L’ALIMENTAZIONE NELL’ISLĀM SECONDO IL CORANO

ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE DI MILANO (INCONTRI PLENARI DI AGGIORNAMENTO IDR 2014-2015)

 

Dr. p. Paolo Nicelli, P.I.M.E.

Nel Corano (1) vi sono più di un centinaio di occorrenze nella radice akl, da cui deriva la forma verbale akala (mangiare), e 48 occorrenze della radice ¥‘m, da cui deriva il sostantivo ¥a‘…m (nutrimento) e 28 occorrenze per l’imperativo kul™ (mangiate!). «E vi ombreggiammo di nubi e facemmo scendere su voi la manna e le quaglie: “Mangiate, dicemmo, delle cose buone che vi abbiam destinato!” Ed essi, nella loro perversità non Noi offesero, ma se stessi. صلى الله عليه وسلم E quando dicemmo: “Entrate in questa città e mangiate quel che volete, in abbondanza, ma entrate per la porta prostrandovi e dicendo: Perdono! E Noi perdoneremo i vostri peccati e saremo larghi coi buoni!” صلى الله عليه وسلم Ma gli iniqui cambiarono quella parola in una diversa da quella che era stata loro ordinata, e sugli iniqui Noi inviammo un castigo dal cielo per la loro corruzione. صلى الله عليه وسلم E quando Mosè chiese acqua per il suo popolo e gli dicemmo: “Batti la roccia con la tua verga” e ne sgorgheranno dodici sorgenti e ogni tribù seppe a quale doveva bere. Bevete e mangiate ciò che Iddio vi manda e non portate malignamente corruzione sulla terra!”» (Sura della Vacca: II, 57- 60). «O uomini, mangiate quel che di lecito e buono v’è sulla terra e non seguite le orme di Satana, ch’è vostro evidente nemico» (Sura della Vacca: II, 168). «O voi che credete! Mangiate delle cose buone che la Provvidenza Nostra v’ha dato, e ringraziatene Iddio, se Lui solo adorate!» (Sura della Vacca: II,172). «V’è permesso, nelle notti del mese di digiuno, d’accostarvi alle vostre donne: esse sono una veste per voi e voi una veste per loro. Iddio sapeva che voi ingannavate voi stessi, e s’è rivolto misericorde su di voi, condannandovi quel rigore; pertanto ora giacetevi pure con loro e desiderate liberamente quel che Dio vi ha concesso, bevete e mangiate, fino a quell’ora dell’alba in cui potrete distinguere un filo bianco da un filo nero, poi compite il digiuno fino alla notte e non giacetevi con le vostre donne, ma ritiratevi in preghiera nei luoghi d’orazione. Questi sono i termini di Dio, non li sfiorate. Così Iddio dichiara i suoi Segni agli uomini, nella speranza che essi lo temano» (Sura della Vacca: II,187). «Ti domanderanno che cosa sia lecito mangiare, Rispondi: “vi sono lecite le cose buone e quel che avrete insegnato a prendere agli animali a preda portandoli a caccia a mo’ di cani (ché del resto non avete fatto che insegnare a loro ciò che Dio ha insegnato a voi). Mangiate dunque ciò che avranno preso per voi, menzionandovi sopra il nome di Dio; e temete Iddio, ché Dio è rapido al conto!”» (Sura della mensa: V, 4). «Mangiate delle cose lecite e buone che Dio vi dà provvidente e temete quel Dio in cui credete! صلى الله عليه وسلم Dio non vi riprenderà per una svista nei vostri giuramenti, bensì vi riprenderà per aver concluso giuramenti che poi avete violato: in tal caso l’espiazione sarà il nutrire dieci poveri con cibo medio di cui nutrite le vostre famiglie, o il vestirli, o l’affrancamento di uno schiavo. Chi non troverà mezzi per fare questo, digiuni tre giorni. Questa è l’espiazione per aver violato i vostri giuramenti quando vi sarete impegnati. Mantenete dunque i vostri giuramenti! Così Iddio vi dichiara i Suoi Segni affinché per avventura Gli siate riconoscenti» (Sura della Mensa: V, 88-89) In riferimento a: «O voi che credete, adempite ai patti. Vi sono permessi gli animali dei greggi eccetto quelli che ora vi diremo, e non dovrete permettervi la caccia mentre vi trovate in stato sacro: Dio certo decreta ciò ch’Egli vuole» (Sura della Mensa: V, 1).  2 «Mangiate delle cose sulle quali è stato nominato il nome di Dio, se credete nei Suoi Segni» (Sura delle Greggi: VI, 118). «Egli è colui che ha fatto crescere giardini, vigneti a pergolato e senza pergolato, e palme, e cereali vari al mangiare, e olive e melograni simili e dissimili. Mangiate del frutto loro, quando viene la stagione, ma datene il dovuto ai poveri, il dì del raccolto, senza prodigalità stravaganti, che Dio gli stravaganti non ama. صلى الله عليه وسلم Del bestiame, alcuni animali sono da soma, altri da macello: mangiate di quello che la Provvidenza di Dio v’ha dato, e non seguite i passi di Satana, ch’è per voi chiaro nemico» (Sura delle Greggi: VI, 141-142). «O figli d’Adamo! Adornatevi quando vi recate in un luogo di preghiera qualsiasi, mangiate e bevete senza eccedere, perché Dio non ama gli stravaganti» (Sura del limbo: VII, 31). «E i figli d’Israele li dividemmo in dodici tribù, in dodici comunità, e rivelammo a Mosè, quando il suo popolo gli chiese da bere: “Batti con la tua verga la roccia!” E dodici sorgenti ne sgorgarono, e tutti gli uomini seppero dove dovevano bere; e li ombreggiammo con la Nube e facemmo scendere su loro la Manna e le Quaglie, dicendo loro: “Mangiate delle buone cose che la Nostra provvidenza vi dona!” Ma non a Noi essi fecero torto, bensì a se stessi. صلى الله عليه وسلم E rammenta quanto fu detto loro: Abbiate questa città e godetevi come volete! E dite: “Perdono!” entrando per la porta con prostrazioni. Allora vi perdoneremo i vostri peccati e farem prosperare quelli che operano il bene!» (Sura del Limbo: VII, 160-161). L’imperativo kul™ (mangiate!), è associato al sostantivo ¥ayyib…t (cose buone), o all’aggettivo derivato dalla stessa radice ¥ayyib, opposti entrambi al sostantivo khab…’ith (cose immonde). Da questa breve analisi lessicografica possiamo già individuare i tre temi, quello teologico, quello giuridico e quello antropologico, cari alla dottrina islamica e alla prassi alimentare: i cibi sono un dono di Dio, una delle manifestazioni della misericordia, della benevolenza e quindi della provvidenza divina verso gli uomini (intesa come rizq – ciò di cui ha bisogno l’uomo), secondo quanto enunciato dal bismiall…hi ar-ra|mani ar-ra|imi (Nel nome di Dio il più misericordioso il più benevolente).

1. Il tema teologico: All…h Razz…q (Dio è il Provvidente)

Questo “nome di Dio” (2) mette in evidenza la provvidenza divina in riferimento all’uomo, inteso come colui che beneficia del sostentamento (rizq-ciò di cui ha bisogno), che Dio stesso ha stabilito per lui: «O uomini! Adorate dunque il vostro Signore che ha creato voi e coloro che furono prima di voi, a che possiate divenir timorati di Dio, صلى الله عليه وسلم il quale ha fatto per voi della terra un tappeto e del cielo un castello, e ha fatto scendere dal cielo acqua con la quale estrae dalla terra quei frutti che sono il vostro pane quotidiano; non date dunque a Dio degli eguali, mentre voi sapete tutto questo!» (Sura della Vacca: II, 21-22). «E quando Mosè chiese acqua per il suo popolo e gli dicemmo: “Batti la roccia con la tua verga” e ne sgorgarono dodici sorgenti e ogni tribù seppe a quale doveva bere. Bevete e mangiate ciò che Iddio vi manda e non portate malignamente corruzione sulla terra!» (Sura della Vacca: II, 60). La dottrina islamica della provvidenza e benevolenza divina è fortemente legata alla misericordia di Dio, il quale provvede a fornire all’uomo la sua porzione di sostentamento. Tale porzione è già stabilita da Dio stesso. La dottrina viene poi unita a quella fondamentale dell’adorazione di Dio e a quella della sottomissione totale a Lui (tawakkul), dottrina, questa, che definisce la relazione tra l’uomo, creatura di Dio, e il suo Creatore. Essa definisce anche l’atto libero della volontà del credente (mu’min) di aderire a Dio e alla Sua volontà significato nella preghiera dalla profonda prostrazione (suÞ™d), volta alla totale mendicanza dell’amore di Dio.(3) Il “timore di Dio” è condizione  fondamentale, ma allo stesso tempo diviene la meta, o l’ideale, a cui tendere. Tutta la creazione è, in quanto pensata, voluta da Dio per l’uomo stesso. Il tema lessicale del rizq designa, in termini più specifici, un sostentamento determinato (q™t muqaddar), come concetto di bene in generale (milk), oppure come il cibo (ghidh…’): «Non c’è animale sulla terra, cui Dio non si curi di provvedere il cibo, ed Egli conosce la sua casa e la sua tana: tutto è scritto in un Libro chiaro» (Sura di H™d: XI, 6). Il termine: animale (d…bba) e il termine: cibo (rizq), richiamano al fatto che con cibo non possiamo indicare un bene o una proprietà, poiché l’animale non è un soggetto giuridico, capace di possedere, ma è ugualmente parte delle benedizioni divine, poiché può accedere al cibo per il suo sostentamento. In questo caso, si vuole mettere in evidenza, in termini teologici, l’azione di Dio, che come Razz…q, provvede per il sostentamento di tutta la creazione, soprattutto l’umanità. Il conoscere la sua casa e la sua tana richiama al fatto che Dio è onnisciente e onnivedente, cioè conosce nel dettaglio l’uomo, i suoi pensieri, le sue azioni e, soprattutto, i suoi bisogni essenziali, legati all’alimentazione. Per questo il cibo (rizq), non può che essere legato a qualcosa di buono (¥ayyib…t); non a qualcosa di immondo (khab…’ith ). Alla stessa stregua, in termini giuridici, il cibo (rizq) quando designa la proprietà non può essere collegato a un bene illecito (|ar…m), ma a un bene lecito (|al…l). Pertanto, la povertà, che è causata dalle azioni illecite degli uomini, che perseguono dei beni illeciti, non può essere imputata a Dio, ma ai comportamenti illeciti, quindi peccaminosi, degli uomini.

2. Il tema giuridico: L’opposizione tra lecito (|al…l) e illecito (|ar…m).

Il Corano dice che i credenti devono mangiare solo ciò che è lecito, nel senso di “buono” ¥ayyib. Vi sono dei versetti che indicano dei divieti precisi, altri invece tendono a mitigare le leggi tribali preislamiche, sia in un contesto polemico antiebraico, sia nei in un contesto polemico contro le leggi dei politeisti arabi: «[…] per la empietà, infine, di questi giudei abbiam loro proibito delle cose buone che prima erano loro lecite e perché han deviato dalla via di Dio, di molto صلى الله عليه وسلم e perché han praticato l’usura che pur era stata loro proibita, per aver consumato i beni altrui falsamente; e abbiam preparato per i Negatori fra loro castigo cocente. صلى الله عليه وسلم Ma quelli fra loro che sono saldi nella scienza, i credenti che credono in ciò che è stato rivelato a te e in quel che è stato rivelato prima di te, quelli che fanno la Preghiera e pagano la Dècima, i credenti in Dio e nell’Ultimo Giorno, a quelli daremo mercede immensa» (Sura delle Donne: IV, 160-162). Il Corano esprime in chiave fortemente antisemitica il concetto di |ar…m, dichiarando che la proibizione inflitta agli ebrei su alcuni cibi è dovuta al fatto che essi hanno deviato dalla via di Dio attraverso due gravi atti d’infedeltà: 1) Il non aver riconosciuto la rivelazione coranica, la funzione profetica di Mu|ammad صلى الله عليه وسلم e l’inviato Gesù صلى الله عليه وسلم. 2) Il non aver riconosciuto la predicazione dei profeti, compreso quella del profeta Gesù صلى الله عليه وسلم e quindi il non aver accettato una sorta di “successione profetica”, che si compie definitivamente con la venuta del profeta Mu|ammad صلى الله عليه وسلم, inteso come il “Sigillo della rivelazione”. Tale atteggiamento, secondo questa visione polemica, li pone come “Negatori” (k…fir™n).(4) Il pensiero coranico di fondo sostiene la tesi che Dio ha dato la legge a Mosè per via della durezza del cuore del suo popolo, che aveva voltato le spalle al suo Creatore. I precetti ebraici sono 4 presentati come una punizione divina o come qualcosa che le autorità religiose del tempo hanno imposto al popolo, per la sua durezza del suo cuore. Da qui, la necessità di una Legge, quella islamica, che è più leggera di quella ebraica, capace di mitigare i precetti e le prescrizioni ebraiche. L’Islām coranico vuole quindi presentarsi come meno rigido della Legge ebraica i cui divieti alimentari non sono fatti propri dal Corano. In effetti, enunciando alcuni divieti alimentari che i musulmani devono seguire, il Corano dichiara che altri divieti alimentari sono obsoleti e quindi abrogati. Fatto salvo questo principio generale, la descrizione nel dettaglio dei cibi leciti e di quelli illeciti viene fatta dipendere più dalla Sunna e dalla Shar†‘a, che dal Corano stesso, che come indicato nella sura della Mensa, non scende nei dettagli, ma si limita ad indicazioni generali: «Vi son dunque proibiti gli animali morti, il sangue, la carne del porco, gli animali che sono stati macellati senza l’invocazione del nome di Dio, e quelli soffocati e uccisi a bastonate, o scapicollati o ammazzati a cornate e quelli in parte divorati dalle fiere, a meno che voi non li abbiate finiti sgozzandoli, e quelli sacrificati sugli altari idolatrici; e v’è anche proibito di distribuirvi fra voi a sorte gli oggetti: questo è un’empietà. Guai, oggi, a coloro che hanno apostatato dalla vostra religione: voi non temeteli, ma temete me! Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione e ho compiuto su di voi i miei favori, e M’è piaciuto di darvi per religione l’Islàm. Quanto poi a chi vi è costretto per fame o senza volontaria inclinazione al peccato, ebbene Dio è misericorde e pietoso» (Sura della Mensa: V, 3). In questi versetti (ay…t) coranici ciò che è importante per la nostra trattazione è la parte finale: «Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione…». Si tratta probabilmente di un’interpolazione meccana, nella sura quinta che è di origine medinese, apposta dal redattore per sottolineare la portata teologica delle prescrizioni alimentari islamiche, più mitigate rispetto a quelle ebraiche, ma più restrittive rispetto a quelle politeiste. Con la Legge islamica, Dio ha voluto indicare il suo favore al popolo musulmano, scegliendo la via mediana o il giusto mezzo, non troppo pesante da seguire, ma neppure troppo permissiva di fronte a comportamenti peccaminosi e quindi illeciti del politeismo arabo. Il tema di fondo è il principio etico islamico del fare il bene ed evitare il male.

