, non sapendo più cosa fare per liberarsi dal Maligno, un giorno gli tirò un calamaio e la macchia d’inchiostro rimase a lungo sul muro a testimonianza di tale disputa.

Il 27 maggio del 1562, verso le sette della sera, nella città di Anversa, Satana prese (strangolò, nell’originale) una giovane di buona famiglia colpevole di avere comprato <<…della tela fina a nove scudi l’una…>>,[33] per adornarsene in occasione di una festa nuziale. In questo caso il Maligno peccò di eccessivo rigore.

Nel Seicento, il Diavolo lascia le sue forme mostruose e bestiali, veste alla moda del tempo, si adorna di brillanti, di piume, porta la spada, tanto da sembrare un personaggio di corte. <<Lo scrittore Vier lo attaccò con un suo scritto e due secoli più tardi Voltaire, maligno più di lui, credette di avergli dato il colpo di grazia ferendolo con una pecca più terribile d’assai che il breviario e l’aspersorio dei frati, poco stante Devanger ha cantato la sua morte. Ma è ben vero che il diavolo è morto?>>. [34]

Nella vita del Diavolo, come nella vita dell’uomo, l’amore è un fattore molto importante: esso è amante, sposo, padre e sono molti i casi che testimoniano le sue galanterie; nei tempi più antichi visitava la madre di Augusto; <<…divideva con Filippo il talamo di Olimpia…>>;[35] in epoca medievale, il Diavolo si trasforma in incubo e succubo. Nel “Malleus Maleficarum”, nella parte in cui viene trattata la questione della procreazione, troviamo: << Noi diciamo pertanto tre cose: in primo luogo che questi diavoli commettono sconcissimi atti venerei non per godimento, ma per infettare l’anima e il corpo di coloro dei quali sono succubi o incubi; in secondo luogo che, con un atto simile, ci può essere una completa concezione o generazione da parte delle donne, perché i diavoli possono portare il seme umano nel luogo conveniente del ventre della donna e accanto alla materia qui predisposta e adatta al seme. […] In terzo luogo, nella generazione di siffatte cose ciò che avviene attribuito ai diavoli è solo il moto locale e non la stessa generazione, il cui principio non è una della capacità del diavolo o del corpo da lui assunto ma di colui al quale appartenne il seme, per cui chi è generato non è figlio del diavolo ma di un uomo>>[36]. Ciò significa che i succubi giacevano con gli uomini per poter raccogliere il loro seme, una volta che questi erano sfiniti, tale seme sarebbe poi stato utilizzato dagli incubi per fecondare le donne, infatti nel compimento dell’atto sessuale i demoni maschi sono Incubi e quelli femmina sono Succubi, che compaiono agli uomini sotto forma di giovani e bellissime donne, capaci di ineguagliabili arti seduttive ed erotiche e questo sembra sia stato giudizio comune. La tradizione demologica sosteneva anche che i demoni, pur avendo il potere, nei fianchi e nel ventre, non potessero procreare per la mancanza del seme. In alcune leggende, troviamo che i succubi potevano assorbire l’energia dell’uomo, di cui si alimentavano, fino a portarlo alla morte, inoltre lo spingevano al peccato con le loro tentazioni e ciò fu una delle spiegazione alle incontrollate polluzioni notturne che si verificavano nei soggetti più giovani.

Il Diavolo è padre, sposo, amante, e le sue attenzioni galanti sono convalidate da molte testimonianze. <<Era, del resto, una credenza comoda, che evitò più d’uno scandalo nei chiostri e più di un dolore ai mariti, che sovente hanno tante cose a raccomandare nelle loro famiglie>>.[37] Quando Satana ha queste avventure, cambia sesso: può essere un fantasma inafferrabile, che approfitta del sonno delle donne per commettere “dolci” furti a danno o a piacere delle prescelte, si posa lieve al capezzale di queste fanciulle e <<…quando la vigilanza del libero arbitrio si è assopita, egli macchia le nature più caste con colpa senza nome, che l’età di mezzo puniva col fuoco>>.[38]  Sostiene che gli Gnostici raccontino che al profeta Elia, quando fu rapito in cielo sopra un carro di fuoco, apparve un demone femmina, cioè succubo, il quale arrestò la corsa del suo carro e gli disse che gli aveva dato dei figli, il profeta, che non sapeva di essere un padre di famiglia, rimase molto meravigliato, ma il demone riuscì a convincerlo con la sua dialettica ed Elia si riconobbe come padre di una numerosa prole. Lo stesso demone commette ancora, durante il Medievo e in tutta l’Europa, intrighi e scandali, infatti lo vediamo nel XII secolo tormentare le notti della madre di Gilbert de Nogaret, nonostante questa sia una donna di grandi virtù e una fervida cristiana, forse, si chiede l’autore, se l’angelo addetto alla sua custodia avesse dato alla creatura satanica una esemplare ammonizione.[39]

Nel XVI secolo, Satana, sotto forma di una bella, giovane e prestante ragazza di nome Ermeline, vive in comune con i preti e i frati. In Germania riesce a sottrarre l’eredità ad una vecchia cameriera di un parroco, a cui era stata fedele per più di trent’anni. A Nantes, ai tempi di san Bernardo (1090-1153), il Diavolo si presenta vestito da militare in casa di un mercante, seduce la moglie e ogni notte giace presso l’uomo ignaro di tutto. Nel Brabante, sempre nella stessa epoca, il Diavolo chiede in moglie una ragazza appartenente ad un ceto sociale alto, la quale doveva entrare in convento, fa spese pazze per vestirsi alla moda dei tempi per essere all’altezza della fanciulla, che, vedendolo così vestito, lo crede un uomo di buona famiglia, nonostante ciò, questa volta prevale la fede, infatti la giovane gli risponde di cercarsi una moglie più bella fra le ragazze della città, perché lei non avrebbe mai lasciato il suo sposo celeste per un uomo. In Scozia, invece, dove c’era molta povertà, Satana comperava l’amore, pagandolo poi con denari falsi. In Italia corteggiava mandando mazzi di fiori e facendo serenate, insomma era molto più galante che nelle altre nazioni. In Germania scriveva in modo romantico alla maniera del Werter, di ciò facevano prova le lettere scritte durante una corrispondenza sentimentale intrattenuta con una giovane novizia presso il convento di Nazharet di Colonia, la quale fu sorpresa dal direttore mentre pregava il suo amante di portarla via da quel posto.[40]

Satana per farsi amare non ha bisogno di essere amabile, quindi è un privilegiato, riesce a sedurre anche le donne più restie e le sue signore gli sono fedeli. Ma qual è il suo segreto? Purtroppo non ci è dato conoscerlo, sappiamo che in genere preferisce ragazze di buona famiglia, le spose di Dio più belle e colte, ma nel 1640, non viene menzionato il luogo, il Diavolo riuscì a diventare l’amante di una bella e ricca ereditiera, che dopo qualche mese dall’inizio della tresca, la giovane venne scoperta dalla Santa Inquisizione, ci fu un enorme scandalo e fu condannata al rogo; la ragazza sperò fino all’ultimo momento che il suo amante venisse a salvarla, ma Satana arrivò solo per portare la sua anima all’Inferno.[41]

I figli nati da queste unioni sataniche non sono uguali a quelli degli umani, sono più magri e più pesanti, portano dentro loro stessi qualcosa che appartiene alla natura che allo stesso tempo è superiore e degenere del padre. Sono nani oppure giganti, mostri di scienza o di malvagità, come ad esempio il vescovo Guichard, che a Parigi viene considerato il figlio di Satana; l’incantatore Merlino, Norberto di Normandia, Attila e il suo popolo. <<Tra le grandi famiglie del mondo ideale e del mondo reale più d’un albero genealogico ha le sue radici nell’Inferno, solamente per una strana abnegazione, la goffaggine feudale si è impadronita di questa credenza per nobilitare i suoi blasoni e la casa dei Tagelloni, che si vanta di discendere dalle fate, le quali sono collaterali del diavolo, ne portava gli emblemi sul proprio stemma>>.[42]

Lo scrittore passa a parlare delle possessioni e dice che esse sono attestate, com’è noto, da Cristo stesso che liberò un posseduto da una legione di diavoli, e che si può credere alla Chiesa senza insultare la ragione, quando, per dimostrare se il presunto eretico era veramente colpevole, faceva appello alla dottrina della prova?  In tal modo la Chiesa insegnava che Dio permetteva al Diavolo di possedere l’uomo per poi punirlo come peccatore o provare la sua santità. La stregoneria, invece, racconta che per ordine di uno zingaro o di un pastore o di una vecchia donna, Satana lascia l’Inferno per possedere il corpo di una povera innocente o di un pacifico e innocuo cittadino, allora lo scetticismo è legittimo e ciò che Marescot nel 1598 scriveva a proposito di Marta Brossier, cioè che, nella maggior parte, i casi di possessione sono simulati.[43] <<In effetto è agevole cosa spiegare per cause naturali la presenza del diavolo nel corpo delle femmine. E come immaginavano gli uomini si effettuasse quella terribile unione? Secondo Giuseppe Storico, ebreo, accadrebbe per la trasfusione dell’anima dei morti condannati agli eterni supplizi nei corpi dei viventi. Seguendo una opinione più generale e più accreditata, si effettuerebbe per la trasfusione del diavolo stesso, sia che si conservi invisibile penetrando nei corpi, sia che vi si introduca sotto la forma di una mosca, d’un insetto o altro animale. Questa superstizione d’un secondo principio attivo in un medesimo ente porta nell’intima condizione dell’organismo uno spaventevole turbamento e dai primi giorni del Cristianesimo fino agli ultimi anni del secolo XVII i sintomi indicati di questa afflizione sovrumana sono dovunque i medesimi. Gli ossessi come i licantropi dei greci, si allontanano dalla società degli uomini per esegliarsi nei cimiteri e fin nel fondo delle sepolture, piangono e gemono senza motivo di dolore. Il loro volto prende il colore del cedro, le loro membra sono stirate e fatte pesanti, i loro occhi gonfi prorompono dalla testa, la lingua torta come una bacca di fagiuoli penzola sul mento. Movimenti convulsivi li levano d’un solo salto a parecchi piedi dal suolo e ricadono col corpo all’ingiù senza ferirsi. Felice d’Imola ne vide di tali che camminavano come le mosche sulla volta delle chiese. San Martino ne ha conosciuto altri che rimanevano per più ore sospesi in aria coi piedi volti al cielo, senza che il pudore rimanesse offeso. La presenza e il contatto con le cose sante raddoppia la loro tristezza. Quando si dà loro dell’acqua benedetta a bere, le loro labbra s’attaccano al vaso né è possibile il separarnele. Collocati avanti l’ostia essi si fanno in un rotolo e le loro membra cricchiano come legno secco che vien spezzato>>.[44]

Malgrado ciò essi hanno un’intelligenza vivissima, conoscono il passato e il futuro, conoscono tutte le lingue senza averle studiate e cosa strana senza muovere le labbra, nonostante ciò la loro anima non è alterata nella sua sostanza, quindi la carne appartiene al Diavolo e l’anima a Dio. L’anonimo dice che i preti conoscevano formule misteriose e minacce, cioè quelle formule recitate durante gli esorcismi e che qualche volta riuscivano a sottomettere gli ossessi che dovevano seguire un trattamento “igienico”. L’energumeno doveva digiunare quaranta giorni e quaranta notti, la prima settimana poteva mangiare solo pane freddo cotto sotto la cenere e bere acqua benedetta, le cinque settimane seguenti potrà bere il vino, mangiare il lardo, ma avrà cura di non ubriacarsi e si asterrà dal mangiare la tinca e l’anguilla (senza dubbio perché l’anguilla richiama il serpente e il serpente il Diavolo). Non ucciderà nessun animale né vedrà uccidere, eviterà di rendere impuri i suoi occhi, guardando un cadavere e quando il prete verrà per esorcizzarlo egli berrà dell’assenzio “usque ad vomitum”. San Pacomio aveva un’altra ricetta: faceva mangiare agli ossessi del pane benedetto tagliato a pezzettini che occultava fra dei datteri. Sant’Uberto ordinava dei bagni e nel 1080 accadde che un ossesso che per suo ordine era stato posto in un tino pieno d’acqua fredda, il Diavolo che, non poteva fuggire dalla bocca, <<…se ne andò sotto una forma tutt’aerea colla violenza d’una piccola tromba e sfondò il tino>>.[45]

La stregoneria insegnò ad evocare il Diavolo, dice l’autore, e anche a scacciarlo, la Chiesa contrapponeva la fede, la speranza la purezza come rimedio ai mali, al contrario la stregoneria si perse in pratiche oscure che spensero gli ultimi barlumi della ragione. La pratica magica prescriveva come sovrano rimedio di dare della valeriana nella casa dell’ossesso oppure di cospargere la soglia di casa di sangue di un cane nero e questi ultimi riti attecchirono più di quello di cospargere d’erba di valeriana la casa perché più comodi.[46]

Il 2 novembre del 1563, (nella versione portoghese 1565), circa quarant’anni prima della presunta possessione di Marthe Brossier, a Nicolina Obry di Vervins, presso Laon, mentre pregava sulle tombe dei suoi familiari, apparve la figura di un uomo che le disse di essere suo nonno, morto senza il sacramento della confessione e le chiedeva di far celebrare delle messe perché la sua anima potesse riposare in pace. I giorni seguenti l’antenato ricomparve alla giovane più volte, gettando Nicolina in una grande angoscia, tanto che cominciò a gridare, rotolarsi per terra con la bava alla bocca. Fu subito riconosciuta come indemoniata e, quindi, condotta nella chiesa del luogo per esorcizzarla. Luigi (Luis) Sourbaud, maestro di teologia, cominciò il rito, ma il Diavolo, che era salito sulla volta della chiesa, cominciò a tirare sassi all’esorcista ed ai presenti, tanto che il teologo fu costretto a rinunciare. A questo punto volle tentare l’esorcismo l’arcivescovo di Laon, duca e pari di Francia, al quale Satana disse che era un vero onore essere preso in considerazione da un alto prelato, ma che aveva convocato nel corpo della ragazza diciannove diavoli ben determinati. Il monsignore rimase sconcertato e il Diavolo, deridendolo, gli disse che sia lui che gli altri demoni si beffavano del suo rango e di Giovanni Leblanc (Giovanni Leblanc nel gergo di questo diavolo era Gesù Cristo) e se l’arcivescovo fosse stato capace di cacciare i diavoli dall’indemoniata, avrebbe fatto di lui un cardinale ed anche un papa, poi gli consigliò di andare a dormire. <<L’arcivescovo non desistette. Gli ugonotti che ridevano col diavolo del mal incontro avvenuto al prelato, si presentarono alla loro volta. Turnevilles et Conflans, ministri riformati, si recarono a Nicolina Obry: chi siete voi? donde venite? Chi ci ha mandati? E da quando in qua un diavolo può cacciarne un altro? comandò il diavolo: a cui Tournevelly- Io non sono un diavolo ma un servo di Cristo. Servo di Cristo! rispose Satana- ma in verità, Tournevelly, tu ti inganni, tu sei peggiore di me. Conflans per toglier d’impatto l’amico, che non sapeva che rispondere, si mise a leggere i salmi di Marat. Credi tu di incantarmi, gli disse Satana, con le tue graziose canzoni? Sono io che le ho fatte. Fortuna per la fanciulla che la Vergine si prese a cuore lo stato di quella, rispose a Satana di partire e partì, ma abbandonando Nicolina Orby, andò per vendicarsi a spezzare tutte le ardesie che coprivano la chiesa, strappare tutti i fiori del giardino del tesoriere, in seguito si mise in viaggio per Ginevra, ove chiamavanlo gli interessi della riforma>> [47]

Nel 1634, continua il racconto, in seguito alla deposizione delle religiose di Loudun e di Astaroy, capo dei diavoli dell’ordine dei Serafini, Urbano Grandier fu condannato al rogo e a questa condanna ebbe più parte attiva Laubandemont che Satana stesso e tutto questo fece perdere ai posseduti il poco credito che rimaneva loro.[48] In tal modo nelle leggende dell’Inferno tutto si confonde, tutto si amalgama: il riso e le lacrime, il grottesco e il terribile, il mistico e l’empio; l’uomo ha paura del Diavolo, ma non ha meno paura dell’uomo. Ci sono delle orazioni che per Satana fanno lo stesso effetto di un colpo di frusta ed egli è costretto a confessare che gli sarebbe più facile trascinare un asino da Milano a Ravenna che far peccare uno che reciti delle orazioni. Quando Satana viene sconfitto si vergogna perché crede di avere diritti di sovranità sul genere umano, tanto che certe volte va da Dio a lamentarsi delle sue sconfitte sulla terra.[49]

Fino ad ora, nella storia, era il Diavolo a perseguitare l’uomo, a sottometterlo, suo malgrado, al proprio impero, ai suoi capricci, ma d’ora in poi i ruoli cambiano, l’uomo va spontaneamente incontro a Satana, lo chiama, lo invita, gli offre la sua anima in cambio dei suoi favori e lo scopo è di sottometterlo ai propri comandi e carpirgli i segreti. Il giureconsulto Barthole parla di un processo in appello che il Diavolo intentò innanzi a Gesù Cristo contro gli uomini che avevano sconosciuto la sua potenza: san Giovanni teneva le funzioni di cancelliere, la Vergine di avvocato. Il Maligno perdette la causa e quando udì il decreto che respingeva la sua domanda, fuggì lacerandosi le vesti, ma gli angeli che avevano l’ufficio di uscieri, lo ricondussero ben legato all’inferno.[50]

<<La stregoneria istituì dei riti misteriosi per costringere Satana a manifestare la sua scienza, l’uomo correva dietro al potere e sarebbe andato a cercarlo fino all’inferno, quel potere che il suo orgoglio sognava. I più pazzi gli domandavano la sapienza: Alberto il Grande gli domandava i segreti della natura, l’abbate Trytheim, nel secolo XIV, il mistero dell’essere umano, Faust la scienza universale […] Luigi Goffredo di Marsiglia si dà al Diavolo per inspirare amore alle donne. Nel 1778 uno stalliere di Parigi che aveva perduto il suo peculio giocando, si vende per 10 scudi onde avere da mettere nuova posta al giuoco e verso lo stesso tempo l’inglese Ricardo Dugdale che voleva farsi il miglior danzatore del Lancashire, si vende per una lezione di ballo>>.[51]

Satana, che possedeva regni in ogni parte del mondo, ogni anno la notte di san Giovanni, la notte di giovedì e venerdì di ogni settimana, faceva inviti e ricevimenti solenni, invitava adulteri, invidiosi, eretici, giudei, donne della mala vita, ragazze che volevano seguire le prostitute e i malvagi destinati all’inferno, arrivavano da tutte le parti del mondo a quelle feste, celebri col nome di “ sabbati e di tregenda”.[52]

Il Diavolo, per risparmiare ai suoi ospiti la fatica del viaggio, donava loro un magico unguento per mezzo del quale valicavano lo spazio a cavallo d’una scopa, colla rapidità del pensiero. Qualche volta li portava sulle spalle, ma questo mezzo di trasporto non era senza pericolo, perché spesso accadeva che durante il viaggio, il Maligno, per il semplice gusto di far del male, tanto faceva che disarcionava i cavalieri, che si infrangevano al suolo cadendo dalle nubi.[53]

Già nei Capitolari si può leggere di donne che di notte viaggiano per l’aria per raggiungere Diana, ed è questa è la citazione più antica per i sabba nei documenti francesi, ma nell’arco di tempo che va dal secolo XIII al XVI se ne trovano menzionati molti, i luoghi d’incontro sono i cimiteri, le rovine di antichi edifici, boschi ed altri posti lugubri; ovviamente Satana, assumendo orribili forme, presiede dall’alto del suo scanno, mentre <<I presenti hanno la bestemmia sul labbro, la lussuria in cuore, pagani mostrano di celebrare la messa e sputano sul l’ostia, Satana predica l’empietà e il peccato, ci si legge l’Evangelo per riderne, i padri per insultare alla loro fede>>.[54] Quando il sabba viene convocato in vista delle feste, in cui la chiesa e i suoi fedeli praticano il digiuno, il Diavolo imbandisce splendidi banchetti e per divertire i convitati canta antiche storie oscene riprese dalle cronache dell’Inferno. <<Nei sabbati fiamminghi, sul principio del secolo XVI il diavolo dava talvolta grandi feste di ballo, alle quali la divisa di rigore era una nudità perfetta. Un vecchio turco apriva la danza con una giovane claustrale, vedevansi le streghe rapite tutta la notte da una ridda sfrenata, fremere ed agitarsi sotto invisibili baci e terminata la festa, vendevano al Diavolo, inginocchiategli innanzi il più spaventevole omaggio che una delirante immaginazione possa inventare>>.[55] Coloro che credono e sperano, ma che non riescono a trovare la felicità nella fede si rifugiano nell’estasi e nelle visioni, quelli che dubitano chiedono a Satana quelle cose terrene che non oserebbero mai chiedere a Dio; la Chiesa risponde a ciò con i roghi dell’Inquisizione sia per le streghe che per gli eretici.

Con le parole “vade retro Satana” l’autore “chiude” l’argomento su Satana e passa a parlare di entità che definisce “collaterali” al Diavolo, cioè di graziosi fantasmi, di fate, di silfi, di folletti che definisce: <<generazione appicciolita e raffinata dei vecchi demoni cristiani, che alle tradizioni de’ suoi avi tremendi messe le rimembranze della mitologia pagana e le leggende del mondo scandinavo>>.[56] In questo mondo di parvenze le fate esercitano una amabile potenza: sono regine pazzerelle e capricciose, hanno in mano uno scettro d’avorio e quando torna la primavera scorrazzano nell’aria in una conchiglia di madreperla tirata da farfalle. Nelle ore notturne esse danno origine a delle brezze leggere che fanno cullare i nidi e spargono sui fiori delle perle, portando i primi sogni d’amore alle giovani ragazze. Queste fate furono viste spesso ai matrimoni delle castellane o ai battesimi dei loro primogeniti, in cui cantavano in versi e in rime, poiché sono le sole, appartenenti al mondo fantastico, a coltivare le arti e le lettere. Ma queste creature sono, purtroppo, come l’uomo: mortali, la loro vita sulla terra è molto breve, così subiscono il destino riservato a tutte le cose belle, brillano per poco tempo e poi svaniscono. Per fortuna tutto non finisce con la morte, le fate, come gli uomini, hanno anch’esse un loro paradiso posto nel paese di Avallone.[57]

I silfi sono i diretti discendenti dei satiri e dei gitani, essi popolano i boschi e le valli, infastidendo le “forasette” come i loro libidinosi antenati molestavano le ninfe.

Le ondine, invece, stanno sdraiate sopra le piante vicino alle sorgenti, che sono le loro sedi; gli alastori vegliano lungo le strade, gli gnomi sulle valli. Ogni popolo, ogni paese, ogni villaggio ha il proprio spirito familiare come ogni focolare domestico dell’antichità aveva il suo dio.[58]

Quello che Socrate chiamava demone, in Germania diventa folletto, in Scozia si trasforma in gobelin e <<la sua vita misteriosa è legata alla capanna del mandriano, abita nell’atrio domestico, asperso di fuligine o nei fessi delle muraglie, a canto della celletta del grillo>>,[59] è servizievole, dolce, ma molto capriccioso, si prende cura delle mandrie in montagna oppure raccoglie le spighe di grano lasciate indietro nei campi per la famiglia che protegge. In Germania, aiuta i taglialegna ad abbattere i tronchi di alberi più grossi e resistenti; con le braccia nude e un grembiule di cuoio legato alla vita, va nelle miniere ad aiutare i minatori avvolgendo gli argani e li difende <<contro il genio delle fiamme cerulee, che veglia negli abissi>>.[60] Negli annali tedeschi, in cui si racconta del passato, ancora viene ricordato Heideking, folletto personale di un arcivescovo, il quale per trent’anni mondò i legumi per i pranzi del protetto. Si ricorda quel folletto che si dedicò per dieci anni come scudiero al servizio di un barone e non ci fu un paggio o uno scudiero più premuroso di lui: quando il barone usciva per andare a caccia, il folletto gli teneva la staffa e stringeva la briglia del focoso cavallo. Quando il barone galoppava alla guerra, lui gli correva davanti per illuminargli la via. Un giorno la moglie del cavaliere si ammalò gravemente, il folletto la curò con un unguento che subito la ristabilì in salute; il barone gli chiese chi fosse, lui che aveva riportato in vita la donna che Dio gli aveva data come compagna; il folletto rispose di essere un demonio, ma subito lo rassicurò dicendo che la sua unica felicità era quella di abitare con gli uomini e rendersi loro utile. Il cavaliere rispose che angelo o demonio che fosse gli doveva una ricompensa e gli offrì metà dei suoi beni, ma il folletto chiese solo cinque soldi per comprare una campana e collocarla nella povera chiesa del villaggio per richiamare i fedeli alle funzioni domenicali. Naturalmente il folletto-demonio fu accontentato dal cavaliere.[61]

Ma, continua il narratore, dopo che Shakespeare ha narrato di Titania, regina delle fate e sposa di Oberon, re dei folletti e Nodier del folletto d’Argan, è inutile parlare di questo argomento, tanto sono stati grandi questi autori.[62]

Per la collera di Dio, Satana fu bandito dal cielo e dalla terra a causa dello scetticismo degli uomini, allora il maligno si rituffò nelle tenebre, nonostante ciò la sua memoria è dappertutto “ubique daemon”, nei racconti popolari, nella poesia, in ogni forma di arte, perché, come dicono le leggende, prima di scomparire dal mondo ha voluto lasciare tra gli uomini le sue tracce innalzando monumenti per salvare la sua memoria. <<In Inghilterra edificò l’abbazia di Crowland, in Germania ha tracciato il piano della cattedrale di Colonia. Figli d’un secolo in cui anche l’inferno si vorrebbe messo in dubbio, noi non ci diamo molta pena di questo invisibile nemico, che minaccia di essere un giorno il signore di tutti. Se il suo nome temuto ritorna assiduamente sulle vostre labbra, ci è ragione che egli si è rifugiato nel vostro linguaggio, come li dei detronizzati del paganesimo si rifugiavano nella poesia. Dice che la parola di Dio la pronunciamo nell’Eire solenni, mentre il diavolo lo rammentiamo anche per esclamazione>>.[63] L’autore continua dicendo che fin dall’antichità tutti i grandi scrittori, dedicano a Satana almeno un capitolo delle loro opere: chi si occupa della sua sostanza, chi delle sue operazioni misteriose, chi del suo destino, altri della sua malvagità e delle sue astuzie. Nel XVII secolo l’inglese Giovanni Dee <<lega alla biblioteca di Oxford l’istoria delle sue conferenze con gli spiriti infernali, Giacomo I d’Inghilterra per occuparsi di Satana, oblia la cura del proprio regno. Del Rio e gli inquisitori che fanno bruciare le streghe per conferma dei loro sillogismi, dichiarano che negare il diavolo è dubitare di Dio e questi giureconsulti demoniaci, questi procuratori generali di Belzebub redigono il diritto consuetudinario dell’Inferno. Anche la filosofia quando si leva alle ultime sublimità si dà ancora qualche preghiera del demonio e Leibnitz gli dedica una pagina nella sua Teodicea. Sul teatro osceno e mistico dei nostri padri, dice che Satana ha parti importanti, mentre Dio quelle secondarie, come gli dei dell’Olimpo che guardavano le cose degli umani con distacco e senza prenderne parte>>.[64]

Nel Medioevo era un onore municipale per i cittadini, per gli artigiani e per gli artisti sostenere la parte del Diavolo, tanto che erano loro accordati vari privilegi, infatti a Chaumount in Francia agli attori che avevano sostenuto questa parte era concesso di vivere a loro piacere nel paese e da ciò sembra derivare questo detto: <<Se piace a Dio, alla santa Vergine, a messere san Giovanni, io sarò diavolo e pagherò i miei debiti>>.[65]

Satana aveva anche una grande importanza nei drammi del secolo XVI: a varie composizioni fu dato il titolo di “Diavoleria”. Le scene più corte erano rappresentate da due personaggi, quelle più lunghe da quattro, da qui il celebre detto “fare il diavolo a quattro”. Nell’opera dantesca Satana è una creatura orribile e gigantesca, più tardi, nel XVII secolo, con Milton si trasfigura e riprende qualcosa della sua primitiva bellezza. Anche gli scultori spesso si ispirano a questa figura che viene rappresentata con aspetto tetro e orribile, come il simbolo di una natura degradata, caduta dallo stato di intelligenza a livello di animali mostruosi: viene raffigurata con piedi caprini, maschera sul volto per testimoniare la sua duplice natura. Nelle chiese cristiane, durante il XII secolo si può vedere rappresentato in piedi dietro alle bilance che servivano per pesare le azioni dei defunti, proprio come gli dei infernali dell’Egitto. Nelle scene rappresentanti l’Inferno e il Giudizio, appare dotato di strumenti di tortura e di morte come i carnefici. In un bassorilievo nella cattedrale di Chartres, Satana spinge con forza i dannati dentro la gola di un dragone. Sulla tomba del re merovingio Dagoberto, il Maligno conduce, maltrattandola, l’anima dannata del nobile nella sede di Vulcano, forse a causa dei suoi delitti.[66]

La Chiesa, continua il narratore, cerca di trattenere i fedeli sulla via del bene per mezzo della paura: coi commenti e le prediche; anche le statue, le vetrate dipinte raffigurano spesso la laidezza del peccato, con figure grottesche che Ugo di San Vittore mostra mutilate a causa del vizio, senza orecchie, senza labbra, senza braccia, che si rotalono per terra cercando invano di riunire le loro membra al corpo. <<Qui l’arte ha espresso la vittoria del diavolo sull’uomo, altrove egli significa sotto altri simboli, le vittorie dell’Angelo e dell’uomo sul diavolo. Il dragone atterrato da san Giorgio, dall’arcangelo Michele non è altro che l’emblema di Satana vinto>>.[67] Anche la liturgia rinnova il ricordo delle sconfitte subite dal maligno. <<Les gargonilles, les tarvasqus, i basilischi, tutti quelli animali che si trovano in certe città nelle processioni solenni e che si gettavano in seguito alla sepoltura degli asini, come li scomunicati, era ancora il diavolo, che seguiva come i prigionieri nei romani trionfi, la cassa del santo che l’aveva vinto>>.[68]

Per spiegare queste stranezze della fantasia, in cui si mischiano e si confondono il misticismo e l’empietà, il terribile e il grottesco, l’autore sostiene che prima facciamo ricorso all’ignoranza e alla barbarie dei tempi passati, poi, riflettendo, possiamo capire che ogni forma di superstizione ha i suoi antecedenti e i suoi motivi, così dà una spiegazione alla credenza nell’apparizione dei morti: non è altro che il risultato del dogma dell’immortalità, infatti la seconda vita, quella rivelata dal Cristianesimo, quella in cui sono riposte tutte le speranze dei fedeli, l’anima conserva la memoria e le speranze della vita vissuta su questa terra, ma una volta libera e sciolta dai suoi legami è possibile che qualche volta faccia ritorno verso quella terra che conserva la sua spoglia mortale? In quella terra dove, forse, fa ritorno condotta dal ricordo e dall’amore di chi l’ha amata? <<In questi misteri della morte la credulità che ci fa sorridere non è dunque che la conseguenza immediata? della più cara fra le speranze che ci consolano>>.[69]

L’astrologia, che ha le sue radici nella scienza, cerca nei cieli e negli astri la spiegazione del futuro: perché crediamo in tutto ciò? Perché se è in grado di predire rivoluzioni che si compiono nell’immensità dello spazio, può essere in grado di conoscere cose che riguardano il breve cerchio del mondo e quello ancora più breve della vita. L’uomo, quindi, quando si smarrisce nell’assurdo cerca di trovare sempre qualche punto d’appoggio nella razionalità.

Nel Medioevo si crede nell’intervento continuo del Diavolo nelle cose del mondo, ma la verità, continua l’autore, è che fin dai primi tempi, l’intera umanità concepì la nozione di Satana per la coscienza dei mali che ella ha sofferto e quando scrittori come Bardesane, Magnete, Priscilliano o i Sataniani e i “Vodesi” innalzano il Diavolo come idea di causa e lo descrivono come viceré di questo mondo, lo fanno <<onde salvare il dogma della infinita bontà divina e si gettano così nell’eresia per non cadere nella bestemmia.>>.[70]

Proprio per questo l’eresia nega la divinità di Cristo, la purezza della Vergine, i sacramenti, ma rispetta Satana, esaltando la sua grandezza e dilatando i confini del suo super-io, come ha fatto Lutero. Satana è l’incarnazione dei sette peccati che uccidono l’anima, è un secondo dio della creazione: il dio dei malvagi, degli ambiziosi, dei prepotenti, degli avari. L’uomo è capace di adorare in due modi: con il misticismo che tende alla conoscenza assoluta, ai beni immortali; con la stregoneria, che cerca la potenza, la scienza, la fortuna, l’amore, cioè tutti i beni effimeri. <<Questa antica e cupa leggenda del diavolo è forse il simbolo, il più amaro della tristezza infinita cha c’è in tutti i tempi e in tutte le cose, dei semi del vizio, dell’oscuro istinto del male che trovasi in fondo di tutte le anime e che malgrado la sua follia, la sua stessa empietà ha esercitato sul passato una utile influenza. In questa vita, che è tutta ad un tempo una espiazione ed una prova, il cristiano, in faccia a questo nemico che l’assedio e l’assalto, è sempre adunato per la battaglia e sostiene la lotta con confidenza, perché egli sa che Satana non può vincere fuori quelle che cede e cedere vuole: non vincit mini volentem. […] Durante questo impero che Satana si mantenne lungo il corso di diciotto secoli, esso ha inspirato più terrore che Dio non inspirò d’amore, ma da questo terrore medesimo venne all’uomo una forza ed una confidenza per operare il bene che questi non sempre derivarsi dalla sola fede e più di un santo gli deve forse la sua salvezza e la aureola sua>>.[71]

Satana è colui che con fare seducente e serpentino si introduce nella mente degli uomini e più spesso delle donne, è l’attore camaleontico che con le sue apparizioni ingannatrici e false e con i suoi inganni e stratagemmi riesce a irretire l’animo dei mortali, in un universo di incontri veri o presunti, in cui la sua “professione” è sempre quella del tentatore.

NOTE

1 Biblioteca Ambrosiana (d’ora in poi B.A.), Ms. O 307 sup., c. 1 v. e segg.

Nel frontespizio del manoscritto, non datato, troviamo una specie di biglietto da visita con la seguente scritta:

“All’illustrissimo Signor Prefetto della Biblioteca Ambrosiana

Trovai in vecchie carte il qui unito fascicolo manoscritto, che offro alla Biblioteca, sperando che abbia qualche valore storico volle modo. Vi sono narrate le varie credenze popolari sul Diavolo presso vari popoli. Non so donde provenga questo vecchio manoscritto: ne ignoro l’epoca e l’autore: forse qualche paziente studioso potrà saperlo leggendo e studiando l’interessante opera”. Saluti e auguri.

Antonio Marcello Annoni

Ex capo ufficio Cassa di Risparmio Pubblicista-Insegnante Geografia Commerciale

Milano Corso Magenta 78

24\3\1922

2 Cfr. Wikipedia, https://fr.wikipedia.org/wiki/Charles_L%C3%A9opold_Louandre.

3Cfr. A. Coustè, Breve storia del Diavolo, Antagonista e angelo ribelle nelle tradizioni di tutto il mondo, WWW. Castelvecchieditore.com/spirale/mente_anima/estratti/diavolo.html.

4 Cfr. J.B. Russell, Il Diavolo nel Medioevo, Laterza, Bari 1987, prefazione.

5 L. Fabbri, Il Diavolo e l’Acquasanta, in “Chi ha spezzato il giorno delle piccole cose?”, A Domenico Maselli, Professore, Deputato, Pastore, E.P.A Media, Aversa 2007, pagg. 323-348.

6 B.A., Ms. O 307 sup., c. 3 v.

7 B.A., Ms.O 307 sup., c. 3 v. Bardesane fu un siriaco gnostico, fondatore del “bardesanismo” e uno scienziato, studioso, astrologo, filosofo e poeta, noto soprattutto per la sua conoscenza dell’antica India, su cui scrisse un libro, ora perduto. Bardesane nacque nel 154 d.C. ad Edessa da genitori benestanti. A causa dei disordini politici in questo luogo, Bardesane e i suoi genitori si trasferirono in un’altra città, dove fu cresciuto nella casa di un sacerdote pagano di nome Anuduzbar. A scuola, senza dubbio, imparò tutti i dettagli di astrologia babilonese, formazione che segnò per sempre la sua mente. All’età di venticinque anni, ebbe l’opportunità di ascoltare le omelie di Istaspe, vescovo di Edessa, fu allora che si convertì al Cristianesimo, fu battezzato e ammesso al diaconato o al sacerdozio. Prisciliano: vescovo spagnolo, nato in Galizia intorno al 340 e giustiziato a Treviri nel 385 su ordine dell’imperatore Magno Massimo, dopo essere stato denunciato da alcuni vescovi spagnoli. Da lui prende il nome il movimento del Priscillanesimo, che si diffuse in Spagna, Provenza e Aquitania, dove probabilmente sopravvisse fino al VI secolo specialmente in Galizia.Taziano: Apologeta cristiano, nato probabilmente in Siria tra il 120 e il 130. Educato alla cultura greca, fu forse un filosofo vagante sulla moda dei retori o cinici; convertitosi al cristianesimo, più tardi si avvicinò forse a scuole gnostiche e a lui gli eresiologhi antichi fanno risalire la setta degli Encratiti; staccatosi dalla Chiesa insegnò in Oriente, ma passò poi ad Antiochia di Siria. Dopo la conversione scrisse il “Discorso ai Greci”. Cfr. Wikipedia https://it. Wikipedia.org/wiki/Bardesane; https://it.wikipedia.org/wiki/Prisciliano; https://it.wikipedia.org/wiki/Taziano_il_Siro.

8 Cfr. A. T., Pentateuco, Genesi

9 Genesi, 12, 14-17

10 Cfr. Esodo, 7:4-5

11 Cfr. Andrea De Pascalis, Alla scoperta del Diavolo: L’Antico Testamento e i vangeli; http://www.disinformazione.it/diavolo.htm

12 B.A., Ms. O 307 sup., c. 4 v.

13 Ibid.

14 Ibid.

15 Ibid. c. 4 r.

16 Ibid.

17 Ibid. c. 5 v.

18 Ibid. c. 5 r.

19Cfr. B.A., Ms. O 307, c.7 r.

20 Ibid., cc. 8 r. e 9 v.

21 Cfr. B.A., Ms. O 307 sup., c. 10 r.; c. 11 v. Salviano di Marsiglia: scrittore cristiano del V secolo, forse nativo di Treviri; laico, dopo alcuni anni di matrimonio si ritirò a vita ascetica a Lérins; quindi, divenuto sacerdote, visse a Marsiglia. Nel De gubernatione Dei (8 libri, 439-451) contrappose ai vizi dei Romani le virtù dei barbari, sostenendo che questi erano lo strumento della Provvidenza per colpire i trasgressori della sua legge. Cfr. Salviano, De gubernazione Dei, V, 4-5, in IDEM, Oeuvres, II, a cura di G. Lagarrigue, Surces chrétiennes, 220, Paris, Les Edtions du Cerf, 1975, pp.320-29.

22 Il termine, di derivazione greca (splen), venne reso famoso durante il Decadentismo dal poeta francese Charles Baudelaire, con l’accezione di tristezza meditativa o melanconia, ma il concetto di spleen deriva dalla medicina greca e lo troviamo anche nel Talmud, concernente la milza come organo del riso.

23 Cfr. B.A., Ms. O 307 sup.,c.12 v. Santa Pelagia, visse nel III secolo ad Antiochia, era soprannominata Margherita per la sua splendente bellezza, famosa come attrice ma soprattutto come prostituta. Era solita attraversare la città preceduta e seguita da un lungo corteo di servi; ricoperta di gioielli preziosi e riempiendo l’aria di profumi e altri aromi. Un giorno assistettero al passaggio di questo corteo alcuni vescovi, i quali subito distorsero gli occhi da questa visione peccaminosa, ad eccezione del vescovo Nonno, il più anziano, il quale la fissò a lungo e poi disse agli altri vescovi che tale bellezza non poteva che rallegrare, aggiunse che essi avrebbero dovuto pensare a quante ore la donna avesse passato ad ornarsi in quel modo per piacere ai suoi amanti, noi invece che abbiamo la promessa di vedere nei cieli Dio onnipotente non abbelliamo né togliamo le brutture delle nostre anime, ma le lasciamo lì trascuratamente. La donna fu toccata dalle parole del vescovo, andò a inginocchiarsi ai suoi piedi e si fece battezzare, poi cambiò i suoi ricchi abiti con la tunica da penitente e andò a Gerusalemme a piedi, dove visse nella modestia assoluta, tanto che fu scambiata per un uomo e la vera identità fu scoperta solo dopo la sua morte. Cfr, Vitae Sanctae Pelagie meretricis, Patrologia Latina 73.

24 B.A., ms. O 307 sup., cc. 12 v. e 12 r. Si riferisce a Sant’Antonio d’Egitto, nato a Qumans (l’antica Coma) nel 251 circa e morto nel deserto della Tebaide nel 357, considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati. Quanto descritto nel testo ci è stato tramandato dal suo discepolo Atanasio di Alessandria, in “Vita Antonii”, in cui viene descritta la lotta contro le tentazioni di Satana, episodi che vennero in seguito ripresi anche da Jacopo da Varagine nella “Legenda Aurea”.

25 Cfr. B.A., ms. O 307 sup., c. 12 v. Sia dal manoscritto che dall’opera originale non si capisce se si tratti di san Macario il Grande o di san Macario Alessandrino, anche lui monaco e contemporaneo del primo (300-390) e ambedue discepoli di sant’Antonio abate.

26 B.A., ms. O 307 sup., cc. 12 v. e 12 r. San Sulpizio o Sulpicio, fu vescovo di Bourges dal 624 fino alla morte avvenuta nel 647, Cfr. Martirologio Romano, www. Santiebeati.it/dettaglio/39070. San Norberto era nato a Xantes in Germania nel 1080-1085 circa, fu fondatore di un ordine monastico: i Premostratensi e si dedicò anche all’evangelizzazione. Fu vescovo di Magdemburgo, morì nel 1134 e nel 1582 fu dichiarato santo. Cfr. Martirologio Romano, http://www.santiebeati.it/dettaglio/27650.

27 B.A., ms. O 307 sup., cc. 14 v. e 15 r. Nel Medioevo, gli scabini, uomini liberi (ingenui), istruiti nelle leggi (sapientes) di buona condotta (Deum timentes), che, nominati dal re, costituivano un corpo di giudici permanenti nell’ambito della contea o della centena, che si sostituiva ai rachimburgi. La loro istituzione risale all’età carolingia; erano nominati dai missi dominici, erano in numero di 7 o di 12 e il loro giudizio diveniva esecutivo per il tramite della sentenza pronunciata dal conte. Cfr. Encicl. Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/scabini/. La città del nord e il quadro descritto non sono identificabili, in quanto anche nell’opera originale non ne viene fatta menzione.

28 B.A., ms. O 307 sup., c. 15 r. Riportiamo il brano dell’opera originale di Louandre: “En 1118, Hugues de Crécy étrange Miron de Montlhery, son parent; Philip répudie Berthe et enlève Bertrade; Jean-sans-Peur fait tuer le duc d’Orleans: c’est le diable qui a voulu le meurtre et l’adultère; il est plus coupable que Jean-sans-Peur, Hugues et Philippe”. Da evidenziare le date che non coincidono: probabilmente Louandre si riferisce, con la sua data, al primo fatto, l’anonimo invece si riferisce all’assassinio del duca D’Orleans.

29 Cfr. Ibid., c.17v. E’ evidente l’allusione alla “Divina Commedia” di Dante, la diatriba tra gli angeli e i diavoli sembra una trascrizione del canto III del Purgatorio, il cosiddetto canto di Manfredi, figlio di Federico II e nipote di Costanza d’Altavilla, il quale muore scomunicato, ma si trova tratto in salvo per l’eternità per essersi pentito dei suoi peccati in punto di morte. Più avanti menziona ancora Dante e il canto XXXIV dell’Inferno, quando il poeta fiorentino dice di rimane sospeso tra la vita e la morte per l’impressione avuta dalla vista di Lucifero “Lo ‘mperador’ del doloroso regno” e continua a spiegare il canto fino quasi alla fine, sempre con lo scopo di rendere l’idea di quanto sia terribile Lucifero.

30 Ibid., c.19 r.

31 Ibid. Tutto ciò ricorda molto il mondo dei clerici vagantes, dove una folla caotica e allucinata domina la scena, le maleodoranti taverne piene di uomini e donne ubriachi, frati in cerca di piaceri che recitano blasfeme parodie dei testi sacri, buffoni, goliardi, che inneggiavano al vino, all’amore, al gioco, alla fugacità delle vicende umane,all’amicizia, alla celebrazione delle stagioni e dove Parigi era considerato il paradiso sulla terra, dove si cantavano quei canti oggi conosciuti come “Carmina Burana”, anche se l’autore dell’opera originale, edita nel 1842, non poteva conoscere questa raccolta di canti medievali, in quanto edita nel 1847 dal bibliotecario Johann Andreas Schmeller, il quale scoprì circa 250 poesie nel “Codex Buranus” , in latino, francese e medio-alto tedesco, edite appunto nel 1847 con il sottotitolo “Canti e poesie latine e tedesche del XIII secolo, da un manoscritto proveniente da Benediktbeuren”

32 Ibid., c. 20 v.

33 Ibid.

34 Ibid., c22 r. A questo punto terminano la prima e la seconda parte del manoscritto, la terza è compresa tra c.23 v. e la c.48r., ma l’ultima carta è cancellata con dei fregi dall’autore, in quanto ripetizione della carta precedente. La terza ed ultima parte parla dell’amore satanico, l’autore descrive o meglio trascrive l’amore nella vita del Diavolo.

35 Ibid., c 23v. Si riferisce a Filippo re di Macedonia e alla terza moglie Olimpiade, madre di Alessandro Magno. La   nascita di Alessandro, secondo una leggenda molto nota, fu circondata da notizie misteriose, diffuse forse dalla stessa madre: si diceva fosse stato concepito per opera di un serpente e per intervento di Zeus. Nei mosaici della fine del secolo IV d. C. di Baalbek, osserviamo che Filippo volge violentemente le spalle alla moglie, disconoscendo la paternità di colui che diverrà Alessandro il Grande. Cfr. C. Frugoni, Alessandro Magno , in Enciclopedia dell’Arte Medievale, 1991

36 J. Sprenger-H. Kramer, Malleus Maleficarum, Venetiis MDLXXVI, Parte I, Questione III; Cfr. F. Troncarelli, Le streghe, Newton Compton Editori, Roma 1983, p. 23 e segg.

37 B.A., ms. O 307 sup., c. 24 r.

38 Ibid.

39 Ibid., c. 24 v. Nel manoscritto troviamo Eliseo non Elia, probabilmente nel tradurre dal francese è stato confuso il maestro con il discepolo. L’anonimo trascrittore è solito riportare a piè di pagina le note che trova nell’opera originale: questa notizia è presente in “Vie de Guilbert de Nogent, Collect. Guizot, IX, 995. Si tratta di Guilbert de Nogent, monaco benedettino, storico e teologo, fu abate del monastero di Notre-Dame a Nogent, nato nel 1055 (alcuni testi riportano la data del 1053), morto nel 1124.

40 Cfr. Ibid., c. 25 r. e v.

41 Cfr. Ibid., c. 26 r.

42 Ibid., cc. 27r. e 27 v.

43 Cfr. Ibid. c. 28r. Il caso di Marthe Brossier, conosciutissimo nei minimi particolari, deve la sua eccezionalità ad alcuni fattori: con l’aiuto dei padri cappuccini di cui ella era ospite, rende la notizia nota a tutta Parigi e fornisce ai predicatori un nuovo motivo per scatenarsi ancora contro i protestanti. La formula stessa della possessione ricalca i casi di Nicole Obry, di cui accenneremo più avanti, di Jeanne Féry, di Perrine Sauceron, cioè Marthe è posseduta ma non ha patteggiato col Diavolo, come le streghe tradizionali, anzi si atteggia a vittima, bisognosa di esorcismi e supporto spirituale. Cfr. R. Mandrou, Magistrati e streghe nella Francia del Seicento, Laterza, Bari 1979, vol. I, p. 183 e segg.

44 Ibid., cc. 28 r. e 28 v.

45 Ibid., c29 r.

46 Cfr. Ibid., cc. 29v e 30 v. Segue il racconto di un esorcismo fatto da sant’Antonio, in cui il Diavolo non voleva andarsene dal corpo posseduto.

47 Ibid., cc.31 v. e 31 r. Il fatto è molto noto, ma l’elemento innovativo consiste nell’esorcismo pubblico, come più tardi avverrà per il caso Brossier, la quale conosceva molto bene, per averli letti più volte, gli esorcismi praticati su Nicole Obry davanti a centinaia di spettatori. Cfr. R. Mandrou, Magistrati…, p. 214-215

48 Il processo di Loudun fa parte dei tre grandi scandali del XVII secolo: Aix-en-Provence, Loudun e Louviers. Il processo svoltosi ad Aix-en-Provence nel 1611 riguardava un prete accusato di avere stregato una sua penitente, Madeleine Demandols de la Palud, che con le sue accuse fece condannare e giustiziare il prete dopo un breve processo. La ragazza subì per un anno gli esorcismi, riuscendo a convincere tutti della realtà del delitto diabolico. Il caso di Loudun fu ancora più scandaloso del primo: nel 1632 Janne des Anges, priora di un convento di orsoline si dice posseduta dal Demonio e con lei quasi tutte le altre consorelle, molte delle quali erano ragazze appartenenti alla piccola nobiltà locale, addirittura una era parente del cardinale Richelieu e un’altra dell’arcivescovo di Bordeaux. Come già Madeleine Demandols, anche Janne des Anges accusa di stregoneria un prete, Urbain Grandier, curato di S. Pietro al Mercato, canonico prebendario di Santa Croce, ottimo predicatore, confessore e letterato, molto conosciuto nel bel mondo anche per essersi fatto trascinare in avventure femminili poco convenienti alla sua posizione. Martin de Laubardemont, capo della commissione, condanna Grandier al rogo e la sentenza viene eseguita il 18 agosto 1634 al cospetto di seimila persone accorse da tutte le città vicine. La terza tragedia diabolica, quella di Louviers, che cominciata all’incirca nello stesso tempo di Loudun e finita nel 1647, sembra una squallida imitazione dell’eclatante processo di Loudun. Principali protagonisti della vicenda sono una semplice suora Madeleine Bavent, l’accusato Mathurin Picard, curato di Mesnil Jourdain, prete di buona reputazione. Sembra che i disordini si siano limitati ad alcune manifestazioni convulsive in varie religiose in seguito alle chiacchiere sorte per i fatti di Loudun. Il vescovo di Evreux non allarmò le autorità giudiziarie e non fece fare esorcismi; tutto fu messo a tacere e nel 1642 Picard morì e fu sepolto nella cappella del convento. Cfr. R. Mandrou, Magistrati…, vol. II, pp.224 e seg.

49 Cfr. B.A., ms. O 307 sup., cc. 32v.-33r

50 Si tratta certamente di Bartolo da Sassoferrato e della sua opera “Tractatus quaestionis ventilatae coram domino nostro Iesu Christo inter Virginem Mariam ex una parte et diabolum ex alia parte. Cfr. D. Quaglioni, La Vierge et le diable. Littérature et droit, Littérature comme droit, in Politique et Societé, 5/2005, pp. 39-55

51 B.A., ms. O 307 sup., c. 35r. Joannes von Heidenberg, detto Tritheim, era un monaco benedettino tedesco, nato a Trittenheim nel 1462, morto a Wurzburg 1516, abate a Sponheim, dove creò una famosa biblioteca trasferita in seguito in quella vaticana. Le sue opere trattano di teologia, storia, alchimia, medicina, ma fu anche autore del primo testo stampato di crittografia: “Polygraphiae libri sex”, anche se la crittografia moderna nasce con Leon Battista Alberti, quando un funzionario pontificio gli chiese di inventare un metodo di crittografia. Cfr. Enciclopedia Treccani, www. Treccani.it/enciclopedia/giovanni-tritemio

52 E’ con il “Canon Episcopi”, testo attribuito al Concilio di Ankara del 315, ma di origine carolingia, che si esamina la possibilità che alcune donne sostengano di avere la facoltà di compiere malefici o di cavalcare di notte sopra demoni con sembianze di bestie. Da questo documento, che conosciamo in due diverse edizioni risalenti al X-XI secolo, rispettivamente di Reginone di Prum e di Bucardo di Worms, che inizia la credenza nella “Società di Diana” e nel sabba. Cfr., F. Cardini, Magia, stregoneria, superstizioni nell’Occidente medievale, La Nuova Italia 1979, pp. 19 e segg.; C. Ginsburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi,Torino 1972; F. Troncarelli, Le streghe…, p. 25 e segg.

53 Cfr. B.A., ms. O 307 sup., c. 36 v.

54 Ibid., c. 37 r.

55 Ibid., c. 37 v.

56 Ibid., c. 38 v.

57 Cfr. Ibid., c. 38 v. L’autore si riferisce forse ad Avallion, città della Francia centrosettentrionale nel dipartimento dell’Yonne, il cui nome latino è Aballo e nella tavola Peutingeriana occupa un promontorio che domina la valle del Cousin. Ne Medioevo i duchi di Borgogna vi costruirono un castello. Cfr. Enciclopedia Treccani, www.treccani.it/enciclopedia/avallon_(Enciclopedia_dell’_Arte_Medievale)/

58 Cfr. Ibid., c. 39 r. I silfi sono i corrispondenti maschili delle silfidi, figure mitologiche agili, snelle, sono geni del vento e dei boschi, che si spostano nelle correnti aeree anche ad altezze vertiginose. Sono molto timidi anche se amano il contatto con gli uomini, spesso ingannandoli, specialmente quelle femminili; talvolta possono essere dolci, utili e se ritengono che l’aiuto loro richiesto sia giusto, fanno di tutto per aiutare il loro protetto. Le ondine sono creature simili alle fate, le ninfe o spiriti acquatici che stanno nei laghi, foreste, cascate, non possono avere un’anima fino a quando non sposano un uomo e non gli danno un figlio; sono state popolari nella letteratura romantica; molto presenti nel folklore germanico, dove sono descritte come creature simili alle sirene greche. Sono considerate esseri maligni o amichevoli secondo le varie tradizioni. Gli alastori sono figure della mitologia greca, personificazione della vendetta e delle lotte familiari, sono stati associati anche con i peccati che si tramandano da padre a figlio. Nella mitologia romana sono come i geni, o spiriti della casa, che incitano le persone ad uccidere e commettere altri peccati. Il termine gnomo indica uno spirito ctonio, poi il termine è entrato nel folklore europeo per designare gli spiritelli della terra, spesso, secondo le tradizioni, sono confusi con gli elfi e i gobelin. Secondo Paracelso, che fu il primo a menzionarli, si muovono all’interno della terra con estrema facilità e sembra che i raggi del sole possa trasformarli in pietra.

59 Ibid., c. 39 v. La figura del folletto sembra avere avuto origine dai Lari, geni della casa. Nel folclore europeo condivide caratteristiche siminili con il lutin, il coboldo, il brownie, il puck, il gobelin, il leprechaun.

60 Ibid., c. 39 v.

61 Cfr. Ibid., c.40 v.

62 Cfr. Ibid.; Cfr. W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate; Trilbyil folletto di Argail, traduzione a cura di Elena Grillo, Roma: Lucarini, 1988 Titolo originale: Trilby, ou le lutin d’Argail.

63 B.A., ms. O 307 sup., c. 41v.

64 Ibid., c. 42 r.

65 Ibid. Questa frase è inesistente nell’opera originale di Louandre

66Cfr. Ibid., cc. 43 r. e v. Dagoberto divenne unico sovrano di tutti i regni Franchi facendo uccidere le persone che ostacolavano la sua egemonia sul regno e tra questi anche il fratellastro Cariberto. Morì nel 639 a Parigi di dissenteria e fu sepolto nella basilica di Saint-Denis, che da allora divenne il luogo di sepoltura più prestigioso della Francia e dove più tardi saranno inumati Carlo Martello e Pipino il Breve. L’arredo fu affidato all’orafo sant’Eligio. Cfr. Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Dagoberto_|

67 Ibid., c. v.

68 Ibid, cc. 43 v. e 44 r. Le “gargonilles” sono le gronde gotiche; le “tarvasqus” i mostri mitologici; i “ basilischi”, nell’antichità e nel Medioevo, rappresentano rettili fantastici con cresta e corona sul capo e occhi fiammeggianti che uccidevano con lo sguardo.

69 Ibid., c. 44 v.

70 Ibid., c. 45 r.

71 Ibid., cc. 45 v. e 46 r.

 

 

 

 

 

 

STORIA E ORGANIZZAZIONE GERARCHICA DELLE CHIESE CATTOLICHE ORIENTALI(dall’Antichità alla fine del Novecento)

 

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LOREDANA FABBRI

 

A mia figlia

 

PREMESSA

Il presente lavoro è un tentativo di ricostruire la storia dell’organizzazione gerarchica delle Chiese cattoliche orientali “sui iuris” dalle origini fino alla fine del XX secolo, partendo dalla tesi di laurea in Diritto Canonico dell’Avvocato Susanna Fagiolini, la quale ha gentilmente acconsentito alla rielaborazione di quello che fu il lavoro conclusivo dei suoi studi universitari: a Lei vanno i miei più sentiti ringraziamenti. Data l’enorme mole bibliografica esistente su questo argomento, abbiamo cercato di sintetizzare alcuni aspetti principali. Anche nelle parti storiche, questo lavoro non ha certo la pretesa di essere esaustivo, considerando lo spazio temporale che abbraccia molti secoli e gli innumerevoli fatti accaduti.

Il Diritto canonico fa parte di quella “famiglia” chiamata diritto delle religioni, che come il Diritto degli Stati ha all’interno raggruppamenti più piccoli: Diritto ebraico, islamico, indù etc., i quali hanno dei caratteri comuni.

Nell’ordinamento canonico come in quello ebraico ed islamico la validità del diritto dipende dal volere divino e non da quello umano, come invece accade per il Diritto statale, in quanto tutti e tre traggono la loro origine da un complesso di regole rivelate da Dio e raccolte in libri sacri: Bibbia e Corano. Questo Diritto è pressoché immutabile, perché l’uomo non può modificare ciò che è voluto da Dio, diversamente nel Diritto statale, che non presenta un nucleo immutabile, poiché è il diritto stesso che deve adattarsi alle varie società, mentre nel Diritto delle religioni è il diritto che precede la società e questa deve adeguarsi. La funzione di questo Diritto, quindi, non è solo di dare delle regole alla vita terrena dei fedeli, ma anche e soprattutto quella di condurli alla salvezza eterna. Accanto a questi caratteri comuni, ognuna delle religioni presenta poi elementi specifici che non ricorrono nelle altre; nell’ordinamento canonico, ad esempio, abbiamo una fonte normativa privilegiata, in grado di porre norme valide per tutta la Chiesa: il Pontefice.

La Chiesa cristiana, nel corso della storia, si è divisa in una molteplicità di Chiese diverse: cattolica, anglicana, luterana, ortodossa, valdese etc., ognuna di queste Chiese ha un proprio diritto, quindi esiste un Diritto canonico cattolico, anglicano etc. In seno alla Chiesa cattolica, inoltre, c’è un’ulteriore distinzione tra Chiesa cattolica latina e Chiese cattoliche orientali, i cui diritti sono contenuti nel Codice di Diritto Canonico, promulgato nel 1983, per la prima e nel Codice dei Canoni delle Chiese orientali, in vigore dal 1991, per la seconda. E’ di questo ultimo che si occuperà il presente lavoro.

Con l’espressione Diritto Canonico Orientale s’intende il diritto delle Chiese nate dalla prima evangelizzazione degli Apostoli nella parte orientale dell’Impero romano, nella regione oggi denominata Vicino e Medio Oriente. La loro differente formazione ha una giustificazione storica nell’organizzazione gerarchico-territoriale della Chiesa dei primi secoli ed una giustificazione sociale nella diversità di tradizioni proprie e di ciascuna regione o popolo orientale.

Lo scisma d’Oriente, cominciato con Fozio e divenuto definitivo nel 1054 con il Patriarca Michele Cerulario, separa le Chiese orientali dalla Chiesa latina e i Cristiani orientali separati da Roma, a causa del suddetto scisma, gli Ortodossi formano la maggioranza dei fedeli delle Chiese orientali. Ma nel corso dei secoli parte di questi Cristiani si uniscono alla Chiesa cattolica, pur seguendo riti diversi dagli Occidentali e mantenendo alcune particolarità disciplinari. Questi fedeli appartengono alle Chiese cattoliche orientali disciplinate dal “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” (CCEO) del 1990. Il Codice le definisce “Ecclesiae sui iuris”, cioè “Chiese di diritto proprio”, perché si reggono secondo un loro proprio statuto speciale. Fanno parte della Chiesa universale, sono complementari alla Chiesa latina, il loro codice è stato, infatti, posto allo stesso livello giuridico del “Codex Iuris Canonici” (CIC) e definito da Papa Giovanni Paolo II, come il polmone che prima mancava alla Chiesa.

Le Chiese orientali però appartengono ad un mondo molto diverso da quello latino, così come diverse sono le singole Chiese tra loro, tutte con una propria vita, una propria gerarchia, un proprio patrimonio rituale, che sulla base del decreto conciliare “Orientalium Ecclesiarum” e poi naturalmente del nuovo Codice orientale, nessuno pensa, giustamente, che le “particolarità” di tali Chiese debbano scomparire, anzi il Concilio Vaticano II dichiara il necessario rispetto della loro “varietas” e la pari dignità delle Chiese d’Oriente a quella d’Occidente. Si propone, dunque, il problema di una “direzione umana” nella Chiesa, problema comune all’Oriente e all’Occidente, poiché questa particolare istituzione esige un’organizzazione che comporti la subordinazione degli organi inferiori a quelli superiori. Prende allora forma una struttura gerarchica (Papato, Patriarchi in Oriente, Vescovi, Presbiteri etc.) che caratterizza le Chiese cristiane fino alla Riforma protestante, che mette in discussione questa organizzazione, dividendo la Chiesa riformata da quella cattolica che continuava a riconoscere il primato pontificio.

Alle origini la soluzione dei problemi che non riguardavano una sola Chiesa locale, ma l’intera cristianità era demandata ai Concili: organismi decisionali collegiali, che oltre a precisare la dottrina cristiana, dirimendo i conflitti che sorgevano in materia di dogma, esercitavano anche un’attività legislativa e giurisdizionale di primaria importanza.

La dialettica tra esercizio collegiale ed esercizio individuale (Pontefice) dell’autorità è un principio fondamentale della struttura costituzionale della Chiesa cattolica: esistono due soggetti, uno individuale e l’altro collettivo, che esercitano lo stesso potere supremo e universale; il governo della Chiesa deve tradursi in una sintesi tra principio collegiale e principio individuale, l’equilibrio tra questi due principi può collocarsi a diversi livelli e la storia del Diritto canonico testimonia le differenti soluzioni che di volta in volta sono state date al problema.

I primi Concili ecumenici si tengono in Oriente e ad essi partecipano, in prevalenza, Vescovi delle Chiese orientali; il Papa non interviene personalmente, ma è rappresentato da legati, i quali godono di un particolare onore però non  presiedono i Concili; in tal modo l’efficacia delle decisioni conciliari non dipende dall’approvazione del Pontefice. A partire dal V secolo, però, i Papi iniziarono ad affermare che il Concilio non può contraddire una decisione presa da loro stessi ed inoltre si profila l’idea che essi abbiano un generale potere di conferma delle decisioni conciliari. I Vescovi delle Chiese orientali sono riluttanti ad accettare queste tesi e si intravede già, proprio sul terreno del rapporti tra Concilio e Pontefice, il profilarsi della frattura tra Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente, sancita dallo scisma del 1054.

La Chiesa orientale sviluppa una concezione collegiale del governo ecclesiastico, basata sull’idea che la Chiesa universale sia costituita da tante Chiese particolari, in comunione tra loro, ma non subordinate l’una all’altra, con la conseguenza che le decisioni più importanti debbano essere prese dall’organismo rappresentativo di tutte le Chiese, cioè il Concilio. Nella Chiesa d’Occidente si consolida il potere del Papa e s’impone la supremazia della Sede di Roma.

Da un lato, la Chiesa cristiana d’Oriente (comunemente definita Ortodossa), affidata all’azione comune dei Patriarchi delle Chiese ortodosse di maggiore importanza; dall’altro la Chiesa cristiana d’Occidente (Chiesa cattolica), il cui governo è affidato al Pontefice. Dopo questa frattura l’Istituto conciliare assume, nelle regioni orientali rimaste fedeli a Roma, caratteri profondamente diversi.

La pratica sinodale ha sempre avuto ed ha tuttora un posto prioritario e un valore determinante nel governo ecclesiastico delle Chiese orientali cattoliche. Nelle Chiese ad istituzione patriarcale, la prima forma di Chiese “sui iuris”, l’autorità personale del Patriarca è bilanciata dal Sinodo dei Vescovi della sua Chiesa, di cui ha la presidenza, dal Sinodo permanente e dall’Assemblea patriarcale. La potestà legislativa compete al primo di questi organismi, così come quella giudiziaria è molto ridotta nella figura del Patriarca, perché quasi esclusivamente riservata allo stesso Sinodo. “Superiore istanza” della Chiesa patriarcale, afferma il CCEO, è il Patriarca con il suo Sinodo, che mette in pratica il senso collegiale del ministero apostolico. Questa sinodalità si riflette, sebbene con modalità diverse, anche nelle Chiese “sui iuris” non patriarcali (cioè nelle Chiese che hanno le altre tre strutture gerarchiche).

I Sinodi orientali hanno una funzione del tutto diversa da quella dei Sinodi della Chiesa latina, organi prevalentemente consultivi  come il Sinodo dei Vescovi e i Sinodi diocesani. Il principio di sinodalità, così fondamentale per le Chiese orientali cattoliche, che hanno sempre cercato di rispettare le antiche tradizioni, è stato “riscoperto” dal Concilio Vaticano II che ridefinisce il regime della Chiesa in base alla dottrina della collegialità e alla più antica e autentica tradizione che negli ultimi secoli non erano state tenute sufficientemente presenti, dato il “potere assoluto” dei Pontefici.

Capitolo I

IL CODEX CANONUM ECCLESIARUM

La legislazione delle Chiese orientali prima del Concilio Vaticano II

 

Il Concilio Vaticano I fu indetto da Pio IX (Giovanni Mastai Ferretti) con la bolla “Aeterni Patris” del 29 giugno 1868, fu interrotto nel 1870 a causa della guerra franco-prussiana e fu chiuso ufficialmente nel 1960. La convocazione del Concilio si inseriva nella visione del Pontefice di una società cristiana restaurata; a tale scopo vennero invitati a partecipare all’assemblea generale anche i rappresentanti delle altre confessioni cristiane, ma l’invito all’assise fu respinto perché considerato una provocazione dai destinatari. I risultati del Concilio videro l’affermazione dell’ultramontanismo, che sostenne un governo della Chiesa centrale basato sul Vaticano. Nel corso dei lavori furono sanciti il dogma dell’infallibilità del Papa in materia di fede e di morale e quello della conoscenza di Dio con la sola ragione e fu richiesta insistentemente la codificazione del diritto canonico orientale.[1] Il problema più grande era dato dalla difficoltà di conoscenza del diritto orientale stesso, che proveniva da varie fonti, redatte in diversi tempi; emergevano, quindi, difformità, complicanze e confusioni.

Il “corpus iuris” degli orientali cattolici comprendeva: a) canones antiqui; b) collectiones antiquae; c) Acta Apostolicae; d) Synodi approbatae; e) Synodi non approbatae; f) ius consuetudinarium; g) ius patriarchale; h) edicta civilis de re ecclesiastica; i) disciplina religiosorum.[2]

La “Commissione sulle missioni e le Chiese di rito orientale”, preparatoria al Concilio Vaticano I, riconobbe che le Chiese orientali avevano un grandissimo bisogno di un codice di diritto canonico che costituisse la loro disciplina, cioè di un codice di grande autorità, completo e comune a tutte le nazioni e adattato alle circostanze dei tempi. Nel 1862, papa Pio IX aveva costituito una Congregazione speciale di Propaganda Fide per gli affari di Rito orientale finalizzata ad una raccolta di diritto pontificio per gli orientali, ma quando il Concilio Vaticano I venne interrotto, la codificazione non fu tradotta in decisioni formali.[3] Molti anni dopo, il 27 maggio 1917, venne promulgato il “Codex Iuris Canonici” e sempre nello stesso anno, Benedetto XV istituì la Pontificia Commissione per l’interpretazione autentica del suddetto Codice, tale Commissione è stata attiva fino all’erezione della Pontificia Commissione per la revisione del Codice di Diritto Canonico, costituita da Giovanni XXIII, il 28 marzo 1963, la cui finalità era quella di preparare, sulla base dei decreti del Concilio Vaticano II, la riforma del Codice promulgato nel 1917. Benedetto XV, il primo maggio 1917, istituì la “Sacra Congregazione per la Chiesa orientale”, pochi mesi più tardi fondò a Roma la “Sede propria degli studi superiori delle Scienze orientali”, cioè il Pontificio Istituto di Studi orientali.

A poco a poco in tutte le Chiese prevalse l’opinione che le leggi comuni a tutte le Chiese orientali, o che si ritenevano dover essere comuni, fossero raccolte in un solo “corpo di leggi” organico promulgate dal Papa e composto a cura della Sede Apostolica. A questo proposito Pio XI, nel 1929, istituì “La Commissione Cardinalizia per gli studi preparatori alla codificazione orientale”. Lo stesso Pontefice costituì, nel giugno del 1935, con un cambio nominativo, la “Pontificia Commissione per la redazione del Codice di diritto canonico orientale”, con lo scopo di dirigere la redazione del testo dei canoni. Il testo del Codice, più volte ritrascritto ed emendato, fu presentato al Papa nel 1948 e venne presa la decisione di presentarlo per parti: per primi vennero stampati i canoni sul sacramento del matrimonio,[4] in quanto ritenuti più urgenti, poi quelli per l’amministrazione della giustizia, infine i canoni sui giudizi.[5] Nel 1952 furono pubblicati i canoni sui “Religiosi”, sui “Beni temporali”, e sul “Significato delle parole”;[6] infine nel 1957, con la Lettera apostolica “Cleri Sanctitati” venne pubblicato il diritto relativo ai Riti orientali e la normativa relativa alle persone fisiche e giuridiche.[7] L’opera di redazione si interruppe con la celebrazione del Concilio Vaticano II, poiché anche tale legislazione avrebbe dovuto recepire i principi e le indicazioni del Concilio.[8]

Prima del Concilio Vaticano II non era chiaro in che modo le Chiese d’Oriente, unite alla Santa Sede, dovessero adottare la disciplina occidentale e potessero essere libere di mantenere la loro normativa. Tutti i Pontefici avevano dichiarato che tali Chiese dovevano salvaguardare il loro patrimonio spirituale, ammettendo una diversità liturgica ma altra cosa era ammettere concretamente una diversità disciplinare. I Papi intervennero frequentemente nella vita di tali Chiese, non con un diritto orientale, ma con il diritto romano ad uso degli Orientali.[9]

 

La legislazione delle Chiese orientali dopo il Concilio Vaticano II

E’ nel Concilio Vaticano II che troviamo il fondamento della disciplina propria degli Orientali, in cui è riconosciuta l’esistenza, in seno alla Chiesa universale, di Chiese particolari e viene affermato che l’unità non significa uniformità in tutto: <<In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescano per uno scambio mutuo e universale e per uno sforzo comune verso la pienezza dell’unità […] Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della Cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia perché ciò che è particolare, non solo nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva>>.[10] Questo significa che tra le diverse parti della Chiesa esistono vincoli che accomunano i tesori spirituali, l’operato apostolico e le risorse materiali: i membri del popolo di Dio sono chiamati ad amministrare bene e a condividere i beni spirituali e materiali ricevuti. Il decreto “Orientalium Ecclesiarum”, poiché tratta molti campi disciplinari, si può considerare un primo tentativo di riforma conciliare delle Chiese orientali.[11] Si tratta del primo decreto a carattere disciplinare promulgato tra quelli che furono discussi nel terzo periodo del Vaticano II. Esso contiene soltanto alcuni criteri, ma questo non significa mancanza d’interessamento né di superficialità verso gli Orientali cattolici, ma apprezzamento dei loro Sinodi patriarcali, cui spetta il compito di completare le norme disciplinari per le loro Chiese.[12]

Il 10 giugno 1972, Paolo VI istituì la “Pontificia Commissio Codicis Iuris Canonum Ecclesiarum Orientalium” (PCCICOR) e nello stesso tempo stabilì che la precedente Commissione, eretta nel 1935 “per la redazione” del Codex Iuris Canonici Orientalis (CICO), fosse soppressa. La nuova Commissione, costituita da Patriarchi orientali e da Cardinali che avevano esperienza sulle Chiese orientali, ebbe come presidente Monsignor Giuseppe Parecattil, che papa Paolo VI elevò al rango di cardinale nel concistoro del 28 aprile 1969, già Arcieparca metropolita di Ernakulam-Angamaly dei Siro-Malabaresi, il quale aveva il compito di revisionare i canoni già promulgati, accogliere i consigli del Vaticano II, codificare le parti che mancavano con particolare attenzione ai tempi mutati e alle circostanze del tempo, cercando di <<…ottenere un codice comune veramente corrispondente al bene dei fedeli delle Chiese cattoliche orientali, che vivono in diversi ambienti, lasciando a ciascuna la codificazione del suo particolare “ad normam iuris”>>.[13] Terminato il lavoro della PCCICOR, e promulgato, il 18 ottobre 1990, il “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium”, Giovanni Paolo II ha soppresso la suddetta Commissione, attribuendo, a norma della Costituzione Apostolica “Pastor Bonus”, art. 155, al Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi il compito di interpretare il medesimo Codice e tutte le leggi comuni delle Chiese Orientali Cattoliche.[14]   Spetta al Consiglio di proporre l’interpretazione autentica, confermata dall’autorità pontificia, delle leggi universali della Chiesa, dopo aver sentito nelle questioni di maggiore importanza i dicasteri competenti circa la materia presa in esame.[15]

La Commissione inizia i lavori nel marzo del 1974: tutte le sedute sono dedicate all’esame delle norme da seguire per la messa a punto del Codice orientale. Il progetto di tali norme era stato elaborato dal “Coetus Centralis”, basandosi su un testo preparato dalla Facoltà di Diritto Canonico Orientale del Pontificio Istituto Orientale, contenente i “Principi direttivi” per il controllo del codice.[16] Il risultato di questo lavoro sono gli otto schemi del Codice, di cui i primi sono inviati (giugno 1980) agli Organi di consultazione: Patriarchi, Episcopato orientale, Dicasteri della Curia Romana. Nel mese di ottobre del 1984, lo schema “De Constitutione Hierarchica Ecclesiarum Orientalium” è inviato per ultimo e due anni più tardi, si giunge ad un unico schema del Codice (giugno 1986).

Il 28 gennaio 1989 il testo del nuovo “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” (CCEO) fu consegnato al Pontefice ed emanato il 18 ottobre del 1990 da parte del legislatore Giovanni Paolo II per entrare in vigore il primo ottobre 1991.[17] Dopo quasi diciotto anni di lavoro, quest’atto rappresentava l’apogeo dell’attività della PCCICOR, che alla sua istituzione, l’allora Segretario di Stato, Cardinale Jean Villot, specificava il compito nella lettera di costituzione, consistente nel preparare, in base soprattutto dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II, la riforma del Codex Iuris Canonici Orientalis sia nelle parti che erano già state pubblicate, sia in quelle parti già ultimate ma non ancora pubblicate.[18] Quasi tutto l’iter del lavoro affrontato dalla PCCICOR è stato riportato dall’organo ufficiale della Commissione: la rivista “Nuntia”, da cui si può desumere che i vari membri costituenti tale Commissione erano divisi in dieci gruppi di consultori, ognuno dei quali compilava uno schema di canoni riguardante un argomento particolare che sarebbe stato trattato nel nuovo Codice; il lavoro della Commissione era coordinato dal “Coetus Centralis”.[19] Nell’ultimo anno prima della sua promulgazione furono fatte le ultime modifiche ai canoni del Codice: alcune di natura linguistica, altre di maggiore importanza, ma l’ultimo numero della rivista “Nuntia” evidenzia queste modifiche, senza però darne spiegazioni.[20] Con la Costituzione apostolica “Sacri Canones” (18 ottobre 1990) per la prima volta nella storia della Chiesa è pubblicato un corpo di norme canoniche completo e comune a tutte le Chiese orientali cattoliche.

A causa delle profonde diversità storico-culturali esistenti tra le Chiese orientali è stato fondamentale che la normativa del Codice enunciasse quelle disposizioni ritenute necessarie al bene comune, per il resto è stato lasciato ampio spazio ai legislatori particolari, perché, sulla base degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, provvedessero in conformità alle tradizioni delle loro Chiese.[21] Il CCEO diventa parte integrante della legislazione ecclesiastica allo stesso modo del “Codex Iuris Canonici” (CIC), promulgato nel 1983 e avente valore di legge per la Chiesa latina, insieme alla Costituzione apostolica “Pastor Bonus” del 28 giugno 1988 riferita alla Chiesa universale.[22]

Papa Giovanni Paolo II ha posto il CCEO allo stesso livello giuridico del CIC, esprimendo il desiderio che entrambi i Codici venissero studiati come parti di un tutto. La loro uguaglianza e complementarità sono ben illustrate dalla metafora, nella costituzione “Sacri Canones”, dei due polmoni della Chiesa, quello orientale e quello occidentale: <<Ipsa inde ab exordiis codificationis canonicae orientalium Ecclesiarum costans Romanorum Pontificum voluta duos Codices, alterum pro latina Ecclesia alterum pro Ecclesiis orientali bus catholicis, promulgandi, admodum manifesto ostendit velle eosdem servare id quod in Ecclesia, Deo providente, evenit, ut ipsa unico Spirutu congregata quasi duo bus pulmonibus Orienti set Occidentis respiret atque uno corde quasi duos ventriculos habente in caritate Christi ardeat>>.[23]

I motivi del nuovo Codice sono illustrati dalla costituzione apostolica “Sacri Canones”: il primo verte sulla più grande fedeltà che deve porsi in atto da parte di tutti nella Chiesa, perché venga conservata la ricchezza delle Chiese orientali, costituita da una notevole varietà di riti liturgici, di contenuti teologici e spirituali, di norme disciplinari. L’unità di questa diversità si rivela nel riferimento comune ai sacri canoni, cioè alle tradizioni apostoliche, alle disposizioni conciliari ed ai decreti dei Pontefici. Il secondo motivo è di carattere ecumenico: nella costituzione “Sacri Canones” è messo in evidenza il fatto che le Chiese orientali, non ancora in piena comunione con la Chiesa Cattolica, sono rette dal medesimo patrimonio disciplinare, costituito dai Sacri Canoni dei primi secoli della Chiesa. Il Codice rappresenta un mezzo specifico ed efficace di promozione dell’unità della Chiesa.[24]

Con la promulgazione del CCEO si può considerare arrivato alla fase conclusiva il rinnovamento delle leggi della Chiesa, voluto da Giovanni XXIII, da Paolo VI e dal Concilio Vaticano II.

Il nuovo Codice presenta una struttura molto diversa dal CIC della Chiesa latina: è diviso in “titoli”anziché in “libri” con poche suddivisioni in capitoli ed articoli.[25] Per il titolo generale, anziché “Codice di Diritto Canonico Orientale”, con il quale è stato designato fino al 1972, è stata preferita la denominazione “Codice dei Canoni delle Chiese Orientali” che indica il contenuto del Codice in modo positivo e oggettivo, con esplicito riferimento all’oggetto (canoni) e al suo concreto soggetto (le Chiese orientali).[26] Il cambio del titolo è stato considerato da alcuni come una scelta poco giustificata, anzi l’aggiunta “orientalium” pone le Chiese orientali in una situazione d’inferiorità o perlomeno di diversità nei confronti della Chiesa latina, forse l’aggiunta  del termine “catholicarum” avrebbe distinto il Codice dalla legislazione delle Chiese ortodosse.[27]

Il CCEO è stato redatto in lingua latina, anche se una lingua come il greco poteva essere ritenuta una possibilità per un codice orientale, ma non fu giudicata funzionale, poiché la lingua greca è compresa solo in alcune Chiese orientali. Utilizzando il latino per la stesura del Codice furono, ovviamente, incrementati i timori di una latinizzazione di questo diritto; la lingua latina, però, sembrò essere la più adatta per la sua universalità, solo nel marzo 1992 è stata pubblicata la prima traduzione in una lingua moderna: l’inglese.[28]

Ma, sostanzialmente, quali sono state le novità del CCEO? E’ difficile stabilirlo, perché non si tratta di elencare una serie di novità contenute in questo Codice, ma si tratta di saper cogliere lo spirito, l’anima orientale della Chiesa cattolica attraverso queste novità. Il Codice del 1917 ricalcava lo schema derivato dal diritto romano che prevedeva la trattazione di “Personae, Res, Actiones”, ossia persone, beni e rimedi giudiziali; quello del 1983 poco si discosta dal primo, inserendo nel suo schema il triplice “Munus” di santificare, insegnare e reggere, anche in modo incompleto; il CCEO va oltre, va verso il futuro, perché diretto a Chiese che nella maggior parte dei casi vivono in contesti difficili se non addirittura drammatici. In alcuni casi rappresenta un palese progresso rispetto ad alcune soluzioni giuridiche vigenti nel Codice latino (1983); evidenzia come le Chiese orientali possono vedere che la comunione con Roma non reprime le antiche e ricche tradizioni orientali; infine si può notare come la varietà di queste Chiese non danneggia la Chiesa universale, anzi la rivela.

Il termine Ekklesia significa assemblea convocata, convocazione, in tal caso la Chiesa non è che una chiamata di Dio alla comunione e la sua unità è originata e si realizza con la risposta degli uomini disposti alla partecipazione della stessa vita, stessi beni spirituali, stessa fede, stesso Vangelo, stessi sacramenti, ma tutto questo significa che la Chiesa è comunione tra fratelli, espressa però in un ordinamento sociale, comprendente la comunione ecclesiale e quella gerarchica, che si implicano a vicenda, poiché i Vescovi sono in comunione con il Collegio, le Chiese particolari lo sono tra di loro e con la Chiesa di Roma, il cui Pontefice è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità della fede e della santa comunione, ma anche dell’unità sia dei Vescovi sia dei fedeli. I singoli vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro chiese particolari, formate ad immagine della Chiesa universale, quindi i singoli vescovi rappresentano la propria Chiesa e tutti insieme col Papa rappresentano quella universale ( Lumen Gentium. LG, 23); in tale contesto ecclesiologico va inserita l’istituzione del Patriarca, il quale presiede ad un’intera Chiesa come Padre e Capo. Il CCEO vuole adempiere le aspirazioni della rinnovata ecclesiologia durante il Concilio Vaticano II, riferendosi soprattutto al concetto di Chiesa come mistero di comunione, ossia “Ecclesia universalis” e”varietas Ecclesiarum”.[29]

Il CCEO cita (in nota) come fonti principali dell’istituzione delle antiche Chiese patriarcali i canoni 6 e 7 del Concilio ecumenico di Nicea (325), il cui testo non attribuisce alla volontà di Cristo la loro origine, quindi non fa parte della divina costituzione della Chiesa, ma ad una disposizione della Provvidenza divina per essere al servizio della comunione ecclesiatica e mantenerla in Oriente come in Occidente, appoggiandosi alle sedi episcopali fondate dagli apostoli, come vuole la tradizione, tenendo conto che le divisioni territoriali nulla tolgono all’unità della fede ed alla costituzione divina della Chiesa universale.[30]

Durante i quasi venti anni di lavoro per il CCEO, sono state sollevate molte problematiche, soprattutto di ordine ecclesiologico, indubbiamente nella normativa del Codice le Chiese orientali “sui iuris” non sono equiparate a quelle autocefale ortodosse, che si amministrano in modo completamente autonomo, in base alla loro ecclesiologia prevalentemente conciliare e concepita diversamente da quella cattolica; l’autonomia delle Chiese cattoliche orientali è relativa, in quanto il CCEO riconosce l’autorità dei Patriarchi nelle loro Chiese, ma la suprema autorità resta quella riconosciuta nel Pontefice di Roma e nel Concilio ecumenico, infatti sono chiese “sui iuris”, cioè riconosciute come tali e governate a norma del diritto approvato dalla suprema autorità della Chiesa: è vasto il numero dei canoni in cui si richiede l’intervento o il consenso della Sede Apostolica, che deve essere informata su varie materie. La stessa promulgazione del CCEO, come già detto, è un atto legislativo esclusivo del Pontefice, i Patriarchi sono stati membri della Commissione Pontificia per la revisione del Codice e questo fa vedere i limiti e il senso dell’autonomia delle Chiese orientali. Il Pontefice romano, allora, si può considerare come Patriarca d’Occidente? Il CCEO non parla di questo argomento e i pareri degli studiosi sono discordi. Il Patriarcato è un’istituzione della Chiesa universale, quindi non esclusivamente orientale e la sua origine risale al tempo della Chiesa indivisa. Il Papa, in quanto Patriarca, è il capo supremo della Chiesa latina, ma non è condizionato da organi sinodali come lo sono i Patriarchi delle Chiese orientali, infatti l’esercizio del primato della Chiesa latina è molto diverso da quello verso le Chiese orientali, ciò è avvalorato dalla duplice codificazione e dal principio conciliare, per cui i Patriarchi rappresentano la superiore istanza per tutte le questioni del loro patriarcato, salvo restando l’inalienabile diritto di intervenire nei singoli casi da parte del Pontefice romano.

L’origine dell’istituzione patriarcale nei testi precedenti (Cleri Sanctitati) il CCEO era data e riconosciuta dal Pontefice di Roma (data seu agnita), ma durante la redazione del Codice veniva modificato il suddetto canone “Cleri Sanctitati” in questo modo: <<Secondo una antichissima tradizione della Chiesa, già riconosciuta nei primi Concili ecumenici o dal Romano Pontefice, è riservato uno speciale onore ai Patriarchi delle Chiese orientali, dato che ognuno presiede alla sua Chiesa patriarcale come padre e capo>>.[31] Nel decreto conciliare “Orientalium Ecclesiarum (7 e 8) viene ripresa questa descrizione, omettendo “o dal Romano Pontefice (riconosciuta)”, che non appare nel testo conciliare, poiché, come si può evincere dagli atti della PCCICOR (Pontificia Commissio Codicis Iuris Canonici Orientalis Recognoscendo) , il riferimento al Romano Pontefice è stato aggiunto <<…per sottolineare che una tradizione sebbene antica non può essere valida nella Chiesa , senza il consenso almeno implicito del Romano Pontefice, consenso che da se stesso è sufficiente>>.[32] In conclusione essendo l’istituzione patriarcale antichissima, creata quando la Chiesa era ancora indivisa, non è un’istituzione data per esplicita concessione del Papa, come invece pretende il “Cleri Sanctitati” (CS) can. 216 §1, ma un’istituzione sancita dagli antichi Concili ecumenici e tacitamente riconosciuta dai Pontefici e i diritti e i privilegi goduti dai singoli Patriarchi furono concessi dagli antichi Concili, celebrati insieme dall’Oriente e dall’Occidente. Secondo il CCEO (can. 63) il Patriarca non viene eletto dal Pontefice, ma dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, per al validità dell’elezione canonica non occorre un atto di conferma da parte del Papa, bensì la comunione ecclesiastica con lo stesso, comunione richiesta e concessa. Le relazioni tra il Pontefice e i Patriarchi sono intrattenute anche da un procuratore che ogni Patriarca può avere presso la Santa Sede, nominato personalmente con il previo assenso del Papa, come vedremo in modo più dettagliato, più avanti nel presente lavoro.

Concludiamo il capitolo con le parole di Dimitri Salachas: <<Certamente il CCEO non è il modello nella prospettiva nella ricerca dell’unità con l’Oriente cristiano; l’ecclesiologia del Codice è più ristretta di quella del Concilio, comunque, malgrado le sue lacune, la nuova codificazione orientale apre delle prospettive con dei limiti imposti dal contesto storico  in cui è stata formata. La codificazione cattolica orientale non è finita, ma sarà completata quando tutte le Chiese orientali sui iuris avranno emanato il loro diritto particolare, che potrebbe colmare le lacune del Codice comune>>.[33]

Capitolo II

LO SCISMA TRA ORIENTE ED OCCIDENTE FINO ALLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI

Il Cesaropapismo nel IV e V secolo

        Fattori politici, culturali e teologici sono le cause principali che hanno determinato lo scisma tra le Chiese d’Oriente e quella d’Occidente: in primo luogo il trasferimento della capitale dell’Impero da Roma a Costantinopoli, poi la notevole identificazione delle Chiese orientali con “l’imperium” bizantino, che sotto il basileus, signore e legislatore, anche se non assoluto della Chiesa, particolarmente dopo Giustiniano, dà luogo a quel sistema di relazioni tra potere politico e religioso chiamato “cesaropapismo”.[34]

Dopo tre secoli di cruenti persecuzioni e repressioni contro i Cristiani, l’ultima e la più grave era stata quella di Diocleziano (303), la situazione cambia durante il IV secolo: essi sono diventati ormai troppo numerosi e le autorità romane si rendono conto che la repressione è inutile, quindi abbiamo un rapido capovolgimento della politica romana, che ora preferisce riconoscere la legittimità del Cristianesimo, vedendo in tutto questo un elemento di unità e rafforzamento dell’Impero.

