TALAMONA 7 novembre 2014 alla Casa Uboldi un importante centenario
MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA
Nel corso della storia la percezione del tempo è cambiata moltissimo. Agli albori della terra il tempo era scandito dalle ere geologiche e dunque cento anni non contavano nulla. Anche per molto tempo dopo la comparsa dell’uomo e per buona parte dell’età antica nell’arco di cento anni non succedeva molto. È stato in secoli più recenti che la storia ha cominciato a subire un’accelerazione sempre più inarrestabile al punto che si può dire che sono successe più cose negli ultimi cento che nell’arco di tutti i secoli precedenti messi insieme. Cento anni fa il mondo era in guerra ed era un mondo che oggi, che siamo qui a ricordare quell’evento (alla casa della cultura a partire dalle 20.45) ci appare come lontano. “è incredibile ritrovarsi qui dopo cento anni a ricordare la guerra” ha esordito Simona Duca, ex assessore alla cultura, ora volontaria presentatrice nonché curatrice di questa serata “ma come ci siamo arrivati a questa sera? A caso in corridoio parlando si è osservato che quest’anno cade il centenario della grande guerra e non è proprio possibile non organizzare qualcosa in proposito. Ma cosa? Si potrebbe coinvolgere il coro coi canti di guerra e gli alpini che, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, della guerra sono stati gli assoluti protagonisti? Detto, fatto, come gruppo della biblioteca ci siamo messi d’impegno per organizzare questa serata” una serata fatta di racconto accompagnato da una presentazione arricchita con le foto tratte dal sito del museo della guerra di Cividale del Friuli da brani tratti da film e documentari, da una piccola mostra allestita al piano terra e ovviamente dai canti del Coro Valtellina.
Prima guerra mondiale una introduzione
“Ci sono principalmente due immagini che mi vengono in mente pensando alla prima guerra mondiale” ha cominciato a raccontare Simona Duca “la prima è la classica scena dell’esame di terza media e del ragazzino che racconta la guerra come argomento a piacere e lo fa enumerando date e fatti in modo un po’ sommario. La seconda immagine è sempre scolastica ed è quella del profondo divario tra il racconto (principalmente appunto un catalogo di date e fatti) che viene fatto a scuola della guerra e i fatti così come realmente andarono. Parlando con gli alpini (a questo punto Simona Duca ha mostrato un raccoglitore di vecchi temi scolastici ndr) emerge ad esempio una sfumatura della guerra che a scuola non salta mai fuori. Negli anni passati è capitato che i reduci di guerra andassero nelle scuole e parlassero delle loro esperienze personali, offrendo testimonianze molto vivide nonostante fosse passato un po’ di tempo. Da queste testimonianze emergevano sostanzialmente quattro parole chiave: fame e sete (contano come una visto che vanno di pari passo ndr) pidocchi, freddo, morte. Tutto girava intorno a queste condizioni di indigenza, ben altra cosa rispetto alle lezioni nude e crude che lo scolaro deve mandare giu. In cento anni in racconto della guerra è mutato tantissimo. Tanti nomi diversi (Grande Guerra, Prima Guerra Mondiale solo perché poi c’è stata la seconda, quarta guerra d’indipendenza per gli Italiani che hanno poi annesso Trento e Trieste, Grande Guerra Patriottica per i russi che nel frattempo hanno organizzato una rivoluzione bolscevica contro l’impero zarista, guerra di posizione, di trincea, inutile strage, guerra fratricida secondo papa Benedetto XV) e tanti modi diversi di presentarla. Il nome più significativo però è Grande Guerra che racchiude appieno il suo significato di guerra totale, di ultima guerra antica e prima guerra moderna, che ha coinvolto non solo chi combatteva direttamente, ma anche i civili sui fronti interni. Ed ecco come questa sera siamo qui a cercare di mettere insieme le date con la vita vissuta, la grande storia con la piccola.
Talamona ai suoi prodi
È venuto ora il momento del primo intermezzo musicale offerto dal coro Valtellina prima di riprendere il nostro racconto partendo dalla fine, dai morti che la guerra si è lasciata indietro, in particolar modo quelli di Talamona, in quanto comunque Talamona è stato uno dei primi comuni a dedicare un monumento ai suoi caduti. “leggendo questi nomi si percepisce la guerra meno lontana” ha proseguito Simona Duca “infondo l’abbiamo vissuta anche noi in diretta da casa nostra”
Tutto ebbe inizio…
“Come cominciò tutto? Sembrerebbe che tutto parta da una scintilla in quel dei Balcani. Viene ucciso l’erede al trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando l’ultimo di una serie di omicidi eccellenti di regnanti da parte di anarchici che già da tempo facevano scalpore in Europa (Umberto I e la principessa Sissi tanto per citare i più noti) ed è la goccia che fa traboccare il vaso, l’inizio di una situazione che sfugge sempre di più al controllo in un clima dove la guerra già era nell’aria e la gente già si divideva in chi la temeva e in chi invece a tutti i costi la voleva. La storiografia oggi sta un po’ rivalutando questi fatti e tra le cause della prima guerra mondiale viene annoverata anche la guerra di Libia degli italiani. L’imperialismo che raggiunge il suo apice e si avvia al suo crollo.