3. Il tema antropologico: le leggi dell’ospitalità.

Il tema antropologico dell’ospitalità è profondamente legato ai due temi trattai: quello teologico e quello giuridico. L’ospitalità che porta in sé l’offerta di cibo è importante quanto la preghiera o tutto quanto è contenuto nel credo islamico (‘aq†da). L’ospitalità viene riferita alla prassi vigente tra le tribù del deserto detta: a¡abiyya (solidarietà), dovuta, per legge tribale, a coloro che si trovano in difficoltà per via delle difficili condizioni climatiche del deserto. Rifiutare l’ospitalità significava infrangere una legge fondamentale nella sua sacralità, ma voleva anche dire rifiutare l’assistenza alla creatura di Dio, che provvede soprattutto per chi è in difficoltà e a rischio per la sua vita. Offrire al viandante la tenda come protezione e il cibo come sostentamento durante il suo lungo viaggio valeva dire offrire la protezione e l’alimentazione al parente prossimo. Chi ospitava, era quindi responsabile dell’incolumità del viandante, come di chiunque accoglieva sotto la sua tenda, cosciente del fatto che Dio avrebbe provveduto a sua volta per lui in situazioni analoghe: «La pietà non consiste nel volgere la faccia verso l’oriente o verso l’occidente, bensì la vera pietà è quella di chi crede in Dio, nell’Ultimo Giorno, e negli Angeli, e nel Libro, e nei Profeti, e dà dei suoi averi, per amore di Dio, ai parenti e agli orfani e ai poveri e ai viandanti e ai mendicanti e per riscattar prigionieri, di chi compie la preghiera e paga la Dècima, chi mantiene le proprie promesse quando le ha fatte, di chi nei dolori e nelle avversità e nei dì di strettura; questi sono i sinceri, questi i timorati di Dio» (Sura della Vacca: II, 177). «Ti chiederanno che cosa dovran dar via dei loro beni. Rispondi: «Quel che date via delle vostre sostanze sia per i genitori, i parenti, gli orfani, i poveri, i viandanti; tutto ciò che farete di bene, Dio lo saprà» (Sura della Vacca: II, 215). 5 «Adorate dunque Iddio e non associateGli cosa alcuna, e ai genitori fate del bene, e ai parenti e agli orfani e ai poveri e al vicino che v’è parente e al vicino che v’è estraneo e al compagno di viaggio e al viandante e allo schiavo, poiché Dio non ama chi è superbo e vanesio» (Sura delle Donne: IV, 36). Questi versetti oltre ad associare il viandante alle categorie di persone sia famigliari che estranei, sottolinea il pericolo in cui incorre l’avaro di ospitalità, che nell’avarizia esprime la sua superbia non compiendo il bene ed esponendosi all’ira divina. Tuttavia, il Corano dice che Dio rifiuta anche coloro che donano per un tornaconto personale, cioè quello di mettersi in mostra davanti alla gente: «Né ama Iddio coloro che donano dei loro beni per farsi veder dalla gente e non credono in Dio e nell’Ultimo Giorno» (Sura delle Donne: IV, 38). Ecco dunque come l’ospitalità, legata al precetto religioso, recupera la prassi preislamica della solidarietà, inserendola nel contesto dell’esperienza religiosa del timore di Dio e della pratica del bene comune. Il Corano ha così recuperato le leggi dell’ospitalità dei beduini del deserto della Penisola Arabica, dando loro una connotazione religiosa. La violazione di queste leggi, ora sacralizzate, porta il credente alla perdizione. I due aspetti antropologici e sociali: 1) Quello della sopravvivenza del viandante in un’economia di sussistenza; 2) Quello dell’esistenza di una massa di individui ridotti alla povertà, incapaci di rispondere ai propri bisogni più necessari, fanno dell’alimentazione un fattore importante che apre, nell’esercizio della legge dell’ospitalità, all’esperienza della solidarietà, non più legata alle convenzioni tribali, ma alla fede in Dio.

 

1 Per le citazioni coraniche utilizzeremo: A. Bausani, Il Corano, Biblioteca Universale Rizzoli, Pantheon, Milano 2001.

2 Al-Razz…q (il Provvidente), è uno dei bei novantanove nomi di Dio.

3 Nicelli P., Al-Ghaz…l†, pensatore e maestro spirituale, Editoriale Jaca Book SpA, Milano 2013, pp. 47-73.

4 Il termine k…fir, plur: k…fir™n, assume nel Corano i significati differenti di “infedele”, “miscredente”, “negatore”. Dipende dal contesto in cui viene utilizzato e dalla polemica antigiudaica, anticristiana, oppure antiidolatrica, che si presenta nel testo.

MANOSCRITTI DELL’AFRICA ARABA, ETIOPICA E COPTA AL TEMPO DI FEDERICO BORROMEO, LETTI E CATALOGATI DA ENRICO RODOLFO GALBIATI ED EUGENIO GRIFFINI

 PAOLO NICELLI

 

Parlare delle acquisizioni dei manoscritti africani da parte della Veneranda Biblioteca Ambrosiana dal suo inizio fino ad oggi richiederebbe una relazione lunga che andrebbe ben oltre il tempo a me consentito in questa sede. Tuttavia, celebrando in questo periodo il centenario della nascita di Mons. Enrico Rodolfo Galbiati (1914 – 2004), già Prefetto dell’Ambrosiana e insigne studioso di Sacra Scrittura e di Orientalistica, vorrei ripercorrere il periodo iniziale di tali acquisizioni, che corrisponde alla prima metà del Seicento, e che vede proprio in Mons. Galbiati un attento narratore a partire dalla corrispondenza del Cardinale Federico Borromeo (1564-1631), che racconta questo periodo. Dirò anche dell’importante acquisizione del fondo di Eugenio Griffini (1878 – 1925), eminente orientalista dell’inizio del secolo scorso, che collaborò attivamente allo studio e alla catalogazione di vari manoscritti arabi, etiopici e copti dell’Ambrosiana.

 

1. RUOLO PROPULSORE DI FEDERICO BORROMEO

La figura centrale all’inizio delle acquisizioni di manoscritti della Veneranda Biblioteca Ambrosiana è quella del Cardinale Federico Borromeo, che fu arcivescovo di Milano, impegnatosi a fondo nella difesa della giurisdizione ecclesiastica contro i governanti spagnoli e nella difesa del Rito Ambrosiano, promuovendo anche l’attuazione della riforma cattolica nei suoi vari aspetti(1) . Federico volle soddisfare un suo grande desiderio, quello cioè di poter avere in Ambrosiana un certo numero di manoscritti provenienti dal Vicino Oriente e dal Nord-Africa(2) . Tale desiderio, andava di pari passo con l’ulteriore desiderio di istituire per il Collegio dei dottori lo studio delle lingue semitiche e orientali in generale, oltreché l’approfondimento delle culture e civiltà ad esse collegate di cui egli era un vero cultore. L’intento fu quello di avere a disposizione degli esperti di Orientalistica che potessero insegnare ai dottori della Veneranda Biblioteca lingue quali: l’arabo, l’ebraico, il copto, l’etiopico, il siriaco e l’armeno, unendosi così a coloro che si dedicavano allo studio del greco, del latino e delle diverse lingue europee. Questa preoccupazione per gli studi orientalistici dimostra l’attenzione che Federico aveva per la cultura in termini generali, ma in modo particolare per le nuove correnti esegetiche, che, dopo Erasmo, ponevano la Filologia e la critica letteraria e testuale alla base del metodo d’indagine e di conoscenza del senso letterale del testo, indispensabile per poi accedere a quello allegorico e anagogico della Sacra Scrittura. Nel suo articolo di presentazione dei primi decenni dell’Orientalistica in Ambrosiana, Mons. Enrico Rodolfo Galbiati, ci dice che tra i manoscritti di Federico vi era una miscellanea catalogata sotto il nome di: Studi sulla lingua ebraica (G 1 inf.)(3) , contenente degli appunti grammaticali e un fascicolo con passi biblici scritti in ebraico con traduzione italiana interlineare. Il manoscritto contiene dei lavori preparatori di opere in via di pubblicazione, con il confronto di alcune frasi della Bibbia latina, dei libri storici (dal Pentateuco alle Cronache), con il testo ebraico citato nella versione latina. In più vi è una versione siriaca, di cui Federico trascrive le parole testuali usando l’ebraico. Tenendo conto che la versione siriaca dell’Antico Testamento fu stampata nel 1645 (Poliglotta di Parigi), si può presumere che Federico si servì di uno dei due manoscritti conservati presso l’Ambrosiana(4) . Lo stesso manoscritto riporta, nella sua terza parte, i primi tre capitoli della Genesi, tradotti da una versione araba. Infatti, in essa vi è un doppio foglio incollato con il testo in arabo del primo capitolo della Genesi. Probabilmente, il doppio foglio proveniva dal Collegio dei Maroniti di Roma(5) , su richiesta di Federico stesso. Da qui possiamo notare il grande interesse che il Borromeo aveva per gli studi orientalistici. Nel manoscritto autografo: Memorie delli libri da scriversi dal Collegio Ambrosiano, Federico scrive che circa le lingue straniere come l’arabo, il persiano, l’armeno, è necessario redigere delle grammatiche e dei dizionari, con in più il bisogno di conoscere quelle lingue per poter leggere e per distinguere bene i loro alfabeti(6) . Questo amore per le lingue orientali delinea il personaggio di Federico Borromeo, amante della sacra Scrittura e dell’Orientalismo. In più denota la portata missionaria e culturale del suo studio, cioè anticipa, in un certo senso, la stessa visione e preoccupazione missionaria che vedremo essere parte dello spirito e delle iniziative di Francesco Ingoli (1579–1649), primo segretario della Congregazione di Propaganda Fide, istituita da Gregorio XV nel 1622(7) . Ingoli richiedeva, infatti, nella formazione dei missionari partenti e già presenti sul campo, la conoscenza approfondita della cultura, dei costumi e delle lingue delle popolazioni presso cui essi andavano, al fine di comprendere la dimensione antropologica, religiosa e sociale di quei popoli. Il tutto era finalizzato a promuovere con efficacia il messaggio e i valori evangelici. Siamo all’inizio del dibattito teologico sull’inculturazione del Vangelo nel tessuto culturale di intere popolazioni che ancora non avevano ascoltato il messaggio salvifico di Cristo. Federico desiderava avere per i suoi futuri dottori un maestro di siriaco e di arabo. Per questo scopo si rivolse ai Maroniti di Roma, tenendo conto del fatto che i maroniti cattolici del Libano di rito antiocheno, cioè siriano, usavano anche la lingua araba, pur conservando quella siriaca(8) nell’uso quotidiano della liturgia.

1) P. PRODI, Borromeo, Federico, in Treccani, L’Enciclopedia Italiana on-line, (www.treccani.it/enciclopedia/federicoborromeo_%28 Dizionario-Biografico%29/ ultima consultazione 27 aprile 2015); vedi anche i diversi contributi nel volume: D. ZARDIN (ed.), Federico Borromeo vescovo, Milano, Biblioteca Ambrosiana – Bulzoni Editore, 2003, (Studia Borromaica 17).

2) Su questi temi vedi i diversi contributi nel volume: M. MARCOCCHI – C. PASINI (edd.), Federico Borromeo, fonti e storiografia, Milano, Biblioteca Ambrosiana – Editrice ITL (Studia Borromaica 15); P. BRANCA, Gli interessi arabistici del cardinal Federico Borromeo nel quadro dello sviluppo degli studi orientali durante il Seicento, in Federico Borromeo, uomo di cultura e di spiritualità, S. BURGIO – L. CERIOTTI (edd.), Milano, Biblioteca Ambrosiana – Bulzoni Editore, 2002, (Studia Borromaica 16), pp. 325-333.

3) E. R. GALBIATI, L’orientalistica nei primi decenni di attività, in A. ANNONI (ed.), Storia dell’Ambrosiana, Il Seicento, Milano, Cariplo – Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, 1992, p. 89. Interessante è l’articolo di A.M. PIEMONTESE, La raccolta vaticana di Orientalia: Asia, Africa ed Europa, in C. MONTUSCHI (ed.), Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana III. La Vaticana nel seicento (1590-1700): una biblioteca di biblioteche, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2014, pp. 428-460. Sulla figura di Mons. Enrico Rodolfo Galbiati vedi: M. ADINOLFI – A. PASSONI DELL’ACQUA (edd.), Enrico Rodolfo Galbiati, un maestro, Casale Monferrato, Portalupi Editore, 2004; F. BRASCHI (ed.), Enrico Galbiati, liturgia ed ecumenismo. Per un’esperienza autentica del cammino verso l’unità, Milano, Edizioni La Casa di Matriona, 2014; A. PASSONI DELL’ACQUA (ed.), Enrico R. Galbiati (1914 – 2004): un prete ambrosiano con lo sguardo a Oriente. Convegno 7 maggio 2014, Milano, EDUCatt, 2014; P. FUMAGALLI, Enrico Rodolfo Galbiati, in C. BAFFIONI – R.B. FINAZZI – A. PASSONI DELL’ACQUA – E. VERGANI (edd.),Storia del pensiero religioso del Vicino Oriente. L’età bagratide, Maimonide, Affrate, III Dies Academicus 2012, Roma, Bulzoni Editore, pp. 300-303.

4) Si tratta della Pesittašdel VII secolo (B 21 inf.) e del manoscritto A 144-145 inf., eseguito a Gerusalemme tra il 1613 e il 1615.

5) GALBIATI, L’orientalistica, p. 91.