L’editto di Costantino e di Licinio (313) prima, che colloca la religione cristiana sullo stesso piano delle altre religioni e l’editto di Tessalonica (380) dopo, che impone tale religione, mettendo fuori legge tutte le altre, pone il Cristianesimo come religione dell’Impero e i perseguitati divengono persecutori: vengono proibiti i sacrifici agli dei pagani, l’ingresso ai templi, la venerazione pubblica degli dei e, infine, anche il culto privato degli dei. In tal modo il Cristianesimo passa, in meno di un secolo, da religione perseguitata a religione ufficiale dell’Impero, aprendo la strada alla completa integrazione dei Cristiani nell’ambito dell’Impero romano che si evolverà in Impero romano-cristiano. Le leggi e le usanze si trasformeranno in modo da renderli più accettabili dai Cristiani e per favorire la loro integrazione, inoltre, dopo le invasioni barbariche, è l’Impero che dà sicurezza e ordine di cui la Chiesa ha bisogno per il proprio incremento e carattere provvidenziale: Dio ha permesso che le conquiste romane raggiungessero i confini del mondo conosciuto per portare l’evangelizzazione presso i popoli. Si crea un’interdipendenza tra la tradizione cristiana e quella romana, le cui usanze e consuetudini penetrano ampiamente nei costumi cristiani, specialmente nel campo del diritto: a differenza dei primi tre secoli, ora il diritto canonico acquista una forza che non aveva avuto in precedenza, le disposizioni canoniche sono progressivamente accolte nel diritto dello Stato e acquisiscono forza di legge a tutti gli effetti.

Tutto questo modifica e limita il principio dualistico affermato dal Cristianesimo: ora Dio e Cesare sono sullo stesso orizzonte ideologico e Cesare ha il compito di far rispettare il volere di Dio, con la conseguenza che cambia la posizione e il ruolo dell’imperatore, il cui potere non è soltanto quello di assicurare un ordinato sviluppo della società, ma anche quello della difesa e prosperità della Chiesa. All’imperatore viene spesso richiesto di interporsi nelle vicende interne della Chiesa (convocare Concili, far valere decisioni, punire gli eretici etc.), ma spesso tutto questo dà luogo a contestazioni all’interno della Chiesa e le parti contrastanti si rivolgevano all’imperatore per ottenere il sostegno, poiché il pontefice non godeva ancora di un’autorità inconfutabile, quindi non era in grado di risolvere i problemi con decisioni proprie; conseguentemente l’imperatore diviene colui che mantiene l’ordine e risulta decisivo in una disamina e finisce con l’esercitare un enorme potere su tutta la Chiesa. Da qui l’origine del cesaropapismo, un insieme di rapporti tra Stato e Chiesa, dove il sovrano esercita anche rilevanti poteri in materia religiosa, fungendo anche da Papa. Questo sistema s’impone dal IV secolo, per tre ragioni principali: in primo luogo esso trova corrispondenza con la tradizione romana: Augusto era anche pontifex maximus, cioè la più alta autorità religiosa e questa tradizione, pur ridimensionata, non scomparve con l’avvento del Cristianesimo. In secondo luogo, nel IV e V secolo il potere del Pontefice è ancora piuttosto debole, per cui la comunità cristiana manca di un’autorità universalmente riconosciuta, questo vuoto di potere è riempito dall’imperatore, l’unico soggetto che possiede i mezzi materiali necessari per assicurare l’esecuzione e il rispetto dei propri ordini. L’ingerenza dell’imperatore nella Chiesa è anche favorita dalla persuasione che su di esso gravino incombenze non solo politiche ma anche religiose e che abbia il compito di fronte a Dio di prendere parte intensamente nella vita della Chiesa per assicurarne la prosperità.[35]

Per garantire, con sanzioni civili, il rispetto dei dogmi della Chiesa, l’imperatore si arroga il compito di legiferare su materie strettamente religiose, ma questa convinzione porta presto all’esercizio dei poteri ecclesiastici da parte dell’autorità statale: L’imperatore convoca, presiede i concili e ne conferma le decisioni; interviene nella definizione di questioni dogmatiche, esilia, come nel caso dell’imperatore Costanzo II, che esiliò Papa Liberio perché di fronte al favore accordato dall’imperatore all’arianesimo, Liberio difese la dottrina di Atanasio, relegandolo a Berea in Tracia, da dove poté ritornare a Roma solo dopo essersi piegato a sconfessare Atanasio.[36] L’imperatore aveva anche la facoltà di deporre, ne è un esempio il caso di Papa Silverio: l’imperatore Giustiniano avrebbe scritto a Silverio chiedendogli di raggiungere Costantinopoli per restaurare Antimo nella sua sede, ma il papa avrebbe risposto che mai si sarebbe reso colpevole di tale crimini, cioè di richiamare un eretico condannato per la sua perfidia. L’imperatrice Teodora decise la rovina di Silverio, inviando a Roma una lettera per il generale Belisario, in cui gli intimava di deporre il Papa e sostituirlo con il diacono Vigilio.[37] L’imperatore giudica in grado di appello le sentenze dei tribunali vescovili. A queste pretese si oppongono le autorità ecclesiastiche e i Pontefici stessi, ma questa opposizione ha risultati diversi: deboli in Oriente, dove l’impero, resistendo alle invasioni dei barbari, è in grado di garantire un’effettiva continuità di governo e dove il potere dell’imperatore, che risiede a Costantinopoli è più forte di quello del Pontefice che sta a Roma; più considerevoli in Occidente, dove l’organizzazione imperiale crolla nel 476 (caduta dell’Impero romano d’Occidente) e l’autorità dell’imperatore d’Oriente si fa sempre più fragile e nella progressiva disgregazione delle istituzioni civili, la sola organizzazione in grado di assicurare un minimo di ordine e di pace appare la Chiesa.[38] Nel 448 papa Gelasio scrive che Dio ha affidato ai vescovi e non al potere secolare il compito di dirigere la Chiesa e che i provvedimenti degli imperatori siano sottomessi alle autorità ecclesiastiche, non il contrario.[39]

Se in Oriente il cesaropapismo si rafforza e si stabilizza in un sistema che caratterizzerà per lungo tempo questi paesi, in Occidente, contemporaneamente, abbiamo la fondazione di un sistema ecclesiastico organizzato uniformemente sotto il primato del vescovo di Roma (papalismo), la cui Chiesa si appoggia molto sui re e sui popoli barbari convertiti al Cristianesimo, ma l’idea che il Pontefice dipenda dall’imperatore non riuscirà ad affermarsi, nemmeno nei momenti di maggiore debolezza della Chiesa.[40]

In seguito due fatti importanti: il noto falso storico della “donatio Costantini” ai Papi e l’incoronazione di Carlo Magno dell’800 a imperatore romano, nonostante germanico, accanto all’autentico imperatore romano (bizantino): è per questo motivo che gli orientali si sentirono traditi dai latini; l’appellativo stesso di “ecumenico” attribuito al patriarca di Costantinopoli e la sua crescente potenza sono da connettersi a questo evento. Anche le conquiste islamiche favorirono in Oriente i particolarismi delle singole Chiese nazionali, rendendo più difficile il collegamento tra Chiesa occidentale e Chiesa orientale rendendo intransigente Bisanzio sia sotto il profilo politico sia ecclesiastico.[41]

Le crociate, infine, che, nel 1204, condussero alla conquista di Costantinopoli da parte degli occidentali con il conseguente insediamento di un imperatore latino, di un patriarca latino e di arcivescovi latini, quindi ad una vasta latinizzazione dei territori conquistati seguì il giuramento di obbedienza degli ecclesiastici greci alla Chiesa di Roma. Le prospettive di un ripristino della comunione ecclesiale furono praticamente distrutte.[42]

Un particolare problema per i Cristiani d’Oriente fu a causa della loro relazione con l’Italia, l’Africa settentrionale e la Gallia, che riconoscevano come proprio vescovo il Papa di Roma. Dopo la riconciliazione tra Chiesa e Impero, verso la metà del V secolo, cinque metropoliti furono investiti di poteri maggiori e assunsero il titolo di Patriarchi: il primo era il Papa di Roma, la cui giurisdizione si estendeva sulla metà occidentale dell’impero e su una vasta parte dei Balcani; al secondo posto c’era il Patriarca di Costantinopoli, il quale aveva sotto di sé trentanove metropoliti e circa quattrocento vescovi diocesani, le province del Ponto, della Tracia e dell’Asia erano sotto il suo controllo. Il terzo era il Papa di Alessandria, che reggeva l’Egitto coadiuvato da quattordici metropoliti e centoquattordici vescovi; il quarto gerarca era il Patriarca di Antiochia, il quale con tredici metropoliti e centoquaranta vescovi esercitava il suo potere in Siria e in Arabia; il quinto, infine, assistito da cinque metropoliti e da cinquantanove vescovi aveva giurisdizione sulla Palestina ed era il Patriarca di Gerusalemme.[43]

Teoricamente i cinque Patriarchi erano uguali, in realtà, però, l’importanza dei vari patriarcati variava notevolmente, ciò divenne, nel corso dei secoli V e VI, uno dei maggiori problemi per la vita della Chiesa latina.[44]

La caduta dell’Impero d’Occidente svincolò i papi dal controllo imperiale e Leone I (440-461) aumentò il prestigio della sua sede intraprendendo negoziati con i barbari come portavoce autorizzato e protettore dell’intera popolazione cristiana. Queste rivendicazioni trovarono appoggio nella fittizia “donazione di Costantino” e in mezzo al caos che seguì alle invasioni barbariche, i Papi acquistarono stabilità e potenza: erano gli unici custodi di una civiltà superiore e quindi riconosciuti capi di tutta la Chiesa d’Occidente. Questa evoluzione, così importante per il Papato, non si estese all’Oriente, dove rispetti agli altri metropoliti il Papa era considerato solo come “primus inter pares”.[45]

Fino al movimento iconoclastico del VI secolo, tuttavia, non si ebbero dispute di rilievo tra i patriarchi orientali e il capo della Chiesa Occidentale, ma già in questo periodo vediamo chiaramente che i destini della Chiesa d’Oriente e di quella d’Occidente iniziavano a separarsi.

Un fattore molto importante, responsabile del disgregamento dell’unità della Chiesa, fu anche la nascita del monachesimo, che non fu una peculiarità del mondo cristiano, in quanto si trova ampiamente rappresentata nelle civiltà religiose dell’Asia secoli e secoli prima dell’era volgare.[46]

La vita monastica aveva motivazioni religiose e morali molto complesse, nate profonde crisi di asocialità, come reazione a rapporti sentiti come oppressivi: nasce come organizzazione di una secessione fisica dai normali rapporti con la società umana, con l’intento di creare condizioni più propizie a chi ricercasse nella profondità del proprio essere la catarsi ascetica e penitenziale, attraverso una purificazione metodica.[47]

Le prime manifestazioni monastiche cristiane nascono in Egitto, tra il III e IV secolo e sono di forma eremitica; hanno una caratteristica eterogenea: da un lato rappresenta l’accentuazione di motivi penitenziali di origine ebraica, ripresentati con continuità nelle comunità cristiane, mano a mano che procedeva l’evangelizzazione; dall’altro lato rappresenta la ripresa di motivi ascetici propri della filosofia di tradizione greca (come sviluppo del concetto paolino della lotta tra spirito e carne). In seguito, l’evoluzione del movimento monastico prese l’avvio per opera di Pacomio, il quale, avendo riconosciuto i pericoli dell’isolamento, escogitò per gli asceti un sistema di vita in comune.[48] Dall’Egitto il monachesimo si estese rapidamente alla Palestina, Siria, Asia Minore, Grecia,e Mesopotamia, acquistando, nei vari paesi, caratteristiche particolari, ma conservando il suo scopo originale.[49]

Le controversie cristologiche dibattute nel Concilio di Calcedonia operarono una frattura nel monachesimo d’Oriente pur non impedendone l’espansione; l’atteggiamento intransigente dei monaci contribuì ad accrescere l’atmosfera di passionalità che circondava le dispute teologiche. Nel frattempo il monachesimo orientale aveva vivificato il culto delle immagini, contrapponendosi alla tradizione ebraica e veterotestamentaria, che raccomandava di non fare raffigurazioni delle divinità, per evitare la tendenza, innata nell’uomo, dell’idolatria.[50]

 

L’Iconoclastia

Nel corso di una grande riforma l’Imperatore Leone III (717-741) cercò di eliminare la venerazione delle icone, questo proposito era giustificato da abusi ed esagerazioni verificatisi in vari luoghi.[51] Il primo editto che ordinava la rimozione delle icone dalle Chiese fu emanato nel 725 ed incontrò forti resistenze in Grecia ed in Italia, ma venne accettato in Asia; si ebbero energiche proteste da parte del Patriarca di Costantinopoli Germano, dal grande teologo della Chiesa orientale del tempo Giovanni Damasceno e da Papa Gregorio II, il primo venne espulso dalla città, il secondo non poté essere toccato in quanto viveva nei territori occupati dai maomettani, il terzo, ancora nominalmente suddito dell’Impero, era troppo distante per essere detronizzato, ma Leone III lo punì confiscando i possedimenti della Curia romana in Sicilia e nell’Italia meridionale e trasferendo le diocesi illiriche da Roma a Costantinopoli.[52] Questi provvedimenti ebbero gravi conseguenze per il Cristianesimo, in quanto crearono un antagonismo tra le due città e costrinsero i Papi a cercare amici e protettori nei Franchi, con la conseguenza che gli Imperatori iconoclasti, che senza successo avevano cercato di imporre la loro politica all’Occidente, furono coloro che prepararono la rinascita dell’Impero occidentale.[53]

Costantino V (741-775) continuò la politica iconoclasta del padre e per conferirle autorità convocò, nel 754, un Concilio a Hieria, in cui fu condannato il culto delle immagini. Nonostante fosse organizzato come Concilio ecumenico formalmente inappuntabile, questo Concilio non fu recepito come tale né dalla Chiesa orientale né da quella occidentale.[54] Le icone furono rimosse ed anche distrutte; il culto di Maria, dei santi, delle reliquie vietato; i monaci perseguitati perché avversari dell’Imperatore. A Costantino V successe il figlio Leone IV, molto più moderato del padre, il quale non revocò i decreti, ma non perseguitò gli iconofili e i monaci, forse influenzato dalla moglie Irene, la quale si propose di metter fine all’iconoclastia, quando alla morte del marito (780) assunse la reggenza, convocando quel Concilio riconosciuto come VII ecumenico e che rappresenta tutt’oggi l’ultimo della Chiesa ortodossa.[55] Ma la vittoria definitiva sull’iconoclastia fu ottenuta dall’Imperatrice Teodora con la convocazione del Sinodo dell’843.[56] Si assiste così a un trionfo della fede cattolica, ma nel corso di queste controversie la parte orientale del Cristianesimo si distaccò e la conseguenza fu l’solamento della Chiesa d’Oriente da Roma e da Costantinopoli.

 

La controversia sul Filioque e la questione foziana

Nel 792 Carlo Magno inviò al papa i “libri carolini”, che si schieravano contro il Concilio di Nicea, ampliando la controversia e inaugurando il dibattito sul “Filioque”;[57] la divisione politica divenne totale in seguito all’incoronazione del re franco, nel Natale dell’800, a Imperatore romano, nonostante germanico, accanto all’autentico imperatore romano (bizantino): gli orientali si sentirono traditi dai latini, l’appellativo stesso di “ecumenico” attribuito al Patriarca di Costantinopoli e la sua crescente potenza sono da connettersi a questo evento.

Nella seconda metà del secolo IX si ebbero altri conflitti tra Oriente ed Occidente, tra cui la fondazione della chiesa di lingua slava in Bulgaria,[58] causò un grave peggioramento delle relazioni tra cristiani orientali e quelli occidentali. Protagonista di ciò che possiamo definire svolta storica è Fozio, nato a Costantinopoli nella prima metà del secolo IX da illustre famiglia, entrò dopo un periodo di insegnamento a far parte della corte imperiale. La sua nomina a Patriarca, per volontà politica di Michele III, fu un tipico aspetto del cesaropapismo, che comportò un lungo scontro con Roma ed ebbe fasi alterne, ma che si caratterizzò per il Sinodo di Costantinopoli dell’867, che giunse al punto di scomunicare e deporre come eretico papa Niccolò I.[59]

La questione foziana è caratterizzata in gran parte da due problemi di basilare importanza, che fin da quest’epoca erano destinati a dominare le dispute tra la Chiesa bizantina e la Chiesa romana: la ”supremazia pontificia e il Filioque”. La Chiesa d’Oriente riconobbe che la Sede romana deteneva il primato su tutte le altre Chiese e che il Papa era il primo Vescovo della cristianità. Fin dal IV secolo, questo primato di Roma fu espressamente riconosciuto dalla maggior parte degli ecclesiastici bizantini, anche se non venne mai definita con precisione la natura di questo primato che i Bizantini attribuivano non tanto all’origine apostolica della Sede di Roma quanto al fatto che si trovava nell’antica capitale dell’Impero romano e in pratica aveva preservato intatta l’ortodossia dottrinale. Si trattava di qualcosa di più di un primato d’onore, che in certe circostanze implicava il riconoscimento, ad ogni chierico condannato dalla propria autorità ecclesiastica particolare, del diritto di appellarsi a Roma, in virtù del canone III del Concilio di Sardica (343).[60] Ma i Bizantini non accettarono mai il privilegio rivendicato da Nicolò I, secondo il quale il Papa poteva convocare qualsiasi chierico alla Corte pontificia e giudicare di nuovo i casi riguardanti gli interessi vitali della sua Chiesa particolare. Essi respinsero, sia in quest’epoca sia più tardi, la concezione romana del primato che conferiva al Papa il potere supremo sulla Chiesa cristiana e si offesero gravemente per i tentativi fatti da Nicolò I di imporre la propria legge tra Fozio e Ignazio, considerando questo modo di agire come un intervento non canonico del titolare di un particolare Patriarcato negli affari interni di un altro. Questo atteggiamento era caratteristico dei membri importanti della Chiesa bizantina, i quali si esprimevano con chiarezza in un’epoca in cui le divisioni tra Oriente ed Occidente non si erano ancora cristallizzate in scisma definitivo: il riconoscimento del primato pontificio si associava alla convinzione che il governo monarchico della Chiesa universale fosse contrario ai canoni e alla tradizione. Il rispetto per la Sede romana e per il suo titolare si associava alla certezza che la dottrina infallibile della Chiesa non potesse essere espressa da un solo Vescovo, per alta che potesse essere la sua carica, ma dalla Chiesa intera, rappresentata dai suoi Vescovi riuniti in Concilio ecumenico.[61] Nonostante convinti che il diritto canonico e la tradizione patristica giustificassero il loro rifiuto alle pretese dei vescovi di Roma di esercitare una diretta giurisdizione sulle Chiese orientali, i Bizantini si sentivano in un terreno meno solido quando tentavano di definire la natura del primato pontificio e il rapporto tra le Chiese orientali e la Sede di Roma, anche le pretese pontificie a molti di loro sembravano porre un problema più politico che ecclesiologico. Fino al XIII secolo circa, infatti, sembra che i Bizantini non abbiano compreso la vera natura delle tesi pontificie e le abbiano attribuite al desiderio dei Papi di accrescere il loro potere personale, quindi cercarono di controbattere queste pretese con la teoria della Pentarchia, esistente già nel V secolo, sviluppata nel IX e completamente formulata nell’XI, secondo cui il governo della Chiesa compete congiuntamente ai cinque Patriarcati: quelli di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme; ma questa teoria è contrassegnata dalla stessa confusione tra primato e potere che i teologi orientali rimproveravano a Roma.

Per quanto riguarda il secondo problema fondamentale della controversia foziana, cioè il Filioque, i Bizantini si espressero senza equivoco e senza incoerenza: la Chiesa orientale si opponeva al Filioque su due piani, innanzitutto i Concili ecumenici avevano espressamente vietato di cambiare qualcosa al Simbolo e solo un altro Concilio poteva annullare questa interdizione; secondariamente, il Filioque, secondo Bisanzio, era teologicamente falso.[62]

La Chiesa latina insisteva sul fatto che l’essenza (substantia) è l’unico principio di unità nella Trinità e i rapporti tra le tre persone venivano esaminati alla luce dell’essenza; mentre la Chiesa orientale preferiva partire dalla distinzione delle tre persone (hipostases) e poi passare all’esame dell’unità essenziale. Per i teologi orientali, entrambi i punti di vista erano corretti, purché la corrispondenza tra l’essenza comune e le persone distinte non venisse perduta, sopravvalutando l’una  a sfavore delle altre; sostenevano anche che questa dottrina, che afferma che lo Spirito Santo procede tanto dal Figlio che dal Padre, consisteva in una deduzione ingiustificata dal dogma della consustanzialità del Padre e del Figlio, indeboliva la monarchia del Padre, tendeva a sacrificare la distinzione tra ipostasi alla semplicità divina dell’essenza comune e implicava una teologia in cui la realtà mistica del Dio trino veniva, in un certo senso, offuscata da una filosofia dell’essenza.[63]

Prima del Concilio di Nicea era consuetudine che l’adepto dichiarasse la sua fede recitando le parole di un Credo che dichiarava la sua credenza nel Dio Uno e Trino e nell’Incarnazione, il Credo poteva essere diverso linguisticamente da una Chiesa ad un’altra, ma la sostanza non cambiava ed era uguale per tutte. Nel IV secolo la formula di questi Credi venne unificata e il testo fu adottato nel Concilio ecumenico di Costantinopoli del 381, divenendo il Credo della Chiesa cattolica, con il divieto di qualsiasi alterazione o aggiunta, tale decisione fu accettata da tutte le Chiese e quando i Vescovi bizantini furono accusati dai prelati occidentali di avere alterato il Credo nacque una grande controversia che colpì gravemente gli Ortodossi. La causa della contestazione era la frase che espone la relazione tra lo Spirito Santo e le altre Persone della Trinità: i prelati occidentali sostenevano che le parole giuste dovevano essere: <<Credo nello Spirito Santo,… che procede dal Padre e dal Figlio (…in Spiritum Sanctum…qui ex Patre Filioque procedit), i Vescovi orientali invece affermavano questa versione: <<Credo nello Spirito Santo…che procede dal Padre>>.[64]

Da un punto di vista storico, gli Ortodossi erano nel giusto, perché il Credo sancito a Costantinopoli ed approvato sia in Oriente sia in Occidente si basava sul testo del Vangelo di Giovanni (capitolo XV, 26), in cui si legge che lo Spirito Santo procede dal Padre, i prelati occidentali erano convinti di essere nel giusto, pur non avendo idea di come, dove e quando fosse stata fatta tale aggiunta. Questo dissenso fu accolto con molta contrarietà da Papa Leone III (795-816), il quale, più erudito in materia, si rese conto che tutto questo non era certo, come si suol dire, un fiore all’occhiello per la cultura occidentale, quindi cercò di mettere fine alla questione facendo incidere il testo del Credo su tavole d’argento esposte nella cattedrale, senza esito positivo. Solo nel 1014, dopo che gli Imperatori occidentali fornirono il loro appoggio a Papa Benedetto VIII (1012-1024), il quale decretò a Roma, durante l’incoronazione dell’Imperatore Enrico II, la recitazione del Credo modificato, che da allora, con l’aggiunta del “Filioque” divenne la confessione di fede ufficialmente accolta da tutti i Cristiani occidentali.[65]

 

La frattura del 1054

Durante i decenni successivi, la brevità dei pontificati e poi l’eclissi morale del Papato resero i rapporti tra la Chiesa latina e quella d’Oriente inconsistenti. All’inizio del X secolo, materia per una nuova controversia fu il quarto matrimonio dell’imperatore Leone VI, ma alla fine le relazioni ripresero, anche se questo episodio aveva contribuito a sottolineare le differenze esistenti tra l’Oriente e l’Occidente e aveva dato conferma ai Patriarchi nel loro desiderio di agire e decidere in tutta indipendenza.[66]

All’inizio del secondo Millennio, il Papato fu al centro di una grande rifioritura, dovuta anche all’elezione di alcuni Papi molto efficienti, questo cambiamento si verificò nello stesso periodo in cui anche i Patriarchi ecumenici avevano raggiunto il culmine del loro potere. Il conflitto tra Roma e Costantinopoli fu principalmente a causa della competizione culturale tra Greci e latini, fermamente convinti entrambi della superiorità delle proprie tradizioni.[67]

Durante il secolo XI si ebbero due movimenti paralleli, miranti uno alla riforma monastica e l’altro a rafforzare la disciplina ecclesiastica, a sopprimere la simonia e ad impedire l’accesso di uomini incapaci alla carica episcopale, caratterizzarono la Chiesa occidentale; entrambi i movimenti avevano l’interesse di consolidare l’autorità dei Papi e imporre al clero il celibato; la loro ispirazione derivava dalla stessa fonte: il rinnovato interesse per la cultura e per la civiltà latina. Gli Imperatori tedeschi dettero ampio sostegno ai movimenti di riforma, perché bisognosi di un clero più istruito e disciplinato per la loro amministrazione civile ed ecclesiastica, ma se fino al secolo XI i titolari delle due principali sedi erano appartenuti al mondo mediterraneo e, nonostante le controversie, avevano avuto molte cose in comune, la situazione cambiò quando a capo della Chiesa latina salirono uomini di origine diversa e di carattere diverso: nati e cresciuti in Francia e in Germania, essi erano degli stranieri sia per gli Italiani che per i Greci. Credendo di rappresentare la vera tradizione apostolica essi imposero l’aggiunta di “Filioque” nel Credo e l’obbligo del celibato per il clero prima in Italia e poi in Grecia, tutto questo provocò lo sdegno di Bisanzio.[68]

La trasformazione del Papato da uno dei Patriarchi dell’Impero romano in monarchia sacra coincise con la venuta dei Normanni in Italia, chiamati da Benedetto VIII nel 1016 come difensori nello scontro con gli Arabi e i Bizantini, ben presto conquistarono il controllo della Sicilia, si spinsero nell’Italia meridionale divenendo una forza politica predominante ed ebbero una parte decisiva nello scisma tra Roma e Costantinopoli. Esso iniziò nel 1049, quando salì sul soglio pontificio il prelato francese Bruno di Toul col nome di Leone IX. I Normanni, che cercarono di impadronirsi delle province bizantine dell’Italia meridionale, rappresentavano anche una grave minaccia per i possedimenti del Papato, quindi fu naturale che il Papa e l’Imperatore di Costantinopoli Costantino Monomaco pensassero alla possibilità di una stretta collaborazione e, dopo uno scambio di lettere, il Papa inviò tre legati a Costantinopoli per pattuire un’alleanza con l’Imperatore.[69] La delegazione, formata dal Cardinale Umberto di Mourmontiers, Vescovo di Silva Candida, dal Cancelliere della Santa Sede Federico di Lorena, (poi Papa col nome di Stefano IX) e dall’Arcivescovo di Amalfi Pietro, arrivò a Costantinopoli nell’aprile del 1054 ed ebbe subito un’aspra contesa con il Patriarca Michele Cerulario, la cui azione antiromana era evidente dal 1050, quando accusò i Latini di essere eretici, definendoli “azimiti”.[70] Vennero così ripresi vecchi motivi polemici e Leone IX, assistito dal suo segretario Cardinale Umberto da Silva Candida, cercò di opporsi alle accuse dottrinali e dogmatiche mosse dagli Orientali. Il 16 luglio 1054 (poche settimane dopo la morte di Leone IX) i legati del Pontefice deposero sull’altare maggiore della chiesa di Santa Sofia la bolla di scomunica contro il Patriarca Michele e i suoi fedeli, la risposta fu la ribellione: Michele Cerulario rinnovò le tesi di Fozio dell’876 e, a sua volta, scomunicò i Latini. Era la rottura, lo scisma. Ma queste scomuniche non segnarono l’avvento dello scisma definitivo: infatti nel 1054 fallì un tentativo di riconciliazione, che era stato intrapreso su una base sbagliata e in condizioni sfavorevoli. La bolla del 16 luglio 1054 redatta da Umberto da Silva Candida mostra chiaramente fino a che punto la mentalità della Chiesa di Roma si fosse modificata sotto l’azione del movimento riformatore e quanto poco gli uomini di questo movimento avessero capito della Chiesa orientale dei suoi usi e delle sue consuetudini. Il cardinale ebbe la pretesa di scoprire in questa Chiesa le origini di tutte le eresie, accusando i Bizantini di avere escluso il “Filioque” dal Credo, mostrando non solo il suo bigottismo, ma anche una scarsa conoscenza storica: non aveva idea che il Credo originale non contenesse il termine “Filioque” e che il celibato obbligatorio del clero non fosse una tradizione apostolica.[71] Dopo un tentativo imperiale di riconciliazione fallito, un Sinodo convocato a Costantinopoli il 24 luglio scomunicò la “bolla della scomunica”, il suo autore e i suoi collaboratori, non incorsero in questa scomunica il Papa e la Chiesa occidentale.[72]

Tra la Chiesa di Roma e quella orientale vi era un abisso, non solo per la mentalità, ma anche per il culto, la disciplina le usanze e soprattutto per la struttura della comunità cristiana: per l’Occidente la Chiesa era considerata una monarchia sacra e il Papa l’epicentro di ogni autorità sia dottrinale sia amministrativa. Il criterio dei Greci, invece, non approvava un Papato di questo genere, essi consideravano il Pontefice come il gerarca più anziano, l’idea che il Papa fosse un sovrano ecclesiastico cui tutta la Cristianità dovesse obbedire e dipendere, era ben lungi alla tradizione bizantina e tutto questo diede adito ad interminabili dispute tra Latini e Greci, vertenti non solo su problemi costituzionali ma anche su piccoli particolari di costume e di rito.[73]

Le crociate non portarono alcun aiuto all’Impero romano d’Oriente, anzi lo indebolirono e aggravarono maggiormente le relazioni tra le Chiese. Con la conquista di Costantinopoli da parte dei crociati nel corso della quarta crociata (13 aprile 1204), con la distruzione della città e l’elezione di un Patriarcato latino e dell’Impero latino, le prospettive di un ripristino della comunione ecclesiale furono distrutte.[74]

 

Il Concilio di Firenze

Durante gli anni in cui l’Impero d’Oriente era agli estremi, il Basileus aveva continuato a sperare negli aiuti militari dall’Occidente, l’unico mezzo per ottenerli era l’assoggettamento al Papa e le trattative per una simile resa si susseguirono incessantemente.[75]

L’ultimo tentativo di riconciliazione col Papa fu alla vigilia della caduta dell’Impero, quando l’Imperatore Giovanni VIII venne in Italia per intraprendere i negoziati con Papa Eugenio IV, il quale convocò un Concilio, la cui prima seduta si tenne a Ferrara ma il 10 gennaio 1439 l’assemblea si trasferì a Firenze, dove il 6 luglio dello stesso anno si concluse con la proclamazione dell’Unione.[76]

I delegati di tutte le Chiese erano presenti al Concilio di Firenze, i Vescovi ortodossi erano divisi: una parte desiderava la riunione con l’Occidente sia per motivi religiosi che politici; l’altra parte era contraria, in quanto sosteneva che cedere a Roma equivaleva a rinnegare la tradizione apostolica custodita dall’Oriente cristiano.

Il problema dello scisma fu considerato da un punto di vista esclusivamente dottrinale, si ritenne, infatti, che una volta raggiunta l’intesa sul campo teologico, l’unità del Cristianesimo sarebbe stata subito ricostituita e si sarebbe potuto, quindi, eliminare la minaccia dell’Islam.[77] Un lato interessante di questo Concilio fu la soluzione del problema papale: i Greci non erano al corrente dell’importanza che il potere centrale del Papato aveva assunto in Occidente e la prova di questo fu l’accordo rapidamente raggiunto tra le due parti: gli Ortodossi accolsero la formula proposta dai Latini, a condizione che i diritti e i privilegi dei Patriarchi orientali rimanessero immutati, essi firmarono un atto così elaborato: <<Noi riconosciamo il Papa come Sommo Pontefice, Vicereggente e Vicario di Cristo, Pastore di tutti i Cristiani e Sovrano delle Chiese di Dio>>.[78]

Il Concilio di Firenze si concluse con la proclamazione dell’Unità, che presto però si rivelò illusoria, perché i delegati, al ritorno in patria, vennero accolti con palese ostilità: il popolo dichiarava apertamente che preferiva essere governato dai Turchi anziché dal Papa, in quanto i Musulmani, almeno, non avrebbero interferito nei loro affari ecclesiastici. Molti prelati, che avevano firmato il decreto d’Unione, rinnegarono la propria firma. Si dovette attendere il 12 dicembre 1452 perché l’Unione fosse ufficialmente proclamata nella Chiesa di Santa Sofia. Poco più di cinque mesi dopo, Costantinopoli cadde nelle mani di Maometto II. L’Unione di Firenze morì con l’Impero di Bisanzio.[79] Lo scisma tra Oriente ed Occidente non fu certamente un evento improvviso, ma una vicenda che ebbe il suo sviluppo nel corso di vari secoli; la crescita dell’autorità papale, che fu la causa principale di tale scisma, non costituì mai il problema basilare delle parti in causa. Le divergenze e le dispute furono sempre su argomenti di secondaria importanza, tutto questo fu dovuto, forse, al fatto che Orientali ed Occidentali avevano perduto la possibilità di un’intesa reciproca e conseguentemente parlavano due linguaggi diversi.[80]

Nonostante tutti i segni che da anni annunciavano il disastro, la conquista turca di Costantinopoli colpì profondamente l’opinione pubblica orientale ed occidentale e, in primo luogo, il Papato: da molti Cristiani d’Occidente tale conquista venne interpretata come la giusta punizione. Da allora i Papi, pur interessati alla riforma della Chiesa, sul piano esterno ebbero come obiettivo principale la crociata contro i Turchi.[81]

Il Sultano Maometto II si dimostrò molto accomodante: intervenne personalmente per affrettare l’elezione del nuovo Patriarca, assisté alla cerimonia, lo ricoprì di doni e gli concesse un atto di riconoscimento ufficiale, col quale lo collocava a capo della Nazione greca, facendone così la guida religiosa e civile dei suoi fedeli. Fu concessa ai Cristiani la protezione politica dello Stato, la libertà di praticare la propria religione e le decisioni per le questioni religiose e giudiziarie, di essere governati dai loro capi religiosi, secondo il loro statuto particolare; furono accordati anche vari privilegi ai Patriarchi e ai preti. In teoria il governo assicurava il suo sostegno ai capi religiosi della Nazione greca, in realtà la pace religiosa e il rispetto dei privilegi concessi derivavano soprattutto dalla benevolenza del Sultano e dall’umore dei suoi funzionari, che si facevano pagare i loro favori, così la corruzione aprì le porte alla simonia e con questa alla rivalità tra i pretendenti al trono patriarcale e all’instabilità nel governo della Chiesa. D’altra parte, se l’autorità del Patriarca, ufficialmente riconosciuto come solo capo, si affermava sul piano amministrativo e civile, tuttavia il centro di gravità della Chiesa bizantina si spostava verso la Grecia, perché Costantinopoli, dopo la sua caduta, aveva ormai perso il ruolo di fulcro della cristianità orientale.[82]

Facendo un punto della situazione, si può affermare che le Chiese unite sono in un certo modo frutto del Concilio di Firenze (1439) e si sono sviluppate particolarmente nei Paesi slavi e balcanici a partire dal XVII secolo.

Capitolo III

LE CHIESE CATTOLICHE ORIENTALI: TRADIZIONI E UNIONI ALLA CHIESA DI ROMA

Se pensiamo all’insieme del Corpus Cristiano, viene spontaneo considerare il Cristianesimo suddiviso in tre grandi rami: cattolico, ortodosso e quello riformato-protestante; con la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa come se fossero due macro-organizzazioni unitarie, mentre la Chiesa Riformata appare suddivisa in tante differenti confessioni. Ma la Chiesa cattolica non è monolitica ed è composta da circa ventitré denominazioni diverse, ciascuna con una propria storia, con proprie gerarchie e con proprie ritualità distinte, con riti diversi rispetto a quello del “Missale Romanorum”, come ad esempio il Rito Ambrosiano a Milano o il Rito Mozarabico in alcune zone della Spagna etc. Ma se pensiamo a quella parte della Cristianità che più di ogni altra vive la contrapposizione tra la propria fede e quelle di un mondo circostante culturalmente ostile, nasce la necessità di indagare sulle cause dell’origine e dello sviluppo di un numero abbastanza cospicuo di Denominazioni definite comunemente “Chiese Orientali”, che generalmente vengono suddivise in cinque Tradizioni o Famiglie principali legate ai Patriarchi d’origine. La tradizione vuole che la nascita di queste Chiese sia dovuta alle predicazioni di diversi Apostoli e Discepoli, naturalmente tutto questo appare leggendario, mentre dal punto di vista prettamente storico le cause di sviluppo di un certo numero di Denominazioni sono strettamente legate alle vicende che hanno colpito e diviso il Cristianesimo. All’inizio del secolo IV il Cristianesimo poteva considerarsi unito sia da un punto di vista dottrinale che per il riconoscimento della supremazia del Vescovo di Roma, ad eccezione di diverse forme liturgiche dovute alla ricezione evangelica e al substrato culturale dei vari luoghi, ma in seno al Cristianesimo nacquero numerosi disaccordi relativi al mistero trinitario e alla natura e divinità di Cristo. E’ durante il Concilio di Efeso del 431 che inizia la prima grande rottura, che avrà gravi conseguenze nello sviluppo delle Chiese “sui iuris”, con la condanna della dottrina nestoriana; nel successivo Concilio di Calcedonia (451) ci furono ulteriori fratture che divennero sempre più marcate a causa della condanna del monofisismo; ma ciò che determinò la nascita delle Chiese “sui iuris”fu il cosidetto “grande Scisma d’Oriente” del 1054, con il disconoscimento della supremazia romana del Patriarca Michele I Cerulario e la scomunica reciproca tra il Vescovo di Roma e quello di Bisanzio.[83]

Il I canone del CCEO afferma: <<Canones huius Codicis omnes et solas Ecclesias orientales catholicas respiciunt nisi, relationes cum Ecclesia latina quod attinet, aliud expresse statuitur>>. Il codice vincola e regge i fedeli delle Chiese cattoliche d’Oriente. Il CCEO, tuttavia, non è un codice onnicomprensivo che contiene tutto il loro diritto, ma raccoglie solo le norme comuni a tutte quelle Chiese. Diversamente dal CIC, codice di una singola Chiesa, il CCEO non è un codice della Chiesa orientale (al singolare) ma la normativa comune a tutte le Chiese cattoliche orientali, che, a loro volta, devono codificare il proprio diritto particolare in un codice peculiare. Il CCEO deve essere letto sulla base della storia di ognuna di queste Chiese e nell’ottica delle loro tradizioni.[84]

I canoni contenuti nel CCEO riguardano, dunque, “omnes et solas” le Chiese cattoliche orientali, ma nello specifico a quali soggetti si rivolge tale legislazione canonica? I criteri identificativi di queste Chiese sono vari, in quanto l’espressione “Chiese orientali” ha un’accezione storica piuttosto che geografica, poiché queste Chiese hanno la loro origine nella parte orientale dell’antico Impero romano, infatti uno dei criteri è quello che si riferisce alla divisione dell’Impero romano operata da Teodosio nel 395 tra Impero romano d’Oriente e quello d’Occidente, criterio non ritenuto valido a causa dei numerosi mutamenti. Un altro criterio è quello negativo, secondo cui le Chiese orientali cattoliche sono la parte non latina costituenti la Chiesa cattolica universale, criterio ritenuto valido da vari studiosi insieme a quello enumerativo; altri, invece, preferiscono il criterio di provenienza (es. dalle Chiese orientali ortodosse, dalla Chiesa ortodossa di rito bizantino, dalla Chiesa Assira d’Oriente, senza controparte ortodossa).[85] Il criterio rituale, infine, ex can. 28, che sembra essere il più accreditato, è quello in cui le Chiese orientali sono raggruppate secondo le cinque Tradizioni, che in passato erano chiamate “riti primari”, in quanto, tranne l’armeno, sono state le matrici da cui sono sorti i diversi riti.[86]

  • TRADIZIONE ALESSANDRINA, che comprende la Chiesa Copta e quella Etiopica.

                                                               

  • TRADIZIONE ANTIOCHENA, di cui fanno parte le Chiese: Siriaca, Maronita, Siro-Malankarese.

 

  • TRADIZIONE ARMENA, con la Chiesa Armena.

 

  • TRADIZIONE CALDEA, che include le Chiese: Caldea e Siro-Malabarese.

 

  • TRADIZIONE COSTANTINOPOLITANA (BIZANTINA), che annovera le seguenti Chiese: Bielorussa, Bulgara, Greca-Bizantina, Ungherese, Italo-Albanese, Melchita, Rumena, Rutena, Slovacca, Ucraina, Iugoslava, Albanese, Russa.

Il 6 luglio 1439 fu pubblicato in latino e in greco il decreto conciliare che cominciava: “Laetentur coeli et exultet terra”, che esponeva gli articoli come erano stati concordati fra le due parti e proclamava solennemente la rinnovata unione delle Chiese orientali con quella di Roma, anche se, in realtà, si dovrebbe parlare di “unità della Chiesa”, poiché la Chiesa è di per se stessa una, e non già costituita da varie Chiese, ma di una Chiesa.[87] Costantino XII, successo nel 1448 al fratello Giovanni VIII, continuò a mantenere la comunione con la Chiesa di Roma, che però fu rotta ufficialmente con il Concilio di Costantinopoli del 1472, quando il Patriarca Gennadio II (Giorgio Scolario), istigato da Maometto II, disapprovò il Concilio di Firenze e scomunicò tutti quelli che accettavano i suoi decreti.[88] In seguito, gli approcci dei pontefici per l’unione delle Chiese orientali con quella di Roma non cessarono, ma divennero meno importanti poiché gravi eventi come la Riforma protestante e l’avanzata dei Turchi verso Occidente, assorbirono le energie dei cattolici occidentali; inoltre dopo la caduta di Costantinopoli era venuto a mancare il più grande organismo del mondo orientale, quindi le trattative ormai dovevano svolgersi tra la Chiesa di Roma da un lato e le singole Chiese orientali dall’altro.[89]

Le Chiese cattoliche orientali, comprese quelle ortodosse, fondano le loro origini nelle cinque tradizioni della Chiesa d’Oriente, col passare del tempo queste tradizioni dettero origine ai diversi riti costituiti da un comune patrimonio liturgico, teologico, spirituale e anche disciplinare.

Dopo la morte e la resurrezione di Cristo, i suoi seguaci, che ancora non si chiamavano cristiani, non si distinguevano ancora nettamente dagli ebrei e frequentavano con perseveranza il tempio: <<Ed erano di continuo nel tempio, benedicendo Dio>> (Lc. 24,53). Il messaggio evangelico, in questo periodo e nel successivo, non era ancora una dottrina, un culto ben definito nella sua forma esteriore, ma i principi fondamentali della vita della Chiesa consistevano nella partecipazione collettiva agli insegnamenti degli Apostoli, nella frazione del pane e nelle preghiere. (At. 2, 42). Anche se minima, ma possiamo già riscontrare una forma di organizzazione e di regolamentazione giuridica, come ad esempio il provvedere alle necessità materiali della comunità, con particolare riguardo verso le vedove, che rappresenta una delle prime ripartizioni delle mansioni all’interno della collettività cristiana, istituita dagli Apostoli (At. 6,1-6). Sempre gli Atti degli Apostoli ci informano della presenza di un organo di suprema direzione della Chiesa: il Collegio Apostolico, competente a decidere con autorità in materia di fede (At 15, 6.35), che informa delle proprie decisioni formalmente attraverso lettere apostoliche ed inviando propri legati (At 15, 22-31), infine riscontriamo la presenza di un’organizzazione in grado di rendere materialmente operanti i rapporti di sostegno tra le varie comunità dislocate a considerevole distanza tra loro (At 11, 27-30 e 2 Cor. 8). Comunque un minimo di organizzazione e di struttura gerarchica è presente fin da subito e cresce in maniera proporzionata all’aumento del numero delle comunità e dei fedeli: le Lettere paoline e quelle apostoliche ci danno un’ampia descrizione di tutto questo. In seguito i rituali e le regole di condotta diventano sempre più definite e presto iniziano ad essere codificate.[90]

I frequenti rapporti epistolari degli Apostoli e la sicurezza dei trasporti nell’Impero romano, permettevano di viaggiare rapidamente e consentivano ottimi collegamenti tra le varie comunità; quando tutto questo venne a mancare, gradualmente nacquero delle divergenze che dettero luogo a varie peculiarità in seno alle comunità cristiane: il Cristianesimo faceva progredire la cultura del luogo eliminando da essa tutto quello che era incompatibile col Vangelo, la Chiesa locale faceva proprio quanto si conciliava con il Vangelo riprendendolo ed epurandolo dalla cultura del posto, con la conseguenza che ogni comunità cominciava a professare la propria fede in modo particolare rispetto alle altre.

I continui contatti tra società civile e quella ecclesiastica provocarono, durante i grandi cambiamenti sociali, culturali e politici accaduti negli ultimi tempi dell’esistenza dell’Impero romano e all’inizio dell’Alto Medioevo, le diversità tra il Cristianesimo orientale e quello occidentale: In Occidente il desiderio di pace e di ordine, si rispecchia nella Chiesa che comincia ad assumere una struttura unitaria e gerarchica, alla cui sommità c’era il vescovo di Roma. In Oriente il Cristianesimo si sviluppa in un contesto di rinascita dei diversi popoli, delle loro culture e tradizioni, che gli fanno assumere un aspetto multiforme, a causa anche della presenza di più sedi vescovili che si fregiano della dignità apostolica.[91] In questi luoghi si svilupparono e consolidarono tradizioni rituali proprie, non solo sul piano liturgico, ma anche su quello teologico e spirituale, con consistenti variazioni all’interno di ciascun rito originario ed anche nell’uso della lingua liturgica. Mentre nella tradizione romana si affermerà sempre di più l’unità e l’omogeneità rituale. A questa distinzione rituale si è affiancata una progressiva separazione giurisdizionale che ha portato, nel giro di pochi secoli, alla formazione di distinte Chiese cristiane non in comunione tra loro. La causa di questo disgregamento dell’unità iniziale della Chiesa di Cristo è da ricercare in una complicata connessione tra interessi politici temporali e divisioni teologiche, in particolare dalle ripercussioni delle controversie cristologiche.

La storia della cristianità ha assistito ad un continuo avvicendarsi di tentativi di avvicinamento e di periodi di aspri conflitti, che sono stati alla base della divisione tra Chiese orientali non cattoliche e quelle cattoliche. Solamente la Chiesa cattolica orientale maronita, originaria del Libano, può vantare di essere l’unica Chiesa orientale che non è mai venuta meno alla comunione con la Sede Apostolica.[92]

La Tradizione Alessandrina

Comprende la Chiesa copta e quella etiopica. Il Cristianesimo arriva in Egitto, secondo la tradizione, con la predicazione di San Marco e già nel II secolo abbiamo la traduzione del Vangelo in lingua copta. Nel III secolo, cominciano le persecuzioni, tra cui quella cruenta di Diocleziano, ma questo è anche il periodo molto prolifico del monachesimo che vede protagonisti i padri fondatori Antonio e Pacomio. Quando Atanasio, artefice del Concilio di Nicea (325), diventa vescovo di Alessandria, nasce la sede del primo Patriarcato d’Oriente.[93] Durante il Concilio di Calcedonia, in cui furono condannate le dottrine nestoriane ed eutichiane, fu condannato anche il Patriarca Dioscoro, dando luogo ad una divisione che oppose gerarchia e fedeli, che durò fino alla conquista musulmana del VII secolo, nonostante le opposizioni di questa Chiesa che subì grandi persecuzioni. Da questa divisione nacquero i melchiti e i giacobiti: i primi fedeli e i secondi opposti al Concilio di Calcedonia.[94]

L’unione dei Copti con la Chiesa cattolica fu proclamata a Firenze il 4 febbraio 1442 col decreto “Cantate Domino quoniam magnifice fecit”.[95] Un altro gruppo cattolico copto si forma nel 1741, quando Amba Athanasius, vescovo copto di Gerusalemme, si convertì al Cattolicesimo e Papa Benedetto XIV lo nominò vicario apostolico della sua piccola comunità, che lo aveva seguito nella conversione (in seguito Athanasius tornerà alla Chiesa copta ortodossa). La Chiesa, fondata nel I secolo, ebbe origine, come accennato, dalla predicazione di San Marco evangelista, che portò il Cristianesimo in Egitto durante l’Impero di Nerone. Nel corso del IV e V secolo avvenne lo scisma della Chiesa Copta da quella latina e greca, causato anche dalle eresie cristologiche, che videro i Cristiani dividersi sulla questione della natura di Cristo. I Copti non seguirono ciò che venne affermato nel Concilio di Calcedonia (451), ma rimasero fedeli ai precedenti concili, definendosi “miafisiti”, in quanto non cedettero alla definizione calcedonese “due nature in una persona”, ma preferirono parlare di un’unica natura del Verbo incarnato, seguendo la dottrina di San Cirillo di Alessandria. La Chiesa copta e quella cattolica hanno iniziato un cammino ecumenico solo dopo il Concilio Vaticano II, che ha portato all’incontro tra Paolo VI e il Patriarca copto nel 1973, il cui risultato è stato la dichiarazione comune che esprime un accordo ufficiale sulla cristologia (12 febbraio 1988), mettendo fine a secoli d’incomprensione e di reciproca diffidenza.[96]

 

A partire dal secolo XIII i greci melchiti d’Egitto, sull’esempio di quelli della Siria, adottarono il rito bizantino.[97] I Copti-cattolici rimasero un’esigua minoranza, tanto che alla fine del XIV secolo i missionari Francescani esercitarono il loro ministero in segreto. Nel 1742 il Vescovo copto di Gerusalemme Amba Atanasio fu nominato Vicario apostolico e messo a capo della piccola comunità cattolica. Nel 1893, i padri Francescani lasciarono ai Copti cattolici dieci Chiese dislocate per la maggior parte nell’Alto Egitto; due anni più tardi papa Leone XIII divideva l’Egitto in tre diocesi copte cattoliche e nominava un Vicario patriarcale.

Nel 1899 il Pontefice ristabilisce in favore di questo prelato il titolo di Patriarca di Alessandria per i Copti; ciò porta a numerose conversioni, ma in seguito a problemi sorti con la Santa Sede, il Patriarca si dimette e passa dalla parte degli scismatici, questa defezione suscita scandalo e arresta lo sviluppo della comunità, tanto che il Patriarcato è soppresso e ricostituito solo nel 1947.[98]

Il decreto del 1442 non menziona gli Etiopi, appartenenti alla stessa tradizione dei Copti,[99] che si convertirono al Cristianesimo intorno al 356, nonostante molte resistenze, ma nel secolo VI, con l’arrivo dei Nove Santi, monaci monofisiti che fuggivano dalle persecuzioni, questa religione ebbe sempre più successo, grazie anche alla sua forte connotazione monastico-popolare ed ebbe una vita florida a causa del suo isolamento. Sono i missionari cattolici che tentano il riavvicinamento della Chiesa etiope con Roma a partire dal XIV secolo, ma è solo all’inizio del 1600 che si ha il passaggio ufficiale alla fede cattolica del negus Socinio e del suo popolo. La gerarchia cattolica si è stabilizzata dal 1961, ma solamente una parte molto esigua della popolazione fa parte di questa fede religiosa, con un Metropolita che risiede ad Addis Abeba.[100]

La Tradizione Antiochena

Inizialmente si forma a Gerusalemme e si sviluppa soprattutto ad Antiochia, poi si diffonde in Palestina, Siria e Mesopotamia settentrionale; a partire dal secolo XVII si estende ad una parte del Malabar.

Nel 451, con il Concilio di Calcedonia si hanno le prime scissioni: il Patriarca Severo di Antiochia si dichiara monofisita e, nel IV secolo, Giacomo Bar Addai diffonde il giacobinismo, in opposizione ai melchiti.[101] La tradizione antiochiana è conservata nella Chiesa siriaca, dai maroniti, che hanno apportato nel loro rito delle modifiche in senso latino e dai malankaresi, cioè dai cattolici antiocheni dell’India.[102]

        La Chiesa siriaca si costituisce nel XVI secolo con un Patriarca e vari Vescovi. Dopo il Sinodo di Sharfé del 1853 il Patriarca è eletto dal Sinodo dei Vescovi riuniti sotto la presidenza di un Metropolita. Il neo eletto deve fare la professione di fede imposta da Papa Urbano VIII agli orientali e promettere obbedienza al Pontefice. E’ investito del titolo di “Patriarca di Antiochia per i Siriani” e risiede a Beirut.[103] La Chiesa siriaca, dopo qualche tentativo di riunione con quella latina, durante le crociate, nel 1444 e poi nel secolo XVI, si unisce a Roma solo nel Seicento, grazie anche all’operato dei missionari gesuiti e cappuccini.[104]

Nel 1662, la comunità sira di Aleppo, che già aveva aderito al cattolicesimo, elesse come Patriarca il vescovo Ignazio Andrea Akhidjan (1662-1677); nel 1783, a Roma fu eletto Patriarca Ignazio Michele III Jarweh (1783-1800) da dei vescovi siri, ma la sua elezione non fu riconosciuta dalla maggior parte della Chiesa giacobita e dal governo turco, quindi fu eletto un nuovo patriarca ortodosso e Ignazio Michele III dovette rifugiarsi in Libano, tuttavia fu riconosciuto da Roma come patriarca dei siro-cattolici, con il titolo di Patriarca di Antiochia. Nella prima metà del XIX secolo la Chiesa siriaca fu ostacolata da gravi dissidi interni, ma in seguito il patriarca Ignazio Pietro VII Jarweh dette un grande impulso all’organizzazione, trasferendo la sua sede ad Aleppo e trasformando il monastero di Scharfeh in un seminario per la formazione del clero: durante il suo patriarcato alcuni vescovi giacobiti tornarono all’unione con Roma. Tra dicembre 1853 e gennaio 1854 si svolse il primo Sinodo della Chiesa cattolica siriaca, sotto la presidenza di un delegato apostolico.[105]

Come già accennato, la Chiesa maronita è l’unica Chiesa orientale rimasta sempre in piena comunione con Roma, sebbene, nel secolo XII sembra aver aderito per qualche tempo al monotelismo. Le sue origini risalgono alla fine del quarto, inizio del quinto secolo ed ha le sue origini ad Antiochia attorno all’antico monastero di Beth Maron: il suo fondatore, San Marone era un monaco, il quale con il suo carisma radunò intorno a lui altri religiosi, nonostante avesse adottato uno stile ascetico molto severo. La Chiesa maronita crebbe intorno al monastero, da cui si svilupparono altre congregazioni che contribuirono ad incrementare la comunità, i cui monaci lottarono costantemente per difendere la fede contro i monofisiti.[106] Nel VII secolo, dopo l’invasione dei Musulmani, i Maroniti si spostarono nel nord del Libano, per 400 anni risedettero nella valle Kadisha, dove i Patriarchi vissero con la comunità nelle caverne delle zone montuose dove nessuno poteva raggiungerli, in seguito uscirono e si diffusero nella regione. Il rito orientale di questa Chiesa appartiene alla tradizione liturgica di Antiochia, prevede la messa in aramaico e siriaco, ma attualmente la maggior parte della liturgia è nella lingua corrente della gente; è l’unica Chiesa cattolica del Medio Oriente non “uniata”, cioè che non ha una controparte ortodossa: tutti i maroniti fanno parte della Chiesa di Roma.[107] La Chiesa maronita ha conservato nei secoli un carattere autonomo anche durante l’epoca musulmana, con l’uso della liturgia propria e il clero sposato, oltre a rapporti amichevoli con Roma. Una forte tradizione tra i maroniti afferma che, in realtà, la loro chiesa non ruppe mai la comunione con la Santa Sede.[108] Capo di questa Chiesa è il Patriarca che porta il titolo di “Patriarca d’Antiochia e di tutto l’Oriente”, che gli è stato riconosciuto, almeno per la prima parte, da Papa Alessandro IV nel 1254; insieme al nome di battesimo, il Patriarca aggiunge anche quello di Pietro, in ricordo del primo Vescovo di Antiochia.[109]

I cattolici di rito siriano del Malabar sono chiamati Malankaresi,[110] per distinguerli dai loro compatrioti di rito caldeo (Chiesa Siro-Malabarese). Il rito siriano si diffonde nel Malabar verso la metà del XVII secolo, ma è solo nel 1930 che si costituisce la Chiesa cattolica Siro-Malankarese.[111]

        La Chiesa siro-malankarese (Mar Thoma Suryani Sabha malankararese; Mar Thoma in aramaico significa San Tommaso): Le origini del Cristianesimo in India sono legate tradizionalmente ai primi insediamenti cristiani che nacquero nel Kerala (l’antico Malabar), dopo l’arrivo in quei luoghi dell’Apostolo Tommaso (52 d. C.), in seguito la comunità cristiana si diffuse nel sud ovest del Paese in forma libera e originale, solo nel 1498 subirono delle influenze esterne, quando Vasco da Gama sbarcò nelle coste indiane stabilendovi i primi avamposti portoghesi. Nel 1542 circa i Gesuiti iniziarono l’evangelizzazione di queste popolazioni, imponendo spesso conversioni forzate di massa. Questa comunità subì una divisione nel 1653: da un lato si ebbe la Chiesa malankarese e dall’altro quella malabarese, la prima lottò per la sua autonomia e per la tutela della sua tradizione liturgica, perdendo la comunione con la Chiesa cattolica e giurando di non sottostare all’autorità del Padroado portoghese, ossia i privilegi accordati dalla Santa Sede al re del Portogallo, di cui i più importanti furono sanciti da due bolle di Papa Leone X: “Dum fidei constantiam” e “Emmanueli Regi Portugalliae illustri”, rispettivamente del 4 e 12 giugno 1514. Ma col passare del tempo questa Chiesa sente il bisogno di riavvicinarsi alla Chiesa cattolica, tuttavia i vari tentativi formali di riunificazione ebbero scarso successo, fino a quando, nel 1930, il Vescovo Mar Ivanios, delegato della Chiesa ortodossa malankarese per dialogare con la Santa Sede, fu accolto da Papa Pio XI, il quale due anni più tardi stabilì la gerarchia cattolica siro-malankarese in India con il decreto “Christo Pastorum Principi”, con l’elezione di due diocesi e l’imposizione del Pallio a Mar Ivanios.[112]

 

La Tradizione Armena

L’evangelizzazione dell’Armenia da parte degli apostoli Bartolomeo e Taddeo sembra essere una leggenda: il fondatore di questa Chiesa è Gregorio l’Illuminatore (260-326).[113] Gli Armeni non hanno avuto, nei primi secoli, molte relazioni con la Chiesa Occidentale, con le crociate numerose persone, per interesse o per convinzione, hanno adottato la fede romana. Solo nel 1742 si costituisce Patriarcato armeno cattolico, il cui Patriarca ha il titolo di “Patriarca di Cilicia e degli Armeni e risiede in Libano.[114]

Gli Armeni sancirono la loro unione con il documento “Decretum ad Armenos” del 22 novembre 1439, ma non fu un’unione totale: ben presto i cattolici furono perseguitati e fallirono anche i nuovi tentativi di riunione. Alla fine del XVIII secolo (1740-1758), però, Benedetto XIV riconosce la Chiesa armena e costituisce loro il primo patriarcato cattolico.[115] Il primate è il Patriarca di Cilicia, con sede a Beirut, mentre la sede della Chiesa armena-cattolica si trova a Bzoummar, in Libano. A partire dal XVII secolo, grazie all’opera di missionari latini, si formano gruppi di cristiani che entrano in comunione con Roma. Queste comunità armeno-cattoliche erano sparse su un immenso territorio (dall’Italia alla Persia) e non avevano un loro unico responsabile, infatti spesso dipendevano da un vicario apostolico o da delegati apostolici oppure erano assoggettate al vescovo latino più vicino, quindi non esisteva una Chiesa armeno-cattolica costituita. Dal punto di vista civile dipendevano dagli stessi connazionali da cui si erano separati non sempre pacificamente, qiundi nel Settecento e nel secolo successivo, alla lotta per l’indipendenza e l’autonomia ecclesiastica si unirà quella per l’emancipazione civile e il riconoscimento legale della Chiesa armeno-cattolica e per ciò che riguarda l’autonomia religiosa occorreva l’istituzione di un proprio patriarcato: Il primo tentativo fu fatto nel 1714, ma fu denunciato alle autorità turche dagli armeni ortodossi; il secondo tentativo fu nel 1740: l’elezione del Patriarca non poté essere ostacolata dal governo turco, impegnato nella rivolta del pascià d’Egitto, nel 1742 Benedetto XIV riconobbe il nuovo patriarca con l’incarico di unire, sotto la sua autorità patriarcale, tutti gli armeni cattolici. Nella seconda metà del secolo XIX si venne a creare una situazione di tensione tra la Chiesa armena-cattolica e la Santa Sede, che causò uno scisma in seno al Patriarcato armeno, a causa di antichissimi diritti circa l’elezione dei Patriarchi e dei Vescovi, tensione che aumentò quando il Papato pubblicò la lettera apostolica “Reversurus” (12 luglio 1867) con la decisione che il Patriarca, eletto dai soli Vescovi del Patriarcato, sarebbe entrato in carica solo con la conferma dell’elezione pontificia, la conseguenza fu lo scisma nella Chiesa armena, che rientrò definitivamente nel 1880 quando l’ultimo scismatico si riconciliò con Roma. Alcuni studiosi sostengono che il cristianesimo armeno non si sia mai separato dalla comunione con la Santa Sede e che le comunità armene cattoliche discendano direttamente dall’evangelizzazione operata da San Gregorio Illuminatore, fondatore del cristianesimo armeno.[116]

 

La Tradizione Caldea

Si è sviluppata nei territori dell’antico impero persiano. Dalla Mesopotamia questa tradizione è stata diffusa dai missionari all’Asia centrale, in Cina e in India.

Due sono le Chiese appartenenti a questa Tradizione: quella caldea e quella siro-malabarese. I cattolici della Chiesa caldea si proclamano i successori legittimi dei primi cristiani dell’Impero persiano e l’autonomia di questa Chiesa è stata ottenuta nel V secolo con la facoltà di eleggere un Patriarca cattolico, il quale porta il titolo di “Patriarca di Babilonia” e risiede a Baghdad.[117]

Prima del XIII secolo i cristiani del nord-est della Mesopotamia (Persiani) non ebbero diretti rapporti con la Chiesa di Roma, dalla quale si staccarono, divenendo eretici, quando passarono al nestorianesimo. Soltanto nel 1233 circa alcuni missionari domenicani convertirono al cattolicesimo il Patriarca nestoriano di Baghdad, allacciando in tal modo relazioni con la Santa Sede. Nel 1551-1552, dopo uno scisma nestoriano che favorì lo sviluppo del Cristianesimo, alcuni vescovi con un gruppo di fedeli si riunirono nel monastero di Rabban Hormisda ed elessero come loro Patriarca l’abate del monastero Yochanan Sulaqa, il quale fu inviato a Roma, dove ebbe un colloquio con Papa Giulio III, si convertì al Cristianesimo e fu consacrato, al suo ritorno in patria costituì una regolare gerarchia episcopale, che successivamente tornò al nestorianesimo, intanto l’anno seguente (1553) lo stesso pontefice creò il Patriarcato della Chiesa cattolica caldea. Nel 1610 il Patriarca nestoriano Elia II ristabilì l’unione con Roma, ma anche questa volta durò solo cinquant’anni. Fu nel 1672 che il Cristianesimo si diffuse ampiamente ad opera del’’Arcivescovo di Amida, tanto che Innocenzo XI lo elevò al rango di Patriarca (1681). L’unione definitiva con Roma si ebbe solo nel 1830, quando Pio VIII confermò al Patriarca il titolo di “Patriarca di Babilonia dei Caldei”, con sede nella città di Mossul fino al XX secolo. Chiese di tradizione caldea si trovano anche in Iran, Libano, Siria Gerusalemme, Egitto, Turchia, Australia, e negli Stati Uniti d’America.[118]

I “cristiani di San Tommaso” o cristiani malabaresi discendono da comunità fondate nel IV secolo circa e poi passate al nestorianesimo, questo gruppo si dette un’organizzazione stabile nel 1599, quando l’Arcivescovo di Goa indisse un Sinodo per unificare la gerarchia e adeguare la liturgia al cattolicesimo; ma i missionari Gesuiti latinizzarono pesantemente i riti ai quali i fedeli erano legatissimi, creando molti malcontenti, di questo ne approfittò l’Arcidiacono Tommaso Parambil, il quale si staccò da Roma seguito da un sostanzioso numero di fedeli per unirsi con i Siro-Giacobiti (monofisiti). Papa Alessandro VII sostituì i Gesuiti con i Carmelitani, i quali riuscirono a ricondurre all’unione con la Santa Sede molti cristiani. Prima dell’arrivo di Vasco de Gama la Chiesa malabarese era legata da antichi rapporti con il nestorianesimo, ma con l’arrivo dei Portoghesi si ebbero dei mutamenti: la politica portoghese si scontrò con il desiderio di indipendenza e autonomia dei fedeli, i quali accolsero con entusiasmo il Vescovo caldeo Mar Youssef, inviato in India col consenso del Pontefice per ripristinare le antiche consuetudini, ma fu imprigionato dai Portoghesi, deportato a Lisbona per essere processato dal Tribunale dell’Inquisizione. La mancanza di un Vescovo, il processo di latinizzazione della Chiesa mala barese contribuirono, nel Seicento, al distacco della già fragile comunione con Roma e alla divisione in seno alla stessa Chiesa dando vita alla Chiesa malankarese. La data di fondazione di questa Chiesa si può considerare nel’Molto tempo dopo, nel 1896 furono creati tre Vicariati apostolici sotto la guida di Vescovi siro-malabaresi; nel 1923, Pio XI col breve “Romani Pontifices” dette una propria gerarchia a questa Chiesa, costituendo l’Arcivescovato di Ernakulan con tre vescovati suffraganei e nel 1934 la sottopose ad un processo di de-latinizzazione dei riti, che sfociò nell’approvazione della nuova liturgia nel 1957 con Pio XII. Fu nel 1992 che Papa Giovanni Paolo II elevò la Chiesa ad Arcivescovile Maggiore, nominando anche il primo Arcivescovo Maggiore nella persona del Cardinale Antony Padiyara.[119]

I sacerdoti della Chiesa malabarese portano il nome di “cathanar”, abbreviazione di “carthan” (governatore) e di “nathar” (signore); i Vescovi hanno il titolo di “Mar”, che equivale a Monsignore, al quale alcune volte, viene aggiunto quello di “Abouna” (Nostro Padre).[120]

 

La Tradizione Costantinopolitana (Bizantina)

Sviluppatasi soprattutto a Costantinopoli, deriva dalla tradizione antiochena, comprende anche degli elementi alessandrini e cappadoci. Il rito bizantino è conservato anche dai popoli soggetti alla giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli, cioè nelle Chiese autocefale provenienti, nei secoli successivi, dal Patriarcato medesimo e anche nei Patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, appartenenti alla fede caledoniana.[121]

La Chiesa bielorussa: a partire dalla fine del XVIII secolo la storia dei Ruteni si diversifica a seconda che si tratti di Ruteni di Russia o della ex Cecoslovacchia. Alla fine dell’Ottocento il governo russo sopprime tutte le sedi cattoliche e i Ruteni sono incorporati nella Chiesa ufficiale. Nel primo decennio del Novecento molti Ruteni chiesero di rientrare in comunione con Roma, ma per prudenza, passarono al rito latino, poiché la legge russa proibiva ai cattolici l’uso del rito bizantino.[122] Nel 1595 ed anche l’anno successivo, dopo l’unione di Brest, numerosi cristiani bielorussi erano entrati in piena comunione con la Chiesa di Roma: nel 1931 la Chiesa bielorussa ricevette un Visitatore apostolico inviato dalla Santa Sede e nel 1939 fu nominato un Esarca per i fedeli bielorussi di rito bizantino, mentre nel 1960 fu nominato un Visitatore apostolico per i fedeli residenti all’estero.[123]

Nel IX secolo i Bulgari accolsero il Cristianesimo nel rito bizantino, (893-972), Simeone I successore dello zar Boris I, proclamò un Patriarcato indipendente nel 917, che fu riconosciuto da Costantinopoli, ma ebbe fine nel 1018 con la caduta del Primo impero bulgaro. Dopo avere ottenuto di nuovo l’indipendenza nel 1186, il Patriarca di Costantinopoli  riconobbe l’indipendenza della Chiesa bulgara e il diritto al Patriarcato nel 1235, ma la conquista ottomana mise fine al Patriarcato e il suo territorio unito con quello di Costantinopoli. Ne secoli successivi fu imposta la lingua greca nella liturgia e i Vescovi erano greci; nel XIX secolo il Sultano emanò un decreto (12 marzo 1870) per l’istituzione di un esarcato bulgaro indipendente da Costantinopoli, il cui Patriarca scomunicò la Chiesa bulgara,nonostante tale provvedimento non fosse riconosciuto dalle Chiese ortodosse, fu ritirato solo nel 1945. I Bulgari cercarono l’appoggio di Roma, sperando che fruttasse alla loro Chiesa la libertà negata da Costantinopoli: Papa Pio IX accettò la loro richiesta ed elevò al rango arcivescovile personalmente l’Archimandrita Sokolsky l’8 aprile 1861, il quale, qualche mese dopo scomparve su un battello russo diretto a Odessa, questo avvenimento incise negativamente sulle conversioni.[124] Alla fine dell’Ottocento furono istituiti due Vicariati apostolici, soppressi nel 1926 e istituito un Esarcato apostolico per i fedeli di rito bizantino, per iniziativa del futuro Papa Giovanni XXIII (Angelo Roncalli), il quale fu Visitatore apostolico in Bulgaria nel 1925 e Delegato apostolico fino al 1934. Dopo la Seconda guerra mondiale, il regime comunista non abolì la Chiesa greco-cattolica bulgara, anche se fu sottoposta a drastiche restrizioni, che furono mitigate quando sul soglio pontificio salì Giovanni XXIII il 28 ottobre 1958.[125]

Solo alla fine del XIX secolo si verificarono le prime conversioni greche al cattolicesimo con la creazione di una Chiesa cattolica “sui iuris”di rito bizantino,  in seguito furono costruite altre Chiese in Tracia, Costantinopoli, Calcedonia e Turchia, molto meno numerosi furono i cattolici di rito latino, i quali, generalmente, erano discendenti dei veneziani, pisani, genovesi ed amalfitani, che si erano stabiliti nelle isole greche all’epoca delle Repubbliche marinare per fini commerciali. Nel 1907 il Pontefice nominò Isaias Papadopoulos Vicario generale della delegazione apostolica di Costantinopoli e quattro anni più tardi venne elevato al rango episcopale, dando luogo ad un nuovo ordinamento per i cattolici greci, che in seguito divenne un Esarcato. Dopo il conflitto bellico tra Grecia e Turchia, molti cattolici traci si rifugiarono in Macedonia, la comunità di Costantinopoli, invece, si trasferì ad Atene con il proprio Vescovo. Nel 1932 monsignor Calavassy, che sostituisce Papadopoulos, si stabilisce ad Atene e monsignor Varouhas in Turchia, a Costantinopoli, entrambi come ordinari: l’Esarcato cattolico-bizantino fu separato dall’Esarcato apostolico di Costantinopoli per i cattolici della Turchia e limitato unicamente allo Stato greco, ma a causa delle emigrazioni e dei fatti che avevano travagliato la popolazione, la comunità di questo Esarcato si è sensibilmente ridotta, al punto che l’ultimo sacerdote, morto nel 1997, non è mai stato rimpiazzato.[126]

Al rito bizantino appartiene anche la diocesi di Hajdu-Dorogh, situata al centro della vasta pianura dell’Ungheria. Questa nuova diocesi è stata eretta nel 1912 da Pio X con settantotto parrocchie rutene, ottantatre parrocchie rumene e con quella di rito bizantino di Budapest. Dopo la prima Guerra mondiale le parrocchie di questa diocesi, il cui Vescovo risiede a Nyiregyhaza, sono rimaste in tutto ottantatré.[127] La conversione dei Magiari al Cristianesimo avvenne con Géza (972-997) della dinastia degli Arpad. Il successore, Stefano il Santo, (997-1038) gettò le basi dello Stato ungherese, avvalendosi anche del supporto del Papato. Per organizzare la Chiesa ungherese, Stefano istituì arcivescovati e vescovati, stimolando anche gli ordini religiosi a fondare loro conventi.[128]

Nel corso del XVII secolo i cattolici ungheresi erano concentrati soprattutto nel nord-est del Paese, la loro cura spirituale dipendeva dall’Eparchia di Mukacheve della Chiesa cattolica rutena (1600). Durante il secolo successivo molti ungheresi protestanti si convertirono al cattolicesimo adottando il rito bizantino e cominciarono ad usare la lingua nazionale nella loro liturgia. Nel 1868 i delegati di cinquantotto parrocchie si riunirono per promuovere l’uso della lingua ungherese nella liturgia e per la creazione di una propria Eparchia, che fu poi istituita da Papa Pio IX l’8 giugno 1912: Eparchia di Hajdudorog per le 162 parrocchie greco-cattoliche di lingua ungherese. Dopo la Prima Guerra mondiale, la modificazione delle frontiere nazionali portò alla riduzione del territorio dell’Eparchia di Hajdudorog e delle 168 parrocchie originarie ne restarono 90, di cui 21 erano quelle nei confini ungheresi delle eparchie di Presov e una dell’eparchia di Mukacheve, il 4 giugno 1924 furono unificate nell’esarcato di Miskolc. Questa nuova conformazione fu inizialmente classificata come rutena, perché quelle parrocchie usavano ancora lo slavo ecclesiastico nella liturgia, ma ritenuta parte della chiesa greco-cattolica ungherese. Le 67 parrocchie dell’eparchia di Hajdudorog in territorio romeno furono alienate il 9 aprile 1934. Il territorio dell’eparchia inizialmente coincise con quello dell’Arcidiocesi di rito latino di Eger (Ungheria orientale) e con la città di Budapest. Il 17 luglio 1980 la sua giurisdizione fu estesa a tutta l’Ungheria. La Santa Sede e l’Ungheria stabilirono relazioni diplomatiche nel 1920, ma furono interrotte dopo la seconda guerra mondiale, quando il governo comunista prese il potere del Paese; tali relazioni furono ristabilite dopo la disgregazione del regime comunista a partire dal 2 febbraio 1990. Papa Giovanni Paolo II, con la sua lettera apostolica “Hungariae Nationis”(1993) procedeva ad una riorganizzazione territoriale, che tenesse conto delle nuove condizioni in cui la Chiesa ungherese era chiamata a svolgere la sua missione. Vennero modificati alcuni confini delle diocesi, tenendo in considerazione le perdite territoriali subite dall’Ungheria (dopo la prima  guerra mondiale), ne furono create due nuove: quella di Kaposvar e quella di Debrecen-Nyiregyhaza; fu elevata a Metropolia la diocesi di Veszprém.[129]

La Chiesa italo-albanese: nell’alto Medioevo, l’Italia meridionale e la Sicilia facevano parte dell’Impero romano d’Oriente, i Cristiani di queste regioni seguivano il rito bizantino introdotto dalla politica imperiale e dipendevano dal Patriarcato di Costantinopoli, fino alla conquista dei Normanni nell’XI secolo. Il rito latino soppianta quasi completamente quello bizantino e Roma riprende i suoi diritti che i Patriarchi greci avevano usurpato. Nel XV secolo, i Greci e gli Albanesi, fuggirono dagli invasori Turchi e cercarono rifugio in Calabria e in Sicilia; l’immigrazione continua nei secoli XVI e XVII, in modo che si contano presto più di trenta villaggi. I nuovi venuti mostrano un tale attaccamento al loro rito, da far sì che questo sia conservato.

Urbano II, nel 1624, allo scopo di impedire l’intrusione dei Vescovi greci, spesso scismatici, che venivano ad installarsi nelle province meridionali dell’Italia, istituisce a Roma una prelatura metropolitana di rito bizantino, il cui titolare poteva ordinare i sacerdoti del proprio rito, ma senza esercitare alcuna giurisdizione sui fedeli. Questi ultimi rimangono sotto la dipendenza dei Vescovi latini nelle diocesi delle quali essi fanno parte. Papa Benedetto XIV concede loro, nel 1742, la costituzione “Etsi Pastoralis” che li regola ancora oggi. Vengono fondati due seminari e molti monasteri, di cui restano attualmente solo il monastero di Grottaferrata presso Roma, il seminario italo-albanese di Palermo e il collegio greco di Sant’Atanasio a Roma. Il 13 febbraio 1919, Benedetto XV eresse l’Eparchia di Lungro suddivisa in ventinove parrocchie. Pio XI con sua bolla del 26 ottobre 1937 sancisce l’erezione dell’eparchia di Piana dei Greci, con giurisdizione sui fedeli di rito bizantino della Sicilia. L’abbazia territoriale di Santa Maria di Grottaferrata comprende la sola antichissima abbazia di Grottaferrata, fondata nel 1004 da san Nilo da Rossano, sopra un terreno dove di un’antica villa romana, donato ai monaci dai Conti di Tuscolo,feudatari del luogo.[130]

 Dopo il Concilio di Calcedonia (V secolo), l’Imperatore di Costantinopoli Marciano deliberò che i decreti del Concilio avessero forza di legge dello Stato: coloro che accettarono questa decisione furono detti “melchiti”, ossia “uomini del re”. Il termine, deriva dall’arabo “malik” e i monofisiti d’Egitto lo usavano in senso dispregiativo per gli ortodossi; oggi con questo vocabolo sono designati i cattolici di rito bizantino, di lingua araba.

Nonostante l’occupazione musulmana del Medio oriente del VII secolo e la riconquista dell’Impero bizantino di questi territori sottoposti all’autorità del Patriarcato di Costantinopoli, i Melchiti rimasero sempre in comunione con Roma, rapporti talvolta resi molto difficoltosi anche a causa degli abusi inflitti dai Crociati. Per due secoli, dopo la conquista ottomana (1516), la Chiesa melchita fu di nuovo sottoposta al Patriarcato di Costantinopoli, ma nonostante il controllo ortodosso i Melchiti riuscirono a mantenere i contatti con la Santa Sede, anche se la maggior parte di loro parteggiò per Costantinopoli. A questa Chiesa appartengono i cristiani di rito bizantino dei Patriarchi di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme. I melchiti cattolici hanno subito numerose e violente persecuzioni da parte degli scismatici e dalle autorità turche fino al 1837, anno in cui il Patriarca Massimo III Mazloum riorganizza la Chiesa melchita cattolica.[131] Nel XVII secolo missionari cattolici incrementarono i rapporti tra latini e melchiti e nel 1709 il Patriarca di Antiochia Cirillo V riaffermò l’autorità Pontificia sulla Chiesa melchita, che subì una divisione nel 1724: una parte, “Ortodossi antiocheni”, sotto l’influenza di Costantinopoli; l’altra “Melchiti cattolici” dichiararono formalmente l’unione con Roma. Con il decreto di Papa Leone XIII “Orientalium Dignitas” la Chiesa melchita cattolica ha potuto mantenere il rito orientale e durante il Concilio Vaticano II il Patriarca di Antiochia contribuì all’apertura del dialogo con la Chiesa ortodossa. I Melchiti cattolici dichiararono formalmente l’unione con Roma nel 1724, dopo la divisione della Chiesa melchita in due rami: quello degli ortodossi antiocheni e quello dei Melchiti cattolici, presenti non solo in Medio Oriente, ma anche in Canada, USA, Brasile, Australia.[132]

I Rumeni, in grande maggioranza cattolici, nei secoli XVI e XVII, diventarono scismatici oppure calvinisti, per la riconversione i Gesuiti organizzarono delle missioni che ebbero pieno successo. Ma nel 1735 un monaco serbo, Bessarione, sostenuto dal Patriarca di Pec, condusse una lotta accanita in Transilvania contro i cattolici, i quali intimoriti si convertono all’ortodossia. L’ordine fu ristabilito dopo circa venti anni; i Rumeni in Transilvania si dividono in due Chiese: una unita a Roma e l’altra dissidente. L’unione fu preparata durante i Sinodo di Alba Iulia del 1697, fu poi decisa ufficialmente nel Sinodo dell’anno successivo, venne ratificata solennemente col Sinodo del 1700 sempre svoltosi ad Alba Iulia. Il Pontefice Innocenzo XIII, con sua bolla “Rationi congruit” del 9 maggio 1721, conferma la fondazione di un vescovado per gli uniti della Transilvania, con sede a Fagaras, poi a Blaj dal 1737. Papa Pio IX con sua bolla del 1853 “Ecclesiam Christi ex omni lingua” istituì metropolia greco-cattolica rumena nell’eparchia di Fagaras-Alba Iulia con tre diocesi suffraganee.[133]

La Chiesa rutena: i Ruteni sono slavi che risiedono nel sud-ovest della Russia, nella Galizia, in parte della ex Cecoslovacchia e della Romania. Essi abbracciarono il rito bizantino dal momento in cui si convertirono al Cristianesimo nei secoli X e XI. Nel 1589 l’erezione del Patriarcato russo di Mosca diventa un pericolo grave per i cattolici, poiché i Russi pretendono di estendere su tutti gli Slavi di rito bizantino la loro autorità civile e religiosa. I Vescovi ruteni, riuniti in Sinodo a Brzesc, decidono di rompere per sempre con i Patriarchi orientali scismatici e di riconoscere la sola autorità del Papa (1595). La Chiesa rutena si unì alla Chiesa di Roma nel 1646. Tale Chiesa è compresa nell’Eparchia di Mukacheve in Ucraina e soggetta alla Santa Sede; nell’Arcieparchia di Pittsburg con tre eparchie suffraganee, dove si trova anche la sede, forse a causa dei molti cattolici che emigrarono negli USA fin dal secolo XIX e nell’Esarcato apostolico della Repubblica Ceca.[134]

L’unione della Chiesa slovacca si ha nel 1649, quando l’igumeno di un monastero situato presso Mukacheve, che i fedeli riconoscevano come loro capo religioso, chiese ed ottenne di entrare in comunione con Roma, a condizione di conservare il rito bizantino. I Ruteni della Cecoslovacchia, nel XVII secolo, si convertirono al cattolicesimo, conservando però il rito bizantino ed eleggendo Vescovi di questo rito. Non vengono fissati, però, i confini di questa nuova diocesi e ciò provoca frequentemente dei conflitti di giurisdizione con Vescovi latini fino al 1771, quando Pio VI erige la diocesi di Mukacheve. L’Unione di Uzhorod del 1646 fa accettata all’unanimità sul territorio che comprende la Slovacchia orientale e il 22 settembre 1818 fu eretta l’Eparchia di Presov che fu poi sottratta dalla giurisdizione del primate d’Ungheria nel 1937 e soggetta alla Santa Sede. Giovanni Paolo II eresse l’esarcato apostolico di Kosice.[135]

La Chiesa ucraina uniate esiste dal 1596, quando gli Ucraini di rito greco decisero di staccarsi dalla Chiesa ortodossa per unirsi alla Chiesa di Roma. Per tre secoli e mezzo hanno potuto professare liberamente la propria fede, finché Stalin decide di sopprimere la loro Chiesa (1946). Nel settembre 1989, per la prima volta, dopo più di quarant’anni, gli Uniati hanno manifestato pubblicamente a Lvov per il riconoscimento della propria libertà di culto e contro l’integrazione della Chiesa ortodossa. All’inizio del 1990 il Cardinale degli Uniati ha celebrato la prima Messa pubblica.[136]

La storia religiosa dell’Ucraina è strettamente legata agli avvenimenti storico-politici del Paese. Secondo un’antica leggenda fu l’Apostolo Andrea che predicò il Vangelo nella regione del Mar Nero e già durante il regno del Principe Igor (914-945) i cristiani erano numerosi. Alla morte di Igor, la moglie Olga prese la reggenza, si fece battezzare e restò in contatto sia con Costantinopoli sia con l’Imperatore Ottone I, al quale chiese di inviare a Kyiv un Vescovo per l’evangelizzazione dei suoi sudditi. In seguito, con altri regnanti, Kyiv divenne il centro spirituale del Cristianesimo slavo; anche dopo lo scisma del 1054 la Chiesa di questa città continuò ad intrattenere relazioni con la Chiesa di Roma anche se discontinue ed ebbe una grande fioritura di questa religione. Ma dall’anno 1169 ha inizio la decadenza: il duca Bogoliubskii devastò Kyiv, le Chiese furono bruciate, i fedeli uccisi e i sopravvissuti fatti schiavi. Nel 1240 l’Ucraina fu conquistata dai Tartari, perdendo la sua centralità sugli slavi orientali; da questo periodo in poi, risentì moltissimo di tutti gli avvenimenti storici-politici della Russia e dei Paesi dell’Est, al punto tale da non permettere uno sviluppo religioso e culturale. Fu chiesta protezione alla Chiesa di Roma, che garantiva la protezione dalla russificazione e dalla latinizzazione, perché le condizioni erano il rispetto per l’identità della Chiesa locale.[137] Nel 1595 fu concordata a Roma un’Unione di Brest, ratificata poi a Brest Litovsk nel 1596: in questa circostanza, oltre all’arcieparchia metropolitana di Kyiv ed altre della Rutenia Bianca, si unirono anche le eparchie della Volinia. Nel 1620 fu ristabilita l’Unione e il Metropolita si stabilì a Kyiv. La Chiesa fu elevata allo statuto Arcivescovile Maggiore il 23 dicembre 1963, con a capo l’arcivescovo maggiore di Lyiv-Halyc.[138]

Il 9 e 10 marzo 1946 ebbe luogo il Sinodo di Lviv, nella cattedrale di San Giorgio, dove le autorità sovietiche tennero sotto la minaccia delle armi i convocati; venne revocata l’unione di Brest e la Chiesa riunita forzatamente con quella ortodossa, la piccola comunità che rimase fu costretta a vivere nelle catacombe e a svolgere il servizio pastorale senza una struttura ufficiale, uscendo solo con l’inizio della “Perestroika”, che dette ai cattolici un poco di libertà e il coraggio di lottare per i propri interessi nazionali e religiosi. Nel 1989, le autorità sovietiche riconobbero le comunità greco-cattoliche e nel 1991 il Cardinale Lubachivsky, capo della Chiesa rientrò alla sua sede dopo l’esilio.