Estate 1914
Siamo ancora alla mobilitazione degli eserciti a quando tutti credono di sapere con sicurezza i pronostici della guerra, chi è più forte e vincerà, quanto durerà, cioè pochissimo, tutti sono ottimisti circa l’esito che avrà la guerra per loro i giornali si riempiono di proclami idealistici e grondanti di retorica riguardo al valore della patria eccetera, eccetera insomma un sacco di bugie sulla necessità di una guerra giusta tanto per convincere la gente per spronare gli arruolamenti (che sono comunque obbligatori).
La ninna nanna di Trilussa
Ma c’è chi dopo solo un mese ha capito l’antifona ed è Trilussa, poeta satirico romano che scrive in dialetto e che in questa occasione ha scritto una ninna nanna che è stata in seguito musicata, cantata, proposta in vari spettacoli. Questa sera abbiamo ascoltato la versione di Gigi Proietti. In questa canzone compaiono spiritelli vari della tradizione popolare, comunemente chiamati in causa in simili circostanze, ma anche i protagonisti principali della Grande Guerra Guglielmone (cioè Guglielmo II il kaiser di Germania) e Cecco Beppe (cioè Francesco Giuseppe, imperatore austriaco con cui gli italiani hanno a che fare già dal lontano 1848 ai tempi delle cinque giornate di Milano e via via tutto il Risorgimento e le guerre di indipendenza) avversari in guerra anche se parenti (per la precisione cugini, entrambi nipoti di Vittoria d’Inghilterra, altra contendente in causa, poiché tutti i regnanti erano parenti in Europa, ma c’è voluta l’Unione Europea per sancire la pace della serie parenti serpenti all’ennesima potenza ndr). È l’impero d’Austria quello con cui l’Italia ha avuto maggiormente a che fare durante la guerra, un impero e un imperatore ormai molto vecchi, contro il quale è stata indetta quella che la propaganda chiamava guerra di civilizzazione (per dire che gli austriaci erano i barbari) che però di fatto è stata un massacro. Il fatto è che si tenta molto spesso di ridurre la storia a una lotta tra buoni e cattivi, ma poi si finisce sempre con lo scoprire che non è mai ben chiaro dove stanno gli uni e dove gli altri.
Regnanti guerrafondai popolo indignato
La decisione di entrare in guerra si è rivelata non scevra da conseguenze spiacevoli per i nostri regnanti europei. È capitato ad esempio che Vittorio Emanuele si sia visto recapitare lettere minatorie e molto offensive dalle madri degli arruolati costretti a partire. Tra gli sconvolgimenti della Grande Guerra c’è stato anche questo: esponenti del popolo che scrivono direttamente al re insultandolo e minacciandolo (anche se, a ben guardare, la storia non è poi così scevra di precedenti anche più gravi ndr).
La guerra, una questione di soldi
A fronte di chi ci ha rimesso la vita, per molti la Grande Guerra ha costituito un buisness da cui ha guadagnato (questo infondo è uno dei motivi per cui si sono sempre fatte e si continuano a fare le guerre ndr) tutti gli altri erano semplicemente carne da cannone, pedine sulla scacchiera degli intrallazzi del potere dei parenti serpenti che regnavano in Europa, che avevano costruito attraverso i secoli persino le loro stesse parentele solo per interesse politico. Dopo la Guerra gli imperi crolleranno, non ci sarà più motivo di scontro, i parenti serpenti si riappacificheranno e a raccogliere i cocci resterà il popolo. In Africa esiste un proverbio che descrive molto bene questa situazione quando due elefanti combattono, a soffrire è l’erba.
La guerra in Italia
Come dicevamo la guerra è stata raccontata in molti modi diversi. C’è chi ci ha persino scherzato su. I soldati dovevano pur trovare una piccola scappatoia per non lasciarsi sopraffare totalmente dalla disperazione in cui si sono trovati immersi. Due tenenti degli alpini con disegni e frasi hanno messo insieme un libro intitolato LA GUERRA E’BELLA MA SCOMODA che è uscito nel 1935 e che questa sera ha fatto bella mostra di sé nel vasto campionario offerto dalla biblioteca, scelto tra la vastissima letteratura di guerra che comprende diari, reportages e romanzi per tutte le età nonché studi storici a posteriori. Da questo campionario emerge come l’entrata in guerra venne accolta festosamente dalla popolazione nel cosiddetto maggio radioso (il 24 maggio 1915) parate, cortei, giornali dai titoli altisonanti, un entusiasmo da cui molti sono stati travolti, salvo poi ritrovarsi faccia a faccia con la vera realtà del fronte senza poi nemmeno sapere alla fine il motivo di tutto questo. L’Italia di allora era principalmente rurale, la gente viveva nelle campagne e non era a conoscenza dei grandi accadimenti, non aveva una prospettiva nazionale, ne tantomeno internazionale, pensavano solo a coltivare la terra e tutto cio che sapevano della chiamata alle armi era che avrebbe tolto braccia ai campi. Perdipiù gli italiani erano stati neutrali per un anno e dunque tutti questi proclami a difesa della nazione che venivano diffusi risultavano, alla luce di cio, ancor più strani.