6) Manoscritto Z 109 sup. 16° loco, 17 loco: «[…] Intorno alle lingue straniere come l’Araba, Persiana, Armena, resta il carico di fare le grammatiche e li dittionari […]»; «[…] Vicina a questa fatica ve n’è un’altra curiosa e insieme utile, mentre si darà alle stampe tutti gl’Alfabeti delle lingue straniere nobili aggiungendovi regole per leggere […] In somiglianti linguaggi non è poco il sapere almeno leggere, et l’uno dall’altro distinguere, et riconoscerlo […]», in E. R. GALBIATI, L’orientalistica, p. 91.

7) Francesco Ingoli (1578-1649), giurista e professore di diritto civile e canonico. Studioso di astronomia, venne nominato da Gregorio XV segretario della Congregazione del Cerimoniale, poi segretario di Propaganda Fide, fondata nel 1622. Contro la politica del Patronato Real, (spagnolo) o Padronado Real (portoghese), Ingoli riformò la struttura stessa delle missioni, istituendo i delegati e i vicari apostolici, direttamente dipendenti da Roma e non dai reggenti di Spagna e Portogallo. Egli favorì la costituzione di seminari locali e la formazione del clero secolare e indigeno contro i privilegi degli ordini religiosi. Promosse il rispetto dei costumi e delle tradizioni dei popoli evangelizzati, promuovendo lo studio delle lingue locali da parte delle nuove generazioni di missionari. Fondò la Tipografia Poliglotta, ora Tipografia Vaticana. Su questo tema vedi: C. PRUDHOMME, Missioni cristiane e colonialismo, Milano, Editoriale Jaca Book, 2006, pp. 35-46; J. COMBY, Duemila anni di evangelizzazione, Torino, Società Editrice Internazionale, 1994, pp. 86-118; R. IANNARONE, La scoperta dell’America e la prima difesa degli Indios: i Domenicani, Bologna, PDUL Edizioni Studio Domenicano, 1992, pp. 145-215. Sull’istituzione di Propaganda Fide e le sue istruzioni ai vicariati apostolici vedi: M. MARCOCCHI, Colonialismo, Cristianesimo e culture extraeuropee. La istruzione di Propaganda Fide ai vicariati apostolici dell’Asia orientale (1659), Milano, Editoriale Jaca Book, 1980, pp. 15-59.

8) Si tratta della lingua siriaca della Mesopotamia settentrionale e della Siria. Lingua, questa, in cui fu scritta buona parte della letteratura cristiana. Nei secoli XVI e XVIII questa lingua veniva chiamata anche “caldaico” senza essere confuso con il “caldeo”, cioè l’aramaico biblico e giudaico. Su lingua e letteratura siriaca, cf. T. MURAOKA, Classical Syriac. A Basic Grammar with a Chrestomathy, Wiesbaden, Harrassowitz Verlag, 1997 (Porta Linguarum Orientalium, Neue Serie 19); M. ALBERT, Langue et la littérature syriaque, in Christianismes Orientaux. Introduction à l’étude des langues et des littératures, Paris, Les Éditions du Cerf, 1993, pp. 297-375; S. BROCK, An Introduction to Syriac Studies, Piscataway (NJ), Gorgias Press, 2006.

Nel novembre del 1609, Michele il Maronita(9) fu scelto come maestro di siriaco. Dopo un anno e mezzo d’insegnamento Michele Maronita venne incaricato dal Borromeo di compiere un viaggio lungo e difficoltoso nel Vicino Oriente, alla ricerca di manoscritti siriaci, arabi e persiani, oltreché greci. Michele Maronita poté partire per il suo viaggio il 13 giugno 1611, solo dopo molti mesi di attesa, con le dovute lettere di raccomandazione per l’Arcivescovo di Corfù, ottenute dal veneziano Vincenzo Quirini, il quale aveva già favorito Antonio Salmazia con lettere di presentazione per un precedente viaggio organizzato assieme a Domenico Gerosolimitano, insigne ebreo, convertitosi al Cristianesimo. Dal 1607 al 1608, il Salmazia assieme al Gerosolimitano compirono, delle esplorazioni a Corfù, nelle isole dell’Egeo e in Tessaglia alla ricerca di libri rari(10). Michele Maronita portava con sé anche dei doni per il Patriarca dei maroniti e alcune linee guida sul comportamento da tenere con le autorità locali per ottenere l’acquisto dei manoscritti desiderati: l’affabilità, la gentilezza e là dove fosse possibile una certa famigliarità con le persone che potevano indicare i luoghi di deposito dei manoscritti. Anche l’utilizzo degli interpreti aveva una sua ragion d’essere, per via dei diversi dialetti usati per le trattative di vendita. Poi l’uso discreto e coscienzioso del denaro dato a coloro che con certezza potevano donare dei codici di valore. In questo senso, non si doveva essere avari soprattutto con coloro che fossero stati riluttanti alla vendita dei manoscritti. Bisognava pagare i manoscritti per il loro reale valore, giungendo così allo scopo prefissato. Tuttavia, di fronte a una continua resistenza, si doveva, con scrittura certa, fissare un tetto oltre il quale non si doveva andare(11). Il viaggio di Michele Maronita durò due anni ed ebbe tristemente fine per la malattia mortale che lo colpì nella città di Aleppo alla fine del 1613. Prima di morire, Michele Maronita raggiunse Corfù, Zante e poi Creta, per poi proseguire per Tripoli di Siria, in visita all’Arcivescovo maronita. Da qui un certo numero di manoscritti furono catalogati e spediti a Milano. Poi visitò il monastero di Qannūbīn, sede del Patriarca dei maroniti Pietro Giovanni Maḥlūf, in carica dal 1608 al 1634, per il quale Michele Maronita tradusse una lettera di ringraziamento per i doni liturgici ricevuti da Federico Borromeo(12). Di seguito, Michele Maronita spedì a Milano dei libri caldei e poi si recò a Gerusalemme per preparare una copia dell’Antico Testamento in siriaco. Di tale copia, conservata in due volumi in Ambrosiana (A 144-145 inf.), E. R. Galbiati ci dice: […] che il primo (tomo) porta l’indicazione «scritto a Gerusalemme negli anni 1612-1614 per ordine del cardinal Federico». Al f. 408 r. del primo volume vi è un lungo colophon da cui risulta che quella parte fu scritta a Gerusalemme nel monastero della Madre di Dio Maria, che è chiamato Casa di San Marco, dei siriani ortodossi. Il secondo volume al f. 406 v. porta un lungo colophon: l’Antico Testamento fu continuato dal monaco maronita Elias di Ehden (Libano) e terminato il 25 maggio del 1615. L’incarico fu dato al guardiano dei francescani per eseguire l’ordine del cardinal Federico Borromeo. L’intervento del francescano fu dovuto probabilmente al fatto che nel frattempo Michele era morto(13) . Michele Maronita proseguì poi per Costantinopoli dove trovò il nobile veneziano Marco Paruta, il quale gli fu di grande aiuto nell’acquisto di manoscritti arabi e persiani di medicina, di astronomia e di matematica. Al suo ritorno a Gerusalemme il Nostro acquistò altri codici. In seguito, come già menzionato, Michele Maronita si recò ad Aleppo, città nella quale morì, probabilmente a causa di un’epidemia. Prima della sua visita ad Aleppo, Michele maronita visitò l’Egitto, come era nei suoi programmi, da dove probabilmente spedì dei codici molto importanti a Milano presso la Biblioteca Ambrosiana. Questo spiegherebbe l’arrivo a Milano del massimo tesoro siriaco costituito dai due codici: il B 21 inf., in due volumi, contenenti la famosa Peshitta dell’Antico Testamento, e il C 313 inf.,l’unicum della Versione siro-esaplare(14) . Entrambi i codici furono comperati dal monastero di Santa Maria Madre di Dio nel deserto di Skiti, in Egitto.

9) La lettera da Corfù del 7 agosto 1611 (G 206 bis inf. N. 230), riporta la firma di Michele Maronita, il quale si firmava in questa come in altre lettere con lo pseudonimo di «Michele Micheli», cioè Michele figlio di Michele.

10) S. LUCÀ, L’apporto dell’Italia meridionale alla costituzione del fondo greco dell’Ambrosiana, in C. M. MAZZUCCHI – C. PASINI (edd.), Nuove ricerche sui manoscritti greci dell’Ambrosiana, Atti del Convegno, Milano, 5-6 giugno 2003, Milano, Vita e Pensiero, 2004, p. 198; C. PASINI, La raccolta dei manoscritti greci all’origine dell’Ambrosiana: linee di acquisizione (in particolare la missione di Antonio Salmazia a Corfù negli anni (1616-1631), in Federico Borromeo, fonti e storiografia, M. MARCOCCHI – C. PASINI ( edd.), Milano, Biblioteca Ambrosiana – Editrice ITL, 2001, (Studia Borromaica 15), pp. 59-100.

11) Cfr. GALBIATI, L’orientalistica, p. 106.

12) L’originale della lettera (X 299 inf., ins. 1) è scritto in karšūnī (arabo in alfabeto siriaco) ed è stato tradotto in italiano dallo stesso Michele Maronita (G 206 inf., n. 230 bis).

13) GALBIATI, L’orientalistica, pp. 118-119.

2. CODICI POLIGLOTTI AMBROSIANI

Secondo E.R. Galbiati, sempre a Michele Maronita potrebbe doversi l’acquisizione del manoscritto pentaglotto B 20 inf. A, datato tra il XIII e XIV secolo15 , che contiene le Epistole di San Paolo, nelle cinque lingue etiopica, siriaca, copta, araba e armena – quest’ultima lingua è assente a partire dai ff. 176 fino alla fine; e del manoscritto tetraglotto B 20 inf. B, che contiene le Epistole Canoniche e gli Atti degli Apostoli, con l’esclusione della colonna in lingua armena. Entrambi i codici sono stati scritti in Egitto alla fine del XIV secolo, presso il monastero di san Macario. Da un’osservazione dei manoscritti, si nota la mano di più copisti per via della diversità delle calligrafie e della mancanza di uniformità nelle colonne. Circa il manoscritto B 20 Inf. A, l’impressione sarebbe quella del lavoro di un’équipe multilingue che operò fecondamente nella produzione dell’opera(16) . Una possibile relazione potrebbe esserci tra i manoscritti B 20 inf. A della Biblioteca Ambrosiana e il Salterio poliglotto del XIV secolo, conservato presso la Biblioteca Vaticana (Barberini Orientale 2), ivi giuntovi tramite il padre Agatangelo de Vendôme(17). Essi sarebbero associati alla figura di Rabban Ṣalībā (Maestro della Croce), probabile curatore e acquirente del B 20 inf. A., così come indicato nell’annotazione in B 20 inf. A f. 74 V: «Chiedo dunque a ogni fratello spirituale che sfoglierà questo libro di pregare per il peccatore che, debole e misero e perduto nei peccati, scrisse il libro in siriaco. E pregate per i miei padri, e i miei fratelli e i miei maestri, e per il sacerdote nostro Maestro della Croce, poiché egli si prese cura e acquistò questo tesoro spirituale; e ognuno, in conformità alla sua preghiera, possa ricevere la ricompensa dal Signore. Amen» (18) . Il riferimento al Maestro della Croce potrebbe indicare la persona stessa di Rabban Ṣalībā, ipotesi questa tutta da verificare. Da qui, risulta ancora incerto chi di fatto abbia curato il manoscritto e, più ancora, chi lo abbia acquistato, se Michele il Maronita, come ipotizzato dal Galbiati o Rabban Ṣalībā, come indicato nell’annotazione in B 20 inf. A f. 74 verso19 . Sulla stessa linea, bisognerebbe verificare lo stesso ruolo di Rabban Ṣalībā in relazione al Salterio poliglotto della Biblioteca Vaticana (Barberini Orientale 2). Il manoscritto cartaceo, B. 20 inf. A (Pentaglotto – San Paolo, epistole dall’Apostolo Pentaglotto (etiopico, siriaco, copto, arabo, armeno) include la lettera agli Ebrei e segue il seguente ordine: 1) Lettera ai Romani, (versetti iniziali 3, 29/30 aiḍan li-anna ’llāh wāḥid huwa ’lladī yubarriru ahl-hitān); 2) (46b) Prima lettera ai Corinzi; 3) (99b) Seconda lettera ai Corinzi; 4) (142a) Lettera ai Galati; 5) (160b) Lettera agli Efesini; 6) (176b) Lettera ai Filippesi; 7) (188b) Lettera ai Colossesi; 8) (199b) Prima lettera ai Tessalonicesi; 9) (208b) seconda lettera ai Tessalonicesi; 10) (214a) Lettera agli Ebrei; 11) (246b) Prima lettera a Timoteo; 12) (260a) Seconda lettera a Timoteo; 13) (268a) Lettera a Tito; 14) (273b) Lettera a Filemone. Due note interessanti in arabo ci dicono che la colonna araba del manoscritto originale, di cui non si ha notizia, fu scritta da un sacerdote di nome Ṣalīb (Rabban Ṣalībā) nel monastero dei siriani di Nostra Signora la Vergine (Maria)(20). E. R. Galbiati ci dice invece che nel manoscritto la scrittura etiopica è di tipo arcaico. Il colophon dice: « Sono terminate qui le epistole di Paolo apostolo in 14 libri. Pregate per me che le ho tradotte affinché si ricordi Cristo di me nel suo regno. Amen»(21)

14) GALBIATI, L’orientalistica, p. 108.

15) O. LÖFGREN – R. TRAINI, Catalogue of the Arabic Manuscrips in the Biblioteca Ambrosiana, I, Antico Fondo and Medio Fondo, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1975, p. 3.

16) Cfr. E. VERGANI, Colofoni siriaci della Biblioteca Ambrosiana. Scritte e annotazioni, in A. SIRINIAN – G. SHURGAIA (edd.), Colofoni armeni a confronto, Atti del Workshop, Bologna 12 ottobre 2012, (in corso di pubblicazione).

17) Cfr. D.V. PROVERBIO, Barb. or. 2 (Psalterium Pentaglottum), in P. BUZI – D.V. PROVERBIO (edd.), Coptic Treasures from the Vatican Library. A Selection of Coptic, Copto-Arabic and Ethiopic Manuscripts. Papers collected on the occasion of the Tenth International Congress of Coptic Studies (Rome, September 17th-22nd, 2012), Studi e testi, 472, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2012, pp. 163-174.

18) Traduzione ad opera di E. Vergani, che qui ringrazio.