La Chiesa iugoslava: il Re d’Ungheria, nel 1463, avendo riconquistato una parte della Bosnia dai Turchi, impone agli abitanti l’unione con Roma; questi nuovi fedeli però accettano il cattolicesimo solo all’inizio del XVII secolo. Nel 1611 Papa Paolo V nomina loro un Vescovo di rito bizantino e alla fine dello stesso secolo viene nominato un Vescovo anche per la Slavonia. I cattolici iugoslavi subiscono le vessazioni degli scismatici e il Vicariato della Slavonia viene soppresso; per porre fine a questa persecuzione Pio VI erige una diocesi a Krizevci, tuttora esistente.[139] Più recentemente, le persecuzioni del governo di Tito non hanno risparmiato la diocesi di Krijevtsy: imprigionando il Vescovo e alcuni sacerdoti. Dall’Europa centrale e dall’opposta sponda adriatica giunse la religione cattolica-romana, professata in prevalenza dalle genti a Nord della Sava, eccettuato il Sirmio; nelle isole e lungo la costa dalmata, spingendosi a nord della Narenta, sin quasi all’alta Bosnia e con minor predominio nella Voivodina.[140]

L’evangelizzazione dell’Albania sembra sia cominciata fin dall’epoca apostolica, probabilmente fu San Paolo ad evangelizzare questo Paese durante i suoi viaggi. Nel 58 la città di Durazzo aveva un suo Vescovo, nel IV secolo quasi tutto il Paese era cristianizzato e sul suo territorio erano sorte cinquanta sedi vescovili. già al tempo del Concilio di Nicea (325) esisteva una certa organizzazione ecclesiastica, sviluppatasi sotto l’influsso della Chiesa di Roma. La differenza di rito tra le due parti del Paese deriva dal fatto che nella parte settentrionale vi erano i missionari latini, mentre in quella meridionale i Bizantini. Dal 732 l’Albania può considerarsi alle dipendenze di Costantinopoli, con la quale sarà trascinata nello scisma greco; solo il nord del Paese, di rito romano, rimarrà sotto la Chiesa cattolica. Dopo una rifioritura delle sedi cattoliche intorno al Mille, nel secolo XIII l’ortodossia prende il sopravvento. Di fronte al pericolo turco (sec. XV) prelati latini e popolazione cattolica emigrano in Italia, costituendo quelle colonie italo-albanesi che ancora oggi mantengono il rito bizantino.[141] Un rifiorire del cattolicesimo si ha nel secolo XVII e ancora in quello XVIII soprattutto ad opera di Papa Clemente XI ed infine nel secolo XIX con la fine della persecuzione turca e l’istituzione dei seminari, scuole e missioni cattoliche. Ma già all’inizio del Novecento i cattolici albanesi si trovano in una situazione d’inferiorità numerica rispetto ai loro connazionali ortodossi e soprattutto musulmani.[142] Risale al 1660 la prima unione della Chiesa albanese con Roma, quando un prete ortodosso si unì alla Chiesa cattolica, per essere abbandonata nel 1765 a causa di impedimenti posti dai governanti ottomani. Un gruppo di villaggi dell’Albania centrale passarono al cattolicesimo nel 1895 e nel 1939 il Paese diventa una giurisdizione ecclesiastica separata sotto la cura di un amministratore apostolico.[143] L’avvento del regime comunista apre un periodo di terrore religioso: con le prime condanne a morte, la soppressione delle opere cattoliche e l’espulsione di numerosi religiosi; verso la metà degli anni Cinquanta, la Chiesa cattolica albanese vive la tormentata stagione del “silenzio” fino al crollo del regime, ma negli anni successivi il cattolicesimo conosce una grande fioritura, “incoraggiata” anche dal viaggio apostolico di Papa Giovanni Paolo II in questo Paese nel 1993; già nel 1989 Madre Teresa di Calcutta (Gonxhe Bojaxhiu) aveva ottenuto il permesso di tornare nella sua patria, dando ai suoi connazionali la speranza in un futuro di libertà.[144]

La Santa Sede, nel 1472, sperava che avvenisse la riunione della Chiesa russa con quella romana in occasione del matrimonio dello zar Ivan III con la principessa cattolica Zoe, figlia di Tommaso Paleologo, celebrato in San Pietro, ma la principessa, giunta a Mosca, si dichiarò ortodossa. Nel periodo seguente, probabilmente, non vi furono veri e propri rapporti tra le due chiese, ma solo tentativi unilaterali da parte della Chiesa cattolica.[145]

E’ inizialmente dovuta all’esistenza di colonie straniere la presenza di cattolici in un Paese prettamente ortodosso come la Russia; le prime Chiese cattoliche sorsero solo tra il XVII e XVIII secolo a Mosca e a Pietroburgo, ma i parroci furono considerati solo degli stranieri e appena tollerati, tale situazione mutò in seguito alle spartizioni della Polonia (1772, 1793, 1785),quando l’Impero russo “ereditò” sei milioni di cattolici polacchi che avevano una loro gerarchia ecclesiastica ben definita e che in seguito sarebbe stata la base gerarchica della Chiesa cattolica russa. Poco prima delle dette spartizioni l’imperatrice Caterina II istituì la prima diocesi a Mogilev, di cui facevano parte Mosca e Pietroburgo, con a capo il Vescovo di Vilnius e nel 1782 fu trasformata in arcidiocesi: tutto questo senza chiedere il consenso alla Santa Sede: questo evidenzia che la Chiesa cattolica russa nasce in seno all’Impero russo  e con caratteristiche molto diverse dalle altre Chiese “sui iuris”, ovviamente i rapporti tra Sede Apostolica e corte imperiale furono sempre molto precari a causa di questa manifesta indipendenza della Chiesa cattolica da Roma. L’Arcivescovo trasferì la sua sede a Pietroburgo, che, alla fine del XVIII secolo divenne il centro più attivo della Chiesa cattolica russa. Nel 1839 e poi nel 1875 il governo russo obbligò con la forza a reintegrarsi nella Chiesa ortodossa quelle unite della Lituania, Bielorussia  e di varie regioni della Polonia, mettendo fine legalmente alla loro esistenza, ad eccezione della Chiesa cattolica ucraina (Galizia orientale facente parte dell’Impero austro-ungarico). Nel corso del XIX secolo i cattolici latini, unici riconosciuti legalmente, furono divisi in sette diocesi, i cui Vescovi erano controllati dalla burocrazia imperiale, come avveniva con gli Ortodossi tramite il Sinodo, le possibilità di conversione al cattolicesimo divennero quasi impossibili a causa della severissima legge russa sulla libertà religiosa, al punto tale che i sudditi che si fossero convertiti rischiavano il processo penale; per i militari l’abiura era addirittura uguagliata all’alto tradimento. Il 17 aprile 1905 l’emanazione dell’editto di tolleranza segnò una tappa importante verso la libertà religiosa, ma per i sacerdoti cattolici il Paese restava chiuso.[146]

Sempre nel corso del XIX secolo un certo numero di Russi abbraccia la fede cattolica, creando un movimento tendente ad organizzare una Chiesa russa cattolica di rito bizantino, questo fu un fenomeno più qualitativo che quantitativo, perché coinvolse molti grandi nomi della cultura e dell’aristocrazia. Gli ortodossi vedono in ciò un pericolo grave per la loro Chiesa e ottengono la chiusura, tra il 1913 e il 1914, delle Cappelle cattoliche di rito bizantino e l’espulsione dei sacerdoti colpevoli di aver fatto del proselitismo. Nel 1917, con la rivoluzione d’ottobre, si permette di costituire un Esarcato russo, ma la persecuzione dei Soviet, nel 1923, annulla ciò che era stato ottenuto.[147] La Chiesa russa si unì formalmente con quella di Roma nel 1905 e nel 1917 fu fondato il primo Esarcato apostolico per i cattolici russi, seguito dalla fondazione di un secondo nel 1928 a Harbin per i cattolici russi in Cina, ufficialmente ancora esistenti anche se privi di nomina vescovile.[148]

CAP IV

LE CHIESE PATRIARCALI

Le Chiese sui iuris

Il contenuto del CCEO riguarda tutte e solamente le Chiese orientali cattoliche, anche se non tutte non tutte sono collocate nello stesso grado: le Chiese patriarcali, con a capo i Patriarchi, quelle arcivescovili maggiori condotte dagli Arcivescovi maggiori, le Chiese metropolitane, rette da Metropoliti e quelle “sui iuris” minori, con a capo i Gerarchi. Le Chiese “sui iuris”, quindi, non si identificano né con la Chiesa universale né con la Chiesa particolare, ma si possono definire una comunione di Chiese particolari a livello regionale o interregionale.[149] Questi concetti sono espliciti nel Concilio Vaticano II: <<Queste Chiese particolari, sia d’Oriente che d’Occidente, sebbene siano in parte tra loro differenti nei riguardi dei cosidetti riti, cioè per liturgia, per disciplina ecclesiastica e patrimonio spirituale, tuttavia sono in egual modo affidate al pastorale governo del Romano Pontefice […] Esse quindi godono di pari dignità, così che nessuna di loro prevale sulle altre a motivo di rito, e inoltre godono degli stessi diritti e sono tenute agli stessi doveri>>.[150]

Il decreto conciliare “Orientalium Ecclesiarum”, trattando delle Chiese orientali cattoliche riconosciute espressamente o tacitamente in varie epoche dal Pontefice Romano, le chiama “Chiese particolari o riti”.

Secondo il Concilio Vaticano II ciò che costituisce ecclesiologicamente una “Chiesa particolare o rito” viene descritto come il raggruppamento stabile dei fedeli: clero secolare e regolare, religiosi e fedeli cristiani laici, organicamente congiunto da una gerarchia propria, che, nell’unità della Chiesa universale, vive e cresce nel suo patrimonio liturgico, teologico, disciplinare e spirituale. La locuzione “Chiese particolari o riti”, usata nel decreto “Orientalium Ecclesiarum”, è stata oggetto di molte discussioni perché in questo modo si identificava erroneamente il concetto di “Chiesa particolare”.

<<Il termine “ritus” è giudicato inadatto a significare pienamente la realtà di una comunità cattolica radunata attorno ad una gerarchia e dotata di particolari elementi specifici etnico-religiosi, specialmente dopo che è stato riconosciuto a queste comunità lo status di Chiese “Sui iuris”, che del resto non implica, in quanto tale, alcuna connotazione territoriale. Così è stata infatti superata, e si spera in modo definitivo, la terminologia ambigua in uso dal secolo XVI, per la quale si indicavano quelle comunità con il termine ritus, cosa che faceva convergere l’attenzione sulle particolarità liturgiche, a danno di quelle spirituali, culturali e disciplinari>>.[151]

La PCCICOR ha lungamente discusso sul tema della nozione e dei termini di “Chiese particolari” e di “Rito”, nel frattempo il nuovo CIC ha utilizzato l’espressione “Chiese particolari” per indicare le diocesi, chiamate eparchie nel diritto orientale. Il CCEO tenta di risolvere definitivamente la questione: nel canone 177 §1 l’eparchia è chiamata Chiesa particolare, nella quale è presente ed opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica ossia “Ecclesia universa”.

Il nuovo Codice del 1990 chiama le varie Chiese orientali col nome di “Ecclesiae sui iuris”, cioè “Chiese di diritto proprio”, perché si reggono secondo un loro proprio statuto speciale, sostituendo la terminologia del suddetto decreto di “Ecclesia particularis”.[152]

Il can. 27 CCEO definisce dal punto di vista strettamente giuridico una Chiesa “sui iuris”: <<Si chiama in questo Codice, Chiesa sui iuris, un raggruppamento di fedeli cristiani congiunto dalla gerarchia, a norma del diritto che la suprema autorità della Chiesa riconosce espressamente o tacitamente come sui iuris>>. La definizione di “Ecclesia sui iuris” non si presenta avulsa dal Codice, ma gli è relativa: essa è intesa in funzione del Codice (vocatur in hoc Codice Ecclesia sui iuris).[153]

Le componenti che costituiscono una Chiesa “sui iuris” sono tre: la prima consiste in un raggruppamento di fedeli, un’assemblea o comunità ecclesiale di popolo di Dio (fedeli, chierici, monaci e religiosi); la seconda  è rappresentata dall’esistenza di una gerarchia propria che unisce a norma del diritto questa componente di fedeli in una determinata comunità, compatta e organizzata come una Chiesa; infine l’ultima, formale ed esterna: è il riconoscimento espresso o tacito da parte della suprema autorità della Chiesa dell’autonomia dell’organizzazione.

Chiesa “sui iuris”, ossia autonoma, ma bisogna notare che l’autonomia in questione non è assoluta nel senso della “autocefalia” delle Chiese ortodosse, ma è ben delimitata dal diritto stabilito dalla suprema autorità della Chiesa, cioè dal Romano Pontefice e dal Collegio dei Vescovi.[154] L’autonomia delle Chiese “sui iuris” implica una facoltà di governarsi emanando leggi appropriate, amministrando la giustizia e curando con mezzi pastorali, anche coercitivi, la comunità ecclesiale, in modo che questa viva in ordine e tenda verso i propri fini. La differenza fondamentale tra Chiesa latina “sui iuris” e le altre Chiese Orientali “sui iuris” non consiste solo nel fatto che quella latina ha una configurazione giuridica non paragonabile nemmeno per una lontana analogia con altre Chiese “sui iuris”; questa radicale differenza deriva dal fatto che la Chiesa latina ha come capo il Pontefice, il cui potere non gli è concesso da nessuno, ma è di diritto divino (iure divino), è un potere primaziale che non può essere limitato da alcun “ius humanum”. Questo potere è ordinario, supremo, pieno, immediato e universale e può essere sempre esercitato liberamente; mentre tutte le altre Chiese “sui iuris” esistono in virtù del volere della suprema autorità della Chiesa.[155]

Le differenze più marcate, probabilmente, sono quelle relative al rito della Messa, che è celebrata in lingua volgare, dopo la riforma del Messale di Paolo VI, ma riguarda anche molti altri aspetti: la somministrazione dell’Eucaristia in entrambe le forme di pane e del vino, l’uso del pane lievitato, il Battesimo per immersione, invece della genuflessione l’inchino con la parte superiore del corpo e con un gesto del braccio. Queste diverse ritualità sono molto antiche, risalgono, in particolare, al tempo delle persecuzioni quando la difficoltà di comunicazione era notevole e dava luogo a numerose varietà delle pratiche religiose. Nel 1570, con la pubblicazione del “Messale Romano”, tali pratiche divennero più omogenee, ma le comunità più isolate e provenienti da diverse Tradizioni avrebbero dovuto trasformare i loro principi tradizionali per uniformarsi alle altre Chiese, tutto questo avrebbe creato molta confusione tra i fedeli e sarebbe stato controproducente per l’attività apostolica, quindi le Chiese “sui iuris” hanno mantenuto le diverse liturgie che rispecchiano i nuclei storici da cui hanno avuto origine. Molto significativa la frase pronunciata da Papa Benedetto XVI alcuni anni fa: “I cristiani orientali dovrebbero essere i cattolici, non c’è bisogno che diventino latini”.[156]

E’ stato, pertanto, necessario riunire la normativa canonica delle altre Chiese “sui iuris” in un Codice a parte, in cui si circoscrivono i poteri che provengono dallo “ius ecclesiasticum” di tutti coloro che in queste Chiese hanno un potere sopraepiscopale, sia personale sia collegiale, con ben definite competenze legislative, giudiziarie ed amministrative. Ogni potere sopraepiscopale appartiene, comunque, alla suprema autorità del Pontefice e del Concilio ecumenico e che solo da questa autorità può avere origine la normativa determinante i poteri dei Capi delle Chiese orientali “sui iuris” e quelli dei loro Sinodi. La figura giuridica della Chiesa latina è fondamentalmente la medesima della Chiesa universale nei suoi primordi: il Papa successore di Pietro ed i Vescovi successori degli Apostoli, senza alcuna autorità intermedia sorta in seguito nell’Oriente e riconosciuta dalla suprema autorità.[157]

Le Chiese “sui iuris” orientali costituiscono, con le loro peculiari strutture gerarchiche, una parte di “Ecclesia universa” complementare alla Chiesa latina, ma nello stesso tempo appartengono ad un mondo molto diversificato, in quanto ciascuna delle Chiese orientali è diversa dall’altra per la gerarchia, per la cultura, per il patrimonio rituale.[158]

Quattro delle Tradizioni orientali si attuano in diverse Chiese “sui iuris”: Alessandrina, Antiochena, Caldea e Costantinopolitana, fa eccezione la Tradizione Armena alla quale appartiene solo la Chiesa omonima. Ciascuna Chiesa, anche se fa parte della stessa Tradizione, possiede un proprio “cuore”, una propria vita ed un proprio specifico rito inteso nel senso del can. 28 CCEO, che recita: << §1 Il rito è il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per la cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris. §2 I riti, di cui si tratta nel Codice sono, a meno che non consti altrimenti, quelli che hanno origine dalle tradizioni alessandrina, antiochena, armena, caldea e costantinopolitana>>. Nell’ambito di una stessa tradizione ci sono molte Chiese con un rito proprio, quindi le persone giuridiche “sui iuris” non sono le cinque Tradizioni, ma le Chiese riconducibili a queste.

I termini “ritus” e “Ecclesia sui iuris” hanno un significato a se stante del tutto univalente. Il primo è un patrimonio inestimabile, ma non è persona giuridica con doveri e diritti; il secondo ha come capo una ben determinata persona fisica, la quale “in omnibus negotiis giuridici eiusdem personam gerit”.[159]

Il can. 39 ricorda il sacro obbligo dei fedeli appartenenti a queste Chiese di conservare, far promuovere e progredire il proprio rito, inteso come patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare. Tutto questo non significa solo di osservare e conservare in modo statico il proprio patrimonio, ma testimoniarlo nella vita, celebrarlo nella liturgia, conoscerlo nella sua essenza e profondità e promuoverlo dinamicamente.[160] I canoni 39 e 40 esplicano questo sacro dovere riferendosi ai gerarchi, ai chierici, ai monaci, ai religiosi e a tutti i fedeli, riportando la lettera e lo spirito del Concilio Vaticano II: <<Sappiamo e siamo certi tutti gli orientali che sempre possono e devono conservare i loro legittimi riti liturgici e la loro disciplina, e che non si devono introdurre mutazioni, se non per ragioni del proprio organico progresso […] e qualora per circostanze di tempo o di persone fossero indebitamente venuti meno a esse, procurino di ritornare alle avite tradizioni>>.[161]

Nel decreto conciliare “Orientalium Ecclesiarum”: <<si raccomanda caldamente agli istituti religiosi e alle associazioni di rito latino, che presentano la loro opera nelle regioni orientali o tra i fedeli orientali, che per una maggiore efficacia dell’apostolato fondino, per quanto è possibile, case o anche province di rito orientale>>.[162] Le istituzioni cattoliche latine che svolgono la loro opera nei territori orientali devono essere particolarmente attente nel rispetto della gerarchia locale e delle tradizioni sacre degli orientali cattolici, evitando ogni atteggiamento di spirito o di tendenza di occidentalizzazione. Lo stesso riguardo deve essere manifestato anche verso le Chiese orientali ortodosse; in tal modo sarà bandito “ogni sentimento di litigiosa rivalità”.[163]

 

La formazione dei Patriarcati

L’istituzione patriarcale nelle Chiese orientali ha le sue origini nella tradizione canonica antica, decretata dai primi Concili ecumenici celebrati in Oriente. I canoni conciliari del IV secolo concretizzano la volontà dell’Episcopato di costituire un’organizzazione territoriale della Chiesa, prendendo come base la divisione amministrativa dell’Impero romano.[164]

I poteri dei Vescovi provinciali furono limitati a favore del Vescovo della metropoli (città principale di una provincia civile), quelli di una stessa provincia civile devono formare un solo corpo sotto la guida del Vescovo della metropoli. Il can. 6 del Concilio di Nicea (325) afferma: <<In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli sia mantenuta l’antica consuetudine per cui il Vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province, come è consuetudine anche per il Vescovo di Roma. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle Chiese i loro privilegi…>>. Il Concilio dichiara che si deve mantenere la prassi già esistente, per la quale il Vescovo di Alessandria si avvale di una particolare prerogativa, esercitando una potestà superiore sull’episcopato delle province dell’Egitto, della Libia e della Pentapoli.[165] L’istituto patriarcale non fu creato dal Concilio niceno, ma solamente accolto come istituto di antica e tradizionale applicazione. Il canone conciliare non menziona i privilegi accordati a quelle sedi, ma si limita a sancire che il Vescovo di Alessandria goda delle stesse prerogative che ha quello di Roma e, nello stesso tempo, non espressamente, conferma il sistema di amministrazione ecclesiastica metropolitano già esistente in Oriente, vale a dire l’organizzazione delle Chiese locali episcopali in province ecclesiastiche metropolitane, conforme all’ordinamento delle province civili dell’Impero.

Ad Alessandria è riconfermato un potere straordinario, il suo Vescovo esercita la giurisdizione non su una sola provincia, come un Metropolita, ma su più province e su più metropoli.[166] Il potere riconosciuto alla Chiesa di Antiochia non è specificato, però è da ritenere che esso usufruisca di un particolare primato, in quanto già prima del Concilio di Nicea è considerata la principale metropoli ecclesiastica d’Oriente.[167]

Il can. 7 dello stesso Concilio afferma che il Vescovo di Gerusalemme gode solo di un particolare onore: questa città resta ancora dipendente dalla metropoli di Cesarea in Palestina. Il caso di Gerusalemme, che, malgrado fosse la culla del Cristianesimo, beneficiava di modestissimo rilievo ecclesiastico, indica come nell’antichità l’importanza politica di una città si riversava direttamente in quella ecclesiastica.[168]

Il primo Concilio ecumenico di Costantinopoli (381), al can. 2, riconosce i diritti per i Vescovi delle altre Chiese collocate nelle capitali delle diocesi civili: Efeso, Cesarea, Eraclea.[169] Con il can. 3 per la prima volta la sede episcopale di Costantinopoli ottiene un posto privilegiato tra le Chiese d’Oriente: <<Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il Vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma>>. Proprio in questo periodo Costantinopoli diventa in modo definitivo residenza imperiale e capitale politica e nel 381 Nettario, Vescovo di questa città, assume il titolo di Patriarca.[170]

Il Concilio di Calcedonia del 451 eleva a rango di sede patriarcale Gerusalemme, staccando da Antiochia le tre Palestine e riservandole al nuovo patriarcato. Da allora ai titolari delle grandi sedi di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme è riservato il titolo di Patriarca. Nel VI secolo Giustiniano I (527-565) attribuisce anche ai Vescovi di Roma il suddetto titolo nell’esercizio giurisdizionale su più eparchie e province ecclesiastiche, dando origine alla “teoria della Pentarchia”, dove la Chiesa è governata da cinque Patriarchi in conformità al piano voluto ed istituito dai Concili.

Il primo è il Vescovo di Roma, la cui giurisdizione si estende sulla metà occidentale dell’Impero e su una vasta parte dei Balcani; secondo è il Patriarca di Costantinopoli, che ha il controllo di trentanove Metropoli e circa quattrocento Vescovi diocesani, le province del Ponto, della Tracia e dell’Asia sono sotto il suo controllo. Il terzo Vescovo è quello di Alessandria, il quale supporta l’Egitto coadiuvato da quattordici Metropoliti e centoquattordici Vescovi; il quarto gerarca è il Patriarca di Antiochia, che con tredici Metropoliti e centoquaranta Vescovi esercita il suo potere in Siria e in Arabia; il quinto assistito da cinque Metropoliti e da cinquantanove Vescovi ha giurisdizione sulla Palestina ed è il Patriarca di Gerusalemme. Teoricamente i cinque Patriarchi sono uguali, in realtà l’importanza dei vari patriarcati varia notevolmente, divenendo nel corso dei secoli V e VI uno dei maggiori problemi per la vita della Chiesa.[171]

Il titolo di Patriarca è conferito ai capi delle Chiese d’Oriente che non hanno accettato le definizioni cristologiche dei Concili di Efeso e di Calcedonia, dando luogo ai patriarcati ortodossi monofisiti di Alessandria e di Antiochia, quello nestoriano di Persia e monofisita d’Armenia.[172]

 

I Patriarcati e la Santa Sede fino al X secolo

Durante tutto il corso del primo millennio i Patriarchi orientali beneficiano di maggiore autonomia degli prelati occidentali. La spiegazione non va cercata nella grande distanza tra Roma e le sedi patriarcali, ma nel fatto che non intercorreva tra Papa e Patriarca un vincolo gerarchico: il Papa non ha nei confronti dei Patriarchi la potestà di controllo, di sostituzione, di avocazione, cioè quei poteri che caratterizzano ogni rapporto gerarchico. Roma interviene sempre e solo per tutelare l’ortodossia o per garantire, come giudice di ultima istanza, il rispetto della giustizia e della legalità, esercitando una giurisdizione straordinaria.[173] La Chiesa romana come “custos fidei et unitatis” ha una “sollecitudo erga ecclesiam universalem” che le conferisce un diritto-dovere di intervenire nella vita delle singole Chiese locali per mantenere l’integrità della fede e l’unità della comunione cattolica.

I patriarchi orientali non sono creati da Roma, né costituiscono i suoi organi periferici, possiedono una giurisdizione propria, o meglio una “sollecitudo” nel patriarcato, loro attribuita dalla “communio” dei Vescovi suffraganei.[174] Il rapporto tra Patriarca e Vescovi suffraganei è di tipo gerarchico: il primo beneficia del potere di direzione, di vigilanza nei confronti dei suoi Vescovi, li giudica, li depone; riceve gli appelli contro le loro sentenze, li sostituisce quando il loro compito è svolto in modo negligente.

Con Papa Nicolò I muta la concezione ecclesiologica: la Chiesa è un’istituzione gerarchica, vigorosamente centralizzata sotto la suprema potestà del Pontefice, ogni giurisdizione sopraepiscopale è “vicaria Romani Pontificis”. Questa concezione romana si contrappone a quella bizantina della Pentarchia, che è accettata da Roma solo nei limiti in cui non contrasta con il primato pontificio, come espressione di una situazione di fatto che si era creata nella Chiesa universale, in cui i Patriarchi sono i rappresentanti delle loro Chiese e di quelle del patriarcato e, in tale veste, stringono il “vinculum”communionis” tra loro e la Chiesa romana. In questo periodo l’esercizio della potestà giurisdizionale del Pontefice rimane limitato da un’ampia autonomia, un vero autogoverno, riconosciuta ai patriarcati. L’autonomia si risolve in materia legislativa, amministrativa, disciplinare e liturgica, non certamente in materia di fede, dove l’autorità del Papa è indiscussa.

L’Oriente elegge senza impedimenti i propri Patriarchi, Metropoliti, Vescovi, istituisce nuove diocesi, regola autonomamente la disciplina del clero, dei monaci, dei laici ed è il Patriarca che dà le prescrizioni liturgiche, introduce nuove feste e ne fissa la data.

Con il passaggio al secondo Millennio, si apre un nuovo periodo storico caratterizzato dalle preoccupazioni di custodire e controllare la compattezza della Chiesa, prediligendo il suo aspetto unitario su quello articolato nelle singole Chiese locali. Il momento determinante si ha con l’allontanamento definitivo della Chiesa d’Oriente da quella latina.[175]

 

I Patriarcati dopo lo Scisma

I Concili del IV e V secolo avevano definito l’ordine di precedenza delle sedi patriarcali: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, che è poi riconfermato anche dopo il grande scisma dal Concilio lateranense del 1215.[176] Quest’ultimo Concilio enuncia tre privilegi accordati ai Patriarchi: dopo avere ricevuto il “pallium” dal Vescovo di Roma, possono darlo ai loro suffraganei e ricevere da essi i giuramenti di fedeltà e di obbedienza al Papa e a loro stessi; possono farsi precedere dalla croce, fuorché a Roma o in presenza del Papa o dei loro legati; possono ricevere gli appelli delle sentenze di istanze inferiori ai loro patriarcati.[177] Tali privilegi sono reiterati anche dal Concilio di Firenze terminato nel luglio del 1439.

Fra gli argomenti trattati a Firenze, fu definito il primato di Roma e del Pontefice sulla Chiesa universale: il 21 giugno i negoziatori si misero d’accordo sulla relativa formula, ad eccezione di  due punti sopra i quali i Greci insistettero con le loro obiezioni. Il Papato non deve convocare un Concilio ecumenico senza l’accordo dell’Imperatore e dei Patriarchi; nel caso di appello al Papa contro la sentenza di un Patriarca, il Pontefice non deve imporre al Patriarca l’obbligo di comparire in giudizio a Roma, ma inviare dei legati sul posto.[178] Il Papa rifiuta queste due restrizioni ai suoi poteri e i negoziati continuano, nello stesso tempo i Greci chiedono che l’ordine delle sedi patriarcali sia incluso nel progetto del documento di Unione delle Chiese.[179]

Si arriva al testo definitivo dell’Unione, che dopo aver confermato il primato pontificio su tutta la Chiesa, dichiara: <<Rinnoviamo, inoltre, l’ordinamento tramandato nei canoni da osservare tra gli altri venerabili Patriarchi, per cui il Patriarca di Costantinopoli sia secondo dopo il santissimo Pontefice romano, il Patriarca di Alessandria sia terzo, quello di Antiochia quarto, quello di Gerusalemme quinto, senza alcun pregiudizio per tutti i loro privilegi>>.[180]

 

La nozione di Patriarca

Secondo il can. 56 CCEO, il Patriarca, vescovo di un’eparchia o diocesi, <<…est Episcopus non exceptis Metropolitis ceterosque christifideles Ecclcesiae, cui praeset, ad normam iuris a suprema Ecclesiae auctoritate approbati…>>, riconoscendo in tal modo una potestà su tutti i membri della sua Chiesa di qualunque ordine e grado, questa “potestas” è regolata dal diritto comune e particolare emanato dal Pontefice, suprema autorità della Chiesa.

Nella definizione di Patriarca c’è stata un’evoluzione di formulazione tra il motu proprio “Cleri Sanctitati”, il decreto “Orientalium Ecclesiarum” ed il nuovo CCEO, nel primo (can. 216 §1) troviamo questa definizione: <<Col nome di Patriarca si intende un vescovo al quale i canoni attribuiscono la giurisdizione su tutti i vescovi, non esclusi i Metropoliti, sul clero e sul popolo di un certo territorio o rito, da esercitare a norma del diritto e sotto l’autorità del Romano Pontefice>>. Nel secondo (n. 7) è così definito: <<Col nome di Patriarca orientale si intende un Vescovo, cui compete la giurisdizione su tutti i Vescovi, non esclusi i Metropoliti, il clero e il popolo del proprio territorio o rito, a norma del diritto e salvo restando il primato del Romano Pontefice>>. Il gruppo di studio della Commissione Pontificia per la revisione del CICO in un primo testo modifica il canone del “Cleri Sanctitati” nel modo seguente: <<Secondo una antichissima tradizione della Chiesa, già riconosciuta dai primi Concili ecumenici o dal Romano Pontefice, è riservato uno speciale onore ai Patriarchi delle Chiese orientali, dato che ognuno presiede alla sua Chiesa patriarcale come padre e capo>>. Il testo era conforme al decreto “Orientalium Ecclesiarum” tranne nell’aggiunta “o Romano Pontefice (riconosciuta)”, che figura nel documento conciliare: questo riferimento è stato aggiunto per sottolineare che una tradizione, purché antica, non può essere valida nella Chiesa senza un consenso dato, almeno implicitamente, dal Romano Pontefice, il quale è di per sé sufficiente.[181] In un documento successivo, il gruppo di studio ha usato parte della formulazione del decreto “Orientalium Ecclesiarum” senza accennare ai primi Concili ecumenici o al Pontefice: <<Secondo una antichissima tradizione della Chiesa è riservato uno speciale onore ai patriarchi delle Chiese orientali, i quali prtesiedono alla propria Chiesa patriarcale come padre e capo>>.[182]

Il CCEO riformula definitivamente la norma in conformità al decreto “Orientalium Ecclesiarum”, riconoscendo, dunque, al Patriarca una “potestas” su tutti i membri della sua Chiesa, regolata dal diritto comune e particolare emanato dal Pontefice.[183] Se nella Chiesa latina è solo il Papa che ha autorità sui Vescovi, nelle Chiese orientali si ha un’autorità immediata tra Vescovi e Pontefice. Il nuovo Codice ha sostituito il termine “giurisdizione” del “Cleri Sanctitati” e “Orientalium Ecclesiarum” con quello più generico di “potestà” che spetta al Patriarca; infatti, in Oriente, la funzione di quest’ultimo non è mai stata compresa come “giurisdizione sui Vescovi”, le genuine tradizioni evidenziano piuttosto la sinodalità e corresponsabilità di tutti i Vescovi nel governo della Chiesa patriarcale, con la conseguenza che la potestà in questione si inserisce nella struttura sinodale.[184]

Il Patriarca presiede in quanto “primus inter pares”, mentre il governo della Chiesa è sinodale, secondo il can. 34 degli Apostoli, che prescrive: <<Bisogna che i Vescovi di ogni nazione sappiano chi tra loro è il primo, e che lo considerino come loro capo. Non devono far nulla senza il suo assenso, anche se appartiene a ciascuno di trattare gli affari della propria eparchia e dei territori da essa dipendenti. Ma anche egli (il primo) non dovrà fare nulla senza l’assenso di tutti gli altri…>>.[185]Il Patriarca, in quanto “primus”, esercita la potestà di governo esecutiva o amministrativa, mentre quella legislativa e giudiziaria compete al Sinodo dei Vescovi.

Il Patriarca è un Vescovo eletto, consacrato e intronizzato a norma del diritto per essere il pastore di una sede determinata (sede patriarcale), cioè la sua eparchia. Come ogni Vescovo eparchiale, il Patriarca governa la sua eparchia locale in virtù della sua ordinazione episcopale, come potestà propria, ordinaria e immediata (cann. 101 e 178). Come Patriarca presiede come capo e padre, però non con una funzione simile a quella esercitata all’interno dell’eparchia, ma nel senso specificato dal can. 34 degli Apostoli; la funzione patriarcale è, infatti, inseparabile dalla sinodalità dei Vescovi.[186]

<<I Patriarchi con i loro Sinodi costituiscono la superiore istanza per qualsiasi negozio del patriarcato…>>.[187] Il Patriarca è il garante della funzionalità canonica del Sinodo. Per l’esercizio delle sue funzioni egli è munito di potestà, di particolari diritti, privilegi e prerogative. Potestà, diritti e privilegi concessi <<…a norma del diritto approvato dalla suprema autorità della Chiesa…>>, [188] questo sottolinea il primato pontificio sull’istituzione patriarcale, che gode sì di autonomia, ma di un’autonomia relativa.[189] Nell’emanare ed approvare il diritto relativo ai Patriarchi, comunque, la suprema autorità della Chiesa deve rispettare le tradizioni degli orientali.[190]

 

Fondazione, titolo, dignità e ordine di precedenza dei Patriarchi

Il can. 57 §1 sancisce che spetta al Papa ed al Concilio ecumenico la fondazione, il ripristino, la soppressione ed il mutamento delle Chiese patriarcali. E’ sempre il Pontefice o il Concilio ecumenico che può cambiare il titolo riconosciuto o concesso ad una Chiesa patriarcale. L’ecclesiologia ortodossa, invece, riconoscendo come suprema autorità della Chiesa solo il Concilio ecumenico, riserva ad esso la definitiva ratifica della fondazione di diversi patriarcati da parte di Costantinopoli.[191]

Durante i lavori di preparazione del Codice è stato notato che il titolo di qualche Chiesa patriarcale è stato modificato senza l’intervento dell’autorità suprema della Chiesa; ma come risposta viene stabilito che la denominazione delle Chiese patriarcali e i titoli dei Patriarchi devono essere di competenza del Pontefice.[192] Il §3 sempre del canone 57 si riferisce alla sede e residenza del Patriarca nella città principale da cui egli desume il titolo, dichiarando che un eventuale trasferimento è ammesso solo con limitazioni molto strette: per una causa gravissima, con il consenso del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale ed in fine con l’assenso del Papa.

Il can. 59 CCEO conferma l’ordine di precedenza già sanzionato dai Concili ecumenici, ribadendo l’uguaglianza quanto a dignità patriarcale, ma con differente precedenza tra loro; mentre il can. 58  prevede la precedenza del Patriarca su tutti i Vescovi, salvo restando le norme speciali sulla precedenza stabilite dalla suprema autorità.

Il problema, sollevato anche in passato, era quello di risolvere la questione della precedenza tra Cardinali e Patriarchi.[193] I Cardinali, dal secolo XV, precedono anche i Patriarchi, secondo la bolla di Eugenio IV “Non mediocri” del 1439.[194]

Secondo il CIC anche i Patriarchi possono essere assunti nel Collegio dei Cardinali e in quel caso hanno come titolo la propria sede patriarcale. Ciò non può essere considerata come elevazione ad una maggiore dignità di quella patriarcale. L’istituzione del Collegio cardinalizio è storicamente legata al clero della Chiesa di Roma, solo dal secolo XII incominciarono ad essere nominati Cardinali anche i prelati residenti fuori Roma secondo il Codice latino i Cardinali sono di aiuto al Pontefice, sono consiglieri e cooperatori di esso, mentre i Patriarchi sono capi e padri di Chiese apostoliche.[195]

 

Elezione dei Patriarchi

Il livello di autonomia interna delle Chiese patriarcali rispetto alla suprema autorità della Chiesa si può vedere, in modo particolare, nella procedura per la designazione dei Patriarchi e dei Vescovi. Le norme sull’elezione dei Patriarchi sono enunciate nei cann. 63-77 CCEO: <<Il Patriarca è canonicamente eletto nel Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale>> (can. 63). Quando la sede patriarcale diviene vacante, l’Amministratore della stessa Chiesa, generalmente il Vescovo più anziano per ordinazione tra i Vescovi della curia patriarcale, o in mancanza di questi, tra i Vescovi del Sinodo permanente, convoca il Sinodo dei Vescovi della Chiesa Patriarcale per l’elezione del nuovo Patriarca. In genere funge da Amministratore il Vescovo più anziano per ordinazione tra i Vescovi della curia patriarcale, o in mancanza di questi, tra i Vescovi del Sinodo permanente.[196]

La riunione si deve svolgere entro un mese dal momento in cui la sede patriarcale è diventata vacante, fermo restando un tempo più lungo non superiore a due mesi, stabilito dal diritto particolare. Il Sinodo elettivo deve riunirsi nella residenza patriarcale o in luogo designato dall’Amministratore con il consenso del Sinodo permanente. All’elezione partecipano i membri del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, ossia tutti quelli ordinati per svolgere una funzione nella stessa Chiesa ovunque costituiti, entro e fuori il territorio della detta Chiesa, inclusi i Vescovi che hanno rinunciato al loro ufficio.[197] Nessuno, estraneo al gruppo dei Vescovi, può essere ammesso a dare il voto, pena la nullità dell’elezione, nessuno può entrare in aula ad eccezione dei chierici assunti come scrutatori o attuari del Sinodo. In base al can. 66 CCEO a nessuno è permesso interferire in qualunque modo sia prima, durante e dopo il Sinodo. E’ esclusa la partecipazione diretta o indiretta del popolo e l’interferenza delle autorità civili.

In uno schema precedente di revisione del Codice non era escluso il diritto della Santa Sede di intervenire nell’elezione del Patriarca, poi però la menzione della Sede Apostolica è stata ritenuta superflua, in quanto le norme successive sono state ritenute sufficienti, specialmente quella che richiede la domanda di comunione ecclesiastica da parte del neo-eletto al Papa e la concessione di questa comunione.[198] La soppressione del diritto di interferire della Santa Sede è emblematico per capire l’intento del legislatore di garantire il principio del diritto delle Chiese orientali di governarsi secondo le proprie discipline.[199]

I Vescovi legittimamente convocati hanno l’obbligo di partecipare all’elezione, se la presenza di qualcuno fosse resa impossibile da una giusta causa, deve esporre per iscritto le sue ragioni al Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, che decide sulla legittimità dell’impedimento. L’obbligo giuridico di partecipare all’elezione è una conseguenza dell’imposizione di aderire in genere alla vita sinodale e significa partecipare alla corresponsabilità per conservare l’unità e la sinodalità della propria Chiesa “sui iuris”. Si può procedere all’elezione solo se sono presenti due terzi dei Vescovi tenuti a partecipare al Sinodo, ad eccezione di coloro che sono trattenuti da legittimo impedimento (can. 69). La presidenza è tenuta da chi, tra i presenti, è eletto a maggioranza assoluta nella prima sessione, nel frattempo è riservata all’Amministratore della Chiesa. Il Codice distingue tra l’Amministratore della sede patriarcale vacante, al quale spetta, tra l’altro, di convocare i Vescovi al Sinodo di elezione e colui che viene eletto per presiederlo per l’elezione stessa, tale elezione garantisce maggior funzionamento nello svolgimento della procedura canonica. La consuetudine vuole che la sede vacante sia amministrata “ad interim”, inclusa la presidenza del Sinodo di elezione, dal Vescovo più anziano per ordinazione episcopale oppure dal Vescovo della prima sede episcopale che viene dopo quella patriarcale, secondo l’antichità o secondo l’importanza storicamente riconosciuta della medesima.[200]

La sede patriarcale diventa vacante con la morte o con la rinuncia del Patriarca. L’accettazione della rinuncia spetta al Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, dopo aver consultato il Papa, a meno che il Patriarca non si sia rivolto direttamente al Pontefice.[201] Viene eletto Patriarca colui che ha ottenuto due terzi dei voti, ma tale maggioranza non sempre è facilmente raggiungibile, perciò il can. 72 prevede: <<…a meno che per diritto particolare non si sia stabilito che, dopo un conveniente numero di scrutini, almeno tre, sia sufficiente la parte assolutamente maggiore dei voti e l’elezione sia portata a termine a norma del can. 183 §§ 3 e 4>>.

Ancora al can. 183 §3 troviamo: <<…dopo tre votazioni inefficaci, nella quarta votazione i voti vanno dati solo ai due candidati che nella terza votazione hanno ricevuto la maggioranza dei voti>> e al §4: <<Se, a causa della parità dei voti nella terza o quarta votazione, non consta chi sia il candidato per la nuova votazione o chi sia stato eletto, la parità si dirima in favore di colui che è più anziano per ordinazione presbiteriale; se nessuno precede gli altri per ordinazione presbiteriale, prevale chi è più anziano di età>>.

Se l’elezione non è portata a termine entro quindici giorni dall’apertura del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, la stessa viene devoluta al Pontefice (res ad Romanum Pontificem devolvitur). La norma del CCEO non specifica l’oggetto preciso dell’intervento del Papa, ossia se si tratti di intervento diretto per la nomina del Patriarca, o indiretto, ad esempio con esortazioni ai Vescovi sinodali o con altro tipo di provvedimento decisionale. L’intervento del Papa potrebbe intendersi nel senso del decreto conciliare “Unitatis Redintegratio”, ovvero di “Sede Romana moderante” qualora sorgano dissensi; questa interpretazione dimostrerebbe in maggior misura la natura dei rapporti tra la Sede Apostolica e le Chiese orientali.[202]

Il diritto particolare di ogni Chiesa “sui iuris” tratta poi i requisiti di idoneità del candidato alla dignità patriarcale, salvo quanto prescritto dal canone 180.[203] Se l’eletto è Vescovo già ordinato, il Sinodo procede alla sua proclamazione ed intronizzazione; se, invece, l’eletto è legittimamente proclamato Vescovo, ma non ancora ordinato, l’intronizzazione patriarcale non può essere fatta validamente prima che l’eletto abbia ricevuto l’ordinazione episcopale. Essendo il Patriarca un Vescovo di un’eparchia determinata, il suo incarico presuppone la canonica elezione e proclamazione all’episcopato secondo la procedura dei cann. 180-189 CCEO, di conseguenza se l’eletto risulta tra i nomi compresi nell’elenco dei candidati all’episcopato per il quale il Pontefice ha già dato il suo assenso, si procede alla sua elezione e proclamazione all’episcopato e poi gli viene immediatamente intimata l’elezione al patriarcato; invece se l’eletto al patriarcato non risulta tra i nomi del suddetto elenco, si richiede l’assenso del Pontefice per la sua elezione e proclamazione all’episcopato. Ottenuto tale assenso, si procede alla sua elezione e proclamazione episcopale, seguita dalla comunicazione dell’elezione al patriarcato. In questo secondo caso se il Papa non dà il suo assenso per l’episcopato, implicitamente non lo dà neppure per l’elezione patriarcale.[204]

Il Patriarca neo-eletto deve comunicare, entro due giorni dall’avviso dell’elezione, la sua accettazione; in caso contrario o se entro due giorni non risponde, perde ogni diritto. Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale è tenuto ad inviare al più presto lettere sinodali al Papa per informarlo dell’avvenuta elezione e dell’intronizzazione canonicamente compiuta; della professione di fede e della promessa di eseguire fedelmente il suo ufficio pronunciate dal nuovo Patriarca davanti al Sinodo. Le lettere sulla compiuta elezione sono mandate anche ai Patriarchi delle altre Chiese orientali in segno di comunione.[205]

Il Patriarca eletto deve richiedere al Papa la comunione ecclesiastica per mezzo di lettera sottoscritta di suo pugno.[206] Il CCEO non parla di “confirmatio” del neo eletto da parte del Pontefice, non è richiesto alcun atto di ratifica o confermazione, il nuovo Patriarca entra pienamente nelle sue funzioni.

A differenza delle norme del “Cleri Sanctitati”, Il nuovo Codice non fa menzione della richiesta del pallio. Tale omissione è giustificata dal significato stesso del pallio, che è insegna della potestà vescovile, cioè metropolitana, non conforme alla nozione di Patriarca orientale, al quale spetta non soltanto una potestà sovraepiscopale, ma anche sovrametropolitana entro i confini della Chiesa patriarcale.[207]

Per quanto riguarda la comunione ecclesiastica, dopo il Concilio Vaticano II è stato maggiormente sottolineato il senso ecclesiologico e canonico dell’antica tradizione dello scambio di lettere di comunione ecclesiastica tra i Patriarchi e il Papa.[208]

Il Patriarca esercita validamente il suo ufficio solo dal momento dell’intronizzazione, con la quale assume a pieno diritto il suo ufficio; tuttavia si aggiunge che il Patriarca, prima di ricevere dal Papa la comunione ecclesiastica, non convochi il Sinodo dei Vescovi e non ordini nuovi Vescovi.[209]

La potestà patriarcale, fino al Vaticano II, era concepita come una concessione del Pontefice, invece nella prospettiva dell’ecclesiologia di comunione del suddetto Concilio, i rapporti tra i Patriarchi e i Papi si stabiliscono sulla base di comunione manifestata e richiesta e di comunione concessa e ricambiata; si tratta di comunione (condivisione comunanza) nella fede con la Chiesa di Roma e di comunione gerarchica con il Pontefice.[210]

 

La potestà dei Patriarchi

La potestà che compete al Patriarca sui Vescovi e sugli altri fedeli della Chiesa che presiede è ordinaria, propria e personale. E’ ordinaria perché è annessa all’ufficio patriarcale, si tratta della potestà che deriva dalla configurazione stessa dell’istituzione e dall’ufficio patriarcale, mediante la quale egli esercita i diritti e i doveri che sono il contenuto di questo ufficio e che sono definiti dallo stesso diritto canonico.[211] E’ una potestà propria, ovvero esercitata dal Patriarca a nome proprio in comunione gerarchica con il Pontefice. Non è una potestà delegata, poiché non è concessa per mezzo di un atto di delega da parte del Papa. E’ una potestà personale, non delegabile, quindi il Patriarca non può istituire un vicario e neppure delegare ad un altro la sua potestà per la totalità degli affari della stessa Chiesa.

La Commissione per la revisione del CCEO discorda su un argomento piuttosto complesso: se il Patriarca estenda la sua autorità su tutta la Chiesa (verso i suoi fedeli) oppure su un territorio determinato, anche se vasto. In quest’ultimo caso la discussione verte sulla cura pastorale dei fedeli del patriarcato che vivono fuori dallo stesso (che non sono pochi, date le massicce migrazioni avutesi dall’Est verso i Paesi occidentali).[212] Dopo il Concilio Vaticano II è stato osservato che <<…se la Chiesa latina, una Chiesa particolare, può esercitare la sua giurisdizione ovunque sui propri sudditi, non si vede perché lo stesso diritto non debba essere riconosciuto nella stessa misura anche dalle altre Chiese particolari, le Chiese orientali. Non si tratta di un privilegio ma soltanto di giustizia>>.[213]

Il Concilio Vaticano II ha evidenziato che i Vescovi costituiti fuori dal territorio patriarcale rimangono “aggregati” alla gerarchia della loro Chiesa patriarcale, secondo le norme della legge.[214] Con il termine aggregato il Concilio ha introdotto così una nuova struttura non prevista nel “Cleri Sanctitati”. L’espessione “aggregato” si usa per consolidare il rapporto tra i fedeli orientali e la loro Chiesa d’origine, ma con limiti territoriali ben distinti e anche tra l’autorità dei Patriarchi e il Sinodo dei Vescovi per quanto riguarda i confini del loro territorio. Perciò, anche se il termine “aggregato” è stato introdotto dal Vaticano II, la potestà del Patriarca e del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale non è estesa totalmente fuori dai confini del loro territorio.[215]

La salvezza delle anime di milioni di fedeli cattolici orientali in diaspora e il bisogno di osservare dovunque il proprio rito, richiederebbero forse l’estensione della potestà patriarcale fuori dei confini del territorio, salvo restando il diritto della Sede Apostolica di intervenire qualora lo giudicasse opportuno.[216] Alla fine della discussione sono state prese queste decisioni: che il principio di territorialità della giurisdizione dei Patriarchi, in vigore dall’epoca del Concilio di Nicea  e ribadito in quello Vaticano II,[217] deve restare alla base dell’intero schema della revisione del Codice, con lo scopo di potenziare l’autorità patriarcale in tutto quello che potrebbe favorire una maggiore unità e coesione di tutti i fedeli orientali sparsi nel mondo con la propria Chiesa patriarcale ed aiutarli a conservare fedelmente il proprio rito.[218] Il CCEO ha mantenuto il principio di territorialità: can. 78 §2. <<La potestà del patriarca può essere esercitata validamente soltanto entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, a meno che non consti diversamente dalla natura della cosa, oppure dal diritto comune o particolare approvato dal Romano Pontefice>>.

Giovanni Paolo II, in occasione della presentazione del Codice al Sinodo dei Vescovi, ha riferito di prendere in considerazione tutte quelle proposte da specificare con uno “ius speciale” relative ai poteri patriarcali, in base all’ultima parte del can. 78 §2”.[219] Nello stesso canone, è menzionato anche il diritto comune che estende, in certi casi, i poteri dei Patriarchi al di fuori dei confini del territorio delle proprie Chiese, come ad esempio la possibilità che il territorio di queste Chiese venga esteso dalla Santa Sede anche oltre le “regiones orientales”.[220] Il can. 86 §2, inoltre, prevede la facoltà del Patriarca di ordinare e intronizzare anche i Metropoliti e i Vescovi, costituiti fuori dei confini del territorio della Chiesa patriarcale. Altri casi in cui i poteri patriarcali sono estesi “extra” i confini della Chiesa patriarcale sono rappresentati dai cann. 148 §1 e 829 §3. La prima di queste norme stabilisce che il Patriarca abbia lo “ius vigilantiae” sui propri fedeli in tutto il mondo; la seconda attribuisce la facoltà al Patriarca di celebrare i matrimoni dei fedeli della propria Chiesa in tutto il mondo.[221]

Il CCEO specifica quali sono i diritti e i doveri del Patriarca nel proprio territorio: secondo il can. 79 egli rappresenta la Chiesa patriarcale in tutti gli affari giuridici; al can. 98 è determinato che il Patriarca può stipulare, con il consenso del Sinodo dei Vescovi della sua Chiesa e col previo assenso del Papa, accordi con l’autorità civile e può renderle esecutive solo dopo aver ottenuto l’approvazione del Pontefice. Queste convenzioni non derogano quelle stipulate oppure approvate dalla Santa Sede con Stati o con altre società politiche.

Il Patriarca deve avere cura anche dell’osservanza degli statuti personali nei luoghi in cui sono in vigore (can. 99 §1), riconosciuti dalle autorità civili in alcuni Paesi, specie islamici, e applicati nelle varie comunità religiose alle persone fisiche e morali. Viene ricordato ai Patriarchi, i quali usufruiscono nello stesso luogo della potestà riconosciuta o concessa negli statuti personali, la convenienza ad agire di comune intesa negli affari di maggiore importanza. Il Patriarca garantisce il vincolo di comunione della sua Chiesa con il Papa, per cui è tenuto a ratificare ai Vescovi e agli altri interessati gli atti del Pontefice inerenti la sua Chiesa, a meno che la Sede Apostolica non abbia provveduto diversamente (can. 81).[222]

La potestà legislativa del Patriarca è contenuta da quella del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale: le leggi sono emanate dal Sinodo e promulgate dal Patriarca, il quale, nell’ambito della sua competenza, può emanare decreti per l’applicazione e l’osservanza delle leggi del diritto comune o del diritto particolare, inviare ai fedeli lettere encicliche, istruzioni ed esortazioni pastorali (can. 82).

Il §3 del can. 82 avverte il Patriarca, nell’esercizio della sua potestà, di non trascurare di ascoltare il Sinodo permanente o il Sinodo dei Vescovi della sua Chiesa o anche l’assemblea patriarcale, nelle cose che riguardano tutta la Chiesa patriarcale o gli affari più importanti. Se però viene stabilito dal diritto che per porre un atto giuridico, il Patriarca ha bisogno del consenso oppure del consiglio del Sinodo permanente o del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, i suddetti organi devono essere convocati a norma del can. 948; perché l’atto abbia valore, si richiede che sia ottenuto il consenso della parte assolutamente maggiore di coloro che sono presenti, oppure che si chieda il consiglio di tutti.[223]

Il Patriarca ha il diritto e il dovere di compiere la visita pastorale in ogni eparchia nei tempi stabiliti dal diritto particolare. Non si tratta della “visita canonica” che compete, a norma del can. 205, al Vescovo eparchiale, che riguarda le persone, gli istituti cattolici, le cose e i luoghi sacri che si trovano entro i confini dell’eparchia, ma <<Per una causa grave e col consenso del Sinodo permanente, il Patriarca può visitare una chiesa, una città o un’eparchia, personalmente oppure per mezzo di un altro Vescovo, e durante questa visita può compiere tutto ciò che compete al Vescovo eparchiale nella visita canonica>>.[224]

Entro il territorio della Chiesa patriarcale, per una grave causa soprattutto giustificata dal bene dei fedeli, con il consenso del Sinodo dei Vescovi e dopo aver consultato la Sede Apostolica, il Patriarca può, secondo il can. 85 §1, erigere, circoscrivere diversamente, unire, dividere, sopprimere province ed eparchie acclesiatiche.[225] Può anche dare al Vescovo eparchiale un coadiutore; può trsferire, sempre per una grave causa, il Metropolita o un Vescovo eparchiale o titolare, se il trasferito rifiuta la decisione, il Sinodo dei Vescovi dirime il caso o lo deferisce al Pontefice (can. 85 §2). Il Patriarca può erigere, mutare e sopprimere gli esarcati: queste decisioni devono avere il consenso del Sinodo permanente e deve essere informata quanto prima la Sede Apostolica. Può, inoltre, ordinare i Metropoliti personalmente o, se è impedito, per mezzo di altri Vescovi, come pure, se il diritto particolare stabilisce, ordinare anche tutti i Vescovi (can. 86 §1).[226] Il Patriarca ha la facoltà di ordinare ed intronizzare i Metropoliti e tutti gli altri Vescovi della propria Chiesa patriarcale, costituiti dal Pontefice fuori dei confini del territorio della Chiesa stessa (can. 86 §2). Questo è un caso previsto dal diritto comune dell’estensione della potestà patriarcale fuori dei confini del territorio.

Il Patriarca, come padre e capo della chiesa cui presiede, deve essere commemorato nella Divina Liturgia, dopo il Pontefice, da tutti i Vescovi e da tutti gli altri chierici, secondo le formule dei libri liturgici, in segno di comunione gerarchica. Anche il Patriarca deve fare la commemorazione del Pontefice, in segno di piena comunione, proprio per questo è tenuto a curare che tutti i Vescovi e chierici della sua Chiesa commemorino il Papa (can. 92 §1 e 2). E’ prevista, inoltre, la visita del Patriarca “ad limina Apostolorum”, cioè entro un anno dalla sua elezione e in seguito più volte durante la sua funzione, compie la visita a Roma per venerare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo e per presentarsi al Pontefice. (can. 92 §3)

Al can. 93, il Codice stabilisce per il Patriarca l’obbligo di residenza nella sede patriarcale, dalla quale non deve allontanarsi se non per una causa canonica.[227] Rientra nei compiti del Patriarca vigilare sull’amministrazione di tutti i beni appartenenti alla Chiesa patriarcale, fermi restando i doveri dei singoli Vescovi di vigilare sull’amministrazione di tutti i beni ecclesiastici che esistono nella loro eparchia e che non sono sottratti alla loro potestà.

Nei monasteri stauropegiaci, cioè una confederazione di monasteri “sui iuris” di diverse eparchie situati all’interno dei confini del territorio di una Chiesa patriarcale, come pure nei luoghi dove non è retta né un’eparchia né un esarcato, il Patriarca ha gli stessi diritti e doveri del Vescovo patriarcale.[228] La potestà giudiziaria del Patriarca è molto ridotta, poiché è riservata quasi esclusivamente al Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale.

Nelle Chiese cattoliche orientali, secondo il nuovo Codice, ci sono quattro livelli giudiziari: quello papale, quello patriarcale o arcivescovile maggiore, quello metropolitano e quello eparchiale. A livello patriarcale (o arcivescovile maggiore) si distinguono due specie di tribunali: quello superiore, costituito dal tribunale sinodale formato da tre Vescovi membri del Sinodo dei Vescovi e dal Sinodo dei Vescovi stesso che agisce come tribunale d’appello del tribunale sinodale (can. 1062); il tribunale ordinario del patriarcato (o arcivescovile maggiore), la cui competenza si estende a tutto il territorio (questo tribunale è distinto da quello dell’eparchia, can. 1063 §1), giudica in seconda e terza istanza le cause definite nei tribunali eparchiali.[229]

 

La figura del “procurator patriarchie apud Sanctam Sedem”

La figura del procuratore patriarcale presso la Santa Sede è uno dei tipici uffici delle Chiese orientali descritto dal can. 61, secondo cui il Patriarca può avere un procuratore presso la Sede Apostolica, nominato personalmente con il previo assenso del Pontefice, cioè il procuratore deve essere “gradito” alla Santa Sede.[230]

La normativa non specifica quali compiti il procuratore debba assolvere, ma attribuendo semplicemente a quest’ufficio il termine “procuratore”, sembra che il “procurator” abbia ampia facoltà di agire in nome e per conto del Patriarca. Il suo ufficio dovrebbe essere quello di rappresentante del Patriarca ed al contempo tramite fra questo e la Santa Sede, dunque una funzione principalmente diplomatica.[231] Per altri, invece, il procuratore non è un rappresentante del Patriarca, ma si tratta piuttosto di un “mandatario” personale che <<…in forza di un mandato di procura agisce in nome del Patriarca nelle diverse pratiche da trattare con i vari dicasteri della Santa Sede>>.[232]

Il “procurator” è comunque il tramite diretto tra il Patriarca e il Papa, è un vincolo permanente fra Roma e la Sede patriarcale. Questo istituto, prodotto del passato, quando le distanze, a causa dei mezzi di trasporto, sembravano maggiori rispetto a quelle attuali, è rimasto in vigore per trattare varie questioni presso i dicasteri e le congregazioni della Curia romana; spesso il procuratore diviene anche il punto di riferimento per i fedeli orientali abitanti in questa città.[233]

Nella legislazione precedente non si parlava di “procurator” bensì di “apocrisarium”. Tale termine designava un incarico proprio del mondo costantinopolitano e solo in un secondo momento accolto dalla Chiesa, l’apocrisario era un funzionario imperiale con l’incarico di svolgere missioni e ambascerie ufficiali, essi potevano essere civili o militari, solo più tardi nacquero gli apocrisari ecclesiastici.[234]

La Commissione per la revisione del Codice orientale ha deciso di usare un termine meno specifico come “Procurator”, cioè colui che agisce per conto altrui,[235] anche se etimologicamente occidentale.[236]

 

Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale

Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale è canonicamente convocato e preceduto dal Patriarca e rappresenta la superiore istanza della Chiesa patriarcale.[237] L’istituzione patriarcale e quella sinodale sono interdipendenti: la funzione del Patriarca si comprende nel Sinodo e con il Sinodo e quella del Sinodo con il Patriarca. Non si può concepire il funzionamento del Sinodo senza la presenza del Patriarca, di cui è primo membro.[238] Il CCEO opera una distinzione tra il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale dalla curia patriarcale di cui fa parte un Sinodo ristretto, detto permanente.[239]

La “sinodalità” si presenta come un’applicazione pratica della collegialità nel governo ecclesiastico ed è compresa nel patrimonio della Chiesa dei primi secoli.[240] Il CCEO, nel capitolo III del titolo IV, tratta del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e al can. 102 stabilisce chi ne sia membro: tutti i Vescovi ordinati appartenenti alla Chiesa patriarcale, ovunque costituiti, dentro e fuori il territorio della stessa Chiesa. Sono esclusi quelli già canonicamente eletti, ma non ancora ordinati, contrariamente alla norma dei canoni 224 §1 e 341 §1 del “Cleri Sanctitati”. I Vescovi titolari, ossia quelli cui non è stata affidata un’eparchia da governare a nome proprio, qualunque altra funzione esercitino o abbiano esercitato nella Chiesa.[241]

Secondo la teologia e la normativa orientale antica, solo i Vescovi eparchiali dovrebbero essere membri del Sinodo. Mediante il sacramento dell’ordinazione, il Vescovo diventa pastore di una Chiesa locale e nello stesso tempo entra in comunione di collegialità e corresponsabilità per tutta la Chiesa, è proprio dall’ordinazione episcopale, compiuta per costituire un rappresentante di un’eparchia, che nasce il diritto e il dovere di partecipare al Sinodo.[242] La Commissione per la revisione del Codice ha, però, eccepito che <<…il principio che tutti i Vescovi di una Chiesa siano presenti al Sinodo è stato considerato non solo necessario perché il Sinodo dia esempio di unità della Chiesa patriarcale, ma anche perché conforme ai “tria munera” che ogni Vescovo riceve, secondo la dottrina del Vaticano II, nella stessa consacrazione episcopale>>.[243] Per queste ragioni, membri del Sinodo sono anche i Vescovi che hanno rinunciato al loro ufficio, in quanto Vescovi della propria Chiesa, sebbene non tenuti a parteciparvi: <<Tutti i Vescovi legittimamente convocati al Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale hanno il grave obbligo di partecipare al Sinodo stesso, ad eccezione di coloro che hanno rinunciato al loro ufficio>> (can. 104 §1); essi sono chiamati “Vescovi emeriti” con il titolo dell’eparchia che già hanno governato, quindi annoverati, per analogia, tra i Vescovi titolari.

Il §2 del can. 102 stabilisce che, ai Vescovi eparchiali costituiti fuori del territorio della Chiesa patriarcale (in diaspora) e a quelli titolari, pur avendo essi il diritto e il dovere di partecipare al Sinodo della propria Chiesa, può essere limitato il loro voto deliberativo a norma del diritto particolare salvo restando tuttavia il loro diritto di partecipare al Sinodo che elegge il Patriarca e i Vescovi. Secondo il diritto particolare o con il consenso del Sinodo permanente, al Sinodo, oltre alle suddette persone, possono essere invitati dal Patriarca anche altri gerarchi (prelati) che non sono Vescovi, come anche altri chierici e laici in qualità di consultori esperti.

Gli Amministratori apostolici, gli Esarchi apostolici o patriarcali e gli Amministratori di sedi vacanti in genere i Gerarchi del luogo, non insigniti del carattere episcopale, possono essere invitati a discrezione del Patriarca a partecipare al Sinodo, senza diritto di voto deliberativo. In alcune Chiese particolari è diventata consuetudine invitare i superiori generali di ordini religiosi e qualche volta anche i rappresentanti del clero.[244] E’ competenza del Patriarca conoscere e presiedere il Sinodo. Senza la convocazione canonicamente fatta e la presidenza del Patriarca le decisioni dei Vescovi sono illegittime (can. 103). Dalla vita sinodale può essere escluso soltanto colui che sia inabile a dare il proprio voto (can. 953 §1) o punito con le pene di riduzione a un grado inferiore, di deposizione o di scomunica maggiore (cann. 1433 e 1434).[245]

Il can.105 CCEO intima la presenza personale dei Vescovi al Sinodo, escludendo l’invio di un procuratore: <<…nessuno dei membri dello stesso Sinodo può inviare al suo posto un procuratore e nessuno ha più di un voto>>, modificando così la norma del “Cleri Sanctitati”, secondo la quale i Vescovi che per giusto motivo non possono essere presenti al Sinodo, possono farsi rappresentare da un’altra persona.

Sono previste due tipi di convocazione: quella straordinaria e quella ordinaria. Nel primo caso il Sinodo deve essere convocato ogni volta che si devono trattare, a norma del diritto, affari che appartengono all’esclusiva competenza di questo Sinodo, come l’elezione del Patriarca e dei Vescovi, l’emanazione di leggi per la Chiesa patriarcale, per la funzione giudiziaria come tribunale superiore; tutte le volte che si richiede il consenso del Sinodo per eseguire alcuni affari della Chiesa. In molti canoni del CCEO è stabilito, infatti, che per porre in essere un atto, il Patriarca ha bisogno del consenso di questo Sinodo, pena l’invalidità dell’atto (can. 106 §1 e 2).

Il Sinodo può essere convocato ogni volta che il Patriarca, con il consenso del Sinodo permanente, lo ritiene necessario; infine tutte le volte che almeno una terza parte dei membri lo richieda per un certo affare.[246] In genere, il Sinodo si riunisce ordinariamente una volta all’anno, secondo le norme del diritto particolare, in base al §2 del can. 106. Per diritto comune, ogni sessione sinodale è canonica ed ogni singola votazione è valida se più della metà dei membri tenuti ad intervenire è presente. Il diritto particolare può, tuttavia, esigere per certi affari una maggiore presenza.[247]

Nel can. 110 CCEO al Sinodo dei Vescovi compete sia la potestà legislativa sia giudiziaria (è il tribunale a norma del can. 1062), l’elezione del Patriarca, dei Vescovi e dei candidati agli uffici (can. 149), mentre al Patriarca appartiene la potestà amministrativa, che compete a questo Sinodo solo se, per determinati atti, il Patriarca così stabilisce. Il limite alla competenza legislativa è costituito dalla non contrarietà al diritto comune, cioè alle leggi e alle consuetudini legittime della Chiesa universale e a quelle comuni a tutte le Chiese orientali.[248]

Il diritto emanato dall’autorità legislativa di ogni Chiesa patriarcale, ossia dal proprio Sinodo dei Vescovi, promulgato e pubblicato dal Patriarca, rappresenta fonte principale del proprio diritto particolare.[249]

Il CCEO specifica il significato del diritto comune e del diritto particolare al can. 1493: <<§1. Col nome di “diritto comune” in questo Codice s’intendono, oltre alle leggi e alle legittime consuetudini della Chiesa universale, anche le leggi e le legittime consuetudini comini a tutte le Chiese orientali. §2. Col nome invece di diritto particolare s’intendono tutte le leggi, le legittime consuetudini, gli statuti e le altre norme del diritto, che non sono comuni né alla Chiesa universale né a tutte le Chiese orientali>>. Spetta al Sinodo stesso l’interpretazione autentica di queste leggi; nel periodo che intercorre tra un Sinodo e l’altro, però tale diritto spetta al Patriarca, previa consultazione del Sinodo permanente.

Il can. 110 modifica il diritto precedente del “Cleri Sanctitati”, secondo cui la potestà legislativa spettava al Patriarca. La nuova norma è certamente più conforme al principio stabilito dal decreto conciliare “Orientalium Ecclesiarum”, che stabilisce: <<I Patriarchi coi loro Sinodi costituiscono la superiore istanza per qualsiasi negozio del patriarcato, […] salvo restando l’inalienabile diritto del Romano Pontefice di intervenire nei singoli casi>>.[250] In linea con i principi del Vaticano II, il can. 111 stabilisce che gli atti relativi alle leggi e alle decisioni del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale siano inviati quanto prima al Pontefice.

Il decreto conciliare qualifica lo “ius interveniendi” del Papa nella funzione legislativa dei patriarcati, riconoscendo e garantendo la validità ed efficacia di questa legislazione, senza nessuna forma di approvazione da parte della Santa Sede, attribuendo al Papato, però, il diritto-dovere di intervenire mediante un “giudizio di costituzionalità”, sia in materia dottrinale, sia in materia di uniformità della legge particolare ai principi fondamentali del diritto canonico e dell’organizzazione ecclesiastica.[251]

Per ciò che riguarda gli atti amministrativi, ossia la potestà esecutiva di governo, essa è riservata dal can.110 §4 al Patriarca. Quanto poi all’estensione dell’applicazione delle leggi sinodali delle Chiese patriarcali, il can. 150 §2 CCEO impone delle flessioni, prescrivendo che le leggi liturgiche hanno vigore ovunque, cioè devono essere applicate dai Vescovi, dal clero e dai fedeli dentro e fuori il territorio della Chiesa patriarcale. Le leggi disciplinari, che riguardano il governo e l’ordine interno della Chiesa, invece, hanno vigore solo entro i confini del territorio patriarcale e non si applicano fuori di esso, cioè nelle eparchie costituite fuori, ma aggregate canonicamente alla Chiesa patriarcale del proprio rito.[252] Il can. 150 §3, tuttavia, prescrive che le leggi sinodali disciplinari possono avere vigore nelle eparchie fuori del territorio patriarcale, se approvate dalla Sede Apostolica oppure se i Vescovi eparchiali danno a tali leggi forza di legge nelle loro eparchie, in virtù della loro potestà legislativa, come pastori immediati e ordinari della propria Chiesa locale. Questi Vescovi non sono obbligati, però, ad applicare le leggi disciplinari sinodali nelle loro eparchie, ma sono esortati ad agire in tal senso.[253]

 

La Curia e l’assemblea patriarcale

In ogni Chiesa patriarcale opera la curia patriarcale, distinta da quella dell’eparchia del Patriarca, che consta di determinati organi, Il primo di questi è il Sinodo permanente, che, secondo le fonti storiche e canoniche, comincia ad operare a Costantinopoli ed è presentato come “Synodus permanens”.[254] Esso è costituito da cinque membri: il Patriarca e quattro Vescovi designati per un periodo di cinque anni (questi Vescovi sono eletti dal Sinodo dei Vescovo della Chiesa patriarcale) e deve essere convocato dal Patriarca almeno due volte all’anno e ogni volta che egli lo ritiene necessario.[255] E’ un organo amministrativo coadiutore del Patriarca nella condotta degli affari importanti.[256]

Il tribunale ordinario della Chiesa patriarcale, il Cancelliere patriarcale e varie commissioni sono gli altri organi della Curia, oltre ai Vescovi, che sono al massimo tre, ai quali il Patriarca affida degli uffici particolari con residenza nella Curia stessa. Per l’amministrazione dei beni della Chiesa patriarcale, il Patriarca, ottenuto il consenso del Sinodo permanente, nomina un economo patriarcale,  esperto in economia e fedele cristiano, il quale non deve essere né parente né affine del Patriarca fino al quarto grado compreso.[257]

Nella Chiesa patriarcale è presente anche l’assemblea patriarcale, disciplinata dai canoni 140-145, che non appaiono nel “Cleri Sanctitati”, ma sono un’innovazione del Codice orientale: è un’istituzione che assicura la partecipazione di tutti i fedeli nella vita e nell’amministrazione della Chiesa.[258]

L’assemblea patriarcale (conventus patriarchalis), presieduta dal Patriarca, presta la propria collaborazione a quest’ultimo e al Sinodo della Chiesa patriarcale nel gestire gli affari più importanti.[259] Il can. 143 §1 CCEO elenca i membri di quest’assemblea, che sono i Vescovi eparchiali e tutti gli altri gerarchi del luogo, i presidi delle confederazioni monastiche, i superiori generali degli istituti di vita consacrata e i superiori dei monasteri “sui iuris”; i rettori di università cattoliche ed ecclesiastiche, i decani delle facoltà teologiche e di diritto canonico, che hanno la loro sede nel territorio della Chiesa di cui si tiene l’assemblea. I rettori di Seminari maggiori; almeno un presbitero proveniente da ogni eparchia, un religioso e due laici.[260]

Cap V

LE CHIESE ARCIVESCOVILI MAGGIORI, METROPOLITANE E LE ALTRE CHIESE “SUI IURIS”

Le Chiese arcivescovili maggiori

La seconda struttura ecclesiastica orientale contemplata dal CCEO è quella arcivescovile maggiore con a capo l’Arcivescovo maggiore, dedicando a queste Chiese “sui iuris” solo quattro canoni. Nel primo (can. 151) viene definito Arcivescovo maggiore <<…il Metropolita di una sede determinata o riconosciuta dalla suprema autorità della Chiesa, il quale presiede a un’intera Chiesa orientale “sui iuris” non insignita del titolo patriarcale>>.

Il titolo di Arcivescovo maggiore si è conservato solo in Oriente, anche se la sua origine la troviamo nel Patriarcato occidentale, questo titolo è stato inizialmente attribuito ai capi delle grandi sedi ed in seguito ad alcuni di essi è stato aggiunto quello di Patriarchi.

Nella metà del IV secolo, l’enorme estensione territoriale della “Ecclesia Romana”, fu la probabile causa per cui Papa Damaso delegò al Vescovo di Tessalonica un grande numero di province dell’Illirico.[261] In tal modo, per motivi pratici, ha origine il Vicariato, che nel VI secolo prenderà il nome di Arcivescovado. Nel V secolo, durante il terzo Concilio di Efeso (431), la Chiesa di Cipro ottiene la sua autonomia giuridica da Antiochia e il diritto di ordinarsi un capo, il quale viene chiamato Arcivescovo.[262]

La figura dell’Arcivescovo maggiore è molto simile a quella del Patriarca, anche se il primo è un metropolita con potestà su altre province ecclesiastiche, oltre a quella propria, mentre il Patriarca è un vescovo eparchiale con giurisdizione su tutti gli altri Vescovi ed eventualmente anche su quelli metropoliti, sostanzialmente si differenzia dal Patriarca solo per l’ordine di precedenza, non per le potestà che gli competono all’interno della sua Chiesa.[263]

Nel “Cleri Sanctitati” l’Arcivescovo maggiore non possedeva gli stessi poteri attribuiti ai Patriarchi; mentre il decreto “Orientalium Ecclesiarum” afferma che ciò che è stato stabilito per i Patriarchi si applichi anche agli Arcivescovi maggiori.[264] Il canone 152 CCEO conferma tale principio, l’ultima clausola di detta norma  intende,però, riaffermare che i diritti e le prerogative degli Arcivescovi maggiori non sono del tutto uguali a quelli dei Patriarchi.[265] La Chiesa arcivescovile maggiore ha un sistema di governo simile a quello della Chiesa patriarcale: la maggiore differenza  si riscontra nell’ambito dell’elezione dell’Arcivescovo maggiore e del Patriarca. L’elezione di quest’ultimo è completa, per cui il neo-Patriarca può essere subito intronizzato, nonostante sia l’eletto che il Sinodo dei Vescovi abbiano l’obbligo di darne notizia al Papa e di chiedergli la “Comunione ecclesiastica”; l’elezione dell’Arcivescovo, effettuata dal Sinodo con la stessa libertà di autonomia, non è, invece, definitiva, poiché occorre chiedere ed attendere la “conferma” del Pontefice, per poter procedere alla proclamazione ed intronizzazione.[266] Tale conferma è motivata nei “Praenotanda” allo “Schema Canonum de constitutione Hierarchica Ecclesiarum Orientalium”: dallo studio della tradizione orientale si evince che la figura giuridica dell’Arcivescovo maggiore è apparsa quasi come vicaria dei Patriarchi. Fin da quando nella Chiesa cattolica è stato istituito quest’ufficio, la conferma del Papa è sempre stata necessaria.[267]

La figura giuridica del’’Arcivescovo maggiore, non può essere considerata come quasi vicaria di quella dei Patriarchi, in quanto lo status di autonomia canonica interna, anche se relativa, delle Chiese patriarcali, riconosciuta dal Concilio Vaticano II e dal CCEO, deve valere anche per le Chiese arcivescovili maggiori.[268]

Secondo le norme del canone 153, dopo la conferma, l’eletto deve emettere, davanti al Sinodo dei Vescovi della Chiesa arcivescovile maggiore, la professione di fede e la promessa di adempiere con fedeltà il proprio ufficio. Segue la proclamazione e l’intronizzazione, ma se l’eletto non è Vescovo prima deve ricevere  l’ordinazione episcopale. Per ciò che riguarda le precedenze d’onore, gli Arcivescovi maggiori seguono immediatamente i Patriarchi, secondo l’ordine di erezione della Chiesa cui presiedono.[269]

 

Le Chiese metropolitane sui iuris

Occorre, innanzitutto, distinguere una Chiesa metropolitana “sui iuris” dalle Chiese metropolitane nella Chiesa patriarcale. Quest’ultima è una provincia ecclesiatica, costituita da più eparchie, entro e fuori dei confini del territorio della Chiesa patriarcale, presieduta da un Metropolita, è sotto l’autorità del Patriarca (o dell’Arcivescovo maggiore) e non gode di una vera podestà sopraepiscopale.

La Chiesa metropolitana “sui iuris”, invece, gode di una potestà sopraepiscopale, non però soprametropolitana ed è sotto l’autorità del Pontefice.[270] Si tratta di una Chiesa presieduta da un Metropolita nominato dal Papa e coadiuvato da un Consiglio dei Gerarchi. La sede di questa Chiesa “sui iuris” si trova nella città principale, da cui il Metropolita desume il titolo. (can. 158 § 1). Questa Chiesa costituisce la forma giuridica originale e più antica di strutturazione ecclesiastica in Oriente, di regime sinodale, anche se ben presto la struttura metropolitana viene sostituita da quella patriarcale senza essere abrogata.[271] Queste Chiese sono quattro (fino alla fine del Novecento): etiopica, malankarese, rumena e rutena, tutte rette da un Metropolita assistito dal Consiglio dei Gerarchi, che tutti insieme formano l’unico organo dotato di potere legislativo nei confronti dell’intera Chiesa “sui iuris”.[272]

Il Metropolita, come anche i Vescovi della Chiesa metropolitana “sui iuris” è nominato dal Pontefice, secondo la procedura stabilita dal canone 168: <<Per quanto riguarda la nomina del Metropolita e dei Vescovi, il Consiglio dei Gerarchi componga per ciascun caso un elenco almeno di tre candidati più idonei e lo invii alla Sede Apostolica osservando il segreto anche verso i candidati; per comporre questo elenco, i membri del Consiglio dei Gerarchi, se lo ritengono opportuno, possono chiedere il parere di alcuni presbiteri o di altri fedeli cristiani che si distinguono per saggezza, circa le necessità della Chiesa e le doti speciali del candidato all’episcopato>>.

Entro tre mesi dall’ordinazione episcopale o dall’intronizzazione, il Metropolita è obbligato a chiedere al Papa il pallio (can. 156 §1). Durante i lavori di preparazione del Codice è stato notato che <<…il pallio è un prestito della Chiesa latina ed estraneo alle genuine tradizioni orientali. In realtà tutti i Vescovi di quasi tutte le Chiese orientali hanno nell’omophorion l’equivalente liturgico del pallio>>.[273] E’ stato quindi richiesto che se questa norma (can. 156 §1) non può essere abrogata, sia almeno omesso il §2, che impone al Metropolita di non convocare il Consiglio dei Gerarchi e di non ordinare i Vescovi prima dell’imposizione del pallio.[274] La norma è rimasta in considerazione del nuovo significato che assume il pallio stesso: non solo segno della potestà metropolitana, come per la Chiesa latina, ma anche della piena comunione della Chiesa “sui iuris” con il Pontefice.[275]

La potestà che compete al Metropolita sui Vescovi e su tutti gli altri fedeli cristiani della sua Chiesa è ordinaria, propria (non vicaria) e personale, ciò non gli consente di poter costituire un vicario per l’intera Chiesa “sui iuris”, oppure delegare la sua potestà a qualcuno per la totalità dei casi (can. 157 §1). La potestà del Metropolita e del Consiglio dei Gerarchi è esercitata validamente solo entro i confini del territorio della Chiesa metropolitana “sui iuris”, in quanto vale il principio di territorialità (can. 157 §2).

Il canone 159 stabilisce le competenze specifiche attribuite al Metropolita: ordinare e intronizzare i Vescovi della propria Chiesa; convocare il Consiglio dei Gerarchi a norma del diritto e disporre l’ordine del giorno delle questioni da trattare in esso, presiederlo, trasferirlo, prorogarlo, sospenderlo o scioglierlo; erigere il tribunale metropolitano; vigilare perché la fede e la disciplina ecclesiastica siano osservate; compiere la visita canonica nelle eparchie; nominare l’amministratore dell’eparchia nel caso di cui al can. 221 §4 (se entro otto giorni non è stato eletto l’amministratore, oppure se l’elezione è invalidata). Il Metropolita deve anche provvedere agli atti necessari per il conferimento degli uffici ecclesiastici previsti dal diritto, qualora il Vescovo eparchiale li abbia trascurati. Altro ufficio spettante al Metropolita è quello di comunicare ai Vescovi e agli altri interessati gli atti del Papa e curarne l’esecuzione. Al Metropolita, oltre ai suddetti diritti e doveri, spetta anche tutto ciò che gli è attribuito dal diritto comune o da quello particolare stabilito dal Pontefice.[276]

Per gli affari straordinari e particolarmente difficili, il can. 160 esorta il Metropolita e i Vescovi eparchiali a consultarsi reciprocamente.

Il Metropolita è obbligato ad avere frequenti rapporti col Papa e ogni cinque anni deve visitare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo e presentarsi al Pontefice, possibilmente insieme ai Vescovi della sua Chiesa.

Il CCCEO prevede il Consiglio dei Gerarchi (cann. 164-171), cui spetta la potestà legislativa. Questo organo gode della facoltà di redigersi un proprio corpo di statuti, però ha il dovere di farli conoscere alla Sede Apostolica: ne fanno parte tutti i Vescovi ordinati, ma, per diritto comune, hanno diritto di voto deliberativo soltanto i Vescovi eparchiali e quelli coadiutori; il diritto particolare può concedere il diritto di voto anche ai Vescovi ausiliari e a quelli titolari, ciò significa che mentre il governo della Chiesa patriarcale (o arcivescovile maggiore) è affidato sinodalmente a tutti i Vescovi della rispettiva Chiesa, quello di una Chiesa metropolitana è affidato ai soli Vescovi che siano anche Gerarchi, ossia che abbiano il governo di una propria eparchia.[277]

Perché sia valida una sessione del Consiglio dei Gerarchi occorre la presenza della maggioranza dei Vescovi tenuti a partecipare, tuttavia il diritto particolare può esigere una presenza più alta. Le leggi sono approvate a maggioranza assoluta dei voti di coloro che tra i presenti hanno voto deliberativo. Queste leggi non possono essere promulgate se il Metropolita non ha informato la Santa Sede e prima di aver ricevuto da questa una notificazione scritta di attestazione di ricevimento degli atti.[278] La promulgazione delle leggi e la pubblicazione delle decisioni del Consiglio dei Gerarchi è di competenza del Metropolita (can. 167 §3). Nel §4 dello stesso canone troviamo che la potestà amministrativa spetta al Metropolita, il quale può porre gli atti amministrativi che il diritto comune riserva alla superiore autorità amministrativa della Chiesa “sui iuris”, previo consenso del Consiglio dei Gerarchi.

E’ possibile un paragone tra il Consiglio dei Gerarchi e le figure simili previste nel diritto latino.[279] L’assemblea dei Vescovi di una Chiesa metropolitana “sui iuris”, infatti è un’istituzione assai simile a quella delle conferenze episcopali nel CIC, che riuniscono periodicamente i Vescovi di uno stesso Stato esercitando una vera e propria potestà legislativa, anche se limitata.[280] Nello stesso tempo il Consiglio dei Gerarchi si differenzia dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, poiché non ha gli stessi diritti e gli stessi doveri, il suo ruolo principale è quello di aiutare il Metropolita a norma del diritto.[281]

 

Le altre Chiese “sui iuris”

Il quarto modello delle Chiese “sui iuris” riconosciuto dal CCEO nei cann. 174-176, è costituito da quelle Chiese che non sono né patriarcali né arcivescovili maggiori né metropolitane, ma sono Chiese che, in base al can. 174, sono affidate a Gerarchi nominati dal Pontefice, i quali le presiedono a norma del diritto comune e di quello particolare stabilito dal Papa, il quale è al di sopra delle competenze del Gerarca.[282]

L’autorità competente è il Gerarca, che necessita del consenso della Sede Apostolica, a meno che non sia esplicitamente stabilito altrimenti.[283] Il CCEO lascia ampie possibilità quando parla dei Gerarchi, per cui può trattarsi non solo di eparchia, ma anche di un esarcato affidato ad un Esarca non insignito di carattere vescovile con una reggenza “nomine Romani Pontificis”.[284] I diritti e i doveri del Gerarca sono stabiliti dal can. 175, che rimanda al can. 159, che disciplina i diritti e i doveri del Metropolita nella Chiesa metropolitana “sui iuris”.[285]

Le altre Chiese “sui iuris”, alla fine del Novecento, erano: la Chiesa bulgara con un Esarcato; quella greca con due Esarcati, uno ad Atene e l’altro a Costantinopoli; la Chiesa ungherese con due Eparchie; quella italo-albanese con due Eparchie e un monastero esarchico. La chiesa slovacca con due Eparchie e quella iugoslava con una. Le Chiese bielorussa, albanese, e russa sono senza gerarchia.[286]

Cap VI

LE EPARCHIE, I VESCOVI EPARCHIALI E GLI ESARCATI

Nozione di eparchia e di Vescovo

Il titolo VII (cann. 177-310) del CCEO tratta dei Vescovi, delle Eparchie e del loro governo: per indicare la diocesi usa il termine greco “eparchia”: nella normativa canonica antica, questo vocabolo indica la provincia ecclesiastica sotto il Metropolita, solo in un secondo momento è stata usata per indicare la Chiesa locale sotto un Vescovo.[287] La definizione di eparchia data dal Codice è ripresa fedelmente dal decreto conciliare “Christus Dominus” (n. 11) che dà rilievo soprattutto all’aspetto teologico, pur non trascurando l’aspetto giuridico-amministrativo dell’istituzione.[288] L’eparchia (diocesi nel CIC), come “porzione di popolo di Dio”, rappresenta la Chiesa particolare affidata ad un Vescovo, il quale nel suo ministero pastorale è circondato dalla collaborazione dei presbiteri e diaconi.

L’eparchia è una persona giuridica rappresentata, in tutti gli affari giuridici, dal Vescovo eparchiale, il quale governa la sua eparchia a nome proprio e nel governare la sua Chiesa particolare non è un delegato del Pontefice, ciò nonostante le funzioni di santificare, insegnare e governare, che hanno la loro fonte nella consacrazione episcopale, per la loro natura, non possono essere esercitate se non nella piena comunione gerarchica con il Papa.[289]

E’ chiamato Vescovo titolare (can. 179) colui che non governa a nome proprio un’eparchia, ma ha già svolto o svolge qualunque altra funzione nella Chiesa. Vescovi titolari sono anche quelli coadiutori e quelli ausiliari. Al Vescovo titolare è assegnato il titolo di un’eparchia antica scomparsa, proprio per significare che ogni Vescovo è legato ad una Chiesa locale esistente o esistita.[290] La figura del Vescovo titolare, particolarmente di quello ausiliare o coadiutore con diritto di successione, è ignota alla tradizione orientale antica; i primi Concili ecumenici, infatti, non ne parlano.[291] Di conseguenza, durante i lavori preparatori del CCEO, è stato proposto di eliminare la figura del Vescovo coadiutore perché contraria “alla teologia orientale” e “ignota all’Oriente”.[292] L’argomento è stato a lungo dibattuto, sottolineando soprattutto come l’istituto del Vescovo coadiutore nella sua figura odierna, cioè con lo “ius successionis”, per gli orientali non sia un’innovazione del Concilio Vaticano II, ma appartenga allo “ius vigens” almeno dal momento in cui è stato promulgato il “Cleri Sanctitati” (1957). E’ stato poi osservato che gli istituti giuridici “ignoti” alle tradizioni delle Chiese orientali non sono obbligatoriamente “contra ius” tradizionale, il Concilio Vaticano II esorta a ripristinare, dove possibile, le antiche tradizioni orientali, ma in ogni caso il diritto deve essere aggiornato ed adeguato in base alle esigenze del mondo moderno.[293]

La designazione dei Vescovi nelle Chiese orientali

Fino alla formazione dei patriarcati orientali cattolici, la scelta dei Vescovi avveniva secondo le antiche norme dei Concili ecumenici e dei Sinodi locali, ossia da tutti i Vescovi della provincia a maggioranza assoluta, tenendo conto dei desideri del popolo cristiano. La consacrazione compiuta da parte dei Vescovi “viciniores” costituisce la forma giuridica attraverso la quale è conferito l’ufficio episcopale, essa presuppone però una preventiva designazione da parte dei Vescovi “viciniores” e dei membri della Chiesa locale cui verrà preposto il nuovo Vescovo, in modo che la sua nomina sia il frutto di un accordo tra fedeli, clero della Chiesa locale e Vescovi comprovinciali.[294]

Verso la fine del IV secolo i notabili della “civitas” sono chiamati a comporre il collegio elettorale, così il corpo elettorale risulta essere più ristretto, ma ciò non significa la perdita del suo importante ruolo; il “consensus fidelium” costituisce un presupposto necessario alla nomina.[295]

Già nella seconda metà del secolo III i Vescovi che erano a capo delle metropoli civili cercavano di avere poteri e prerogative sui Vescovi provinciali. Il Metropolita, come Vescovo principale della provincia, confermava il neo-eletto, che, tramite lui, entrava in comunione con la Sede Romana. Con la costituzione dei patriarcati, il Metropolita doveva ottenere anche il consenso del proprio Patriarca. Il ricorso al Papa era occasionale: solo nel caso di gravi dissensi in merito alla canonicità dell’elezione. I diritti del Metropolita e del Sinodo provinciale sono passati progressivamente al Patriarca e al Sinodo patriarcale.[296]

La partecipazione della comunità all’elezione dei Vescovi è attestata in tutte le Chiese orientali sotto forme diverse. Nella Chiesa melchita, ad esempio, il Sinodo del 1790 accordava al popolo e al clero della diocesi di Aleppo la facoltà di eleggere il nuovo Vescovo, anche se poi occorreva l’approvazione del Patriarca e dei Vescovi. Nella Chiesa armena e in quella caldea, il popolo e il clero erano invitati a presentare al Sinodo episcopale la lista dei candidati in occasione dell’elezione di una sede.[297]

Il motu proprio “Cleri Sanctitati” riconosceva due procedure canoniche per la scelta dei Vescovi, che le Chiese d’istituzione patriarcale potevano seguire. Secondo la prima norma, prevista dai cann. 252-253, il Patriarca raccoglieva le informazioni e la documentazione sui candidati che proponeva al Sinodo. Poteva interrogare, se lo riteneva opportuno, i parroci, i sacerdoti della diocesi vacante per eventuali suggerimenti di candidature e naturalmente doveva ascoltare, in primo luogo, i Vescovi. I laici erano esclusi da qualsiasi intervento e consultazione.[298] Il Sinodo procedeva all’elezione del nuovo Vescovo tra i candidati proposti. Dopo questo adempimento il Patriarca inviava alla Santa Sede il risultato e chiedeva la conferma dell’eletto. Sempre il Patriarca interrogava il neo-eletto per sapere se accettava l’episcopato; informando poi la Sede Apostolica e definendo insieme il giorno della pubblicazione della nomina.[299]

La seconda procedura, considerata “expeditius”, è prevista nel can. 254 del “Cleri Sanctitati”: il Patriarca con il suo Sinodo inviava un elenco di candidati alla Santa Sede per ottenere l’approvazione Pontificia. Dopo il “nihil obstat” della Congregazione per la Dottrina della Fede, valido sei mesi, il Patriarca riuniva il Sinodo e procedeva all’elezione del nuovo Vescovo, scegliendo tra i candidati che avevano ottenuto l’approvazione pontificia; nel caso in cui la scelta fosse caduta su di un Vescovo al di fuori dell’elenco approvato, si seguivano le prescrizioni dei cann. 252-253, ossia della prima procedura.[300]

La norma generale del “Cleri Sanctitati” era il can. 392, che stabiliva come regola che: <<Il Romano Pontefice nomina liberamente i Vescovi, oppure conferma coloro che sono stati legittimamente eletti>>. La legislazione precedente prevedeva come regime ordinario la nomina, come eccezione l’elezione. Il nuovo Codice modifica questa situazione: l’elezione diventa la regola per la designazione dei Vescovi e la nomina rimane un’eccezione.[301]

I cann. 180-189 del nuovo Codice sono dedicati all’elezione dei Vescovi. Il primo (can. 180) determina la qualità e le condizioni che deve possedere ogni candidato: deve essere una persona di grande fede e pietà, di costumi integerrimi, deve distinguersi per zelo, prudenza e fruire di buona fama, deve avere almeno trentacinque anni di età e cinque di presbiterato, deve essere libero dal legame matrimoniale. Il CIC non parla di questo impedimento e la spiegazione consiste nel fatto che nella Chiesa latina gli uomini sposati non possono accedere al presbiterato; la legislazione orientale, al contrario, li inabilita soltanto per l’episcopato. Non è esatto, però, dire che i preti delle Chiese orientali possono contrarre matrimonio, essi possono solo continuare a vivere con la donna sposata anteriormente all’ordinazione, ma è rigorosamente vietato contrarre un nuovo matrimonio anche se avviene il decesso della moglie.[302]

Il CCEO si differenzia dal Codice latino anche per ciò che riguarda la formazione intellettuale del candidato: il CIC dichiara di esigere la laurea dottorale o almeno la licenza in Sacra Scrittura, Teologia o Diritto Canonico conseguite in Istituti di studi superiori approvati dalla Santa Sede, oppure “sia almeno veramente esperto in tali discipline”. Il Codice orientale, invece, richiede solamente che il candidato abbia i diplomi suddetti in “aliqua scientia sacra” senza specificare il luogo di provenienza. Durante il procedimento informativo, è doveroso assicurarsi che il candidato professi la dottrina della Chiesa cattolica, questo è dovuto al fatto che in alcuni Paesi orientali la formazione intellettuale dei sacerdoti avviene in Università statali o in Centri non cattolici.[303]

Il can. 181 stabilisce che i Vescovi, entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, siano eletti canonicamente dal Sinodo dei Vescovi di quella Chiesa. La stessa disposizione vale anche per le Chiese arcivescovili maggiori, in base alla prescrizione del can. 152 già menzionato. In tutti gli altri casi sono nominati direttamente dal Pontefice: i Vescovi delle Chiese patriarcali e di quelle arcivescovili maggiori costituiti fuori dei confini del proprio territorio, su proposta di un elenco di almeno tre candidati da parte del Sinodo (can. 149); il Metropolita e i Vescovi della Chiesa metropolita “sui iuris”, proposti nello stesso modo, dal Consiglio dei Gerarchi a norma del can. 168 e i Vescovi di queste Chiese costituiti fuori dei confini del proprio territorio; infine i Vescovi delle altre Chiese “sui iuris” e delle altre circoscrizioni ecclesiastiche che dipendono direttamente dalla Santa Sede.[304] Solo i Vescovi, membri del Sinodo patriarcale, hanno il potere di proporre i candidati e di raccogliere informazioni e documentazione necessaria per provarne l’idoneità (can. 182).

Prima della convocazione del Sinodo e in tempo opportuno, i Vescovi devono comunicare al Patriarca le informazioni raccolte sui candidati. La nuova legge riconosce al Patriarca il diritto di completare, se è il caso, con le proprie informazioni, che devono essere trasmesse ai membri del Sinodo, che esamina i nomi dei candidati e compila un elenco dopo essere stato canonicamente adunato ed aver proceduto a scrutinio segreto, che sarà inviato dal Patriarca alla Sede Apostolica per ottenere l’assenso del Papa.[305]

Secondo la legislazione del “Cleri Sanctitati”, il Patriarca comunicava al Pontefice i risultati delle elezioni al fine di ottenere la “conferma”: era questo un atto che presupponeva un esame sia della procedura seguita che dell’idoneità dell’eletto. Il CCEO, invece, in linea con il Concilio Vaticano II, stabilisce che le elezioni dei Vescovi non sono più soggette a conferma pontificia e, introducendo una diversa procedura, prescrive la richiesta del previo “assenzo” del Papa su una lista di candidati prima di convocare il Sinodo elettivo.[306]

Con la nuova procedura si è verificato un cambiamento fondamentale: il Pontefice aderisce alle decisioni del Sinodo, le fa proprie e si riconosce che queste sono complete ed efficaci.[307] La convocazione del Sinodo è canonicamente valida se sono presenti i due terzi dei Vescovi aventi diritto, ad eccezione di coloro che sono assenti giustificati. Per l’elezione occorre la maggioranza assoluta, ma se dopo tre votazioni non è stata raggiunta, nella quarta i voti andranno solo ai due candidati che nella terza votazione hanno ricevuto più voti (maggioranza relativa); nel caso di parità nella terza o quarta votazione, risulta eletto il decano per ordinazione presbiterale oppure il più anziano di età.[308]

Il Patriarca non può definire la parità con il suo voto, in quanto membro del Sinodo. Si presentano, a questo punto, due casi: l’eletto è compreso nell’elenco al quale il Pontefice ha già dato il suo assenso, il Patriarca allora procede all’intimazione segreta rivolta all’eletto e se questo accetta, il Patriarca informa la Santa Sede. Nel caso in cui l’eletto non sia compreso nell’elenco menzionato, il Patriarca deve chiedere l’assenso del Papa per l’elezione fatta.[309] Il nuovo Codice ha adottato la seconda procedura del “Cleri Sanctitati” semplificandola e rendendola valida per tutte le Chiese particolari.[310]

Il CCEO prevede anche l’ipotesi in cui il Sinodo dei Vescovi non possa riunirsi a causa di gravi circostanze. In questo caso, il Patriarca, dopo aver consultato la Sede Apostolica, chiede per lettera i voti dei Vescovi, ma, per la validità dell’atto, deve avere due Vescovi come scrutatori, designati a norma del diritto particolare o, se manca, dal Patriarca stesso con il consenso del Sinodo permanente.[311] Sia il Vescovo eletto sia quello nominato, per essere promossi all’episcopato, hanno bisogno entrambi della provvisione canonica, cioè della procedura di conferimento dell’ufficio. L’ordinando deve emettere la professione di fede, la promessa di obbedienza verso il Papa e, nelle Chiese patriarcali o arcivescovili maggiori, la promessa di obbedienza verso il Patriarca o l’Arcivescovo maggiore.[312] Si nota la differenza tra il nuovo Codice e quello latino: secondo il CCEO avvengono prima dell’ordinazione episcopale, mentre per il CIC prima della presa di possesso.[313]

Entro tre mesi dal giorno della proclamazione, l’eletto all’episcopato deve ricevere l’ordinazione episcopale e non più tardi di quattro mesi deve prendere possesso canonico dell’eparchia, se non ci sono legittimi impedimenti. La stessa norma vale per il Vescovo nominato dal Papa dal momento del ricevimento della lettera apostolica (can. 188 §1). La presa di possesso avviene con la cerimonia dell’intronizzazione, in cui viene data lettura la lettera patriarcale di provvisione o quella apostolica.

 

Diritti e doveri dei Vescovi eparchiali

<<E’ compito del Vescovo eparchiale governare l’eparchia affidatagli con potestà legislativa, esecutiva e giudiziaria […] Il Vescovo eparchiale esercita la potestà legislativa personalmente; esercita la potestà esecutiva sia personalmente, sia per mezzo del protosincello e dei sincelli; la potestà giudiziaria sia personalmente, sia per mezzo del Vicario giudiziale e dei giudici>> (can. 191, §1 e 2).

La potestà legislativa del Vescovo eparchiale non è delegabile, invece quella esecutiva (amministrativa) e quella giudiziaria possono essere delegate: quella giudiziaria può essere subdelegata solo per eseguire gli atti preparatori di un qualsiasi decreto o sentenza.

Il CCEO stabilisce tutta una serie di disposizioni di carattere pastorale e giuridico che riguardano l’esercizio della funzione del Vescovo eparchiale, i suoi diritti e i suoi doveri. Oltre i diritti ed obblighi a cui sono tenuti tutti i chierici, il Codice tratta quelli relativi al “munus” proprio del Vescovo, che si distingue nella triplice funzione di santificare, insegnare e governare.[314] Un rilevo particolare acquista la “sollecitudo” ossia quel diritto-dovere d’intervenire nelle vicende interne all’eparchia e nelle relazioni con le altre Chiese locali e con l’intera Chiesa universale.[315]

Il Vescovo eparchiale ha l’obbligo di vigilare sulla vita liturgica della sua eparchia, di offrire un esempio di santità, di celebrare le funzioni sacre, ha il vincolo di risiedere nella propria eparchia e di visitarne canonicamente ogni anno almeno una parte, in modo che ogni cinque anni l’intera eparchia, sia controllata per constatarne lo stato e il funzionamento canonico ed è tenuto a presentare, sempre ogni cinque anni, una relazione al Patriarca e inviarne copia anche alla Sede Apostolica.

Quando il Vescovo eparchiale compie settantacinque anni oppure, per infermità o altra grave causa, risulti meno idoneo all’adempimento del suo ufficio, è pregato di presentare la rinuncia alla sua carica, che va sottoposta rispettivamente al Patriarca o all’Arcivescovo maggiore, se si tratta di Vescovo eparchiale entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale o di quella arcivescovile maggiore; negli altri casi va presentata al Pontefice.[316] Per l’accettazione della rinuncia da parte del Patriarca o dell’Arcivecsovo maggiore, si richiede il consenso del Sinodo permanente, a meno che non vi sia stato in precedenza un invito a rinunciare da parte del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale o arcivescovile maggiore. Il Vescovo dimissionario, il quale ottiene il titolo di Vescovo emerito dell’eparchia già da lui governata, ha diritto ad un adeguato sostentamento; queste norme valgono anche per Vescovi coadiutori e ausiliari.[317]

I Vescovi orientali possono, partecipare alle Conferenze Episcopali, secondo il decreto conciliare “Christus Dominus” che tratta dell’ufficio dei Vescovi nei confronti della Chiesa sia universale sia particolare, in quanto  <<…alla Conferenza Episcopale appartengono tutti gli ordinari dei luoghi di qualsiasi rito…>>.[318] Il CIC stabilisce che queste istituzioni di diritto canonico latino possano essere composte da Vescovi di “un altro rito”, ma questi non possono avere voto deliberativo: gli orientali “invitati” hanno diritto di voto solamente consultivo.[319]

Il decreto “Christus Dominus” prescrive che tutte le Conferenze Episcopali devono avere i propri statuti, riconosciuti dalla Santa Sede per regolare il loro funzionamento. Il can. 450 del CIC dichiara che proprio questi statuti possono disporre diversamente per quanto riguarda la partecipazione alle Conferenze dei prelati orientali.[320] Le prescrizioni del Codice latino sono in contrasto con le decisioni del Concilio Vaticano II, ma le “adunanze interrituali”, previste dal decreto conciliare “Christus Dominus” (n. 38 h), nei territori dove esistono più Chiese di diverso rito, hanno sollevato molte critiche perché ritenute poco rispettose del principio di “pari dignità” delle Chiese orientali con quella latina, professato dal Vaticano II. I Vescovi orientali finivano per essere assoggettati alle decisioni giuridicamente vincolanti delle assemblee composte in maggioranza da prelati di rito latino.[321]

 

Gli organi coadiuvanti il Vescovo eparchiale nel suo governo

Nei cann. 42-428 del Motu Proprio “Cleri Sanctitati” troviamo le norme per le Chiese “sui iuris” che regolano l’istituzione canonica dell’Assemblea eparchiale (Conventus eparchialis). La Commissione per la revisione del CCEO ha basilarmente modificato questi canoni e l’elemento innovativo principale riguarda la presenza dei laici all’Assemblea. Non solo è omessa la clausola “laicis exclusis” del can. 424, §1 del “Cleri Sanctitati”, ma è stabilito che essi hanno il diritto di parteciparvi a condizione che il loro numero non superi un terzo del totale di tutti i membri. La Commissione ha dovuto tenere in considerazione anche il Codice di Diritto Canonico latino, che tratta l’argomento e la relativa disciplina nei cann. 460-468.

Il decimo punto del §1 can. 238 CCEO prevede che a questa assemblea possono partecipare <<…dei laici eletti dal consiglio pastorale, se esiste, altrimenti nel modo determinato dal Vescovo eparchiale, così che il numero dei laici non superi un terzo dei membri dell’assemblea eparchiale>>.

Il “conventus eparchialis” presta al Vescovo un’opera di aiuto in quelle cose che si riferiscono a speciali necessità o all’utilità dell’eparchia (can. 235); secondo il can. 236 è convocata quando le circostanze lo consigliano, ovviamente a giudizio del Vescovo e dopo avere consultato il consiglio presbiterale. L’origine dell’assemblea eparchiale, che non è un’istituzione nuova per le Chiese orientali, coincide per ordine temporale con l’istituzione del consiglio presbiterale del III secolo, un organo ordinario e permanente presso la sede episcopale con la funzione di prestare aiuto al Vescovo eparchiale nel governo della sua Chiesa locale. I Vescovi, fin dall’epoca suddetta, convocano oltre al consiglio presbiterale in circostanze straordinarie, tutto il clero della loro eparchia o il clero superiore per discutere argomenti importanti ed anche per conoscere il parere del clero circa le eresie sorte e che dilagavano sempre di più.  Dal V secolo in poi queste assemblee diventano una prassi consueta.[322] L’assemblea eparchiale è l’equivalente del Sinodo diocesano nel CIC; la diversa terminologia non indica, però, una diversa concezione tra la Chiesa latina e le Chiese orientali. In altre parole, le assemblee eparchiali sono dei consigli episcopali in cui vengono enunciati i pareri del clero dell’eparchia su vari temi, che poi verranno sottoposti al giudizio del consiglio episcopale permanente per la promulgazione dei relativi decreti.[323]

Durante i lavori preparatori del Codice orientale, il gruppo di studio, parlando di “conventus eparchialis”, ha inteso distinguere questa istituzione da quella dei Sinodi di diverse forme che non sono mai completamente consultivi in Oriente, sottolineando in tal modo che l’espressione “Synodus diocesana” sarebbe del tutto inadeguata.[324]

Fin dai primi secoli, nelle Chiese orientali è in vigore il principio secondo cui i Patriarchi e i loro Sinodi costituiscono la superiore istanza per qualunque questione del patriarcato: i Sinodi orientali hanno specifici compiti, il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale è l’organo legislativo e giudiziario di questa Chiesa. Una situazione del tutto diversa da quella dei Sinodi diocesani della Chiesa latina, organi consultivi convocati per aiutare i Vescovi diocesani[325] e anche da quella delle corrispondenti assemblee eparchiali, che non possono essere che un organo di sostegno con voto consultivo, in quanto il Vescovo eparchiale ha il potere legislativo, amministrativo e giudiziario.[326]

All’assemblea eparchiale, convocata e presieduta dal Vescovo dell’eparchia, a norma del can. 238 §1, devono partecipare il coadiutore e i Vescovi ausiliari; il protosincello, i sincelli, il vicario giudiziale, l’economo eparchiale, i consultori eparchiali, il rettore del seminario maggiore, i protopresbiteri,[327] almeno un parroco per ogni distretto, i membri del consiglio presbiterale e alcuni delegati del consiglio pastorale, vari diaconi, i superiori dei monasteri “sui iuris” e alcuni superiori degli altri istituti di vita consacrata che hanno nell’eparchia una casa; infine i laici eletti dal consiglio pastorale in numero tale da non superare un terzo dei membri dell’assemblea eparchiale. Quest’ultima partecipazione rappresenta l’innovazione principale della revisione del Codice in materia di assemblea eparchiale nei confronti del motu proprio “Cleri Sanctitati”.[328] A norma del can. 243 §1, il Vescovo eparchiale deve avere la curia eparchiale, cioè organismi e persone che aiutano il Vescovo nel dirigere l’attività pastorale, nel curare l’amministrazione dell’eparchia come anche nell’esercitare la potestà giudiziaria.[329]

In ogni eparchia si deve costituire il protosincello, che nel “Cleri Sanctitati” è detto sincello, che corrisponde al vicario generale della Chiesa latina e ogni volta in cui è necessario per il governo dell’eparchia possono essere costituiti uno o più sincelli (corrispondenti ai vicari episcopali).

Il “syncellus”, di etimologia greca, significa “insieme+cella” per indicare il vivere insieme nella stessa cella, fu in origine il frate compagno del monaco che era stato eletto Vescovo, commensale e confidente, egli spesso diveniva molto potente e, rimasta vacante la sede, non raramente succedeva nella carica di Vescovo o di Patriarca. L’incarico del sincello fu molto ambito, conobbe un eccezionale sviluppo tanto che furono creati titoli come protosyncellus (primo sincello).[330] L’ufficio del protosincello consiste nell’aiutare, con potestà ordinaria vicaria di cui è provvisto a norma del diritto comune, il Vescovo eparchiale nel governo dell’intera eparchia: il protosincello partecipa ai poteri esecutivi del Vescovo entro limiti stabiliti dalla legge.[331] Anche i sincelli partecipano ai poteri esecutivi del Vescovo entro certi limiti, ossa hanno la medesima potestà di governo ordinaria vicaria del protosincello relativa ad una determinata parte dell’eparchia o in un determinato genere di affari, oppure nei riguardi dei fedeli cristiani ascritti ad un’altra Chiesa “sui iuris” o di un determinato raggruppamento di persone.(can. 246). Il protosincello ed i sincelli sono nominati dal Vescovo eparchiale e da lui possono essere rimossi senza impedimenti (can. 247 §1); devono essere sacerdoti celibi, a meno che il diritto particolare non stabilisca diversamente, di età non inferiore ai trent’anni, laureati o licenziati o almeno esperti in qualche scienza sacra (can. 247 §2).

Nella curia eparchiale deve, inoltre, essere costituito il “cancelliere” (presbitero o diacono) con il compito di vigilare che siano redatti e sbrigati gli atti della curia e che siano conservati nell’archivio: è il notaio della curia. Oltre al cancelliere possono essere costituiti altri notai.[332]

Il Vescovo eparchiale, dopo aver consultato il Collegio dei consultori eparchiali e il Consiglio per gli affari economici, deve nominare un “economo eparchiale”, fedele cristiano ed esperto in economia, nominato per un tempo determinato dal diritto particolare di ciascuna Chiesa “sui iuris”, ha la funzione di amministrare i beni dell’eparchia, provvedere alla loro conservazione, tutela ed incremento; ha l’obbligo di rendere conto dell’amministrazione al Vescovo ogni anno e tutte le volte che quest’ultimo lo richiede.[333] Il “Consiglio per gli affari economici”, presieduto dal Vescovo eparchiale, deve preparare ogni anno il conto dei proventi e delle spese, cioè il bilancio preventivo, che si prevedono nell’anno seguente ed approvare a fine anno il consuntivo delle entrate e delle uscite.

Appartengono, infine, alla curia eparchiale il “vicario giudiziale”, il “difensore del vincolo” e il “promotore di giustizia”, come nella Chiesa latina particolare.

Nell’eparchia deve essere costituito il “Consiglio presbiterale”, formato da un gruppo di sacerdoti che rappresenta il presbiterio e aiuta il Vescovo nell’attività pastorale. La sua natura è consultiva.[334]

Il Vescovo eparchiale deve anche costituire il “Collegio dei consultori”, nominando alcuni membri del consiglio presbiterale per un periodo di cinque anni, con un compito misto: sia pastorale che amministrativo. Questa istituzione è una novità sia del CIC sia del CCEO.[335]

Il “Consiglio pastorale” è un organo possibile dell’eparchia, ha il compito di studiare, valutare e proporre conclusioni in ordine all’attività pastorale nell’eparchia.[336]

 

Le parrocchie ed i parroci

Le norme del CCEO circa le parrocchie ed i parroci riprendono quelle corrispondenti del CIC. In base al can. 279 la parrocchia è <<… una determinata comunità di fedeli cristiani, stabilmente costituita in un’eparchia, la cui cura pastorale è affidata ad un parroco>>. Spetta al Vescovo eparchiale erigere, modificare e sopprimere le parrocchie, previa consultazione del consiglio presbiteriale, che come le Chiese “sui iuris”, le province, le eparchie ecclesiastiche e gli esarcati sono persone giuridiche.

Il diritto di nominare i parroci spetta esclusivamente al Vescovo eparchiale, il quale sceglie tra i presbiteri con fama di buoni costumi e di altre virtù richieste dal Codice. Se il presbitero è coniugato, si richiede un contegno irreprensibile anche per la moglie e per i figli. Il parroco ottiene la “cura delle anime” dalla provvisione canonica, ma può esercitarla lecitamente solo dopo la presa del possesso canonico della parrocchia.[337] Nel caso di scarsità di sacerdoti il CCEO provvede affidando allo stesso parroco la cura di più parrocchie vicine, mentre nel Codice latino il Vescovo diocesano può affidarle ad un diacono o ad una persona non insignita del carattere sacerdotale.[338]

 

Gli esarcati e gli esarchi

Il “Cleri Sanctitati” menzionava tre specie di Esarchi: quelli con proprio territorio, quelli apostolici e quelli patriarcali e arcivescovili. Il CCEO non ha mantenuto questa divisione, ma parla generalmente di esarcati e di Esarchi.[339] Il can. 311 definisce l’esarcato come <<… una porzione del popolo di Dio che, per speciali circostanze, non viene eretta in eparchia e che, circoscritta da un territorio o con un qualche altro criterio, è affidata alla cura pastorale di un Esarca>>. “Exarcha” ed “exarchia” sono termini greci che riflettono le categorie dell’amministrazione civile. Nei secoli IV e V il Vescovo capo di una diocesi civile era chiamato Esarca, Arcivescovo e più tardi Patriarca.[340]

Per quanto riguarda l’erezione, modificazione e soppressione di un esarcato, se questo è situato entro i confini del territorio di una Chiesa patriarcale, si applica il can. 85 §3, secondo cui spetta al Patriarca erigere, mutare e sopprimere gli esarcati, informando la Sede Apostolica; per tutti gli altri esarcati è competente la sola Sede Apostolica.

L’Esarca può essere nominato dal Patriarca o dal Papa a governare un esarcato o in loro nome o in nome proprio, in questo caso esercita la potestà di governo ordinaria, annessa dal diritto stesso al suo ufficio, e propria; nel primo caso, invece, esercita la potestà di governo ordinaria vicaria.

Secondo il can. 313, le norme relative alle eparchie ed ai Vescovi eparchiali valgono anche per gli esarcati e per gli Esarchi, a meno che non sia diversamente disposto.[341] Un esarcato è l’equivalente del vicariato apostolico o della prefettura apostolica del Codice latino.[342]

 

Gli amministratori apostolici

Il CCEO dedica solo un canone alla figura giuridica dell’amministratore apostolico: can. 234 §1. <<Talvolta il Romano Pontefice per gravi e speciali cause affida il governo di una eparchia, a sede piena oppure vacante, a un amministratore apostolico. §2 I diritti, i doveri e privilegi dell’amministratore apostolico si desumono dalla lettera della sua nomina>>.(can. 234 §2)

Nel “Cleri Sanctitati” la norma era così formulata: <<Talvolta il Romano Pontefice per gravi e speciali cause affida stabilmente o a tempo [in perpetuum vel ad tempus] il governo di una eparchia, a sede piena oppure vacante, a un amministratore apostolico>>. Il CIC, invece non comprende più questa figura. Durante la revisione del CICO è stato proposto di sopprimere questo canone, ma la proposta non è stata accettata e il canone è rimasto con un solo emendamento: l’omissione delle parole “vel in perpetuum vel ad tempus”, poiché è difficile concepire un amministratore “in perpetuum” di un’eparchia del territorio di una Chiesa patriarcale.[343]La suddetta proposta, come altre fatte durante i lavori preparatori del Codice, tendono ad evidenziare che questa figura giuridica non è nota alla tradizione orientale e perciò non era opportuno reintrodurla nel Codice.[344]

 

CONCLUSIONI

Questo lavoro, come già detto nella premessa, non ha la pretesa di avere trattato esaurientemente una storia tanto complessa e vasta come quella delle Chiese orientali, abbiamo cercato di coglierne alcuni aspetti fondamentali. Fin dagli inizi la Chiesa si configurò come una comunità di credenti, ma come tutte le comunità anche questa aveva bisogno di un’organizzazione con leggi e uomini che le facessero rispettare, insomma una comunità regolata, chiaramente anche il governo della Chiesa ha avuto un’evoluzione nel corso dei secoli, adattando la sua normativa alle necessità contingenti. Le Chiese orientali hanno sempre accettato l’istituto vescovile e poi quello patriarcale, anche se molte divergenze si sono avute sull’interpretazione da dare al primato del Pontefice e sulla teologia dello Spirito Santo: al Concilio di Sardica (343) venne stabilito che in caso di contese tra Cristiani, il giudizio del Vescovo di Roma sarebbe stato fondamentale. Nel 1955, il Pontificio Consiglio per l’Unità, con la pubblicazione del “Le tradizioni greca e latina riguardo alla processione dello Spirito Santo”, ha dimostrato come le incomprensioni di carattere linguistico abbiano influenzato la controversia tra Latini e Greci sul “Filioque”, evidenziando quanto le due posizioni siano più vicine di quanto sembri a prima vista. Cristo ha fondato una sola Chiesa, quindi non ha molto senso la locuzione “Chiese orientali”, anche se si differenziano da quella latina per i riti liturgici celebrati da popoli molto diversi per lingua, cultura e religioni preesistenti; nel Vangelo è scritto semplicemente di andare “in tutto il mondo” (Mc. 16, 15) senza distinzione tra Oriente ed Occidente. Se in passato ci sono state tante questioni che hanno diviso la Chiesa, attualmente il problema è molto più complicato con la mescolanza di varie etnie, ma quale migliore augurio se non che queste Chiese possano vivere in comunione tra loro?

NOTE

[1] Concilio Vaticano I: Denz.-Schonm., 3004; cf 3026; Concilio Ecumenico Vaticano II, Dei.

2 Cfr. O. Bucci, Il codice di diritto canonico orientale nella storia della Chiesa, in Apollinaris 55 (1982), pp. 370-488.

3 Cfr. A. Giannini, Dottrina sulla codificazione del diritto canonico orientale, in Ephemerides iuris canonici 48 (1992), pp. 29-30.

4 Pubblicazione del diritto matrimoniale con il motu proprio “Crebrae Allatae” del 22 febbraio 1949 di 131 canoni  che entrarono in vigore il 2 maggio seguente. Cfr. Prefazione al CCEO, Enchiridion Vaticanum: documenti ufficiali della Santa Sede 1990, 12, Bologna 1992, pp. 49-51.

5 Pubblicazione del diritto processuale con il motu proprio “Sollecitudinem nostram” del 6 gennaio 1950. I canoni entrarono in vigore dopo un anno. Cfr. Ibid.

6 Furono pubblicati con motu proprio “Postquam Apostilicis Litteris” ed entrarono in vigore il 21 novembre 1952. Cfr. Ibid.

7 Entrò in vigore il 15 agosto 1958. Cfr. Ibid.

8 Il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) ha approvato 16 documenti: 4 costituzioni, 9 decreti e 3 dichiarazioni, tra questi, quelli che riguardano le Chiese orientali cattoliche sono: la Costituzione dogmatica “Lumen Gentium”, il decreto “Orientalium Ecclesiarum” e il decreto “Unitatis Redintegratio”. Cfr. A. Agnoletto, Storia del Cristianesimo, Milano 1978, p. 378; J. Faris, La storia della codificazione orientale, in Il Diritto Canonico Orientale nell’ordinamento ecclesiale, a cura di K. Bharanikulangara, Città del Vaticano 1995, pp. 262-263. La prima riguarda la Chiesa universale, l’unità della fede, nonostante l’esistenza di una “varietas” di chiese locali fondate in vari luoghi dagli apostoli e dai loro successori. Cfr. “Lumen Gentium”, n. 13. Nel decreto “Orientalium Ecclesiarum risulta importante l’affermazione “Aequalis dignitas Ecclesiarum Orienti set Occidentis”. Vi è pari dignità e le Chiese d’Oriente hanno il diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolrari, poiché “in esse risplende la tradizione apostolica tramandata dai Padri”, perché di “veneranda antichità” e perché questa tradizione “costituisca   parte del patrimonio rivelato ed indiviso della Chiesa universale”. Il decreto OE introduce numerose modifiche disciplinari e traccia, contemporaneamente, le linee per un rinnovamento e un ripristino delle antiche ed autentiche tradizioni delle Chiese orientali, Ciò è stato molto importante per evitare presso gli orientali motivo di timore di latinizzazione delle loro Chiese, cioè che il nuovo “Codex Iuris Canonici” servisse come modello per il nuovo diritto canonico orientale, come avvenne nella legislazione orientale precedente. L’ultimo documento, il decreto “Unitatis Redintegratio” tratta dei rapporti con i Cristiani orientali non cattolici, ma ortodossi. Cfr. D. Salachas, Istituzioni di diritto canonico delle Chiese cattoliche orientali. Strutture ecclesiali nel CCEO, Bologna 1993, pp. 48-49; “Orientalium Ecclesiarum”, nn. 1-4; “Unitatis Redintegratio”, nn. 14 e 16.

9 Cfr. N. Edelby, Unità o pluralità delle codificazioni? E’ necessario un codice speciale per le Chiese orientali?, in Concilium 8 (1967), pp. 50.51

10 “Lumen Gentium”, n. 13.

11 Cfr. J. Faris, op. cit…,p. 262.

12 Cfr. “Ecclesiarum Orientalium”, nn. 7-8-9.

13  “Nuntia” 3 (1976), p. 3.

14 Cfr. Lettera della Segreteria di Stato, n. 278.287/G.N., del 27 febbraio 1991.

15Cfr. “Pastor Bonus, art. 155.

16 Cfr. E. Eid, La revisione del codice di diritto canonico orientale alla luce del decreto conciliare “Orintalium Ecllesiarum”, in “Nuntia” 20 (1985), pp. 128-131. Il primo principio direttivo richiede un codice unico per tutte le Chiese orientali cattoliche. Il secondo principio direttivo afferma la necessità del “carattere orientale” del codice, l’ispirazione di questo deve essere rivolta alle “autentiche fonti orientali” conformandosi con la tradizione canonica orientale sotto ogni aspetto. Secondo un altro principio è sottolineato il “carattere ecumenico” del codice, perché le Chiese orientali cattoliche “fioriscono ed assolvono con nuovo vigore apostolico la missione loro affidata” (OE, n. 1); per quanto riguarda sia il bene dei fedeli sia “il compito di promuovere l’unità di tutti i Cristiani, specialmente orientali” (OE, n. 24). Gli altri principi riguardano il carattere giuridico e pastorale del codice e la revisione del diritto penale. Il principio di sussidiarietà, infine, ha speciale importanza data la struttura particolare delle Chiese che fanno capo ad una autorità che partecipa del potere sopraepiscopale del Papa, come sono i Patriarchi, gli Arcivescovi maggiori ed i Sinodi. Il nuovo codice si limiterà alla codificazione delle discipline comuni a tutte le Chiese orientali, lasciando ai loro vari organismi la facoltà di regolare con il diritto particolare le altre materie non riservate alla Santa Sede.

17 Il Papa all’Angelus del 7 ottobre 1990 fa il seguente annuncio: “Sono lieto di annunciare che il prossimo 18 ottobre, festa di San Luca Evangelista, promulgherò ufficialmente il Codice dei Canoni delle Chiese orientali e, il successivo 25 ottobre avrà luogo la sua solenne presentazione nella Congregazione Generale del Sinodo dei Vescovi…”. “Nuntia” 31 (1990), p. 6.

18Le parti già promulgate erano i quattro “mutu  proprio” di Pio XII: 1949, “Crebrae allatae”, contenente il diritto matrimoniale; 1950, “Sollicitudinem Nostram”, riguardante il diritto processuale; 1952, “Postquam Apostolicis Litteris”, relativamente ai Religiosi e ai beni temporali; 1957, “Cleri Sanctitati”, concernente il diritto  relativo ai “Riti”, alle persone fisiche e morali: “De personis”.

19Cfr.  Nuntia 1 (1975), pp. 11-18.

20 Cfr. Nuntia 31 (1990), pp. 37-45.

21 Cfr. G. Feliciani, Le basi del Diritto Canonico, Bologna 1993, pp. 43-44.

22 Cfr. Tradizione italiana del discorso del Santo Padre, in “Nuntia” 31 (1990), pp.18-20.Unico “Corpus Iuris Canonici”, in quanto il CIC, il CCEO e la costituzione “Pastor Bonus” sono stati elaborati per realizzare il regno dell’Amore e dunque anche il nuovo CCEO funga da “vehiculum caritatis”. Cfr. I. Zuzek, Riflessioni circa la Costituzione apostolica “Sacri Canones” (18 ottobre 1990), in “Apollinaris 65 (1992), pp. 53-56.

23Costituzione “Sacri Canones”, in CCEO, 1990. Questa immagine viene utilizzata per la prima volta dal poeta russo Vjacieslav Ivanov (1866-1949), il quale, desiderando appartenere alla pienezza della Chiesa, aderisce alla Chiesa cattolica nel 1926, senza abbandonare però le ricchezze spirituali della Chiesa ortodossa. Cfr. G. Nedungatt, Presentazione del CCEO, Enchiridion Vaticanum: Documenti ufficiali della Santa Sede, Bologna 1992, 12, p. 889.

24Cfr. G. P. Montini, Il Codice per le Chiese Orientali. Presentazione generale del CCEO, in “Quaderni di Diritto Ecclesiale (1991), pp. 205-206.

25 La divisione in titoli è stata favorita dai Pontefici fin dall’inizio della codificazione orientale per fedeltà alla tradizione delle Collezioni canoniche orientali. Cfr. E. Eid, Discorso di S. E. Mons. Emilio Eid alla presentazione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali al Sinodo dei Vescovi, 25 ottobre 1990, in “Nuntia” 31 (1990), p. 29. Il Codice consta di 1546 canoni e di 30 titoli, di cui il primo enuncia i diritti e i doveri dei fedeli; i titoli II-IX sono dedicati alla struttura gerarchica; dei chierici, dei laici, dei religiosi e delle associazioni di fedeli si occupano i titoli X-XIII. Fanno seguito i canoni relativi al magistero ecclesiastico (tit. XV), al culto divino (tit. XVI), ai beni temporali (tit. XXIII), ai giudizi (tit. XXIV-XXVI), alle sanzioni (tit. XXVII-XXVIII); mentre delle fonti del diritto, della prescrizione e del computo del tempo viene trattato nei due titoli conclusivi (tit. XXIX-XXX).

26 Ibid.

27 Cfr. G. Nedungatt, The title of the New Oriental Code, in “Studia Canonica 25/2 (1991), pp. 465-476.

28 Cfr. G. Nedungatt, Presentazione…, pp. 895-896; R. Metz, Les deux Codes: le Code de Droit Canonique de 1983 et le Code des Canons des Eglises Orientales de 1990, in “L’année canonique 39 (1997), pp. 75.76. Nel 1990, anno della promulgazione del CCEO, i Cristiani orientali nella comunione cattolica erano circa quindici milioni, contro i centocinquanta milioni dei fedeli delle Chiese ortodosse. Cfr. Nedungatt, Presentazione…, p. 892.

29 Cfr. D. Salachas, Le novità del “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” a proposito del Primato romano, in “folia canonica”, Review of Eastern and Western Canon Law 1998. WWW.kjpi.ppke.hu/kiadva/fc_01_06.htm

30 Ibid.

31 Ibid.

32 Ibid.

33 Ibid.

34 Cfr. H. Kung, La Chiesa, Brescia 1976, pp. 318-321.

35 Cfr. S. Ferrari, L’Ordinamento giuridico della Chiesa Cattolica. Lo sviluppo Storico, CUEM, Milano 1998, p. 29 e segg. Cfr. anche H. Kung, La Chiesa, “Biblioteca di Teologia contemporanea”, Brescia 1967, pp. 318-321.

36 Cfr. L. Duchesne a cura di, Le Liber pontificialis, I, Paris 1886, pp. 207-10.

37 Teodora voleva ad ogni costo convincere papa Silverio a mitigare le sue posizioni anti-monofisite e sperava, in particolare, di poter far rieleggere Antimo, Patriarca monofisita di Costantinopoli, il quale era stato scomunicato e deposto da papa Agapito I. Vigilio, nel suo interesse, era propenso ad assecondare i piani dell’imperatrice, che si era impegnata a metterlo sul soglio pontificio al posto di Silvestro, ma Teodora aveva bisogno di Belisario per realizzare il suo piano ed anche di Antonina, moglie del generale e già sua dama di compagnia. Con una missiva contraffatta il papa fu accusato di essersi accordato con il re goto Vitige che stava assediando Roma e che prometteva al re di aprirgli la porta Asinara, pressi il Laterano, in modo da consentire l’ingresso dei Goti e liberare Roma dai Bizantini. L’11 marzo, Belisario invitò il Papa per scagionarsi, ma Silverio non riuscì a controbattere le accuse pronunciate da Vigilio e Antonina, quindi fu arrestato, spogliato degli abiti pontificali, vestito con una semplice tonaca monacale e spedito in esilio a Patara, in Licia. Fu annunciato al popolo che Silverio non era più papa e il 29 dello stesso mese , su imposizione di Belisario, Vigilio fu consacrato vescovo di Roma. Il Vescovo di Pataria, indignato per la sorte del pontefice, si recò a Costantinopoli per protestare presso Giustiniano dicendo che nel mondo c’erano molti re ed un solo papa, il quale era stato cacciato dalla sua sede. L’imperatore rimandò a Roma Silverio e ordinò a Belisario di istruire una nuova inchiesta, se fosse risultato che la lettera riguardante il presunto complotto a favore dei goti era contraffatta, Silverio sarebbe stato reintegrato come papa. Contemporaneamente fu consentito a S. di tornare in Italia, ma Belisario, sotto la pressione di Antonina e Vigilio, manovrati da Teodora, lo fece deportare nell’isola disabitata di Palmaria, oggi Palmarola, una delle isole dell’arcipelago pontino. L’11 novembre, Silverio fu probabilmente costretto ad abdicare firmando un documento in cui rinunciava al ministero di vescovo di Roma in favore di Vigilio. Il 2 dicembre dello stesso anno morì a causa delle dure privazioni e del trattamento subito. Secondo il Liber Pontificalis fu sepolto il 20 giugno sull’isola, contrariamente a quelli di altri papi morti in esilio, i suoi resti mortali non furono mai trasferiti a Roma e il suo sepolcro divenne centro di miracoli e meta di pellegrinaggi. Cfr. J.N. D. Kelly, Gran Dizionario Illustrato dei Papi, Casale Monferrato, Edizioni Piemme S.p.A, 1989,  p. 168; O. Bertolini, La fine del pontificato di papa Silverio in uno studio recente, “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, 47, 1924, pp. 325-43.

38 Cfr. S. Ferrari, L’Ordinamento… cit., p. 29 e segg.

39Ibid.

40 Ibid.

41 Ibid.

42 J. Danie Lou-H. Marrou, Nuova Storia della Chiesa, II, Torino 1970, p. 357.

43 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo orientale, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 80 e segg. Inizialmente ci fu rivalità tra Costantinopoli e Alessandria conclusasi con la sconfitta di quest’ultima, in seguito si aprì un serio conflitto tra Roma e i Patriarchi d’Oriente, che trovava le sue radici sia nella posizione politica dei Vescovi di Roma, che venivano considerati sempre più come capi temporali, oltre che spirituali, sia nella convinzione che i Papi fossero i successori di San Pietro e, come tali, dotati di speciali prerogative.

44 Ibid.

45 Ibid., p. 81.

46 Cfr. G. Tabacco-G. G. Merlo, Medioevo, Il Mulino, Bologna 1981, p. 70 e segg.

47 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo…cit., p. 81 e segg.

48 Organizzò grossi gruppi di penitenti-asceti: i cenobiti, conviventi in edifici comuni, in rigida obbedienza a un abate e dediti a lavori artigianali, pastorali, agricoli, all’assistenza degli infermi e dei pellegrini, oltre che a pratiche di astinenza, lettura e meditazione delle Sacre Scritture e alla recitazione diurna e notturna dei Salmi biblici. Cfr. G. Tabacco-G. G. Merlo, Medioevo… cit., p. 73 e segg.

49 Ibid.

50 “Non avrai altro Dio fuori che me. Non fare nessuna scultura, né immagine delle cose che splendono su nel cielo, o sono sulla terra, o nelle acque sotto la terra. Non adorare tali cose, né servir loro, perché io, il Signore Iddio tuo, sono un Dio geloso…”. Esodo: Decalogo, 20: 3-5.

51 Nel 726, Leone III fece allontanare da un portone del palazzo una celebre raffigurazione di Cristo, costrinse a dimettersi il Patriarca Germano, che richiedeva una decisione conciliare per questa politica avversa alle immagini e nominò al suo posto l’iconoclasta Anastasio. Cfr. J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa Cattolica, Torino 1989, p. 402.

52 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 95 e segg.

53 Ibid.

54 Al Concilio parteciparono 338 vescovi orientali, ma nessun Patriarca era presente. L’Imperatore nominò successore di Anastasio, morto di recente, Costantino II di Costantinopoli; Presidente dell’assemblea fu l’iconoclasta Teodosio, vescovo di Efeso. Gli atti del Concilio non furono conservati, ma da quelli del Secondo Concilio di Nicea veniamo a conoscenza del decreto finale dell’assemblea di Hieria, che ci informano della condanna della venerazione delle icone non solo come atto di idolatria, ma come vera e propria eresia, poiché un’icona di Cristo non può che rappresentarlo o con le due nature divina e umana fuse insieme (monofisismo), o solamente come uomo (nestorianesimo). Cfr. J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica… cit., p. 402; L. D. Davis, The First Seven Ecumenical Councils (325-787): Their History and Theology . Wilminton, Del: M. Glazier, 1987, p. 302.; W. T. Treadgold, A History of the Byzantine State and Society, Stanford University Press 1997, p. 361.

55 Inizialmente si riunì a Costantinopoli nel 786 e dopo un’interruzione fu di nuovo convocato nel 787. Questo Concilio costituì l’elemento di chiusura dei lavori di definizione dogmatica e da allora la Chiesa ortodossa non riconosce più alcuna autorità ai Concili successivamente convocati in Occidente. Cfr. J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., p. 403.

56 Ricordato tutt’oggi come “Festa dell’ortodossia e celebrato la prima domenica di Quaresima. Cfr. Ibid.; si veda anche N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 96.

57 Adriano I e Leone III difesero il Concilio e la formulazione del simbolo niceno-costantinopolitano senza il “Filioque”. Il punto centrale della controversia era il termine latino “Filioque”, la frase contestata era quella che riferisce la relazione tra lo Spirito Santo e le altre persone della Santa Trinità. I Vescovi occidentali, diversamente da quelli orientali, sostenevano che nel Credo fosse inclusa questa parola. Il Credo, così come era stato sancito a Costantinopoli e poi approvato definitivamente dai Vescovi occidentali e orientali nei Concili successivi, si rifaceva al Vangelo di Giovanni (XV, 26), dove è detto che lo Spirito Santo procede dal Padre, quindi dal punto di vista storico avevano Ragione i Vescovi orientali. Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 99.

58 Lo zar Boris voleva da Costantinopoli una Chiesa indipendente con a capo un Patriarca, ma non vedendosi accontentato, espresse questo suo desiderio a Roma e chiamò chierici franchi nel Paese, che con la loro attività introdussero i riti occidentali e il concetto del “Filioque”, rendendo l’atmosfera incandescente.Vi fu un’aperta condanna verso questa evangelizzazione (Enciclica emanata da Fozio nell’867), una contestazione della disciplina ecclesiastica introdotta (celibato ecclesiastico) e una condanna  per eresia della dottrina romana (Filioque). Cfr. J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa…. cit., p. 404; N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 99 e segg.

59Fozio, uomo molto colto, fu eminente funzionario civile e nonostante laico, grande fu la sua fama di teologo. Nell’857 il Patriarca di Costantinopoli venne deposto dall’Imperatore Michele III (l’Ubriaco) e al suo posto venne nominato Fozio, dopo avere ricevuto affrettatamente gli ordini, ma Nicolò I non volle riconoscerlo come Legittimo Vescovo e inviò due legati a Costantinopoli per indagare su questa elezione, come era suo diritto. Nella lettera accennò anche alla possibilità di riconoscere valida tale elezione se le province ecclesiastiche dell’Italia meridionale e dell’Illiria fossero state restituite alla sua giurisdizione, dopo che erano state tagliate fuori durante la disputa iconoclasta. Nell’861 venne indetto un Concilio a Costantinopoli presieduto dai due legati pontifici, in cui fu dichiara la legittimità dell’elezione di Fozio, il Papa, contento del riconoscimento della sua autorità, fu altrettanto contrariato per non avere ottenuto la restituzione delle province, perché l’Illiria coincideva in parte con la Bulgaria, il cui sovrano (Boris) era intenzionato a convertirsi con il suo popolo al Cristianesimo: evento molto importante per il Papa. In seguito ci fu un’astiosa corrispondenza tra Roma e Costantinopoli e la questione della Bulgaria acquisì un’importanza capitale, ad aggravare la situazione ci fu l’ambigua politica dello zar Boris, che portò gli antagonisti ad accusarsi di allontanamento dalla tradizione apostolica e ad attribuirsi innovazioni eretiche. Lo zar cercava di barcamenarsi tra Roma e Costantinopoli e nell’866 due Vescovi latini arrivarono in Bulgaria portando al sovrano una lunga epistola del Pontefice in risposta ai suoi interrogativi, in cui il Papa metteva in guardia i Bulgari e scagliava violente accuse contro i Greci, i quali furono molto indignati da tutto questo e Fozio convocò un Sinodo a Costantinopoli (867), in cui venne condannato l’operato del Pontefice: l’evangelizzazione svolta dai missionari romani, contestazione della disciplina ecclesiastica, compreso i celibato ecclesiastico, ma soprattutto l’insegnamento eretico riguardante la discendenza dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, riaprendo la controversia del “Filioque”. Nell’876 Nicolò I morì e Fozio venne destituito dalla sua carica di Patriarca dal nuovo Imperatore Basilio, il quale elesse al suo posto Ignazio, già Patriarca prima di Fozio, ma alla morte di Basilio fu di nuovo rieletto Fozio, che riallacciò i rapporti con Roma, mettendo fine allo scisma. Fozio fu poi deposto una seconda volta dall’Imperatore Leone VI il Sapiente (886) e morì in esilio senza più far parlare di sé  nell’891. Durante questo tempo, lo zar Boris aveva di nuovo cambiato opinione e nell’869 estromise il Vescovo latino e fece tornare i Greci, in tal modo il suo regno fu definitivamente assorbito nell’orbita dell’ortodossia bizantina. Cfr. A. Agnoletto, Storia del Cristianesimo… cit., pp. 143-144; J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., pp. 404-405; N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., pp. 104-205.

60 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit, p. 102 e segg.; J. Danié Lou-H. Marrou, Nuova storia della Chiesa, II, Torino 1970, p. 120 e segg.

61 La fede nell’uguaglianza di tutti i Vescovi era basata sulla dottrina esposta da Ignazio di Antiochia, secondo la quale la Chiesa è pienamente manifesta dove il Vescovo, rappresentante del sacerdozio etrerno di Cristo, celebra l’Eucaristia in presenza dei fedeli. Cfr. J. Danié Lou-H. Marrou, Nuova storia… cit. pp. 121-122.

62 Nella sua opera “De Spiritu Sancti Mystagogia” Fozio dimostra che questa dottrina sovverte l’equilibrio tra unità e diversità all’interno della Trinità. Cfr. J. Danié Lou-H. Marrou, Nuova storia… cit. pp. 121-122.

63 Ibid.

64 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 98 e segg.

65 Ibid. L’alterazione del testo del Credo sembra sia avvenuta in Spagna nel VI o VII secolo, probabilmente per un errore dovuto alla poca cultura del clero spagnolo, il quale  ritenne che la clausola “Filioque” si trovasse nella versione originale, forse spinto dal desiderio di far risaltare l’uguaglianza tra il Padre e il Figlio, negata dagli Ariani. Questa modifica si diffuse in Gallia e in Bretagna, ma rimase una peculiarità delle Chiese locali barbariche, non toccando la suscettibilità dell’Oriente. La controversia nacque quando i Vescovi carolingi incolparono gli Ortodossi di avere abolito il termine “Filioque”, che in realtà non era mai esistita.

66 Secondo il diritto canonico bizantino, il secondo e il terzo matrimonio erano validi, ma il quarto non poteva essere riconosciuto legalmente. Il matrimonio dell’Imperatore Leone VI non fu riconosciuto dal Patriarca Nicolò I il Mistico, conformemente a quanto detto sopra, ma fu riconosciuto da Papa Sergio III, conseguenza di questo fu che il nome del Pontefice fu cancellato dai dittici (tavolette della prece eucaristica) e il Patriarca deposto, ma in seguito fu rimesso al suo posto e pregò Papa Giovanni X di inviare i suoi rappresentanti. A Costantinopoli il documento di riunificazione (920)

aveva proibito le quarte nozze, ciò venne accettato sia da un Sinodo (921) sia dai legati pontifici, conseguentemente il nome del Papa fu reinserito nei dittici e da allora la tetragamia  è vietata nella Chiesa ortodossa mentre quella occidentale non conosce una simile limitazione. Cfr. J. Danié Lou-H. Marrou, Nuova storia… cit. pp. 130-131; J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., p. 406.

67 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 108 e segg.

68 Ibid.

69 Ibid., p. 110

70 Il Patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario era un uomo di volontà ferma e risoluta, inflessibile sostenitore della disciplina e consapevole dell’altissima dignità del posto che occupava e aveva una popolarità maggiore di quella dell’Imperatore. Nella sua propaganda per l’unità aveva sostenuto che l’uso del pane azzimo nell’Eucaristia era un’innovazione eretica. Dato che per fedeli della Chiesa armena era consuetudine seguire questa usanza, essi avevano obiettato dicendo che Roma e tutto l’Occidente erano dalla loro parte, Michele Cerulario indignato da questa risposta, nel 1052, aveva ordinato al clero latino di Costantinopoli di seguire l’usanza greca, ma di fronte al rifiuto del clero, fece chiudere tutte le Chiese di rito latino. Il Patriarca fece scrivere una lettera a Leone, Arcivescovo di Ocrida, indirizzata a Giovanni  Vescovo greco di Trani, in cui venivano aspramente criticati gli usi liturgici occidentali e condannato sia l’uso del pane azzimo, sia l’osservanza del digiuno al sabato durante la Quaresima, infine fu condannato anche il modo di cantare l’Alleluia .Cfr. Ibid.

71 Michele Cerulario trattò i legati pontifici arrivati a Costantinopoli da ignoranti della tradizione apostolica, mettendo perfino in dubbio l’autenticità dei sigilli del documento recante la delegazione. Umberto da Silva Candida cercò di spiegare all’Imperatore che un’alleanza  tra Impero e Papato poteva essere conclusa solamente a condizione che il Patriarca si sottomettesse al Papa, ma Michele Cerulario ostacolò tutti i negoziati, nonostante l’Imperatore cercasse di arrivare ad un compromesso con i legati pontifici. La scelta del Cardinale Umberto da Silva Candida come capo della delegazione non favorì la riconciliazione, perché egli fu sostenitore accanito della riforma e non certo simpatizzante per la Chiesa orientale, quindi l’atmosfera che si venne a creare non fu propizia ad una riconciliazione. Il Cardinale cercò l’appoggio dell’Imperatore, sottovalutando il potere del Patriarca che trattò come un subalterno; nel frattempo giunse a Costantinopoli la notizia della morte del Pontefice, prigioniero dei Normanni, Michele reagì a questa notizia sospendendo subito ogni contatto con la delegazione , dichiarando non più valide le loro credenziali. Dal canto suo Umberto approfittò della morte del Papa per agire secondo la sua volontà e il 16 luglio 1054 scomunicò il Patriarca con i suoi sostenitori, deponendo una bolla, da lui redatta, sull’altare della Chiesa di Santa Sofia durante la celebrazione dell’Eucaristia e davanti alla folla sbigottita uscì dalla Chiesa gridando : “videat Deus et iudicet”. Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 110 e segg.; J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., pp. 408-409.

72 Ibid.

73 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 113.

74 Cfr. J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., p. 357.

75 Durante il Concilio di Lione del 1274 sembrò che questi negoziati fossero approdati ad un risultato positivo, ma la rivolta dei Vespri Siciliani (1282) allontanò il pericolo di un’aggressione dall’Occidente e i Bizantini si ripresero la propria indipendenza ecclesiastica e ripudiarono l’unione con Roma conclusa a Lione. Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 144.

76 Ibid. p. 144 e segg.

77 Ibid., Per le discussioni furono scelti cinque argomenti principali: il “Filioque”, il Purgatorio, l a supremazia papale, il Pane eucaristico, le parole della Consacrazione per la Comunione. L’argomento discusso più a lungo fu quello sul  termine “Filioque”, che finì con il successo degli Occidentali, nonostante i tentativi di dimostrare, da parte degli Orientali, che solo la formula originale costituiva la tradizione apostolica, ma i teologi scolastici, molto più preparati dei loro antecedenti, avevano formulato uno schema intellettuale in difesa della duplice provenienza dello Spirito Santo, dimostrando che molti insigni scrittori ecclesiastici antichi avevano descritto lo Spirito Santo come precedente dal Padre attraverso il Figlio. Venne così stabilita la teologia della duplice provenienza , gli altri punti furono discussi e risolti amichevolmente e in conclusione fu sancita l’unione con Roma.

78 N. Zernov, Il Cristianesimo… cit., p. 147. Marco, Arcivescovo di Efeso si rifiuto di sottoscrivere il documento di unione, questo gesto stava a significare quanto grande sia stata l’avversione dei Bizantini ad accettare la resa a Roma , cui erano stati sottoposti da varie circostanze.

79 Ibid.; Cfr. anche J. Lenzenweger-P. Stockneier-K. Amon-R. Zinnhobler a cura di, Storia della Chiesa cattolica…. cit., p. 359.

80 Cfr. N. Zernov, Il Cistianesimo… cit., pp. 147-148.

81 Cfr. A. T. Khoury, La Chiesa bizantina dopo la caduta di Costantinopoli, in “Concilium” 7  (1967), p. 60; G. Fedalto, Le Chiese d’Oriente, in “Comlementi alla Storia della Chiesa”, a cura di E. Guerriero, II, Milano 1992, p. 25.

82 Ibid.

83 Cfr. L. M. F. Sudbury, “Sui Iuris”. Gli altri Cattolici, in InStoria, n. 32, agosto 2010 (LXIII), www.instoria/chiese_sui_iuris_htm).

84 Cfr. G. Nedungatt, Presentazione… cit., p. 890.

85 Questo criterio è seguito da Montini. Cfr. G. P. Montini, Il Codice…cit., pp. 202-203.

86 Cfr. G. Nedungatt, Presentazione…cit., pp. 892-893; I. Zuzek, Presentazione del CCEO, in “Monitor Ecclesiasticus” 115 (1990), pp. 602-603.

87 Cfr. P. Paschini, Lezioni di Storia ecclesiastica, Torino 1935, p. 100 e segg.

88 Ibid.

89 Cfr. R. Janin, Les Eglies orientale set les rites Orintaux, Mayenne 1997, p. 455.

90 Cfr. Didachè, capp. 7-10 contenenti prescrizioni liturgiche e capp. 11-15 recanti regolamentazioni disciplinari scritte probabilmente nella seconda metà del I secolo.

91 Antiochia (Pietro), Alessandria (Marco), più tardi si aggiungerà Costantinopoli (Andrea), tendevano a porsi reciprocamente come Chiese autonome e separate.

92 Cfr. V. Parlato, Le Chiese d’Oriente tra storia e diritto, in “Collana di Studi di Diritto Canonico ed Ecclesiastico, Giappichelli, Torino 2003, pp. 165-167; Cfr. anche F. Marti, La Chiesa cattolica, le Chiese cattoliche orientali, le Chiese orientali, in “L’Occidente & l’Oriente: l’attualità di antiche divisioni, Inx.studiocecci.com/?page_id=143.                                                                                                                                                                              93 Il Concilio di Nicea, primo dei Concili ecumenici, fu convocato dall’imperatore Costantino e vi parteciparono da 220 a 318 vescovi per la maggior parte orientali. Viene stabilito la consustanzialità del Figlio con il Padre, condannata l’eresia di Ario e proclamato il “Symbolum fidei”, cioè il Credo; fissò anche la celebrazione della Pasqua dopo l’equinozio di primavera (uso romano-alessandrino). Ario (256 circa 336), presbitero e teologo berbero, era stato consacrato sacerdote nel 310 ad Alessandria d’Egitto, cominciò a diffondere le sue idee verso il 313. L’eresia ariana affermava la differenza di natura tra il Padre e il Figlio: soltanto il Padre è il vero perfetto Dio, che non deriva da nessuno, il Figlio fu creato nel tempo per creare il mondo, quindi , Ario subordinava il Figlio al Padre e non era identificabile con Dio stesso. Cfr. A. Agnoletto, Storia…, cit., p. 99.

94 Il Concilio di Calcedonia (451), convocato dall’imperatore romano d’Oriente Marciano, in continuità con i Concili precedenti trattò argomenti cristologici, durante i quali, Marciano condannò il monofisismo di Eutiche (378-454), archimandrita di un convento di Costantinopoli, il quale affermava che prima dell’incarnazione c’erano due nature in Cristo, ma dopo una sola, derivata dall’unione delle due nature stesse: cioè la Divinità aveva accolto l’Umanità, come il mare accoglie una goccia d’acqua, così Eutiche era solito riassumere la sua dottrina. Cfr. B. Mondin, Dizionario dei teologi, URL, p. 234. Nestorio (381-451), vescovo siriano, sosteneva la totale separazione delle due nature del Cristo: umana e divina, negando l’unione ipostatica, quindi in Cristo convivevano due persone distinte: l’Uomo e il Dio. Maria era madre solo della persona umana, rifiutandole il titolo di Madre di Dio (Theotokos), già condannato nel Concilio di Efeso (431), in cui viene stabilita la divina maternità di Maria, nel Concilio di Calcedonia si condanna di nuovo la dottrina nestoriana stabilendo le due nature indivise e inseparabili, entrambe concorrenti in una persona e una ipostasi. Cfr. M. Eliade-I.P. Couliano, Religioni, Jaca Book, Milano1992, p. 236; Cfr. anche A. Agnoletto Storia…, cit., p. 100.

95 Cfr. G. Smit, Roma e l’Oriente Cristiano. L’azione dei Papi per l’unità della Chiesa, Roma 1944, p. 132 e segg.

96 Ibid.

97 Cfr. D. Salachas, Istituziioni di Diritto Canonico delle Chiese cattoliche orientali. Strutture ecclesiali nel CCEO, Bologna 1993, p. 68.

98 Cfr. R. Janin, Les Eglises…cit., pp. 479-492.

99 Ibid.

100 Ibid. pp. 492-493 e 502-503; Cfr. G. B. Tragella, v. Etiopia, in Dizionario Ecclesiastico, I, Torino 1953, p. 1021; K. Baus-h. G. Beck-E. Ewig-H. J. Vogt, La Chiesa tra Occidente e Oriente, in Storia della Chiesa, III, 1978, pp. 63-64.

101 Dal 451 al 518 si alternarono ad Antiochia Patriarchi cattolici e Patriarchi monofisiti, a seconda che gli imperatori di Costantinopoli siano favorevoli o contrari alle decisioni del Concilio di Calcedonia. Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., pp. 377-378.

102 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 68.

103 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., pp. 389-390.

104 Ibid., p. 387.

105 Cfr. G.B. TRagella, v. Malabar, in Dizionario… cit., II, p. 787.

106 Ibid., pp. 454-455.

107 Cfr. http://it.custodia.org/default.asp?id=2012

108 Cfr. www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Cristiani-copti-e-maroniti-c

109 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 458.

110 Il nome deriva dalla costa del Kerala, in India, luogo di origine della Chiesa Siro-Malankarese. Cfr. G. Nedungatt, Presentazione… cit., p. 894.

111 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 392.

112 Cfr.P. Chaput, La Duble identité des chrétiens Keralais: confessions et castes Chrétiennes au Kerala (Inde du Sud), in “Archivies des sciences sociales des religion, vol. 106, 1999, pp. 5-23 Cfr. G.B. Tragella, v. Malabar, in Dizionario… II, 78; R. Janin, Les Eglises… cit., p. 392.

113 Cfr. R. Janin, L’Eglises… cit., p. 334; Cfr. K. Baus-H. G. Beck-E. Ewig-H. J. Vogt, op. cit., pp. 69-72.

114 Cfr. R. Janin, L’Eglises… cit., p. 334.

115 Cfr. A.M. Bozzone, v. Armenia, in Dizionario Ecclesiastico, Torino 1955,I, p. 222.

116 Cfr. G. Amadouni, L’Eglise arménienne et le Catholicisme, Venezia 1978, p.8 e segg.

117 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., pp. 422-425.

118 Ibid., p. 422; Cfr. anche magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/10/07/promemoria-le-chiese-cattoliche-orientali-sono-23/

119 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., pp.433-434; R. Janin, L’Eglise syrienne du Malabar, in “Echos d’Orient”, Tomo XVI, anno 1913, pp. 526-535. Cfr. anche http://www.treccani.it>enciclopedia>chiesa-caldea_(Enciclopedia-Italiana)/

120 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., pp. 433-434.

121 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 69. Sono autocefale quelle Chiese greche indipendenti dall’autorità dei Patriarchi.

122 Cfr. R. Janin, Les Esglises… cit., p. 290.

123 Ibid.

124 Monsignor Sokolski fu portato in un luogo sconosciuto. Non si sa se bisogna considerarlo un complice oppure una vittima delle manovre moscovite, ma l’ultima ipotesi sembra quella più plausibile. Ibid., p. 304

125 Ibid. pp. 303-305; Cfr anche C. Fabrègues, Le Vicariat apostolique bulgare de Tracia, in “Echos d’Orient, Tome VI, année 1903, Parigi, pp. 35-40 e 80-85.

126 Cfr. G. Nedungatt, Presentazione… cit., p. 894. Cfr. anche A.M. Bozzone, v. Orientali uniti, in Dizionario… cit., II, p. 1234.

127 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 271

128 Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/ungheria/

129 Cfr. Szent Istvan Tarsulat (Società Santo Stefano), Magyar Katolikus Lexikon, Budapest, 1993, vol. II, pp. 516-517.

130 Cfr. R. Janin, L’Eglises… cit., p. 275 e segg. Cfr. G. P. Montini, Il Codice… cit., p. 203 in nota n. 4.

131 Gli scismatici continuano con le persecuzioni: pretendono di imporre ai sacerdoti un costume speciale che permetta di distinguerli facilmente. Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 277.

132 Ibid. p. 275 e segg.;Cfr. anche  http://it.cathopedia.org/wiki/Chiesa_Cattolica_Greco-Melchita.

133 Ibid. pp. 305-307; Cfr. S. Kahné, v. Romania, in Dizionario Ecclesiastico, Torino 1858, III, p. 587.

134 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 288-290.

135 Il 30 gennaio 2008 Papa Benedetto XVI ha riorganizzato la Chiesa rendendola metropolitana sui iuris con l’elevazione dell’eparchia di Presov a metropolia, l’elevazione dell’esarcato apostolico di Kosice ad eparchia e l’erezione dell’eparchia di Bratislava. La sede è a Presov. L’Igumeno è il capo di un monastero e corrisponde all’abate della chiesa latina. Cfr. anche Janin, Les Eglises… cit., p. 294.

136 Ibid., pp. 305-310, 172-206.

137 Cfr. R. Janin, Les Eglises… cit., p. 172 e segg.; http://www.genova.org.ua/italiano/la-storia-breve-della-chiesa-cattolica-ucraina-di-rito-bizantino

138 Ibid. pp. 172-206; Cfr. magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/10/07/promemoria-le-chiese-cattoliche-orientali-sono-23/ la storica sede di Leopoli è stata trasferita ufficialmente a Kyiv il 6 dicembre 2004

139Ibid., pp. 301-302.

140 Ibid. pp. 302-303. Cfr. G. Ljubomir, v. Iugoslavia, in Dizionario Ecclesiastico, Torino 1955, II, p. 528))

141 Cfr. G. P. Montini, Il Codice… cit., p. 203; Cfr. anche magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/10/07/promemoria-le-chiese-cattoliche-orientali-sono-23/

142 Cfr. R. Spirito, v. Albania, in Dizionario Ecclesiastico, I, Torino 1953, pp. 76-77.

143 Cfr. magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/10/07/promemoria-le-chiese-cattoliche-orientali-sono-23/

144 Cfr. L-E. Louvet, Les missions catoliques au XIX siècle, VIII. L’Eglise romaine dans la péninsule des Balkans, in “Missions Catholiques, Lyon 1890, XXII. pp. 491 e segg. Cfr. anche www.cattoliciromani.com

145 Cfr. A. I. Obzonez, v. Russia, in “Dizionario Ecclesiastico, Torino 1955, III, p. 625.

146 Cfr. www. russiacristiana.org/storiachcatt1.htm

147 Cfr. R. Janin, L’Eglises… cit., p. 301.

148 Ibid.

149 Cfr. L. Lorusso, La designazione dei vescovi nel Codex canonum ecclesia rum orientalium, in “Quaderni di diritto ecclesiale” XII (gennaio 1999), pp. 48-49.

150 OE 3; Cfr. D. Salachas, Teologia e nomo tecnica del “Codex canonum ecclesia rum orientalium”, in “Periodica de re canonica” 82 (1993), pp. 511-516.

151 Nuntia, 28 (1989), 19.

152 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., pp. 62-63. La locuzione sui iuris non è nuova, ma è stata ripresa da un canone tratto dalle parti del Codice orientale promulgate da Pio XII, dove invece di Ecclesia sui iuris si parlava di Ritus sui iuris, ossia si attribuiva lo stato giuridico di sui iuris ad un rito, come se il rito fosse un ente giuridico.

153 Cfr. M. Brogi, Le Chiese sui iuris nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, in “Il Diritto Canonico Orientale nell’ordinamento ecclesiale, a cura di K. Bharanikulangara, Città del Vaticano 1995, p. 62.

154 Cfr. D. Salachas, Le status ecclésiologique et canonique des Eglises catholiques orientales sui iuris et des Eglises orthodoxes autocéphales, in “L’année canonique 33 (1990), pp. 33-36.

155 Dopo il Concilio Vaticano II, il concetto del regime della Chiesa inteso come “monarchico e assoluto”, viene a mutare con le affermazioni della costituzione “Lumen Gentium”: il Pontefice non è l’unico soggetto di piena e suprema potestà, questa infatti compete anche al “Collegio episcopale”. Ma in realtà non si tratta di soggetti diversi in senso assoluto, Papa e Collegio episcopale, perché il Papa non solo fa parte del Collegio ma ne è il capo e spetta a lui convocarlo, dirigerlo e approvare le norme per la sua azione. Abbiamo dunque da una parte i poteri del Pontefice considerato singolarmente e dall’altra i poteri del Pontefice insieme a tutti i Vescovi. La determinazione del modo con cui deve essere governata la Chiesa è rimessa al giudizio discrezionale del Papa, sia personalmente che collegialmente. Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., pp. 85-87; I. Zuzek, Presentazione… cit., p. 605.

156 Cfr. L. M. F. Sudbury, “Sui Iuris”. Gli altri cattolici, in “InStoria” 32 (2010) http://www.instoria.it/home/chiese_sui_iuris.htm

157 Cfr. Zuzek, Presentazione… cit., pp. 605-606.

158 Cfr. D. Salachas, Ecclesia universa et Ecclesia siu iuris nel Codice latino e nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, in “Apollinaris” 65 (1992), pp. 66-67.

159 Cfr. I. Zuzek, Presentazione… cit., p. 602.

160 Crf. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 95.

161 “Orientalium Ecclesiarum”, n. 18. Il can. 41 si riferisce “…ai fedeli di qualsiasi Chiesa sui iuris, anche della Chiesa latina, che per ragione di ufficio, di ministero o di incarico hanno relazioni frequenti con i fedeli cristiani di un’ altra chiesa sui iuris” e ordina che “…siano formati accuratamente nella conoscenza e nella venerazione del rito della stessa Chiesa, secondo l’importanza dell’ufficio, del ministero o dell’incarico che adempiono”.

162 Ibid.

163 “Unitatis Redintegratio”, n. 18.

164 Cfr. V. Parlato, L’Ufficio patriarcale nelle Chiese orientali dal IV al X secolo, Padova 1969, p. 10.

165 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 130.

166 Cfr. V. Parlato, L’ufficio… cit., p. 13. Il Vescovo di Alessandria oltre ad ordinare tutti i Vescovi, compresi i Metropoliti delle regioni di cui ha la competenza, interviene per la difesa dell’ortodossia, per difendere e salvaguardare la vera fede, depone Vescovi e risolve giuridicamente alcuni casi a lui differiti. Emana anche atti legislativi in materia disciplinare validi per tutto l’Egitto.

167 Ibid.

168 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 131.

169 Cfr. T. Bertone, voce Patriarchi, in “Enciclopedia del Cristianesimo. Storia e attualità di Duemila anni di speranza, Novara 1997, p. 542.

170 Ben presto l’influenza del primate bizantino si estende alle regioni del Ponto, dell’Asia, della Tracia. Cfr. V. Parlato, L’ufficio… cit., p.16.

171 Cfr. N. Zernov, Il Cristianesimo orientale, Milano 1962, p. 80 e segg. Inizialmente ci fu rivalità tra Costantinopoli ed Alessandria che si concluse con la sconfitta di quest’ultima, in seguito si aprì un serio conflitto tra Roma e i Patriarchi d’Oriente, che trovava le sue radici sia nella posizione politica dei Vescovi di Roma, sia nella convinzione che i Papi fossero i successori di Pietro e, come tali, dotati di speciali prerogative.

172 Cfr. T. Bertone, Voce Patriarchi… cit., p. 52.

173 Cfr. V. Parlato, L’ufficio… cit., p. 47.

174 La “communio” può essere descritta come vincolo di unione che lega i Vescovi tra di loro, i fedeli tra di loro, i Vescovi con i fedeli ed in senso traslato indica l’unione dei credenti, la società dei fedeli, la Chiesa stessa. Ibid., p. 34.

175 Ibid., pp. 67-70. Si veda anche il capitolo II del presente lavoro.

176 Questo è l’ordine di precedenza delle sedi patriarcali affermato nel 1215 nel Concilio lateranense IV: “Rinnovando gli antichi privilegi delle sedi patriarcali, decretiamo, con l’approvazione del santo e universale Concilio, che, dopo la Chiesa romana, la quale per disposizione del Signore ha il primato della potestà  ordinaria su tutte le altre Chiese, come madre e maestra di tutti i fedeli cristiani, la Chiesa di Costantinopoli abbia il primo posto, quella di Alessandria il secondo, quella di Antiochia il terzo, quella di Gerusalemme il quarto, ferma restando la dignità di ciascuna…”. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 135.

177 Cfr. M. Thériault, Le Patriarche selon les Latins des XIV et XV siècles, in “Studia Canonica 22 81988), pp. 140-141.

178 Ibid., p. 143.

179 Ibid., pp. 143-144.

180 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., pp. 135.136.

181 Cfr. I. Zuzek, De Patriarchi set Archiepiscopis maioribus, in “Nuntia” 2 (1976), p. 36.

182 Nuntia 19 (1884), p. 24.

183 Cfr. M. Brogi, Strutture… cit., p. 305.

184 Cfr. D. Salachas, Lo “stus sui iuris” delle Chiese patriarcali nel Diritto Canonico orientale, in “Periodica de re canonoca” 83 (994-IV), p. 573.

185 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 144. I canoni degli Apostoli, risalenti forse alla fine del III secolo, anche se costituiscono dei consigli piuttosto che norme giuridiche, tuttavia esprimono la tradizione e la coscienza sinodale della Chiesa primitiva in Oriente.

186 Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 573. Canoni degli Apostoli,  34: “Quando i vescovi debbino riconoscere l’autorità del loro primato. E’ necessario che i vescovi di ciascuna regione conoscano chi tra loro è protos e che lo considerino come capo e che non facciano nulla di importante senza il suo consenso, svolgendo ciascuno per conto proprio quelle cose che concernono la propria eparchia  ed i territori ad essa soggetti. Tuttavia, neppure il protos non faccia nulla senza il parere di tutti. In tal modo ci sarà la concordia e sarà data gloria al Padre, al Figlio ed allo Spirito Santo”.

187 “Orientalium Ecclesiarum”, n. 9.

188 Can. 56 CCEO.

189 Cfr. D. Salachas, Le Status d’autonomie des Eglises catholiques orientale set leur communion avec le Siège Apostolique de Rome, in “L’Année canonique 38 (1996), pp. 83-84.

190 “Orientalium Ecclesiarum”, n. 5-6.

191 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., pp.153. Dopo la rottura di comunione ecclesiastica tra Oriente ed Occidente, i Pontefici hanno istituito diverse Chiese patriarcali cattoliche, mentre nella Chiesa ortodossa il patriarcato di Costantinopoli ha ammesso al rango di patriarcato diverse Chiese nazionali.

192 Cfr. Nuntia 28 (1989), p. 32.

193 Cfr. Nuntia 22 (1986), p. 45.

194 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p.155. Dal 1150 i Cardinali formano il Collegio cardinalizio; dall’anno 1059 sono elettori esclusivi del Papa, nel secolo XII incominciarono ad essere nominati Cardinali anche i prelati residenti fuori Roma.Già dal secolo XII precedono i Vescovi e gli Arcivescovi e dal secolo XV anche i Patriarchi con la Bolla “Non mediocri” di Papa Eugenio IV, che contiene, come è noto, un riepilogo abbastanza ampio delle prerogative del Collegio  cardinalizio e delle loro motivazioni ecclesiologiche.

195 Ibid., Cfr. anche G. Feliciani, Le basi… cit., p. 88.

196 Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 578.

197 Ibid.

198 Cfr. Nuntia 19 (1984), p. 26.

199Cfr. “Orientalium Ecclesiarum”, n. 5.

200Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., pp. 159-160.

201 Ibid., p. 186.

202 Cfr. D. Salachas, Lo “status…”cit., p.580

203 Can. 180: “Ut quis idoneus ad episcopatum habeatur, requiritur, ut sit: 1 firma fide, bonis moribus, pietate, animarum zelo et prudentia praestans; 2 bona existimatione gaudens; 3 vinculo matri monii non ligatus; 4 annos natus saltem triginta quinque; 5 a quinquennio saltem in ordine presbyteratus vel saltem peritus”. J. Chiramel, La struttura… cit., p. 138.

204 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 162. L’elenco dei candidati all’episcopato, composto e approvato dal Sinodo, è inviato dal Patriarca alla Sede Apostolica (nella fattispecie alla Congrgazione per le Chiese orientali) per ottenere l’assenso del Pontefice. Non si tratta qui direttamente dell’assenso per la proclamazione a Patriarca, ma per quella dell’episcopato, presupposto per essere proclamato ed intronizzato come Patriarca.

205 Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 582.

206 Il Patriarca riconosce così nel Pontefice l’organo primario della Chiesa cattolica. Cfr. V. Parlato, L’ufficio… cit., p. 194.

207 Cfr. Nuntia 19 (1984), p. 8.

208 Con lo scambio di queste lettere si esprimeva l’unità e la comunione tra le Chiese. Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 584.

209 Non è una proibizione, ma è un invito. Cfr. CCEO can. 77; D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 165.

210 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 166.

211 Ibid., p. 167.

212 Cfr. G. P. Montini, Il Codice per le Chiese… cit., p. 209.

213 J. Rezac, Sull’estensione della potestà dei Patriarchi e in genere delle Chiese orientali sui fedeli del proprio rito, in “Concilium 8 (1969), p. 145.

214 Cfr. Cann. 39-41 CCEO.

215 Cfr. “Orientalium Ecclesiarum”, n. 9.

216 Cfr. Nuntia 22 (1986), pp. 9-11.

217 Cfr. “Orientalium Ecclesiarum”, n. 7c.

218 Cfr. J Chiramel, La struttura gerarchica… cit., p. 137.

219 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 189.

220 Il can. 146 §1 descrive il concetto giuridico di territorio di una Chiesa patriarcale, composto da tre elementi: il primo è quello geografico, il territorio si estende a determinare regioni geografiche; il secondo è costituito dall’osservanza, in queste regioni, del rito proprio della stessa Chiesa patriarcale; il terzo elemento è rappresentato dal diritto del Patriarca di erigere, in queste regioni, province, eparchie ed anche esarcati. Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 587.

221 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 189. Due anni prima della promulgazione del Codice il tribunale di primo grado ha giudicato nullo, per difetto di forma, il matrimonio di un cattolico di rito maronita celebrato nella città di Dubai davanti ad un parroco di rito cattolico. Il Patriarca maronita affermava che Dubai è situata in un luogo che tradizionalmente rientra nelle Regioni orientali, dove da epoca antica si professa il rito maronita e che egli aveva delegato un sacerdote a benedire i matrimoni dei fedeli appartenenti a questo rito. Il Vicario apostolico per l’Arabia obiettava che Dubai non aveva mai fatto parte delle Regioni orientali, che il Patriarca maronita non poteva, quindi, delegare una giurisdizione che non aveva, senza il previo consenso della Santa Sede; inoltre obiettava che il presunto sacerdote delegato non aveva mai potuto metter piede nel luogo da oltre dieci anni, perché impedito da ragioni politiche. Questo caso è sembrato un pretesto di fronte al vero problema: l’estensione del potere delle varie autorità ecclesiastiche cattoliche in Oriente. Le soluzioni sono venute con il Codice del 1990. Cfr. C. Gullo, Territorialità della giurisdizione patriarcale e difetto di forma nel matrimonio canonico dei fedeli appartenenti alle Chiese orientali, in “Diritto Ecclesiastico” 2 (1991), p. 203 e segg.

222 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 169.

223 Ibid., p. 592.

224 CCEO can. 83 §2; Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 169.

225 Non si richiede l’approvazione, bensì la previa consultazione della Santa Sede. Cfr. D. Salachas, Lo”status…” cit., p. 592.

226 Il diritto del Patriarca di ordinare i metropoliti, preposti delle province, e del Metropolita di ordinare i Vescovi della propria provincia vige sin dall’antichità, è un diritto stabilito dal Concilio di Calcedonia. Cfr, D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 593.

227 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 170.

228 Cfr. D. Salachas, Lo”status…” cit., p. 595. Riportiamo il can. 101 CCEO: “Il Patriarca, nella propria eparchia, nei monasteri stauropegiaci, come pure nei luoghi dove non è eretta né un’eparchia né un esarcato, ha gli stessi diritti e doveri del Vescovo eparchiale”.

229 Cfr. A. Thazhath, The Superior and Ordinary Tribunals of a sui iuris Eastern Catholic Church, in “Studia Canonica” 29/2 (1995), pag. 380 e segg.; CCEO can. 1062 §1: “Synodus Episcoporum patriarchalis, salva competentia Sedis Apostolicae, est superius tribunal infra fines territorii eiusdem Ecclesiae. §2: Synodus Episcoporum Ecclesiae patriarchalis per secreta suffragia eligere debet ad quinquennium ex suo gremio Moderatorem generale administrationis iustitiae necnon duos Episcopos, qui cum eo praeside costituunt tribunal: si vero unos ex his tribus Episcipis est in causa vela desse non potest, Patriarcha de consensu Synodi permanenti set alium Episcopum substituat; item in casu recusationis videat Patriarcha de consensu Synodi permanentis. §3 Huius tribunalis est iudicare causas contentiosas sive eparchia rum sive Episcoporum, etiam Episcoporum titularium. §4. Appellatio in his causis fit ad Synodum Episcoporum Ecclesiae patriarchalis ulteriore appellatione remota salvo can. 1059. §5. Moderatori generaliadministrationis iustitiae est ius vigilandi omnibus intra fines territoriiEcclesiae patriarchalis sitis necnon ius decisionem ferendi in recusatione contra aliquem iudicem tribunalis ordinarii Ecclesiae patriarchalis. Can. 1063 §1. Patriarcha erigere debet tribunal ordinarium Ecclesiae patriarchalis a tribunali eparchiae Patriarchae distinctum”.

230 Cfr. D. Ceccarelli Morolli, La figura del “Procurator patriarchae apud S. Sedem”, in “Apollinaris 68 (1995), p. 733 e segg.. Secondo l’autore, in questo contesto, per Santa Sede si deve intendere la Congregazione per le Chiese orientali.

231 Ibid.

232 Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 577.

233 Cfr. D. Ceccarelli Morolli, La figura del “procurator…” cit., p. 734. Come esempio l’autore ricorda, in nota, la comunità dei Siro-cattolici che ha come punto di incontro culturale la Chiesa di S. Maria in Campo Marzio, sede della procura del Patriarcato di Antiochia dei Siri.

234 Cfr. D. Ceccarelli Morolli, La figura del “procurator…” cit., p. 737.

235 Cfr. Nuntia 2 (1976), p. 45; 22 (1986), p. 47.

236 La loro istituzione risale al tempo di Augusto che aveva preposto “procuratores” di rango equestre ad alcuni uffici e “procuratores” scelti fra i liberti, all’amministrazione finanziaria. Cfr. D. Ceccarelli Morolli, La figura del “procurator…” cit., p. 739.

237 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 171.

238 Ibid.

239 Il Sinodo permanente è disciplinato nel can. 115. Si veda oltre nel presente lavoro.

240 Il can. 5 del Concilio di Nicea ordina che in ciascuna provincia debba tenersi due volte l’anno un Concilio, composto da tutti i Vescovi della provincia, Cfr. E. Eid, La synodalité dans la tradition orientale, in “Ephemerides iuris canonici” 48 (1992), p. 11 e segg.

241 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 172.

242 Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., pp. 597-598.

243 Nuntia 22 (1986), p. 78. Ad ogni Vescovo vengono conferite diverse funzioni: la prima è quella di insegnare (munus docendi) che consiste nella predicazione del Vangelo. Un’altra funzione è quella di santificare (munus sanctificandi) che si realizza negli atti del culto divino. L’ultima funzione è quella di governare (munus regendi). Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., p. 74 e segg.

244 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit. p. 174.

245 Già il Concilio di Calcedonia stabilisce che i Vescovi che non prendono parte alle riunioni sinodali, rimanendo nella loro città, pur essendo in buona salute e liberi da impegni urgenti, “siano fraternamente rimproverati”. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 175.

246 Se, però, questo affare spetta al Patriarca o al Vescovo eparchiale oppure ad altre persone, il Patriarca può rifiutare la convocazione del Sinodo. Cfr. D. Salachas, Lo “status…” cit., p. 603.

247 Per l’elezione del Patriarca il diritto comune richiede una maggiore presenza di Vescovi (due terzi) e una maggioranza superiore di voti per la validità della decisione. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 178.

248 Cfr. G. P. Montini, Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese Orientali, in “Quaderni di diritto ecclesiale” 9 (1996), p. 445.

249 Cfr. J. Chiramel, La struttura gerarchica… cit., p. 139.

250 “Orientalium Ecclesiarum” n. 9b.

251 Cfr. V. Parlato, Alcuni problemi attuali del diritto canonico orientale, in “Atti del congresso internazionale di diritto canonico, La Chiesa dopo il Concilio”, II, Milano 1972, p. 971.

252 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 181.

253 Ibid.

254 Cfr. J. Hajjar, The Synod in the Eastern Church, in “Concilium” 8 (1965), p. 31.

255 Cfr. J. Chiramel, La struttura gerarchica… cit., p. 139.

256 Cfr. E. Eid, La Synodalitè… cit., p. 25.

257 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 185.

258 Cfr. J. Chiramel, La struttura gerarchica… cit., p. 139.

259 Per esempio nell’aggiornamento delle forme e dei modi dell’apostolato e per ciò che concerne la disciplina ecclesiastica. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 187.

260 Ibid.

261 Cfr. G. Orioli, Gli Arcivescovi maggiori: origine ed evoluzione storica fino al secolo settimo, in “Apollinaris” 58 (1985), p. 615 e segg. L’Illirico comprendeva le seguenti province: Acaia, Epiro Vecchio ed Epiro Nuovo, Macedonia Prima e Seconda, Tessaglia, Dacia Ripense e Dacia Mediterranea, Prevalitana, Mesia Prima, Dardania  e Creta.

262 Ibid.; D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 192. Orioli scrive che la posizione di Cipro non è molto chiara, per cui ritiene che il primo esempio di Arcivescovado, storicamente certo, sia quello della Chiesa sira monofisita. Nel 628 il I Sinodo di Mar Matta accoglie l’istituto giuridico vicariale e viene deciso che il metropolita di Tagrit non porterà il titolo specifico di Arcivescovo, ma quello di Grande Metropolita d’Oriente o di Catholicòs e più tardi assumerà quello di Mafrian. Il Sinodo di Tarmana nel 752 specifica che il Mafrian è un vero Vicario patriarcale. Tra le Chiese cattoliche orientali due sono Chiese arcivescovili maggiori, quella di Lvov degli Ucraini, eretta il 23 dicembre 1963, e quella di Ernakulam-Angamaly dei Siro-Malabaresi, eretta il 30 gennaio 1993.

263 Cfr. M. Brogi, Strutture… cit., p. 305.

264 Cfr. J. Chiramel, La struttura gerarchica delle Chiese Orientali, in “Il Diritto Canonico Orientale nell’ordinamento ecclesiale”, a cura di K. Bharanikulangara, Città del Vaticano 1995, p. 139.

265 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 194.

266 Cfr. M. Brogi, Strutture… cit., p. 306. candidato all’episcopato>>.

267 Cfr. Nuntia 19 (1984), p. 13.

268 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit. p. 195.

269 Tra i gerarchi della Chiesa, l’Arcivescovo maggiore ucraino occupa il settimo posto, i primi sei sono occupati dai Partiarchi. Cfr. J. Chiramel, La struttura… cit. p. 140; D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 196; Can. 154 CCEO.

270 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 197.

271 I canoni dei primi Concili fanno, infatti, riferimento alla Chiesa metropolitana. Ibid., p. 198.

272 Cfr. P. Szabo, La questione della competenza legislativa del Consiglio dei Gerarchi, in “Apollinaris” 69 (1996), p. 486.

273 Nuntia 28 (1989), p. 44.

274 Ibid.

275 Cfr. J. Chiramel, La struttura… cit., p. 140.

276 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 200.

277 Cfr. M. Brogi, Strutture… cit., p. 309.

278 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 201.

279 Cfr. P. Szabo, La questione… cit., p. 510.

280 Cfr. G. Feliciani, Le basi del Diritto Canonico, Bologna 1993, p. 92 e segg.

281 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 198.

282 Cfr. M. Brogi, Strutture… cit., p. 310

283 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 202.

284 Cfr. G. Nedungatt, Presentazione… cit., p. 892; J. Chiramel, La struttura… cit., p. 141.

285 Sono sti esclusi, naturalmente, i punti 1 e 2 del canone 159, che riguardano esclusivamente il Metropolita come capo di una Chiesa metropolitana “sui iuris”. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 202.

286 Ibid. p. 203; Cfr. G. Nedungatt, Presentazione… cit., p. 893.

287 I termini eparchia del CCEO e di diocesi del CIC provengono entrambi dall’Impero romano sotto Diocleziano, diviso in dodici diocesi, le quali a loro volta erano divise in numerose province: eparchie. Cfr. D. Salachas, Istituzioni…cit., p. 209.

288 Can. 177 §1. L’eparchia è una porzione del popolo di Dio, affidata alle cure pastorali del Vescovo coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore, e da lui riunita nello Spirito Santo per mezzo del Vangelo e dell’Eucarestia, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica. §2. Nell’erezione, mutazione e soppressione delle eparchie entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, bisogna osservare il can. 85 §1; in tutti gli altri casi, l’erezione, mutazione e soppressione compete solo alla Sede Apostolica.

298 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 212.

290 Ibid., p. 213.

291 Ibid., p. 214.

292 Nuntia, 23 (1986), p. 6.

293 Cfr. Nuntia, 23 (1986), p. 7.

294 Cfr. V. Parlato, L’ufficio patriarcale nelle Chiese orientali dal IV al X secolo, Padova 1969, p. 80. E’ difficile configurare esattamente il rapporto tra la volontà dei Vescovi viciniores e quella dei fedeli della Chiesa locale in ordine alla scelta del nuovo Vescovo, ciò che è importante è il fatto che la nomina è il risultato di un accordo tra popolo e Vescovi.

295 Ibid.

296 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 253.

297 Ibid., p. 256.

298 Cfr. J. Khoury, La scelta dei Vescovi nel Codice dei Canoni delle Chiese orientali, in “Apollinaris”, 65 (1992), pp. 78-79.