19) Tuttavia, ci troviamo di fronte a delle ipotesi da verificare. Detto questo, non possiamo affermare con certezza che Rabban Ṣalībā abbia acquistato il manoscritto per la Biblioteca Ambrosiana.

20) Cfr. LÖFGREN – TRAINI, Catalogue, p. 3-4. 5 

21) E. R. GALBIATI, I manoscritti etiopici dell’Ambrosiana, in Studi in onore di mons. Carlo Castglioni, Milano, Giuffrè Editore, 1957, p. 340. Ricordiamo i contributi di Tedros Abraha, accademico della Classe di Studi Africani della Biblioteca Ambrosiana, sulla Lettera ai Romani e sulla figura di San Paolo, letto dalla tradizione etiopica: T. ABRAHA, La lettera ai Romani. Testo e commentari della versione etiopica, Aethiopistische Forschungen 57. Wiesbaden: Otto Harrassovits Werlag, 2001; IDEM, The Ethiopic Version of the Letters to the Hebrews, Volume 419 di Studi e Testi, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2004; IDEM, Paolo “lingua profumata”. Il maestro delle genti nella tradizione etiopica, in BARTOLOMEO PIRONE – ELENA BOLOGNESI (edd.), San Paolo letto da Oriente: Atti del convegno internazionale in occasione dell’anno paolino, Damasco 23-25 aprile 2009, Studia Orientalia Christiana, Monographiae, 18, Milano, Edizioni Terra Santa, 2010, pp. 179-216; IDEM, The Ethiopic Versions of 1 and 2 Corinthians, Roma, [s.n.] 2014.

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Fig. 1 – San Paolo Epistole Pentaglotto (B 20 inf. A, f. 110 recto)

Il manoscritto cartaceo B. 20 inf. B (Tetraglotto – Epistole Canoniche e Atti degli apostoli: Tetraglotto, arabo, copto siriaco, etiopico) fu scritto alla fine del XIV secolo nel monastero di San Macario, in Egitto. Il manoscritto contiene le Epistole Canoniche e gli Atti degli Apostoli in solo quattro delle lingue dei cristiani “monofisiti” (22) . Manca infatti la quinta colonna in Armeno. Esso segue il seguente ordine: A. (1- 54) le sette Epistole Cattoliche: Lettera di Giacomo; (13b) Prima Lettera di Pietro; (27a) Seconda lettera di Pietro; (35b) Prima lettera di Giovanni; (48b) Seconda lettera di Giovanni; (50a) Terza lettera di Giovanni; (51b) Lettera di Giuda. B. (55b-186) Atti degli Apostoli.

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Fig. 2 – Epistole canoniche e Atti degli Apostoli – Tetraglotto, Prima lettera di San Giovanni (B. 20 inf. B, ff. 35 verso e 36 recto)

22) Riportiamo il virgolettato per evitare l’uso eresiologico dell’aggettivo “monofisiti”

3. CODICI COPTI AMBROSIANI

Tra i manoscritti siriaci dell’Ambrosiana oltre all’Antico Testamento scritto a Gerusalemme solo i Salmi e Canti Biblici, con la versione in arabo karšūnī (G 31 sup.) e i Canoni Apostolici, Vite di Santi, Omelie (R 15 sup.), in arabo karšūnī, provengono dal Libano. Altri manoscritti cristiani in lingua siriaca, sarebbero stati scritti dai monaci Maroniti di Roma. Tuttavia, sebbene Michele Maronita avesse realizzato solo in parte le sue aspettative di acquisto di libri, si pensa che i manoscritti arabo-cristiani e arabo-islamici catalogati nel Vecchio Fondo(23) siano frutto dell’opera svolta dal Nostro, come coscienzioso servizio svolto a Federico Borromeo, nello svolgimento del suo viaggio in Vicino Oriente. Nella collezione dell’Ambrosiana in lingua etiopica, si trovano alcuni codici provenienti dall’ospizio abissino di Santo Stefano dei Mori, presso il Vaticano. Tali manoscritti sono stati studiati e catalogati dall’illustre orientalista Sylvain Grébaut, il quale trascorse un periodo di ricerca presso la Veneranda Biblioteca durante l’anno 1933 e in quell’occasione stabilì il Catalogo dei manoscritti etiopici pubblicati poi nel Catalogue des Manuscrits Ethiopiens de la Bibliothèque Ambrosienne, «Revue de l’Orient Chrétien», 3e Série, IX (XXIX), 1 et 2 (1933-1934), pp. 3-32. Secondo E.R. Galbiati, si trattava di una serie di cinque manoscritti tra cui i due famosi: Pentaglotto e Tetraglotto già menzionati, riportanti la colonna in lingua etiopica. La metodologia di catalogazione utilizzata dal Grébaut risulta essere diversa rispetto quella utilizzata dall’Ambrosiana. Egli raccolse e catalogò i manoscritti secondo le rispettive lingue, metodologia che lo stesso Galbiati continuerà a completamento del Catalogo del Grébaut, aggiungendo ai codici non ancora catalogati quelli di nuova acquisizione dell’Ambrosiana(24). Di questi manoscritti etiopici presentiamo qui X 104 sup. che nei ff. 3 verso e 4 recto, riportano la parte iniziale del Salterio Etiopico. A seguire, presentiamo X 104 sup. bis., che nei ff. 180 verso e 181 recto, riporta la parte iniziale del Weddāsē Māryām, l’Ufficio della Madonna per i sette giorni della settimana. Le schede di catalogazione sono dello stesso E.R. Galbiati: X 104 sup. (Grébaut n. I), (ff. 3 verso e 4 recto Parte iniziale del Salterio Etiopico) Manoscritto membranaceo (ff. 1-2 cart.); ff. 179; cm. 13,5 X 12; scrittura elegante ed arcaica (la lettera lō senza penducolo e forme angolose). Secolo XV; ff. 1-2 (cartacei, scrittura grossolana. Preghiera magica; inizio di un Calendario, altra invocazione magica; Salmo 132,3; immagine di Davide tolta dal Salterio Etiopico stampato nel 1513, ff. 3-153. Salterio; ogni decade è divisa dalla seguente mediante un fregio; dopo il Salmo 100 (f. 100), una pagina ornata; ff. 154 recto – 169 verso. Cantici dei Profeti (oltre le Odi del Canone Bizzantino la serie etiopica comprende anche il Canto di Ezechia e la Preghiera Apocrifa di Manasse); ff. 170-179. Canto dei Cantici, diviso in 5 sezioni. Il f. 179 V., è occupato da una ornamentazione colorata(25).

 

23) Per il Vecchio Fondo, vedi O. LÖFGREN – R. TRAINI, Catalogue, of the Arabic Manuscrips in the Biblioteca Ambrosiana, I, Antico Fondo and Medio Fondo, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1975; J. VON HAMMER – PURGSTALL, Catalogo dei codici arabi, persiani e turchi della Biblioteca Ambrosiana, «Biblioteca Italiana», 94, 1939, pp. 22-49, 222-348, in Galbiati, L’orientalistica, p. 119.

24) E.R. GALBIATI, I manoscritti etiopici dell’Ambrosiana, in Studi in onore di mons. Carlo Castglioni, Milano, Giuffrè Editore, 1957, pp. 329-353; ID., I fondi orientali minori (siriaco, etiopico, armeno) dell’Ambrosiana, in Istituto Lombardo, Accademia di Scienze e Lettere, Atti del Convegno La Lombardia e l’Oriente (Milano, 11-15 giugno 1962), Milano, Istituto Lombardo, Accademia di Scienze e Lettere, 1963, pp. 190-196. Circa la descrizione dei manoscritti fatta da E. R. Galbiati e di S. Grébaut, essa deve essere contestualizzata e inquadrata a sua volta nel processo di progressivo sviluppo della descrizione e catalogazione dei manoscritti orientali anche come implicita riflessione sui fenomeni culturali più ampi e complessi. Ben sapendo che vi sono altri metodi di catalogazione più moderni, con spirito di riconoscenza verso questi due grandi studiosi, riproponiamo una sintetica presentazione fondata sulla loro descrizioni dei manoscritti.

25) GALBIATI, I manoscritti, p. 141.

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 Fig. 3 – Salterio Etiopico (X 104 sup., ff. 3 verso e 4 recto) X 104 sup. bis. (Grébaut n. I), (ff. 180 verso e 181 recto. Parte iniziale del Weddāsē Māryām).

Manoscritto cartaceo; cm. 13,5 X 10 circa; scrittura sgraziata per mancanza di mezzi idonei. Sec. XVI. Gli 82 fogli di questo manoscritto, redatto probabilmente a Roma, insieme con i primi due (cartacei) del precedente, furono legati in un sol volume con il precedente membranaceo e più antico, scritto certamente in Abissinia da mano espertissima. Forse la legatura fu fatta dagli Abissini stessi di S. Stefano, essendo abituale nei manoscritti il trovare i salmi, Cantici e la Cantica uniti ai testi in onore di Maria che si trovano in questo manoscritto. Comunque, le due parti, di diversa dimensione, furono separate in due volumi nel restauro fatto a Modena nel 1956, per assicurarne la miglior conservazione. Si è tuttavia lasciata immutata la numerazione dei fogli; ff. 180 verso – 209 R. Weddāsē Māryām, il noto Ufficio della Madonna per i sette giorni della settimana; ff. 209 verso – 224 R. Weddāsē za’ Egze’etena M… anqasa berhān: l’altro consueto Ufficio a Maria «Porta della luce»; ff. 225 verso – 250 R. Anafora di Maria composta da Abbā Giyorgis. È un testo raro: dopo di essere stato portato a Roma (Vat. Et. 15, 193; 18, 122, 24, 138 verso), questo testo scomparve totalmente dall’Abissinia in seguito alle devastazioni belliche del secolo XVI. Ritrovata in una caverna di Kaffa, quest’anafora è in uso soltanto nella cappella reale di Adis Abeba (T. M. Semharay, La Messe Ethiopienne, Roma 1937, p. 98). Essa s’intitola dalle prime parole Ma‘azā Qeddāsē: Profumo di Consacrazione; ff. 250-260. Frammenti diversi: Simbolo di Nicea, Decalogo, Preghiera magica, tracce di un’immagine etiopica, due stampe europee, Calendario dei Santi (f. 257 verso), Preghiera, Mc 7, 31-35. I Colofoni sono ai ff. 179 recto; 209 recto; 224 verso – 225 recto: il proprietario è Kefla- Dengel, l’amanuense è Feqra-‘Egzi’e. Risulta che questo duplice manoscritto apparteneva al fondo Pinelli(26)

26) GALBIATI, I manoscritti, p. 141.

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 Fig. 4 – Weddāsē Māryām, (X 104 sup. bis., ff. 180 verso e 181 recto)

Un altro manoscritto in lingua etiopica custodito in Ambrosiana, del quale alcune pagine si stanno perdendo a causa dell’eccesiva fragilità, è il B 22 sup., di 182 fogli, scritto con un inchiostro molto corrosivo. Esso fu studiato e catalogato da Mons. E.R. Galbiati, che ne tradusse così il suo titolo: “Questo è (il libro de) le Ore di Kefla-Dengel figlio (spirituale) di Abuna Ewostatēwos, e il mio maestro è Abbā Kefla Seyon figlio di Abbā Tesfā-Hawāryāt”. Il libro delle Ore fu scritto a Roma al tempo di Clemente VIII e del sovrano dell’Etiopia Ya‘qob, che regnò dal 1597 al 1603. Il libro contiene due opere: A) I computi astronomici, composti da: 1) Il computo delle feste mobili nel periodo di 19 anni; 2) Le osservazioni sui moti del sole. B) Horologion, composto da: 1) Una serie di lezioni bibliche; 2) La Preghiera della mezzanotte; 3) La Preghiera del mattino; 4) La Preghiera dell’ora sesta; 5) La preghiera della quiete (Mc 13, 32-37. Custodisci di continuo, o Signore, in questa ora, nella quale hanno potere i demoni, e circondaci di una barriera con la forza degli Angeli, perché ecco il dominatore della notte); 6) L’inno che parafrasa il Pater Noster.

B 22 sup. (E.R. Galbiati), (ff. 1 verso e 2 recto. Parte iniziale de Il libro delle Ore di Kefla-Dengel).

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 Fig. 5 – Il libro delle Ore di Kefla-Dengel (B 22 sup., ff. 1 verso e 2 recto)

4. FRAMMENTI COPTO-ARABI AMBROSIANI

Nella collezione di manoscritti dell’Ambrosiana in lingua copta vi sono due frammenti in copto-arabo appartenenti al fondo di Eugenio Griffini(27), l’S. P. II. 18. Ter, che fa parte del Rituale copto per il conferimento del Battesimo e benedizioni connesse. I frammenti sono di inestimabile valore, in quanto dopo il Vangelo della presentazione di cui sono indicati i versetti finali (Lc 2, 34-35), viene la Preghiera di benedizione sulla Donna, che ha partorito un figlio maschio. La fotocopia allegata al frammento, qui non riprodotta, traduce il testo con qualche variante, così come è contenuto nell’Edizione cattolica del Rituale copto-arabo. La traduzione autografa di E. Griffini è riportata su alcuni foglietti allegati al frammento.

27) Eugenio Griffini, (1878-1925) fu un insigne orientalista. Fra il 1908 e il 1910 cominciò la catalogazione della prima collezione di 125 manoscritti nella Rivista di Sudi Orientali con il titolo: I manoscritti sud-arabici della Biblioteca Ambrosiana di Milano: saggio del catalogo per materie della prima collezione (coranica, tradizioni, dogmatica, mistica…), Roma 1910. Il catalogo fu poi proseguito con dei nuovi criteri sempre nella Rivista di Sudi Orientali, dal 1910 al 1919 (vedi: Catalogo di manoscritti arabi di Nuovo Fondo della Biblioteca Ambrosiana di Milano, I, Codici 1- 475, ibid. 1920). L’opera del Griffini fu poi ripresa dallo studioso orientalista svedese Oscar Löfgren e proseguita dall’arabista e orientalista Renato Traini. Su questo tema vedi: (http://www.treccani.it/enciclopedia/eugeniogriffini_(Dizionario-Biografico)/ ultima consultazione 27 aprile 2015); cf. P.F. FUMAGALLI, Raccolte significative dei manoscritti: Mosè Lattes, fondo Trotti, Giuseppe Caprotti, in G. VANETTI, Storia dell’Ambrosiana. L’Ottocento, Milano, IntesaBci, 2001, pp. 167-211, 194-206.

 (S. P. II. 18. Ter), frammento copto-arabo (Fondo Eugenio Griffini – 1)

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 Fig. 6 – Frammento del Rituale copto per il conferimento del Battesimo e benedizioni connesse (S. P. II. 18. Ter)

(S. P. II. 18. Ter), frammento Copto Arabo (Fondo Eugenio Griffini – 2).

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 Fig. 7 – Frammento del Rituale copto per il conferimento del Battesimo e benedizioni connesse (S. P. II. 18. Ter)

CONCLUSIONE

Ciò che abbiamo presentato in questo breve excursus sono solo alcune delle perle preziose che la Veneranda Biblioteca Ambrosiana custodisce con amore. Si tratta di un piccolo campionario dei fondi acquisiti al tempo di Federico Borromeo e in tempi più recenti. Ancora oggi, il Collegio dei Dottori dell’Ambrosiana custodisce con cura queste opere a cui, nel tempo, se ne sono aggiunte delle altre, non solo provenienti dal Nord Africa e dal Vicino Oriente, ma anche dall’Asia centrale e dall’Estremo Oriente. Lo studio delle lingue legato alla ricerca filologica, letteraria e dottrinale delle antichità cristiane, è condotto nel quadro degli studi storici dei testi appartenenti ad altre tradizioni religiose ben oltre il bacino del Mediterraneo. Così dalla Cina, dal Giappone sono giunte delle opere interessanti e una notevole documentazione utile all’attività dell’Accademia Ambrosiana, parte questa, che accanto alla Biblioteca e Pinacoteca, promuove ricerche e studi della Veneranda Biblioteca Ambrosiana. La neonata Classe di Studi Africani, che studia questi manoscritti come altri in lingua araba, copta, etiopica, berbera, si inserisce in un lavoro di ricerca filologica con la precisa ambizione di approfondire lo studio storico e di attualità del mondo culturale mediorientale e africano, prendendo in esame le aree nord africane e coinvolgendo anche quelle sub-sahariane. In questo senso, il desiderio del compianto Gianfranco Fiaccadori, insigne accademico dell’Ambrosiana, ispiratore e fondatore della Classe di studi Africani, era quello di coinvolgere gli studiosi della Classe in un opera di approfondimento delle realtà religiose, sociali e antropologiche dell’Africa, non solo araba, ma anche sub-sahariana. Approfondire la realtà culturale e umana di un continente così vasto e variegato quale quello africano, ancora soggetto a guerre intestine e tribali, dovute a questioni politiche ed economiche regionali e internazionali, non si presenta un compito facile. Tuttavia, è dovere nostro farci promotori di quei valori di giustizia e di pace che solo un dialogo culturale e inter-religioso può veramente favorire al di là di ogni interesse di parte, sia esso politico o economico. In questo senso, si potranno promuovere dei lavori di ricerca interdisciplinare che coinvolgeranno la Classe di studi Africani e le altre Classi dell’Accademia, nello spirito proprio di Federico Borromeo, che ha voluto creare questo luogo aprendolo alla comunicazione del sapere, oltre le frontiere geografiche, ideologiche e religiose. Non è retorico ricordare che lo studio dei manoscritti appartenenti alla tradizione cristiana orientale, come a qualsiasi altra tradizione religiosa, è un vero e proprio contributo alla preservazione e valorizzazione di un patrimonio dell’umanità. La sua custodia, analisi e interpretazione, è un nostro compito fondamentale, in quanto studiosi ed estimatori del loro eccezionale valore culturale, scientifico, storico-formativo e religioso.

PAOLO NICELLI

The Manuscripts of Arabic, Ethiopic and Coptic Africa, Collected at the Time of Federico Borromeo, read and catalogued by Enrico Rodolfo Galbiati and Eugenio Griffini The article briefly introduces the historical events which brought about the collection of Arabic, Ethiopic and Coptic manuscripts belonging to the Veneranda Biblioteca Ambrosiana (Ambrosian Library), at the time of Federico Borromeo (1564-1631), Archibishop of Milan and Founder of the Ambrosian Library. The research is based on the studies and cataloguing of E.R. Galbiati, biblist, orientalist and Prefect of the Ambrosian Library and E. Griffini, orientalist and philologist, who collaborated for several years with the same Library. The article underlines Federico Borromeo’s great interest for orientalist studies, looking at the possible institution of a Collegium of Doctores, which were able to read, translate and write scientific commentaries on these manuscripts. At the same time from this research it comes out Federico Borromeo’s idea of establishing a place of culture in the City of Milan, able to communicate the humanistic sense of learning through the attitude of dialogue, bridging relationships among different thoughts, cultures and peoples.

Nicelli P., [Manoscritti dell’Africa araba, etiopica e copta al tempo
di Federico Borromeo, letti e catalogati da Enrico Rodolfo Galbiati ed
Eugenio Griffini] in Paolo Nicelli (a cura di), L’Africa, l’Oriente
Mediterraneo e l’Europa. Tradizioni e culture a confronto, Biblioteca
Ambrosiana – Bulzoni Editore, Roma 2015, pp. 1-12.

Dr. Padre Paolo Nicelli, PIME
Dottore della Biblioteca Ambrosiana
Direttore della Classe di Studi Africani
Professore di Teologia Dogmatica, Missiologia, Studi Arabi e Islamistica.
Uff. (+39) 02-80692.325
E-mail: pnicelli@ambrosiana.it

website: www.ambrosiana.eu

DIES ACADEMICUS CLASSE DI SLAVISTICA VENERANDA BIBLIOTECA AMBROSIANA

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Comunicato stampa

Traduzioni e rapporti interculturali degli slavi con il mondo circostante Ricca di 400 anni di storia, la Biblioteca Ambrosiana, nota per la sua importantissima collezione manoscritta e libraria e per la sua ricchissima pinacoteca, ha visto la fondazione, nel 2008, della Accademia Ambrosiana, i cui statuti sono stati rinnovati e confermati dal Cardinal Angelo Scola, che ne ha altresì solennemente inaugurato l’Anno Accademico il 22 ottobre 2014. Costituita non da libri od opere d’arte, come la Biblioteca e la Pinacoteca, l’Accademia racchiude una ricchezza ancora più preziosa, perché capace di far vivere e fiorire le prime due: quella degli studiosi che la compongono, accademici di chiara fama e giovani ricercatori di promettente ingegno. Raccolti in classi di studio, costoro hanno il compito di far “fruttificare” il patrimonio dell’Ambrosiana, unendovi la creatività e lo studio personali, in modo da innescare e tenere vivi processi di crescita del sapere capaci di produrre una nuova cultura umanistica. Nell’ambito dell’Accademia Ambrosiana, che con le sue varie Classi ha lo scopo di promuovere (così recita lo Statuto) “in modo coordinato e sistematico ricerche e pubblicazioni”, “contribuendo a suscitare un sempre più vasto interesse nel mondo scientifico e insieme a rendere la Veneranda Biblioteca Ambrosiana un luogo di confronto e di scambio per gli studiosi delle altre istituzioni accademiche”, la Classe di Slavistica trova la sua ‘specificità’ nel riferimento alla Biblioteca Ambrosiana, intesa non solo come ‘deposito’ di ‘materiale culturale di ambito slavistico’, ma piuttosto come sistema culturale integrato, esso stesso degno di indagine. Gli ambiti di studio della Classe non sono così limitati al solo patrimonio librario e codicologico afferente all’ambito slavo posseduto dalla Biblioteca Ambrosiana, ma si estendono da un lato allo studio della figura di Ambrogio e della sua tradizione negli ambiti linguistico-culturali slavi e dall’altro alla ricerca storica collegata ai carteggi, agli incontri e agli scritti dei Prefetti e dei Dottori, e più in generale a quanto riguarda la storia delle relazioni tra l’Ambrosiana (e quindi l’ambito milanese) e i Paesi slavi, dal XVI secolo ai giorni nostri. Il 26 e 27 maggio prossimi la Classe di Slavistica terrà il sesto Dies Academicus, dedicato al tema: Traduzioni e rapporti interculturali degli slavi con il mondo circostante. Durante il Dies Academicus si celebrerà l’investitura dei Neo Accademici prof. Anatolij Turilov (Accademia delle Scienze di Mosca) e prof. Serena Vitale (Università Cattolica di Milano). Oltre a ciò, si affianca alle giornate di studio la presentazione del quinto volume della collana “Slavica Ambrosiana”, espressione della Classe e dedicata al tema (frutto del lavoro dell’anno accademico 2010-2011): “Libro manoscritto e libro a stampa nel mondo slavo (XV-XX sec.)”. Interverranno numerosi studiosi e docenti universitari provenienti da Atenei italiani e internazionali: A. M. Totomanova (Sofia), D. Stern (Gand), A. Naumow (Venezia), D. Frick (Berkeley), S. Temčinas (Vilnius), N. Marcialis (Roma), J. Klein (Leida), H. Kleipert (Bonn), R. Marti (Saarbrücken), C. De Michelis (Roma), Luca Bernardini (Milano). Il convegno avrà luogo, per tutta la giornata del 26 maggio e per la sessione mattutina del 27 maggio, nella Sala delle Accademie, con ingresso da Piazza Pio XI, 2. La sessione pomeridiana del 27 maggio avrà invece luogo presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, aula G127, con ingresso da Largo Gemelli, 1. Le due giornate sono aperte al pubblico e a ingresso libero, fino ad esaurimento dei posti in sala. Accademia Ambrosiana – Classe di Slavistica Sesto Dies Academicus: Traduzioni e rapporti interculturali degli slavi con il mondo circostante Milano, Biblioteca Ambrosiana – Sala delle Accademie (ingresso da Piazza S. Sepolcro) Martedì 26 maggio, ore 15.30-20.00 – Mercoledì 27 maggio, ore 9,30-12,30 Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore – Aula G127 Mercoledì 27 maggio, ore 15,00-18,00 Per maggiori informazioni: http://www.ambrosiana.itsegreteria.slavistica@ambrosiana.it . Tel. : 02 80692.1; Fax 02 80692.215.

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NEWSLETTER VENERANDA BIBLIOTECA AMBROSIANA

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Newsletter

della Veneranda Biblioteca Ambrosiana

Milano, 19 maggio 2015

Lettura di Poesia in Biblioteca Ambrosiana – aperta liberalmente alla Città

Vladimír Holan: ritratto del “poeta murato”, martedì 19 maggio 2015 ore 16:30-18:00, nella Sala XXIII dell’Ambrosiana, presentazione del volume “Addio?” di Vladimir Holan, Arcipelago Edizioni Editore, dicembre 2014. Intervengono Vlasta Fesslová e Marco Ceriani, curatori del volume; Paolo Giovannetti Università IULM, Milano, editore e i poeti Maurizio Cucchi e Mario Santagostini, accolti dal Curatore della Newsletter dell’Ambrosiana alla presenza di Radka Neumannova, direttrice del Centro Culturale Ceco di Milano.

Invito_________ ►●

Foglietto di Sala__ ►●

In apertura, e in anteprima, un brevissimo filmato del regista antoinedelaroche, prodotto per la Newsletter dell’Ambrosiana.

 

Conclusione della Mostra dell’Ambrosiana a Singapore “Leonardo da Vinci’s Codex Atlanticus” (17 maggio 2015)​ e intervista esclusiva di Honor Harger, direttrice dell’Artscience Museum di Singapore, alla newsletter dell’Ambrosiana pdf ►●  ebook ►●

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I° Convegno internazionale – Milano,  9-10 giugno 2015

Renaissance history/historiography congress

Storia e storiografia dell’arte del Rinascimento a Milano

  e in Lombardia. Metodologia. Critica. Casi di studio.”

promosso a Milano congiuntamente alla Fondazione Trivulzio

Comunicato Stampa – 19 maggio 2015 –►●

Invito-►●       Locandina – Manifesto-►●

Totem all’ingresso dell’Ambrosiana-►●

I contributi di VolArte alla Newsletter della Veneranda Biblioteca Ambrosiana​:

Da VolArte: Paola Banfi. Una testimonianza –►●

Staff Redazionale NL-VBA

tel. +39 02 80 69 24 21- fax +390280692215

e-mail: newsletter@ambrosiana.it

Lettera d’invito al banchetto dei medici

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                                  Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ di Ibn Bu¥lân (Lettera d’invito al banchetto dei medici)
Dr. padre Paolo Nicelli, P.I.M.E. (Dottore della Biblioteca Ambrosiana)

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Dettaglio preso da una miniatura della Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ di Ibn Bu¥l…n. In essa vi è rappresentato un dottore che visita un paziente o un possibile dibattito tra due medici. Sulla sinistra della miniatura vi è una credenza con bricchi e calici: probabili pozioni a uso medico (Museum of islamic Art, Jerusalem)

Descrizione del manoscritto
Ms. Arabo A 125 inf. – Abû ðasan al-Mukhtâr ibn ‘Abdûn ibn Sa‘dûn ibn Bu¥lân, Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ (Il banchetto dei medici), sec. XIII. Splendido codice su carta di 122 fogli, in formato medio, copiato in Alessandria d’Egitto nel 1273 da Mu|ammad ibn Qaisar al-Iskandarî. Il manoscritto vergato in elegante scrittura nasî vocalizzata, comprende tre scritti medici, il primo dei quali composto nel 1058 dal medico, filosofo e teologo arabo di fede cristiana nestoriana Abû ðasan al-Mutâr ibn ‘Abdûn ibn Sa‘dûn ibn Bu¥lân (m. 1066). L’autore visse alla corte degli ‘Abbasidi in Baghdâd, ed ebbe come maestro un prete nestoriano, Abû al-FaraÞ b. al-¦ayyib, un commentatore di Aristotele, Ippocrate e Galeno, il quale si interessava anche di botanica e scrisse di satira, vino e qualità naturali. In Egitto e in particolar modo al Cairo, Ibn Bu¥lân intraprese diverse controversie contro Ibn Riÿwân (medico, astrologo e astronomo egiziano) su temi quali le citazioni e le idee filosofiche di Aristotele sul luogo, il movimento e l’anima. Egli si trasferì a Costantinopoli nel 1054, dove, su richiesta del Patriarca Michele Cerulario (m.1059), compose un trattato sull’Eucarestia e l’uso del pane senza lievito. Durante lo scisma che avrebbe portato alla separazione della Chiesa greca da quella latina, Ibn Bu¥lân passò gli ultimi anni della sua vita come monaco in un monastero presso Antiochia. La sua opera medica più importante è il Taqwîn al-¡i||a (il rinvigorimento della salute). È un trattato d’igiene e di dialettica in otto capitoli, scritto nell’ XI secolo, probabilmente a Baghdâd,(1) su carta e in elegante scrittura nasî, con i titoli in carattere cufico in color rosso. Esso è dedicato a rispondere ad alcune domande generali sui quattro elementi naturali, gli umori e i caratteri emotivi. Ibn Bu¥lân studiò la natura e il valore della nutrizione, come anche l’influenza dell’ambiente, dell’acqua e del clima sulla salute.