299 Cfr. L. Lorusso, La designazione dei Vescovi nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, in “Quaderni di Diritto ecclesiale”, 12 (1999), p. 52.

300 Cfr. J. Khoury, La scelta… cit., p. 80.

301 Cfr. R. Metz, La Désignation des éveque dans le droit acque: étude comparative entre le Code latin de 1983 et le Code oriental de 1990, in “Studia Canonica”, 27 (1993), p. 326.

302 Ibid., p. 329.

203 Cfr. J. Khoury, La scelta… cit. p. 83.

304 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., pp. 218-219.

305 La lista dei candidati e il verbale delle riunioni sinodali sono inviati dal Patriarca alla Congregazione per le Chiese orientali, che si procura il nihil obstat della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo i singoli candidati. Redige, infine, il documento chiamato “Foglio di Udienza” che sottopone al Papa.Cfr. J. Khoury, La scelta… cit., p. 85.

306 Se il Papa non dà all’uno o all’altro candidato compreso nell’elenco, la sua adesione, tale nome deve essere radiato prima di procedere all’elezione. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 224.

307 Cfr. J. Khoury, La scelta… cit., p. 81.

308 Cfr. can. 183, già citato nel capitolo V del presente lavoro.

309 Cfr. L. Lorusso, La designazione… cit., p. 54.

310 Cfr. J. Khoury, La scelta … cit., p. 86.

311 Cfr. L. Lorusso, La designazione… cit., p. 54.

312 Cfr. R. Metz, La désignation… cit., p. 332.

313 Ibid.

314 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 214; CCEO, cann. 190-211.

315 Cfr. V. Parlato, L’ufficio… cit., p. 88 e segg.

316 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 232 e segg.

317 Ibid.

318 “Christus Dominus”, n. 38 b.

319 Cfr. P. Erdo, La partecipation des Eveques Orientaux a la conférence épiscopale, in “Apollinaris”, 64 (1991), p. 295 e segg.

320 Ibid., pp. 304-305.

321 Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., pp. 93-94; P. Erdo, La partecipation des Eveques Orientaux à la Conférence Episcopale, in “Apollinaris” 64 (1991), p. 307.

322 Cfr. D. Salachas, L’istituzione ecclesiale dell’”Assemblea eparchiale” nel diritto delle Chiese orientali, in “Apollinaris” 61 (1988), p. 862.

323Ibid.

324 Cfr. Nuntia 9 (1979), p. 34.

325 Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., p. 100.

326 Cfr. D. Salachas, L’istituzione ecclesiale… cit., p. 864.

327 Il protopresbitero  è quello preposto ad un distretto, composto da diverse parrocchie, nominato dal Vescovo, a cui nome svolge le funzioni stabilite dal diritto, specialmente quella di coordinare e promuovere l’azione pastorale a livello superparrocchiale; corrisponde al vicario foraneo del CIC, Cfr. D. Salachas, L’istituzione ecclesiale… cit., p. 872.

328 Ibid., p. 861.

329 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 239.

330 Cfr. G. Nedungatt, Glossario dei termini principali usati nel CCEO, in “Enchiridion Vaticanum: Documenti ufficiali della Santa Sede”, 12, Bologna 1992.

331 “… la parte di potere del governo annessa per legge a un determinato ufficio è chiamata potestà ordinaria in quanto il suo contenuto e la sua estensione non dipendono dalla discrezionalità dell’autorità che la conferisce ma sono predeterminati dal diritto. Viene considerata propria o vicaria a seconda che venga esercitata dal titolare dell’ufficio in nome proprio o in nome altrui”. G. Feliciani, Le basi… cit., pp. 78-79.

332 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 240.

333 Ibid., p. 241.

334 Ha la stessa funzione di quello delle diocesi latine. Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., p. 99.

335 Il can. 271 stabilisce che il numero dei consultori non deve essere inferiore a sei e superiore a dodici. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 243.

336 E’ disciplinato nella stessa maniera anche nel CIC. Cfr. G. Feliciani, Le basi… cit., p. 99.

337 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 247.

338 Ibid., p. 245.

339 Ibid., p. 249.

340 Cfr. G. Nedungatt, Glossario… cit., pp. 908-909.

341 Valgono, perciò, le norme sui diritti e doveri dei Vescovi eparchiali, sugli organi che aiutano il Vescovo nel governo dell’eparchia, sulle parrocchie e sui parroci. Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 250.

342 Cfr. G. Nedungatt, Glossario… cit., p. 909.

343 Cfr. Nuntia 23 (1986), pp. 50-51.

344 Cfr. D. Salachas, Istituzioni… cit., p. 252.

 

IL GIUBILEO SECONDO FRANCISCO DE TOLEDO

di Loredana Fabbri

saint peter's basilica holy door

 

                                                                      <<Antiquorum habet fida relatio, quod

                                                       accedentibus ad honorabilem Basilicam Principis Apostolorum

                                                                      de Urbe concessae sunt magnae remissiones,

                                                                                      et indulgentiae peccato rum>>.

                                                                                               (Bonifacio VIII, Bolla, Antiquorum habet fida relatio,

                                                                                                                        22 febbraio 1299)

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La Divina Commedia è tra le opere letterarie che fanno riferimento al primo Giubileo: Dante racconta di avere fatto il suo viaggio ultramondano durante la Settimana Santa del 1300, ossia nel primo anno giubilare proclamato da Bonifacio VIII. Il pellegrinaggio di Dante nell’oltretomba aveva lo scopo di portarlo alla salvezza e alla purificazione, come il pellegrinaggio del Giubileo consentiva la remissione delle colpe ai penitenti. Nella prima cantica, Dante sembra essere stato tra i pellegrini arrivati a Roma per acquistare l’indulgenza plenaria e ci racconta la sua impressione nel vedere la folla che passava sul ponte Sant’Angelo, paragonandoli con i dannati che si trovano nella prima bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno: <<…Nel fondo erano ignudi i peccatori;/ dal mezzo in quaci venien verso ‘l volto,/ di là con noi, ma con passi maggiori,/ come i Roman per l’esercito molto,/ l’anno del giubileo, su per lo ponte/ hanno a passar la gente modo colto,/ che da l’un lato tutti hanno la fronte/ verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro,/ da l’altra sponda vanno verso ‘l monte…>>.[1] Dante si riferisce al criterio adottato dai magistrati romani, i quali in occasione del primo Giubileo, allo scopo di regolare la marea dei pellegrini che transitavano sul ponte Sant’Angelo, lo divisero a metà con una transenna, in modo tale che su una corsia era convogliato il flusso di persone che andavano in direzione di Castel Sant’Angelo-San Pietro, sull’altra defluiva la folla di coloro che, lasciata la basilica, si dirigevano verso il monte di qua dal fiume (monte Gianicolo o monte Giordano: alcuni apparati critici dell’opera riportano il primo, altri il secondo). Anche nel Purgatorio, Dante affronta il tema del Giubileo connesso al valore delle indulgenze nell’episodio in cui incontra l’amico Casella (Purgatorio, II, 94-99), il poeta chiede all’amico come mai, essendo morto da qualche tempo, solo ora è giunto alla spiaggia dell’isola. Casella risponde che non gli è stato fatto alcun torto, perché l’Angelo nocchiero sceglie con molta cura, che coincide con la volontà stessa di Dio, quelle anime che, non essendo dannate, si raccolgono presso la foce del Tevere per essere traghettate in Purgatorio: molte volte Casella è stato respinto, ma da tre mesi, dopo la proclamazione del Giubileo, l’Angelo le accoglie tutte senza distinzione e tra gli altri accolse benevolmente anche lui. Dante si riferisce all’indulgenza che veniva concessa con il Giubileo per i vivi e per i morti, in seguito alla quale le anime potevano accedere direttamente al Purgatorio.[2]

Il Giubileo o Anno Santo è l’anno della remissione dei peccati e delle pene per i peccati. Il termine Giubileo deriva dal latino iubilaeus che a sua volta deriva da tre parole ebraiche: jobel (ariete); jobil (richiamo); jobal (remissione), nel XXIV capitolo del Levitico troviamo che il popolo ebraico viene sollecitato a far suonare il corno (jobel) ogni quarantanove anni per richiamare (jobil) tutta la gente del paese, dichiarando santo il cinquantesimo anno e annunciare la remissione (jobal) di tutti gli abitanti, perché, secondo l’Antico Testamento, il Giubileo portava la liberazione di tutti da una condizione di miseria, di sofferenza e di emarginazione. In osservanza della legge mosaica, durante quest’anno, non veniva coltivata la terra per ricordare che essa appartiene a Dio e gli uomini la possiedono solo temporaneamente, le case, se alienate, dovevano tornare ai loro proprietari, i debitori restavano sciolti dai loro debiti e gli schiavi di origine ebraica liberati. [3]

Nel Medioevo, la Chiesa cattolica attribuisce al Giubileo un significato spirituale e non più politico-sociale: è un Anno Santo che ricorre ogni cento anni, durante il quale viene concesso il perdono generale a coloro che ricevono la confessione e la comunione, in altri termini il Giubileo cristiano è un’indulgenza plenaria elargita dal papa, con lo scopo di supplicare speciali grazie per la riforma dei costumi e per il bene generale della Chiesa. Per i cristiani la vera liberazione era quella che cancellava i peccati e le pene, questo concetto si fondava sul principio della “comunione dei santi”, ovvero i meriti acquisiti dai santi dinanzi a Dio potevano essere utilizzati dalla Chiesa a vantaggio di tutti i cristiani per liberarli dai loro peccati, ciò avveniva mediante la concessione di indulgenze parziali o plenarie, consistenti nel condono delle pene del Purgatorio che i fedeli o i loro cari avrebbero dovuto subire nell’aldilà a causa dei loro peccati. Questa pratica venne in seguito condannata da Lutero e poi dai protestanti che la consideravano un deplorevole commercio. Il Giubileo può essere ordinario se legato a scadenze prestabilite, straordinario se viene indetto per qualche avvenimento di particolare importanza.[4]

Nel 1300 papa Bonifacio VIII, con la bolla “Antiquorum habei digna fide relatio” emanata il 22 febbraio, dà inizio al primo Giubileo ordinario celebrato con grande solennità, dichiarando di voler ristabilire un’ampia remissione dei peccati da guadagnarsi vistando la città di Roma e la basilica dei Santi Pietro e Paolo; in tale occasione papa Bonifacio decreta che questa indulgenza debba rinnovarsi ogni cento anni. Perché fu indetto questo primo Giubileo? La risposta non è univoca, molto dipende dall’interpretazione che viene data al personaggio di Bonifacio. Secondo Indro Montanelli e Roberto Gervaso: << Questo papa miscredente e blasfemo incarnava la maestà della Chiesa e non ammetteva che il suo primato terreno fosse revocato in dubbio. Essa era, secondo lui, padrona e proprietaria non solo delle anime, ma di tutto. Quindi anche i troni le appartenevano: i Re non erano che momentanei appaltatori. […] Ma naturalmente non tutti erano disposti a subire simili prepotenze, e re Filippo di Francia, per esempio, vi rispose a tono proibendo al Clero d’inviare a Roma le decime raccolte nei suoi stati. Era un colpo grave per le finanze della Chiesa perché la Francia era la loro fonte più grassa. Ma lo era anche per il prestigio del papato. Fu allora che Bonifacio indisse il Giubileo: un po’ per rivalersi dello smacco politico, un po’ per colmare i vuoti in cassaforte. E l’iniziativa non poteva essere più congeniale al carattere teatrale dell’uomo e alla sua vocazione di grande regista>>.[5]

Parole meno aspre nella sua lettura del personaggio sono usate da Attilio Agnoletto: << Ai provvedimenti papali intesi a controllare le tendenze nazionali francesi per cui non si volevano trasportare più le imposte a Roma, Filippo IV risponde impedendo l’uscita dell’oro e dell’argento dalla Francia, e in questa azione egli trovò consenziente tutta la nazione. Qualcosa di simile avverrà più tardi quando l’azione religiosa di Lutero troverà fortissima eco presso i tedeschi che non volevano più vedere stornate le loro grosse somme a Roma, sia pure per la costruzione di quella che sarà la bellissima basilica di San Pietro>>.[6]

Il secondo Giubileo invece fu indetto nell’anno 1350, abbreviando lo spazio temporale a cinquanta anni anziché cento; fu preannunziato dalla bolla “Unigenitus” il 27 gennaio 1343 da Clemente VI, il quale aggiunse alle due basiliche dei Santi Pietro e Paolo anche la visita a quella di San Giovanni in Laterano, questo fu il Giubileo senza papa, poiché Clemente VI non lasciò la sua sede di Avignone per recarsi a Roma. Nel 1389 l’intervallo di tempo tra due Giubilei fu ancora ridotto a trentatré anni da papa Urbano VI, ricordando gli anni della vita terrena di Gesù, ma causa la morte di questo papa, il Giubileo fu celebrato nel 1390 dal suo successore Bonifacio IX; in seguito papa Nicolò V decretò di tornare a quanto stabilito da Clemente VI. Quando salì sul soglio pontificio Sisto IV (1471-1484) l’Anno Santo venne celebrato ogni venticinque anni, ad eccezione del secolo XIX, in cui fu celebrato solo quello del 1825 sotto il pontificato di Leone XII.[7]

Il Giubileo del 1575, indetto l’anno precedente da papa Gregorio XIII, fu caratterizzato dall’assenza di sfarzo e dal rigore voluta dal papa, infervorato da continue prediche di famosi predicatori, processioni e da numerose confraternite differenziate per il ruolo liturgico e devozionale, in una Roma organizzata perfettamente per accogliere la grande folla dei pellegrini, le cronache e le testimonianze dell’epoca ne evidenziano lo straordinario successo. Gregorio XIII si circondò di Gesuiti, Cappuccini, Teatini, fu positivamente influenzato da San Carlo Borromeo e da San Filippo Neri, i quali contribuirono molto all’organizzazione di questo Anno Santo.[8] Tra i predicatori ci fu anche Francisco de Toledo, il quale in una sua predica inedita ci spiega che cosa è il Giubileo, ma soprattutto il significato dell’indulgenza plenaria.

Francisco Toledo Herrera nacque a Cordova nel 1532 da Alfonso de Toledo, attuario di origine ebrea e da Isabel de Herrera. Studiò filosofia a Valencia e teologia a Salamanca, dove fu allievo di Domingo de Soto, teologo spagnolo e cappellano di Carlo V e nel 1558 si trasferì a Simancas, dove entrò nella Compagnia di Gesù ; l’anno seguente, quando era ancora novizio, il Generale dei gesuiti Diego Lainez lo segnalò per la sua eccellente cultura a Roma perché fosse chiamato a leggere filosofia nel Collegio Romano, dove dopo pochi anni ottenne la cattedra di teologia e filosofia. Nel 1564, sempre a Roma, fece la professione di fede. Al Collegio Romano ebbe la carica di maestro dei novizi e professore di filosofia dal 1559 al 1562 e dal 1562 al 1569 fu professore di filosofia scolastica e teologia morale, divenendo in seguito anche rettore di alcuni seminari, tra cui del Collegio Germanico-Ungarico a Roma. Nel 1569 fu nominato anche predicatore apostolico: svolse questo incarico per ventiquattro anni (viene spontaneo associare l’attività predicatoria di Toledo a quella del francescano Francesco Panigarola, Milano 1548-Asti 1587, tra le cui prediche molto famosa è l’orazione funebre in occasione della morte di San Carlo Borromeo), nello stesso tempo fu nominato teologo della Sacra Penitenza e consultore del Santo Uffizio, nel 1570 partecipò al processo contro Carranza de Miranda, arcivescovo di Toledo, assumendone le difese. Per la sua vasta cultura ed altre qualità venne inviato in varie missioni diplomatiche. Nel 1580 papa Gregorio XIII lo inviò a Lovanio, dove accolse le ritrattazioni di Baio (Michel de Bay (1513-1589), le cui tesi teologiche, ispirate all’agostinismo rigido e precorrenti il giansenismo, erano state condannate da Pio V). Fu tra i revisori del testo della Vulgata, fu consigliere nelle trattative per la riconciliazione tra Enrico IV e la Chiesa Cattolica. Il 17 settembre 1593 fu nominato cardinale da Clemente VIII: Toledo fu il primo gesuita elevato alla dignità cardinalizia, ma l’anno successivo si ammalò gravemente e mori a Roma, dove è sepolto nella Basilica Liberiana, il 14 settembre 1596. Fu considerato uno degli uomini più colti del suo tempo e tra i più eclettici e insigni commentatori cinquecenteschi di Aristotele, seguace di Agostino e Tommaso d’Aquino e autore di trattati esegetici. Tra le principali opere troviamo i “Commentaria una cum quaestionibus in universam Aristotelis logicam”; il commento in tre libri al “De anima” e i due “De generazione et corruptione”, che ebbero grande successo, che videro molte edizioni e furono adottati come libri di testo nelle scuole paripatetiche. Altra opera molto divulgata fu la sua “Summa o De instructione Sacerdotum libri septem”. Nell’esegetica biblica scrisse i “Commentarii” al Vangelo di Giovanni, ai primi dodici capitoli di Luca e all’epistola ai Romani (postumi questi ultimi). La più importante opera di teologia dogmatica, con sue opinioni personali, è “Enarratio in Summam Theologiae S, Thomae”, che fu edita solo nel 1869-70. Le prediche, molto numerose, non furono mai stampate.[9]

Le prediche di Toledo risalgono agli anni settanta del Cinquecento, un secolo denso di avvenimenti e cambiamenti storico-politico-religiosi. La rapidissima discesa in Italia di Carlo VIII (1494) mise in evidenza la divisione degli Stati italiani e aprì la strada ad un maggiore coinvolgimento delle potenze europee nella penisola, cancellando la possibilità di qualsiasi processo di unificazione. Quando Carlo d’Asburgo salì sul trono imperiale col nome di Carlo V concepì fin dall’inizio il progetto di restaurazione dell’autorità imperiale sull’Europa, progetto che incontrò non pochi ostacoli interni ed esterni, tra questi la difficile questione della Riforma, che in Germania si era trasformata da corrente di contestazione religiosa in movimento di contestazione sociale e politico. La lotta tra Francia e Spagna per la conquista dell’Italia, e che ebbe come teatro la penisola italiana, caratterizzò il regno di Carlo V, il quale, sconfitto Francesco I, insediò Francesco II Sforza nel Ducato di Milano, la cui posizione geografica era di fondamentale importanza perché metteva in comunicazione Spagna e Germania; il re di Francia reagì dando vita ad un’alleanza antiasburgica cui aderì anche il papa, con la conseguenza che migliaia di mercenari al servizio dell’imperatore, per la maggior parte lanzichenecchi, noti per la loro fede luterana e per l’odio verso la Chiesa Cattolica, scesero in Italia e di loro iniziativa posero l’assedio a Roma e la occuparono per circa otto mesi saccheggiando la città (1527). Altro avvenimento molto importante fu l’espansione degli Ottomani, che, con il sultano Solimano, raggiunsero il centro dell’Europa (assedio di Vienna) ed il tentativo di controffensiva di Carlo V, con la conquista di Tunisi, si rivelò un successo molto effimero. La pressione turca sull’Europa determinò anche il tramonto dell’idea di cristianità testimoniato dall’alleanza del re di Francia con il sultano in funzione antiasburgica. Quando salì sul trono di Spagna il cattolicissimo Filippo II, lo scontro tra cristiani e musulmani nel Mediterraneo si ridusse in quello tra Impero Ottomano e Spagna, mischiando alla guerra la pirateria da entrambe le parti, fenomeno importante nella storia dell’epoca. La tensione tra Spagnoli e Ottomani precipitò in conseguenza della conquista turca di Cipro: a Lepanto la flotta della Lega Santa formata dal papa, dalla Spagna e dalla Repubblica di Venezia, inflisse ai Turchi una grande sconfitta (1571), che riuscì a limitare notevolmente la loro presenza nel Mediterraneo.

Le speranze in una profonda riforma della Chiesa, che si erano diffuse fin dall’XI secolo, erano state deluse e tra i molti mali che affliggevano il complesso ecclesiastico, c’era anche quello, molto rovente, dell’acquisto delle indulgenze. La necessità di una riforma era avvertita anche nell’ambito del movimento umanistico d’Oltrape: il denominato Umanesimo cristiano preparò il terreno alla Riforma Protestante, fornendole elementi essenziali della nuova teologia. Le 95 tesi di Lutero furono proprio dedicate alla condanna dell’indulgenza come strumento di salvezza, in seguito, il monaco Agostiniano imperniò la sua critica sulla giustificazione per fede e sul sacerdozio universale, quest’ultimo implicava un rapporto diretto del fedele con Dio e la limitazione del papato ad istituzione unicamente umana. La diffusione delle idee luterane trovò due grandi alleate: la stampa e la lingua volgare, che fece perdere ai dotti, ma soprattutto al clero il privilegio di essere i lettori dei testi sacri. L’area della Riforma in Europa fu molto vasta, in Italia ebbe una diffusione più limitata e non diventò mai un movimento popolare, sia per la mancanza della profonda ostilità verso la Chiesa di Roma esistente in altri paesi, sia per la dipendenza dei signori dal papa e dall’imperatore. La Riforma protestante incalzò il pontefice Paolo III a convocare un concilio, richiesto da tempo nel mondo cristiano, ma già prima dell’inizio del Concilio di Trento (1545-1563) le speranze di rappacificamento erano perdute, poiché i protestanti decisero di non parteciparvi. Sul piano dottrinale il Concilio operò una netta chiusura nei confronti del protestantesimo: la Chiesa di Roma si propose come unica interprete delle Sacre Scritture: fu affermato il principio della salvezza per mezzo non solo della fede ma anche delle opere, condannando la tesi luterana della “sola fide”, venne ribadito il libero arbitrio dell’uomo, fu stabilito il numero dei sacramenti (sette) e la loro efficacia non solo simbolica, venne decretato l’obbligo di residenza per i preti e i vescovi, affidando a quest’ultimi la totale responsabilità sulla propria diocesi, con l’obbligo di visitarla, venne riformata la predicazione, fu proibito il cumulo dei benefici, vennero creati i seminari per la formazione del clero: sull’esempio di grandi vescovi come Carlo Borromeo a Milano e Francesco di Sales a Ginevra, fu rinnovato l’impegno pastorale delle guide della Chiesa. Vennero anche prese delle misure contro il nepotismo, la simonia, il concubinaggio: complessivamente la Chiesa di Roma uscì rafforzata dal Concilio ed ebbe nel catechismo uno strumento molto importante per la diffusione dell’ortodossia tridentina. A tutto questo si accompagnò un’azione repressiva, che trovò il suo principale strumento nel potenziamento dell’Inquisizione Romana o Congregazione del Sant’Uffizio, tra le vittime più celebri si ricordano: Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei. L’intento di riforma del Cattolicesimo si espresse anche attraverso i nuovi ordini religiosi e in questo la Chiesa ebbe come principale strumento la Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola, su una struttura rigorosamente gerarchica, su una rigida obbedienza e sulla notevole preparazione culturale dei suoi membri, i quali riservarono grande attenzione all’istruzione, di cui presto detennero il monopolio. La divisione in seno alle Chiese cattolica, luterana e calvinista fu profonda e tale da sentire la necessità di sottolineare i loro elementi distintivi, nacque così il “confessionalismo”, ossia quella tendenza a subordinare le scelte e le decisioni politiche, morali e civili ad una determinata confessione religiosa, che trovò la sua realizzazione nel disciplinamento sociale, cioè nel controllo delle Chiese su tutte le manifestazioni della vita di relazione, con lo scopo di uniformare i comportamenti e concepire nei singoli un atteggiamento di obbedienza. L’intolleranza divenne comune a tutte le Chiese non solo nei confronti delle altre confessioni, ma contro chiunque fosse considerato un “diverso”; dilagò così il fenomeno della caccia alle streghe: decine di migliaia di persone furono mandate a morte in tutta Europa, accusate di stregoneria, con confessioni ottenute sotto tortura, la psicosi della stregoneria si diffuse al punto che finì per coinvolgere molti “diversi”, emarginati dalla società che trovavano nella stregoneria un modo di evasione da quella società che li aveva respinti. Oggetto di crudeli persecuzioni furono anche gli Ebrei, i quali vennero confinati in ghetti nei quali erano costretti a risiedere e a portare un segno di riconoscimento; in Spagna, già nel secolo precedente, la riconquista cattolica e l’Inquisizione avevano imposto agli ebrei sefarditi conversioni forzate, dando luogo al fenomeno dei marrani, molti dei quali mantennero le loro tradizioni ancestrali, professandosi pubblicamente cattolici, ma restando fedeli all’ebraismo in privato. Nel 1565, infine, venne stilata la confessione “Professio fidei tridentina”, in contrapposizione a quella luterana di Augusta. Controllo e repressione delle eresie e rinnovamento della vita ecclesiale furono, dunque, le linee guida della Chiesa Cattolica dopo il Concilio di Trento.[10] Concludiamo questa breve e incompleta panoramica del secolo XVI con le parole di Attilio Agnoletto: << Si può dire che quella che si ama definire la “Riforma cattolica” trovi il suo approdo nel Concilio di Trento, che forse è nella storia della Chiesa Cattolica il più importante tra quelli ecumenici sia per le definizioni dogmatichebsia per i decreti di riforma interna. Occorre infatti arrivare al 1869 perché la Chiesa riconvochi un altro concilio. E anche il Concilio Vaticano II, che si è svolto a circa quattro secoli di distanza, non ha certo intaccato la sostanza di decisioni che appaiono irreformabili […]. Se si vuole comprendere il cattolicesimo del mondo moderno bisogna risalire alle decisioni del Concilio Tridentino, che chiusero la porta alla Riforma protestante, ma realizzarono e diedero l’avvio a una riforma cattolica […]. Esaminando, alla luce attuale, gli effetti delle decisioni tridentine, si deve riconoscere che il Tridentino è la chiave di volta di tutto il cattolicesimo fino ai nostri giorni. La sua importanza non consiste solo nel ripudio dogmatico delle istanze della Riforma, ma anche nell’eliminazione di infiniti abusi e nella costituzione di ordinamenti tuttora vigenti. Si potrebbe dire che il Concilio di Trento ha ridato vigore al cattolicesimo, facendone una rinnovata confessione religiosa che si colloca accanto alle altre rampollate dalla Riforma. Ne è nata una Chiesa poderosa, giuridicamente strutturata, dogmaticamente fissata >>.[11]

E’ in questo clima austero della Riforma Cattolica che Francisco de Toledo si trova a Roma e tra i suoi vari uffici c’era anche quello di predicatore. Toledo inizia la sua predica sul Giubileo portando come esempio san Basilio, il quale sostiene, parlando del Salmo 28, che la più grande benedizione che Dio può dare è la pace : <<Pax mentem liberata ab intemperie peccato rum>>. La pace contiene tutte le virtù e tutti i beni, continua il predicatore, non esiste né bene né virtù che non si contenga nella benedizione della pace, perché tutte le virtù sono comprese in tre cose: nel comportarsi bene verso Dio, verso il prossimo e verso noi stessi. Con il concetto di pace inizia, dunque, la spiegazione di Francesco Toledo sull’Anno Santo.[12]

<< Questo e quel che habbiamo nell’Anno Santo et anno di Giubileo Anno di pace, nel qual Iddio ci dà la benedizione di pace di questo Giubileo vorrei trattare quattro cose con brevità perché non basta una né due prediche per poter dire quel che se poteva dire dell’indulgentia et Giubileo. La seconda perché se domanda Giubileo. 3° perché se domanda Anno Santo. Quarta quanto sia l’efficacia del Giubileo. Queste quattro cose trattaremo nella prima et seconda parte: le prime due nella prima, l’altre due nella seconda con la gratia et aiuto di Dio >>. [13]

Il Gesuita, fatta la premessa, inizia col dire: << Quanto al primo che cosa è Giubileo. Giubileo contiene due parti: l’indulgenza plenaria cum relatione vinculorum fori  conscentia . Queste due cose contiene questo nome Giubileo, la prima che è indulgentia plenaria, la seconda ch’oltre d’esser indulgentia plenaria dà la relaxatione et remissione delli vinculi del foro di conscientia. In questo ce controversia con gli heretici, ma non perché parlamo con cathlolici, le diremo in modo che se un catholico, se ben sa, che sono veritade possa intendere come sono et per dichiarare che cosa sia questo Giubileo diremo quattro veritade della Santa Chiesa, quattro fondamenti veri dalli quali se potrà vedere chiaramte che cosa sia quest’indulgenza et Giubileo >>.[14]

La prima verità, sostiene Toledo, è che Dio quando perdona la colpa, non sempre perdona la pena, non sempre perché alcune volte perdona sia la colpa sia la pena come avviene nel Battesimo: l’uomo quando nasce ha in sé il peccato originale, ma nel momento in cui riceve il Battesimo diventa puro e se dovesse morire in quel momento andrebbe subito alla gloria di Dio. La differenza che c’è tra il Battesimo e la penitenza consiste proprio in questo: che con il primo vengono perdonate la colpa e la pena e con la seconda solo la colpa, infatti a colui che fa penitenza gli è perdonata la colpa, ma gli restano le piaghe, le ferite dei peccati. Questo è sostenuto prima da san Teodoreto, poi da sant’Ilario, i quali alludono al Salmo 31: <<Beati quorum remisse sunt iniquitates, Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa, e perdonato il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male e nel cui spirito non è inganno>>,[15] sono molto rare le volte in cui viene perdonato sia la colpa che la pena con la penitenza, almenoché questa non sia veramente molto grande e i peccati molto piccoli. Molte volte Dio perdona la pena per la penitenza, perché il peccato che l’uomo ha fatto merita la pena eterna, ma fecendo grande penitenza, la pena eterna può essere commutata in pena temporale, tutto questo lo troviamo negli scritti dei Padri della Chiesa e nella Sacra Scrittura (2 Libro dei Re: Dixitque Nathan ad David: Dominus quoque transtulit peccatum tuum: non morieris). Stessa cosa dice Sat’Agostino nel “De peccatorum meriti sed remissione”, lib. II, cap. XXIV, il quale cita queste parole e dice che Dio perdonò a David la pena eterna e gli dette quella temporale, così anche San Gregorio. Giustino martire, in “Quaestinibus ad responsiones gentilium”, racconta che Giosia, re di Gerusalemme, fu un re pio e osservante delle Leggi, e i “Gentili” gli chiesero perché Dio permise che un uomo probo come Giosia fosse ammazzato dal re d’Egitto, Giustino rispose loro che egli si era reso reo di disubbidienza verso il profeta Geremia, ma poi comportandosi molto bene, Dio gli commutò la pena eterna in quella temporale, consistente nell’essere ucciso in battaglia dal faraone egiziano.[16] Toledo porta anche l’esempio di Maria (Miriam), sorella di Mosè, la quale rimproverò il fratello per avere contratto matrimonio con una donna madianita e per questo fu colpita dalla lebbra anziché dalla pena eterna.[17] Il predicatore, portando anche altri esempi conclude dicendo di avere dimostrato come Dio quando perdona la colpa non sempre perdona la pena, <<…et di questo fondamento seguitano necessariamente tre veritade principalissime della Chiesa Catholica di qua se seguita che ce purgatorio, perché come si da che ce pena non essendo colpa è necessario che se dia il purgatorio, nel quale se sodisfacia alla pena che è obligato prima d’intrare nel Cielo di quasi seguita anchora la sodisfatione et la giustificazione >>.[18]

Il secondo fondamento, continua Toledo, <<…è che gli giusti comunicano li suoi meriti con gl’altri huomini>>.[19] Questo significa, secondo il Gesuita, che <<…alcuni giusti havendo pochissimi peccati fecero gran penitentia molto maggiore di quel che era necessario per gli suoi peccati et questi meriti che avanzavano alli giusti fanno profitto a gli altri, che non hanno tanti meriti…>>. Ma nel giorno del Giudizio Universale  <<…non ci saranno più meriti dei giusti che ci possano giovare, adesso sì che ci giovano l’opere et meriti che avanzano alli Santi…>>.[20]

Il terzo fondamento <<…è che nella Chiesa furono et sono anchora hoggi di alcuni giusti, che patirono molte tribulationi et afflittioni più di quel che era di bisogno…>>,[21] portando come esempio Giobbe, il cui nome significa “perseguitato”, infatti il Patriarca rappresenta l’immagine del giusto la cui fede è messa alla prova da parte di Dio, Giobbe sopporta tutte queste prove con rassegnazione, perché capisce che non bisogna giudicare l’operato divino con la mentalità umana, divenendo in tal modo l’antinomia del giusto che subisce senza avere colpe e l’iniquo che invece progredisce; Giobbe rappresenta la metafora della giustizia che dovrebbe percuotere il malvagio e assolvere colui che opera il bene. San Paolo dice, prosegue Toledo, che <<…Christo due volte ci ha redento: la prima volta per se stesso quando lui medemo (sic) morì et sparse il suo sangue per noi, et questa fu la vera redenzione. La seconda volta per gli suoi membri Christo per la sua morte liberò l’huomo della colpa con li suoi membri lo libera della pena et perciò dice S. Paulo: “Io che sono membro di Christo adimpleo ea que sunt passionum Christi, patendo molto di più di quel che ho di bisogno per me, ma li patisco per gl’altri, acciché possa avanzare a gl’altri che hanno di bisogno. A talché la Chiesa ha quest’avanzo , questo cumulo delli meriti delli giusti et questo è il tesoro della Chiesa”>>.[22] Il quarto fondamento <<…è che ce potestà di spartir questo thesauro, che bella cosa saria che ci fusse il thesauro et non ce fusse chiave per poter aprirlo. Nostro Signore non le fa le cose in questo modo, ha dato il thesoro alla Chiesa et gli ha dato anchora la potestà>>.[23]

Il papa,vicario di Cristo, ha la potestà di aprire questo tesoro, <<…due cose possono impedire che alchuno non entri nel cielo: la colpa et la pena, qualsivoglia di queste due cose che l’huomo habbia non può entrare nel cielo, ma il Vicario di Christo ha le chiavi del regno del cielo et perciò può liberare di queste due cose, ha il thesoro et ha la chiave per aprirle et ha la potestà di spartirlo del modo che vorrà>>.[24]  Prima di parlare dell’indulgenza, continua il predicatore, vuole mettere in luce quello che ha detto San Tommaso, cioè che nell’indulgenza ci sono comprese la giustizia e la misericordia: <<…ha giustitia perché ce paga et sodisfattione et ha misericordia perché se ben sodisfa non sodisfa con li suoi meriti, ma con li meriti degl’altri…>>.[25] Toledo si spiega meglio portando uno dei tanti esempi di cui si serve in tutte le sue prediche, dicendo che è come un uomo che viene incarcerato e un altro paga mille scudi al giudice perché liberi quell’uomo, questa libertà sarebbe frutto della giustizia e della misericordia: giustizia perché è liberato dalla pena, ma ha pagato per ottenere la libertà; misericordia in quanto sono gli altri, mossi dalla misericordia, che pagano per riscattare la pena. Ora si può capire, sostiene Toledo, che cosa sia l’indulgenza plenaria: aprire la Porta Santa affinché tutti possano godere di quei meriti che sono “avanzati” ai santi. <<Ecco dechiarata la prima parte del Guibileo, che è indulgentia plenaria. La seconda, cioè Cum relaxatione vinculorum fori conscientia […] sia anchora la remissione de vinculi del foro di conscientia dia se licentia alli confessori che possono assolvere di tutti gli peccati et che non sia necessario andare dal Pontefice…>>.[26]

Dopo avere esaminato che cosa sia il “Giubileo”, Toledo passa a spiegare “…perché sia domandato Giubileo…” e rifacendosi al Vecchio Testamento (Lev. XXII) spiega la derivazione e il significato del termine, dice che Dio comandava che ogni cinquanta anni venisse celebrato un anno in cui le terre non dovevano essere seminate, le case tornassero ai loro padroni, gli schiavi liberati e perdonati tutti i delitti. <<…et quest’anno comandava Iddio, che se chiamasse Jovel. Questa parolla Jovel nel hebraico significa castrato […] Joval significa colui che governava gli Castrati. Non pensate che voglia dire qualche cosa di grammaticha, ma dechiararò questo perché ha gran misterio di modo che Jovel significa il Castrato […] questo castrato è quello (Genes. XXII) quando Abramo voleva sacrificare il figliolo Isac apparvoli un Castrato che fu sacrificato in luoco di Isac et questo Castrato è Christo, che fu poi sacrificato per Isac per tutto il mondo […] ma guardi quanta differenza c’era di quest’anno di Giudei al nostro, perché quell’anno era figura di questo et questo si vede chiara che è figura, perché Iddio comandò che fusse chiamato Anno Santo, ma che santità haveva: non haveva santità quell’anno, tutto era cosa temporale, ma se domandava anno santo, perché doveva essere figura di questo nostro anno, il quale è veramente santo>>.[27] Il Gesuita ribadisce il concetto di temporalità delle cose alludendo alla terra, alle proprietà, agli schiavi, ai debiti, perché cose materiali e temporali, mentre nel Giubileo cristiano tutto si riferisce alla spiritualità. L’anno dei Giudei, inoltre, giovava ad alcuni, come ad esempio agli schiavi che venivano liberati, ma non conveniva ai padroni che perdevano gli schiavi; era efficace per la terra che diventava più fertile, ma non ai padroni dei terreni che non ricevevano i  frutti. L’Anno Santo cristiano, continua Toledo, è favorevole per tutti e non nuoce a nessuno. Altri fanno derivare il termine Giubileo dal verbo latino “iubilo”, <<…che questo verbo significa il canto che se soleva fare in segno di vittoria et triumpho…>>, ma sono i cristiani che <<…possono giubilare et allegrarse, perché noi habbiamo havuto il Castrato nostro Signore che sé sacrificato per noi […]perché habbiamo havuto la vittoria et habbiamo havuto il vero Jovel Christo Nostro Signore. Habbiamo visto che cosa è Giubileo et perché sia detto Giubileo fermamoci et diremo quattro parole nella seconda parte>>.[28]

Come già annunciato all’inizio della predica, nella seconda parte Francesco Toledo parlerà del perché il Giubileo si chiama anche Anno Santo, poi spiegherà quanto esso sia efficace.

<<Anno Santo è questo che habbiamo detto, questo anno del Giubileo se domanda anchora Anno Santo. Anno nel quale se concede questo Giubileo s’apreno le porte sante, non che sia necessario per il Guibileo aprire le porte, ma se apprino in segno che quest’anno sta aperto il thesoro della Chiesa se dà il Giubileo et indulgentia plenaria quest’aprire le porte sante in quest’anno è come quello che faceva Ezechiel 46, che comandava  Iddio, che stesse sempre serrata una porta, la quale se dovesse aprire il sabbato in segno di festa s’apriva la porta, che guardava all’Oriente>>,[29] Toledo si riferisce al passo di Ezechiele 46 in cui troviamo: <<La porta del cortile interno che guarda a est resterà chiusa durante i sei giorni di lavoro; ma sarà aperta il giorno di sabato e sarà pure aperta il giorno dei noviluni>>. La porta aveva il compito di essere aperta per sei giorni della settimana e di rimanere chiusa il settimo, cioè il sabato, questo riutuale aveva lo scopo di ricordare che nel primo libro della Bibbia, Dio si riposò il settimo giorno dopo avere compiuto l’opera della creazione e decise di consacrare questo giorno (sabato) con lo scopo di benedire l’intera creazione e le sue creature intelligenti potevano, in questo giorno, adorare Cului che le aveava create.[30] <<…così tutto questo tempo sta serrata una porta, la quale se apre la porta aurea, la Porta Santa in segno che sta aperto il thesoro della Chiesa et vengono a Roma tutti a guadagnar questo Giubileo et indulgentia plenaria, così anchora si vede che comandava Iddio, che tutti gli giudei anchora quelli che stavano fuora della terra di promissione venissero tre volte all’anno a Gierusalemme, così anchora la Chiesa ha ordinato quest’Anno Santo, nel quale vengono tutti li cristiani di tutte le nattioni a Roma a guadagnare quest’indulgentia et questo Giubileo è cosa antiquissima nella Chiesa, sempre mai se ha fatto questo et se ha havuto per tradizione, perché è cosa antiquissima, che quello di Bonifacio sono trecento anni non è che lui ordenasse quest’Anno Santo, ma confermò quel che ab antiquo se soleva fare et così dice accepissimus per traditionem maiorum et per consuetudine se ha sempre osservato questo nella Chiesa se ben non sta scritto, perché non pèossono stare scritte tutte le cose>>.[31]

Bonifacio VIII, per giustificare l’indizione del Giubileo si rimette a documenti antichi degni di fede, in mancanza di una reale documentazione.[32]

<< Basta che ci sia la consuetudine et tradizione, come è questa del Giubileo, che  sempre mai se ha fatto ancoraché nel medesimo tempo o lo faciamo in 60 o in 50 anni questo non importa, perché il Pontefice et Vescovo romano ha potestà di concederlo quando vorrà […], ma dirà alchuno: “ Padre questo Giubileo è differente di quelli li quali suol concedere?”. Il papa alchune volte nell’anno ha niente di più questo Giubileo di quelli! Vi dirò per dire il vero anticamente non se solevano concedere tante volte indulgentie plenarie non so come dire questo non se soleva concedere così (c. 266v) facilmente il Giubileo. Quelli Giubilei che se concedono alchune volte sono come questo, quelli giubileo sono robati a quest’anno, perché di quest’anno è proprio il Giubileo et quando alchune volte li pontefici concedono alchuno Giubileo fuora di quest’ anno lo pigliano a quest’anno, ma lo fanno con raggione et cause urgenti, ma in sé quel Giubileo non differisce da questo, è il medesimo solo differisce nelle cause, quelli giubilei sono concessi per diverse cause, perché quali è concesso questo Giubileo del Anno Santo dirò brevemente tre cause per le quali è concesso questo Giubileo et volse Dio che sapendo noi le cause le volessimo essequire, perché all’hora ci apparecchiassimo bene per guadagnare il Giubileo>>. [33]

La prima causa<<… perché se fa quest’Anno Santo, nel quale hanno ordinato li pontefici che venghino a Roma tutti gli Christiani non per guadagno, come dicono gli heretici, ma per guadagno dell’anime, acciocché vengano a guadagnare questa indulgentia plenaria. La prima causa, dunque, è acciocché tutti gli cristiani, che per essere di diverse nationi stanno separtati, qui s’uniscano insieme et si faccia la vera unione cristiana: Sanctorum Communionem si ha ordinato che sia un anno santo nel quale vengano a Roma l’Alamani, li Spagnuoli, gl’Ittaliani et tutti gl’altri et qui in Roma se conoscano, s’uniscano et se faccia una vera et fraterna unione di tutti i membri della Chiesa, che stanno divisi per diverse provincie: chi sta in Polonia, chi in Francia, chi in Sopagna, chi in Ittalia, venga un anno nel qual tutti se congregano in Roma et s’uniscono>>.[34]

La seconda causa<<… è acciocché tutti gli Catholici riconoscano un capo, che tutti vengano a Roma a conoscere il suo capo che è il Vicario di Christo il Vescovo romano non qual se voglia vescovo è capo universal, ma il capo universale è solo il Vescovo romano et in questo Anno Santo vengono sì a conoscere il suo capo del quale sono membri. Il che è necessario dice san Cipriano lib. IIII epis. IX che tutte l’heresie se causano di questo di non volere riconoscere un capo et perciò è molto necessario che tutti gli Cattolici riconoscano il suo capo et perciò vengano a Roma, dove sta il Vicario di Christo, che è capo universale di tutta la Chiesa. In Roma sta la sua sedia et se ben ad tempus li pontefici stanno fuora di Roma nondimeno in Roma sta la sua sedia, perché sono vescovi romani, vescovi lateranenses et quando li pape stavano in Avignone anchora se veniva a Roma, perché in Roma stava la sedia et però procurono che se tornasse a Roma.[35]

La terza causa <<…per mostrare la gratitudine, essendo che gli Catholici hanno la fede et tutto il bene di Roma è bene che vengano alchune volte a vedere dove nasce tanto bene et che vengano a mostrarci grato a San Pietro et Santo Paulo, dalli quali hanno havuto tanto bene, dice sant’Agostino sopra il psalm LIIII dice bene come che lui è che la chiesa è rigata col sangue di san Pietro et san Paulo sparsero. Il suo sangue rigarono questa terra, la fecero crescere, adunque bisogna che gli siamo grati et che veniamo alchuna volta a mostrargli la nostra gratitudine, volendo vedere da chi riceviamo tanto bene. S’un huomo havesse un campo al qual venisse un canal d’acqua d’alchun fonte che rigasse quel campo et gli facesse crescere il grano et il frutto, che cosa saria che non venisse voglia alchuna volta a quest’huomo d’andare a veder di dove gli veniva quell’acqua, così di Roma va il canal d’acqua che riga la Chiesa et fa dar il frutto a tutta la Chiesa è raggione che alchuna volta vengano a mostrare la sua gratitudine et vengano a vedere il fonte dal quale mena quel canal. Vengono a veder Roma, dove fu sparso il sangue di san Pietro et san Paulo et di tant’altri martiri, perché se ben in altre parti del mondo ci furono anchora molti martiri, non dimeno in nissuna furono tanti martiri come in Roma. […] a talché per queste tre cause hanno ordinato che se venga un anno a Roma a guadagnare il Giubileo, le quali tre cause in nessun tempo furono tante necessarie come sono ad esso e adesso molto necessaria la prima causa, cioè l’unione di Catholici, perché sono tanto divisi et segnar da tanto a dire o Polaco, o Alemano, o Spagnuolo, o Ittaliano non se dovrebbe guardare il Paese del quale sono, ma che tutti sono cristiani et che debbono esser vinti con vera unione fraterna e molto necessaria anchora in questo tempo. La seconda causa, cioè che tutti riconoscano per  universal capo il Vescovo romano, perché sono adesso tanto pochi che lo vogliono riconoscere per capo, ma molti lo negano et non vogliono tenerlo per capo et anchora. E’ anchora necessaria la terza causa, cioè la gratitudine a san Piretro et san Paulo massime in questo tempo che se ritrovano tanti che non hanno questa gratitudine.[36]

Le cause per cui era stato indetto un Anno Santo non erano molto diverse da quelle di oggi: nel secolo XVI c’erano stati fatti che avevano sconvolto tutta l’Europa, avvenimenti che avevano portato cambiamenti radicali specialmente nell’ambito religioso e nella Chiesa Cattolica, infatti, quando padre Toledo dice che i cristiani sono divisi tra loro e molti non riconoscono più come capo supremo del Cristianesimo il Pontefice, si riferisce alle conseguenze scaturite dalla Riforma Protestante ed anche a quello che, nel corso di secoli, si era verificato nella Chiesa (eresie, mondanizzazione e comportamento del clero etc.), quando parla di un incontro di tutti i cristiani a Roma indipendentemente dalla loro nazionalità, allude non solo alla fraternità, ma anche e soprattutto ad un dialogo interreligioso che unisca tutti gli uomini in un afflato fraterno: tutto questo rende la predica di Toledo estremamente attuale, il termine “misericordia”, che deriva dal latino “misericors” e da “misereor (ho pietà) e cor-cordis (cuore) e significa sentimento di compassione per l’infelicità altrui, che spinge ad alleviarla, che muove a soccorrere a perdonare: “Dio perdona tante cose, per un’ opera di misericordia”, sono le parole che Manzoni dice per bocca di Lucia all’Innominato per ben due volte, nel XXI capitolo dei “Promessi Sposi”, parole che ci trasmettono una grande verità e consapevolezza di essere oggi spettatori di un tempo in cui le guerre si succedono alle guerre, gli attentati terroristici uccidono persone innocenti, la disperazione crescente, il nichilismo, il disprezzo, l’abbandono, l’indifferenza: è questo il “panorama” che ci circonda. La misericordia è lo straripare di questi sentimenti in un atto di soccorso, in un aiuto concreto rivolto al soggetto che suscita pietà, quindi non esiste una misericordia intima che rimane rimane ferma e nascosta.

<<La quarta et ultima cosa che dobbiamo vedere è l’afficacia del Giubileo. Il che faremo molto  brevemente, perché non ce tempo. Primamente che viene a Roma a guadagnare quest’indulgentia fa atto di fede , perché crede che ci è questo thesoro et che la Chiesa ha potestà d’aprir. Lo secondo in questo Giubileo s’essercita la charità, perché s’uniscono gli fratelli insieme et fanno l’unione cristiana. Terzo si mostra la gratitudine che si ha verso la Chiesa et san Pietro et san Paulo et gli altri santi. Quarto si fa atto di religione perché chi viene a guadagnare quest’indulgentia honora li santi dalli quali avanzarano li meriti per li quali gli è concessa quest’indulgentia. Quinto se perdona la coilpa, perché chi viene a guadagnare iul Giubileo se confessa et se dà auttorità alli confessori di poter assolvere. Sexto se perdona la poena per li meriti di san Pietro et san Paulo et degl’altri santi. Settima se ha la pace et questa è una gran cosa perché s’haveremo questa pace sarà il maggiore essercito che potrà esser contra il Turco, perché confessandosi bene ci è perdonata la colpa et la pena eterna se muta in poena temporale, ma se guadagnamo quest’indulgentia plenaria sa disfaremo per quella poena temporale con li martiri delli santi et così non ci sarà che castigare in noi poiché habbiamo sodisfato per la poena temporale, che miritavamo dopo che ci fu perdonata l’eterna. Ottavo con questo se provocano li santi a pregare a Dio per noi, perché quando veniamo a Roma a guadagnare questo Giubileo quel che facciamo a mettere inanzi a Dio il sangue et meriti di san Pietro et san Paulo et degl’altri santi et loro vedendo questo, diranno Signore perdonategli per amore nostro, per quel che noi habbiamo patito et così provochiamo li santi a pregare a Dio per noi. Nono et ultimo con questo se fa gran piacere a Dio, perché non può essere a Dio cosa più grata che Christo e la Maddona con venire a guadagnare quest’indulgentia mettiamo inanzi a Dio il sangue di Christo che bastava per redimere mille miglia di mondi et gli meriti della Maddona che sono tanto grati a Dio a talché faciamo gran piacere a Iddio. Piaccia  a Iddio che faciamo tra le opere che possiamo guadagnare in questo mondo il vero Giubileo et null’altro la vita sempiterna>>.[37]

Per la religione cattolica, ogni volta che un credente offende Dio e disobbedisce ai suoi insegnamenti commette peccato, di cui esistono due diverse categorie: quello originale, commesso da Adamo, che ogni uomo eredita nascendo e che viene cancellato con il sacramento del Battesimo e il peccato attuale, che è quello che viene commesso volontariamente con pensieri, parole, opere ed omissioni, che a sua volta è diviso in peccato mortale e peccato veniale. Il primo è costituito da una grave disubbidienza alla legge divina (bestemmie, stile di vita contrario ai precetti cristiani, la non partecipazione alla liturgia domenicale), con il pentimento e la confessione sacramentale il fedele può riconquistare la grazia di Dio. Anche il peccato veniale consiste nel disubbidire alla legge di Dio, ma senza avvertenza e consenso nell’atto del compimento: il pentimento e le opere buone sono sufficienti per dimostrare il ravvedimento, senza necessità della confessione sacramentale. Peccare significa distaccarsi da Dio con la conseguenza della pena eterna, che si può cancellare con la confessione sacramentale, ma il vero perdono presuppone la purificazione dell’anima mediante una penitenza consistente in una pena temporale, il peccatore, pentito sinceramente, può vedere annullate le conseguenze dei suoi peccati attraverso la dottrina delle indulgenze. Come ha spiegato padre Toledo l’indulgenza consiste in una remissione parziale o totale della pena temporale, che dall’età apostolica al secolo VIII si poteva ottenere mediante le suppliche dei martiri in punto di morte, i quali chiedevano in punto di morte ai vescovi (supplices belli Martyrum) di sgravare i peccatori dalle pene temporali, sollevandoli così dal gravoso percorso della penitenza pubblica per la redenzione dei peccati. Alcuni ottenevano un biglietto di raccomandazione per il vescovo, chiamato “libellum pacis”, che induceva il vescovo stesso, per riguardo verso i martiri, ad abbreviare o condonare la penitenza. Dopo il secolo VIII si attenuò molto la severità delle penitenze, il cui percorso divenne privato, concedendo l’indulgenza a coloro che avevano partecipato alle crociate o intrapreso un pellegrinaggio come nel caso del primo Giubileo. Particolare importanza ebbero le indulgenze delle crociate, concesse a chi andava a combattere contro i mori in Spagna, i Saraceni in Sicilia e i Turchi in Palestina, i papi accordarono la remissione totale della penitenza dovuta per i peccati. Dal XIV al XVI secolo, la Chiesa abusò nella concessione delle indulgenze, s’introdusse la possibilità di ottenerle con offerte di denaro (oblationes), la gente cominciò a pensare che l’indulgenza non liberasse soltanto dalla pena temporale, ma anche dalla colpa e che bastasse comprarla per avere anche la remissione dei peccati.

Nelle tesi sull’efficacia delle indulgenze, Martin Lutero condanna il mercato delle indulgenze, nega la bontà delle stesse, in quanto generano eccessiva fiducia nelle forze dell’uomo e sostiene che il papa può rimettere solo la pena canonica: <<Il papa non vuole né può rimettere alcuna pena fuorché quelle che ha imposte per volontà propria o dei canoni (5). Il papa non può rimettere alcuna colpa se non dichiarando e approvando che è stata rimessa da Dio o rimettendo nei casi a lui riservati, fuori dei quali la colpa rimarrebbe certamente (6). Sbagliano pertanto quei predicatori d’indulgenze, i quali dicono che per le indulgenze papali l’uomo è sciolto e salvato da ogni pena (21). I perdoni apostolici devono essere predicati con prudenza, perché il popolo non intenda erroneamente che essi sono preferibili a tutte le altre buone opere di carità (41). Si deve insegnare ai cristiani che è meglio dare a un povero o fare un prestito a un bisognoso che non acquistare indulgenze (43). Poiché la carità cresce con le opere di carità e fa l’uomo migliore, mentre con le indulgenze non diventa migliuore ma solo più libero dalla pena (44). Vero tesoro della Chiesa di Cristo è il sacrosanto Vangelo, gloria e grazia di Dio (62). Ma questo tesoro è a ragione odiosissimo perché dei primi fa gli ultimi (63)”. Ma il tesoro delle indulgenze è a ragione gratissimo perché degli ultimi fa i primi (64).[38] Per ciò che riguarda le anime dei defunti Lutero si esprime con queste parole: <<…perché il papa non vuota il purgatorio a motivo della santissima carità e della somma necessità delle anime, che è la ragione più giusta di tutte, quando libera un numero infinito di anime in forza del funestassimo denaro dato per la costruzione della basilica, che è una ragione debolissima? (82)>>.[39]

Proprio questo atteggiamento della Chiesa fu una delle cause che dettero luogo a Martin Lutero di iniziare quella che poi sarà chiamata Riforma Protestante (1517). Il Concilio di Trento (1545-1563) fu indetto con lo scopo di tentare una riconciliazione tra la Chiesa Cattolica e quella Protestante e tra le tante leggi emanate ci fu anche quella che proibiva le questue e aboliva la figura dei “quaestores” di indulgenze, quindi vennero corretti gli abusi stabilendo che il tesoro delle indulgenze fosse offerto ai fedeli piamente, santamente e integralmente, <<…ut tandem caeleste hos Ecclesiae thesaurus no ad questum, sed ad pietatem exerceri omnes vere intelligant…>> e solennemente definiva che, col potere delle Chiavi, la Chiesa ha veramente quello di concedere le Sacre Indulgenze.[40]

In accoglimento di voti del Concilio Vaticano II viene emanata, il primo gennaio 1967, da papa Paolo VI la Costituzione Apostolica “Indulgentiarum doctrina et usus”, che approfondì e regolò definitivamente la concessione delle indulgenze, le quali furono poi aggiornate dall’ “Enchiridion indulgentiarum” del 29 giugno 1968, che riduce moltissimo l’elenco di indulgenze, proponendosi di educare allo spirito di preghiera e all’esercizio delle virtù teologali, più che alla ripetizione di formule e pratiche. La Costituzione Apostolica inizia con la seguente affermazione: <<La dottrina e l’uso delle indulgenze, da molti secoli, in vigore nella Chiesa Cattolica, hanno un solido fondamento nella divina rivelazione, la quale, tramandataci dagli apostoli, “progredisce nella chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo>>, mentre <<la chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della divina verità, fino a quando in essa siano portate a compimento le parole di Dio>>. Questo documento dà anche la seguente definizione dell’indulgenza: <<L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale come Ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei Santi>>.[41]

Il 2016 è un anno molto importante per la Chiesa Cattolica, infatti il 13 marzo 2015 papa Francesco annunciò che si sarebbe svolto un Giubileo straordinario della misericordia, l’11 aprile sempre dello stesso anno, nel corso di una funzione religiosa, è stato indetto ufficialmente per mezzo della bolla pontificia “Misericordiae Vultus”, questo Anno Santo ha avuto inizio l’8 dicembre 2015 e si concluderà il 20 novembre 2016. E’ lo stesso Papa Francesco che ci spiega perché ha indetto il Giubileo della Misericordia, dicendo che questo che viviamo non è tempo per la distrazione, ma per restare <<… vigili e risvegliare in noi la capacità di guardare all’essenziale>>. E’ arrivato per la Chiesa il momento <<… di ritrovare il senso della missione che il Signore le ha affidato il giorno di Pasqua: essere segno e strumento della misericordia del Padre>>. Papa Francesco, partendo dalla Risurrezione di Cristo, ha parlato delle tragedie che angosciano attualmente moltissimi fedeli, dicendo che la pace è il bene più grande ed il desiderio di tanti popoli che subiscono violenze e morte perché portano il nome cristiano, sottolineando che <<… San Paolo ci ha ricordato che siamo stati salvati nel mistero della morte e risurrezione del Signore Gesù. Lui è il riconciliatore, che è vivo in mezzo a noi per offrire la via della riconciliazione con Dio e tra i fratelli>> e che nonostante nella vita ci siano difficoltà e sofferenze, non si deve perdere la speranza nella salvezza che Dio ha seminato nei nostri cuori. Papa Francesco continua dicendo che: << La Chiesa, in questo momento di grandi cambiamenti epocali, è chiamata a offrire più fortemente i segni della presenza e della vicinanza di Dio […] è per questo che l’Anno Santo dovrà mantenere vivo il desiderio di saper accogliere i tanti segni della tenerezza che Dio offre al mondo intero e soprattutto a quanti sono nella sofferenza , sono soli e abbandonati, e anche senza speranza di essere perdonati e di sentirsi amati dal Padre>>. Questo sarà un Giubileo durante il quale si potrà sentire in noi una grande gioia, <<…la gioia di essere stati ritrovati da Gesù, che come Buon Pastore è venuto a cercarci perché ci eravamo smarriti. Un Giubileo per percepire il calore del suo amore quando ci carica sulle sue spalle per riportarci alla casa del Padre. Un Anno in cui essere toccati dal Signore Gesù e trasformati dalla sua misericordia, per diventare noi pure testimoni di misericordia. […] perché questo è il tempo della misericordia. E’ il tempo favorevole per curare le ferite, per non stancarci di incontrare quanti sono in attesa di vedere e toccare con mano i segni della vicinanza di Dio, per offrire a tutti la via del perdono e della riconciliazione>>.[42]

Un Giubileo, dunque, adeguato ai fedeli della società odierna, che si svolge in un clima molto diverso, ma in cui i concetti basilari sono gli stessi da quello predicato da Francesco Toledo nel 1575, quando La Chiesa di Roma usciva più potente di prima dal Concilio di Trento e l’atmosfera che si respirava era quella dell’austerità conforme alle nuove norme emanate dal Tridentino; oggi l’uomo vive in una società che ha visto, specialmente negli ultimi decenni, la disfatta di quei valori morali che sono le basi di qualsiasi fede religiosa e che il dialogo interreligioso potrebbe ripristinare e renderli di nuovo attuali. La Chiesa Cattolica, con il Giubileo, ci ricorda che il cammino del cristiano è quello di conversione e di penitenza, che conduce alla misericordia di Dio e degli uomini.

 

 

[1] D. Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto XVIII,  vv. 25-33.

[2] Cfr. D. Alighieri, Divina… cit., Purgatorio, canto II, vv. 94-99.

[3] Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/giubileo_res-866277f7-8baf-dc-8e9d-001635

[4] Ibid.

[5] I. Montanelli-R. Gervaso, Storia d’Italia, Vol. 3, L’Italia dei secoli d’oro. Il Medioevo dal 1250 al 1492., Rizzoli, Milano 1967, https://books.google.it/books?id=aRCJmOOKtsC&hl=it#v=onepage&q&f=false

 

[6] A. Agnoletto, Storia del Cristianesimo, I.P.L., Milano 1981, p. 198. Certamente ciò che scrive Agnoletto deriva da una mentalità e da una visione di storico e non di giornalista (senza nulla togliere) come invece possiamo notare in Montanelli e Gervaso.

[7] Cfr. T.M. Alfani, Istoria degli Anni Santi, Napoli1725; V. Prinzivalli, Gli Anni Santi, Roma 1899; M. Tangheroni, Il Giubileo, origine e storia fino al secolo XIX, in I.D.I.S., Voci per un Dizionario del Pensiero Forte, http://www.alleanzacattolica.org/idis_dpf/voci/g_giubileo_fino_sec_xix.htm).

[8] Cfr. M. Tangheroni, Il Giubileo, origine e storia fino al secolo XIX, in I.D.I.S., Voci per un Dizionario del Pensiero Forte, http://www.alleanzacattolica.org/idis_dpf/voci/g_giubileo_fino_sec_xix.htm

[9] A. Ciaconius, Vitae et res gestae… S.R.E. Cardinalium, IV, Roma 1677; L. Cardarella, Memorie storiche de’ cardinali della Santa Romana Chiesa, 9 vols, Stamperia Pagliarini 1793, VI, 2-7.

 

[10] In questo brevissimo e non esaustivo escursus della storia del secolo XVI, abbiamo evidenziato solo i fatti più rilevanti e finalizzati al presente articolo

[11]A. Agnoletto, Storia del Cristianesiomo cit…, pp. 269-272.

[12] Cfr. Veneranda Biblioteca Ambrosiana (da ora in poi B.A.), Ms. O 232 sup., c. 258 r. Altra predica di Francisco de Toledo si trova presso la Biblioteca Ambrosiana, MS. G 40 inf., cc. 471 r.- 475 r., ma pur trattando lo stesso argomento e gli stessi concetti è molto più sintetica di quella da noi trascritta.

[13] Ibid., c. 258 v.

[14] Ibid.

 

[15] Cfr. Ibid., c. 259 r. Teodoreto nacque a Ciro in Antiochia di Siria nel 392 circa, fu teologo, monaco e scrittore dell’epoca Patristica, forse discepolo di San Giovanni Crisostomo. Nel 423 divenne vescovo di Ciro e iniziò la sua opera per estirpare le eresie praticate nella sua diocesi: il marcionismo e l’arianesimo; fu deposto dalla sua sede episcopale nel 449, per avere difeso Nestorio dalle accuse di Cirillo di Alessandria. Teodoreto rifiutò il teopaschismo, affermando che la morte di Cristo consistette nella separazione dell’anima immortale dal corpo mortale e che la risurrezione riguarda solo il corpo di Cristo non la sua anima o la sua divinità. Morì a Cirro nel 466. Cfr. it.cathopedia.org/wiki/Teodoreto_di_Ciro#Biografia; Francesco Toledo allude forse a Sant’Ilario, di Poitiers? Visto che tra le sue opere troviamo anche un “Tractatus super psalmorum”, il quale nacque a Poitiers nel 315 circa e mori nello stesso luogo nel 376, ma Toledo insiste dicendo che prima viene detto da Teodoreto, ciò farebbe supporre che si tratti invece di Ilario di Arles nato nel 401 e morto nel 449 nella città provenzale, poiché se il santo di Ciro lo ha affermato per primo non coincidono le date di nascita e di morte.

[16] Giosia, dicisssettesimo re di Gerusalemme, salì sul trono a soli otto anni e regnò per 31 anni (dal 639 al 608). Aveva circa 12 anni quando cercò di purificare il regno dai culti idolatrici, più avanti, nel 621, il ritrovamento nel Tempio di Gerusalemme del “Libro della Legge” lo spinse a una profonda riforma sociale-religiosa nel suo regno, nel cui ambito il popolo rinnovò l’alleanza con Yahweh e venne stabilito che i sacrifici prescritti potessero avere luogo solo a Gerusalemme limitando il rischio di culti sincretistici fra la fede di Yahweh e quella di Baal.Questa riforma produsse grandi effetti e lodi nella Bibbia al suo iniziatore, anche se non riuscì a sradicare tutto il male attecchito nel popolo. Morì nel 609 a.C. per le ferite ricevute in battaglia contro il faraone d’Egitto Nechao II, che attraversava attraversava la Palestina per invadere la Babilonia. Cfr. Secondo Libro dei Re 22-23, 35; Secondo libro delle Cronache 34-35; Secondo Libro dei Re 23,4-16; A. K. Grayrson, Assyrian and babilonian chronicles, 1975, 96, 11.66-69.; B.A. Ms. O 232 sup. c. 260r.

[17] Cfr. Numeri, XII.

[18] B. A., Ms. cit.,c. 261 r.

[19] Ibid.

[20] Ibid.

[21] Ibid., c. 262 r.

[22] Ibid., c. 263 r.

[23] Ibid.

[24] Ibid.

[25] Ibid.

[26] Ibid., cc. 263v- 264 r.

[27] Ibid., c. 264 r.

[28] Ibid., cc. 264r. e v, 265 r.

[29] Ibid., c. 265 v.

[30] Cfr., Genesi 2,2-3.

[31] Ibid., c. 266 r.

[32] Cfr., Bonifacio VIII, Bolla pontificia 22 febbraio 1300. http://didattica.uniroma2.it/assets/uploads/corsi/33398/Antiquorum_habet_immagine.JPG. Bonifacio VIII approfittò di questo evento per escludere vari nemici dall’elenco di coloro che potevano ottenere l’indulgenza come i cristiani che negoziavano con i musulmani; il re Federico di Sicilia, il quale occupava il regno contro il volere della Chiesa; alcuni membri della famiglia Colonna e i loro sostenitori, fino a quando non si fossero sottonessi alla Santa Sede, insomma il Giubileo fu anche una buona occasione per Bonifacio per consolidare il potere del papato.

 

[33] Ibid., c. 266 v.

[34] Ibid., c. 367 r.

[35] Ibid., c. 367 v.

[36] Ibid., c. 368 r.

[37] Ibid., cc. 268 v.-269 r.

[38] A. Agnoletto, Storia del Cristianesimo… cit., pp. 259-267. Abbiamo riportato le tesi di Lutero che ci sono sembrate più significative.

[39] (M. Lutero, Disputa per chiarire l’efficacia delle indulgenze, in W[ormser] A[usgabe], I, pp. 233-238; trad. it. In G. Alberigo, La Riforma protestante, Milano 1959, pp. 50-58).

[40] Affinché tutti possano veramente comprendere che tali tesori celesti della Chiesa vengono dispensati non per trarne guadagno ma per devozione. Conc. Trid. Sess. XXI, De reform., 9.

[41] Paolo Vi, Indulgentiarum doctrina, Roma (San Pietro) 1 gennaio 1967. Digilander.iol.it/magistero/pa6indul.htm

[42] Omelia di papa Francesco, 11 aprile 2015, D. Agasso JR, La Stampa. Vatican Insider Vaticano, http://www.lastampa.it/2015/04/11/vaticanisider/ita/vaticano/il-papa-ecco-perch-ho-indetto-il-giubileo-della-misericordia-zQdlq1boWKTTsO7fzlO/pagina.html

 

 

DOROTEA QUAGLIA: santa o visionaria?

 

saggio di Loredana Fabbri

                                                                       “Multa corpora venerantur

                                                                         in terris quorum anime

                                                                            cruciantur in inferno”

                                                                            Sant’Agostino

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 “ Quanto sia ingiurioso a Dio e alla sua Chiesa e quanto dannoso alla pietà de fedeli il delitto di affetta santità non vi è chi nol sappia, poiché ogni buona morale c’insegna che le virtù finte sono molto peggiori delli vizi noti. Non vi è in vero chi operi più perversamente di quelli che coprendo le proprie malvaggità col manto di simulate virtù si usurpano credito e venerazione. Ciò da noi si concede, ma concedasi ancora dal fisco, che alle volte si prendono degl’abbagli confondendosi la santità non vera colla santità affettata. Ecco due termini diversi, ch’è necessario distinguere in questo giudizio criminale. Ed ecco il punto su cui rivolse la nostra presente diffesa. Parliamo di Dorotea Quaglia  o sia Christina di Gesù , religiosa Terziaria dell’ordine del Carmine e delli suoi direttori spirituali  il padre Giuseppe Antonio da S. Elia del medesimo ordine, il padre Eugenio di Gesù, Carmelitano scalzo e il sacerdote secolare don Urbano Isnardi, priore della chiesa parrocchiale di san Paolo della città d’Asti, tutti carcerati e inquisiti, cioè la prima come rea di santità affettata, e li altri pretesi fomentatori di essa. Premettiamo prima la serie del fatto ritratta dal contesto di tutto il processo circa il corso della vita di detta donna, circa le supposte sue rivelazioni, predizioni, locuzioni di Dio e muovimenti interni e sopra a quanto hanno posto in pratica colla medesima li nominati direttori, poiché di poi passeremo ad esaminare li detti e fatti particolari con dimostrare che fu un mero errore passivo, che illuse detta donna e li suoi inesperti direttori.” [1]

Con queste parole inizia l’arringa dell’avvocato Domenico Cesare Fiorelli, difensore di una donna piemontese nominata “la Santa” e dei suoi padri spirituali.[2] Il 31 agosto del 1719 il Tribunale del Santo Uffizio di Roma aveva disposto la carcerazione di Dorotea Quaglia, terziaria carmelitana, mentre i suoi tre padri spirituali erano stati carcerati il giorno precedente: l’accusa era quella di pretesa affettata santità per la donna e fomentazione di pretesa affettata santità per i detti confessori.[3] Durante il corso dell’interrogatorio, l’inquisita verrà anche accusata di quietismo a causa di certi suoi comportamenti e di una frase trovata scritta da padre Giuseppe Antonio, tra i suoi “appunti” sequestrati durante la perquisizione, concernenti Dorotea e dettati da lei stessa: “La via immobilativa è quando il corpo per virtù mia non può muoversi, perché l’anima allora sta meglio unita con me”. Padre Giuseppe Antonio, che dei tre ecclesiastici è quello che ha avuto più contatto con Dorotea, è anche quello che ha maggiormente creduto in lei, l’ha sostenuta e incoraggiata più degli altri.

La Santa Inquisizione, come aveva posto il suo controllo sulla bestemmia, sui sacrilegi, sulla superstizione, sulla stregoneria, aveva esteso, già da tempo, la sua repressione anche in questo campo, sia con il controllo d’ufficio degli atti relativi ai santi morti, sia con l’eliminazione della “santità viva”. Numerosi sono i casi sia in Italia che nel resto dell’Europa delle così dette “sante vive”, ciò dimostra la popolarità delle manifestazioni taumaturgiche e l’importanza che l’esperienza della santità aveva assunto nella vita sociale. Nella maggior parte dei casi le “sante vive” appartengono a ceti sociali modesti, hanno una scarsa cultura, quando non sono analfabete. Sono molto seguite dai loro confessori che trascrivono e interpretano le loro rivelazioni; riescono ad imporsi all’attenzione di persone importanti sia laiche che ecclesiastiche in virtù dei doni mistici e carismatici.[4] La loro sapienza non deriva né dai libri né dalle scuole, ma direttamente da Dio come dono divino. Sono circondate da gruppi più o meno vasti di persone che credono nelle loro virtù soprannaturali e ricorrono a loro per aiuti o consigli, ma spesso sono anche oggetto di diffidenza in quanto “mulierculae” e quindi più predisposte alle illusioni diaboliche. Caterina da Siena è il modello e il punto di riferimento di gran parte di queste donne, altre invece trovano il loro esempio nella vita della Vergine.

            L’origine sociale modesta di molte di queste donne è spesso la causa del loro mancato stato monacale, anche se spesso l’adesione all’ordine terziario è dovuto alla consapevolezza di avere un importante compito da svolgere nella società e nella chiesa, che non sarebbe stato attuabile da un monastero: da qui l’opzione di molte per la vita mista, ritenuta superiore alla clausura. Con la loro loquacità e capacità di persuasione, riuscivano non solo ad attrarre sostenitori, ma anche i loro padri spirituali: i sacerdoti e il clero regolare si mostrano molto incauti e poco preparati.[5] E’ proprio sull’ingenuità ed inesperienza che si baserà, come vedremo più avanti, la difesa dei confessori della “profetessa” di San Damiano.

 Le regole dettate dai teologi per distinguere la santità “vera” da quella “falsa” si trovano già dal XIV secolo e si basano sulla “discretio spirituum”; agli inquisitori invece viene affidato il compito di demolire la “simulazione”.[6] In pieno secolo XVI le estasi, i digiuni e le profezie sono ancora considerati indizi di santità e solo negli ultimi anni del Cinquecento la finzione di santità entra a far parte dell’ufficio dell’inquisitore.[7] “Riproposto in forme diverse nel ‘600 e ‘700, l’ideale soccombente della santità medievale decade a controideale negli ultimi due decenni del secolo XVI”.[8] Da questo periodo, la simulata santità diviene criterio di repressione ed intenzione di disciplinamento delle superstizioni, prima per opera della Congregazione del Santo Uffizio, poi demandata alla Congregazione dei Riti.[9] Progressivamente la simulata santità diviene per l’autorità ecclesiastica sinonimo di eresia: prima è imbroglio, poi malattia e successivamente eresia.[10]

In un contesto socio-religioso controriformistico si consumarono le vicende, spesso drammatiche, di uomini, ma soprattutto di donne, perché non c’è dubbio che i numerosi processi di affettata santità vedano come protagoniste le donne, accusate di simulazione, le quali erano poste sotto stretta sorveglianza di confessori e superiori soprattutto durante la reclusione in carceri inquisitoriali, statali o tra le mura dei conventi. Il legame che univa il direttore con le donne dirette era di completa fiducia, le devote obbedivano a questa figura che rappresentava l’autorità superiore, in modo incondizionato, senza tenere conto delle gerarchie sociali e familiari.[11]

 Dalla metà circa del secolo XVII, con le riforme di papa Urbano VIII si delinea chiaramente una situazione in cui la santità canonizzata diventa “…un luogo di celebrazione dell’incontro confessionale tra Chiesa e Stato, regolato dall’etichetta e dalla dottrina della ragion di Stato per come era stata definita da Giovanni Botero”.[12] I principi, i nobili, le gerarchie politiche contrastano agli ordini religiosi l’importante compito di appoggiare, favorire, incoraggiare nuovi “casi” di santità e sottoporli all’attenzione della Santa Sede per la canonizzazione. Assistiamo, dunque, ad un tentativo di sacralizzazione del potere laico, che cercava di allargare il proprio orizzonte fino a comprendere la sfera religiosa e rituale, ma l’accanita repressione dei falsi santi è il segno (prova-riscontro-indizio) di una Chiesa capace di influenzare il campo politico, culturale e morale, soprattutto avvalendosi del S. Uffizio, che con il controllo delle esperienze profetiche e mistiche, delle biografie di persone presunte sante, della produzione iconografica, cercò di affermare il suo primato su tutti i livelli della competenza agiografica, con l’appoggio, volente o nolente, dei principi laici.[13]

Dorotea Quaglia nasce a San Damiano, nella diocesi di Asti nel 1678 circa, da Francesco e “Beatrice iugali Quaglia”, famiglia contadina ma benestante.[14] Fin da piccola fu molto incline alla preghiera e disponendo di un altarino nella sua casa, chiamava le sue sorelle e le vicine per recitare le orazioni e quando c’erano dei temporali, anche i suoi genitori si raccoglievano a pregare con gli altri attorno all’altarino pieno di immagini di santi; la madre la faceva pregare soprattutto per le anime del Purgatorio. Fino all’età di dieci anni circa, Dorotea pascolava gli animali del padre e trovandosi, oltre che con le sorelle, anche con altri ragazzi e ragazze, convenne con questi che se l’avessero sentita dire qualche imprecazione o qualcosa di non conveniente l’avrebbero dovuta bastonare. A undici anni smise di pascolare gli animali ed ebbe più tempo per frequentare la chiesa del paese; fu ammessa alla Santa Comunione, che faceva regolarmente una volta al mese. Sia che lavorasse in campagna o che facesse le faccende domestiche, cantava continuamente le litanie ed altre orazioni. Compiuti quindici anni espresse il desiderio al suo confessore di potersi comunicare più spesso; era il tempo in cui “… andavano delli giovani a far l’amore con le sue sorelle e qualcheduno voleva farlo con lei, ma essa vi aveva ripugnanza e molte volte vi voltava le spalle e fugiva da loro e quando non poteva far di meno, perché detti giovani venivano alla stalla, ove essa era con l’altre, si sentiva un interno aborimento ed un gran tedio ed un vivo desiderio di restare senza maritarsi, ma poi era anco combattuta internamente dal pensare come l’avrebbe passata nella sua vecchiaia”.[15] Andava a ballare con le sorelle, non tanto per divertimento ma, soprattutto, per vedere se esse si comportavano bene.

Dorotea racconta che nel paese c’era una donna chiamata Maria Boara, di poco più di trent’anni, con la quale lei dormiva da quando era piccola e che, essendo molto devota, le aveva insegnato a pregare e a fare “l’orazione mentale sopra la passione di Gesù Christo” e quando erano a letto stavano delle ore a parlare di Dio.[16] Quando Dorotea aveva circa diciassette anni, Maria, in tempo di carnevale, la invitò ad andare ad ascoltare una predica a Costigliola, paese non molto lontano da San Damiano, ma quando arrivarono ad attraversare il fiume Tanaro, Dorotea ebbe come la sensazione che qualcuno la tirasse indietro e non volesse che proseguisse nel suo cammino, ma, su insistenza della compagna, arrivarono in paese e quando la ragazza si confessò “ risolvette di non voler più far l’amore, che però essendo dopo ritornati da lei nella sua casa li sudetti giovani essa gli chiese perdono se mai gli avesse detto qualche parola di troppa familiarità e li licenziò tutti protestandosi di non volerne sapere in conto alcuno”.[17] Dorotea sostiene di aver sempre rispettato questa decisione nonostante le imposizioni del padre e dei parenti che volevano che si maritasse, imposizioni che spesso sfociavano in minacce.

 Da allora frequentò più assiduamente i Sacramenti, comunicandosi ogni otto giorni ed anche più spesso. Disse al suo confessore di voler far voto di castità, povertà ed obbedienza; le venne accordato il voto di castità, purché fosse perpetuo e solo il confessore avrebbe potuto scioglierlo, quello di obbedienza avrebbe dovuto essere verso il confessore, non le fu concesso quello di povertà, ma ebbe facoltà di agire in suffragio delle anime del Purgatorio. Cominciò anche a fare penitenze corporali. Nel frattempo si confessava anche da don Francesco Pavarini, il quale era anche suo parente e fin dall’età di quindici anni circa le aveva fatto apprendere il modo di fare l’orazione mentale “sopra la Passione di Gesù Cristo, sopra li quattro Novissimi e li benefizi ricevuti da Dio”,[18] detto sacerdote rimase poi il suo confessore dopo la partenza per un convento di Asti dell’altro religioso. Dorotea non era serena, anzi era molto agitata, perché il primo confessore le aveva proibito “di dire a chi che sia , anche al Pavarino quando si confessava delle sue seccagini ed aridità, essa si trovava in continua aridità, con tentazioni di fede”;[19] quindi si recò a Costigliola per avere il consiglio del vicario, il quale le disse di raccontare tutto a don Pavarino, a cui rinnovò anche i voti già fatti e chiese il permesso di andarsene dalla casa paterna “ad imitazione di Maria sempre Vergine”, ma ciò non le fu accordato.

Dopo la morte dei genitori, Dorotea frequentò ancora di più la chiesa e dopo avere ricevuto la comunione, cominciò “a restare estatica ed immobile per ore”, lo che riferendo essa alli sudetti se ne ridevano con dirgli che era una bagiana. Sentendosi poi ella infervorata di tirar anime a Dio instruiva da 15 citelle nelle cose del Signore”[20] e nella sua stalla faceva venire gente del paese per parlare loro di Dio. I due preti continuarono a ridere delle sue estasi, delle immobilità e delle voci interiori che Dorotea aveva cominciato a sentire dentro se stessa. Un giorno, confessa Dorotea, dopo aver ricevuto il Corpo di Cristo, le parve di sentirsi aprire il petto e “levare il cuore”; dopo alcuni giorni le sembrò di sentire Dio che le diceva che era stato Lui a toglierle il cuore.  Da allora la donna si sentì il petto più alto dalla parte destra e solo dopo due anni circa sentì il torace che era tornato normale.[21]

Dorotea continua la sua deposizione dicendo che fu chiamata a Pianezza, borgo ad ovest di Torino sulla riva sinistra del Dora Riparia, “per acconciar del lino” e nei due mesi che rimase in quel luogo istruì ragazze ed adulti alla frequentazione dei Sacramenti e all’orazione mentale. Poi fu chiamata nell’ospedale di Chieri, paese ad est di Torino situato sulle pendici della collina di San Giorgio, come aiutante, ma i due confessori non le concessero di andare. Fu allora che le parve di sentire una voce che le diceva che doveva aiutare il conte di Revigliasco,[22] anche se non aveva mai conosciuto questa persona; nel frattempo lavorava come sarta a San Damiano, la Madonna guidava il suo lavoro e le suggeriva che cosa fare, ma tutti i suoi guadagni furono trafugati dai suoi parenti.

Dorotea si trasferì a Magliano, altro borgo vicino al luogo di nascita della ragazza, col permesso dei suoi confessori, a servizio di una signora che lei definì molto fastidiosa ed importuna, dove stette circa un anno, in quel periodo suo confessore fu il prevosto di Magliano. Una notte, durante una sua immobilità, vide quel luogo pieno di demoni che stavano intorno alla signora Porta, questo il cognome della signora presso cui lavorava, e a suo marito Giacomo Francesco, ciascun demonio gettava un laccio al collo della signora a causa dell’odio che provava nei confronti del prevosto, così facendo si sarebbe dannata; ma avvertita da Dorotea, la signora si confessò e dopo le sembrò di sentirsi più leggera, come se si fosse tolta di dosso un grande peso. Un giorno, dopo avere ricevuto la comunione, rimase estatica e vide una stanza piena di “avellane”[23], non riuscendo a capire il significato di ciò, chiese a Dio la spiegazione: erano i peccati mortali che venivano commessi in casa dell’arciprete, dove lui stesso ed altre persone andavano a giocare giorno e notte, anche “ in tempo de divini offici”, quindi Dio la incaricò di avvisare il prete per potersi ravvedere, il quale promise di non giocare più.

Durante la guerra,[24] Dorotea si trovava ancora a San Damiano e temeva che i soldati la violentassero, un giorno la sua casa venne invasa da una squadra di soldati e uno di questi sparò a suo fratello che rimase incolume a causa dell’intercessione della Madonna o delle anime del Purgatorio.  Padre Eugenio, sempre riguardo al periodo della guerra così depone: “…essendo la guerra in Piemonte (Dorotea) consultò più volte il Signore sopra di quello che doveva succedere per prendere le sue misure per la sua verginità già consacrata nel suo cuore a Dio, ne ottenne sempre la risposta che conveniva: I che sarebbono i nemici venuti al suo villaggio; II che vi sarebbon venuti, ma non entrati in sua casa; III che sarebbono entrati ma non avrebbon cercata la sua persona.”[25] Ciò viene considerato dagli inquisitori contraddittorio, i quali sostengono che Dio, che è somma verità, infallibilmente prevede tutto insieme e non in fasi successive.

Quando Dorotea si confessava le sembrava che Gesù Cristo le gettasse addosso il suo preziosissimo sangue per lavarla e dopo ricevuta la comunione sentiva una grande fragranza che le durava fino a quando non mangiava, quindi per prolungare questa sensazione evitava di mangiare e si sentiva sempre più debole, tanto che doveva appoggiarsi alla balaustra dell’altare.[26] La donna digiuna spesso e l’astinenza dal cibo diviene sempre più frequente fino a trarre il proprio nutrimento dall’ostia. Ci troviamo di fronte ad un caso di anoressia nervosa? Conseguenza di un profondo disturbo psicologico, di cui il rifiuto del cibo è l’espressione più evidente. La famiglia della ragazza era di modeste condizioni, ma, per quei tempi, abbastanza agiata, i genitori, specialmente la madre, la incoraggiano a coltivare i suoi impulsi religiosi, partecipando e invitando, come già detto, vicini e conoscenti alle preghiere che Dorotea recitava davanti all’altarino allestito in casa; anche se, più tardi, il padre insisterà molto perché ella si trovi un marito e con il matrimonio condurre una vita più consona ad una ragazza della sua età: apparentemente non esistevano motivi gravi che potevano turbare la psiche della ragazza.

La giovane comincia a fare penitenze e digiuni; è docile, non si lamenta, è pronta ad eseguire ciò che le dicono di fare, ma pretende di dare consigli al papa: questo è uno dei motivi per cui vuole andare a Roma; vuole anche che i padri confessori rendano pubbliche le sue visioni e i colloqui con Dio, insiste per avere sovvenzioni dal re per il suddetto viaggio, infine non si ritiene la “serva” di Cristo, ma la sua sposa, la sua preferita, come vedremo più avanti. Confessa di essere sempre stata trasportata più dall’amore verso Dio che dai giochi infantili, crescendo queste “esigenze” religiose sono aumentate e sono diminuite quelle proprie delle ragazze della sua età, anche se, in un primo tempo non disdegna il rapporto sessuale con giovani occasionali, come facevano anche le sorelle, solo in seguito avrà repulsione verso tale rapporto e per il matrimonio. Dorotea è disposta a tutto pur di compiacere Colui che considera il suo sposo, il dolore, le rinunzie la rendono manzonianamente “santa del suo patir”, ma tutto ciò le dà soddisfazioni e ricompense estreme, che alla fine del processo, con grande umiltà, le faranno accettare tutto quello che gli inquisitori delibereranno per lei.[27]

Sempre durante il suo soggiorno a Magliano, Dorotea colse l’occasione della venuta di un prete esorcista e si fece esorcizzare per essere sicura che quelle voci interiori non provenissero dal Demonio. Tutto risultò negativo.

Quando era il tempo della filatura, la donna era solita andare a Costigliola, presso il parroco che le dava da mangiare e qualcosa per mantenersi, ma quando questa attività divenne scarsa, Dorotea, consigliata dal sacerdote, andò ad Asti in cerca di lavoro, ma non conoscendo la strada, sostiene che fu il Signore ad indicargliela tramite due uomini che trovò sul suo cammino. Giunta in città, andò dal priore Benigno, carmelitano scalzo, da lei precedentemente conosciuto, il quale le procurò il lavoro per circa quaranta giorni. Poi, dietro consiglio del priore, prese in affitto una stanza e si trattenne ad Asti sei mesi ed essendo disoccupata, spesso andava a Costigliola, a Magliano e a San Damiano; questi mesi passano senza che la donna abbia visioni e senza “interne locuzioni” ed ella sostiene di sentirsi internamente travagliata e molto inquieta. Successivamente si recò a San Damiano, ospite di suo fratello ed essendo il periodo di Quaresima, arrivò un padre Gesuita per le predicazioni, il quale le dette la licenza di fare “la disciplina a sangue per due ore, onde si batté con disciplina di ferro sì fortemente che si lacerò tutta dalli parti inferiori”,[28] al punto tale da dover stare a letto ed avere bisogno di medicazioni.

Sia dalla confessione della donna che da quella di padre Giuseppe Antonio ed anche dall’arringa del difensore apprendiamo che il prevosto di San Damiano ricevette una lettera dal conte di Revigliasco, il quale aveva sentito parlare di questa donna e della sua fama di santità (l’arciprete di Magliano la chiamava scherzosamente “la predicona” perché era solita riunire nell’oratorio uomini e donne cui insegnava a pregare), nella lettera il conte pregava di mandargli Dorotea, perché voleva che facesse da “guida” ad una giovane sua protetta che si trovava nel Conservatorio delle Convertite, di cui il nobiluomo era presidente; ma giunta di nuovo ad Asti, Dorotea capì che Mariana, questo il nome della ragazza cui doveva fare da guida, voleva andare in giro per la città e divertirsi, atteggiamento non consono alla vita austera condotta da Dorotea, anzi ella si lamenta col conte perché non aveva più tempo per pregare, quindi le giovani si trasferiscono entrambe nella stanza che Dorotea aveva precedentemente preso in affitto, “ma risaputosi dalla padrona della casa che la Mariana era stata nelle Convertite non ve la volle”.[29] Il conte trovò loro una stanza vicino al Duomo, ma il comportamento di Mariana non era quello adeguato ad una brava ragazza: invitava giovani e soldati, con i quali si intratteneva fino a notte fonda a cantare e invitava Dorotea ad andarsene a letto, pregandola di non riferire niente al conte. Non potendo più tacere, Dorotea parlò al nobiluomo che fece ritornare Mariana dalle Convertite e lasciò lei in quella stanza, dove, ritrovando un poco di tranquillità, una notte ebbe di nuovo “l’immobilità”, ma così a lungo che il conte, il giorno dopo, la trovò ancora a letto senza avere mangiato, così le disse di trasferirsi nella sua casa, “che ivi gli avrebbe portato da mangiare la serva, ma di nascosto dalla contessa e che esso avrebbe proveduto i denari per comprare la robba e farla muovere nella sua cucina”.[30] Nel frattempo Dorotea aveva conosciuto padre Giuseppe Antonio che divenne il suo nuovo confessore. Veniamo a conoscenza di questo dalla deposizione di questo teste, che coincide sempre con quelle degli altri due padri e con quella di Dorotea, ad eccezione di alcuni particolari non rilevanti.

 In tal modo la donna fu ospite nel palazzo del conte Roero Sanseverino di Revigliasco: Dorotea fece sapere al nobile che il Signore voleva che ella fosse ospitata in una stanza del palazzo, “…che poi Iddio gli avrebbe dato un’altra stanza a lui in cielo”.[31] Così fece il conte, il quale, anche senza il volere divino, era già disponibile ad ospitare Dorotea, pur se di nascosto alla contessa sua moglie, provvedendo al suo sostentamento e pregò padre Eugenio di assumere la direzione della donna. Un giorno, quando una domestica andò a portare a Dorotea del cibo, la trovò immobile nel suo letto, fu avvertito il conte, che constatò personalmente questa immobilità a cui ne seguirono molte altre, il confessore pregò il conte di riferire tutto quello che accadeva alla donna e lei stessa raccontava al padre le sue visioni e i suoi colloqui con Dio: il religioso annotava scrupolosamente tutto.

 Dorotea fu mandata a Revigliasco, feudo del conte, per essere osservata meglio dal prevosto di quel luogo, ma dopo poco tempo il nobile si ammalò e la donna ritornò ad Asti per assisterlo: dopo quattro mesi l’uomo morì e durante questo tempo Dorotea non ebbe quasi mai delle immobilità. Dopo la morte del conte Alberto, l’erede Giovanni Tommaso, fratello del defunto, “diede alla Dorotea l’incombenza di governante della lingeria”.[32] La donna ricominciò ad avere le immobilità, specialmente quando si trovava in chiesa, che duravano circa un’ora, mentre quelle più lunghe le aveva a letto durante la notte e potevano durare anche fino alla mattina, Dorotea sostiene che Dio le aveva detto che avrebbe potuto fare l’orazione della mattina a letto, perché in seguito ad una caduta non poteva stare in ginocchio. Anche durante la giornata aveva queste immobilità, “…o si trovasse a sedere su una cadrega o in piedi…”,[33] ma erano di breve durata. Il nuovo conte e altri preti cercano di distogliere la donna da queste convinzioni, anche con parole dure e offensive, ma lei insiste a raccontare ciò che vede e quello che Dio le dice durante i loro colloqui, padre Giuseppe Antonio annota scrupolosamente tutto ed è colui che crede e “incoraggia” Dorotea più degli altri. Tra i suoi appunti scrive anche che il Signore dice all’imputata: “Chi sei tu? E poi tu sei Cristina di Gesù et io Gesù di Cristina, sai quello che voglion dire queste parole, vogliono dire che siccome io ho patito, così tu devi anche patire…”,[34] per effettuare la seconda redenzione per redimere gli uomini dai peccati; quindi Dio avrebbe incaricato la donna di svolgere un compito non solo arduo, ma che era stato compiuto da Dio stesso incarnandosi nel Figlio. Queste parole suscitano molto sdegno negli astanti al processo e padre Giuseppe Antonio ammette che se avesse riflettuto non avrebbe scritto cose del genere, ammette anche di essersi ingannato, ma insiste nel dire che Dorotea non gli ha riferito ciò per malizia, ma perché ingannata dal Maligno o dalla sua fantasia ed anche lui stesso chiede perdono ai giudici del Santo Uffizio perché se ha sbagliato a scrivere tutto questo, lo ha fatto in buona fede e ingannato dal Demonio, non ha avuto la capacità di discernere la verità dall’inganno, però, sostiene che anche il priore Isnardi annotava tutto quello che la donna gli raccontava, avendo visto lui stesso un libretto con dette annotazioni.[35]

La testimonianza sfocia nel fanatismo quando Dorotea racconta al suo confessore che Dio le dice di aver “cavato” il proprio cuore dal petto per farglielo ammirare, poi tolse quello della donna con grande dolore come se le avesse rotto un osso del petto che poi le rimise al posto, dandole i titoli di sua sposa, sua diletta, sua regina, le disse: ” Figlia tu mi hai tanto compiacciuto in questi tuoi desideri che io ti dono l’esser di Dio. Dimandami tutte le grazie che brami, ecco metto nelle tue mani le chiavi del Paradiso”.[36] Don Giuseppe Antonio si difende dalle accuse conseguenti a questa frase dicendo che lui non intendeva che Dio volesse dare all’imputata l’autorità concessa a san Pietro, ma che le volesse dare molte grazie. Viene anche tacciato di troppa fantasia e di aver istigato quella della donna nelle sue convinzioni, sostiene anche che dal tempo in cui si trova in carcere sente due voci: quella di Dorotea e quella di padre Eugenio, le sente qualche volta di giorno e altre volte di notte, ma non capisce di che cosa vogliano lamentarsi.[37] Tra i suoi appunti gli inquisitori trovano annotato che la donna desiderava avere “un tesoro” per suffragio delle anime del Purgatorio e Dio l’accontentò facendole avere la statua della Madonna col Bambino eseguita da san Giovanni evangelista, il quale, con un miracolo, convertì il fango con cui era fatta in avorio. Il Signore la fece avere a Dorotea nel seguente modo: la statua, che apparteneva al convento del Carmine di Asti, era alta circa un palmo e fu ritrovata in una camera del convento, insieme a delle reliquie, circa trent’anni prima; passata nelle mani di vari religiosi, ultimamente si trovava presso don Giuseppe Antonio, il quale, con l’approvazione dei suoi superiori, la donò al conte di Revigliasco. Il nobiluomo fece fare nella statua un piccolo foro da sotto, dove collocò frammenti di ossa di santi ed una scheggia del legno della Croce, poi sigillò il foro con la cera. Dorotea aveva visto questa statua quando si trovava nel palazzo del conte, quindi gli disse che il Signore avrebbe avuto piacere che le fosse donata, perché aveva la virtù di liberare le anime dal Purgatorio se si fossero fatte tante croci quanti erano gli anni che quelle dovevano stare in quel luogo; il conte gliela donò e lei riuscì a liberare moltissime anime, le quali prima di salire in Paradiso venivano a ringraziarla. Quando gli inquisitori sostengono che san Giovanni non faceva statue, il prete risponde che ne era consapevole, ma tutto ciò era un miracolo voluto da Dio. Ma dalla deposizione di Dorotea veniamo a conoscenza che era stato don Giuseppe Antonio che le aveva suggerito di chiedere a Dio chi avesse fatto tale statua e la voce interna (Dio) rispose che era stata fatta da san Giovanni, ma non sapeva se si trattasse del Battista o dell’Evangelista, era di terra, ma poi fu miracolosamente tramutata in avorio e le era stata regalata dal conte, il quale l’aveva avuta, in cambio di alcuni libri, dal padre Giuseppe Antonio. Il confessore, quindi, sprona Dorotea a “parlare” e a chiedere spiegazioni a Dio, il Quale, secondo la versione della donna, sembra più umano che divino con le sue incertezze. Sostiene anche che una notte vide molti demoni sotto le spoglie di uomini venuti per romperle le braccia, perché non fosse più in grado di fare quelle croci, liberando le anime purganti, ma una voce disse che sarebbe stato meglio rompere un braccio alla statua e al Bambino che teneva in braccio piuttosto che a lei: al mattino, Dorotea vide che la statua era stata mutilata di un braccio della Madonna ed uno del Bambino. Raccontato l’accaduto al confessore, questo le consigliò di riattaccare le braccia con “lo sputo” e dopo venti giorni circa ricominciò a fare segretamente i segni della Croce per le anime del Purgatorio, sostiene di averli fatti anche a Roma durante il processo per le anime di parenti ed amici del Papa, anzi non è sicura che la voce le abbia detto di farle anche per il padre del papa.

La deposizione di padre Eugenio coincide con quella del primo teste, anche lui sostiene che ciò che Dorotea raccontava non poteva che venire da Dio perché vedeva la donna “in continuo esercizio di virtù”[38], però lui non aveva mai approvato le immobilità e le rivelazioni, nonostante l’avesse vista immobile, ma dice anche di non aver riconosciuto nessuna finzione in lei. Aveva annotato nei suoi scritti che una volta il Signore fece vedere alla donna “…una grande quantità di demoni ed anime dannate e calando giù per una scala stretta vidde un gran pozzo molto largo tutto lastricato di chieriche di sacerdoti, egli disse guarda figlia queste chieriche sono tutte di sacerdoti e quelli che stanno sul fondo di quel pozzo sono parrochi e prelati e dimandandole i peccati da essi commessi, sappi, le disse che i parrochi spendono il sopra più in mantener donne di mala vita, in darlo a parenti et amici e lasciar perire i poveri…”[39]

Durante una delle tante immobilità, Dorotea vide una grande veste che ammantava tutto il mondo, la veste era tutta dipinta con occhi di pernice, lei sentì porsela addosso e il Signore le disse che doveva portarla a Roma al papa, perché facesse penitenza, altrimenti avrebbe mandato flagelli e castighi. Gli occhi di pernice, come l’inquisita sostenne, simboleggiavano i peccati del mondo. Se i suoi padri spirituali non l’avessero accompagnata a Roma, Dio l’avrebbe trasportata in questa città attraverso l’aria, in quanto il suo colloquio col papa avrebbe inciso molto sulla vittoria contro i Turchi.[40]

A questo punto del processo, la personalità della donna subisce un cambiamento: da un atteggiamento altero e sicuro, passa a uno umile e dimesso, Dorotea ha una crisi, piange per la paura di sbagliare a raccontare questi fatti, e quando le viene ricordato il giuramento fatto sul Vangelo, lei sostiene che i fatti narrati possono non essere in ordine cronologico, ma tutti reali. Continua dicendo che ha visto due montagne, una più alta dell’altra e Dio che le spezza in mezzo e le dice che simboleggiano una la difficoltà di parlare di tutto quello che le sta accadendo al re, l’altra la difficoltà di ottenere la licenza per andare a Roma. Il Priore Isnardi, come gli altri, sostiene le buone qualità della donna e racconta come lei abbia insistito perché andasse a parlare col re del viaggio a Roma voluto da Dio. Il priore scrisse al cardinale Sacripanti dicendo che aveva cose importantissime da riferire a Sua Santità. Mentre si preparavano per il viaggio, Dorotea disse ad Isnardi che Dio voleva che venisse informato il re, “…perché voleva che il re si riunisse col papa, per mezzo della qual riunione s’unirebbon assieme i prencipi cristiani e si farebbe l’universal penitenza e riforma de’ costumi, in specie delli ecclesiastici, quale seguita, voleva si andasse contro il Turco e gli avrebbe dato gran vittoria e l’acquisto de’ luoghi santi.”[41] La vigilia di Pentecoste, Dorotea disse al priore di andare subito a prendere l’autorizzazione dal re per il viaggio a Roma , altrimenti “il negozio sarebbe a male, né più sarebbono venuti a Roma, perché i di lui nemici avevano saputo impressionare contro di lui il re”.[42] Arrivato a Roma, Isnardi consegnò le relazioni e le annotazioni dei fatti occorsi alla donna, tra questi c’era anche la relazione circa il miracolo dell’ostia accaduto nel Conservatorio Migliavacca di Asti, che al tempo aveva suscitato molto scalpore, e tanti altri documenti meticolosamente divisi in fascicoli e contraddistinti con le lettere dell’alfabeto; il papa “…si degnò di rispondergli che eran cose di gran conseguenza che si avrebbe parlati in Congregazione del Santo Offizio e che poi andasse dal signor cardinale Sacripante che gli avrebbe detto quello occorreva”.[43] Così cominciarono le perquisizioni delle loro stanze, le requisizioni dei loro scritti e il processo, di cui, purtroppo non conosciamo esplicitamente, come nella maggior parte di questi processi, le sentenze e le condanne comminate agli inquisiti, ma da una frase pronunciata durante l’arringa possiamo dedurre che per i quattro inquisiti non siano state emesse condanne gravi: “Concludiamo dunque che la vita esemplare della donna, il suo parlare di cose di spirito con termini che eccedevano la di lei capacità per essere ignorante e inesperta anche nel leggere, la sua applicazione nell’orazione vocale e mentale, e quei estatici rapimenti e immobilità del corpo misero in opinione gli inquisitori di ben credere del di lei stato spirituale e stimarla favorita da Dio di grazie straordinarie. Sicché se si sono ingannati anche per omissione di quei mezzi necessari per tale discernimento potranno sempre essere scusati da ogni dolo e dalla censura di avere fomentati sentimenti presuntuosi e superbi ed avranno peccato “Peccato negligentie” ma non già peccato heresis”.[44]

     La donna procede col racconto della partenza per Roma, dopo aver avuto il permesso dal re. Lasciata Alessandria, Dorotea e i padri spirituali incontrarono una donna a cavallo “…quale attraversava il calesse dove era ella, né voleva andare avanti, che il priore Isnardi pose la detta donna con lei nel calesse et esso montò sul cavallo. Questa donna quando fu seco in calesse cantava delle canzoni profane e le metteva un braccio al collo, onde essa ne sentiva grande inquietitudine non potendo far orazione. Giunta poi all’ostaria la detta donna trovò un signore su la porta col quale si mise a parlare e la sera voleva andasse a dormire seco, ma essa mai non volle”.[45] La voce interna le disse che quella donna era una strega e il cavallo un diavolo, come pure l’uomo trovato sulla porta dell’osteria e se la strega l’avesse convinta a dormire con lei, l’avrebbe strangolata. Ecco perché Dio aveva voluto che andasse a Roma con i tre religiosi: per proteggerla; arrivati a Genova proseguirono per mare e Dorotea vide un gran numero di demoni legati sulla riva dal Signore perché non impedissero il loro viaggio, mentre Dio le ordinò di recitare il Te Deum e le dette la sua benedizione.[46]

La donna sostiene che, durante i suoi colloqui con Dio, Egli si rivolge a lei dicendole: ”Sei il mio giardino, la mia figlia, la mia sposa” e che ha ricevuto molte grazie, paragonandosi alla Madonna, a Maddalena de’ Pazzi, a Caterina da Siena, a Teresa d’Avila, a Orsola Benincasa e come un angelo annunciò la nascita di Maria Vergine alla madre sant’Anna, così una zingara predisse a sua madre la nascita di una figlia bella come il sole, la donna credette che alludesse alla bellezza fisica e pensò si trattasse di un’altra sua figlia molto bella, invece parlava di Dorotea e della bellezza spirituale che avrebbe posseduto. Tutto questo è avvalorato dalla deposizione di don Giuseppe Antonio.[47]

Racconta, inoltre, che la Madonna la difese dai demoni durante una delle sue immobilità, restandole seduta su un ciglio e che poi, passata l’immobilità, le doleva l’occhio. Le viene chiesto di raccontare il fatto della particola, riportato da padre Giuseppe Antonio nelle sue annotazioni: una mattina, Dorotea mentre si stava comunicando nella chiesa del Carmine di Asti, sente che un frammento dell’ostia consacrata le era rimasto fra le labbra, per non farla cadere e per non toccarla con le dita, prese l’estremità della stoffa che le copriva il capo e con quella cercò di spingere in bocca il frammento, ma restò “…sopra del Zendalo in larghezza d’una piccola lenticchia, quale racchiuse con detto velo nel pugno…” ;[48] la donna andò verso il confessionale e, aperto il pugno, vide quel frammento trasformato in una croce piccola come l’unghia del dito mignolo. Il confessore le disse di chiedere a Dio il significato di questo mistero e il Signore le rispose che Lui era sempre “in corpo et anima” dentro di lei e che si conservava nel suo cuore da una comunione all’altra, inoltre la particola era stata portata dall’arcangelo san Michele. Un’asserzione del genere viene considerata dai giudici una finzione piena di superbia e capziosa.[49]

Viene redarguita più volte ed accusata dai giudicanti di affettata santità, in quanto tutto ciò che ella ha raccontato non può venire da Dio, Dorotea, ripresa piena padronanza di se stessa, risponde sorridendo che

Tutto ciò non la turba affatto, in quanto non sa se l’immobilità venga da Dio o dal Demonio, perché non è in grado di saperne la provenienza, comunque in lei non c’è assolutamente simulazione; sostiene di non avere mai finto e che ha giurato sul Vangelo di dire la verità, possiede una sola anima e sarebbe una pazza a perderla dicendo cose non vere.[50] Dopo avere descritto l’arrivo a Roma, le viene chiesto se sa leggere e scrivere ed ella risponde di avere imparato a leggere da un suo cugino quando aveva circa vent’anni, anche se non speditamente e quando trovava parole in latino non capiva e andava oltre nella lettura; da sola aveva imparato a scrivere anche se a malapena. Aveva letto il “Thomas à Kempis, “Il gioiello spirituale”, “Le strade della salute”,“…ed a San Damiano, in casa sua, qualche scorcio della vita di Caterina da Siena e di s. Dorotea. Ma aver bensì poi sentito a leggere molti libri spirituali e vite di santi mentre nella stalla di casa sua l’inverno ci andavano delle persone a leggere…”[51].

Dorotea viene interrogata sul miracolo occorso al Conservatorio dell’opera Migliavacca, di Asti, ma ella sostiene di sapere poco circa quel luogo, qualche volta ci andava chiamata dalla Madre superiora, sa solo che quell’istituzione “vive d’entrata”. Questo istituto di beneficenza era stato fondato dal vescovo Innocenzo Migliavacca, monaco cistercense milanese, già abate del monastero di Casanova presso Torino, che fu vescovo di Asti dal 1693 al 1714: nel 1712 il prelato fondò questa istituzione per le ragazze desiderose di fare una vita ritirata e solitaria.[52]

Riguardo al miracolo dice di avere visto l’ostia consacrata, alzata dal prete, spaccata e grondante sangue, poi non l’ha più vista; in seguito veniamo a conoscenza che Dorotea non solo non era presente al fatto, ma non ha niente in comune con tutto questo. La testimonianza di padre Giuseppe Antonio coincide con quella della “Santa”, ma il confessore conosceva l’accaduto secondo il racconto della donna, in quanto entrambi non erano presenti. Dalla deposizione di padre Eugenio di Gesù veniamo a conoscenza che quando va a trovare Dorotea, “…la trovò immobile e lei raccontò che Dio aveva fatto il noto miracolo per aiutare la fede nel mondo a sua istanza, perché essa aveva pregato Dio a farlo, che quella mattina successe il miracolo essendo applicata agli uffizi della casa in cui era governante; dimandò al Signore se in vero avesse fatto quel miracolo, Egli rispose di sì, ma che allora non gli voleva dir altro per non disturbarla da’ suoi affari. Il dì seguente poi il Signore gli spiegò i misteri di quel miracolo, conforme lui ha difusamente scritto ne’ quinterni ritrovatili e riconosciuti, a quali si riporta.”[53]

Tutto cominciò il 10 maggio del 1718 tra le “14 e 15 ore”, nessuno dei quattro inquisiti si trovava nel Conservatorio Migliavacca, dove un giovane sacerdote, Giovanni Francesco Scotto stava celebrando la messa. Dalla deposizione del priore Isnardi, molto dettagliata, precisa e non enfatizzata come le altre, specialmente quella del giovane celebrante, veniamo a conoscenza dei fatti: durante la consacrazione, nell’ostia si è prodotta una spaccatura da cui sembra sia uscito del sangue. Il  priore Isnardi fu chiamato dal canonico Argenta che gli disse di andare subito alla cappella dell’opera Migliavacca, dove si recò col prete Vignola, suo vicario e notaio apostolico. Arrivati sul luogo, trovarono sulla porta della cappella i canonici Goria e Vaglio e il notaio e amministratore dell’opera pia Alessandro Ambrosio, entrato dentro, vide all’altare il sacerdote Francesco Antonio Scotto confuso, tremante e bagnato di sudore, “a cornu evangeli c’erano molte figlie del Conservatorio tutte piangenti”[54]. Il priore Isnardi si avvicinò all’altare e vide sopra la patena l’ostia consacrata spaccata: “sicché le parti erano allargate quanto la costa di un cortello, con una linea nel labro di dette parti come di sangue, osservò pure nel calice, alla parte di dentro, una goccia come di sangue che si protraeva contiguo alla specie del vino et al di fuori della coppa quattro goccie come di sangue e sul piede del calice quatro altre simili goccie”.[55] Volle che tutti i sacerdoti presenti osservassero bene il tutto e don Scotto, che non riusciva a reggersi in piedi, disse che ciò era accaduto quando aveva consacrata l’ostia e fatta l’elevazione. “Fece descrivere dal detto Vignola tutto il visum repertum, poi avendo fatto venire il vicario del Santo Offizio coram ipsis esaminò ivi il sacerdote sudetto, che depose qualmente avendo fatta l’elevazione del calice e depostolo sul corporale s’accostò all’altare il procurator Alessandro Ambrosio e gi disse che guardasse bene l’ostia che a lui era sembrata rotta e che allora esso, con l’estremità delle dita, allargò detta ostia e la trovò spaccata”.[56] Il priore Isnardi e il vicario del Santo Uffizio esaminarono con cura il celebrante per vedere se gli era uscito il sangue da qualche parte, controllarono anche il suo fazzoletto, ma trovarono niente. Fecero anche venire tre medici e tre chirurghi, “che visitarono il detto come sangue e lo testificarono come in processo”.[57] Il vicario interrogò anche Alessandro Ambrosio, il quale ripeté ciò che aveva visto e poi chiamò la direttrice e le ragazze del Conservatorio per vedere il “miracolo”, queste osservarono con grande commozione e si misero a piangere. A questo punto Isnardi consacrò un’altra ostia, versò in un altro calice il vino in modo che le gocce non si alterassero, poi ripose gli arredi sacri, notando qualche spruzzo di sangue sul corporale, in una cassetta che legò e sigillò con “sette sigilli in cera spagna”. Dopo avere esaminato, insieme col vicario del Santo Uffizio, il soffitto della cappella senza trovare nessun indizio che potesse dare una spiegazione valida a ciò che era accaduto, quest’ultimo consegnò ad Isnardi “gli atti fatti, sopra  quali formò un processo ex integro e mandò a Roma alla Congregazione de Riti”.[58]

 Nella sua relazione, Isnardi è molto cauto, infatti non parla di sangue ma di “liquore color sanguigno” e il “miracolo” è, probabilmente, frutto dell’inesperienza e dell’errore del giovane sacerdote, che sembra abbia celebrato la sua prima messa da pochi giorni.[59] Francesco Antonio Scotto viene descritto come una persona molto introversa e solitaria, anche se considerato un buon religioso.[60] La testimonianza del giovane sacerdote sembra avere un tono profetico, infatti egli sostiene che Dio ha operato quel miracolo “per la pace e la concordia tra i principi cristiani, l’estirpazione delle eresie e l’esaltazione di Sua Maestà Cesarea”.[61] Questa spiegazione richiama, anche se non in modo identico, quella fatta da Dorotea ai suoi confessori e riportata anche dall’avvocato Fiorelli nella sua arringa: quando la donna chiede spiegazioni al Signore del significato del “miracolo” Egli le risponde che non è stato un solo miracolo, bensì due. “Uno è che una parte di esso sangue è uscita dall’ostia, e un’altra parte è uscita dal calice, per denotare che molti sacerdoti piuttosto accostarsi a celebrate come fanno con tanti peccati, mi sarebbe più caro che versassero via per terra il mio sangue”.[62] Dalla testimonianza di padre Giuseppe Antonio veniamo a conoscenza che Dorotea per ordine dei suoi confessori interrogò nuovamente il Signore circa il significato del prodigio durante una delle sue estasi che durò molte ore e Dio le disse che “…l’ostia rotta in due parti significava la separazione che voleva fare da molti e che il sangue sparso significava il suo gran furore”.[63] Abbiamo, quindi, sia da parte del prete che da Dorotea delle spiegazioni “profetiche”, ma pare che il profetismo non fosse estraneo all’ambiente ed alla città di Asti: “Cette tendance à la construction de contextes ambigus et dangereux est d’autant plus évidente, et semble constituer un des objectifs de l’intendant, si on examine de plus près son analjse du prophétisme. Granella soutient qu’une culture prophétique existe dans la ville, mais il la ramène à un milieu social, ou mieux, à un contexte de sociabilité politique.”[64]

Continuando con la sua deposizione, Dorotea sostiene di conoscere Ambrosio da un po’ di tempo, che egli è una persona perbene e molto pia, la conoscenza risale a quando la donna frequentava Marianna, la ragazza che le era stata affidata dal conte di Revigliasco, ma con la quale non si era trovata bene. Dorotea sostiene che tre anni prima Ambrosio fu recluso, insieme con altre sette o otto persone, nel carcere di Torino, dove stette circa sei mesi “per delitto di omicidii impostoli dalla detta Marianna”; per questo Dorotea pregava molto per lui, lo raccomandava a Dio  e gli chiedeva se avesse potuto ottenere vera salvezza, il Signore le rispondeva di pregare per lui perché era “un fiore”, ma in quel periodo era molto tormentato e ritornando ad Asti, dopo essere dichiarato innocente, sarebbe incorso in gravi pericoli; infatti, durante il viaggio di ritorno aveva avuto un incidente col cavallo che Dorotea aveva previsto. La donna spiega anche che dopo un po’ di tempo il priore Urbano Isnardi, convocò nella chiesa di San Paolo (di cui era priore) coloro che avevano assistito al “miracolo” insieme all’inquisitore del Santo Uffizio di Asti, dove lessero una relazione sul fatto accaduto, che fu approvata da Dorotea, la quale disse che era tutto vero: probabilmente si riferiva alle spiegazioni che Dio, durante le estasi, le aveva dato. Il vicario ordinò ad Isnardi di scrivere una relazione dettagliata “…di tutto quello che aveva sentito dalla Dorotea che l’avrebbero mandata a Roma, come fece indirizzandola con sua lettera a monsignor vescovo di Lipari”.[65] Il 25 luglio il vicario convocò Isnardi e Giuseppe Antonio e ordinò loro di consegnargli tutto ciò che avevano scritto circa il “miracolo” e di non parlarne più, disse loro di riferire a Dorotea di non pensare più a quel fatto. Per quattro o cinque mesi padre Eugenio non vide più la donna, gli altri due religiosi dissero prima che avevano mandato gli scritti a Roma, poi sostennero di averli “abbruggiati”.[66]

Continua la deposizione della donna, la quale sostiene che nel tempo in cui è stata nel convento che l’ha ospitata a Roma, le suore si sono rivolte a lei perché intercedesse presso il Signore per farle guarire da varie malattie, ciò fa pensare che Dorotea godesse di una certa fama o di una buona credibilità.

Domenico Cesare Fiorelli, difensore dei quattro imputati, dopo un discorso introduttivo, in cui spiega in che cosa consista il reato di affettata santità e la fomentazione di tale reato, basa la sua arringa sull’ingenuità, sull’avventatezza e sull’inesperienza dei padri spirituali di Dorotea; mentre la difesa della donna consiste nel porre in evidenza la buona fede della stessa, ma soprattutto l’inganno da parte del Demonio, che fa apparire, appunto con l’inganno, una realtà completamente stravolta, ma reale per chi è sottoposto all’inganno, quindi non colpevole di ciò che dice, di ciò che fa e di ciò che racconta: “…veniamo ora a vedere se Christina di Gesù e li suoi direttori siano veramente ingannati senza loro delitto…”,[67] infatti sostiene che né la donna né i tre religiosi “…hanno asseria alcuna delle censurate proposizioni e che tutto fu scritto per esaminarlo e soggettarlo al giudizio  della Chiesa”.[68] Prosegue dicendo che chi forma un processo contro questo reato, deve avere ben chiaro di che cosa sia la santità e il suo opposto; quindi per dimostrare la simulazione, si cerca di trovare nell’inquisita qualche vizio opposto, come la  superbia, l’invidia, l’ira, l’accidia, la gola, la lussuria, di cui era stata tacciata dall’accusa durante l’interrogatorio; l’avvocato Fiorelli cerca di dimostrare, o meglio di chiarire gli equivoci in cui sono caduti gli inquisitori: “…facendo vedere che tali proposizioni possono provare la santità non vera, ma non già la santità affettata”.[69] Fa notare all’accusa e ai presenti che gli scritti trovati in possesso dei religiosi, sono stati redatti con lo scopo di raccontare in modo preciso quello che la donna riferiva ai suoi confessori, cioè ciò che le accadeva durante le sue supposte visioni, rivelazioni e colloqui con Dio, quindi nessuno dei fatti narrati “…può dirsi proposizione di Christina né delli inquisiti direttori. Non di Christina, perché essa non afferma che l’esitenza delle proposizioni da lei udite, ma non è autrice dell’essenza ed asserzione di esse, né delli direttori, poiché questi niente asseriscono nel senso proprio, se non che la relazione avutane da detta Christina. Per obiettare giustamente le colpe di una falsa proposizione censurata come ereticale, bisogna che il proferente o scribente abbia parlato in senso proprio et sit assertor talis propositionis, perché qui aliquo dicit, aut scribit recitando, vel adnotando tanquam ab alio dicta non videtur ea approbare, come prova.”[70] L’arringa prosegue sostenendo che tanto Dorotea che i tre religiosi non possono essere colpevoli, perché la donna non ha mai detto che tutto quello che le è accaduto sia veramente opera di Dio, ma ha sempre avuto dei dubbi, infatti non solo si è fatta esaminare da vari religiosi, ma si è fatta anche esorcizzare per paura che fosse il demonio a causarle visioni, immobilità ed altro. Allo stesso modo non si possono considerare colpevoli i padri confessori, in quanto si sono limitati a scrivere ciò che la donna raccontava loro e se non fossero stati in buona fede non avrebbero portato personalmente a Roma tali scritti, affinché fossero esaminati dal tribunale del Santo Uffizio. Si può, quindi, dire che gli inquisiti non hanno esaminato e di conseguenza riflettuto su quello che scrivevano, non comprendendo la gravità di certe asserzioni. A questo punto, secondo la difesa, cade l’indizio di dolo e di simulazione, fondato sugli scritti non compresi: tutto ciò deriva dall’errore della povera donna illusa “… o da effetti naturali o da opera diabolica”.[71] D’altra parte i tre religiosi dovevano pure indagare nella vita e nel comportamento di Dorotea e relazionare il tutto come avevano fatto, da questo si evince che la donna conduceva una vita irreprensibile sotto tutti i punti di vista, insomma Dorotea Quaglia è considerata una santa, una profetessa e tutte le grazie che il Signore le concede devono essere conosciute dal papa. In quanto alle rivelazioni avute dalla donna, tutti i teologi, i mistici, i dottori, i filosofi hanno dimostrato la facilità con cui possiamo cadere in inganno: vengono da Dio o dalla fantasia o sono opera diabolica? Per ciò che concerne l’immobilità del corpo, testificata anche dal vicario capitolare di Asti, può derivare da una speculazione naturale che occupa tutte le forze interne e impedisca ogni funzione dei sensi esterni, come può essere opera demoniaca, potendo il demonio “legare o sciogliere” i sensi esteriori.

La difesa passa ad esaminare alcune proposizioni scritte da padre Giuseppe Antonio e quella che fa scattare l’accusa di quietismo per Dorotea è, come già riportato all’inizio del presente lavoro, la seguente: “La via immobilativa è quando il corpo per virtù mia non può muoversi, perché l’anima allora sta meglio unita con me”.[72] Tale proposizione viene qualificata come pericolosa, perniciosa e coincidente con la dottrina di Miguel de Molinos.

La condanna di Molinos avvenne il 20 novembre 1687, il processo istruito contro la “mistica” Dorotea iniziò dopo il mese di agosto del 1719: è noto come si diffusero ampiamente e velocemente le dottrine di Molinos in tutta Europa, ma una povera donna, ignorante come ci viene presentata l’inquisita dal Fiorelli, suo difensore, che ha cominciato a leggere all’età di venti anni, la cui “cultura” si basa su pochi libri letti stentatamente come lei sostiene, può essere a conoscenza delle dottrine quietiste e del molinosismo? Quanto potevano avere inciso prima gli insegnamenti del sacerdote Francesco Pavarino e poi quelli di Maria Boara, la donna che insegnò a Dorotea a fare l’orazione mentale, sulla formazione religiosa della ragazza? Qual era il grado di cultura di Maria? Era forse a conoscenza delle concezioni quietiste e del pensiero di Molinos? Le condizioni economiche familiari non dovevano essere così disastrose se la ragazza poteva permettersi di lavorare solo saltuariamente ed avere molto tempo da dedicare agli altri, insegnava a pregare, come lei stessa sostiene a circa quindici ragazze, ciò significa che insegnava loro il catechismo? Dopo aver imparato a fare l’orazione mentale era solita radunare persone di ogni età per raccontare loro ciò che leggeva o studiava dai libri che aveva a disposizione, non per niente la chiamavano “la predicona”, con questa gente, era solita, durante le sere invernali, fare delle letture e commentarle, ma Dorotea era veramente ignorante o la sua ignoranza le servì per evitare la condanna del Tribunale del Santo Uffizio? Durante le estasi la donna aveva delle visioni che sono comuni a tutte le mistiche e Dorotea conosceva bene la vita di alcune di loro, come lei stessa aveva asserito.

Durante l’inquisizione viene accusata più volte del peccato di orgoglio, specialmente quando racconta che Dio la chiama sua sposa o l’appella con termini molto intimi e la considera alla stessa stregua della Madonna. Lei, la “profetessa” di San Damiano, come veniva chiamata da quelle parti, sosteneva che il Signore si sarebbe servito di lei addirittura per una seconda redenzione. A questo proposito don Giuseppe Antonio sostiene che durante il viaggio a Roma, arrivati nei pressi di Siena, il Signore dice a Dorotea di avere dato più grazie a lei che a Caterina da Siena e ad Orsola Benincasa e come avevano fatto le due sante con i papi dei loro tempi, anche Dorotea avrebbe dovuto parlare col pontefice e se questo avesse ascoltato lei e i padri spirituali, Dio avrebbe dato al papa “lumi e grazie molto singolari”. Don Giuseppe Antonio insiste nel dire che il Signore aveva elargito più grazie a lei che a santa Teresa e a santa Maria Maddalena de’ Pazzi, affidandole un’opera di grandissima importanza, quale quella della seconda redenzione. Ciò viene considerato fantastico, temerario e superbo, perché le grazie suppongono il merito. Rendendosi, forse, conto di ciò che ha asserito, il padre spirituale aggiunge “che intendo la 2° redenzione lato modo et improprio per procurare la salute degli uomini, non ha questa maggioranza sopra le altre opere fatte da Dio dopo la redenzione” e ancora confessa che se ci avesse riflettuto bene non avrebbe scritto certe cose e insiste nel dire che Dorotea non gli ha dettato ciò per malizia, ma per inganno del Demonio o della fantasia della stessa.[73] La difesa, nella sua arringa, dice che per discernere le locuzioni e rivelazioni false da quelle vere bisogna avere molta esperienza e cognizione di causa, qualità che purtroppo mancano negli inquisiti: “ E’ facile confondersi nel giudizio, tanto da chi prova in se stesso quelli tali effetti strordinari, quanto da chi lo dirrigge, particolarmente se vi regna la semplicità, la quale abbonda nel padre Giuseppe Antonio da Sant’Elia, che ha un commune concetto d’esser facile a credere alle visioni, siccome testificano il vicario capitolare d’Asti”.[74] E’ proprio questa semplicità che ha indotto il religioso nell’errore, convincendo poi con i suoi scritti e racconti anche padre Eugenio ed il priore Isnardi allo stesso abbaglio.

 La difesa controbatte poi l’accusa di molinosismo dicendo: “Ma il Molinos, che colla perversa dottrina poneva quella dannata anichilazione e asseriva essere inconvenienti le operazioni anche virtuose e l’attività rispetto all’anime della via interna, congiongeva con delle proposizioni anche la seguente e diceva: Per la via interna si arriva a starsene immobile continuamente in una pace imperturbabile”. Ma nessuno degli inquisiti, Dorotea compresa, ha mai asserito, durante il processo, quali fossero le cause delle immobilità della donna che sono sempre state loro sconosciute.[75]

In sostanza Molinos insegnava un modo facile per arrivare alla contemplazione attraverso l’abbandono passivo nelle mani di Dio; ne consegue l’inutilità della vita sacramentale, della mortificazione dei sensi e delle passioni. L’abbandono passivo, per Molinos, dovrebbe estendersi anche alle tentazioni ed inganni demoniaci, cioè l’anima dovrebbe accettare senza resistenza i peccati di impudicizia o di bestemmia dettati dal demonio. Per Molinos la chiesa e i sacramenti erano solo dei semplici aiuti all’unione con Dio; la pietà comprendeva tre gradi: nel primo i “principianti” dovevano affidarsi completamente alla Chiesa; nel secondo si arrivava alla devozione verso Gesù; nel terzo c’era il superamento della Chiesa e di Gesù come “Deiformes sed non Deus”, e restava solo Dio.[76] Proseguendo la linea mistica principiata agli inizi del Seicento da Francesco di Sales, Molinos indicava la via per arrivare alla perfetta contemplazione e alla pace interiore, tale via consisteva nella purificazione passiva, cioè nella rimozione di ogni pensiero e volizione, in tal modo l’anima poteva ritornare alla sua origine, cioè a Dio. Ma tutto ciò comporta l’indifferenza alla propria salvezza eterna, agli esercizi ordinari di pietà, alle opere di devozione, l’anima perde la propria volontà ed è vuota del volere stesso di Dio.[77] Certamente questa sfiducia delle pratiche religiose, questo annichilamento delle potenze dell’anima che portavano alla contemplazione e all’unione con Dio preoccuparono molto le autorità inquisitoriali, che reagirono con interventi repressivi sempre più numerosi. Un esempio eclatante fu il caso di Francesca Fabbroni, badessa nel monastero di San Benedetto di Pisa, la quale fu processata nel 1680 per affettata santità, ebbe un buon numero di seguaci sia dentro che fuori del monastero. Gli svenimenti ed altre mancanze di cui spesso soffriva divennero un segno di Dio e considerate estasi mistiche, ma queste doti mistiche e le pratiche religiose che la donna praticava furono viste con sospetto e quindi sottoposte a controlli ed esami; furono esaminati anche i suoi scritti dalla Congregazione del Santo Uffizio e successivamente fu rinchiusa nel monastero di Santa Caterina a San Gimignano, dove morì nel 1681, rifiutando la comunione e senza pentirsi: il suo corpo fu sepolto in terra sconsacrata. Nel 1689 fu promulgata la sentenza di condanna capitale e la donna fu riconosciuta sia in vita che in morte eretica, perseverante e insolente dall’inquisitore di Firenze; la defunta era rappresentata da un ritratto posto accanto alla cassa con i suoi resti, dopo la lettura della sentenza il tutto fu messo al rogo e le ceneri sparse al vento: una vera e propria damnatio memoriae.[78]

Demolita dalle domande incalzanti e dalle dure deduzioni dei suoi giudici, le certezze di Dorotea oppongono la sua intima convinzione di ciò che ha visto e sentito durante le sue estasi provocate da Dio o dal Demonio, e, con un linguaggio ingenuo, incolto ma molto efficace, sosterrà fino da ultimo ciò che ha raccontato per tutta la durata del processo, facendo emergere un’intelligenza lucida, pronta e capace di cogliere in pieno la sua esperienza mistica. Quello di Dorotea e dei suoi padri spirituali, in conclusione, sarebbe stato un errore di interpretazione di vari segni prodigiosi e non una simulazione: si è ingannata ed è stata ingannata, come molte altre “sante vive”; il suo percorso vitale, esposto dettagliatamente sia da lei che dai suoi confessori, non è altro che il racconto di un’illusione durata molti anni. La “profetessa” riconosce sì che tutto ciò può derivare dal Demonio e non da Dio, ma non può negare la presenza di visioni straordinarie nella sua vita e se lei ha contribuito a fomentare tale inganno è perché era ed è convinta nella sua illusione da segni che le sembrano straordinari.

Se le “sante vive” ebbero una forte popolarità nella prima metà del Cinquecento, in seguito il loro valore perderà rilievo soprattutto a causa di mutate condizioni politiche ed ecclesiali, per tornare in auge nei momenti più difficili come guerre, carestie, epidemie; la riforma protestante prima e quella cattolica dopo inducono il clero ad una sempre crescente cautela verso il culto delle “sante vive”, destinate a divenire sospette e ad essere inquisite dal Tribunale del Santo Uffizio.[79] Il processo a Dorotea Quaglia si svolge nel primo ventennio del secolo dei lumi e paradossalmente in una Chiesa in cui il potere era saldamente in mano agli uomini, anche le donne come le “profetesse”, le “finte sante”, furono capaci di esternare le proprie sensazioni, il loro stato d’animo, i loro impulsi, ma soprattutto riuscirono a trovare un po’ di spazio vitale.

[1] Biblioteca Ambrosiana (d’ora in poi B.A.), Ms. P 247 sup., c.25 v. Il manoscritto, depositato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, è una copia del ristretto del processo, non riporta l’eventuale condanna degli inquisiti, anche se possiamo intuire che non furono emesse gravi sentenze dai giudici del Santo Uffizio di Roma. Dalle deposizioni dei padri spirituali possiamo ricavare le seguenti notizie circa la vita degli stessi: Giuseppe Antonio da Sant’Elia, Carmelitano scalzo, nato a Cherasco dal fu Carlo Bellino, di 41 anni circa. Dopo avere studiato due anni retorica e un poco di logica a Chieri e a Torino, andò a Milano come segretario del signor de Burgoy, uomo d’armi, con cui va in Spagna, dove fa il soldato per circa tre anni nel presidio di Barcellona, da dove diserta e va a Marsiglia, dove è obbligato a prender servizio nelle truppe francesi e mandato in Fiandra. Dopo un anno diserta e si reca a Bruxelles, qui viene ingaggiato al servizio del duca di Savoia e mandato “in Alemagna”, poi a Torino nel reggimento delle guardie. Più volte fece presente che voleva “farsi religioso”, non ascoltato, fugge a Cherasco e fa il noviziato nei Carmelitani nel convento del Carmine di Asti. Continua gli studi e diviene sacerdote, in seguito viene nominato priore di Cherasco, poi di Asti, Torino e nuovamente di Asti. Fu carcerato il 30 agosto 1719. “Costituito giudicialmente ha riconosciuti i scritti trovati nella perquisizione della sua stanza. Cinque quinternetti manoscritti di suo carattere e uno del priore Isnardi. Un fascio di 10 altri quinternetti scritti da lui medesimo”, contenenti cose da lui annotate, riguardanti “le virtù, grazie e cose soprannaturali, predizioni, communicazioni et allocuzioni segrete con Dio” . “…riferiteli dalla medesima e più volte anche sentite da lui nel tempo che la sudetta Dorotea era nello stato d’immobilità ed in estasi…”.  Cfr. B.A. Ms. cit, c.37v. e r.

Di Eugenio di Gesù, carmelitano scalzo, sappiamo che aveva 35 anni, che era nato a Montechiaro, nella diocesi di Asti, dal fu Giovanni Domenico, che era di modeste condizioni e a quattordici anni andò a studiare per un anno retorica presso i Gesuiti, poi per tre anni filosofia e teologia presso i padri Minimi. Tornato al suo paese prese gli ordini minori, poi a Mondovì vestì l’abito di Carmelitano scalzo e fatta la professione fu mandato ad Asti a studiare teologia, scrittura e morale. Fu carcerato lo stesso giorno dell’altro padre confessore e per la stessa accusa di preteso fautore della pretesa affettata santità; anche nella sua stanza furono trovati scritti riguardanti fatti miracolosi e allocuzioni fatti da Dio a Dorotea, scritti di suo pugno. (cfr. B.A.,Ms.cit., c.73v)

Anche Urbano Isnardi, sacerdote secolare, fu carcerato lo stesso 19 agosto 1719 con la stessa accusa, aveva 34 anni ed era priore della chiesa parrocchiale di san Paolo in Asti ; era nativo di Guarena nella diocesi di Asti, a undici anni andò in seminario nella stessa città e in quello di Alba e nel 1697 andò a Torino, dove proseguì gli studi di retorica, filosofia e legge. A ventitre anni viene ordinato sacerdote e nel 1707 si laurea in giurisprudenza all’Università di Mondovì. A Torino, oltre che studiare morale, frequenta la congregazione dei Gesuiti e celebra messa nella chiesa della “Trinità del S. Sudario”, dove anche confessava. Dal 1713 era di permanenza ad Asti, dove esercitava l’avvocatura “…e che nel suseguente febbraio fu fatto fiscale della Curia Capitolare e dopo poco Provinciale. Nel 1716 ottenne la parrocchia di San Paolo, dove esercita il suo ufficio di parroco.”. (B.A., Ms. cit.,c.172r) Le scritture trovate in suo possesso sono molto più numerose delle altre e molto dettagliate, oltre a spiegare ciò che accadeva alla donna, ci sono anche varie relazioni che il priore aveva dovuto scrivere al papa, al re, al vicario del Santo Uffizio di Asti e alcune lettere, tutto ciò coincide perfettamente con le deposizioni degli altri direttori e con quella di Dorotea: i fatti sono addirittura spiegati con le stesse parole. (cfr. B.A., Ms. cit., c. 113v).

[2] Domenico Cesare Fiorelli, dell’Ordine di San Domenico, era l’avvocato dei rei del Santo Uffizio, aveva scelto di fare da difensore a coloro che erano imputati come iniqui da quel Tribunale, nei Padri della Chiesa aveva trovato conforto, ispirazione e certezze; il suo era un ruolo molto delicato ed importante, in quanto garante della giusta interpretazione eresiologica dei crimini e dell’applicazione equa e rigida della legge divina. Fu ritenuto un imparziale e coscienzioso giudice della Fede, il quale indagava profondamente nella coscienza degli imputati per dirigerli verso la redenzione o la condanna o ad entrambi. Un’ altra copia del discorso del Fiorelli la troviamo sotto la segnatura L 35 suss., sempre presso la Biblioteca Ambrosiana, il cui contenuto non si discosta da quello riportato ed è diretto alla “Sacra Congregatione del Santo Offitio”.Cfr. B.A., Ms. L 35 suss., cc. 3 v./ 18r.Troviamo menzionato l’avvocato Domenico Cesare Fiorelli in una sentenza assolutoria a Favore di “Hieronymi Alphanis Perusini” del 26 novembre 1711. Cfr. Biblioteca Augusta Perugia, Misc. B-38-45-46. Lo ritroviamo giudice criminale nel 1732 in un processo istruito a Roma contro il cardinale Coscia per truffa, inganni etc. : “Fattone intanto il processo dal Giudice Criminale Domenico Cesare Fiorelli, quegli appunto, che in tempo d’Innocenzo XIII avea formato il processo del Cardinale Alberoni al 9 maggio 1733…”; Giuseppe de Novaes, Elementi della storia de’ Sommi Pontefici da S. Pietro al felicemente regnante Pio Papa VII, Siena, Stamperia del Magistrato Civico, Tomo XIII, p. 189. Nel 1737 l’avvocato Fiorelli risolve un caso molto delicato che riguardava un presunto furto di un’ostia consacrata. Cfr. L. Ciappetta, <<Costui è un uomo sciocco, e mezzo scemo>>. Il furto di un’ostia consacrata. https://www.carmillaonline.com/2015/07/31/costui-e-uomo-sciocco-e-mezzo-scemo-il-furto-di-unostia-consacrata/

[3] La falsa santità è un problema che risale alle origini del cristianesimo, infatti nell’Apocalisse troviamo che l’anticristo avrà l’aspetto della santità e affascinerà anche gli eletti, ma la questione assumerà particolare rilievo quando nella chiesa si svilupperà il culto dei santi. Nei secoli successivi il problema diverrà secondario a causa dell’indebolimento dell’autorità nell’ambito delle strutture ecclesiastiche e per la crescente importanza delle reliquie; si riproporrà nel secolo XII, quando il papato comincerà ad interessarsi e a controllare maggiormente questi culti. Cfr. A. Vauchez, La nascita del sospetto, in G. Zarri a cura di, Finzione e santità tra Medioevo ed età moderna, Rosemberg & Sellier, Torino 1991, p. 39.

[4] Cfr. G. Zarri, Le sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ‘400 e ‘500, Rosemberg & Sellier,Torino 1990, p. 102 e segg.

[5] Cfr. G. Zarri, Le sante vive, cit., p. 104; Cfr. anche anche A. JacobsonSchutte, “Piccole donne”, “grandi eroine”: santità femminile<simulata> e <vera> nell’Italia della prima età moderna, p.283 e segg., in Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di G. Zarri-L. Scaraffia, Laterza 1994).

[6] Sulle trasformazioni della discretio spirituum tra Medioevo ed età moderna si veda G. Zarri a cura di, Dal consilium spirituale alla discretio spirituum. Teoria e pratica della direzione spirituale tra i secoli XIII e XV, in C. Casagrande-C. Crisciani-S. Vecchio.

[7] Cfr. G. Zarri, Finzione e santità cit., p.14. I primi processi risalgono agli anni 1580-1590 nel viceregno di Napoli.

[8] Ibid., p.15.

[9]La Congregazione dei Riti o latinamennte Congregatio pro Sacri Ritibus et Caeremoniis venne istituita da papa Sisto V con la costituzione apostolica “Immensa Aeterni Dei” dell’11 febbraio 1588, le competenze originarie erano vaste: dal culto divino (amministrazione dei sacramenti, liturgia) al cerimoniale, ma presto perse numerose spettanze, mantenendo quelle relative alla liturgia della Chiesa latina e al culto dei santi. Paolo VI con la costituzione “Sacra Rituum Congregatio” divise la Congregazione dei Riti in Congregazione per le Cause dei Santi, tuttora esistente ed in Congregazione per il Culto Divino, confluita nel 1975 in quella per la Disciplina dei Sacramenti).

[10] Cfr. G. Zarri, Finzione e santità cit., p. 20.

[11] Cfr. G. Zarri, Il carteggio tra don Leone Bartolini e un gruppo di gentildonne bolognesi negli anni del Concilio di Trento (1545-1563), “Archivio italiano per la storia della pietà, VII, 1986, p. 337 e segg.

[12] A. Prosperi, Tribunali della coscienza: inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi 1996, p. 438 e segg.; Cfr. anche M. Gotor, I beati del papa. Inquisizione santità e obbedienza in età moderna, Firenze, Leo Olschki 2002, p. 90.

[13] Cfr. M. Gotor, Chiesa e santità nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2004 p. 87-89.

[14] Cfr. B.A., Ms. cit., c.147 v. Non si può definire la data esatta di nascita, in quanto i testimoni non riferiscono la stessa età della donna, la cui vita si può evincere sia dall’arringa della difesa che dalla deposizione della stessa in modo particolareggiato: alcune volte la dicono di 40 anni, altre di 46. La parola Iugali non si riferisce al cognome della madre di Dorotea, ma al fatto che fosse sposata col padre, dal latino iugalis, aggettivo che in senso figurato significa: coniugale, nunziale, maritale.

 

[15]Ibid., c.147 r.

[16] Ibid., c. 147 v. Più avanti, durante il processo, gli inquisitori accuseranno Dorotea di molinosismo. La pratica dell’orazione mentale è uno degli elementi costitutivi della vita interiore e delle dottrine quietiste e di quelle di Molinos. Papa Benedetto XIV aveva pubblicato un’enciclica “Quemadmodum nihil est hominibus”del 1746, in cui promuoveva la pratica dell’orazione mentale, “sconsigliata” poi in una lettera dello stesso pontefice al cardinale de Tencin nel 1749. Cfr. G. Orlandi, Vera e falsa santità in alcuni predicatori popolari e direttori di spirito del Sei Settecento, in G. Zarri a cura di, Finzione e santità cit., p. 435.

[17] Cfr. B.A., Ms. cit., c. 147 v.

[18] Ibid., c. 25 v.

[19]Ibid., c. 148 v. Francesco Pavarino era un sacerdote ed anche un parente di Dorotea, fu lui che le insegnò a leggere all’età di circa 20 anni e a prestarle dei libri. “L’aridità del senso è una sottrazione della divozione sensibile; ma l’aridezza dello spirito è una abbondanza di luminosissima luce. Iddio dunque infonde nell’anima un lume sì chiaro e penetrante, che le fa conoscere la sua miseria, le sue imperfezioni, e tutto il suo niente. Penetra ella sì delicatamente quanto mal corrispose alle divine grazie, e lo conosce con tale chiarezza, che non si stima più degna né di Dio, né delle creature. Le pare certo, che il Signore l’abbia da se discacciata, che non la guardi da amico, che l’abbi gettata nelle tenebre…”. F. Bernardo da Castelvetere, cappuccio della provincia di Reggio in Calabria, Direttorio Mistico per li confessori, ovvero Instruzione in cui con modo chiaro, breve, e facile si dà la pratica al Direttore di cominciare, proseguire e perfezionare un’anima nel cammino spirituale fino alli più elevati gradi di unione. Venezia MDCCLXXXVII, Presso Simone Occhi; cap. VIII, p. 215.

[20] Ibid.

[21] Cfr. B.A., Ms. cit., c.149 r.

[22] Nel 1371 il sindaco e procuratore di Asti cedette la villa e gli uomini di Revigliasco ad Amedeo Roero, il quale dette inizio alla linea dei Roero di Revigliasco. Nel 1561 Roberto Roero, per volontà della madre Eleonora San Severino, assumerà il nome Roero San Severino, che rimarrà alla famiglia fino all’estinzione, avvenuta verso la metà del secolo XIX. Cfr. G. Mola di Nomaglio, Feudi e nobiltà negli stati dei Savoia: materiali, spunti, spigolature…, Hoepli, Milano 2006, p. 433 e segg.

[23] Trattasi di figurazione composta da quattro nocciole in forma di croce specialmente in araldica.

[24] E’ probabile che Dorotea si riferisca alla guerra del 1706, quando il futuro re Vittorio Emanuele II stava per perdere Torino assediato dalle truppe francesi.

[25] B. A., Ms. cit., c. 78 v.

[26] “L’astinenza totale dal cibo, <singulare dono et veramente sopra el corso comune de la natura humana>, considerata segno di santità e talvolta occultata per umiltà, ha qui un significato che supera la tradizionale norma ascetica per essere presentato in stretta connessione col mistero eucaristico. Prive di cibo corporale, queste donne vivono solo di eucarestia…” G. Zarri, Le sante vive cit., p. 106.

[27] L’anoressia era già nota al tempo di Dorotea: il primo caso citato nella letteratura medica è relativo al 1686. Richard Morton, medico inglese (1637/1698), famoso anche per i suoi studi sulla tubercolosi, descrive le condizioni di una ragazza di vent’anni e i sintomi della malattia. Cfr. R. Morton, Phthisiologia or, A Treatise of Consumption, London 1720; Cfr. R. M. Bell, La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi, Editori Laterza 1998.

[28] B.A., Ms. cit., c. 151 v.

[29] Ibid., c. 152 r.

[30] Ibid., c. 153 v.

[31] Ibid., c.168 v.

[32] Ibid., c.38 v.

[33] Ibid., c. 39 r.

[34] Ibid., c. 40 v.

[35] Cfr. B. A., Ms., c. 160 v.

[36] Ibid., cc. 53 r., 55 v.

[37] Cfr. B. A., Ms. cit.,c. 61 v.

[38]  B. A., Ms. cit. c.78 r.

[39] Ibid., c c. 83 v. r.

[40] Ibid., c. 157 r. Probabilmente Dorotea allude alla guerra tra l’Impero ottomano e Venezia-Austria del 1715/18, terminata con la pace di Passarowitz.

[41] Ibid., c. 116 v.

[42] Ibid.,  c.117 v.

[43] Ibid., c. 30 r.

[44] Ibid., c.160 v.

[45] B.A., Ms. cit, c. 159 r.

         [46] Ibid.

[47] Cfr. B. A., Ms. cit., c. 59 v.

[48] B.A., Ms. cit., c. 57 v. Lo zendalo è un tessuto molto leggero di seta con cui le donne si coprivano la testa e le spalle.

[49] Ibid., c. 166 v.

[50] Ibid., c. 168 v.

[51] Ibid., c. 160 r. Il primo libro si tratta di Thomas à Kempis, The imitation of Christ; gli altri due titoli non sono stati da noi rintracciati. Santa Dorotea, santa e martire venerata dalla Chiesa cattolica, fu originaria della Cappadocia e visse negli anni 300-311 circa; la commemorazione ricorre il 6 febbraio ed è patrona dei fioristi e della città di Pescia. A differenza del Medioevo, quando la donna era esclusa da una formazione culturale universitaria, in età umanistico-rinascimentale assistiamo ad una modifica della situazione, per cui le donne hanno la possibilità di una buona se non ottima preparazione, anche se la maggior parte di queste mistiche ostentano la loro ignoranza e si dichiarano illetterate soprattutto per seguire il topos della modestia; ne è esempio il caso di Maria Maddalena dé Pazzi, la cui cultura religiosa, come si può apprendere da varie testimonianze, era piuttosto ampia, anche se il suo biografo (Cepari) la definisce illetterata e semianalfabeta. Cfr. F. Brezzi, La passione di pensare, Carocci, Roma 1998, pp.18-61. Non è il caso della mistica di San Damiano, la cui preparazione culturale, piuttosto limitata, non le permise di fare tanto, ma non le impedì di profetizzare fatti politici e di convincere Vittorio Amedeo II di Savoia a finanziare ed organizzare il viaggio a Roma presso il papa, non solo perché i suoi padri spirituali potessero far conoscere un “miracolo” accaduto ad Asti, ma per parlare delle sue visioni e rivelazioni, ed infine, come lei sostiene, per dare “consigli” suggeriti da Dio al pontefice.

[52] A. Zuccagni-Orlandini, Corografia fisica, storica e statistica dell’Italia corredata di un atlante, 1837; si veda anche A. Torre, “Les lieux de l’action: transcription documentaire et contexte historique”, Les dossier du Grihl, 2008-01, Localités: localisation des écrits et production locale d’actions, [En ligne], mis en ligne le 2 novembre 2008, https://dossiersgrihl.revues.org/2842.

[53] B. A., Ms. cit., c. 74 v.

[54] Ibid., c. 118 v.

[55] Ibid.

[56] Ibid.,  c.118v. a margine troviamo: “E’ da notarsi che il sacerdote per vedere se l’hostia era rotta bisognò l’allargasse e separasse, come pure che nell’allargarla e separarla non vide che fusse colorita ne’ labri ed essendo andato il procurator Alessandro a prender la scattola dell’ostia, nell’accostarsi all’altare osservò che il labro di detta ostia era di color rosso”.

[57] Ibid., c. 119 v.

[58] Ibid., c.119 v; si veda anche A. Torre, “Les lieux de l’action… cit., nota n. 44, p.20, il quale riporta per esteso la relazione che Isnardi fece a SS.R.Maestà, che non si discosta dalla deposizione dello stesso fatta a Roma durante il processo

[59] A. Torre, “Les lieux de l’action… cit., p.10  “Mais le vrai centre du discours du provicaire Isnardi est la compétence. La genése même du prodige est liée à l’incompétence du jeune prêtre: puisqu’on ne peut pas la présence du sang, il lui faut au moins souligner que la présence des gouttes de sang dans le calice est due à une série d’actions erronées de la part du célébrant. Le sang se trouve sur le pied du calice, et surtout sur la coupe, mais il est bien séparé du restant du vin: on veut par ceci signifier que le sang est tombé d’en haut, il n’est pas le fruit de la transsubstantiation du vin. Au contraire, dans le discours du provicaire Isnardi il est essentiel que le vin soit resté vin, puisque le célébrant ne l’a pas consacré après l’intervention du notaire Ambrosio (ce qui est en partielle contradiction avec le témoignage de celui-ci). Le prodige, en somme, serait le fruit d’une erreur”.

[60] Cfr. A. Torre, “Les lieux de l’action… cit., p.10

[61] Cfr. A. Torre, “Les lieux de l’action… cit., p. 21, nota 53

[62] B. A., Ms. cit., c. 32 v.

         [63] Ibid.

[64] A. Torre, “Les lieux de l’action… cit., p.13. Si veda anche: A. Torre, Luoghi. La produzione di località in età moderna e contemporanea, Roma, Donzelli, 2011, pp.407; Elisabetta Lurgo in una recensione dell’opera del Torre così scrive: “ Il rapporto tra religione e spazio è ribadito dall’approfondita analisi di un miracolo eucaristico avvenuto ad Asti nel 1718: si tratta di un evento molto complesso, che ruota intorno alla fondazione dell’opera Migliavacca, istituzione destinata all’accoglienza delle giovani nubili e benestanti della città […] L’analisi di Torre si limita a suggerire un rapporto fra una cultura religiosa e politica di tendenze antisabaude e una tradizione di profetismo visionario utilizzata per esprimere istanze di legittimazione giurisdizionale: tale ipotesi, effettivamente, pare confermata dall’identità delle profetesse coinvolte nella vicenda astigiana. La “profetessa Dorotea” (p.92), che l’Autore non è riuscito ad identificare e che avrebbe ispirato la fondazione dell’Opera, è sicuramente Dorotea Quaglia da San Damano (1673-1749): quest’ultima risulta anche nella fondazione dell’Opera Isnardi, un’istituzione astigiana destinata all’accoglienza delle giovani nubili di bassa estrazione sociale. Fondata nel 1746 come istituto meramente laico sotto controllo reale, peraltro in palese concorrenza con l’Opera Migliavacca, l’Opera Isnardi passò in breve tempo sotto il controllo del vescovo. Il mutamento di stato giuridico fu possibile grazie a un altro miracolo, questa volta ruotante intorno a un’immagine di Cristo, a cui si accompagnò una complessa vicenda di possessione diabolica che vide protagoniste alcune ospiti dell’istituzione e la stessa direttrice dell’Opera, un’altra profetessa già coinvolta nella fondazione Migliavacca. Il caso dell’Opera Isnardi riproduce in modo pressoché speculare strategie e moventi riscontrati nell’analisi del miracolo eucaristico del 1718, confermando l’esattezza dell’ipotesi avanzata da Torre. Anche la relazione fra cultura profetica e fazioni antisabaude, suggerita dall’Autore, è rafforzata da altre fonti: i personaggi coinvolti, a vario titolo, nel miracolo eucaristico sono, infatti, al centro di una serie di congiure antisabaude denunciate dall’autorità torinese fra il 1704 e il 1716, nelle quali un ruolo chiave assume, ancora una volta, l’idioma profetico e visionario”.

[65] Ibid. , c. 74 v. Il vescovo di Lipari era, probabilmente, monsignor Nicola Maria Tedeschi (1710-1722), Cfr. Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Arcidiocesi_di_Messina-Lipari-Santa_Lucia_del_Mela

[66] Ibid.

[67] Ibid., c. 27 r.

[68] Ibid., c. 28 v.

[69] Ibid., c. 27 r.

[70] Ibid., c.28 r.

         [71] Ibid., c. 30 r.

[72] Ibid., c. 53 v.

[73] Ibid., c.30 v.

[74] Ibid., c. 31 v.

[75] Ibid.

[76] Cfr. AA. VV., Dizionario ecclesiastico , Unione Tipografico-Editrice Torinese 1955, p.1028

[77] Cfr. M. Vannini, Il volto del Dio nascosto. L’esperienza mistica dall’Iliade a Weil, Mondadori, Milano 1999, pp. 273-281

[78] Cfr. A. Malena (a cura di), Il velo e la maschera. “Santità” e “illusione” di suor Francesca Fabbroni (1619-1681), Città di S. Gimignano 2002; cfr. anche A del Col, L’inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Mondadori, Milano 2006, pp. 669 e seg.

[79] Cfr., G. Zarri, Le sante… cit., p. 120

 

 

 

 

 

 

 

IL MONASTERO DI RADARI

 

Saggio di Loredana Fabbri

Alla memoria di Monsignor Mario Bocci, che fu per me un grande maestro, di cui ricorderò sempre le parole che spesso mi diceva:

<< Loredana, ricordati sempre questa frase ”Timeo Danaos et dona ferentes”>>.

 

PREMESSA

Questo lavoro è un tentativo di ricostruire la storia e la vita cenobitica del monastero di Santa Maria e San Benedetto di Morrona, non trascurando gli aspetti economici ed i rapporti con i laici che di questa abbazia sono condizionamento e risultato. Ho cominciato prendendo gli inizi dal lavoro di Rosanna Pescaglini Monti sulla famiglia dei Cadolingi, che hanno avuto una determinante importanza nel primo secolo di storia di questo monastero: i rapporti tra questa famiglia ed il cenobio si colgono chiaramente tramite diversi documenti. Molto è stato l’interesse della Santa Sede Apostolica, dell’arcivescovato pisano e del vescovato di Volterra verso questo monastero, al punto di essere causa e oggetto di molte divergenze tra gli arcivescovi e i vescovi pro tempore. Attraverso una quantità notevole di documenti reperiti nel corso di vari anni in diversi archivi della Toscana, è possibile ricostruire, pur con delle grosse lacune, la storia di questo monastero dal secolo XI alla fine del secolo XV, quando il vescovo di Volterra Francesco Soderini, manu armata, caccia i monaci e si impadronisce dell’abbazia, assegnandone i beni rimasti e l’edificio alla Mensa Vescovile di Volterra. In seguito e per molti secoli divenne la residenza estiva dei prelati volterrani, fino a quando, nel 1868, per leggi eversive all’asse ecclesiastico furono estromessi e il monastero venne venduto a privati. Le ricerche per il presente lavoro ebbero inizio molti anni fa e si protrassero per alcuni anni, in seguito, a causa di gravi problemi personali, il lavoro non poté proseguire e fu lasciato per anni incompiuto: ne è testimonianza l’opera “Odeporico delle Colline Toscane” di Giovanni Mariti, trascritta presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze, in quanto non ancora edita e che è stata presa come linea conduttrice del presente lavoro, anche se non sempre viene citata, come anche altri riferimenti che oggi potrebbero sembrare “obsoleti”, ma che in realtà sono validissimi, si veda, ad esempio, le pergamene dell’Archivio Vescovile di Volterra, che ho avuto la possibilità di consultare e trascriverne i punti salienti insieme a Monsignor Mario Bocci, allora archivista del detto archivio, anzi sono molti i suggerimenti ed i consigli che il Monsignore mi dette a quei tempi, consigliandomi di essere il più fedele possibile agli originali, compresi gli errori. Altra testimonianza importante è la Visita Apostolica del vescovo di Rimini Giovan Battista Castelli,”territorio” allora assolutamente impossibile da consultare, da me trascritta sempre sotto la guida di Monsignor Bocci, alla cui memoria è dedicato il presente lavoro. Per quanto riguarda le date dei documenti mi sono attenuta a quelle trovate negli stessi, senza considerare lo stile pisano o quello fiorentino, come anche per le misure e le monete: ho semplicemente riportato ciò che ho trovato scritto nelle varie fonti.

 

Ho voluto evidenziare come agli inizi del secolo XI il monachesimo toscano fosse diviso in monasteri isolati, imperniati nelle loro diocesi ed accumunati dal loro richiamarsi alla regola di san Benedetto. Questo quadro cambia in modo quasi radicale  circa un secolo più tardi, i monasteri vengono a far parte di due grandi congregazioni monastiche: la Camaldolese e la Vallombrosana, la cui storia, spesso, si intreccia con quella di grandi famiglie come i Cadolingi, i Gherardeschi, gli Aldobrandeschi, i Pannocchieschi ed altre che emergono per la loro ricchezza e potere. Certamente nel secolo X  ed anche fino alla metà circa di quello successivo, le fondazioni e le donazioni in favore dei monasteri non rappresentano ancora una cognizione di attività riformistica e di rinnovamento religioso, ma nascono chiaramente  dal concetto di espiazione per la salvezza dell’anima, fondare un monastero o fare una cospicua donazione ad esso rappresentava il mezzo per restare ancorati alla vita cristiana e allo stesso tempo era fonte di interessi politici e patrimoniali. In questo caso, il monastero di Morrona era già esistente, ma con la grossa donazione dei conti Cadolingi comincia la sua ascesa. In genere sono monasteri che conservano ancora la peculiarità di quelli privati, in cui la casata spesso si arroga il diritto di intervento e conferma nell’elezione dell’abate, di rappresentare il monastero nelle controversie giuridiche, certe volte anche nell’osservanza della regola e nella disciplina. Sono disposizioni che solo apparentemente sembrano rigoristiche, ma che in realtà sono dettate da interessi di carattere familiare, politico ed economico. Le bolle pontificie e i diplomi imperiali si orientano sempre di più a favore di una indipendenza giurisdizionale dei cenobi e ciò fa capire come i signori laici fossero interessati a queste fondazioni, che rappresentavano un ostacolo all’espandersi dei poteri vescovili nel contado. E’ in questo contesto che vediamo la fioritura di molte fondazioni e donazioni monastiche, non tanto come fuga dal mondo, ma principalmente come reazione alla situazione sociale ed anche come prospettiva di riscatto di se stessi, delegando a questi uomini ”più vicini” a Dio il compito di ottenere una vita migliore su questa terra e un posto nell’aldilà, quindi si affida alle preghiere dei monaci l’espiazione delle proprie colpe.

Anche se, come già detto, i documenti reperiti sono molti, andando avanti col tempo essi si fanno più rari, creando delle lacune non idifferenti, fino ad arrivare al XV secolo, dove la documentazione è veramente sporadica e non mi è stato possibile ricostruire una storia esaustiva dell’abbazia fino alla sua presa da parte del vescovo di Volterra, fatto documentato in modo particolareggiato.

Per la storia del monastero di Morrona si veda anche il lavoro di M. L. Ceccarelli Lemut, Tra Volterra e Pisa: Il monastero di S. Maria Di Morrona nel Medioevo ( secoli XI-XIII), Pacini, Pisa 2008.

Capitolo I Origini del monastero

L’abbazia di Santa Maria e San Benedetto di Morrona risiede nelle Colline Pisane su un poggio di tufo, diramazione di quello in cui è situato il centro di Morrona, che rimane più a sud rispetto alla badia.[1]

La storiografia tradizionale tramanda come data di fondazione il 1089, anno in cui Ugo o Uguccione, figlio del conte Bulgaro della famiglia dei Cadolingi, con la moglie Cilia fecero alla badia una cospicua donazione. Ma da questo documento appare chiaro che il cenobio era già esistente: << …per hanc cartula offerimus, tibi Deo, ecclesiam sancte Marie de monasterio et eiusdem ecclesie donamus, cedimus, tradimus omnia que predicte ecclesie modo habere et detenere videntur, cum casiaet terris et vineis, silvis et buscareis, culti set incultis omnibusque eorum pertinentiis… >>.[2] Prova di un’anteriore esistenza di questa badia è un’enfiteusi del 25 luglio 1092, in cui troviamo: <<…Martino reverendissimo abbas de ecclesia et monasterio divine et beate sancte Marie prope loco Morrona, ubi vocitatur monasterio Radari… >>.[3] Questo appellativo è presente anche in altri due documenti relativi all’anno 1098, per cui avanziamo l’ipotesi che la fondazione del cenobio possa risalire all’epoca longobarda, come farebbe supporre il nome “Radari”;[4]inoltre in uno dei suddetti documenti, cioè una donazione di beni posti in Casanova, il monastero viene menzionato con il titolo di Santa Maria e, per la prima volta, anche con quello di San Benedetto: da questo secondo titolo possiamo dedurre che la regola professata dai monaci era quasi sicuramente quella benedettina, come, del resto, lo era nella maggior parte dei monasteri toscani in questo secolo; anzi il dato comune del monachesimo toscano, che durante il secolo XI è ancora frammentato in singoli monasteri, è rappresentato solo dal loro indifferenziato richiamarsi alla regola di San Benedetto.

Diciassette anni dopo, nel 1109, la conduzione del cenobio passò ai monaci Camaldolesi con una donazione fatta da Ugo, figlio dell’omonimo conte al Sacro Eremo di Camaldoli della << …ecclesia et monasterio Domini Sancte Marie virgini, quot est constructum et edificatum, sive construendum vel edificandum in loco et curte mea, que nominatur Morrona, cum omnibus rebus et iuris sibi pertinentibus… >>,[5] l’atto è sottoscritto anche dall’abate camaldolese Gerardo, rettore del monastero. Fin dall’anno 1101 troviamo come abate di questa abbazia un certo Gerardo e se il rettore e l’abate fossero stati la stessa persona, ciò farebbe supporre che i Camaldolesi si fossero stanziati nel monastero ancor prima della donazione del conte Ugo all’Eremo di Camaldoli. [6]

Non è da escludere che al “passaggio” dall’ordine benedettino a quello camaldolese abbia contribuito molto Pietro Moriconi, tradizionalmente discendente dalla nobile famiglia dei Moriconi da Vico, monaco appartenente a quest’ultima regola e dagli inizi del XII secolo arcivescovo di Pisa, per scopi politici ed egemonici su questi territori. Pietro Moriconi morì nel 1119 e fu sepolto nella cattedrale di questa città.[7]

Completamente sconosciute e non documentate con certezza restano, dunque, le origini del monastero; certo la donazione dei Cadolingi al cenobio va inserita nel quadro più ampio della situazione monastica toscana intorno al Mille: la frammentarietà, di cui abbiamo già accennato, faceva sì che i singoli monasteri non avessero rapporti organici tra loro e frequentemente erano sottoposti alla tutela di proprietari laici, che avevano poteri di pieno governo sui monasteri stessi.

Grandi famiglie laiche fondarono e dotarono molti cenobi come segno del prestigio e dell’importanza raggiunta; una fondazione di monasteri e donazioni in loro favore non si inserivano, in questo periodo (inizio sec. XI), nel quadro di una consapevole lotta di riforma e di rinnovamento religioso, ma nascevano forse da altri motivi e tradizioni: da lunga data rappresentavano un classico mezzo di espiazione e di salvezza personale, inoltre sia le fondazioni che le donazioni facevano parte di una serie di interessi di carattere politico-patrimoniale che significavano il consolidarsi degli interessi politici ed economici della famiglia intorno ad un punto di forza rappresentato dal monastero stesso che diveniva, in tal modo, l’emblema di una nuova influenza e di un nuovo potere. Sono monasteri che conservano un carattere spiccatamente privato, dove la famiglia si riserva, generalmente, molti diritti che mirano ad interventi dettati da ragioni di carattere politico ed economico e da interessi puramente familiari: assicurarsi nuove solidarietà, nuovi appoggi e contrastare l’espandersi dei poteri vescovili nel contado. L’attività dei vescovi a favore delle fondazioni monastiche, che è quasi inesistente alla fine del secolo X, diviene più frequente nella prima metà del secolo successivo e rappresenta gli albori delle idee di riforma anche in Toscana. Un secolo dopo, questo aspetto del monachesimo toscano appare profondamente cambiato, tanto che la sua storia viene a riassumersi, per la maggior parte dei monasteri, nella storia delle due grandi congregazioni monastiche vallombrosana e camaldolese.[8]

Attualmente non resta più traccia di questa antica abbazia; quando nel 1788 Giovanni Mariti visitò questi luoghi, erano ancora visibili delle macerie di pietre quadrate e << …dei manifesti indizi di cose sacre… >>.[9]

Il 30 agosto 1152 l’abate Iacopo, col consenso del priore di Camaldoli e dei suoi monaci, vendette a Villano, arcivescovo di Pisa, i possessi di Montevaso e Montanino eccetto Riparossa, << …pro edificando clausura in loco qui dicitur Podium, que prius erat in loco que dicitur Abbadie Vetere… >>.[10]

Ancor oggi il luogo conserva lo stesso toponimo ed è possibile che i monaci avessero voluto trasferire lì il proprio cenobio sia per motivi di posizione, sia perché vi sorgeva la chiesa di Santa Maria, che assunse tanta potenza da far scadere la stessa pieve del castello ad un’importanza puramente formale.

La chiesa di Santa Maria e il chiostro

L’antica chiesa di Santa Maria divenne, dunque, proprietà del monastero nel 1089 con la cospicua donazione del conte Ugo dei Cadolingi al cenobio, ossia lo divenne legalmente, perché dalla frase riportata dal rogito, sembrerebbe che la chiesa appartenesse già “spiritualmente” ai monaci: << …per hanc cartula offerimus tibi Deo ecclesiam Sancte Marie de Monasterio et eiusdem ecclesie donamus, cedimus, tradimus omnia que monachi predicte ecclesie modo habere et detinere videntur… >>.[11]

L’edificio, tutto in pietre quadrate, sembra risalire al secolo VIII o IX, ma nessun indizio certo può testimoniare la data o almeno l’epoca della sua origine, i molti restauri subiti nel corso dei secoli non permettono un’esatta ricostruzione dell’interno di essa. Questa chiesa, purtroppo, non viene mai descritta nelle fonti reperite, ma solo citata, molte volte, come luogo in cui venivano redatti gli atti notarili. Bisogna arrivare al secolo XVI per avere qualche notizia di questo edificio con la visita apostolica del vescovo di Rimini Giovan Battista Castelli (1576), il quale ci informa che la chiesa << …in omnibus bene se habet, quia tectum fuit de novo coopertum et parietes incrustati et dealbati… >>;[12] mentre il pavimento era in pessime condizioni, ma il presule vide preparati i mattoni con i quali si doveva rifare la pavimentazione. L’altare, di pietra, aveva la lapide di marmo rotta in parte e sopra di esso vi era un’immagine molto antica ma ritenuta decente. Il campanile, a forma piramidale, era stato colpito da un fulmine e stava per essere restaurato, però aveva due buone campane. Erano già stati stabiliti e stavano per avere inizio anche altri lavori di ristrutturazione per la casa, residenza estiva del vescovo pro tempore di Volterra.[13]

Circa duecento anni più tardi la descrizione, molto dettagliata, della chiesa fatta da Giovanni Mariti, che corrisponde a quella del Targioni-Tozzetti, ci fa conoscere questo antico edificio quasi allo stato attuale: la facciata della chiesa, volta ad ovest e come tutta la costruzione in pietre quadrate, è divisa in tre spartimenti terminanti verso l’alto in tre archi. A destra della porta d’ingresso vi era un cippo sepolcrale infisso nel terreno, di epoca etrusca, che Mariti definisce di marmo pisano con poche decorazioni, riadattato a pila per l’acqua benedetta, attualmente rimosso.[14]

L’interno della chiesa, a navata unica, la cui crociera resta sopra il presbiterio, ha un’abside circolare che è stata incamerata nell’interno del monastero in epoca non definibile. Sempre all’interno, sulla destra, una pila di pietra porta scolpite le armi del vescovo volterrano Luca Alemanni (1598-1625). L’altare, posto ad est, rimane sopraelevato di sei scalini di mattoni, sopra di esso << …vi sono ventotto piccole quadrette poste a più ordini e di varia configurazione. Alcuni terminano a semicerchio, altri in angolo e alcuni in figura piramidale, che unite insieme formano un sol quadro. Al primo ordine di essi e nel mezzo vi è l’immagine di Maria… >>.[15] Questo è probabilmente il dipinto cui fa menzione anche il vescovo Castelli: attualmente resta solo la parte centrale raffigurante la Madonna con Bambino. Dietro l’altare c’è un coro piuttosto piccolo e a sinistra di esso una porta, oggi murata, che permetteva l’accesso al campanile; dalla parte opposta un’altra porta immetteva nel chiostro ed un’iscrizione su marmo portava la data dell’anno 1724: porta e lapide non sono più esistenti.

Lungo le pareti della chiesa sono dipinti, a figura intera, i dodici apostoli, affreschi che il Mariti ritiene risalenti al Seicento; ma gli ultimi due apostoli presso la porta d’ingresso furono restaurati dal pittore Domenico Tempesti.[16]

Nel lato nord, esterno alla chiesa, c’era una porta laterale murata (forse dal tempo in cui fu costruito il monastero?). Ad est di questa porta c’è il campanile a pianta quadrilatera, sempre in pietre quadrate, forse coevo alla costruzione della chiesa, << …ma dal piano ove sono le campane fino in cima è fatto di mattoni… >>,[17] infatti sappiamo di un restauro posteriore al 1576, anno della visita Castelli.

Le campane sono due: una più grande in cui ancor oggi si può leggere la seguente iscizione: “Mentem sanctam spontaneam honorem Deo et Patriae liberationem”. La più piccola porta la stessa iscrizione e l’anno 1327; nel secondo giro troviamo: “T.P.R. Dopni Bartholomei lucensis venerabilis abbatis monasterio Sancte Marie de Morrona Gherardus et Thadeus me fecerit”.[18]

La chiesa misura “44 braccia” dalla porta d’ingresso al catino del coro, nel corpo “13 braccia circa” e nella crociera “22 braccia e mezzo”.[19]

Il chiostro, piuttosto piccolo, è in pietre e mattoni, il cui ingresso principale è a sud, risalente al 1316, fu fatto costruire dall’abate pro tempore Silvestro, ai tempi della visita del Mariti c’erano ancora varie iscrizioni su marmo, una della quali in caratteri gotici, oggi non più esistenti; la parte del monastero sopra il loggiato era, come già detto, adibita a villa del vescovo di Volterra. Il Mariti lo definisce: << …di miserabile costruzione di pietre e mattoni e le pietre sono mal lavorate e peggio connesse, per cui non vi è niente di corrispondente all’opulenza monastica e non ha che far niente coll’edifizio della chiesa, il quale è assai più antico… >>.[20]

Nelle Colline Pisane si conoscono tre diverse grandezze di chiese, in base alle quali, con molte riserve, possiamo stabilire all’incirca il secolo in cui sono state edificate: le più antiche sono quelle piccole lunghe circa diciotto metri e larghe nove (lunghe circa dodici passi e larghe sei), che in origine furono oratori privati fatti erigere da feudatari per comodità delle loro famiglie. Questi oratori si cominciano ad edificare fin dal secolo IV, in seguito, a causa dell’incuria e del tempo furono ridotti in condizioni tali che Pipino re d’Italia, nel secolo IX, ordina che siano subito restaurati. Le chiese che possiamo definire di media grandezza misuravano circa 40 metri di lunghezza e venti di larghezza (lunghe venti o trenta passi circa e larghe dai dieci ai quindici passi), furono costruite tra il IX e il XII secolo circa, quando crebbe lo spirito della Chiesa e il numero dei fedeli, facendo sentire l’esigenza di spazi più ampi per accogliere la numerosa popolazione che accorreva dalla campagna circonvicina. A queste cappelle fu assegnato un prete e ad alcune di esse, in seguito, fu dato il titolo di pievi, prepositure e arcipreture. Le chiese più grandi potevano misurare dai sessanta ai novanta metri circa di lunghezza e dai trenta ai quarantacinque, metri di larghezza(quaranta, sessanta passi di lunghezza e venti, trenta di larghezza) erano le antiche chiese battesimali, cioè le pievi. I piccoli oratori e le cappelle di media grandezza restarono sottoposte a queste pievi, ma col passare del tempo e con l’edificazione di nuove chiese, gli oratori privati, che pure erano serviti al popolo, furono ridotti di nuovo a cappelle private o a semplici benefici.

La pieve di Morrona

Circa l’ubicazione della pieve di Morrona i pareri degli storici sono discordi: Targioni-Tozzetti sostiene che era situata dove era la casa del pievano, senza darne l’esatta posizione; Giovanni Mariti ipotizza che fosse la chiesa di Santa Maria del monastero; Repetti la colloca dentro il castello e poi, contraddicendosi, nell’estremità del paese.[22]

L’antica pieve di Morrona intitolata a Santa Maria e San Giovanni e più tardi anche a Santa Lucia, sorgeva distante dal castello circa tre chilometri in luogo detto GINESTRELLA, toponimo attualmente scomparso.[23]

L’esatta ubicazione della pieve si può evincere da una locazione del 1327 che l’abate del monastero di Morrona Bartolo fa a Cecco del fu Milio di cinque pezzi di terre costituenti il podere della << …plebis Sancti Iohannis de Morrona, quod est suprascpti monasterii et quod iam tenit plebanus Biancus in locatione a dicto monasterio… >>.[24] Il primo pezzo di terra, descritto nei suoi vocaboli e posto nei confini di Morrona, circonda la pieve ed ha un lato verso Oriente, uno “versus Stibbiolum”;[25] il terzo verso la via pubblica e “versus Vallem Orti”;[26] il quarto “in terra suprascripti monasteri”.[27] Il secondo pezzo di terra “positum ibi prope”,[28] ha un lato “in viis plublicis quibus itur Soianam et ad plebem predictam”.[29] Anche gli altri terreni, tutti confinanti tra loro, sono in Valle Orti, il cui toponimo è attualmente scomparso, ma da due relazioni e perizie di beni appartenenti alla Chiesa di Morrona, fatte fare all’inizio del Novecento dal pievano pro tempore, possiamo rilevare che due pezzi di terre posti in “Valdorto” confinano con il botro di Bucine, toponimo tuttora esistente.[30] Questo botro scorre sul fondo di una valle a destra della via che ancor oggi porta a Stibbiolo e a Soiana: la pieve sorgeva su questo lato della strada, dove attualmente è costruita una villa, nel cui terreno, secondo la tradizione orale, sono stati rinvenuti numerosi resti di ossa umane e una croce di ferro che era stata sepolta.

La prima volta che troviamo menzionata questa pieve è nel 1141 in un privilegio di Innocenzo II, con cui vengono confermati dei beni al cenobio di Santa Maria e San Benedetto, e tra questi figurano sia la pieve che la cappella di Morrona intitolata a San Nicola.[31]

Più tardi, nel 1176, l’arcivescovo di Pisa Ubaldo si fece aggiungere le pievi di Morrona e di Pava, estendendo maggiormente la sua giurisdizione, ma la pronta reazione volterrana fece sì che le due pievi tornassero alle loro diocesi.[32]

Nel 1214 la pieve ed il suo pievano furono causa di una lite (lite che si protrae nel tempo, di cui parleremo più avanti) sorta tra l’abate del monastero e il vescovo di Volterra per l’obbedienza che il pievano doveva al prelato e per il pagamento di un censo annuo di soldi quindici volterrani che l’abate doveva pagare al vescovo ogni anno per la pieve, in quanto detentore dello iuspatronato della pieve stessa; ma da quanto tempo il patronato spettava all’abate di Morrona?[33]

Dopo un periodo, che dalla metà del secolo X va fino alla metà circa del secolo XI, in cui l’autorità vescovile è in crisi e le pievi vengono alienate a laici sotto forma di livello o di beneficio, segue un altro periodo che comprende la metà del secolo XI e i primi decenni del XII, in cui vengono restaurati e recuperati i diritti del vescovo, viene ricostruita la compattezza dell’ambito pievano e riorganizzate le istituzioni canonicali. Il conflitto contro il possesso delle  decime e delle chiese da parte dei laici fa sì che esse vengano cedute spesso ai monasteri ed anche i Camaldolesi, come pure altri ordini monastici, cominciano ad ottenere numerose chiese e con queste la facoltà di cure delle anime. Dopo alcuni divieti, in vari concili e sinodi, ai regolari di arrogarsi l’esercizio dell’ufficio parrocchiale, nel Concilio lateranense del 1123 venne ordinato ai monaci di astenersi nel modo più assoluto dal celebrare messe pubbliche, visitare pubblicamente i malati, dare la penitenza e l’estrema unzione, perché tutto questo non era di loro competenza. I monaci, inoltre, nelle chiese da loro dipendenti, dovevano servirsi di sacerdoti investiti dall’ordinario diocesano.[34]

E’ molto probabile che il monastero abbia avuto lo iuspatronato della pieve in questo periodo, che coincide con il “passaggio” dai Benedettini ai Camaldolesi e con l’ascesa politica ed economica del cenobio.

Gli Abati di Morrona rispettarono sempre il divieto di esercitare il governo spirituale della pieve, facendola officiare al clero secolare, mentre si ingerirono con una certa prepotenza nell’elezione del pievano, arrogando a se stessi questo diritto, in quanto detentori del suddetto patronato.[35].

Nelle decime degli anni 1275-1276 la pieve non compare; da quelle degli anni 1302-1303 rileviamo che non pagava decima, mentre la chiesa dei santi Bartolomeo e Niccolò di Morrona pagava libbre 1.1[36]. Nel 1356 (Sinodo Belforti) la pieve pagava sette libbre come la cappella o chiesa suddetta.[37]

Nel catasto dei religiosi del 1427-29 appare che << …lo piovano di Morrona dà di censo l’anno, lo dì di santa Maria sopradetto, lire due, soldi cinque per la chiesa di Santo Bartolo da Morrona per la pieve di Santa Maria a Ginestrella… >>[38]. E ancora << …Pieve di Santa Lucia di Ginestrelle et di Santo Bartolo da Morrona unita insieme… >>[39], ciò farebbe supporre che la pieve sia stata unita con la cappella in un arco di tempo che va dal 1356 al 1427-29.

Nel 1576 il vescovo Castelli, durante la sua visita apostolica, scrive della pieve: << …Deinde vidit ecclesiam dirutam Sancte Lucie a Ginestrella a tanto tempore citra, quod non est memoria in contrarium. Cernantur vestigia parietum longes braccia 8, altitudines braccia 4 et nulla bona habere repertum est… >>[40]; il prelato decretò che sopra le rovine della pieve fosse eretta una grande croce come disponeva il concilio tridentino: possiamo avanzare l’ipotesi che la croce sia quella ritrovata sotterrata.