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Altra opera importante è la Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ (lettera d’invito al banchetto dei medici), che tratta di temi di etica medica, con una satira sui medici ignoranti.(2) Questa lettera-trattato è accompagnata da undici miniature di alta qualità, di scuola siriana con influssi dell’Asia centrale evidenti nell’abbigliamento e nei lineamenti asiatici del volto dei convitati, esempio unico dell’arte iconografica mamelucca del XIII secolo. Riproduciamo qui il frontespizio del Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’ ta¡nîf (redazione) del Ms. Arabo A 125 inf. f.15 R., custodito nella Veneranda Biblioteca Ambrosiana:

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1 Cfr. http://www.christies.com/lotfinder/books-manuscripts/al-mukhtar-bin-al-hasan-bin-abdun-bin-sadun-5422241-details.aspx (cons. 8 maggio 2015)
2 H. SELIN (editor), Encyclopaedia of the History of Science, Technology and Medicine in Non-Western Culture, Dordrecht – The Netherlands, 1997, pp. 417-418.

La miniatura di seguito riprodotta (Ms. Arabo A 125 inf. f.15 R.), raffigura una scena di brindisi fra l’ospite e i suoi invitati, vestiti con raffinata eleganza e accompagnati da un suonatore, aspetti questi tipici del simposio classico greco-romano, ormai ripreso anche in altre culture mediterranee. Nel simposio è presente una bevanda non ben definita. Essa potrebbe essere il vino a indicare che ci troviamo in un convivio di medici pagani, o cristiani, oppure non si tratta di vino, ma di thè, indicando quindi un convivio di medici musulmani. Terza ipotesi potrebbe essere l’assaggio di un elisir particolare di cui i medici parlano. Questa tesi, che riteniamo più probabile, sarebbe sostenuta dal fatto che solo due commensali hanno il bicchiere e bevono la bevanda, mentre gli altri sono impegnati in altre cose. Nel simposio manca invece il cibo, alimento importante, assieme al vino, tipico del simposio greco-romano, dove sia il vino che il cibo venivano consumati stando sdraiati sui triclini, durante una conversazione tra pochi intimi. I suonatori suonavano inni e canti per il piacere dei commensali. In un contesto arabo o mamelucco, come quello della Risâlat Da‘wat al-a¥ibbâ’, i commensali sono invece inginocchiati a semicerchio su un tappeto e bevono insieme discutendo sul caso clinico di un certo Abû Aiub, il cui occhio si era arrossato, di color rosso sangue, probabilmente a causa di un agente esterno o a causa della pressione sanguinea nell’occhio stesso. Interessante è notare come un tale fenomeno, legato all’irritazione dell’occhio, venga spiegato attraverso un truce avvenimento quale quello di un massacro con il versamento di molto sangue, al punto da provocare, in colui che ne era stato il testimone oculare, l’arrossamento dell’occhio.

Stile dell’opera e traduzione del brano: (Ms. Arabo A 125 inf. f.15 R.)
L’opera si presenta con uno stile prosimetro, cioè che alterna prosa a poesia, così come espresso nei versi seguenti:
Prosa (natr): «Kahal disse che questa era una cosa relativa al nostro Šaih che si chiama Abû Aiub. Disse Abû Aiub: “bevo (Ašrabu) questo bicchiere e lo sorseggio (Asluhu) ”. Dopodiché, prese il bicchiere e lo sollevò e lo osservò e disse: “Per Allâh!, come disse il poeta”.
Poesia (ši‘r) in rime (damma – o…, o…,):
1) «Quindi Il vetro era una goccia non congelata e la medicina (il farmaco) di color rosso fuoco. “O Signore!, cantami, per Allâh!, i segreti […] di Kahal” e quindi iniziò e cantò».
Il significato del versetto richiama il modificarsi delle sostanze attraverso dei processi chimici. Infatti la composizione chimica del vetro del bicchiere si è modificata a causa di un processo chimico: prima di diventare solido era come una goccia non congelata, cioè liquido. Allo stesso modo, la medicina ha cambiato la sua composizione chimica con l’aggiunta di altri componenti diventando rosso fuoco.
2) «Qâlû ištakat ‘inuhu faqultu lahum min kathrati al-qatli nâlaha al-wa¡bu» «Dissero, che il suo occhio si lamentò, io gli ho risposto: per via del massacro (lett: della tanta uccisione), (l’occhio) è stato colpito dalla malattia».
3) «ðumratuhâ min damâ fî al-na¡li šahidu ‘aÞiab» «Il suo colore rosso per via del sangue di chi ha ucciso e il sangue sulla punta ferrata (della spada) è una testimonianza stupefacente».
4) «Quindi gli cantò: “L’ammalato alle palpebre (è ammalato) senza motivo e colui che si è truccato non si è truccato».
5) «La sua bellezza si lamentò della bruttezza dei suoi comportamenti, quindi la vergogna si manifestò sulle sue guance».

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Ciò che abbiamo presentato è un breve excursus su una delle perle più preziose che la Veneranda Biblioteca Ambrosiana custodisce con amore. Si tratta di una delle opere miniate più belle a disposizione del pubblico e degli studiosi. Ancora oggi, il Collegio dei Dottori dell’Ambrosiana custodisce con cura queste opere a cui, nel tempo, se ne sono aggiunte delle altre, non solo provenienti dal Nord Africa e dal Vicino Oriente, ma anche dall’Asia centrale e dall’Estremo Oriente. Lo studio delle lingue legato alla ricerca filologica e contenutistica delle antichità cristiane prosegue negli studi storici e filologici dei testi appartenenti ad altre tradizioni religiose ben oltre il bacino del Mediterraneo. Così dalla Cina, dal Giappone sono giunte delle opere interessanti e una notevole documentazione utile all’attività di ricerca dell’Accademia Ambrosiana, parte questa, con le più conosciute Biblioteca e Pinacoteca, della realtà culturale e artistica della Veneranda Biblioteca Ambrosiana. La neonata Classe di Studi Africani, che studia questo manoscritto come altri in lingua araba, copta, etiopica, armena e anche berbera, si inserisce in un quadro di lavoro di ricerca filologica con la precisa ambizione di voler approfondire lo studio storico e di attualità del mondo culturale mediorientale e africano, prendendo in esame le aree nord africane e coinvolgendo quelle sub-sahariane e oltre. Con lo spirito proprio del dialogo tra i popoli e le culture, si potranno promuovere dei lavori di ricerca interdisciplinari che coinvolgeranno le altre Classi di studio dell’Accademia, nello spirito proprio di Federico Borromeo che ha voluto creare questo luogo aprendolo alla comunicazione del sapere, oltre le frontiere geografiche, ideologiche e religiose. Non è retorico il ricordare che lo studio dei manoscritti appartenenti alla tradizione cristiana orientale, come a qualsiasi altra tradizione religiosa, è un vero e proprio contributo alla preservazione e valorizzazione di un patrimonio dell’umanità. La sua custodia e la sua preservazione è un nostro compito fondamentale, in quanto studiosi, soprattutto in quanto estimatori del loro inestimabile valore culturale, scientifico e religioso.

SAN TRIFONE. VITA E CULTO

 

La vita di San Trifone

Sono tanti gli storici che si sono cimentati nella narrazione della Sua vita che, benché atrocemente martirizzata, è stata sempre in odore di santità. Fra i molti che hanno scritto su San TRIFONE (Cardinale, Baronio, Ottavio, Gaetano, Teodorico, Ruinari, Mazzocchi), ho scelto di trarre informazioni da un libro edito nel 1995 ed intitolato: “La storia di San TRIFONE“, scritta da Mons. Luigi Stangarone di Adelfia (Ba), valente ed attendibile storico dello stesso paese che presentò la sua opera in occasione della Festa Patronale dello stesso anno (1995). Altre informazioni sono state tratte dal libretto “San Trifone e la Sua Cattedrale” di Don Anton Belan da Cattaro.

SAN TRIFONE nacque nel 232 circa in Pirgia nella città di Kampsada (oggi Iznir) nei pressi di Nicea (Lampsakos), provincia romana di Apamea. La regione si trovava sotto dominio romano dal 116 AD., in quel periodo Roma possedeva gran parte dell’Asia Minore. Kampsada era già un vescovado nel quarto secolo e l’attività svolta dagli abitanti era prevalentemente dedita all’agricoltura. 

Oggi sono pochi i resti di Kampsada.
La vita di San Trifone si svolse sotto il papato di San Ponziano (230-235), Sant’Antero (235-236) e San Fabiano (236-250). Uno dei primi vescovi di Kampsada fu Partenio (quarto secolo), proclamato santo.
Un manoscritto Armeno riferisce che i genitori di Trifone erano Cristiani e diedero al loro bambino il nome diTriph, che nella radice etimologica significa “animo nobile”. In latino e in greco divenne successivamenteTryphon e nel diciassettesimo secolo l’arcivescovo Croato Andrija Zmajevic diede il nome slavo Tripun. Il padre di Trifone morì quando era bambino e l’intera attenzione per la sua educazione Cristiana fu curata dalla madre Eukaria. Nel Dicembre del 249 sino alla fine del 250 l’Imperatore Romano Decio emanò un decreto autorizzando la persecuzione dei Cattolici. Fu il settimo dai tempi di Nerone ed il primo che investì l’intero Impero Romano. Fu allora che Trifone, ancora giovane, fu martirizzato. Si racconta che per fuggire alla persecuzione i Cristiani, sia ragazzi che adulti, furono costretti a fare un’offerta di fronte alla statua dell’imperatore, spesso granelli di incenso.
Alcuni culti pagani furono vietati, ma il rifiuto di eseguirli portava al sequestro di tutti i possessi, all’arresto, ai lavori forzati, alle torture sino alla morte. Durante la gestione di Aquilino, prefetto di tutta l’Asia Minore, San Trifone fu preso dal suo luogo di nascita. Alla domanda “che cosa sei?”, Trifone rispose di essere “un Cristiano”. Dopo tre giorni di tortura che dovevano costringerlo a fare la sua offerta agli dei, Trifone fu decapitato. Il suo corpo fu inviato al suo luogo della nascita Kampsada, quindi portato a Costantinopoli e da lì a Cattaro.
Probabilmente il 2 febbraio è la data indicata del suo martirio, anche se pare che nei Calendari Napoletani marmorei, nei sinaxari di Costantinopoli, nei calendari russi e in qualcuno greco pre-datano il giorno del martirio di San Trifone al 1 Febbraio. Nel IX secolo il famoso martirologio benedettino dei martiri (Usuardi Martyrologium) e nel calendario di Cattaro, postdatano il martirio al 3 febbraio. Nel 1582 il Calendario Giuliano fu sostituito da quello Gregoriano, Papa Clemente VIII in un decreto del 17 settembre 1594 fissa il 3 febbraio giorno per la commemorazione di San Trifone nel vescovado di Cattaro. Oggi in Cattaro la commemorazione liturgica di San Trifone avviene anche il 10 novembre, mentre il 13 gennaio viene celebrato il trasferimento delle sue reliquie.
Il 10 novembre sarebbe invece il giorno della traslazione del suo corpo a Roma, ove fu deposto in una chiesetta a lui dedicata in Campo Marzio, nel sec. IX. Quella chiesetta, sede di parrocchia, fu designata come «stazione» del primo sabato di quaresima, indicazione tuttora riportata nei calendari liturgici della Chiesa romana. La chiesa di San TRIFONE in Campo Marzio fu distrutta nel sec. XVIII per allargare il convento degli Agostiniani annesso alla grandiosa chiesa di Sant’ Agostino, ove furono trasportati tutte le reliquie ed oggetti sacri prima esistenti nella chiesa di San TRIFONE. A Cerignola vi sono alcune reliquie di San TRIFONE, trasportate nel 1917. Le reliquie del nostro Patrono sono quelle conservate e venerate a Cattaro, in Dalmazia. Stavano per essere portate a Venezia, ma per una tempesta furono bloccate nell’809 a Cattaro e, in onore del Santo proclamato Patrono, venne in seguito eretta la Cattedrale. San Trifone, protettore di Cattaro, secondo alcune tradizioni è un santo giovinetto che compiva miracoli.

San Trifone in arte

Le vicende da cui Carpaccio trae ispirazione avvengono in Frigia, dove il giovane Trifone: guarisce un fanciullo morso da un serpente, un mercante caduto e calpestato da un cavallo che si rialza indenne, rende mansueto un cinghiale inferocito, viene soprattutto ricordato per la liberazione di una fanciulla indemoniata. L’imperatore Giordano chiama Trifone per far liberare dal diavolo la bella e intelligente figlia Giordana. Appena il giovane si avvicina alla principessa, il demonio la lascia e scappa tra grida rabbiose. L’imperatore chiede di poter vedere la bestia e Trifone lo accontenta.

La tela mostra un episodio dedicato a San Trifone, ovvero al suo miracolo più famoso, legato alla guarigione di Gordiana, figlia dell’imperatore Gordiano III, quando il santo aveva dodici anni. Essa era ossessionata da un demonio, che compare in forma di basilisco, un mostro fantastico con corpo leonino, ali di uccello, coda di rettile e testa asinina. La rappresentazione del demonio come basilisco, che non ha altri riferimenti iconografici nelle storie di Trifone, è legata all’identificazione del basilisco come “re dei serpenti” e quindi simbolo di Satana, ma anche alla simbologia dei peccati capitali: il drago (che compare nelle storie di san Giorgio), il leone (che compare in quelle di san Girolamo) e il basilisco, appunto. L’azione si svolge in una sorta di padiglione reale, retto da colonne e sollevato di alcuni gradini, dove il sovrano assiste impassibile al miracolo, a fianco della figlia, la cui fisionomia ricorda le Madonne dalla boccuccia stretta di Perugino. Sono citazioni all’antica i profili sulle specchiature marmoree della decorazione del fianco dell’edificio in primo piano. Assiste alla scena una variegata folla, ma ancor più brulicante, come tipico nelle opere di Carpaccio, è l’umanità in secondo piano, affacciata alle finestre e ai balconi delle architetture della città di sfondo, che ricorda da vicino Venezia, soprattutto nei ponti arcuati che passano i canali. In lontananza si vedono un edificio a pianta circolare e un alto campanile.