Capitolo II .Il secolo XII: contesto storico e ascesa del monastero

Il feudalesimo mutò ben presto la natura giuridica e il carattere del potere comitale e le funzioni del conte vennero ad essere considerate come semplice accessorio del “beneficium” che già veniva concesso al conte come ricompensa del suo operato, conseguentemente si giunse alla feudalizzazione della contea. Il vincolo che unisce il conte al sovrano si allenta e in seguito (secc. X-XI) si assiste alla decadenza del suo potere politico, attaccato anche dai feudatari che in questo periodo sorgono numerosi, tra questi i vescovi, i quali affermano sempre più la loro autorità nell’ambito della città.

Anche a Volterra, come altrove, gli imperatori, ai quali premeva l’amicizia dei vescovi, avevano continuamente favorito la curia con privilegi e immunità; forti di tutto ciò i prelati si lanciarono alla diretta conquista del potere comitale nella loro città, potere che venne riconosciuto dall’imperatore con l’intento di procurare al sovrano un fedele e vantaggioso alleato, in quanto i vescovi-conti, non disponendo del diritto ereditario del feudo, evitavano il pericolo di un insediamento nella città di vere e proprie dinastie feudali, tornando libera l’investitura ad ogni sede vacanza vescovile, come invece accadeva nel contado con i feudatari laici.

Nel Comitatus volaterranus, la giurisdizione temporale del vescovo si afferma nei secoli IX-XI: nell’ottobre 821 un diploma di Lodovico il Pio conferma i privilegi concessi da Carlo Magno; nell’845 furono concessi da Lotario “gli avvocati del vescovo”, insieme con il diritto d’ingresso dei pubblici funzionari nelle terre della Chiesa. Nell’874 Lodovico II sancisce i precedenti privilegi, conferma alla curia vescovile tutti i beni posseduti fino ad allora a qualunque titolo e ordina la rescissione di tutti i rogiti (contratti di donazione, concessioni, livelli etc.) effettuati nel periodo in cui il vescovo era fisicamente indisposto, disponendo la rivendicazione dei suddetti beni e decretando pene pecuniarie a chi avesse osato offendere o recare violenza alla proprietà del vescovato di Volterra.[41]

Adalberto marchese di Toscana, concede, nell’896, al presule volterrano il possesso e la giurisdizione civile dei castelli di Berignone, Montieri ed altri; mentre Ugo di Provenza, re d’Italia, dona alla sede episcopale alcuni possessi nel territorio di San Gimignano. Ai tempi di Ottone I L’autorità civile concessa ai vescovi volterrani era già abbastanza estesa, in seguito con i diplomi di Federico I ( 1164 ) e di Enrico Vi ( 1186, 1189, 1194 ), il vescovo venne ratificato con il titolo di “Principe del Sacro romano Impero e Conte palatino in Toscana” e acquistò il diritto di battere moneta, riconoscere consoli e podestà, creare conti, giudici e notai, legittimare spuri.[42]

Il periodo in cui si nota il massimo accentuarsi dei poteri è certamente quello dominato dal vescovo Ruggero, il quale appare per la prima volta come vescovo di Volterra il 24 maggio 1103 in un privilegio di Pasquale II a favore della Chiesa volterrana.[43] Divenne poi arcivescovo di Pisa nel 1123, dopo la scomparsa del suo predecessore Attone, morto fra il 29 agosto 1121 e il 24 marzo 1122, mantenendo la cattedra dell’episcopato volterrano.[44] Ruggero firmò con il titolo di arcivescovo i documenti spettanti la curia pisana e con il titolo di vescovo quelli riguardanti la curia volterrana, ma in un documento del 20 agosto 1128 appare con entrambi i titoli: << … vulaterensis episcopus ac pisanorum archiepiscopus… >>, si trattava di una sentenza a causa di una rimostranza dell’abate di Morrona, in territorio volterrano, contro l’arcivescovo di Pisa per dei possessi posti in episcopato volterrano. [45]

Ruggero non appartenne, come è stato ipotizzato in passato, alla nobile famiglia degli Opezinghi, originaria della zona tra Pisa e Volterra, dove aveva anche i suoi possessi,  bensì discendeva da due nobili famiglie lombarde e particolarmente importante fu la famiglia paterna, in quanto il padre Enrico (II) del fu Enrico apparteneva alla sesta generazione dei Gisalbertingi o Ghisalbertini, il cui capostipite Giselberto fu vassallo di re Berengario I, poi conte di Bergamo, infine conte del Sacro Palazzo. La madre del prelato << …Bilisia filia quondam Rogerii de loco Soresina… >>[46] apparteneva ad una famiglia della feudalità capitaneale milanese. Ruggero incrementò i beni della Chiesa volterrana prima nel 1111 con una cospicua donazione di terre poste << …in curte sua de Casano… >>[47] presso il fiume Era, poi nel 1115 con un acquisto della metà dei beni di Gerardo di Catignano e di Alberto del fu Villano entrambi di Pescia, i quali vendevano per pagare dei debiti; detti beni erano posti << …in castri Catignano, castello et curte de Catignano, Riparotta, Arsicile, Cambasi, Sancto Benedicto cum curte Muchio, curte Puliciano, Collemusciori, Camporobiano, Casallia, Fusci, Morrona, Montevaso, Petracassa… >>.[48]

Sconosciuti restano gli eventi che portarono Ruggero a ricoprire l’esercizio dell’episcopato di Volterra, poiché se nel secolo precedente non fu raro che prelati di origine lombarda fossero eletti negli episcopati di Firenze, Lucca e Pisa, nel secolo XII, con la riforma ecclesiastica si torna alla vecchia procedura, eleggendo vescovi provenienti dalla Chiesa locale.[49] Il vescovo Ruggero fu molto più intento alle cure temporali che a quelle spirituali, riassumendo in sé la figura imponente del vescovo-conte.

Quando a Volterra, in ritardo di un secolo rispetto ad altre parti d’Italia, nasce il libero Comune, l’unità patrimoniale e feudale dell’episcopato raggiunge il massimo: siamo alla metà del XII secolo.[50] All’origine del Comune volterrano stanno alcune potenti famiglie, legate da vincoli di parentela, vassalle e suddite del vescovo, queste famiglie stabilite in case-torri dominanti una parte della città, costituivano una piccola comunità, cui i feudatari del contado giurarono di difendere contro tutti nel gennaio del 1194. Quando queste famiglie ebbero la necessità di convertire i beni in loro possesso a titoli diversi, in proprietà definitive e stabili, si trovarono di fronte un vescovo-conte, che accampava e difendeva i propri diritti feudali sorretto da imperatori e papi. Le famiglie si coalizzarono: vassalli vicedomini e avvocati diventarono uomini del Comune e Consoli, staccandosi dai loro signori ecclesiastici, dando luogo ad una sempre più salda unità cittadina. E’ dunque intorno al governo vescovile che si formano i nuovi ceti dirigenti.

Il conflitto, sorto subito con la nascita del Comune, contro il vescovo era inevitabile: in gioco erano le giurisdizioni sul contado, molto ambito dai vescovi.

A Volterra, dalla metà del XII secolo fino al 1239 il vescovo appartenne sempre (con una eccezione) alla famiglia dei Pannocchieschi, grande famiglia comitale, di cui non sono conosciute le origini e l’appartenenza a questa famiglia del primo vescovo, cioè Galgano, è più presunta che reale, in quanto nessun documento ne attesta l’appartenenza e non si hanno notizie prima del suo episcopato. I Pannocchieschi possedevano cospicui beni nel territorio della città; ricordati nei documenti fin dal secolo X, presto si divisero in più rami che tennero signorie nel pisano, nel volterrano e in quel di Massa Marittima.[51]

Nel 1164 Federico Barbarossa conferì a Galgano Pannocchieschi l’investitura ufficiale della città e del comitato, probabilmente per fedeltà e riconoscenza per avere aderito al partito ghibellino, lasciata la curia pontificia e prestare obbedienza all’antipapa Vittore IV, nominato per volontà dell’imperatore in contrapposizione ad Alessandro III. L’atto del 1164 rappresentò certamente l’inizio di quel grande mutamento che vide Galgano trasformarsi da vescovo di Volterra in autorità comitale. Appena divenuto vescovo, dopo l’episcopato di Adimaro, di cui le ultime notizie si hanno nel 1146 e relative al 1150 sono quelle in cui viene menzionato Galgano come vescovo per la prima volta, aggiunse ai possedimenti della sua Chiesa alcuni beni ricevuti per donazione[52] e sempre nello stesso anno cercò di conquistare anche Montevaso, situato metà nella comunità di Castellina, diocesi di Pisa e metà in quella di Chianni, diocesi di Volterra, ciò non poteva non dar luogo a controversie tra i vescovi delle due città, una di queste è testimoniata in un lodo del 15 ottobre 1150, in cui il cardinale Guido, esaminate le molte testimonianze di ambedue le parti, riconobbe la legittimità del possesso di Montevaso all’arcivescovo pisano.[53] Nel 1158 un nuovo successo della politica espansionistica di Galgano portò alla curia volterrana una parte della corte di Gerfalco e di Travale (sul confine del territorio volterrano verso Siena). Di fronte a questa ostentazione di potere ci sono gli interessi concordati dei privati, che intendono difendere i propri beni e le loro libertà e dietro a queste persone c’è il Comune, che vede nel vescovo Galgano, sintesi del regime feudale, l’impedimento maggiore ai bisogni urbani di Volterra.[54]

L’episcopato ha ormai grandi possessi che arrivano fino alle porte di Pisa e di Lucca, Che permettono alla mensa vescovile di impinguarsi con le entrate e con i doni dei fedeli. Intanto il consolato si sta organizzando come istituto giuridico, emancipandosi sempre di più dalla tutela del vescovo, corrodendone a poco a poco le basi del potere. L’intrasigente vescovo, fulminatore di scomuniche, venne accerchiato nel suo palazzo, malmenato e ucciso in seguito ad una congiura popolare. La tradizione vuole che Gargano sia stato ucciso sulla soglia della cattedrale che cinquanta anni prima Callisto II aveva solennemente consacrata al cospetto del vescovo Ruggero.[55]

In venti anni di episcopato del Pannocchieschi l’urto tra Comune e Vescovato si era fatto cruento al punto di contaminare la sacralità.

Seguì un periodo di relativa calma durante l’episcopato di Ugo dei Saladini dei conti d’Agnano, già canonico di Padova, nominato da Alessandro III nel 1173, quindi parrebbe che dalla morte di Galgano (1171) alla nuova nomina la cattedra vescovile sia stata vacante e che per motivi di disordini seguiti all’uccisione del prelato i canonici per difendere la curia e i beni, avessero chiesto la protezione pontificia, accordata in un documento del 1171 e replicata negli anni 1175 e 1179 essendo vescovo Ugo; dopo la morte del quale i Pannocchieschi tornarono alla conquista del potere.[56]

Fu eletto vescovo Ildebrando Pannocchieschi e durante il suo episcopato sembrò che la fortuna fosse dalla parte della sua Chiesa: i privilegi, le concessioni, le protezioni pontificie si alternarono a quelle imperiali, appagando l’intraprendenza e la sete di potere di questo vescovo, che tuttavia seppe sempre mantenere la dignità dell’ecclesiastico.

Con un diploma del 15 maggio 1185 di Federico I, vennero annullate tutte le alienazioni di beni della mensa vescovile volterrana fatte probabilmente dall’ antecessore di Ildebrando.[57] Il 26 agosto 1186 Arrigo VI concede in feudo al prelato circa settanta tra ville, castelli, terreni ( di alcuni di tali beni ricevette la metà, terza e quarta parte) posti nel contado volterrano e pisano e il governo della città di Volterra con tutte le giurisdizioni sovrane, oltre al diritto di eleggere consoli non solo a Volterra ma anche a San Gimignano, Casole e Monte Veltraio; quindi Ildebrando oltre alla carica di vescovo si trova ad avere anche funzioni di sovrano o quanto meno di vicario imperiale.[58] Sempre da Enrico VI ottiene la conferma del possesso delle miniere argentifere di Montieri e nel 1189 il diritto di batter moneta con l’o bbligo di una retribuzione annua di sei marche d’argento al regio erario, incrementando le entrate di questa curia tanto che nell’anno 1190 fu in grado di prestare a Enrico Testa, marescalco di Enrico VI, la somma di mille marchi d’argento.[59] Nel 1187 il papa accorda ai possessi e ai diritti della sede volterrana il perpetuo privilegio dell’apostolica benedizione e l’anno seguente la pieve di Colle Val d’Elsa è posta sotto la giurisdizione del Pannocchieschi.[60] Privilegi e immunità vengono anche accordati da Innocenzo III (1189).[61]

Dopo il 1190 i rapporti tra Ildebrando ed Enrico VI subiscono una rottura a causa dell’intesa dell’imperatore con Pisa, di cui ha bisogno per la sua impresa in Sicilia. Enrico VI dichiara fuori corso la moneta volterrana a beneficio di quella pisana; ma nell’estate del 1194 Ildebrando, riaccostandosi di nuovo all’imperatore, ottiene i poteri di Messo regio e Conte palatino, con giudizio sulle cause di prima istanza e di appello spettanti all’Impero.[62]

Le parole del Giachi danno un’idea molto chiara della personalità di questo principe della Chiesa: << …fu così intraprendente che non ebbe difficoltà di mescolarsi nei pubblici affari, e trattar personalmente tanto la pace che la guerra, di modo che fu poi dichiarato Prior Societatis Thusciae nelle fazioni contro l’imperatore Federigo. L’autorità che seppe procurarsi sopra la città e sopra altre parti della sua diocesi, lo portò a tanta grandezza che gli stessi imperatori Federigo e Arrigo lo ebbero in molta considerazione; e la repubblica fiorentina lo volle ascrivere nell’anno 1200 nel numero dei suoi cittadini, esimendo da ogni gravezza le terre e gli uomini soggetti al vescovado >>.[63]

Poco tempo dopo sorse un grosso contrasto tra il vescovo e i suoi canonici, che dette luogo alla secessione tra il capo della diocesi, investito dei poteri temporali, e il Capitolo della cattedrale, che ebbe una violenta reazione quando Ildebrando tentò di nominare canonici a lui fedeli. Innocenzo III dette ragione al Capitolo e i Volterrani si resero conto che per difendersi dal vescovo dovevano mettersi sotto la protezione pontificia.[64]

Troviamo ancora menzionato Ildebrando in un documento del 1211, ebbe dunque l’episcopato volterrano per circa ventisei anni e l’anno successivo troviamo sulla sedia vescovile Pagano Pannocchieschi, arcidiacono della cattredrale e nipote di Ildebrando.[65]

E’ in questo quadro storico-politico che si svolgono le prime vicende documentate del monastero di Radari, in cui i conti Cadolingi hanno avuto, nel periodo iniziale, un’importanza fondamentale.

La presenza della ricca e potente famiglia dei Cadolingi in questa zona è documentata solo dalla fine del secolo XII: nel secolo X i Cadolingi possedevano vasti territori nella zona intorno a Pistoia e nella Valle dell’Ombrone; fu con il conte Cadolo che verso la fine di questo secolo il loro patrimonio cominciò ad espandersi fino all’Arno ed egli stesso fondò il primo monastero della famiglia a Fucecchio. Verso la metà del secolo XI, con il conte Guglielmo detto Bulgaro, i possessi dei Cadolingi si espansero lungo la riva volterrana del fiume Elsa e, tra la fine di questo secolo e l’inizio del XII, Uguccione si impossessò di vasti terreni nell’alta valle del Bisenzio e nel punto d’incontro delle diocesi di Lucca, Pisa e Volterra.[66]

Una gran parte di questa enorme massa di beni era stata chiaramente usurpata ai vescovi di varie diocesi da tutti i membri della famiglia, ma il conte Guglielmo Bulgaro fu uno dei maggiori responsabili di sottrazioni di possessi vescovili e con solenne giudizio, che ebbe luogo il primo dicembre 1059 in Firenze,[67] davanti a papa Nicolò II, Guglielmo dovette restituire a Guido, vescovo di Volterra, la metà dei castelli di Puliciano, Colle Muscioli e tutti i beni che Adelmo e Gisla, fondatori della badia ad Elmo e benefattori di varie pievi della zona volterrana, prima di morire, avevano posseduto nei pivieri di Cellole, Chianni e San Gimignano.[68]

Il 18 febbraio 1113 moriva l’ultimo dei Cadolingi, Ugo o Ugolino: il suo testamento disponeva di lasciare la metà dei propri beni ai vescovi delle diocesi in cui questi erano ubicati.[69]

Ugolino, probabilmente, tormentato dal pensiero che l’estinguersi della propria casata fosse un castigo dovuto alla violenza dei suoi avi a danno delle chiese, disponeva in tal modo che i beni ecclesiastici tornassero alle varie diocesi. Già negli ultimi anni di vita, il conte aveva beneficiato alcuni monasteri, specie se eretti dai suoi antenati, tra i quali quello di Santa Maria e San Benedetto di Morrona con un rogito del 1106; altri nel 1107 in suffragio dei genitori e dei fratelli.[70]

Subito dopo la sepoltura del conte ebbe luogo la restituzione dei beni alle singole diocesi ed a questa cerimonia, oltre ai vescovi di Firenze, Lucca, Pistoia, Pisa, fu certamente presente anche Ruggero, vescovo di Volterra, il quale fu investito della metà del patrimonio che Ugolino possedeva “infra episcopatum vulterranum”. [71]

Ciò che accadde dopo la morte di Ugolino fu causa di urto fra Gerardo, abate del monastero di Morrona e il vescovo di Volterra, che subito ebbe delle pretese nei confronti del cenobio; ma l’abate non fu certamente d’accordo a cedere alle pressioni del prelato volterrano, tanto più che la badia, con una bolla di Pasquale II del 4 novembre 1114, si trovò ad essere sotto la protezione della Santa Sede Apostolica con gli altri monasteri dell’ordine Camaldolese.[72]

Il 21 maggio 1120 Callisto II, essendo presente a Volterra, accoglie sotto la protezione pontificia sia il monastero che i beni, che si espandevano fino a Massa e Montegemoli. Onorio II con sua bolla del 7 marzo 1125, confermano tutti i possessi e i privilegi.[73] Ma questi privilegi, rappresentanti il rafforzamento dei diritti e prerogative dell’abate, non posero fine alle pretese del vescovo fino all’anno 1128, quando Ruggero già divenuto arcivescovo di Pisa, oltre che vescovo di Volterra, << …resideret iuxta ecclesiam et monasterium Sancte Marie de Morrona cum suis iuris peritis et notariis et aliis probis atque nobilibus viris… >>,[74] esaminò con Guido, priore di quella abbazia, le ragioni dei possessi e restituì allo stesso priore << …quedam iniuste detinere de iustitia suprascripti monasterii. Te. Prefatus venerabilis episcopus causa cognita refutavit atque postposuit iam dicto monasterio in manu predicti prioris omnes res que continebantur in suis instrumentis quas ipse habebat et possidebat de Aquisiane curte et vulterrano episcopatu ut pote in Rialto et in Ripa Rossa et in aliis locis… >>.[75]

L’arcivescovo Ruggeri sfruttò l’occasione della temporanea fusione tra le diocesi di Volterra con quella di Pisa, perseguendo una politica a favore di quest’ultima città ed anche gli abati di Santa Maria e San Benedetto agirono in questa direzione, legando sempre più le sorti del cenobio e dei suoi possessi a Pisa e alla Chiesa pisana, che vi andò acquistando sempre più pretese e diritti.[76]

Con un breve del 23 gennaio 1134 diretto a Gerardo abate del monastero di Morrona, papa Innocenzo II ordina che egli resti nel possesso di tutti quei beni che erano stati concessi alla badia dal conte Ugo e dai suoi figli << …aut aliis catholicis… >>;[77] conferma tutti i possessi presenti e futuri; proibisce ad ogni vescovo ed a qualunque altra persona di molestare il monastero, togliere beni o diminuirli con qualsiasi vessazione o legge.[78]

Anche quando il monastero si trovò in difficoltà economiche, perché gravato da ingenti debiti, l’abate Gerardo si rivolse alla Chiesa pisana, vendendo, nell’anno 1135 il 29 marzo, dei beni a Uberto arcivescovo di Pisa per cinquecento soldi: si trattava della metà intera della terza parte << …de podio et castello et curte de Aqui, quod Vivaio vocatur et de podio et castello et curte et districto de Morrona… >>.[79] Nel 1141 l’abate Uberto, successore di Gerardo, si fece confermare da papa Innocenzo II << …in ipso castro et curte eius plebem et capellam eiusdem castri cum decimis. Ea que habetis in curte aquisana. Balneum et acqueductum usque in Casina terras qua habetis in palude et in pantano cum decimis eorum… >>. E il 22 novembre 1148 Eugenio III aggiunse la chiesa di Tora e quella di Collemontanino. [80]

In tal modo è spiegabile l’atto con cui l’arcivescovo di Pisa Ubaldo, relativo al 2 giugno 1199, concede al priore di Camaldoli, ricevente per l’abbazia di Morrona, la facoltà di eleggere e di istituire il pievano della chiesa di Collemontanino, facoltà che costò agli abati del monastero non pochi fastidi, come vedremo più avanti.[81]

Nel 1152, quando venne costruito il nuovo edificio del monastero, l’abate Iacopo, su consiglio di Rodolfo, priore di Camaldoli e col consenso dei suoi monaci, per sostenere le spese della costruzione, in altro luogo e nell’odierna forma, vendette ancora una volta alla Chiesa pisana, allora rappresentata dall’arcivescovo Villano, i beni che possedeva in Montevaso, Montanino e Mortaiolo, eccetto Riparossa, per un valore di quattrocento soldi pisani e un anello d’oro. Il documento fu rogato alla presenza degli abati dei monasteri di San Zeno e di San Michele in Borgo, dei consoli di Pisa e di altri importanti cittadini.[82] La Chiesa pisana venne in tal modo in possesso di ciò che avrebbe dovuto avere alla morte del conte Ugo.

Di grande interesse fu la strada del monastero per lo scambio commerciale tra Pisa e Volterra, che si vivacizzava col mercato di Pava (odierna Pieve a Pitti), traffico osteggiato dagli abitanti di Volterra fin dal 1252 con una chiara disposizione statutaria.[83]

Il patrimonio fondiario e l’economia del monastero attraverso i secoli

Secolo XII

 La grossa dotazione che il conte Ugo dei Cadolingi fece all’antico monastero di Radari nel 1089, consisteva, oltre a molti terreni “cultis et incultis” sparsi in vari luoghi, anche in numerose case ed alcuni mulini << …que sun in fluvio Caldana, cum aquis et aquiductibus… >>.[84] A questa donazione se ne vengono ad aggiungere altre tre nel 1098: la prima del 4 gennaio è di prete Albone del fu Buosi, che per suffragio dell’anima sua e dei suoi genitori offre alla chiesa e monastero la sua parte di patrimonio consistente in due pezzi di terra posti in Casanova: l’abate Eriberto riceve la donazione per sostentamento dei minaci presenti e futuri.[85] La seconda di tre pezzi di terra posti nei confini di Rivalto, viene fatta da Benzo e Gerardo del fu Saracino e da Oliva loro madre e mundualda il 7 gennaio, a Casanova e Rivalto “esclusa la terra figlinese e raimbertinga”;[86] la terza da Bianca vedova di Giudo e figlia del fu Imiglio il 6 luglio: i due pezzi di terra offerti si trovano nei confini di Casanova e sono coltivati a vigne.[87] Questi beni danno luogo alla formazione di un ingente patrimonio ed il cenobio comincia ad avere amministratori e feudo.

Durante la prima metà del XII secolo continua l’ascesa economica del cenobio sia con donazioni private, che con acquisti da parte degli abati.[88]

Ancora una volta i Cadolingi hanno un ruolo preminente nei confronti dell’abbazia accrescendone il patrimonio con due donazioni fatte da Ugo, figlio dell’omonimo conte, negli anni 1105 e 1107; vediamo dunque agire questa famiglia alla stessa stregua di tanti altri individui e gruppi familiari della zona. Con la prima il monastero entra in possesso del terreno che dall’altura su cui era edificato degrada nella valle fino al fiume Cascina, ad accezione di cinque staiora di terra vignata coltivata da Aldibrando di Gerardo.[89] Con la seconda, di un pezzo di terra chiamato Collina, posto nei confini di Morrona in luogo detto Villa Negoziana, ad eccezione di tre particelle, le cui prime due << …sunt feudu de filii Gualandi de Montorgnano… >>;[90] la terza è coltivata da Ildibrando di Gerardo Cinnami.[91] Otto staiora di terra seminativa << …ad staiores duodecimos panos… >> vennero a far parte dei beni del cenobio in seguito ad una donazione di prete Tenzo fu Gumberto il 9 dicembre 1105.[92]

Beni a Soiana, Soianella e Campagnana furono donati da Rodolfo del fu Davit, Gualando del fu Guidone, Mascaro del fu Marco. La chiesa dei santi Cristoforo e Lucia di Villa Negoziana con i suoi beni ed appartenenze, compreso ogni diritto di patronato, compresa la facoltà di istituirvi un prete, fu donata da Ildebrando fu Gerardo, la chiesa era anche dotata di cimitero.[93]

Altri terreni con relative appartenenze furono offerti all’abbazia da “Ragineri comitis de Pantano” nel 1115;[94] Rolandino fu Buoso donò la metà intera del suo patrimonio, l’altra metà sarebbe appartenuta al monastero se alla sua morte non avesse avuto eredi diretti, in caso contrario gli eredi avrebbero avuto l’obbligo di dare alla chiesa del monastero un affitto annuo di dodici denari per la festa di s. Stefano.[95]

Nella seconda metà del secolo XII le pie donazioni furono molto meno frequenti, forse a causa della lacunosità della documentazione e non dal fatto che queste venissero a mancare, gli atti di fine secolo registrano solo due donazioni ad una notevole distanza di anni da quelle sopraccitate. Nella prima, del 20 dicembre 1182, Iugeneta del fu Ildebranduccio e vedova di Guido di Tavernere offre ogni suo avere e se stessa al cenobio, di cui è abate pro tempore Marco, il quale in un codicillo promette in cambio di dare alla benefattrice, vita natural durante, << …victum, vestitum convenientem… >>.[96] La seconda risale al 7 agosto 1184: Corso del fu Opizone e sua moglie Berta donano tutte le loro proprietà mobili ed immobili poste nei confini di Morrona, Aqui e Montanino.[97]

Anche i beni pervenuti all’abbazia per acquisti degli abati dovettero essere piuttosto ingenti: i primi due risalgono rispettivamente al primo febbraio e al 6 aprile 1109, entrambi hanno come attore il conte Ugo dei Cadolingi, il quale vende, col primo, metà della sua porzione del castello e corte di Morrona con << …omnibus casis et cassini, vel casalini… >>.[98] Con questo acquisto gli abati vennero in possesso della maggior parte dei terreni circostanti Morrona. Con la seconda compera, il cenobio entra in possesso della metà di ciò che Ugo possiede in << …Aquisiana curte, cum alia medietatem de tota mea portione de castello quot (sic) nominatur Vivarium… >> ad eccezione del castello e corte di Santa Lucia.[99] Entrambi gli acquisti furono fatti per << …unum par pellium in prefinito… >>; nei codicilli, che seguono la “completio”, viene stabilito che se il conte avesse avuto un erede sia maschio che femmina, tutti questi beni sarebbero stati restituiti dagli abati, contro il pagamento di quaranta lire di denari lucchesi; mentre se Ugo fosse morto senza eredi anche l’altra metà dei suddetti bene sarebbe appartenuta al monastero. Ciò fa pensare ad un prestito con garanzia fondiaria più che ad una vendita. La zona indicata è quella ad est dell’attuale Casciana Terme, individuabili per il riferimento al fiume Caldana, che nasce ai piedi del colle di Vivaia, dove è ubicata questa località e di cui erano già note le proprietà terapeutiche di queste acque, infatti nel documento si fa riferimento alle “aquis et aqueductibus”; in questo luogo era concentrato un nucleo importante dei beni di questa famiglia e l’acquisizione di ciò da parte degli abati fece sì che i rapporti tra il monastero e il Comune di Aqui fossero più frequenti, dando luogo ad interminabili liti di cui parleremo più avanti.[100]

Dopo che all’abbazia di Morrona erano passati, sia per donazione sia per vendite vere o simulate, un’enorme parte dei beni che i Cadolingi avevano in questa zona, il monastero diventa il polarizzatore di questa importante parte della Tuscia, punto d’incontro di tre diocesi: Lucca, Pisa, Volterra, sfuggendo al controllo dei rispettivi vescovi, in particolare a quello di Volterra, diocesi di cui faceva parte. Ma dopo la morte di Ugo, nel 1113,che determinò l’estinzione di questa famiglia, ebbe logo la spartizione e la restituzione dei beni ai vescovi nelle cui diocesi erano situati, come dal testamento dell’ultimo conte.[101] Quando il vescovo di Volterra, come anche gli altri due, fu investito della metà dei beni posti nel suo episcopato e due anni più tardi (1115) acquistò dagli esecutori testamentari anche l’altra metà per la somma di centocinquanta lire di denari lucchesi, si ebbe lo smembramento di questo enorme patrimonio che comprendeva anche i beni della badia di Morrona.[102] Ebbe così inizio il processo di decadimento economico di questo monastero?

Altri terreni, situati nelle vicinanze dell’abbazia, furono acquistati nel 1134, 1136, 1139.[103]

Ci troviamo nell’impossibilità di identificare una serie di “loci dicti”, ora per la maggior parte dei casi scomparsi, per la cui localizzazione i documenti esaminati non forniscono alcun elemento: essi collegano in genere la loro origine a qualche caratteristica del paesaggio o al nome del proprietario o del conduttore, il mutamento dei quali, nel contesto di una diversa organizzazione agraria, ne ha probabilmente provocato la scomparsa.

Il patrimonio fondiario, pur non formando un unico blocco, presenta una certa compattezza: raramente, infatti, gli appezzamenti non confinano, almeno da un lato, con altri di proprietà del monastero. Tra i confinanti figurano anche dei privati, probabilmente esponenti di famiglie più abbienti della zona ed enti ecclesiastici come la chiesa dei ss. Nicola e Bartolomeo. La grande percentuale di fondi privi di indicazione di misura rende, purtroppo, il discorso quantitativo necessariamente generico. Nella maggior parte dei casi viene commerciato il singolo appezzamento, la “petia de terra” sempre definita nei suoi confini, oppure la “terra et res”, la “terra et vinea”, ubicata in uno o più luoghi, confinata e solo in pochi casi misurata. Questa prevalenza della “petia de terra” impone l’immagine di un enorme frazionamento agrario, del resto anche le quattro confinazioni indicate per ciascuna parcella e in cui compaiono con frequenza la “via” e il “fossatus” fanno pensare a una viabilità campestre e ad una rete di fossi piuttosto intensa.

La natura dei beni posseduti dal monastero varia: in gran parte si tratta, come già detto, di pezzi di terra, di mulini, di casine o casalini, più di rado di orti. I terreni sono coltivati a grano, vigne, olivi, prati e pascoli.

La forma di gestione, sulla quale siamo infirmati da quattro documenti risalenti al 1115, 1168, 1196, 1198 è l’affitto, che veniva concesso in cambio di un censo annuo in denaro da soddisfarsi nelle feste di s. Michele e s. Giovanni (4 dicembre).[104]

Dal patrimonio fondiario dell’abbazia furono alienati ancora dei beni con due vendite: abbiamo visto che quando il vescovo Ruggeri divenne contemporaneamente anche arcivescovo di Pisa, rivolse la sua politica a favore di questa città in connessione con la politica di espansione che Pisa perseguiva nelle Colline Pisane e nel contado volterrano fin dall’inizio del secolo XII. Anche gli abati di Morrona si orientarono in questa direzione, cercando di svincolarsi sempre più da Volterra e unendo le sorti del monastero a Pisa; infatti quando nel 1135 l’abate Gerardo si trova gravato da ingenti debiti, vende all’arcivescovo di Pisa Uberto quei beni che aveva acquistati nel 1109 dal conte Ugo.[105] Nel 1152, l’abate Jacopo vende ancora all’arcivescovo pisano tutti i beni che il monastero possiede in Montevaso e nei dintorni, per edificare la badia nel luogo detto Poggio, cioè presso l’antica chiesa di s. Maria dove ancor oggi la possiamo vedere.[106]

Vogliamo concludere l’argomento sull’economia di questo monastero nel secolo XII con le parole del Volpe: << Favorivano in questo tempo siffatto distendersi del dominio territoriale della chiesa e del comune pisano o la libera donazione degli abitanti di qualche castello, o le necessità finanziarie delle abbazie un giorno floride, ora in rapida decadenza, come quella di Santa Maria di Morrona […] i vecchi monasteri di origine longobarda e franca, se renitenti ad accogliere il moto riformista dell’XI secolo, insidiati da tutte le parti dai feudatari avidi, minati dalla sorda e tenace ribellione dei loro dipendenti, si trovano a poco a poco spogliati della terra ed onerati di debiti coi cittadini più ricchi per i quali simile impiego di denaro è un’ottima speculazione, perché non mancherà mai loro l’appoggio del comune contro gli abbati ed i feudatari del contado. E’ questo il caso, nel XII secolo, di molti monasteri del contado pisano, specialmente se hanno vicino un fiorente comune rurale col quale i contrasti sono inevitabili come quello di San Felice di Vada, San Salvatore di Sesto, presso Bientina, di Santa Maria di Morrona nel castello omonimo >>.[107]

 Secolo XIII

 La sporadicità dei documenti impedisce un’organica ricostruzione dei possessi che costituirono il patrimonio fondiario del cenobio anche per il secolo XIII.

I beni acquistati dagli abati, in un arco di tempo che va dal 1239 al 1272, sono appezzamenti di terre lavorative, con alberi, boscate e vignate, in alcuni dei quali sorgono anche case e casalini; se poi volessimo indicare quali alberi fossero coltivati dai contadini del monastero, potremmo compilare, in base alle nostre fonti, un inventario molto inconsistente, in quanto sono nominati solo fichi e peri, in numero maggiore gli ulivi.[108] I cerri e le querce, che pur costituivano la base della vegetazione arborea in queste colline, sono menzionati rarissime volte nei documenti, probabilmente questa lacuna è dovuta alla frequenza di queste piante che ne rendeva inutile la precisazione ed erano sottointese nel generico vocabolo di “albero”.

Vite e frumento sono le uniche colture cui le fonti si riferiscono più frequentemente, in special modo per la prima come di quella più pregiata: queste vigne erano disseminate un po’ dovunque. Quanto al frumento, base dell’alimentazione e base, in molti casi, delle unità di misura di questi terreni, lo troviamo nominato molto spesso anche come retribuzione dei censi che i contadini davano agli abati. Rare volte il pezzo di terra era lavorato a prato.

I riferimenti topografici degli acquisti sono, come per il secolo precedente, designati con “loci dicti” ed il quadro generale è sempre quello di un intenso frazionamento fondiario, in cui, dopo lo sfaldamento del manso, prevale incontrastata la “petia de terra”, ma nonostante ciò possiamo rilevare che il patrimonio fondiario del monastero si dislocava in modo piuttosto omogeneo intorno ad esso per un raggio molto vasto, anche se, data la mancanza di misure dei terreni nella maggior parte delle fonti, non ricostruibile dal punto di vista quantitativo.

Questi beni erano dati a livello o a locazione, ma non è specificato se a contadini o a coloni o ad altre persone di diversa condizione giuridica. Un livello risalente al 13 gennaio 1271 fu concesso dall’abate Alberto a prete Scolario, pievano della pieve di Morrona, per conto della stessa pieve, consistente in numerosi appezzamenti di terreno siti nei pressi intorno alla pieve, per una durata di ventisei anni.[109]

I censi, annuali, erano retribuiti sia in denaro (quasi sempre moneta pisana), che in cereali (grano, orzo, miglio), .[110]

Le nostre fonti non ci permettono di formulare un organico discorso sul punto essenziale dell’organizzazione della proprietà monastica, cioè sui sistemi di sfruttamento del lavoro contadino. L’accumulazione di terre da parte dell’abbazia durante i secoli XII e XIII con il continuo acquisto di terreni, incameramento di patrimoni familiari, organizzazione della propria ricchezza fondiaria intorno a chiese e villaggi, dovette essere considerata, probabilmente, anche come la ricomposizione di un dominio sulle famiglie contadine, in un quadro ormai decaduto dell’antica organizzazione per mansi.

Per quasi tutta la prima metà del secolo XIII nessuna donazione al monastero compare nelle fonti: l’ultima risale al 1184, per cui il cenobio non avrebbe ricevuto donazioni per un periodo di cinquantotto anni.[111] Avanzare delle ipotesi a questa mancanza di offerte da parte laica sarebbe cosa inopportuna e da fare con la massima cautela, d’altra parte il vuoto di donazioni degli anni che vanno dal 1184 al 1242, anno in cui troviamo la prima “cartula offersionis” di questo secolo, potrebbe essere una delle tante conseguenze della lacunosità della documentazione, come già altrove detto.[112]

Tale donazione è interessante per diversi motivi, perché è un’alienazione di beni cospicua, per l’ius patronato  delle due chiese e perché nel documento troviamo una frase che sembra fuori tempo: Scotto del fu Bernardo e Gregorio suo figlio danno a Benedetto, abate di Morrona, oltre ad ogni loro possesso posto nel castello di Montanino anche lo ius patronato della chiesa dello stesso luogo. Offrono, inoltre, il patronato della pieve di San Giovanni di Aqui << …et totam mansionem quam habet et tenet Benenatus quondam Pantonerii de qua consuevit reddere annuati quarras sex grani de Montanino et quam magister Contadinus, de eodem loco, habuit et tenuit a suprascripto Scotto actor et defensor ad penam quingentarum marcarum aurei… >>.[113] L’abate concesse loro un vitalizio annuo consistente in tre staia di grano e una libbra d’olio. E’ da notare la frase << …totam mansionem quam habet et tenet Benenatus… >>[114] in un documento del secolo XIII, bisogna considerare che il frazionamento fondiario è già intenso nel XII secolo, in cui prevale ormai il pezzo di terra o la terra con vigna, la terra con bosco, la terra con alberi; la decadenza del manso è già avvenuta anche se nella prima metà del secolo XII non è raro che alcuni atti notarili nominino il detentore di un complesso fondiario, anche se non si tratta più di un manso. Verso la metà del XII secolo, l’evoluzione della decadenza del manso è giunta al termine e generalmente i documenti menzionano i coltivatori raramente, nella maggior parte dei casi le alienazioni fondiarie non avevano ormai più per oggetto tutte le terre facenti capo a una famiglia contadina, ma singoli ed isolati pezzi di terre. Certo non può essere questo unico esempio a configurare quel tratto principale della struttura curtense, né possiamo desumere la persistenza di questa struttura nella zona alla fine della metà del secolo XIII da questa formula, in cui il manso figura compreso nei beni della pieve di Aqui alienati al monastero, è probabile che rappresenti più un’indicazione geografica che l’espressione di un legame strutturale. Sempre nella stessa carta, l’abate, col consenso dei suoi monaci, promette per sé e per i suoi successori, di dare << …ei vel suo herede aut cui ipse preceperit apud castrum Montanini toto suprascripte vite Scotti esse??? in dicto castro staria tria grani et libram unam olei ad pena dupli… >>.[115] Un altro rogito con la stessa data contiene la conferma dei beni da parte del donatore.[116]

Nella seconda metà del secolo tre sono le donazioni (reperite) fatte all’abbazia: la prima effettuata da Belcolore vedova di un certo Fabbri di Terricciola, che per rimedio dell’anima sua e dei suoi parenti dona a Gerardo abate un pezzo di terra con fichi e bosco, posto nei confini di Morrona in luogo detto Valle, terreno che viene affittato nello stesso giorno dall’abate a Guido fu Saracino di Morrona per sei panieri di grano buono l’anno.[117] Le altre donazioni sono due testamenti: con il primo, del 1286, il monastero entra in possesso di tre parcelle di terreno poste nei confini di Morrona, il testatore, Benvenuto del fu Giovanni dello stesso luogo, obbliga con una clausola l’abate ad affittare gli appezzamenti a Lenzo, Naccio e Donato, figli del fu Carbone e abitanti nello stesso luogo, per un censo annuo di sei quarre di grano. Il testatore, inoltre, lascia all’abbazia altri due terreni situati nelle vicinanze degli altri, uno dei quali con una casa, a condizione che Beldimanda, sua moglie, << …det annuatim suprascripto monasterio quarras duas boni et puri et nostratis grani ad reptam pisanam mensuram apud idem monasterio… >>.[118] Porta la stessa data il rogito con cui Alberto abate entra in possesso di questa cospicua offerta.[119]

Un pezzo di terra posto sempre nei confini di Morrona in luogo detto Cascina viene a far parte del patrimonio fondiario di Santa Maria e San Benedetto con testamento di Lupo fu Pellario di Morrona il 16 giugno 1288.[120]

Negli anni 1275-1276 la badia di Morrona pagava di decima libbre 25 e soldi10; nel 1276-1277 libbre 26 e soldi 6.[121]

Secoli XIV e XV

 All’inizio del XIV secolo, la badia di Morrona pagava di decima lire 14.18, ciò farebbe supporre che le rendite fossero molto diminuite dal 1276-77 quando, come abbiamo visto, pagava lire 26.6;[122] ma al tempo del Sinodo Belforti (1356) il monastero pagava di decima 90 lire,[123] questo farebbe ipotizzare una ripresa economica all’inizio della seconda metà di questo secolo: cosa poco probabile, perché il cenobio, come vedremo, ha un’evoluzione abbastanza rapida di quella decadenza economica iniziata già nel secolo XII. Chiara testimonianza è la bolla pontificia spedita da Bonifacio VIII al pievano di Chianni il 17 aprile 1300, perché si occupasse di rivendicare per il monastero tutti quei beni che erano stati alienati illegittimamente dagli abati, queste concessioni a laici e chierici avevano causato gravi danni economici al monastero.[124] Nella bolla non viene menzionato il nome del pievano, ma supponiamo che si tratti di un certo Giacomo, pievano a Chianni dal 1285; resta ignoto il motivo per cui Bonifacio VIII si rivolga a questo pievano per tale incarico, che in quei tempi rappresentava un esercizio di difficile attuazione e da conseguire con molta diplomazia.[125]

Nella prima metà del Trecento il monastero entra in possesso di vari pezzi di terra acquistati dagli abati, questi beni sono dislocati nei confini di Morrona ed Aqui, sono terreni boscati, campi, con ulivi ed alcuni hanno anche dei fabbricati.[126]

Sempre in questo periodo troviamo due donazioni: la prima, del 1324, è un testamento per il quale “Corbulus quondam Strenne” di Morrona dichiara di voler essere sepolto nel monastero di Santa Maria, lasciando 30 soldi di moneta pisana per il suo funerale, 40 soldi per il settimo giorno dalla sua scomparsa, 10 soldi per l’altare del monastero, 5 per quello della pieve e 5 per quello della chiesa di San Bartolomeo; lascia inoltre due pezzi di terra.[127] Il diritto di sepoltura era molto ambito perché i vantaggi economici che i monaci ne traevano dovevano essere non indifferenti, in quanto ogni corpo seppellito assicurava al cenobio lasciti ed elemosine nello stesso giorno del funerale, poco tempo dopo e generalmente una volta all’anno. Questo tipo di concessione non piaceva ovviamente ai titolari delle pievi, non contenti di perdere i diritti loro spettanti secondo il diritto ordinario.

Nella seconda donazione Ugolino fu Bonaccorso da Morrona e sua moglie Mingarda fu Morronese, dello stesso luogo, offrono, per la salvezza delle loro anime e dei loro peccati, se stessi e tutti i loro beni mobili e immobili presenti e futuri, rinunciano ad un salario, ma si riservano 22 lire di denaro pisano per dote delle loro figlie.[128]

Da una vendita di legna effettuata nel 1306, l’abate Corrado ricava 40 lire “pro utilitate et melioramento” del monastero: la legna si trova in luogo detto “Silva Abbatis” e viene acquistata da due abitanti di Soiana.[129]

Nello stesso anno il 18 di gennaio una grossa parte dei beni della badia fu data in feudo, o meglio in accomandigia dall’abate Corrado a Bonifacio, conte di Donoratico e signore della sesta parte della Sardegna: con la decadenza economica, il monastero si trovò probabilmente in grosse difficoltà specialmente col laicato, come dimostra anche la bolla di Bonifacio VIII, in quanto non era più in grado di esercitare la sua potenza sopra tutto e tutti come era avvenuto per il passato, quindi trovò nel conte di Donoratico più che un feudatario un protettore,[130]  << …erano luoghi, quindi, dove abbondavano boschi e pascoli anticamente comunali, passati poi con la conquista barbarica al fisco regio e donati a Grandi ed a monasteri. Vi avevan perciò nel IX, X, ed XI secolo prosperato vigorosamente nobiltà feudale ed istituzioni monastiche, due prodotti identici di una stessa età storica, della cui protezione e della cui rovina più tardi si giovano le comunità agricole germogliate sul terreno da quelle preparato e desiderose di rivendicare, come realmente rivendicano, quei diritti antichissimi sulle terre comunali: germogliate entro le corti signorili e monacali… >>.[131]

Al 1309 e successivamente al 1320 risalgono tre permute, un’altra è del 1347: con la prima l’abate Corrado cede nove pezzi di terra con ogni appartenenza posti nei confini di Morrona, in cambio di tre terreni appartenenti a Pardo di Bonaccorso abitante nello stesso luogo, la seconda, presente al rogito Bonaventura, priore di Camaldoli, l’abate Bartolomeo cede due case con “orticello”, ubicate in Morrona, in cambio di alcuni beni appartenenti a ser Francesco; sempre nello stesso documento viene permutato un pezzo di terra con un altro più vicino al monastero. che appare anche Nella terza permuta, due terreni di Pardo di Bonaccorso vengono ceduti a “Bartholomei de Eugubio”, allora abate del monastero, perché più vicini agli altri possessi dell’ente ecclesiastico, in cambio di terre confinanti con altre proprietà nel morronese. [132]    

Abbastanza numerose, sempre per quanto riguarda la prima metà di questo secolo, sono le locazioni di terreni, edifici e mulini, che rappresentano in modo esclusivo la conduzione del patrimonio fondiario del cenobio.[133]

Il censo annuo da soddisfarsi in occasione di varie festività era sia in natura che in denaro (sempre moneta pisana). I toponimi e i cosiddetti “loci dicti” sono sempre gli stessi, quindi non ci sono stati grandi cambiamenti rispetto al secolo precedente.

Sei retribuzioni di censi date dagli abati al presule volterrano risalgono agli anni 1315, 1318, 1322, 1333, 1335, 1340. Il primo censo viene soddisfatto il 22 ottobre 1315 dall’abate Bartolomeo, consistente in quindici soldi << …pro anno elapso […] pro censu Abbatie predicte et capelle de Morrona, annis singulis… >>[134] e davanti al vescovo e ad altri testi, essendo inadempiente << …promittens dictam solutionem… >>.[135] Il censo soddisfatto il 3 settembre 1318 consiste in due rate di quindici soldi ciascuna, siccome  << …non solutorum per duobus annis… >>.[136] Sempre l’abate Bartolomeo, rappresentato da Mansueto suo monaco, il 14 ottobre 1322, corrisponde al vescovo volterrano quarantacinque soldi a titolo di censo per la pieve di Santa Maria di Morrona e per la cappella di San Bartolomeo dello stesso luogo, lo stesso Mansueto, sempre a nome dell’abate << … finem refutationem et pactum de ultius non petendo dictum censum anni presentis et promittens per se et suos successores dictas confessus est refutationem et finem perpetuo firmam et ratam habere et non confacere ut veire sub obbligationem bonorum Episcopatus predicti… >>.[137] Il 29 dicembre 1333 Benvenuto, monaco del cenobio di Santa Maria di Morrona, in rappresentanza del suo abate corrisponde al vescovo di Volterra soldi quarantacinque di denaro pisano per censo della pieve e della cappella di Morrona, che era tenuto a soddisfare ogni anno per la festa dell’Assunzione. << …Renuntians exceptiam non date, tradite et numerate sibi dicte pecunie et omni exceptioni doli mali et infactum. Nec non promictens stipulatione solepni dicto dopno Benvenuto recipienti pro dicto domino abbate predictam confessionem solutionem renuntiationem et omnia suprascripta et quolibet predictorum firma rata et grata habere et tenere perpetuo et non contrafacere vel venire per se vel olim aliqua ratione vel causa de iure vel de facto, sub pena dupli dicte quantitatis pecunie et dupli omnium expensarum ac interesse litis et extra et sub obligatione sui et bonorum suorum… >>.[138] Il rogito per il censo risalente al 30 dicembre 1335, quando Giovanni di Ugolino di Casanova, procuratore del monastero morronese, a nome dell’abate, paga al presule volterrano non solo quarantacinque soldi di denari pisani, ma anche quindici soldi di denari volterrani per la pieve e cappella di Morrona, ha più o meno lo stesso tenore di quello precedente,[139] come anche quello relativo al 6 giugno 1340, essendo abate Silvestro d’Anghiari.[140]

Durante il secolo XIV sono solo tre i rogiti che ci informano delle elezioni e costituzioni di procuratori del monastero, nel primo, relativo all’anno 1334, Bartolo, abate del cenobio di Morrona e il pievano della pieve di Ginestrelle dello stesso luogo eleggono procuratore Fazio, abate del monastero dei Santi Giusto e Clemente di Volterra;[141] con il secondo, lo stesso abate con il rettore della chiesa di San Bartolomeo di Morrona eleggono a procuratore ancora l’abate del monastero dei Santi Giusto e Clemente di Volterra, il rogito risale all’anno 1336;[142] nel terzo documento datato 1343, l’abate Silvestro elegge procuratore e difensore del monastero di Morrona << … Funtinum porelli de Veneri, conversum dicti monasterii… >>.[143]

 

Fare un quadro della situazione economica e del patrimonio fondiario di questo cenobio è estremamente difficoltoso, ma per la seconda metà del secolo XIV è addirittura impossibile, in quanto le fonti, già lacunose, si interrompono bruscamente alla fine della metà di questo secolo, per riprendere in quello successivo, anche se in modo molto limitato, comunque da questa frammentarietà di notizie possiamo dedurne uno stato di generale decadenza e di miseria. Nella Costituzione camaldolese fatta nel Capitolo volterrano il 21 maggio 1351 il monastero di Morrona figura tra quelli mediocri, ma non sappiamo se è definito mediocre rispetto al numero dei monaci e per la grandezza dell’edificio oppure per i suoi possessi.[144]

Dalle collette dell’Ordine del XIV secolo, che coprono un periodo di tempo che va dal 16 luglio 1315 al 1324, possiamo rilevare che la badia di Morrona pagava tre fiorini, quando il monastero dei SS. Giusto e Clemente di Volterra pagava otto fiorini, ciò fu stabilito nel capitolo celebrato in Cortona nell’anno 1315. Nel capitolo del 1317 fu decretato: << …est ratio distributionis collecte sexcentorum florini aurei in duobus terminis solvendorum… >> da soddisfarsi il primo giorno di agosto e il primo di settembre, quindi come prima rata il cenobio di Morrona doveva pagare otto libbre e quattro soldi;[145] più avanti troviamo che il monastero pagava libbre sedici e quattro soldi, << … isti sunt que solverent collecte sua monasterio contingentis proxime imposite… >>.[146] Il mese di ottobre del 1320: << …infrascipta est ratio collecte MCC florinorum aureorum imposite pro negotiis ordinis maxime pro eam sancti Savini in monasterio Vulterris cum consiliarum ordinis videlicet… >>,[147] al monastero di Morrona spettavano undici fiorini e trentadue soldi. In data 1318 per la festa di Pentecoste << … infrascipta est distributionis collecte MCC florinorum aurei imposite pro negatus ordinis maxime pro eam monasterio sancti Savini in monasterio sancti Zanobi pisanis quando ibidem fuit generale capitulum celebratus… >>,[148] Il monastero di Morrona corrispose una somma di fiorini undici e trentadue soldi, << …infrascripta est pecunia exacta pro abbatem sancti Michaeli de Burgo pisani… >>.[149] Lo stesso importo lo troviamo il 27 aprile 1320 e in maggio dell’anno successivo gli otto fiorini sono scesi a sette e trenta soldi, per arrivare a sei e trenta soldi nel mese di dicembre. Nel 1323 Benedetto, procuratore del monastero di Volterra, paga la colletta per il suo monastero trattenendosi venti fiorini d’oro prestati per fare fronte a debiti del monastero. Allo stesso modo paga per il monastero di Morrona “dominus Vitali”, ritenendo per sé dieci fiorini che aveva dato in prestito per debiti. Il monastero di Morrona deve pagare per la colletta dello stesso anno ed entro determinati termini cinque fiorini d’oro << …et singulis annis sequentibus sibi monastrerium debet solvet… >> tre fiorini d’oro.[150] Il monastero, quindi, aveva corrisposto come prima rata fiorini cinque, come seconda fiorini tre, come terza e quarta quota fiorini cinque. << …Item solve abbatibus de Roma pro presentia… >> fiorini otto; residua la somma di due fiorini. Nel 1381 non viene menzionato il monastero di Morrona.[151]

Il 9 novembre 1390 da una bolla pontificia di Bonifacio IX apprendiamo che il papa ordina ai monaci del monastero di ricevere come abate Giorgio, già abate del monastero di San Michele in Borgo di Pisa, è questa la seconda volta che troviamo un abate eletto da un papa: infatti con una bolla emanata da Clemente V, nel 1313 maggio 24, viene eletto il nuovo abate di Morrona nella persona di Pietro di San Salvatore di Selvamonda, della diocesi di Arezzo, l’abbaziato cenobitico era vacante, per il passaggio dell’abate Bartolo al monastero di San Giovanni di Borgo San Sepolcro.[152] Questo può essere il sintomo di una decadenza non solo economica, ma soprattutto di una decadenza di quel potere che aveva contraddistinto le azioni e la condotta degli abati che si erano succeduti nel corso dei secoli. Questo declino del potere potrebbe essere stato la causa della concessione del feudo di Montanino e altri beni, al conte di Montescudaio. Ormai dell’antica potenza dell’abbazia non restava che il ricordo: l’ascendente che aveva avuto sopra ogni persona che aveva tentato di opporsi ai suoi privilegi o al volere di un abate, alla fine del XIV secolo era quasi nullo. Per difendere i beni restanti il generale dell’ordine Andrea e Giorgio abate di Morrona, col consenso dei suoi monaci, concedono in feudo perpetuo parte di questi beni a Niccolò conte di Montescudaio, cittadino pisano, figlio di Giovanni della famiglia dei Gherardeschi:[153] << …considerata presertim magna potentia et excellentia egregii et potenti viri Nicolai comitis de Montescudario. Considerato etiam quod memoratus dominus haberi possit pro fideli et defensore monasterii et ordinis supradicti… >>.[154] Già abbiamo visto che all’inizio del secolo una grossa parte dei beni vengono dati in feudo a Bonifacio conte di Donoratico, il quale però non lascia eredi, quindi nel 1393 tali beni passano a Niccolò non solo per le sue ottime qualità morali, ma perché è erede indiretto di Bonifacio. Il conte di Montescudaio viene, dunque, dichiarato difensore di questo monastero contro la vioenza dei laici che occupano indebitamente i beni della badia o non soddisfano gli obblighi pattuiti: << …et considerato etiam maxime per prefatum dominum generalem priorem et dictum dominum abatem grata devotionis obsequia et favoris que olim bone memorie magnificus et potens vir Bonifacius comes de Donoratico et sexte pertis regni Kallaritani dominus, cui per cartam rogatam a ser Oliveri Maschione notario olim Michaelii dominice incarnationis anno MCCCVI […] et etiam considerato quod prefatus comes Nicholaus est de prosapia et in patrimonio ut dicitur, prefati magnifici domini Bonifacii comitis et ex dicto domino comite Bonifacio nullus appareat filus masculus, seu descendentes, per hoc instrumentum dedit et tradit et libere concessit prefato domino comiti Nicholao de Montescudaio… >>.[155] I beni consistono in << …medietatem integram pro indiviso totius castri Montanino, Plebarii Balnei de Aquis et eius territorii, dominii o proprietatis… >>,[156] ad eccezione però del patrimonio sulla chiesa di Collemontanino: << …non intelligatur concessus patronatus ecclesiae Sancti Laurentii de Montanino et Rumitorium Terre Veteris et nove, qui et quod in hoc contractu non veniant… >>.[157]

Un documento del 5 maggio 1408 ci informa di una commissione data da Agostino Moriconi da Lucca, abate del monastero di San Pietro de’ Pozzuoli a Orlando, abate di Morrona, per agire in sua vece nella futura elezione del nuovo priore di Camaldoli. Il 16 giugno 1462, con una procura fatta da Iacopo di Andrea da Galatea, abate del cenobio di Morrona, a Benedetto del fu Masco di Andrea da Galata, suo nipote e priore di Santa Maria di Vincareto, “per rinunciare in di lui nome la detta badia di Santa Maria nelle mani del pontefice Pio II o di Mariotto, priore dell’Eremo e generale di tutto l’Ordine camaldolese”. Risale al 15 marzo 1464 un breve di Pio II diretto al priore e generale di tutto l’Ordine camaldolese, con cui gli demanda di consegnare per usufrutto un possesso del monastero di Santa Maria di Morrona a Iacopo, il quale era stato abate dello stesso monastero, affinché possa vivere in modo decente, ma di non andare oltre il sostentamento. Tale bene serve anche per compensare l’abate Iacopo di un credito di duecento fiorini che aveva fornito al suo monastero per avere dovuto sostenere una lite.[158]

Dal catasto dei religiosi degli anni 1427-29 si può tentare una ricostruzione dei beni posseduti dal monastero in quel tempo: nel castello di Morrona possedeva tre case ed un frantoio, un’altra casa era situata nei confini di Soiana.[159]

Dei numerosi mulini dislocati lungo il corso delle acque dei fiumi Caldana e Cascina, di cui abbiamo già fatto cenno ma ne parleremo più ampiamente nel successivo capitolo, ne restavano uno nei confini di Morrona ed altri due presso Aqui, di cui uno era terragno e l’altro francesco, cioè il primo aveva la ruota piccola e più bisogno di acqua, il secondo aveva la ruota più grande, ma occorreva un corso d’acqua più lungo .[160]

Sei poderi posti nei confini di Morrona ed Aqui facevano ancora parte delle proprietà della badia Camaldolese, insieme a numerosi pezzi di terreni, di cui però non conosciamo l’estensione, erano terre campie, vignate, ulivate, fruttate, boscate, pratate e collinate; tra queste figura anche un canneto “sull’acqua del Bagno” , cioè ad Aqui.[161]

Gli affitti menzionati sono quattro che l’abate pro tempore riceveva ed erano sempre retribuiti in grano.

Da tutti questi beni, il monastero traeva una rendita annuale di settecentosettantuno fiorini, diciotto soldi e cinque denari. Ma tra le varie spese ed i debiti il cenobio doveva pagare millecinquecentonovantaquattro fiorini, otto soldi e cinque denari, superando di gran lunga le entrate: da questi dati appare chiaro lo stato di abbandono e di miseria in cui versava la badia, nonostante i beni posseduti fossero ancora considerevoli.[162]

Le spese che doveva sostenere servivano al salario di un monaco, di un fante e di un cuoco; al censo annuo che il monastero doveva pagare al generale dell’ordine, all’eremo di Camaldoli, al vescovo di Volterra ed alla decima papale. Altre spese erano per il mantenimento delle tre case rimaste, << …che stanno molto male e chagiono e sono cadute… >>.[163] Doveva, inoltre, provvedere al mantenimento di un “monachetto”, che accudiva a << …Domenico Orlando  che fu abate della detta badia, perché lo detto è molto vecchio gli fu chonceduto per lo generale dell’ordine per la sua vecchiezza fiorini venticinque l’anno per suo vivere e vestimenti… >>,[164] il quale abate doveva restituire all’abate di San Zeno  otto fiorini che aveva preso in prestito; un fiorino all’abate di San Michele di Pisa e tre fiorini a Meo da Certaldo << …per panno che levò al sopradetto domino… >>.[165] Un oncio d’olio comperato da prete Masino di Terricciola e mai pagato; cinque fiorini presi in prestito da Donato, monaco di San Frediano (Pisa); anche a Barsotto di Corso l’anziano abate doveva restituire cinque fiorini avuti in prestito e a Iacopo di Chele di Chianni doveva nove sacchi di grano, tre fiorini e sette soldi.

Per la festa di Santa Maria di settembre, doveva pagare quattro fiorini.

Il monastero era gravato da molti debiti da soddisfare << …a più e più persone lo quale lo nome non si mette perché sono in molte persone… >>.[166] Gli eredi di Gherardo Canigiani dovevano avere ventisette fiorini, quindi vedendo che il debito non veniva estinto aveva preso in pegno un possesso dei migliori, posto nei confini di Morrona. Dovevano, infine, essere dati quattro fiorini << …al Generale per suo mulo che si schorticò essendo lo detto Generale al Bagno… >>. Per la festa di Santa Maria di settembre, doveva pagare quattro fiorni.

<< …Monasterium porro (sic) de Morona tanquam Eremi Manuale pluries confertur et visitatur. Censumque salmae unius olei Eremo persolvisse constat anno 1329 ad 1483, quod ab Episcopo Vulterrano D. Francisco Soderino vi et armata manu fuit occupatum dum visitaret illud atque in eo abbatem praeficeret… >>.[167]

Risale all’8 di giugno del 1464 la vendita di una casa ad un certo Nanni per la somma di 24 fiorini.[168]

Dopo la caduta di Pisa in potere dei Fiorentini (1406), la documentazione concernente l’abbazia si fa sempre più lacunosa, anche perché ormai era lontano il tempo in cui il cenobio aveva grande potere e ampli privilegi. Le guerre combattute tra Pisani e Fiorentini avevano depauperato l’economia locale e devastato il contado sul cui territorio si era combattuta la guerra ed il monastero non trovò più l’appoggio della Chiesa di Pisa, tanto meno nell’episcopato volterrano, i cui rapporti erano sempre stati molto instabili, talvolta burrascosi, nonostante la badia spettasse a questa diocesi. Dal 1406, dunque, il cenobio divenne di dominio fiorentino.

Capitolo III.  I rapporti degli abati con il clero e con i laici

 La vita, all’interno del cenobio, era piuttosto movimentata e gli abati ricoprivano una carica estremamente impegnativa, che li teneva ogni giorno immersi in problemi amministrativi, politici e spirituali. Come un signore nel suo dominio dovevano esercitare i loro diritti e far rispettare i doveri, difendere la propria autonomia dall’ingerenza dell’arcivescovo pisano, ma soprattutto dal presule volterrano, i cui rapporti furono sempre burrascosi, per terminare, nel 1482, con la presa del monastero “manu armata” da parte del vescovo.

Ma che genere di rapporti ci furono tra gli abati e il clero e tra gli abati e il laicato? Manca, purtroppo, una documentazione omogenea, infatti abbiamo dei “vuoti” in vari periodi di tempo, ma quella di cui disponiamo ci dà un’idea abbastanza chiara di tali rapporti.

Un documento dettagliato, del 23 maggio 1162, ci informa su una sentenza che pose fine ad una lite sorta tra l’abate e i consoli di Aqui: Pellario e Gerardo di San Casciano, consoli di Pisa, su consiglio di Ildebrando Pagano, giudice ordinario e dei suoi assessori, furono incaricati di definire questa controversia causata dalle pretese che l’abate aveva verso i consoli, Comune e popolo di Aqui, << …que non sinebant eum quiete possidere Nigothanam… >>, le cui terre erano poste nel distretto del comune di Aqui, ma facevano parte di un beneficio goduto dall’abbazia.[169] Con una “cartula offertionis” del 25 marzo 1104 il monastero era venuto in possesso di tutti i terreni, vigne, colti e incolti appartenenti alla chiesa di San Cristoforo e San Lucia di Negoziana; il donatore, Ildebrando del fu Gerardo, comprese nella donazione anche tutte le offerte, decime ed oblazioni di questa chiesa, che << …ab omni parte circumsacrata est cum cimiterio… >>;[170] inoltre l’abate aveva la potestà di eleggerne il rettore.

Al cenobio, quindi, apparteneva ciò che era oggetto della disputa: i consoli sostenevano il diritto di ogni castello di “campare et custodire” nel proprio distretto, pur riconoscendo la proprietà di queste terre al monastero, inoltre affermavano che per più di trenta anni il popolo di Aqui << …semper Nigothana campaverant et custodierant… >>.[171] L’abate, dal canto suo, dichiarava che il terreno in questione era sempre stato ritenuto libero e lavorato dai suoi “campari” senza alcuna contraddizione degli Aquisiani e del Comune; esigeva, inoltre, che gli fosse restituito un pezzo di terra di sedici staiora e mezzo che apparteneva alla sua chiesa: << …Plebanenses vero dicebant se per quadraginta annos et plus sine interruptionem prefatum terre petium per se tenuisse… >>.[172]

La disputa continua a lungo restando ferme le parti sulle loro dichiarazioni, infine la causa << …diu ante nos ventilata… >>,[173] fu studiata in tutti i suoi particolari, ma essendo i giudici rimasti molto dubbiosi, emisero la seguente sentenza: << …illi de Aqui pro curia et eius districtu mittant camparios in Negothana et custodiant. Abbas vero aut Morrona nullum camparium ibi ponat, aut per suos camparios custodiri faciat. Campaticum tamen abbas aut Morrona neque de bestiis, neque de aliis rebus tribuat. De hominibus de Nigithana abbatem absolvimus. Pantanum vero illi de Aqui scilicet plebanenses habeant et teneant sine molestia… >>.[174]

In questi anni, in Valdera, si ebbero alcune sollevazioni contro i Pisani: i cattani della zona si erano riuniti nel castello di Peccioli ed erano riusciti a mettere insieme tremila fanti e quattrocento cavalli, ma quando l’esercito pisano invase la Valdera (1163), dopo un breve assedio fu incendiato il castello di Pava, di conseguenza tutte le rocche di questa zona fino a Volterra si arresero, pagando imposizioni e dando ostaggi. Nonostante che il vescovo volterrano avesse ottenuta la giurisdizione politica di questi luoghi nel 1186 da Enrico VI, i Pisani continuarono a dominare su questi castelli, in quanto lo stesso imperatore con un diploma del 30 maggio 1193 aveva assicurato loro il dominio di queste corti. Il vescovo di Volterra reclamò presso il papa, il quale minacciò di interdetto i Pisani, affinché restituissero i castelli al prelato, ma avvalendosi del diploma imperiale continuarono il loro dominio e nel 1202 una delegazione pontificia scomunicò il potestà di Pisa, i suoi anziani e tutto il popolo.

Nonostante le pretese e l’intromettersi della Chiesa pisana, il monastero di Morrona rimase sempre sotto la giurisdizione vescovile di Volterra, anche se in alcuni documenti viene detto “in episcopatu pisano”. Questo equivoco può essere nato al tempo della duplice (fino al 1132) carica del vescovo Ruggero (arcivescovo di Pisa dal 1124) e continuato anche dopo la sua morte fino all’inizio della seconda metà del secolo XIII, tanto più che nei documenti non viene nominato l’arcivescovo o il vescovo pro tempore.[175] Ma i rapporti degli abati, che perseguirono nella loro politica filo-pisana e i vescovi volterrani furono, come già detto, sempre molto discutibili, specialmente durante il corso del secolo XIII, in cui gli abati aumentarono la loro potenza, appoggiati in questo dalla Santa Sede Apostolica, i cui papi emanarono varie bolle a favore dell’ordine Camaldolese e tra gli altri monasteri figurava sempre citato anche quello di Morrona.

E’ datato 25 giugno 1200 l’atto con cui Ubaldo, arcivescovo di Pisa e primate di Sardegna, concede a Martino priore camaldolese, ricevente per il cenobio di Morrona, e ai suoi successori la facoltà perpetua di potere eleggere ed istituire in perpetuo un sacerdote nella cappella di Montanino << …sine mea meorum successorum vel cuiuslibet alius contradictione cum popoli tantum predicte cappelle conscientia… >>.[176] E se il popolo non avesse voluto acconsentire all’elezione << …electus vero sacerdos et instituto debitas et consuetas reverentias predicto monasterio exhibeat… >>.[177] Il sacerdote, però, non poteva assolutamente essere un monaco.

E’ verso la fine del secolo XI che i monaci iniziarono ad avocare a sé il diritto di adempiere alla cura delle anime, ritenendo di possedere tutte quelle qualità indispensabili per tale ufficio: povertà, castità, vita comune. Il problema delle chiese ubicate presso i monasteri fu discusso al sinodo di Clermont del 1095, in cui venne decretato che il governo spirituale non fosse tenuto da monaci, ma da un prete eletto dal vescovo col consiglio dei monaci. Il sinodo di Poitiers del 1100 stabilì che il clero regolare potesse, su ordine del vescovo, predicare, battezzare, dare la penitenza e seppellire i morti, ma ribadiva che nessun monaco poteva attribuirsi il compito di esercitare le suddette attività.[178]

Molti anni dopo, troviamo, in un atto dell’8 settembre 1293, prete Iacopo del fu Corso di Quarrata, rettore della sopraddetta chiesa che offre per censo una candela di cera da una libbra all’abate del monastero di Morrona Alberto (pisano) nel giorno della festa della Vergine Maria , dimostrazione della dipendenza della pieve dal cenobio.[179]

Il 27 settembre 1212 viene stipulata una transazione tra l’abate Viviano e prete Orlando, cappellano della chiesa dei Santi Bartolomeo e Niccolò di Morrona, il primo, a nome dell’abbazia, promette di non esigere più la decima che << …recoligebat ab omni hominibus de Morrona vel aliquis capellanus suprascripte ecclesie recolligebat pro suprascripta ecclesia de Morrona vel pro suprascrpta abbathia in confinibus Morrone vel extra confines et ubicumque homines de Morrona laboraverin… >>.[180] Venne, inoltre, stabilito che prete Orlando e i suoi successori non avrebbero dovuto dare, oltre la decima che solevano pagare, << …de ovis, et lino et candela pro facto decime que solebant dari suprascrpte abbathie… >>.[181] L’abate, che si era intromesso d’autorità nella pieve e nella rettoria dei SS. Bartolomeo e Niccolò, rinunciò dunque alle decime, ma prete Orlando dovette promettere (per sé e per i suoi successori) di dare al monastero, ogni anno per la festa di san Michele in settembre e per la festa dei Santi, in luogo della decima << …unum modium grani de quarris viginti quatuor et unum modium inter ordeum et mileum et quarras duodecim spelde… >>.[182] In più promise di dare, entro suddetti termini, soldi quaranta di denari pisani, che era solito dare anche agli antecessori dell’abate Viviano.

Se i rapporti tra gli abati del monastero e gli arcivescovi pisani furono piuttosto frequenti e pacifici, quelli con i vescovi di Volterra non lo furono altrettanto,  basta citare tre documenti per capire i rapporti che intercorrevano. Il 21 ottobre 1214, il vescovo di Firenze cerca di “appianare” delle divergenze tra l’abate e l’episcopato di Volterra, quindi proferisce un lodo circa la causa che verteva tra prete Paolo, procuratore del vescovo volterrano da una parte e l’abate Viviano e prete Orlando dall’altra, circa l’obbedienza e riverenza che il vescovo pretendeva dal cappellano. La causa, col consenso delle parti, era stata affidata all’arbitrio del vescovo di Firenze, il quale decide: <<…ut predictus capellanus de Morrona seu plebanus qui nunc est vel pro tempore fuit faciat obedientiam episcopo vulterrano pro populo et abbas de Morrona singulis anni in festo Assumptionis Beate Marie virginis det vel dari faciat iam dicto domino episcopo vulterrano vel suo certo nuntio nomine census pro capella et blebe XV solidi denari vulterrani… >>.[183] Decide, inoltre, che tanto l’abate che il cappellano non possano imporre pubbliche penitenze << …scilicet criminalium peccatorum, nec causas matrimoniales audiant… >>.[184] E il cappellano “vocato ab episcopo” sia tenuto ad andare al Sinodo come gli altri chierici del vescovato.

Il presule fiorentino giudica anche che il vescovo volterrano, nonostante l’obbedienza che gli deve il cappellano, non possa comandargli nessuna cosa che sia contraria al monastero e all’abate o contro la loro libertà, << …nec alias exactione occasionem albergerie episcopus exigat a plebaum vel capellanum vel a plebe seu a capella per se vel per alium de monasterio nihil decimus quia credimus ipsum esse exentur ab anni prestationem et quia presbiter Paulus procurator nihil contra monasterium dicit… >>.[185] Le decisioni del vescovo di Firenze evidentemente non soddisfecero quello di Volterra, infatti il 15 agosto 1219, l’abate Viviano incarica Arrigo fu Ugolinello, suo castaldo, di offrire al procuratore di Pagano quindici soldi volterrani il giorno della festa dell’Assunta nella chiesa di Santa Maria in Volterra, come dal lodo del 21 ottobre 1214. Ma il denaro non fu accettato, quindi << …Arrigus nollet dictum et abbatem in penam incidere et gravamen inde habente dictus Arrigus deposuit dictos denarios sigillatos super altare beate Marie qua est in dicta ecclesia eodem suprascripto die… >>.[186]

L’anno successivo, il 15 agosto 1220, Gerardo fu Mulinari, nunzio dell’abate, è costretto a far rogare un atto in cui si attesta che il denaro è stato depositato sull’altare della chiesa di Volterra dal suddetto Gerardo, perché anche questa volta la somma, consistente in 15 soldi di denaro volterrano, viene rifiutata dal vescovo.[187] Una transazione dell’11 febbraio 1221 sembra mettere fine a queste controversie: prete Giovanni, procuratore del vescovo di Volterra a suo nome, rinuncia ad ogni diritto sulla pieve e sulla chiesa di San Nicola di Morrona, alienando tali diritti a Guido priore di Camaldoli, ricevente per l’eremo e il monastero di Morrona.[188] Anche nel secolo seguente troviamo vari rogiti, in cui l’abate di Morrona corrisponde al presule volterrano un censo annuo di quindici soldi di denaro volterrano per la rettoria dei Santi Bartolomeo e Niccolà di Morrona.

Ma i rapporti che intercorrevano tra i vescovi e gli abati non migliorarono con il tempo, infatti dopo molti anni, nel mese di gennaio 1284, l’arcivescovo di Pisa cerca di fare da arbitro nella secolare controversia dell’ius patronato della pieve e cappella di Morrona tra il vescovo di Volterra e l’abate Gerardo. Il presule volterrano si arroga tale diritto in quanto le due chiese si trovano nella sua diocesi ed episcopato; l’abate afferma che il patronato spetta al monastero, come da tempo immemorabile. L’arcivescovo pisano << …nil aliud possit facere quam contineatur in arbitro supradicto non possum absolutum dare responsum… >>,[189] sia perché esiste il compromesso del vescovo di Firenze del 1214, sia per la bolla di Alessandro IV del 1258, con la quale viene confermato a tutto l’ordine Camaldolese il patrocinio accordato dalla Santa Sede, evidenziando che tutti i monasteri erano uniti come un sol corpo al Sacro Eremo . Il presule pisano stabilisce che << …videtur questio de procurationem, rationem, visitationis qua si exempta est plebes vel cappella non debet visitari et procuratio non debet in rationem visitationis iustitia tam quam in privilegiis reservatur episcopum defraudari non debet… >>.[190] Circa un secolo più tardi, l’8 agosto 1345, quando era abate del monastero Silvestro di Anghiari, l’elezione del pievano di San Bartolomeo e San Niccolò avviene << …ex antiqua consuetudine electio et reformatio dicte ecclesie rectoris nolens quod dicta ecclesia in temporalibus nec spiritualibus substineat per vocationem diutinam? Lesionem inquisirit et requisirit… >>.[191] Sono presenti Coli di Corniano e Cinni Ganucci, consoli del comune di Morrona, i quali concordano per eleggere Niccolò di ser Iacopo di Morrona, già pievano di San Giovanni di Ginestrella. << … dicto presbitero Niccholao de suo ore proprio et suis manibus presentavit rogans eundem ut dictam eletionem debeat acceptare qui presbiter Niccholaus electus et presentatus respondit quod super hiis deliberare volebat et maturim cogitare et de predictis respondebit prout dominus instigabit… >>.[192] Segue l’elezione del pievano << …et nichilominus edictum ad hostium suprascripte ecclesie apponat et effigat et dimittat ita quod eiusdem edicti volentibus possit haberi copia. […] Et capiens? Eum per manum mittens eum in dictam ecclesiam et eius corporalem possessionem mittendo in manus eius hostia ecclesie et claves domorum et funes campanarum et libros et pannos altaris ecclesie suprascripte offerendo eum ante altare cantando solemniter Te Deum laudamus… >>.[193]

I mulini appartenenti al monastero e posti sui fiumi Caldana e Cascina dettero ingenti guadagni ma anche molti problemi agli abati sia nel secolo XIII che in quello successivo: il 3 febbraio 1223, Martino, allora abate della badia, col consenso di Guido priore di Camaldoli da una parte e Upezzino fu Ugolino con Guerriero fu Upezzino dall’altra affidano la loro controversia all’arbitrato di Martino, abate dell’abbazia di San Giusto di Volterra e a Bonaccorso notaio. La lite era sorta a causa del possesso di un mulino, al momento distrutto, posto in luogo detto Pantano, vicino al fiume Cascina nei confini di Soiana e di un acquedotto appartenente al mulino e posto nello stesso luogo. Venne stabilita la pena di 100 libbre di denari pisani nuovi per chi non avesse osservato ciò che sarebbe stato stipulato con la deliberazione. L’abate di Morrona, in presenza di tali arbitri, chiede a Guerriero l’ottava parte e a Upezzino la settima dei beni suddetti, in quanto abitati e detenuti per quarant’anni e appartenenti al monastero da tempo immemorabile; chiede, inoltre, le spese legali e venti libbre di denaro pisano nuovo per spese extra. I due rispondono e negano che tutto ciò appartenga alla badia, ma che sia di loro proprietà, poiché furono comprati da Seragone e Guidone fratelli e figli del fu Molinari di Vico, con rogito fatto da Bonaccorso notaio e per mezzo di un’altra compera fatta da Bonaccorso fu Orlandino ricevente per Berta sua moglie, con rogito del notaio Bartalochi fu Grillo, e per donazione della quarta parte fatta da Molinari con rogito di Bertolochi notaio. La lite continua restando ferme le due parti. L’abate insiste per fare annullare i suddetti contratti e riportare le cose allo stato primitivo. Dopo avere analizzato i vari documenti a loro disposizione i guidici deliberano << …per laudum sive laudamentum et amicabilem compositionem ita diffiniorem laudarem et pronuntiaverent que dictum molendinum et locum in quo dictum molendinum conservit esse et aqueductum eius gora eius et ruptarium et aquatarium que et que olim fuere suprascripti molendini vel ad eum pertinere aliquo modo… >>.[194]

Da una vendita del 1228, veniamo a conoscenza che Martino abate di Morrona vende, col consenso dei suoi monaci e per utilità del monastero, un mulino posto in luogo detto Pantano nei confini di Cevoli, a Upertino fu Ugolino e per la valutazione dell’immobile sono chiamati prete Giovanni rettore della chiesa di Morrona e Uberto fu Ventura, non leggibile la stima, pena cento libbre.[195] Quindi, cinque anni dopo la lite il mulino torna ad Upertino o Upezzino, ma l’anno successivo 1229 (AVV, sec  XIII, dec. III, n. XXVII) lo stesso Upezzino vende a Martino abate il mulino sopraddetto per cento libbre di denaro pisano, pena il doppio, << …cum macinis et aquiductis et cum omnibus suis pertinentiis et omnia iura… >>.[196] La sorte del mulino sembra non essere ancora definita: nel 1239, lo stesso Upertino lo vende di nuovo al monastero di Morrona, rappresentato dall’abate Simone, sempre con ogni sua appartenenza  e terreno circostante.[197]Alla fine il mulino viene dato in locazione dall’abate Simone a Boninsegna fu Brinichi.[198]

Il 15 dicembre 1230, in seguito ad un reclamo fatto da Uguccione, sindaco e procuratore del monastero contro Gerardo fu Ianuensis di Morrona, il cenobio ottiene la restituzione della metà “pro indiviso” di otto pezzi di terra posti nella zona circonvicina all’abbazia e quattro libbre di denari per le spese sostenute. I giudici, Rosselmino Malabarba e Uguccio fu Pandolfi Alberti, essendo Gerardo contumace non emettono una vera e propria sentenza, ma stabiliscono che entro l’anno Gerardo si presenti davanti ai giudici, altrimenti il monastero entrerà in possesso di tutti i suoi beni e dovrà anche pagare quaranta soldi per le spese.[199]

E’ del 9 novembre 1231 una transazione, in cui Tedisco fu Venaccio di Morrona mette fine alla lite vertente tra lui e Uguccione, sindaco del monastero a causa di un pezzo di terra campia posto nei confini di Aqui nel piano del fiume Cascina vicino al bosco della badia, rinunciando ad “omni iure et actionem” su questo terreno, pena il doppio della stima per sé e per i suoi eredi; Uguccione offre la remissione dei peccati.[200] L’anno successivo, il 20 di maggio, lo stesso Uguccione presentava ai consoli di Soiana, Ugo e Magliavacca, delle lettere scritte da Tedicio, capitano della Valle d’Era, affinché i pastori e gli animali del monastero potessero continuare a pascolare nei confini di Soiana come era sempre stata consuetudine (sotto giuramento), con pena di cento soldi per chiunque avesse trasgredito entro tre giorni, altrimenti avrebbe preso provvedimenti entro sei giorni, in quanto a lui spettava tale ufficio.[201]

Il 27 maggio 1232 il priore della chiesa di San Paolo a Orto, delegato del papa, è arbitro nella controversia sorta tra Paccino fu Durazzo di Morrona fatto citare da prete Giovanni, cappellano della chiesa e l’abate Martino, il quale ultimo chiede la restituzione di un pezzo di terra con vigne ed alberi e ogni competenza, posto nei confini di Morrona in luogo detto Valle con altri terreni; il priore acconsente alla restituzione, Paccino è contumace.[202]

Il 19 luglio 1236, Pagano vescovo di Volterra e Michele abate di Morrona nominano arbitro dello loro controversie Benedetto, abate d’Elmi e rettore della chiesa di San Martino. L’abate pretendeva che la pieve e la cappella di Morrona appartenessero “in spiritualibus” e “in temporalibus” al monastero in piena proprietà e che fossero completamente libere dalla giurisdizione vescovile, inoltre l’abate voleva pagare al vescovo per la pieve e la cappella solo quindici soldi di moneta volterrana. I loro rettori dovessero prestargli obbedienza e partecipassero al Sinodo come stabilito dall’arbitrato del 1214. Il presule volterrano accorda alcuni privilegi << …super decimis, mortuariis et aliis rebus… >> e concesse a prete Enrico, << …quo se gerit pro plebano plebis Sancte Marie seu Sancti Iohannis de Morrona… >> ad eccezione di quanto stabilito nel documento del 1214.[203] Questa carta ci fa capire quanta stabilità avessero tali contratti, accomodamenti, lodi, compromessi, basta confrontare questo rogito con quelli relativi al 21 ottobre 1214 e 11 febbraio 1221 e capire la precarietà di ciò che veniva stabilito, frutto, senza dubbio, di accordi presi tra i contraenti a favore delle loro convenienze.

Dopo pochi mesi, il 10 dicembre 1236, il priore camaldolese presentò all’arcidiacono fiorentino Mugnaro le lettere apostoliche chieste contro prete Enrico del Collemontanino, poiché il priore pretendeva che l’istituzione della pieve di Morrona appartenesse a se stesso e sostiene che don Enrico si sia intromesso “in suum preiudicium et gravamum” in essa. Prete Enrico si difende dicendo che quel rescritto apostolico era surrettizio, perché era stato omesso di dire che la detta pieve era nella diocesi di Volterra ed era stata dotata di diversi privilegi dal vescovo di quella diocesi e che era stato taciuto anche che il vescovo di Volterra si trovava in possesso o quasi di eleggere il pievano di essa << …et in eo qued existit tacitum qualiter episcopus vulterranus est in possessione vel quasi iuris eligendi plebanum in ipsa … >>.[204] Prete Enrico sostenne anche che il detto decreto fosse arbitrario per essere stato ipotizzato che si fosse intruso nella chiesa, quando invece era stato istituito dal vescovo di Volterra. L’arcivescovo fiorentino così si pronunciò: << …nullam eorum tanquam dilatoriam admittendam esse, nec aliquam ex ipsis admitto, presertim cum earum quedam pertineant ad negotio principale… >>.[205]

Le controversie tra l’abate del monastero e prete Enrico continuarono, ma nel frattempo fu rogato un atto dal notaio Pellegrino il 16 aprile 1237, in cui quattordici uomini di Morrona giurarono fedeltà all’abate e ai suoi successori.[206]

Il 27 aprile 1237, ancora una disputa tra l’abate Martino e il vescovo di Volterra Pagano è causata dalla nomina del vescovo diretta a Enrico come pievano della chiesa di Collemontanino nella diocesi di Pisa. L’abate e il prete Enrico nominarono arbitri di tale controversia Martino, abate di San Michele in Borgo di Pisa, Giovanni pievano di Pava, Scotto fu Bernardo del Collemontanino e Bonaguida fu Ardizzone, ma, il 13 maggio dello stesso anno, troviamo come arbitri solo Martino e Scotto.[207] Finalmente nella sentenza emessa il 9 agosto, essendo contumace prete Enrico, i due giudici riconobbero le ragioni dell’abate, al quale il pievano doveva restituire la pieve e i suoi beni, la sua nomina ed istituzione furono dichiarate nulle.[208]

Il 15 ottobre 1241, Guido, priore di Camaldoli, delega Michele monaco dell’Eremo, di precedere all’elezione dell’abate di Morrona in sostituzione di Simone deceduto il 4 ottobre. L’incaricato del priore, dinanzi a Guido e Bruno, monaci della badia di Morrona e Spinello, Morronese, Bernardo, Martino conversi, dichiara che l’elezione dell’abate da tempo immemorabile spettava pleno iure al priore di Camaldoli, quindi elegge il nuovo abate nella persona di Benedetto, già camerario di Camaldoli, (segue un’ampia spiegazione della cerimonia). Il giorno successivo, sempre davanti ai testimoni, stabilisce che per ciò che si riferisce ai beni mobili ed immobili appartenenti al cenobio, << …ut de cetera non vendat vel alienat seu in feudum novum et iure feudi novi det alicui mundi persone vel personis de possessionibus et rebus immobilibus dicti monasterii… >> senza il consenso del priore di Camaldoli e del capitolo dello stesso cenobio, pena la scomunica.[209]

Un documento del 31 marzo 1250, ci fa capire che l’abate doveva contrastare anche con prete Enrico, pievano della pieve di Morrona, il quale attribuisce a sé e ai suoi successori il diritto di scegliere il cappellano della chiesa dei santi Bartolomeo e Niccolò dello stesso luogo, inoltre rivendica il potere di investire i cappellani sulle cose spirituali e temporali. Il notaio Bonaccorso fu Spinelli di Morrona, sindaco del monastero mise fine a questa disputa e prete Enrico, che inizialmente insiste nel dire  che l’abate e gli altri uomini presenti avevano torto, dovette rinunciare alle suddette pretese, pena duecento libbre di denari pisani.[210]

In uno dei soliti privilegi pontifici a favore dei Camaldolesi emanato da Innocenzo IV il 29 novembre 1252 si trova menzionata anche la badia di Morrona., cui seguono due bolle pontificie relative al 5 e 28 aprile 1255, indirizzate all’abate del monastero di Morrona in favore del patronato sulla chiesa di Montanino, nonostante la cessione di Scotto del fu Bernardo e del figlio Gregorio del 1242, papa Alessandro IV dovette intervenire contro il rettore della pieve di Aqui, il quale aveva istituito il rettore della pieve di montanino, andando contro la << …antiqua et approbata et hactenus pacifice observata consuetudine… >>, che ne attestava il diritto al monastero.[211]

Il giorno della festa dell’Assunta, cioè il 15 agosto 1255, Michele, abate di Morrona, dà a Domenico, monaco del monastero di San Giusto di Volterra, rappresentante Ranieri vescovo di questa città, quindici denari pisani d’argento, per soddisfare l’arbitrato e il provvedimento già stabilito da Giovanni vescovo di Firenze per la pieve e la cappella di Morrona, di cui il monastero detiene l’ius patronato ed ogni pertinenza.[212] Il documento è rogato da Filippo fu Baroni notaio e si riferisce ancora a quel lodo emesso dal vescovo di Firenze nel 1214, con cui il presule stabilì che l’abate di Morrona pagasse di censo quindici soldi di denari volterrani, censo che poi fu rifiutato dal vescovo di Volterra nel 1219. Lo stesso notaio stipula un’inibitoria, l’8 settembre 1255, che Michele abate, fa al prete Danesi, rettore della cappella di San Nicolò di Morrona, affinché non paghi nessuna colletta al vescovo di Volterra e che non presti nessun servizio segreto o manifesto al presule in pregiudizio dei diritti del monastero e qualora questi imponesse qualche elemosina, non agire senza il consenso dell’abate. Dopo un anno esatto, l’abate Michele viene trasferito da Morrona al monastero di San Zeno di Pisa; Mainetto, abate di San Michele d Pisa e delegato dal priore di Camaldoli lo elegge abate del suddetto monastero << …ac induxit in corporalem possessionem predicto monasterio tangendo muros dicte ecclesie cum ingredi non possent dicta ecclesia et sic tangendo portam clausam dicti monasteri non valentibus ingredi ipsum claustrum eodemque die dictus Michael promisit obediantia iuxta regulam… >>.[213]

Il 13 ottobre 1257, il monastero di Santa Maria e San Benedetto di Morrona riceve la visita e la riforma fatta da Ranieri, eremita camaldolese, visitatore e vicario di Martino priore di Camaldoli. In primo luogo fu interrogato l’abate Michele, davanti al notaio Orlando di Bonaccorso di Morrona, relativamente alle cose temporali e spirituali. Dopo avere descritto minuziosamente questi due argomenti, si procede alla stesura del rogito, redatto dal suddetto notaio.[214] Non differisce molto l’altra visita reperita, risalente all’8 agosto 1345, in cui Iacopo, abate del monastero di San Pietro in Pozzuoli e Bartolomeo, priore di Santa Maria in Valle Perugina, nominati visitatori dell’Ordine dal priore di Camaldoli Giovanni, visitano il monastero di San Giusto di Volterra e poi quello di Morrona. Dall’ispezione tutto risulta nella norma. L’atto fu rogato nel capitolo del monastero da Antonio di Bonaguida di Morrona alla presenza di Francesco di ser Nello di Arezzo e Blasio fu Vanni di Città di Castello testi.[215]

Il 22 luglio 1260, Iacopo, arciprete e vicario del vescovo di Volterra e i monaci del monastero di San Giusto dello stesso luogo, eleggono abate del medesimo cenobio Michele, già abate di Morrona. La confermazione di tale elezione avviene il 31 luglio << …Idem domino Michael abbas S. Iusti putuit humiliter confirmationem a domino Martino abbate de Cerreto vicario seu delegato domini Iacobi prioris camaldulensis super dicta electione facienda, quam obtinuit cum administratione promisiti que manualem obedientiam… >>.[216] Dopo pochi mesi, il 28 maggio 1261, Bartolo, vicario generale di tutto l’Ordine Camaldolese, fu incaricato da Iacopo, priore dell’Eremo << …prehabita renunciatione in suis manibus facta per domino Michaelem, qui segerebat pro abbate S. Iusti de Vulterris, eo quia in preiudicium provilegior ordinis receperat confirmationem a vicario domini electi vulterrani, eidem domino Michaeli confirmationem contulit in..o potius elegit… >>.[217]

E’del 20 febbraio 1275 una transazione tra Gerardo, abate del cenobio di Morrona e alcuni uomini del comune del Bagno a Aqui, avente ad oggetto la definizione di una vertenza relativa alla manomissione del bagno, pena cento marchi d’argento.[218]

Il 28 agosto 1278, Tarlato di Arezzo, potestà di Pisa, il capitano Rinaldo da Riva e gli Anziani del popolo di Pisa avendo appreso che, a danno del Comune di Pisa e del Monastero di Morrona, da parte di alcuni, erano stati fatti dei nuovi lavori nel Bagno ad Aqui e nel suo acquedotto, lavori che avevano danneggiato gravemente le immunità del cenobio. Quindi le persone menzionate scrivono ai consoli, ai sindaci, al Consiglio e al Comune di Aqui perché si conservino illesi i diritti del Comune di Pisa e del monastero e dispongono di far togliere tutte quelle novità e le fosse che erano state fatte nel Bagno e nell’acquedotto, dove erano i mulini della badia, fino al fiume Cascina, che tutto fosse rimesso allo stato primitivo e che in futuro non fossero fatti lavori che potessero portare danno sia al Comune di Pisa che al monastero di Morrona. Ma i consoli di Aqui fecero, probabilmente, orecchie da mercante, infatti segue un altro documento in cui vengono rinnovate le stesse disposizioni. Dalla testimonianza di vari testimoni si rileva che le novità consistevano in alcune deviazioni di vari corsi di acqua, lasciando i mulini della badia senza acqua, quindi non erano in grado di macinare, perché l’acqua riprendeva il consueto corso sotto i mulini.[219] Il 25 settembre 1278, il Comune di Pisa, in persona del notaio Leopardo, affermò che non avendo il vescovo di Volterra alcuna giurisdizione sul medesimo Comune, non aveva la facoltà di dare ordini circa la controversia tra il monastero di Morrona e il pievano di Aqui, come invece aveva fatto con sua lettera al podestà, agli anziani, al capitano e al consiglio di Pisa.[220] Su questa controversia viene trovato un accordo il 29 ottobre 1278, quando Jacopo eremita camaldolese, visconte e procuratore dell’Eremo e priore di Camaldoli e Gerardo abate del monastero da una parte e Feo pievano della chiesa di Aqui dall’altra, il quale era responsabile della deviazione delle acque e che da tempo cercava di dare fastidio al monastero circa l’uso dell’acqua per i mulini, quindi in nome di detta chiesa, promette di rilasciare in futuro sempre libero il corso delle acque per i detti mulini e di rinunciare a qualsiasi privilegio e diritto che aveva sopra i medesimi. Per questa promessa e rinuncia il pievano riceve un pezzo di terra posto in luogo detto Pantano, col patto di aggregarlo ai beni della sua pieve e di non alienarlo mai sotto qualsiasi titolo.[221]

Il giorno della festa principale del monastero, e della pieve di Morrona (8 settembre 1293), prete Iacopo fu Corso di Quarrata, rettore della chiesa di Montanino, offre ad Alberto pisano, abate del monastero, per censo un cero di una libbra.