 

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Vittore Carpaccio, San Trifone ammansisce il basilisco,1507,Scuola di San Giorgio dei Schiavoni, Venezia

In nome di Dio, Trifone comanda alla bestia di mostrarsi e questa appare sotto forma di “un cane nero con occhi del fuoco” sostenendo che il suo compito è quello di impossessarsi di coloro che non conoscono la religione Cristiana, perché si sottomettono più facilmente al volere del demonio. Sentendo questo, l’imperatore decide di convertirsi.

 

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San Trifone in un mosaico di Monreale

 

Erano anni di relativa pace per i cristiani finché sul trono di Roma salì nel 249 il crudelissimo Traiano Decio che riprese la lotta sanguinosa contro i cristiani emanando severissimi decreti: lo zelo apostolico di S. Trifone, la sua illuminata predicazione incontrarono l’opposizione dei persecutori così, quando al Prefetto di Oriente, Aquilino, giunse notizia che S. Trifone disprezzava gli editti imperiali esortando i cristiani alla fedeltà in Cristo sino alla morte, fu arrestato e portato in Nicea: “Caricato di catene, come un malfattore, dopo inauditi maltrattamenti inflitti durante il viaggio” affrontò il Prefetto con indicibile serenità, rifiutando di rinnegare Cristo ben sapendo i tormenti a cui andava incontro: lo legarono ad un palo e gli strapparono la carne con pettini di ferro; Trifone non parlava nonostante Aquilino quasi lo supplicasse l’abiura: “quasi ignudo, legato come un assassino, spinto per le vie sassose e ghiacciate… fu legato alla coda di due cavalli e così, sbattuto, tutto lacero e pesto, lasciando tra le spine e i sassi brandelli della sua virginia carne… il Prefetto ordinò che gli si perforassero i piedi con due acutissimi chiodi e così, ignudo lo menassero per le vie di Nicea battendolo senza alcuna misura”; gli bruciarono i fianchi, fu battuto aspramente e, dopo aver visto morire fra i tormenti il giovane Respicio che gli si era avvicinato, dopo un’ultima giornata di sofferenze incredibili, fu affidato al carnefice che tagliò con la spada il suo corpo “biondo e ricciuto”.

 

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Per volere dello stesso Santo le sue spoglie, prima sepolte in Nicea, furono trasferite a Kampsade il 5 maggio del 254, dopo la morte di Decio; quando la fede delle colonie orientali cominciò ad incrinarsi, fu disposta la traslazione del corpo a Roma: “le reliquie furono deposte con quelle della vergine e martire Ninfa e di Respicio in un’urna sotto l’altare maggiore della chiesa dell’Ospedale di S. Spirito“.

 

 

 

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processione con il quadro di San Trifone, Adelfia 

 

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Il Culto di San Trifone a Cerignola (Fg)

(tratto da http://www.parrocchiasantrifone.it/index.php/san-trifone-martire/culto)

Nell’anno 1595, e seguenti, tutta la Puglia sentiva il flagello dei bruchi: in tale circostanza capitò nel nostro territorio(di Cerignola) un venerando prete greco “religioso dell’Ordine di S. Basilio”, che incitò il Clero e il Popolo a ricorrere devotamente a S. Trifone: egli stesso, percorrendo le campagne, invocando il Santo allontanava e distruggeva le locuste cosicchè tutti riconobbero la validissima protezione del giovane martire e unanimamente lo acclamarono e benedissero quale speciale Patrono e Protettore di Cerignola. L’Arciprete del tempo, D. Giovanni Giacomo De Martinis, dedicò al Santo la cappella, che si trova dietro l’attuale sacrestia del Reverendissimo Capitolo Cattedrale (La Cappella successivamente dedicata a S. Rita da Cascia, si trova nella ex Chiesa Madre ed è la prima sulla parete di destra della navata maggiore), collocandovi un quadro con l’immagine dello stesso che in mezzo ai campi, con l’aspersorio in mano benedice i terreni scacciandone l’infausto flagello: per accrescere la devozione del popolo, finchè visse, celebrò sull’altare, ivi eretto, la Santa Messa.

 

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Ma il tempo e l’amara ingratitudine cercano di oscurare questo insigne favore del Cielo, quando un vescovo pio, Mons. Giovanni Sodo, si accorge che questa popolazione comincia a perdere il ricordo delle sante memorie e per richiamare i fedeli alle tradizioni religiose degli avi pensa di rimettere in onore il culto del Martire glorioso, di ridare a Cerignola il Patrono dei suoi campi.

 

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Da Roma, per eccezionale e benigna concessione del Santo Padre Benedetto XV, ed in seguito a non facili pratiche dal Nostro amato Pastore felicemente esperite, le preziose Reliquie del corpo di S. Trifone furono trasferite nella nostra Cattedrale il 16 maggio 1917. Fu proprio Mons. Sodo che commissionò la statua del giovane martire: la stessa, in cartone romano, veniva portata solennemente in processione almeno fino agli anni trenta. Nella Cattedrale Tonti durante il Triduo e la festa la statua era collocata alla destra dell’Altare maggiore: per l’occasione venivano distribuiti il “pane di S. Trifone” e una candelina. Due anni dopo, sotto il ministero pastorale dello stesso Mons. Sodo, la nobildonna Clementina De Nittis Gatti donò una artistica e pregevole urna di bronzo e cristallo, nella quale furono esposte le sacre reliquie del Martire: sulla fascia basale corre la seguente iscrizione “CORPUS S. TRJPHONIS M(ARTYRIS) PATR(ONI) CERIN(IOLENSIS) ET SOC(II) CAPSULAM HANC AERE SUO FECIT D(OMI)NA CLEMENTINA GATTI DE NITTIS ANNO MCMXIX – AUSPICE IOANNE SODO EPISCOPO”  (Per il corpo di San Trifone Martire, Patrono consociato di Cerignola, donna Clementina Gatti – De Nittis fece preparare a proprie spese questa urna nell’anno 1919 con l’approvazione del Vescovo Giovanni Sodo). La predetta urna è stata trasferita, nel 1934, sotto l’Altare della Confessione del medesimo Duomo Tonti, dove tutt’ora è collocata.

A spese dell’Università, nel primo giorno di febbraio, si solennizzava ne’ tempi andati un festeggiamento assai devoto e solenne, che ora è andato in disuso, in onore del glorioso Martire S. Trifon, Protettore minore della Città, ma patrono principale delle campagne, sotto il cui patrocinio stanno i nostri campi. Nel giorno festivo enunciato, i Decurioni con il Sindaco intervenivano nella Cattedrale, ed accoppiavano agli effetti religiosi del cuore una oblazione di moltissimi ceri al Reverendissimo Capitolo.

Ed il 1° febbraio è rimasto per tradizione, da quel lontano 1595 a tutt’oggi, il giorno dedicato alla celebrazione della Festa del nostro Protettore S. Trifone. Attesta la devozione al Santo anche la presenza di una Sua effige impressa insieme a quelle dei Compatroni S. Pietro Ap. e Maria SS.ma di Ripalta, e a quella del SS. Crocifisso sulla campana grande del Duomo Tonti.

Con decreto vescovile del 23 novembre 1980, Mons. Mario Di Lieto istituiva la Parrocchia, nel nuovo quartiere residenziale “Fornaci”, intitolata a S. Trifone Martire. La stessa, affidata alle cure dei PP. Salesiani e senza una sede stabile, dal settembre del 1987 fu retta da Don Tommaso Dente che provvide a dotarla di una Cappella, inaugurata la prima domenica di Avvento di quell’anno anche se le celebrazioni sacramentali continuavano nella Chiesa di Cristo Re. Dal 21 febbraio 1988 Don Domenico Carbone ne fu l’animatore pastorale divenendone Parroco nel maggio del 1989. Nel gennaio del 1991 lo stesso chiese ed ottenne dal Parroco dell’antica Chiesa di Cristo Re la statua del Santo: l’8 dicembre 1991 è stata ufficialmente inaugurata da Mons. Giovanni Battista Pichierri, nostro vescovo, la nuova sede, in un prefabbricato dello stesso rione.

Nei pressi del prefabbricato sorse il cantiere per la costruzione della nuova chiesa, realizzata tra il 1993 ed il 1996. Nella stessa chiesa, fin dal febbraio 1995, è stata ripristinata, dopo circa sessant’anni, la processione in onore del titolare parrocchiale, che registra un’ampia partecipazione di fedeli.  Terminata la costruzione della nuova struttura, il 7 giugno 1997 il vescovo Picherri, durante una solenne concelebrazione eucaristica, con i sacerdoti della diocesi, presenti le autorità civili e moltissimi fedeli, celebrò il rito della dedicazione della nuova chiesa parrocchiale intitolandola a San Trifone Martire. La nuova struttura, il 29 maggio 1999, con autorizzazione del Capitolo Cattedrale, ha accolto festosa alcune delle reliquie del santo, martire della Frigia.

 

Trifone Cellamaro

bibliotecario presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana

LA CHIESA DI SAN SEPOLCRO, Milano

 

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LA CHIESA DI SAN SEPOLCRO sorge su due livelli -uno sotterraneo e uno esterno- nella omonima piazza a Milano, non distante da piazza Duomo e sull’area di quello che fu il Foro di Milano in epoca romana.

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È santuario della parrocchia di San Satiro dell’arcidiocesi di Milano.La chiesa venne fondata come privata nel 1030 con il titolo di Santissima Trinità, dal Magister Monetæ Benedetto Ronzone o Rozone, Maestro della Zecca, e costruita su un terreno della famiglia dello stesso nei pressi della sua abitazione.Il 15 luglio 1100, in piena epoca di Crociate, l’arcivescovo di Milano Anselmo da Bovisio nel giorno delle celebrazioni del primo anniversario della spedizione crociata lombarda che nel 1099 prese Gerusalemme e alla vigilia della seconda spedizione del 1100, ridedica la chiesa della Santissima Trinità al San Sepolcro di Gerusalemme, proprio per via dell’importanza assunta in quegli anni dai luoghi Santi (lo stesso Anselmo parteciperà e morirà nella Crociata del 1101). La chiesa viene pesantemente rimaneggiata al fine di conferirle le forme del Santo Sepolcro di Gerusalemme.I rimaneggiamenti sono d’altronde tantissimi nel corso dei secoli, a partire dall’aggiunta dei due campanili nel corso del XII secolo.La chiesa di San Sepolcro fu eletta nel 1578 da Carlo Borromeo a sede principale della congregazione degli Oblati dei Santi Ambrogio e Carlo da egli stesso fondata; lo stesso Borromeo istituì la cerimonia del Santo Chiodo che, annualmente, si snoda dal Duomo a San Sepolcro.Nel 1605 Federico Borromeo chiamò l’architetto Aurelio Trezzi a trasformarne l’interno alla maniera barocca e fece erigere al fianco e nel retro della chiesa la Biblioteca Ambrosiana.La chiesa fu poi ulteriormente modificata e restaurata tra il 1713 e il 1719.La facciata attuale, è frutto di una ricostruzione degli anni 1894 – 1897 ad opera di Gaetano Moretti e Cesare Nava, in stile romanico lombardo, in linea col gusto anacronistico di quei tempi. In tale occasione i due campanili vennero resi gemelli, e l’affresco del Bramantino che era collocato sopra il portale venne staccato e trasferito all’interno della chiesa.L’interno è rimasto fino ai giorni nostri in stile barocco. L’atrio è attribuito a Francesco Maria Richino e chiuso da due cappelle decorate dagli affreschi di Carlo Bellosio San Carlo al Sepolcro e San Filippo Neri presentato a San Carlo. Nelle due cappelle a lato dell’altare due pregevoli gruppi scultorei in terracotta con una bella Ultima Cena a sinistra e un trittico sulla Morte di Cristo a destra attribuiti a Agostino De Fondulis. Posto davanti all’abside un sarcofago opera forse di maestri della prima parte del XIV secolo e che doveva contenere alcune reliquie di Terrasanta ivi portate dai crociati lombardi (terra di Gerusalemme e alcuni capelli di Maria Maddalena).Nel 1928 la chiesa fu acquistata dalla Biblioteca Ambrosiana e cessò così il suo status di parrocchia.

 

nelle immagini: l’altare maggiore e le statue in terracotta

INVITO AL MUSEO – Casa Museo Lodovico Pogliaghi

 

La vita e le opere di Lodovico Pogliaghi

 

Pogliaghi

Lodovico Pogliaghi (Milano 1857 – Varese 1950) nacque nel gennaio 1857 a Milano dall’ingegnere ferroviario Giuseppe Pogliaghi e da Luigia Merli, entrambi appartenenti a ricche e distinte famiglie borghesi milanesi. Frequentò il Liceo Parini di Milano per poi iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove fu suo professore Giuseppe Bertini (Milano 1825 – Milano 1898).

 

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Fantasia, facilità di esecuzione, ordine e profonda dedizione caratterizzano l’opera del pittore, scultore, architetto e scenografo Pogliaghi. Ai dipinti giovanili a carattere religioso e storico – nonché al restauro e alla decorazione di nobili dimore – affiancò presto la produzione scultorea, ambito che più gli riuscì congeniale. Si applicò con grande finezza ed eleganza anche alla grafica, alla glittica, all’oreficeria e all’arte vetraria. Fu insegnante d’ornato a Brera dal 1891 e fece parte dei più importanti consessi artistici.

La sua prima commissione di rilievo fu il dipinto raffigurante la Madonna fra Santi (1878) per la chiesa parrocchiale di Solzago (CO), cui seguì la Natività della Vergine per la chiesa di San Donnino a Como nel 1885. Nel 1886 iniziò un nuovo progetto artistico che vide la pubblicazione delle Illustrazioni per la Storia d’Italiaedite dalla Casa Treves di Milano. Negli stessi anni cominciò un tirocinio sotto la direzione di Giuseppe Bertini, durante il quale collaborò all’arredamento del Museo Poldi Pezzoli e alla decorazione di Palazzo Turati a Milano.

Delle sue opere di decorazione occorre citare le pitture compiute nel salone centrale del Castello del Valentino a Torino, i cartoni per i mosaici delle lunette del Famedio milanese (1887) e della cappella mortuaria di Giuseppe Verdi e i complessi lavori eseguiti nella Cappella Cybo del Duomo di Genova. Scultore particolarmente prolifico, a lui si debbono il sepolcro di Quintino Sella a Oropa (1892), il Crocifisso per l’altar maggiore del Duomo di Milano (1926), il gruppo colossale della Concordia nel monumento a Vittorio Emanuele II a Roma, il tabernacolo di bronzo nella Basilica di San Vittore a Varese (1929), la tomba di Camillo e Arrigo Boito a Milano (1927), il sepolcro di Ludovico Antonio Muratori a Modena (1930), le porte del tabernacolo, un Crocifisso in argento e sei statue di bronzo per l’altar maggiore del Duomo di Pisa.

 

 

Tabernacolo San Vittore

Tabernacolo San Vittore

 

La sua opera più famosa è di certo la porta centrale del Duomo di Milano, alla quale lavorò alacremente dal 1894 al 1908 dalla sua casa al Sacro Monte di Varese, dove si conserva ancora il gesso originale.

 

 

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Porta Duomo di Milano

Porta Duomo di Milano

 

Lavoratore instancabile, univa una facile ispirazione a una eccezionale preparazione tecnica e culturale, una volontà tenace a una resistenza formidabile, una scrupolosa acutezza di esecuzione a un’estrema rapidità di creazione. Il suo percorso artistico è stato permeato da un’intransigente fedeltà alla tradizione e da una rigida disciplina accademica. Dibattuto tra gli ultimi aneliti del tardo Romanticismo e qualche timida apertura alla sensualità Liberty, Pogliaghi resterà sostanzialmente escluso dai movimenti rivoluzionari e dalle avanguardie che tra fine Ottocento e la metà del Novecento cambiarono completamente il volto dell’arte europea. Egli fu artista nel senso rinascimentale del termine, dedito com’era al costante affinamento virtuosistico delle sue abilità tecniche ed espressive.

Alla sua produzione artistica affiancò un’intensa ed eclettica attività collezionistica. La sua passione per antichità e bizarrerie lo portò a rendere la sua abitazione al Sacro Monte di Varese uno splendido scrigno di tesori, una preziosa Wunderkammer tardo ottocentesca. Qui si spense all’età di 93 anni, ancora nel pieno della sua attività artistica e collezionistica.

 

La Casa Museo

Lavorando al restauro delle cappelle del Sacro Monte di Varese, Pogliaghi rimase stregato – come molti prima di lui – dalla tranquillità e dalla bellezza di questi luoghi. A partire dal 1885 decise di acquistare vari terreni attigui sui quali iniziò a costruire la villa alla quale lavorò quotidianamente e alacremente fino alla morte, sopraggiunta nel 1950. Concepì l’abitazione come un laboratorio-museo dedicato al ritiro, allo studio e all’esposizione del frutto della sua passione collezionistica. L’edificio, progettato dallo stesso Pogliaghi, riflette il gusto ecclettico dell’epoca e l’interesse del proprietario verso tutte le forme d’arte, con sale ispirate ai diversi stili architettonici e un giardino all’italiana costellato di antichità e oggetti curiosi.

 

Casa Museo Pogliaghi-ingresso

Casa Museo Pogliaghi-ingresso

La villa, donata da Pogliaghi alla Santa Sede nel 1937 e oggi di proprietà della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, è stata aperta come museo dal 1974 e sino agli anni ‘90 del Novecento e ha riaperto al pubblico nel maggio del 2014.

 

Ingresso Giardino Museo

Ingresso Giardino Museo

 

L’allestimento, progettato per la nuova apertura, propone di avvicinarsi il più possibile all’allestimento degli anni ’50 del Novecento, conservando l’originale e personalissima disposizione degli arredi e delle opere dello stesso Pogliaghi.

 

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IL PERCORSO ESPOSITIVO

 

 

 

 

 

Sala della Madonna

La sala d’ingresso della casa museo è detta Sala della Madonna o Sala delle Collezioni per via dell’intenzione di Pogliaghi di esporvi i pezzi più preziosi e rappresentativi della sua collezione. L’allestimento, la scelta dei pezzi, la decorazione pittorica e le stesse vetrine sono state concepite e realizzate da Pogliaghi stesso.

La selezione degli oggetti esposti può essere considerata una sorta di campionario non solo delle passioni collezionistiche dell’eclettico artista, ma anche della storia dell’arte e dell’archeologia in generale. Sono infatti presentate opere dei più diversi materiali (terracotta, oro, argento, avorio, porcellana, carta, tessuto prezioso…) e provenienti dai più diversificati contesti storici, artistici e geografici. Tra i pezzi più significativi si segnalano un Cristo in croce dello scultore fiammingo Giambologna, una Madonna col bambino tedesca in legno policromo datata all’inizio del Cinquecento, vetri delle manifatture medicee e veneziane, statue e oggetti votivi orientali.

Sala del Telamone

Questa piccola stanza che congiunge l’ingresso con la Biblioteca di Lodovico Pogliaghi è anch’essa caratterizzata dall’eclettismo e dalla grande eterogeneità dei materiali esposti: un forziere settecentesco, una Madonna lignea umbra di XIV secolo e un telamone padano di XII secolo.

Biblioteca

Originariamente contente preziosi incunaboli, pergamene, autografi e cinquecentine, oggi la biblioteca di Lodovico Pogliaghi è stata trasferita presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano – ente proprietario della casa museo e della collezione – che ne garantisce la corretta conservazione e accessibilità. La rimozione delle scaffalature, scomparse già dalla prima apertura al pubblico, ha permesso di dare maggiore visibilità alla decorazione progettata e realizzata dallo stesso Pogliaghi. Benché i lavori siano rimasti incompiuti, è chiaro l’intento di rendere l’atmosfera di uno studiolo rinascimentale toscano. La stanza è oggi utilizzata per esporre una parte della produzione di medaglie e placchette commemorative di Pogliaghi. Noto e apprezzato incisore, Pogliaghi ha difatti lavorato a moltissimi soggetti richiesti dalle più diversificate committenze.

La biblioteca ospita inoltre un prezioso tavolo intarsiato d’avorio, uno splendido bozzetto in terracotta dellaSanta Bibiana (1624-1626) di Gian Lorenzo Bernini e alcuni degli oli su tavola della sua collezione, tra cui unaMadonna del latte (XVI secolo) del piemontese Defendente Ferrari.

Sala Rossa

La Sala Rossa o Salone prende il nome dagli splendidi damaschi settecenteschi cremisi che Pogliaghi utilizza come tappezzeria e alla cui sommità colloca un fregio decorativo da lui realizzato con putti alati, dall’effetto fortemente tridimensionale, che reggono ghirlande e tondi figurati. Sempre settecentesche sono le preziose specchiere e i lampadari in vetro di Murano, esemplificativi della grande passione di Pogliaghi per i vetri antichi. Domina la sala un grande vaso cinese tardo Ming incorniciato e sorretto dalla montatura bronzea del Pogliaghi.

Dal Salone si accede al piacevolissimo balcone – dominato da una riproduzione del tripode realizzato dallo scultore per l’interno del mausoleo canoviano a Possagno – dal quale è possibile godere di un meraviglioso colpo d’occhio sulla vallata e i laghi. Ad incorniciare il balcone due vetrine di ceramiche e porcellane occidentali e orientali. Sono rappresentate molte manifatture italiane (Faenza, Lodi, Bassano del Grappa, Laveno) e straniere (Cina, Giappone, Meissen, Compagnia delle Indie). Spiccano infine alcune opere pittoriche, tra cui: una tavoletta con Cristo portacroce del pittore lombardo seicentesco Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, una tela con un Nano deforme da Pogliaghi attribuito (erroneamente) a Caravaggio e una Madonna con bambino attualmente considerata di Giambattista Tiepolo.

Galleria dorata

Dopo aver attraversato un piccolo ambiente di congiunzione decorato da Pogliaghi con tessuti antichi e pietre lavorate, si accede alla Galleria dorata che si configura come una sorta di modellino in scala 1:4 di un’importante commissione che Pogliaghi ricevette da oltre i confini nazionali. Si tratta infatti di un progetto in gesso, stucco dorato e specchi del bagno per la reggia del terz’ultimo Scià di Persia da realizzarsi in oro zecchino in dimensioni quattro volte maggiori. Lo Scià per ringraziare Pogliaghi del progetto gli regalò le caleidoscopiche lastre di alabastro che dominano la finestra della stanza e, probabilmente grazie alla sua intercessione, Pogliaghi riuscì ad acquisire nella sua collezione i sue rari sarcofagi egizi datati tra 900 e 700 a.C. che spiccano nell’ambiente. Da segnalare sono infine la Testa virile da Pogliaghi attribuita allo scultore rinascimentale Tullio Lombardo, ma forse riferibile alla statuaria romana del periodo aureliano, e il modelletto bronzeo del Giambologna per l’Ercole e Nesso della Loggia della Signoria a Firenze.

Atelier

Dalla Galleria dorata si accede direttamente al grande studio dell’artista, utilizzato da Pogliaghi e dai suoi aiuti per lavorare alle imponenti commissioni che hanno caratterizzato la sua attività. Qui sono riuniti modellini e riproduzioni eseguite da Pogliaghi stesso delle sue opere più importanti. In particolare si segnalano gli Angeliporta-cero eseguiti per l’altare maggiore della Chiesa Primiziale di Pisa, un bozzetto per la Pietà della Cappella espiatoria di Monza, i Profeti per la Basilica del Santo a Padova, il gruppo della Concordia per l’Altare della Patria di Roma e alcune imposte bronzee per la porta centrale della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Domina la sala la maggiore commissione ricevuta da Pogliaghi che lo assorbirà completamente tra 1894 e 1908: la porta centrale del Duomo di Milano. Incorniciato dalla splendida scalinata in marmo di Candoglia, il modello in gesso in scala 1:1 sorprende e affascina il visitatore con la sua prorompente e scenografica teatralità. Le formelle in gesso – dopo aver subito il processo di fusione a cera persa per ottenere l’opera finale in bronzo – sono state assemblate, rilavorate, incerate e in parte colorate dall’artista per ottenere una personale riproduzione dell’opera. Così come il Duomo milanese, la porta è dedicata alla Madonna e propone sul battente di sinistra i misteri dolorosi della storia di Maria e su quello di destra i misteri gaudiosi. I due battenti sono sormontati da elemento fisso nel quale spicca l’incoronazione della Madonna assunta in cielo da Cristo tra angeli e santi significativi per la città di Milano.

All’interno dell’ambiente compaiono anche delle opere della collazione dell’artista, in particolare si segnalano le due tele del pittore genovese Alessandro Magnasco, attivo tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, e due modellini di grandi scultori italiani dell’Ottocento e del Novecento: Giuseppe Grandi e Francesco Messina.

Esedra

All’interno di questo ambiente che si ispira chiaramente al Pantheon romano, Pogliaghi raduna gran parte della sua collezione antica, tra cui troviamo esempi di arte egizia, etrusca, greca, romana e rinascimentale. Molti pezzi sono modificati, ricomposti e assemblati da Pogliaghi in pastiche tipici del gusto eclettico ottocentesco.

All’interno delle vetrine raduna ceramiche e altri materiali archeologici di varia provenienza.

 

Le collezioni

Nell’arco di sessant’anni Pogliaghi raccolse nella sua abitazione al Sacro Monte di Varese una prestigiosa e consistente collezione di opere d’arte. Questa comprendente preziosi reperti archeologici egizi, etruschi e di epoca greco-romana (ceramica, sarcofagi, statuaria, glittica, vetri), pitture e sculture databili tra il Rinascimento e l’epoca barocca (tra cui pregiate statue lignee del XV e XVI secolo, un bozzetto di Bernini, due modellini del Giambologna e tele di Procaccini, Magnasco e Morazzone), una ricca collezione di tessuti antichi europei e asiatici (eccezionale la collezione di tappeti orientali), pregiati arredi storici, curiosità e oggetti bizzarri da tutto il mondo. Accanto alla sua collezione – allestita con gusto personale e ottocentesco tendente all’horror vacui – la villa conserva bozzetti, gessi, disegni e materiali di lavoro di Pogliaghi, tra cui gli splendidi gessi originali della porta maggiore del Duomo di Milano, recuperati dopo la fusione a cera persa e riassemblati e rilavorati dallo stesso Pogliaghi. Parte della collezione, con un allestimento museale, è visibile – su richiesta – negli ambienti, restaurati e nuovamente allestiti nel 2005, del Rustico della Casa Museo Lodovico Pogliaghi.

 

In totale la villa ospita più di 1500 opere tra dipinti, sculture e arti applicate e circa 580 oggetti archeologici.

 

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Entra nel Museo

 

 

 

 

Collegamenti esterni:

 

(studio a cura di Lucica Bianchi)

VIAGGIO TRA LE MERAVIGLIE DELL’AMBROSIANA

VENERANDA BIBLIOTECA AMBROSIANA DI MILANO

Breve percorso tra le sale e le opere.
Per un’idea delle meraviglie qui custodite.

È la prima collezione privata aperta al pubblico all’inizio del XVII secolo.
Sono opere uniche tra le più importanti dell’umanità: e fra esse:
Il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci
La canestra di frutta di Caravaggio
Il grande cartone della Scuola di Atene di Raffaello Dove si trova?
In Italia, a Milano, nel centro esatto della città, già stabilito dagli antichi romani sorge la Veneranda Biblioteca Ambrosiana. L’edifico, nei vari strati, va dall’epoca preromana alla ricostruzione del dopoguerra. Chi l’ha fondata?
Federico Borromeo (1564-1632), cardinale di Milano, cugino di san Carlo.
Il Cardinal Federigo, reso celeberrimo da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi, invia i suoi collaboratori in tutte le terre di antica tradizione (il medio e l’estremo Oriente), allora tanto importanti quanto sconosciute, a cercare le opere (codici, pergamene, pitture, oggetti) artistiche più rare e preziose da portare a Milano e da mettere a disposizione dell’Occidente.
Nel 1609, la sua collezione è tra le maggiori e più ricche d’Europa e la apre al pubblico, mostrando i suoi tesori.

https://www.youtube.com/watch?v=YxE2QpNx0fA