Il primo gennaio 1297, con un rogito viene annullato << …revocavit, cassavit et irritavit et nullius valoris esse voluit ipsum perpetuo per hoc presens instrumentum annullanza… >> un atto in cui Ugo Guitti, giudice e cittadino pisano, dà al monastero di Santa Maria sei staia di grano l’anno << …iure perpetuo in fedum contra iura et statuta Camaldulensis ordinis sine consensu licentia et auctoritate prioris camaldulensis sub cuis iurisditione est dictum monasterium… >>.[222] Ciò era stato stabilito da Gerardo “olim” abate del monastero senza il consenso del priore dell’Eremo.

L’abate pro tempore di Santa Maria di Morrona e i suoi predecessori avevano concesso ad alcuni laici e chierici a vita o a censo annuo, decime, terre e altri beni, ledendo però i diritti del monastero, quindi papa Bonifacio VIII essendo venuto a conoscenza di tale situazione, con suo breve del 17 aprile 1300, incaricò, come accennato precedentemente, il pievano della pieve di Chianni di rivendicare per il cenobio tutti quei beni che erano stati alienati illegittimamente.[223] Cinque anni dopo, il 6 agosto 1305, troviamo che Duccio fu Corrado di Morrona, di sua spontanea volontà, dichiara a Leopardo di Orlando, notaio dello stesso luogo e sindaco e procuratore del monastero, che vari pezzi di terre, posti nei confini di Morrona, sono di proprietà dell’abbazia con tutte le loro appartenenze. Duccio confessa che queste terre sono da lui lavorate e avute in affitto e censo, quindi restituisce l’affitto, il censo e il reddito. Molti dei toponimi di queste terre sono rimasti invariati, ciò rende possibile la loro ubicazione.[224]

Venuto a mancare prete Neri rettore della chiesa dei SS.  Bartolomeo e Nicolò, il 27 aprile 1311 fu eletto “Folle dicte Folluccie clerico quondam Berti”. L’elezione fu fatta nel coro della chiesa del monastero dall’abate Bartolo, “pro una voce tantum ex causa iuris patronatus” e da Nuccio fu Cioni e Vanni fu Pucci Fabbri, consoli del comune di Morrona “alia voce tantum”.[225]

E’ del 2 o del 5 gennaio 1312 un’istanza fatta al potestà di Pisa Federico di Montefeltro, capitano generale del Comune e del popolo pisano, in cui si dice che per molti privilegi e concessioni papali e donazioni fatte al cenobio di Morrona, tra le quali anche quella del Bagno ad Aqui e dell’Acqedotto dello stesso Bagno fino al fiume Cascina. Viene rievocato ciò che era accaduto molti anni prima, cioè la deviazione delle acque fatta da Feo, pievano della pieve di Aqui. Da questo documento veniamo a conoscenza che il monastero possedeva lungo l’acquedotto cinque mulini tuttora attivi e che nessuna persona ha potuto in passato, né può costruire al presente ed in futuro alcun mulino nel detto acquedotto. Ciò viene specifcato perché l’anno precedente la Repubblica di Pisa, mentre era potestà Federico di Montefeltro, aveva fatto restaurare vari bagni delle terme di sua appartenenza, tra questi figura anche quello di Aqui, era stato fatto un nuovo condotto per lo scarico delle acque delle terme, ma tutto questo fu fatto con criterio di non danneggiare nessuno.[226]Temendo che i mulini del monastero venissero danneggiati o addirittura che fossero costruiti nuovi mulini, l’abate ricorre al potestà e fa istanza perché fosse provveduto a far  rinnovare e rispettare ciò che era stato stabilito anni prima, che senza l’espressa volontà dell’abate fosse vietato costruire nuovi mulini sopra il nuovo canale.[227] Subito dopo, nei primi mesi del 1313 un documento attesta una convenzione fatta da Donzeno, sindaco e procuratore del monastero, a Ugolino fu Corso e Ferrante, per la quale si dava ordine di riordinare, murare, tagliare siepi ed ogni altra cosa che poteva nuocere ai mulini posti nel canale che da Aqui andava fino al fiume Cascina.[228] Se molti anni prima era stato chiuso il nuovo canale come per volontà dell’abate del monastero, ora il nuovo acquedotto viene lasciato per utilità delle Terme. Gli abati erano molto potenti e accaniti difensori dei loro beni, per cui questa istanza fu fatta con molto impegno dall’abate, tanto che la descrizione dei fatti passati e presenti sembra molto forzata ed esagerata. Certamente il nuovo canale fatto fare dal Montefeltro aveva un’altra direzione e, come il vecchio, andava a scaricare le acque prima nel Caldana e poi nel Cascina e questo poteva dare luogo all’edificazione di altri mulini. La “gelosia” degli abati per i mulini e per il canale è evidente anche quando “Vanne Domini Guidonis de Vade”, cittadino pisano, vuole edificare un mulino Sul fiume Caldana nei pressi del Bagno di Aqui, nell’anno 1325 (4 giugno); la reazione dell’abate e dei monaci la possiamo immaginare: divieto assoluto di fabbricazione, perché per i monaci tale acquedotto apparteneva all’abbazia da tempo immemorabile.[229] Non arrivando a nessuna conclusione ed accordo, nell’agosto dell’anno successivo, troviamo che era stato proposto che l’abate vendesse a Vanni un pezzo di terra presso un altro già di sua proprietà e dell’acquedotto di Caldana. L’abate scrive una lettera a Bonaventura, priore di Camaldoli ed ottiene di vendere il pezzo di terra per un prezzo conveniente a Vanni, col vincolo, però, di non potere edificare il mulino.[230] Ma un rogito del 24 luglio 1325, ci informa che Bartolo, abate del monastero morronese, col consenso dei suoi monaci e di Antonio da Verghereto, riuniti nel capitolo del cenobio di Morrona, << …fecit, constituit atque ordinavit suum et dicti monasterii procuratorem et nuntium spiritualem presbiterum Michaelem quondam Pardi de Corniano, rectorem Sancti Bartholi de Morrona, presentem et suscipientem in omnibus et singulis casis litibus et questionibus… >>, la lite era originata << …per iactum trium lapillorum et alium modum quemqumque dicto sindico et procuratur videbitur omnibus et singulis construentibus vel edificantibus aut construere vel edificare volentibus aliquid edificium super aqua seu cursu aut aqueductu aut alveo aque Caldane Balnei de Aquis a dicto Balneo usque in flumine Cascine vel in alio quocumque loco dicti monasteri aut dicto monasterio pertinente… >>.[231] L’abate dà l’incarico al procuratore di far valere i diritti del monastero.

Il 28 marzo 1303, Ugo Guicci, giudice e avvocato della chiesa di Santa Maria di Morrona, davanti a Guidone notaio e teste, << …liberavit et absolvit fratrem Nicoluccium, monacum et sindicum suprascripte ecclesie et monasterii Sancte Marie, […] domino Ugoni dare et solvere tenetur et debet per suo salario et mercede usque ad festum Sancte Marie de augusto… >>, davanti a Guidone notaio e testimone, Niccolò <<    …dedit et solvit suprascripto domino Ugoni… >> libbre nove e dodici soldi di denaro pisano. Ugone promette di dare nella stessa festa sei staia di grano. [232]

Un rogito datato 26 luglio1317, mette fine ad una contestazione tra Iacopo, notaio di Morrona del fu Bartolomeo e Bartolo, abate del monastero,  per un pezzo di terra con “fichi et remore” e ogni pertinenza, confinata e posta presso Morrona.[233]

Il 12 settembre 1323, Bartolo, abate del monastero di Santa Maria, davanti a Michele notaio, presente come teste, interroga personalmente Giustino fu Miglio di Morrona circa un pezzo di terra, parte campia e parte boscata, posto tra Soiana e Morrona, in luogo detto Stibbiolo con i suoi confini e proibisce a Giustino di lavorare ed entrare nel detto terreno, in quanto di proprietà del monastero. << …ab hodie in antea non intret nec intrare debeat, aut laboret seu laborare debeat vel faciat laborari petium unum terre… >>.[234]

Il 13 settembre 1331, Antonio procuratore del monastero, a nome dell’abate, fa rogare un atto in cui << …inibuit et vetuit Vanni quondam ser Nini de Morrona, que tenet et conducit… >> tre pezzi di terra: il primo con olivi in luogo detto L’Aia Vecchia, confinato; il secondo con fichi e altri alberi in luogo detto Chiusura, con i suoi confini; il terzo vignato in luogo detto Scopeto, confinato. Presentemente questi pezzi di terre non vengono lavorate dal suddetto Vanni, al quale viene chiesto un risarcimento di 25 lire di soldi pisani, perché non lavorando bene queste terre, fa un torto all’abate e al monastero.[235]Tali documenti fanno capire, ancora una volta, quali fossero i rapporti tra gli abati e i laici, specialmente in tempo di decadenza dell’abbazia, queste continue controversie fanno supporre che insieme alla progressiva diminuzione di prosperità si aggiungesse anche il declino del potere.

Il 23 gennaio 1335, essendo vacante la chiesa di San Lorenzo di Montanino, l’abate di Morrona Bartolo, patrono della suddetta chiesa, procede all’elezione del nuovo rettore, nella persona di Gregorio, fiorentino, monaco camaldolese.[236] Nello stesso anno, il 26 marzo 1335, Bonaventura, priore di Camaldoli, essendo vacante l’abbaziato del monastero di Morrona, nomina abate Bartolo “de Eugubio”.[237]

Con bolla emanata da Clemente V, il 24 maggio 1313, viene eletto il nuovo abate di Morrona nella persona di Pietro di San Salvatore di Selvamonda, della diocesi di Arezzo, l’abbaziato cenobitico era vacante, per il passaggio dell’abate Bartolo al monastero di San Giovanni di Borgo San Sepolcro.[238]

In data 8 agosto 1345, Silvestro di Anghiari, abate pro tempore del cenobio di Morrona, essendo da molto tempo vacante la rettoria della chiesa dei Santi Bartolomeo e Niccolò, nomina rettore della medesima chiesa, di cui gli abati avevano, per antica consuetudine, lo ius patronato, prete << …Nicholao nato ser Iacobi capitanei de Morrona, plebano Sancti Iohannis de Ginestrella…>>, chiedendo consiglio circa la nomina a “Dottuccium Coli de Corniano et Cinum Ganuccii de Morrona”, consoli dello stesso comune. Nel documento viene descritta la cerimonia dell’immissione nel possesso della chiesa.[239]

Le guerre tra Pisani e Fiorentini avevano demolito, distrutto, diroccato tutti i castelli del contado e devastato i raccolti, anche la badia di Morrona certamente ne patì le conseguenze e dopo la caduta di Pisa sotto il potere di Firenze,  il 9 ottobre 1406, quando i fiorentini guidati da Gino Capponi, riuscirono ad impossessarsi della città pagando con 50.000 fiorini il capitano del popolo Giovanni Gambacorta che fece aprire la porta di San Marco. Anche la badia divenne di dominio fiorentino e il monastero non poté più contare sul sostegno di Pisa e tantomeno su quello dei vescovi di Volterra, nonostante la badia si trovasse nella diocesi di questa città, d’altra parte i rapporti con il vescovato volterrano non erano mai stati molto tranquilli, infatti vedremo che proprio il prelato di Volterra sarà la causa della fine di questo monastero.

Il 5 maggio 1408 Agostino Moriconi, abate del monastero di San Pietro di Pozzuoli delega Orlando, abate di Morrona di agire in sua vece nella futura elezione del nuovo priore di Camaldoli.[240]

Nonostante il potere di questo monastero fosse decaduto, gli abati continuarono a far valere i propri diritti, per quanto era loro possibile, anche nel secolo XV. Il 3 di giugno 1454 l’abate pro tempore ottenne dagli “Ufiziali Rerum et Bonorum Rebellium et Bannitorum Communis Florentie” la revoca della licenza accordata agli uomini del comune di Bagno a Aqua e di Parlascio di poter costruire un mulino atto a macinare con le acque che uscivano dalle terme, cioè da quell’acquedotto che fu costruito quando era potestà di Pisa Federico di Montefeltro, contro i loro privilegi e diritti. Ma il 25 luglio dello stesso anno, sembra che l’abate e i suoi monaci avessero cambiato idea, infatti trovano un accordo con i Comuni di Bagno a Acqua e Parlascio. In questo documento viene esposto che il monastero aveva posseduto in passato cinque mulini nel corso delle acque delle terme e che i contadini dei luoghi circonvicini avevano avuto grandi vantaggi per macinare, ma le guerre tra Pisani e Fiorentini li avevano distrutti in buona parte, creando forti disagi a coloro che dovevano macinare. Per sopperire a queste difficoltà gli abitanti dei comuni vicini avevano pensato di fabbricare un mulino sul canale che veniva dal Bagno, cioè quello che era sempre stato negato e proibito dagli abati, i quali sostenevano che fin dalla fondazione della badia, il corso delle acque delle terme era sempre stato di loro appartenenza e viene citata la donazione del conte Ugo. Finalmente venne concordato che gli uomini dei vari comuni interessati potevano costruire un mulino con casa, idoneo a macinare sopra il tanto discusso canale: << …Et teneantur solvere uomine annui census in festa Beate Marie de mense septembris unum candelabrum cere libre unius… >>.[241]

Gli ultimi documenti relativi al XV secolo risalgono al 16 giugno 1462 e al 15 marzo 1464: il primo si tratta di un mandato di procura fatto da Iacopo di Andrea da Galatea, abate di Morrona a Benedetto del fu Masco di Andrea suo nipote e priore di Santa Maria di Vincareto, per rinunciare a suo nome alla suddetta badia di Morrona e rimetterla nelle mani del pontefice (Pio II) o di Mariotto, priore dell’Eremo e generale di tutto l’ordine Camaldolese, documento citato precedentemente.[242] Il secondo è un breve di Pio II diretto al priore di Camaldoli, con cui ordina di costituire un usufrutto su un bene del monastero di Morrona a Iacopo, il quale fu abate del cenobio, per poter condurre una vita decente e per ripagarlo di un credito di 200 fiorini che in passato aveva fornito al monastero per avere dovuto sostenere una lite, probabilmente si tratta di spese legali.[243] Seguono quattro bolle pontificie, una di Paolo II del 1467; le altre tre di Sisto IV datate rispettivamente: 1476; 1478; 1483, in cui si dice dei beni del monastero annessi alla Mensa vescovile di Volterra.[244]

Capitolo IV. La presa della badia

 La soppressione del monastero è documentata nei particolari da Pietro Delfino, Generale dell’ordine Camaldolese, in una lettera (in latino) del 13 settembre 1482, diretta a Ventura, abate dell’abbazia di San Michele di Murano, la cui traduzione fa perdere molta dinamicità alla stessa. Il Generale camaldolese scrive all’abate che era dovuto restare alcuni giorni a Siena, perché al suo arrivo era assente il Protettore; il giorno seguente, di buon mattino, arrivarono Antonio da Orvieto e Andrea d’Aquileia, figlio della sorella del cardinale di detta città, i quali portarono la notizia della morte dell’abate di Morrona e insistettero perché il generale Camaldolese si recasse subito a quella abbazia.[245]

Partito da Siena, in quello stesso giorno, arrivò a Morrona il giorno seguente e nonostante avesse sperato in una calda accoglienza, scrive il Generale molto impermalito, a fatica fu fatto entrare dopo due lunghe ore di attesa: << …Ubi sperantes grate nos admittendos, vix duarum horarum spatio impetrare potuimus ingressum… >>.[246]

I monaci e gli uomini del castello di Morrona avevano, nel frattempo, eletto abate don Mauro e, temendo che il Generale e il suo seguito potessero eleggere un altro, non permettevano loro di entrare nel monastero. Nello stesso tempo arrivò un parente di Antonio de’ Pazzi con molti cittadini fiorentini, ai quali fu subito aperta la porta.[247] Pietro Delfino non nascose la propria ira per l’indegnità del fatto: veniva escluso il legittimo superiore religioso mentre erano intromessi arbitrariamente dei laici: << …Non potuimus non moveri admodum indignitate rei, quod excluso religionis patre, laici admitterentur pro arbitrio… >>;[248] quindi, fece ordinare di riferire a don Mauro che se gli era impossibile farli entrare, almeno lui venisse alla porta, minacciandolo che se avesse rifiutato la proposta si sarebbero rivolti contro di lui in modo molto più deciso: il Generale era disposto ad attendere un’ora non di più, prima di procedere giuridicamente contro il neoeletto come ribelle e disprezzatore dell’autorità. Don Mauro ebbe paura di ciò che aveva detto il Generale e andò alla porta seguito da molte persone, con parole di scusa verso se stesso e verso gli uomini che custodivano il monastero, dicendo che essi non volevano altro abate che lui, inoltre supplicò umilmente il superiore di dare conferma alla propria elezione.

Fatti entrare nell’abbazia, fu concesso il perdono da parte del Generale, ma non la conferma dell’elezione, perché prima della partenza da Siena, Pietro Delfino aveva mandato a Firenze un ambasciatore al Priore degli Angeli, perché accettasse la nomina di abate di Morrona.[249]

Poco tempo dopo arrivò Bartolomeo Soderini, vicario del vescovo di Volterra Francesco Soderini, fratello del futuro gonfaloniere di Firenze Pier Soderini (compendio di immoralità e corruzione curialesca) per prendere possesso dell’abbazia in nome del suo vescovo, ma non gli fu permesso nemmeno di avvicinarsi all’edificio, quindi ripartì pieno di furore. Il vento di fronda, che per secoli è spirato tra il vescovato di Volterra e il monastero si fa ora più forte e il presule volterrano, il giorno dopo all’alba, approfitta e parte “manu armata” con i suoi soldati alla conquista della badia. Con i suoi duecento uomini armati entrò nel castello di Morrona, cominciò a minacciare il popolo e ad ordinare che non gli si opponessero: << …abbatiam Morrona sua esse, eamque si aliter non posset, per vim expugnaturum… >>.[250] Nel frattempo da Morrona e da altri luoghi circonvicini erano arrivati molti laici per difendere il monastero con qualsiasi genere di armi e si erano disposti alle porte, nei punti più vulnerabili, sopra i tetti per sorvegliare il nemico e vigilare. Non ancora finito il pranzo fu gridato l’allarme per l’arrivo del drappello vescovile: in un attimo tutti gli uomini armati si disposero sui tetti, sui muri, alle finestre per respingere con spade, frecce, spingarde ed altre armi di fortuna il nemico. Ma l’arrivo di Macerio impedì la lotta che certamente sarebbe stata feroce, inoltre agli uomini ordinò di tornare alle proprie case pena la testa. [251]

Per tre ore Pietro Delfino e gli altri cercarono di persuadere Macerio a procrastinare l’investitura al vescovo, almeno finché essi non avessero ottenuto udienza a Firenze. Fu fatica sprecata, perché egli insistette nel dire che doveva eseguire gli ordini ricevuti e adempire il mandato.

Il Generale Camaldolese scrisse subito una formale protesta e accusa << …ad dominium hac de re , plurimum conquesti de illata nobis ab episcopo injura… >>,[252] poi affidato il monastero a don Mauro, che, per la venuta del vescovo, era stato frettolosamente confermato abate, si dispose a partire, dopo avere avuto dal neo abate la promessa di difendere con ogni mezzo i diritti del monastero a Roma e dovunque fosse necessario.

Il Generale partì in fretta per non vedere con i propri occhi il momento in cui il presule volterrano avrebbe fatto il suo ingresso nella badia, poco dopo arrivò il Priore degli Angeli, ma appena fu informato della partenza di Pietro Delfino ed anche che il vescovo aveva già occupato il monastero, ritornò subito a Firenze: << …supervenit eadem hora prior Angelorum, qui ubi comperit minime nos adesse, et episcopum iam obtenuisse monasterium, Florentiam rediit… >>.[253]

Il giorno seguente il Generale arrivò a Siena con il suo seguito e riferì, addolorato e mesto per gli inutili sforzi, l’accaduto al cardinale protettore, esternando l’amarezza e la meraviglia di vivere in tempi e tra gente che permettevano di essere cacciati vergognosamente dalle proprie case per consegnarle ad estranei, oltre la rapina delle rendite dei monasteri. Il Cardinale lo consolò, lodando la sua diligenza nel difendere l’abbazia, << …qua non stetisset per nos, quin ordini servaretur… >>,[254] inoltre, lo esortò a stare di buon animo e gli disse di ascrivere all’infelicità dei tempi ciò che era accaduto, << …Hortari ut bono animo essemus, quodque accidisser, temporum infelicitati adscriberemus, quatenus immunis a calamitatibus inveniretur nemo… >>;[255] ma che non sempre la spada del divino furore sarà affilata contro di loro e verrà un giorno in cui ci sarà una serena pace per il popolo cristiano, infine promise, che al suo ritorno a Roma, avrebbe fatto tutto il possibile contro la prepotenza dell’invasore del loro monastero.

La lettera fu scritta da Fontebono, il 13 settembre 1482.[256]

I beni del monatero furono assegnati alla Mensa vescovile di Volterra e l’edificio fu trasformato in residenza estiva dei prelati volterrani fino al 1868, quando fu espropriato alla Chiesa e venduto a privati.

 APPENDICE

LISTA DEGLI ABATI

Martino         1092

Eriberto         1098

Gerardo         1101-1123

Guido            1128

Gerardo         1133-1139 (menzionato fino al 1139)

Uberto           1141            

Guidone                      1148

Jacopo           1152-1153

Ugo               1168

Marco           1182 (menzionato anche nel 1184)

Ubaldo          1196

Guido            1198

Viviano         1212-1220 (menzionato nel 1214, 19, 20)

Martino         1223-1232 (menzionato nel 1224, 28, 29, 31, 32)

Nicola           1236 (menzionato nel 1237)

Simone         1239 (menzionato nel 1240, 41 anno della sua morte il 4 ottobre)

Benedetto     1241 (eletto il 15/16 ottobre 1241 e menzionato nel 1242, 43, 44, 45)

Michele        1255 (nel 1256 di settembre Michele viene eletto abate di un altro monastero)

Guidone        1262 (menzionato nel 1263,64,66,67,68)

Alberto         1271 (menzionato nel 1272)

Gerardo        1275-1284 (menzionato nel 1277,78,84)

Alberto         1293 (viene detto pisano)

Gerardo        1297 (olim abbas mon.)

Alberto         1298

R……..         1301 (non decifrabile)

Corrado        1306-1309 (menzionato fino al 1309)

Bartolo         1311- 1318 (Bartolo de Anglario, menzionato nel 1312,13,15,16, 17,18)

Pietro            1313 ( nel 1313 troviamo menzionato Bartolo)

Silvestro       1316 ( nel 1316 troviamo menzionato Bartolo)

Cum…         1318 (il nome dell’abate cambia, ma non è leggibile; risulta che il 7 febbraio è sindaco e procuratore Gherio fu Inghiramo)

Bartolo         1319

Bartolomeo  1320-1336 (Bartholomeo lucensis o de Luca, lo troviamo menzionato negli anni 1321, 22, 23, 25, 27, 29, 31, 32, 34, 35, 36)

Silvestro       1340 (de Anglario, menzionato nel 1343,45)

Bartolomeo  1347 (de Eugubio di cui troviamo la sua elezione il 26 marzo 1335?)

Pietro           1350

Giorgio        1389-1390

Gregorio      1390-1394 (nel 1390 il 19 di ottobre troviamo ancora Giorgio abate)

Martino       1405-1406 (Martino Guiducci, già oriore di San Severo di Perugia, fu eletto il 20 maggio)

Orlando       1408

Iacopo         1457

Iacopo         1462 (di Andrea da Galeata, forse lo stesso che troviamo nel 1457)

Iacopo         1468 (troviamo “stato abate” e forse trattasi sempre della stessa persona)

Mauro         1482

Questa lista è stata desunta dalle numerose pergamene consultate presso l’AVV e dai documenti reperiti nella B.C.V.

[1] La comunità di Morrona è una frazione del comune di Terricciola, da cui dista poco più di un chilometro; << …risiede presso la vetta delle colline cretose che dalla parte di levante acquapendono in Val-d’Era, mentre dal lato opposto scendono in Val di Cascina… >>; << …Giurisdizione di Peccioli, Diocesi di Volterra, Compartimento di Pisa… >>. E. Repetti, Dizionario Geografico, Fisico e Storico della Toscana, III, Firenze, A. Tofani e G. Mazzoni 1833-1845, p. 614. Intorno al Mille Morrona dipendeva dalla consorteria dei conti Cadolingi; dopo l’estinzione della famiglia (1113) la Chiesa pisana vi esercitò giurisdizione sovrana: il 17 marzo 1199 Ubaldo, arcivescovo pisano, emanò un placito in cui ordinava ai consoli di Morrona e a tutta la comunità di ubbidire all’arcivescovo loro padrone e che in nessun tempo tentassero alcuna cosa contro la Chiesa di Pisa e il suo onore. I Morronesi furono sempre dalla parte ghibellina e nel 1238 anche questo Comune inviò i suoi rappresentanti a Santa Maria a Monte per stabilire le convenzioni fra i diversi partiti della lega ghibellina toscana. Nel 1294 i ghibellini della Val d’Era, guidati da Neri di Janni da Donoratico, si radunarono a Morrona e << …unitisi con le genti del conte Guido da Montefeltro, potestà di Pisa, fecero una sanguinosa zuffa contro l’oste guelfa fortificatasi in Peccioli di Val-d’Era… >>. Morrona seguì la sorte di altri castelli delle Colline Pisane e nel 1496, durante la guerra tra Firenze e Pisa, cadde in potere dei Fiorentini, ai quali si sottomise con atto pubblico. Cfr. E. repetti, cit., III, p. 614.

[2] C.f.r., G. Mariti, Odeporico o sia Itinerario per le Colline Pisane, Ms. 3511, III, Biblioteca Riccardiana, Firenze; G. Targioni-Tozzetti, Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, I, Firenze, Stamperia Imperiale 1768, pp. 216-222; E. Repetti, cit., I, pp. 20-21; III, pp.614-615; J. B. Mittarelli et Costadoni, Annales Camaldolenses Ordini Sancti Benedicti, Venetiis, 1755-1773; P. F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum, Italia Pontificia, III, Etruria, Berlino apud Weidmannos 1908, pp. 292-293; G. Lami, Deliciae Eruditorum, XVI, Firenze 1736-1755.

Il conte Ugo, figlio di Guglielmo detto Bulgaro, nipote del conte Cadolo fondatore dell’oratorio di Fucecchio, dal suo primo matrimonio ebbe due figli: Ugo e Lotario; rimasto vedovo, sposò in seconde nozze Cilia o Cecilia, dalla quale ebbe altri due figli: Ugolino e Rainuccio, che compaiono nel rogito e sono chiamati “proximarum parentum”, forse per distinguerli dagli altri due che di Cilia erano figliastri. C.f.r. G. Mariti, cit., J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 96 in appendice.

[3] Archivio Vescovile Volterra, sec.XI, dec. X, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi volterrani fino al 1100, Esame del Restum Volaterranum, con appendice di pergamene trascurate da Fedor Schneider in “Rassegna Volterrana”, XXXVI-XXXVII; XXXVIII-XXXIX, Volterra, Accademia dei Sepolti 1972, p. 71, n. 96. L’atto fu rogato nella chiesa di Santa Maria del monastero da Guido notaio regio; alla subscrptio verbale segue un codicillo di circa tre righe purtroppo indecifrabili.

[4] C.f.r. A.V.V., sec. XI, dec. X, n. V-VI. Gli atti furono rogati rispettivamente presso il castello di Santo Pietro e in Casanova da Guido notaio regio. Questo antroponimo, che non dovette essere molto diffuso nella zona delle Colline Pisane, appare in una carta lucchese dell’VIII secolo: “…Gauspert viri devoti filio Raduare…”. C.f.r. L. Bertini, Indici del Codice Diplomatico Longobardo, II, Bari 1970, p. 259.

[5] J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 213 in appendice.

[6] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. I. Troviamo menzionato questo abate fino al 1139, quindi Gerardo ebbe la guida spirituale e temporale di questo monastero per circa quarant’anni. Crf. A.V.V., sec. XII, dec. IV, n. XV.

[7] Nel 1115 Pietro Moricone ricevette in enfiteusi dall’abate Gerardo la terza parte dei castelli di Aqui, attuale Casciana Terme, e di Vivaia, castello che sorgeva a circa un chilometro ad ovest di Casciana Terme, sopra il quale ebbero la signoria i Cadolingi, che lo cedettero al monastero di Morrona con una vendita del 1109. Cfr. E. Repetti, cit., V, pp. 794-795. << Santa Maria in Morrona (Volterra) risulta tra i trasferimenti dei monasteri affidati a Camaldoli entro il 1113>>. W. Kurze, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana Medievale, “Studi Diplomatici, Archeologici, Genealogici, Giuridici e Sociali”, Acc. Senese degli Intronati, Siena 1989, p. 249.

[8] Cfr. G. Miccoli, cit., p. 47 e segg.

[9] G. Mariti, cit.

[10] G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p. 216 e segg.; G Mariti, cit.; J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 460 in appendice.

[11] J. B. Mittarelli-Costadoni, cit., III, p. 96 in appendice.

[12] A.V.V., Visita Apostolica del vescovo Castelli del 1576, c. 444 r. e segg.

[13] Ibidem

[14] C.f.r. G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p.216 e segg. Il quale sostiene di averne visti altri simili a Treggiaia, Monte Foscoli e nella pieve di Morrona.

[15] Il Mariti, confermato dal Repetti, sostiene che questo polittico, oggi purtroppo ridotto alla tavola centrale, sia ritenuto anteriore a Cimabue, perché degli esperti ”…vi ravvisano in maniera senza forma e senza intelligenza alcuna delle parti, come pure il colorito monotono, ed il piegare indeciso mostrano l’arte nel suo naturale meccanicismo, e al di fuori di ogni buon principio ed ogni regola, ma comunque si sia certo che sono molto antiche…”. G. Mariti, cit. C.f.r. E. Repetti, cit., I, p. 20. Gli affreschi sono attualmente molto deteriorati a causa dell’umidità.

[16] La porta e la lapide viene menzionata dal Mariti nella sua opera; le notizie concernenti lo stato attuale sono della scrivente, la quale ha esaminato minuziosamente tutte le parti dell’edificio. Domenico Tempesti: pittore pisano nato nel 1688, formatosi nell’accademia domestica di Domenico Ceuli, fu padre del famoso pittore Giovanni Battista, morì nel 1766. Per ulteriori notizie su questo pittore si veda: R. P. Ciardi a cura di, Settecento pisano. Pittura e scultura a Pisa nel secolo XVIII, Cassa di Risparmio di Pisa, Pisa 1990.

[17] G. Mariti, cit.

[18] Tali notizie sono della scrivente, la quale ha esaminato il luogo più volte.

[19] Cfr. G. Mariti, cit. Si pensa che il Mariti nella sua descrizione abbia usato come misura il braccio fiorentino, equivalente a 58,60 centimetri. La chiesa, dunque, sarebbe lunga circa 26 metri, larga 7,5 e nella crociera 13,5 metri.

[20] G. Mariti, cit… Il Mariti vide la seguente iscrizione su marmo in caratteri gotici:”Hoc opus fecit fieri donnus Silvester De Anghiare abbas uius monasteri. MCCCXVI. Sulla sinistra ai piedi della scala che portava all’appartamento per il pievano un’altra lapide recava questa iscrizione:”Hoc S. fieri fecit donnus Iacobus Andreae De Galeata abbas huius monasterii et successor. MCCCCLVII”. Accanto a questa iscrizione sepolcrale vi era un’arme o qualcosa di simile su cui erano scolpite due teste in profilo di uomo. Niente di tutto questo è oggi esistente. G. Mariti, Odeporico… cit., Attualmente il chiostro non si presenta molto dissimile all’epoca in cui fu visto dal Mariti: in seguito a restauri è stato riportato alla luce il loggiato, che era stato incamerato in una parete e intonacato.

[21] Cfr. G. Mariti, cit., pp.55-57. Il passo equivaleva a 1,48 metri circa.

[22] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, cit., I, p. 203; G. Mariti, cit.; E. Repetti, cit., III, p. 614.

[23] Troviamo i titoli di S. Maria e S. Giovanni per la prima volta in un documento del 19 luglio 1236, più tardi, nel 1427, è contitolare anche santa Lucia. Crf. A.V.V., sec. XIII, dec. IV, n. XXVII; A.S.F., Catasto n. 193, c. 609 v.

[24] A.V.V., sec. XIV, dec.III, n. LV.

[25] Ibid., Località con poche case a breve distanza dal centro abitato, sulla via che da Morrona porta a Soiana; il toponimo è invariato.

[26] Ibid.

[27] Ibid

[28] Ibid.

[29] Ibid.

[30] Cfr. A.P.M. (Archivio Parrocchiale Morrona). Le due perizie furono fatte fare da don Giuseppe Levrini pievano di Morrona nei primi anni del 1900

[31] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. V, n. I; F. Schneider, Regestum… cit., p. 58, n. 166.

[32] Cfr. A.S.P., Fondo atti pubblici, Iaffè, II, n. 12692; P. F. Kehr, cit., III, p. 327, n. 42; N. Caturegli, cit., n. 516.

[33] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. II, n. XVII.

[34] Cfr. C. Violante, Pievi e Parrocchie nell’Italia Centrosettentrionale durante i secoli XI e XII, in Le istituzioni ecclesiastiche della “societas christiana” dei secoli XI-XII. Diocesi, Pievi e Parrocchie, Milano, Vita e Pensiero 1-7 settembre 1974, p. 653 e segg.

[35] Cfr. P. Guidi a cura di, Tuscia. La decima degli anni 1274-1280, I, in Rationes Decimarum Italiae, Città del Vaticano, Poliglotta Vaticano 1932, p. 161.

[36] P. Giudi a cura di, op. cit., II, p. 200

[37] Cfr. Archivio Storico Comunale Volterra, (D’ora in poi A.S.C.V.) Sinodo Belforti, c. 51 r.

[38] A.S.F., Catasto n. 193, c. 609 v.

[39] Ibid.

[40] A.V.V., Visita apostolica di monsignor Giovanni Battista Castelli vescovo di Rimini del 1576, c. 445 r.

[41] Cfr. L. Pescetti, Storia di Volterra, Pisa 1985, p. 41 e segg.

[42] Cfr. A. F. Giachi, Saggio di ricerche storiche sopra lo stato antico e moderno di Volterra, Sala Bolognese, rist. anast., p. 207 e segg.; M. Bocci, Annuario della Diocesi di Volterra, Firenze 1981, p. 15; L. Pescetti, cit. p. 57.

[43] Cfr. F. Schneider, Regestu… cit, p. 49, n. 138; C. Violante, L’origine lombarda di Ruggero vescovo di Volterra e arcivescovo di Pisa, Accademia Nazionale dei Lincei, Serie VIII, Vol. XXXV, fasc. 1-2, Roma 1980.

[44] Cfr. C. Violante, L’origine lombarda di Ruggero vescovo di Volterra e arcivescovo di Pisa, “Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche”, Serie VIII, vol. XXXV, Fasc. 1-2 gennaio-febbraio 1980, Accademia Nazionale dei Lincei, p. 11 e segg.

[45] A. V. V., sec. XII, dec. III, n. VII; Cfr. L. A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, III, Milano 1738-1742, p. 1143; F. Schneider, Regestum… cit., p. 56, n. 159; N. Caturegli, cit. p. 202, n. 307; C. Violante, L’origine…cit., p. 11, nota 3.

[46] C. Voilante, L’origine… cit., p. 13 e segg.

[47] F. Schneider, Regestum… cit., p. 53, n. 148; A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 447

[48] F. Schneider, Regestum… cit., p. 54, n. 150; R. Davidsohon, Storia di Firenze, p. 561 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi… cit., p. 31.

[49] Cfr. C. Violante, L’origine…, cit., p. 17.

[50] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 46 e segg.

[51] Ibid.

[52] Ibid.

[53] Cfr. F. Schneider, La Vertenza di Montevaso del 1150, Bullettino Senese di Storia Patria, XV, Siena 1908, p. 12 e segg.

[54] Cfr. L. Pescetti, Storia…cit., p. 57; A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 204.

[55] Ibid.

[56] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p.57

[57] Ibid.

[58] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., V, pp. 804-805

[59] Per la restituzione e per i frutti <<…furono assegnate ad Ildebrando le rendite tutte che le città di Lucca e di Siena pagavano al re, il pedaggio delle porte di Siena, di Castelfiorentino e di Poggibonsi e le rendite ancora, che ritraeva il regio erario da più e diversi castelli nominati nel contratto che ne fu stipulato, che doveva il vescovo per le miniere di Montieri, per la regalia della moneta e del fodro>>. A. F. Giachi, Saggio… cit., p 209; Cfr anche E. Repetti, Dizionario… cit., V, p. 805.

[60] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 57

[61] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., V, p 805

[62] Cfr. L Pescetti, Storia… cit., p. 58

[63] A. F. Giachi, Saggio… cit., p. 208

[64] Cfr. L. Pescetti, Storia… cit., p. 60

[65] Ibid.

[66] Cfr. R. Pescaglini Monti, La Plebs e la Curtis de Aqui nei documenti altomedievali, “Bollettino Storico Pisano”, L, Pisa 1981, pp. 9-15.

[67] Cfr. F. Schneider, Regestum… cit., p. 46, n. 126; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., VI, p 228.

[68] Cfr. P. F. Kehr, Regesta… cit., III, p. 300; F. Schneider, L’ordinamento pubblico nella Toscana medievale, trad. it. A cura di F. Barbaloni di Montauto, Firenze 1975, pp. 270-271, nota 233.

[69] Cfr. M. Cavallini- M. Bocci, Vescovi…cit., p. 30; R. Pescaglini Monti, cit.., p. 10.

[70] Cfr. A. V. V., sec. XII, dec. I, n. XII; dec. I, n. XI; F. Schneider, Regestum… cit., pp. 50-51, nn. 140-143; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 31.

[71] Cfr. R. Davidsohn, Storia di Firenze, trad. it., I, Firenze 1956-1968, p. 565 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 31.

[72] Cfr. R. Pescaglini Monti, cit., pp. 13-14.

[73] Per la prima bolla Cfr. P. F. Kehr, Regesta…cit., n.1, p. 293; N. Caturegli, Regesta…cit., p. 180, n. 285; per la seconda bolla Cfr. J. B. Mittarelli- Costadoni, Annales…cit., p. 285 e 306 in appendice.

[74] A. V. V., sec. XII, dec. III, n. VII; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1143; G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., pp. 2216-2222; F. Schneider, Regestum…cit., p. 56, n. 159; N. Caturegli, Regesta…cit., p. 202, n. 307.

[75] Ibid.

[76] Già nel 1115 Pietro Moriconi, allora arcivescovo pisano, ebbe in enfiteusi dall’abate Gerardo la terza parte del castello e distretto di Vivaia e della corte di Aqui con ogni pertinenza, ad eccezione però di ciò che apparteneva al monastero prima della donazione del conte Ugo, con lìobbligo di pagare ogni anno in settembre 12 denari di moneta corrente. Cfr. N. Caturegli, Regesta…cit., pp. 152-153, n. 247. Sempre nello stesso anno, l’arcivescovo Pietro fece fare un giuramento di fedeltà ai castellani e agli abitanti di Vivaia, che promisero di difendere la sua persona, i suoi beni e quelli dei suoi successori, eccettuando sempre quei beni appartenenti alla chiesa e monastero di Morrona, che si trovavano nei confini e appartenenze del castello. Cfr. J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 248 in appendice; L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1116.

[77] A. V. V., sec. XII, dec. IV, n. VI; F. Schneider, Regestum…cit., p. 57, n. 162.

[78] I documenti pontifici in favore dell’ordine Camaldolese, in cui è sempre menzionata la badia di Morrona, ed altri indirizzati direttamente agli abati, sono numerosi ed hanno sempre lo stesso tenore: confermano beni e privilegi come quelli degli imperatori Lotario e Corrado II del 1137 e del 1139. Ne segnaliamo alcuni: 1137 aprile 22 (Innocenzo II); 1141 gennaio 30 (Innocenzo II); 1146 febbraio 7(Eugenio III); 1154 marzo 14 (Adriano IV); 1176 aprile 11 (Alessandro III); 1179 aprile 23 (Alessandro III); 1184 luglio 7 (Lucio III); 1187 dicembre 23 (Clemente III); 1198 Maggio 5 (Innocenzo III); A. V. V., sec. XII, dec. varie; L. A. Muratori, Antiquitates…cit. ; J: B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit.; A. F. Giachi, Saggio…cit.; F. Schneider, Regestum…cit.; N. Caturegli, Regasta…cit.

[79] L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1153; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 349 in appendice.

[80] A.V.V., sec. XII, dec. V, n. 1; per la bolla di Eugenio II si veda P. F. Kehr, Italia…cit., III, n. 4, p. 293. Il toponimo Tora, tuttora esistente si riferisce ad un piccolo torrente che sorge nei pressi di Gello Mattaccino, nel comune di Casciana Terme, si presuppone che la suddetta chiesa fosse ubicata vicina al torrente.

[81] Cfr. AVV., sec. XII, dec. X, n. XV.

[82] Cfr. F. Schneider, La Vertenza…cit., pp. 3-22; G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., pp.216-222; J. B. Mittarelli.Costadoni, Annales…cit., III, p. 460 in appendice; E. Repetti, Dizionario…cit., I, p 20. << Favorivano in questo tempo siffatto distendersi del dominio territoriale della chiesa e del comune pisano o la libera donazione degli abitanti di qualche castello, o le necessità finanziarie delle abbazie un giorno floride, ora in rapida decadenza, come quelle di Santa Maria di Morrona e del Beato Giustiniano di Falesia, i cui abbati dichiarano espressamente di vendere per bisogno di denaro…>>. G. Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa. Città e contado, consoli e podestà. Secoli XII e XIII, Firenze 1970, p. 12.

[83] Cfr. M. Bocci, La Badia di Morrona e un prepotente Vescovo di Volterra, in “Volterra”, anno III 1964, n. 3 marzo e 5 maggio.

[84] J. B. Mittarelli- Costadoni, Annales… cit., III, p. 96 in appendice. Nel 1097 Ugo e Lotario, figli del conte Ugo fecero redigere un editto contro chiunque tagliasse, predasse, saccheggiasse, rubasse, incendiasse o facesse danno in tutti i dintorni della chiesa e del monastero, i trasgressori sarebbero incorsi in pene pecuniarie e scomunica.

[85] Cfr. A. V. V., sec. XI, dec.  X, n. IV; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 78, n. 119. La pena stabilita fu di 40 soldi d’argento e la maledizione. Il luogo, che tuttora conserva lo stesso toponimo, è una fattoria ubicata tra Terricciola e Selvatelle; Casanova è citata fin dal 780 come corte dei fondatori del monastero di San Savino. Nel 1102 l’abbazia di Carigi vi aveva dei beni, in seguito, la famiglia degli Upezzinghi ebbero il patronato della chiesa (S. Bartolomeo) e alcuni beni. La rocca fu smantellata nel 1164 dai Pisani. Nel 1238 gli uomini di Casanova parteciparono al trattato per la Lega stipulato in Santa Maria a Monte, nel 1289 vi si scontrarono i Ghibellini della Valdera e i Guelfi di Peccioli. Cfr. E. Repetti, Dizionario…cit., I, pp. 492-93.

[86] Cfr. A.V. V., sec. XI, dec. X, n. V. La pena sancita è di 60 soldi d’argento.

[87] A. V. V., sec. XI, dec. X, n. VI. Riportiamo la minatio: “…penam de optimus (arientum) solidos sexsaginta et que hanc cartula offersionis infrangere vel disrupere seu tollere adque contendere presumserit sit maledictus ab omnipotenti Deo et sancta Maria mater Eius…”

[88] Il 10 giugno 1099 Bernardo fu Gerardo, con suo testamento, dispone alcune elergizioni in denaro a favore di enti ecclesiastici situati in Pisa e nella diocesi: tra questi compare anche il monastero di Morrona (nonostante situato nella diocesi di Volterra), cui viene donata la somma di 20 soldi. Cfr. M. Tirelli Carli, Carte dell’Archivio Capitolare di Pisa, “Thesaurus Ecclesiarum Italiae”, III, Roma 1977, pp. 172-74.

[89] Cfr. A. V. V. ,sec. XII, dec. I, n. VIII; F. Schneider, Regestum…cit., p. 50, n. 140.

[90] A. V. V., sec. XII, dec. I, n. XI. Il documento è datato 19 febbraio 1107. Molto elaborata la minatio, anche se abbastanza frequente nei documenti tiscani dei secoli X-XI. “…Et siquilibet persona massculo vel femina quo minime credo suprascripta petia de terra quale super legitur quas in predicta ecclesia et monasterio optuli tollere vel minuare vel subtraere sive alienare presumserit aut aliqua […]causationis inferre voluerit deleat ei Deis optimus nomen eius de libro viventium et cum iusti non scribantur fiat pertipes cum Dathan et Abiron quos aperuit terra os eorum deglutivit sit socius Ananie et Thaèhire qui fraudatam pecunia mentiti sunt apostolis partem quoque habeat cum Pilato et Erode et Nerone et Juda traditore. Sit dannatus cum Simone mago que gratia Sancti Spiritus venundare voluit; sit demersus de ab altitudine celi in profundum in inferni et cum diabolo sit in infernum seper […] susus et in die iudicii ante divini tribunal non resurgat…”.

[91] Ibid.

[92] A. V. V., sec. XII, dec.I, n.IX. Cfr. anche M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p.55, n. 6, che erroneamente riportano “a staiora di 10 pani”, anziché 12.

[93] Per la prima donazione Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 54, n. 1.  L’offerta consiste nell’ottava parte di beni posti nei confini di Morrona. E’ questo il primo documento in cui troviamo menzionato l’abate Gerardo per la prima volta ed è datato 21 aprrile 1101. Con la seconda donazione, il 13 febbraio 1110, il monastero entra in possesso di tutta l’intera parte di case, terre, uomini, mobili e immobili del chierico Gualando fu Guidone notaio, tali beni erano posti nella corte di Soiana e in altri vari luoghi. Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. II, n.XVI; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 60, n. 18. Il rogito per la terza donazione è del 28 luglio 1111, il donatore offre alla chiesa di s. Maria “…que est fundata et edificata in loco et finibus in Poi, que est super planum de Valle de Cascina et prope castellum vestrum de Morrona…”, molti terreni colti e incolti ( vigne, boschi, prati, pascoli, oliveti), con diverse “cassini” e “casalini” posti nei territori di Soiana, Soianella, Campagnana e altri luoghi. A.V.V., sec. XII, dec. II, n. I; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 60, n.19. La quarta donazione riporta la data del 25 marzo 1104, Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. I, n. VI.

[94] Si tratta di beni ubicati “…in illo Pantano, quod infrascripta ecclesia et rectores eius adquesiverunt ab Uguccione comite et Cilia uxore eius…”. La carta è datata 17 febbraio 1115. Cfr. F. Schneider, Regestum…cit., p. 54, n. 151.

[95] Cfr. A:V.V., sec. XII, dec. III, n. III. Datata 26 marzo 1124.

[96] Cfr. A.V.V., sec. Xii, dec. IX, n. IX. Il rogito fu stipulato da Bartolomeo notaio imperiale con pena del doppio della stima e il lougo dove fu redatto è “in ospitale infrascrpti monasterii”, ospedale che non dovette avere grande importanza, perché oltre a questa prima volta che lo troviamo menzionato, lo ritroviamo menzionato in un privilegio di Gregorio IX del 28 giugno 1227 e in un altro documento relativo all’anno 1284 (5 gennaio), Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. XXX; non compare nemmeno in M. Battistini, Gli spedali dell’antica diocesi di Volterra, Pescia 1932.

[97] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. IX, n. VII.

[98] Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. XII, n. XIV.

[99] Cfr. L. A. Muratori, Antiquitates…cit., III, p. 1107.

[100] Vivaia, toponimo tuttora esistente, che si trova tra Casciana Terme e Parlascio. I conti Cadolingi di Fucecchio vi ebbero la signoria. Cfr. E. Repetti, Dizionario…cit., V, pp. 794-795 e I, pp. 38-39.

[101] Cfr. R. Davidsohn, Storia…cit., p. 565 e segg.; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p.31. “ Col testamento lasciò ciò che gli restava del suo, dopo pagati i debiti considerevoli ai vescovi delle respettive diocesi. Così la corte di Bagno a Acqua nella valle di Cascina, sul confine delle diocesi di Pisa e Volterra, venne all’arcivescovo pisano, tranne quello che ne era impegnato nella vicina badia di Morrona…”. F. Schneider, La Vertenza…cit., p.5.

[102] Cfr. F. Schneider, Regestum…cit., p. 54, n. 150.

[103] Per la prima cfr. A.V.V., sec. XII, dec. IV, n. VIII. Pergamena mutila, sul cui retro possiamo leggere: “Venditio facta abbatie Morrone de petio terre posito loco dicto Negozano per Ildebrandum et frates. Per la seconda Cfr. M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 78, n. 67. La vendita fu fatta da Opizzo abate della chiesa e monastero dei ss. Ippolito e Cassiano, consistente in tre vigne ed altri beni “ad Fuscianum”, che erano pervenuti alla sua chiesa per donazione di Rolando fu Ildebrando. Per la terza Ildebrando fu Bernardo aliena al monastero tutti i suoi beni posti nei confini di Negoziana, Morrona e Vivaio “par pellium grisiarum pro solidi viginti et octo in prefinito”. Cfr. ibid.

[104] Per il primo documento Cfr. J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 248 in appendice. L’abate Gerardo dà la terza parte del castello e corte di Vivaio e Aqui in enfiteusi a Pietro Moricone per un censo di 12 denari annui da soddisfare in settembre. Tali beni sono gli stessi acquistati nel 1109 dal conte Ugo. Il secondo è una locazione di un pezzo di terra in luogo detto “Guazo Ardinghi” “…cum aqua que vocatur Caldane super se habentem”, che l’abate dà a Gerardo di Teziciro per fabbricarvi un mulino, per un censo annuo di 4 soldi lucchesi per la festa di s. Giovanni in dicembre, pena 200 soldi. Cfr. A.V.V., sec. XII, dec. VII, n. XIII; M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 90, n. 101.Nel terzo documento troviamo che l’abate Ubaldo concede in livello a “Ianuensi “ fu Considerato 10 pezzi di terra con ogni loro edificio e pertinenze, di circa 65 staiora, per un censo annuo di 16 soldi di moneta pisana corrente, da pagarsi a settembre perc la festa di s. Michele e sua ottava; pena 100 lire, inoltre Genovese deve all’abate 20 soldi pisani “pro servitio dicti libelli”. Cfr. M. Cavallini-M. Bocci, Vescovi…cit., p. 108, n. 151. Nel quarto, l’abate Guido dà un pezzo di terra ad Aliotto fu Baldicione, ubicata presso Morrona, di 11 staiora, per un censo annuo di 12 denari, pena 100 soldi di denari buoni. Cfr. Ibid.

[105] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit.,, I, pp. 216-222; N. Caturegli, Regesto…cit., pp. 225-226, nn. 337-338-339; E. Repetti, Dizionario…cit.,  I, pp. 20-21.

[106] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit.,I, pp.216-222; N. Caturegli, Regesto…cit., p. 291, n. 425; E. Repetti, Dizionario…cit., I, pp. 20-21; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., III, p. 460, n. 299 in appendice.

[107] G. Volpe, Studi sulle istituzioni Comunali a Pisa, Firenze 1970, p. 12 e 41

[108] Cfr. A.V.V.,1239 gennaio 13, Giunta fu Carbone vende a Simone abate un pezzo di terra posto tra Morrona ed Aqui, per 30 soldi di denari nuovi pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. IV, n. XIX. 1243 gennaio 30, Ubaldo fu Lunardo di Morrona vende a Benedetto abate un pezzo di terra con vigna posto nei confini di Morrona in luogo detto Pescaria, per 7 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. V.  1244 luglio 13, Contrus fu Galgano e Iacopo suo fratello vendono a Benedetto abate la metà di un pezzo di terra con ogni sua pertinenza, posto nei confini di Aqui presso il mulino del monastero, per 400 soldi di moneta nuova pisana, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. VII. 1250 agosto 29,Enrichetto fu Enrichetto di Soiana vende a Bonaccorso fu Spinelli, sindaco del monastero, di cui è abate Guidone, un intero pezzo di terra campia posto nei confini di Morrona in luogo detto Prato la Valle, per 8 libbre di denari nuovi pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. V, n. IXI. 1262 novembre 6, Pellegrino fu Benentendi notaio di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra posto nei confini di Aqui oltre il fiume Cascina in luogo detto Aqua Viula, presso il bosco del monastero, per 9 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. X. 1263 settembre 25, Bartolomeo di Morrona (paternità non leggibile) vende all’abate Guidone due interi pezzi di terre posti nei confini di Morrona, in luogo detto “Podio le Cavi”, con peri e ulivi; il secondo in luogo detto “valdelecavi”, entrambi per 35 denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. Vii, n. XX. 1264 settembre 29, Bartolomeo fu Cenati di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra posto nei confini di Morrona in luogo detto “Valle Orsi”, per 400 denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXV. 1266 settembre 21, Maestro Ventura fu Giovanni di Morrona vende a Guidone abate due interi pezzi di terra con vigna, fichi e altri alberi, posti nei confini di Morrona in luogo detto “Chiusdino”, per 20 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXXIV. 1267 aprile 15, Martino fu Riccobe ne di Morrona vende al solito abate un pezzo di terra con alberi, posto nei confini di Morrona in luogo detto “bal de le Cave”, per 8 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. XXXVI. 1267 ottobre 11, Isabella vedova di Iacopo fu Macchi e figlia di Bonacontri di Morrona vende a Guidone abate un intero pezzo di terra lavorativa posto nei confini di Morrona, in luogo detto “Valle Sive ad Ripalba”, per 8 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, XXXIX. 1268 febbraio 27, Ranuccio fu Spinello di Morrona vende al suddetto abate un intero pezzo di terra lavorativa posto nei confini di Morrona in luogo detto “Miliari”, di 4 staiora e più, per 8 libbre di denari pisani, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VII, n. VIII. 1272 agosto 31, Inghiramo fu Giacomo Gualandelli di Morrona vende ad Alberto abate un pezzo di terra campia posto tra i confini di Morrona in luogo detto “Sterpeto”, di 4 staiora per 8 libbre di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. VIII, n. VII.

[109] A. S. F. , Diplomatico Camaldoli, 1271 gennaio 13, Alberto abate, dà a livello a prete Scolario, pievano della pieve di Morrona, tutte le terre , vigne etc. poste intorno alla pieve, per un periodo di 26 anni, l’affitto annuale è di 18 quarre di grano e lire 25.

[110] Cfr. A.V.V., 1224 marzo 15, Martino abate dà a livello perpetuo a Beruccio fu Periccioli un pezzo di terra con ogni appartenenza ed edifici, per 4 quarre di grano all’anno, pena 20 libbre. Sec. XIII, dec. III, n. XII. 1231 gennaio 23, Martino abate, per migliorare il monastero, dà a prete Giovanni, cappellano della chiesa di s. Nicola di Morrona un pezzo di terra lavorativa, posto nei confini di Morrona in luogo detto “La Valle”, censo annuo 2 denari di moneta pisana, pena il doppio. Sec. XIII, dec. IV, n. I. 1240 febbraio 11, Simone abate, per utilità e migioramento del monastero, dà in locazione a Boninsegna fu Brinichi di Gallicano, per 12 anni, un mulino posto nei confini di Soiana in luogo detto “Pantano”, con casa, terra ed ogni sua pertinenza, pena 50 libbre se in tali anni il mulino non avesse funzionato e macinato bene; il censo annuo consisteva in “staria decem et octo boni grani et staria decem et octo inter ordeum et mileum”. Sec. XIII, dec. IV, n. XLIX. 1245 luglio 12, Benedetto abate dà a livello ad Enrico pievano della pieve di Morrona un pezzo di terra in parte vignata, posto vicino alla pieve e la metà di un altro pezzo di terra boscata vicino al primo, lavorato dagli uomini di Morrona, dai quali il monastero riceve la decima; per un censo annuo di 8 quarre di grano buono, una libbra di incenso e al posto delle decime “et oblationum et primitiarum” 10 quarre di grano buono e 25 soldi di denaro pisano, pena 100 libbre. Sec. XIII, dec. V, n. VIII. 1255 dicembre 4, Michele abate dà in locazione a Bario di Casaioli e a Salimbene suo fratello, figli del fu Bergi di Aqui, un pezzo di terra lavorato a prato e giunchetto, posto nei confini di Aqui in luogo detto “Plano de Aqua viva”, per 24 anni, con l’obbligo di fare una “foneam” perché l’acqua scorra a valle del poggio ed un censo annuo di 6 quarre di grano, pena 10 libbre e il doppio del valore stimato se ci saranno danni. Sec. XIII, dec. Vi, n. XXXV. 1259 settembre 5, Michele abate, dà in locazione a prete Pane e Porro di Quarrata, rettore della chiesa dei ss. Bartolomeo e Nicola di Morrona “in vita sua tantum” “totam primitiam et oblationem populi communis Morrone” che spettavano al Monastero; il censo è di 10 soldi di denaro pisano annuo, pena il doppio; inoltre il prete si impegna di mantenere la cappella nello stato attuale, pena 100 libbre di denaro pisano. Sec. XIII, dec. VI, n. LXIX.

A.V.V., 1279 giugno 9, Bonaccorso fu Spinello, sindaco e procuratore del monastero di Morrona, col consenso di Gerardo abate, dà in locazione a Bontalento fu Provinciale e a Provinciale detto Ciale fu “Menculi” entrambi di aqui, un pezzo di terra boscata posta nei confini di Aqui in luogo detto “Pozzale” e la quarta parte di un altro terreno posto in luogo detto “Catasta sine Asino Bonanno”, per un periodo di 25 anni; censo annuo di 25 denari pisani, pena 50 denari pisani e l’obbligo di non sub locare. Lo stesso documento contiene la locazione di altri 7 pezzi di terra a uomini di Aqui, per complessive 1083 staiora, la maggior parte dei quali aveva molti frutti ed olivi. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXX. 1298 luglio 22, Alberto abate dà in locazione a Brandino fu Bonaccorsi di Morrona un pezzo di terra “agrestum”, posto nei confini di Aqui in luogo detto “Steccaia”, per 29 anni ed un censo annuale di tre quarre di grano, pena il doppio. Sec. XIII, dec. X, n. XXXII.

[111] V. nota n. 95 del presente lavoro.

[112] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. X, n. I.

[113] Ibid.

[114] Ibid.

[115] Ibid.

[116] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. V, n. II.

[117] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. VIII, n. LXXIII.

[118] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. XLVI.

[119] Ibid.

[120] Cfr. A.V.V., sec. XIII, dec. IX, n. LX.

[121] Cfr. P. Guidi a cura di, Rationes Decimarum…cit., I, pp. 153 e 161.

[122] Cfr. P. Guidi a cura di, Rationes…cit., II, p. 200.

[123] Cfr. A.S.C.V., Sinodo Belforti, c. 54 r.

[124] <<…quam predecessores eorum decimas, terras, domos, vinea, ortos, silvas, prata, pascua, remora, molendina possessiones iura iurisdictiones et quedam alia bona ipsius monasterii datis super hoc licteris confectis exinde publicis instrumentis interpositis iuramentis factis renuntiationibus et penis adiectis in gravem ipsius monasterii lesionem, nonnullis clericis et laicis aliquibus eorum ad vitam quibusdam vero ad non modicum tempus et aliis perpetuo ad firmam vel sub censu annuo concesserunt quorum aliqui super hiis confirmationis licteras in forma comuni dicuntur a Sede Apostolica impetrasse…>>. A.V.V., sec. XIII, dec. X, n. XLIII (manca la bolla, esiste solo la traccia). Per la comunità di Chianni si veda L. Fabbri, Le comunità di Chianni e Rivalto (secc. XI-XIX) Chianni delle Colline Pisane, “Rassegna Volterrana” anni LXI-LXII 1987, p. 35.

[125] Cfr. L. Fabbri, Le comunità…cit., p. 35.

[126] Cfr. A.V.V., 1318 febbraio 7, Helia fu Upezini di Morrona vende a Gherio fu Inghirami dello stesso luogo, ricevente per il monastero un pezzo di terra campia, posta nei confini di Morrona in luogo detto “Alipoli”, con ogni diritto, di 2 staia e 45 per 5 denari pisani minuti. Sec. XIV, dec. II, n. LVIII. 1321 gennaio 12, Giovanni detto Vanni fu Brandino, Simonetta vedova di Brandino e Contessa moglie di Vanni, per loro necessità ed indigenza, vendono all’abate Bartolo un pezzo di terra campia posta in luogo detto “Ghiermandi” con ulivi, per 20 lire di soldi pisani. Nello stesso documento è redatta anche la locazione che l’abate fa allo stesso Vanni per 10 anni con censo annuo di 2 staia di grano buono da soddisfarsi per la festa di Santa Maria in agosto, pena il doppio. Sec. XIV, dec II, n. (mancante); 1321 giugno 30, Nino fu Ganeto e Guida sua moglie e figlia di Piero di Morrona, a causa di necessità e indigenza, vendono a Gheri fu Inghirami dello stesso luogo, ricevente per il monastero un pezzo intero di terra campia e boscata, posto nei confini di Morrona in luogo detto “Vallarcho”, per 2 lire e 10 soldi di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XXIV, dec. III, n. IV. 1321 ottobre 13, Vanni fu (paternità illeggibile) vende a Gherio fu Inghirami, procuratore del monastero, un pezzo di terra con casa posta nei confini di Morrona in luogo detto “Le Date”, per 5 lire di denaro pisano minuto, pena il doppio. Sec. XIV, dec. III, n. XII. 1329 febbraio 10, “Tura quondam Bandi” di Morrona e suo figlio Guido vendono a  Bartolo abate del monastero ogni edificio posto nel loro “casalino” con ogni diritto, ubicati in Morrona, per 20 lire di denaro pisano minuto, pena il doppio. Sec. XIV, dec. III, n. CXIII. 1332 gennaio 23, Bonamico fu Bonaccorsi di Ceppato vende a Bartolomeo abate del monastero un pezzo di terra posto nei confini di Aqui in luogo detto “Mercatale” con ogni diritto, per 20 lire di denaro pisano, pena il doppio. Sec. XIV, dec. IV, n.XII.

[127] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. III, n. LXXV. Il documento è rogato nella casa del testatore da Michele fu Pardi notaio imperiale il 25 marzo 1324.

[128] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. IV, n. XXI. Il rogito risale all’8 giugno 1334.

[129] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. XXX. L’atto fu rogato l’8 giugno 1306.

[130] Cfr. G. Targioni-Tozzetti, Relazione…cit., I, pp. 216-222. In toscana il termine divenne accomandigia e si applicò soprattutto in diritto pubblico per indicare il riconoscimento di un’autorità superiore fondato su espliciti rapporti di sudditanza.

[131] G. Volpe, Studi…cit., p. 20.

[132] Per il primo documento Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. LIV. Il rogito fu fatto da Gerardo fu Bonaccorsi di Cisanello notaio imperiale, davanti al pezzo di terra del monastero in luogo detto “La Croce”. Dai toponimi in cui erano posti questi beni, possiamo notare che l’abate tendeva a disfarsi dei possessi più lontani dal monastero, cercando di impossessarsi di quelli che invece erano ubicati nelle immediate vicinanze, ma appartenenti a privati cittadini. Questo lo possiamo vedere anche dal documento relativo all’anno 1320 in cui sono rogate due permute relative a due case poste nel castello di Morrona e a terre distanti dall’abbazia con altri beni molto più vicini; il cattivo stato di conservazione di questa pergamena impedisce di rilevare altre notizie. Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. II, n. LXVII. Per il secondo documento Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. V, n. XXVIII.

[133] Cfr. A.V.V., sec. XIV, dec. I, n. XXXV (1307 giugno 28); sec. XIV, dec. II, n. VIII (1311 gennaio 17); sec. XIV, dec. II, n. XIII (1312 febbraio 5); sec. XIV, dec. II, n. ? (1316 marzo 17); sec. XIV, dec. II, n. XLIX (1317 luglio 29);  sec. XIV, dec. II, n. LVII (1318 febbraio 7); sec. XIV, dec. II, n. LIV (1318 ottobre 2); sec. XIV, dec. III, n. V (1321 luglio 8); sec. XIV, dec. III, n. XXV (1322 agosto 20); sec. XIV, dec. III, n. XVIII (1322 settembre 12); sec. XIV, dec. III, n. XXIX (1322 settembre 13); sec. XIV, dec. III, n. IX (1322 settembre 14); sec. XIV, dec. III, n. LV (1327 febbraio 4); sec. XIV, dec. III, n. CXV (1330 luglio 30); sec. XIV, dec. IV, n. VII (1332 giugno 30); sec. XIV, dec. V, n. X (1343 settembre 22); sec. XIV, dec. V, n. VII (1343 novembre 14); sec. XIV, dec. V, n. XV (1345 dicembre 10).

[134] AVV., 22 ottobre 1315, sec. XIV, dec. II, n. XXXV.

[135] Ibid.

[136] AVV. 3 settembre 1318, sec. XIV, dec. II, n. LII.

[137]AVV. 14 ottobre 1322, sec. XIV, dec. III, n. XXXIV.

[138] AVV. 29 dicembre 1333, sec. XIV, dec. IV, n. XVII.

[139] Cfr. AVV. 30 dicembre 1335, sec. XIV, dec. IV, XXXV.

[140] Cfr. AVV. 6 giugno 1340, sec. XIV, dec. IV, n. LXXI.

[141] Cfr. BCV (Biblioteca Comunale Volterra), Ms. 9335, Index Membranorum Archivi Abbatie SS. Iusti et Clementi volterrani, pars III, Studio D. Jos. Gherardini abbatis, anno MDCCLXIX.

[142] Ibid.

[143] AVV, sec. XIV, dec. V. n. V.

[144] Cfr. G. Mariti, Odeporico…cit.

[145] ASF., Camaldoli Appendice, n. 83, cc. non numerate.

[146] Ibid.

[147] Ibid.

[148] Ibid.

[149] Ibid.

[150] Ibid.

[151] Ibid

[152] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. II, n. XVI.

[153] Cfr. G. Targioni –tozzetti, Relazione…cit.,I, pp. 216-222; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., VI, p. 589 in appendice; G. Mariti, Odeporico… cit. Il Mariti riporta il documento per esteso.

[154] G. Mariti, Odeporico… cit.

[155] Ibid.

[156] Ibid.

[157] Ibid.

[158]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, pp.186-187, n. 76; Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798.

[159] Cfr. A.S. F., Catasto religiosi, n. 193, cc. 606 v.-611 r.

[160] Ibid.; si veda anche: Dizionario della lingua italiana, Accademia della Crusca, ed. IV (1729-1738), v. 5, p. 64.

[161] Ibid.

[162]A.S.F., Catasto religiosi, n. 193, cc. 606 v.-611r. “ 1427-1429. Vescovado di Volterra. Sostanze del Monastero della Badia di Morrona chontado di Pisa dell’ordine di Chamaldoli.

In primo: Un pezzo di terra parte champia chon ulivi e altri frutti e parte vignata, èosta nei chonfini di Morrona; lavoralo giusto di Giovanni d’Andreadi Romagna; rende ne l’anno di metà a misura pisana: biada staia 6 a soldi 6 a sacca; vino barili 30 a soldi 6 il barile; olio orcia 8 a lire 5 lorco. Uno podere posto in detti chonfini di Morrona, tenello Francescho di Puccino e Solvestro suo chompagno da Morrona. Prende l’anno di fitto : grano saccha 20 a soldi 45 il saccho (la stima del grano è sempre la stessa: soldi 45 a sacco). Uno podere posto nei predetti chonfini di Morrona, tenelo Antonio di Lupo da Morrona e prendene l’anno di fitto: grano saccha 6 e mezzo. Uno podere posto nei chonfini di Morrona, tenelo Giuliano di Ceo da Morrona, prendene l’anno di fitto: olio libbre 6, grano saccha 1. Uno pezzo di terra ulivata posta in esso predetti chonfini di Morrona, tenello Michele di Batino da Morrona, prendene l’anno di fitto grano saccha 10. Due pezzi di vigna posti in esso predetti chonfini, teneli Antonio di Lupo, prendene l’anno di fitto vino barili 2 a soldi 20 il barile. Due chase poste nel castello di Morrona, tene l’una Lorenzo di Ruffia da Cholle Montanino e danne di pigione l’anno lire 5, tiene l’altra Lorenzo di Nanni barbiere da Morrona e rende l’anno lui e sua famiglia si veda oltro………. Uno podere posto nei sopradetti chonfini di Morrona, luogo detto a Ginestrello, tenello Giovanni da Soiana, prende l’anno di fitto grano saccha 7. Uno pezzo di terra cho mulini poste ne predetti chonfini di Morrona, Tiello Biagio di Vannuccio da Morrona, rende l’anno di fitto olio libbre 7 a soldi 25 denari 6 a libbra. Cierti pezzi di terra posti ne sopradetti chonfini di Morrona, tiegli Sobene di ser Guido da Soiana e rendene l’anno di fitto grano saccha 3. Più e più pezzi di terre posto per metà ne sopradetti chonfini di Morrona e per metà ne chonfini di Soiana, tiegli Andrea di Lucha da Soiana e rendene l’anno di fitto grano saccha 2, olio libbre 2 a soldi 25 e denari 6. Un pezzo di bosco chon ghianda posto nel predetto chonfine di Morrona, tiene Bartolomeo di Ricchino da Soiana e rende l’anno di fitto in denari lire 6. Più e più pezuoli di terra poste nelle chonfini di Soiana, tielle Marcho di Giovanni e messer Chelino da Soiana e rendene l’anno di fitto grano quarre 3 a soldi 11 e denari 3 la quartina. Più e più pezzuoli di terra posti nelli sopradetti chonfini di Morrona, li quali tenghono le predette persone e Salvestro da Morrona e rendene l’anno di fitto grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quartina. Antonio di Bartolomeo da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quarra. Pasquino di Puccino da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 2 a soldi 11 e 3 la quartina. Giovanni di Puccino da Morrona danne d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Lando di Ghaddo da Morrona dà d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Pieri d’Antonio di Lelmo da Morrona dà d’affitto l’anno grano quarre 1 a soldi 11 e 3 la quartina. Uno di fitto d’uno fattoio posto nel chastello di Morrona del quale so l’anno di mezzo ollio libbre 12 a soldi 25 e 6 a libbra. Più e più pezzuoli di terra posti nelli detti chonfini di Morrona e per metà nelli chonfini di Terricciuola, li quali sono parte champie e parte vignate, le quali tenghono le frascritte persone, cioè: Binduccio di Giovanni e Antonio di Lorenzo Celino di Turo e Nicholaio di Brettone e Bartolo di Landuccio e Francesco fabro da Terricciuola, rendono tutto l’anno di fitto i detti nominati di sopra: grano saccha 2. Nelli chonfini dello chomune del Bagno a Aqua due mulini, cioè luno teragno e laltro francescho, de quali lo mulino terragno macina ello mulino francescho no perché sotto di stima tiegli Marcho d’Andrea di Romagna e rendone l’anno di fitto grano saccha 25. Ella bate di sopradetta badia è tenuto alla metà della spesa che acchonciasse per rispese delli detti mulini. Una vigna posta all’orto  alle sopradette mulino, la quale tiene Pagholo di ser Tomaso da Ceuli e rendene l’anno di fitto in danari lire 7. Un pezzo di terra posta nei sopradetti chonfini del Bagno a Acqua, la quale si chonosce come la chiudenda della bate, rende l’anno di fitto grano saccha 1, olio libbre 1 a soldi 25 a libbra. Uno podere posto nei sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto la Chaldana, la quale tiene Lorenzo di … (illeggibile) del Bagno e rende l’anno di fitto grano saccha 16. Uno pezzo di terra posto nelli sopradetti chonfini del Bagno in luogo detto la Serra, la uale tiene Tomeo di Giovanni lo Casamulo e rende l’anno di fitto grano saccha 8 a soldi 45 a saccha.Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini, tiello Checcho di Guccio e Tommeo di Giovanni e Giovanni d’Ugholino e Tome..lo dal Bagno, rendone l’anno di fitto grano saccha 8. Un pezzo di terra parte champia e parte pratata posta ne sudetti chonfini del Bagno, la quale tiene Giubileo da Parlascio e rende l’anno di fitto grano saccha 6. Un pezzo di terra pratata posto ne sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto Acquaviva, lo quale tiene Calisto di Pagholo e Biagio di Bartolo da Parlascio e rendene l’anno di fitto grano saccha 4. Uno podere posto ne sopradetti chonfini del Bagno in luogho detto in Gojano, lo quale tiene Lenzo di Giovanni da Morrona e prendene l’anno di fitto grano saccha 19. Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini del Bagno, lo quale tiene Bartolo di Cinovo dal Bagno e rendene l’anno di fitto grano saccha 1. Uno pezzo di terra pratata posta ne sopradetti chonfini del Bagno, la quale tiene Niccholao di Giovanni e rende l’anno di fitto in denari lire 1 soldi 2. Più e più pezzi di terra parte champia e parte pratata posta in de sopradetti chonfini del Bagno, gli quali tiene Mozano d’Andrea da Chasciana e rendene l’anno di fitto grano saccha 6. Pezzi tre di terra posti ne sopradetti chonfini del Bagno, li quali tiene Niccholaio di Nardo di Chasciana e rendene l’anno di fitto grano saccha 6. Uno pezzo di terra champia posta ne sopradetti chonfini del Bagno, lo quale tiene Stefano di Giannello da Chasciana e rende l’anno di fitto grano saccha 1. Uno pezzo di terra champia posta ne sepredetti chonfini del Bagno in luogo detto Ginestreto, lo quale tiene Rinaldo di Petraia e rendene l’anno di fitto grano saccha 2. Più e più pezzi di terre chollinare posti ne sopradetti chonfini del Bagno in luogo detto il Poggio delle Forche,li quali tiene Puccino di Giovanni da Chasciana e Marcho di Bartolo del Bagno e rendone l’anno di fitto grano saccha 3. Gl’infrascritti sono coloro li quali sono censuari e livellari della sopradetta Badia, cioè in primo: Antonio di Lippo da Morrona dà di censo l’anno per una chasa posta nel chastello di Morrona soldi 5 denari 6 (8 settembre). Ser Guido da Soiana dà di censo per una chasa posta nel chonfine di Soiana e danne di censo l’anno lo dì di Santa Maria di settembre lire 5 soldi 0 denari 6. Vanni d’Orso del Bagno dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria di settembre soldi 16 denari 6 d’uno chaneto e d’una ruota da rotare fuori, posta in sulla acqua del Bagno. Duto di Raiano da Chaprona dà di censo l’anno (8 settembre, per dei beni) posti in Petraia soldi 11. Lo prete di Santo Donato di Terricciola dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria sopradetta libbre 1 di rena perché lo detto bade a parte di portinaggio della detta el detto di Santo Donato di Terricciuola. Lo pivano di Morrona dà di censo l’anno lo dì di Santa Maria sopradetto lire 2 soldi 5 per la chiesa di Santo Bartolo da Morrona per la pieve di Santa Maria a Ginestrella.”

[163] Ibid.

[164] Ibid.

[165] Ibid.

[166] Ibid.

[167] O. M. Baroncini, Chronicon…cit., p. 124 (121 ter).

[168] Cfr. AS.P., Diplomatico n. 23, R. Acquisto Monini, p. 39.

[169] Cfr. AVV., sec. XII, dec. VII, n. VI; sec. XII, dec. VII, n. XIII; Nella prima pergamena non è mai citato il nome dell’abate di Morrona, ma da altri documenti siamo a conoscenza che nel 1153 era abate Iacopo e nel 1168 Ugo, quindi non possiamo stabilire con esattezza quali dei due abati fu quello che prese parte alla lite. Cfr. anche F. Schneider, Regestum…cit., pp. 67-68, n. 190; J. B. Mittarelli.Costadoni, Annales…cit., III, p. 460 in appendice.

[170] AVV., sec. XII, dec. I, n. VI. Il documento fu rogato da Guido notaio del Sacro Palazzo in Negoziana, con pena del doppio del beneficio e 200 soldi d’argento.

[171] AVV., sec. XII, dec. VII, n.VI.

[172] Ibid.

[173] Ibid.

[174] Ibid. La sentenza fu pronunciata nella pieve di Aqui; nella subscriptio troviamo: Ildebrando giudice, Gerardo console, Ildebrando giudice ordinario, Gerardo di Gunfredo console e assessore e “Uguicione de Casanvilia” notaio e giudice ordinario, che “hoc laudamentum scripsi”.

[175] I documenti concernenti questo equivoco cominciano l’anno 1153 e terminano nel 1258. Cfr. G. Mariti, Odeporico…cit.

[176] AVV, sec. XIII, dec. X, n. XV; F. Schneider, Regestum…cit., n. 249.

[177] Ibid.

[178] Cfr. C. Violante, Pievi …cit., pp. 697-698  Pievi e Parrocchie nell’Italia centrosettentrionale durante i secoli XI e XII, Milano 1974.

[179] AVV., sec. XIII, dec. X, n. IX.

[180] AVV. Sec, XIII, dec. II, n.X.

[181] Ibid.

[182] Ibid.

[183] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XVII.

[184] Ibid.

[185] Ibid.

[186] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XXXIX.

[187] AVV., sec. XIII, dec. II, n. XLII.

[188] AVV:, sec. XIII, dec. III, n I.

[189] AVV, sec. XIII, dec. IX, n. XXX.

[190] Ibid.

[191] AVV. Sec XIV, dec. V, n. XIII.

[192] Ibid.

[193] Ibid.

[194] AVV., sec.XIII, dec. III, n. VIII.

[195] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. III, n XX.

[196] AVV. sec  XIII, dec. III, n. XXVII.

[197] Cfr. AVV. sec.. XIII, dec.IV, n. XLIV.

[198] L’11 febbraio 1240, Simone abate, per utilità e migioramento del monastero, dà in locazione a Boninsegna fu Brinichi di Gallicano, per 12 anni, un mulino posto nei confini di Soiana in luogo detto “Pantano”, con casa, terra ed ogni sua pertinenza, pena 50 libbre se in tali anni il mulino non avesse funzionato e macinato bene; il censo annuo consisteva in “staria decem et octo boni grani et staria decem et octo inter ordeum et mileum”. AVV., Sec. XIII, dec. IV, n. XLIX.

[199] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. III, n. XXX.

[200] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec.IV, n. IV.

[201] Cfr. AVV, sec. XIII, dec. IV, n. VIII.

[202] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. IV, n. IX.

[203] Cfr. AVV., sec.XIII, dec. IV, n. XXVII.

[204] AVV. Sec:XIII, dec. IV, n. XXVIII.

[205] Ibid.

[206] Cfr. AVV. Sec.XIII, dec. IV, n. XXIX. I nomi dei quattordici uomini sono i seguenti:Gerardo molinaius de Morrona, Ranoctinus Mainecti, Geniduccius quondam Januensi, Ubaldus quondam Riciardini, Junta quondam Corboli, Hormanectus quondam Gacti, Ranentus et Rustichellus germani quondam Io…anecti, Bertoldus quondam Carbonis, Rubertus quondam Vernacci, Pollarious quondam Carbonis, Jambone quondam Bernardini, Hormanecttus quondam Guidonis, Bonesigna quondam Bencivenni”.

[207] Cfr. AVV., sec.XIII, dec. IV, n. XXXI.

[208] Cfr. AVV:; sec.XIII, Dec. IV n. XXXII.

[209] Cfr. L. Schiaparelli, Regesto di Camaldoli, Loescher 1907, T. IV, pp. 63-64.

[210] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. V, n. XV.

[211] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VI, nn. XXV e XXV bis; F. Schneider, Regestum…cit., nn. 664-665.

[212] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VI, n. XXX.

[213] AVV., sec.XIII, dec. VI, n. XXXII; A.S.F., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 396, n. 64.

[214] Cfr. ASF., Diplomatico Camaldoli; Camaldoli, San Salvatore (eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680.

[215] Cfr. ASF., Camaldoli appendice, n. 89, c. 45 v. e r.

[216]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 398, n. 79.

[217]ASF., Conventi soppressi, 39, n. 294, p. 399, n. 82.

[218] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VIII, n. XXXIV

[219] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXI. Il  documento è molto lungo. Si cfr. anche F. Schneider, Regestum…cit., nn. 845-850, pp. 286-287. Lo Schneider riporta l’anno 1277, forse riferisce la data allo stile pisano?

[220] Cfr. AVV., sec. XIII, dec. VIII, n. LXXI.

[221] Cfr. AVV. Sec. XIII, dec. VIII, n. LXXII; O. M. Baroncini, Chronicon Camalduli, ex Scripturis eius decerp-tum et ad nostra tempora deductum, Biblioteca di Arezzo ms. 343, p. 124 (121 ter)”Transacta quoque est anno 1278, stylo Pisano, er Mense octtobri Differentia AquaeductusMolendini ipsius Monasterii, quod ad Balneum de Aquis dicitur, ut D. Feus plebanus S. Mariae de Morona suisque successores praedictum acqueductum velut proprium praefati Monasterii semper liberum et expeditum manutenere teneantur, et D. Abbas Gerardus de Morona, atque D. Jacobus eremita vicecomes Camalduli in plebem praedictam transtulerunt, atque plebano tradiderunt unam petiam terrae star. XVI, loco qui dicitur Pantano in Plebario de Aquis pacto quod semper pro Mensa dictae Plebis sit, nec unquam vendi aut transferri possit, quae rata habuit confirmans D. Paganellus episcopus Lucanus, manu Guidonis Petri notarii”.

[222] AVV., sec. XIII, dec. X, n. XXX.

[223] Cfr. AVV, sec.XIII, dec. X, n. XLIII esiste solo traccia della bolla.

[224] Cfr. AVV, sec. XIV, dec. I, n. XXVIII

[225] Cfr. AVV, sec. XIV, dec.II, n. II.

[226] Cfr. E. Repetti, Dizionario… cit., I, p. 208)

[227] Cfr. AVV, sec. XIV, dec. II, n. XII.

[228] Cfr. AVV., sec. XIV, (decade e numero mancanti nel documento).

[229] Cfr. AVV. Sec. XIV, dec. III, n. LXXX.

[230] Cfr, G. Mariti, Odeporico… cit.

[231] AVV., sec. XIV, dec. III, n. LXXXII.

[232] AVV. Sec. XIV, dec. I, n. XXVI.

[233] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. II, n. XLVIII.

[234] AVV., sec. XIV, dec. III, n. LXVII. Il toponimo è tuttora esistente.

[235] Cfr.  AVV., sec. XIV, dec. IV, n. II?

[236] Cfr. AVV., sec.XIV, dec. IV, n. XXXIX

[237] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. IV, n. XXVI.

[238] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. IV, n. XXVI.

[239] Cfr. AVV., sec. XIV, dec. V, n. XIII.

[240] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680).

[241] G. Mariti, Odeporico…cit.

[242] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680). V. pag. 27.

[243] Cfr. Camaldoli, San Salvatore (Eremo), Diplomatico, 4798 (780-1680).

[244] Cfr. ASF. Camaldoli appendice, n. 83, cc. non numerate; B.G.V. (Biblioteca Guarnacci Volterra), Repertorio dell’Achivio di Badia, G. Gherardini MDCCLXIX, Inventario 9335.

[245] Cfr. A.S.C.V., Codice 12516, T, c. 72 v. e r.; J. B. Mittarelli-Costadoni, Annales…cit., t. VII, pp. 315-316.

[246] Ibid.

[247] Appartenente alla nobile famiglia De’ Pazzi, di centrale importanza nella storia di Firenze.

[248] Ibid.

[249] Probabilmente si tratta del priore del monastero camaldolese di Santa Maria degli Angeli, fondato nel 1295 da Guittone d’Arezzo, appartenente all’ordine dei frati Gaudenti, in luogo detto “Cafaggio”, fuori del secondo cerchio delle mura, dove, attualmente è pazza San Michele Visdomini e via de’ Servi. Nel 1348 l’Eremo venne ingrandito e furono incorporate varie case appartenute alle famiglie degli Alfani e degli Adimari. Nel 1378, era stato trsformato in deposito per i cittadini possidenti: fu saccheggiato nel 1378 durante la rivolta dei Ciompi. Oggi resta la ex chiesa di Santa Maria degli Angeli in via Alfani a Firenze. Cfr. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_Santa_Maria_degli_Angeli_(Firenze)

[250] Ibid.

[251] Ibid.

[252] Ibid.

[253] Ibid.

[254] Ibid.

[255] Ibid.

[256] Ibid.