Italia doppiogiochista
Bisogna a questo punto fare un passo indietro, riprendere la prospettiva internazionale. La mobilitazione degli eserciti in seguito all’attentato di Sarajevo vede la formazione di due schieramenti contrapposti. Da un lato la triplice intesa che vede alleati Francia, Russia e Inghilterra e dall’altro i cosiddetti imperi centrali tedesco e austriaco che formavano una triplice alleanza di cui avrebbe dovuto far parte anche l’Italia la quale però, al momento, si manteneva neutrale e anche quando poi si decise ad entrare in guerra fino all’ultimo non seppe da che parte stare. Si può tranquillamente dire che alla fine si vendette al miglior offerente. Fece trattati con entrambi gli schieramenti per capire cosa ci avrebbe guadagnato in caso di vittoria in termini di conquiste territoriali. Gli alleati che alla fine l’Italia si scelse furono quelli che fecero le offerte più ghiotte in sostanza (che poi non mantennero del tutto). Ed ecco come una volta stabiliti definitivamente i nemici, essi divennero barbari invasori da combattere con ogni mezzo con l’aiuto della popolazione contadina convinta a suon di lusinghe (quando in tempo di pace della sorte dei contadini a chi comandava non gliene importava nulla).
Guerra totale
Mai come in questo momento storico la guerra ha coinvolto davvero tutti persino quelli che restavano a casa. Solo parlando dei soldati solo 1 su 7 finiva direttamente in prima linea, tutti gli altri erano invece ausiliari (per esempio addetti al rancio e alle cucine). Per chi restava a casa tutto girava comunque intorno alla guerra: l’economia, la società, la cultura. Le donne diventavano i capifamiglia, dovevano occupare i posti di lavoro che gli uomini partendo avevano lasciato vuoti, i bambini giocavano a fare i soldati quando non dovevano lavorare anche loro oppure venivano arruolati per davvero in alcuni casi. Ognuno diventava come il meccanismo di un ingranaggio.
24 maggio 1915 a Bormio
Non dappertutto si registrava la stessa percezione della guerra o del fatto di esserci entrati. Ad esempio a Bormio successe che fu colui che portava la posta coi carri verso lo Stelvio ad accorgersi degli insoliti movimenti dei soldati austriaci che fecero capire che la guerra era in atto anche per noi.
Vita al fronte un primo accenno
Fin da subito il governo cerca di prodigarsi affinchè la vita al fronte risulti il più confortevole possibile per i nostri soldati. Ed ecco come a tal scopo vengono emanate tutta una serie di regole tra cui quella che dal 25 maggio non si venderanno più all’estero i pomodori perché verranno mandati ai soldati.
Intanto a casa…
Come si diceva prima la guerra e la propaganda di guerra coinvolse tutti indipendentemente dall’età e dallo status sociale. Persino le letture per bambini (come il CORRIERE DEI PICCOLI) vennero infarcite di inneggiamenti alla guerra, tra i libri più popolari c’era IL PICCOLO ALPINO (in realtà uscito dopo la guerra basato su testimonianze autentiche di ragazzini che si trovarono davvero al fronte un po’ per circostanza e un po’ perché erano stati spinti a sognare la guerra) e in ogni caso i bambini vennero impiegati come ausiliari nelle fabbriche insieme alle loro madri. In queste fabbriche, come sui campi di battaglia, vigeva un regime militare. Tutte le conquiste sindacali, a cominciare dal diritto di sciopero, vennero sospese, gli orari stabiliti in base alle emergenze e capitava persino che i ragazzini che si dimostravano indisciplinati in fabbrica venissero inviati al fronte (ma solo al di sopra di una certa età al di sotto invece si veniva multati).
La donna in guerra
Paradossalmente fu la guerra a dare ulteriore slancio alle lotte femminili per la parità. Le donne con la chiamata in guerra di padri mariti e fratelli si ritrovarono a far tutto da sole e per molte questa fu l’occasione in cui divenne chiaro una volta per tutte come non fosse poi così vero che le donne dovevano per forza essere sottomesse e dipendenti dagli uomini. Le donne si ritrovarono a occuparsi dei figli, dei campi e a lavorare nelle fabbriche. Troviamo delle donne anche tra le truppe ausiliarie dell’esercito. C’erano le lavandaie, le crocerossine, quelle che lavoravano nelle fabbriche di armi e munizioni le cosiddette madrine di guerra che corrispondevano con i soldati dando loro un non indifferente supporto psicologico (potevano essere fidanzate, madri, sorelle, ma anche no) e le prostitute. Ci furono anche quelle che combatterono effettivamente e che divisero praticamente in due gli alti comandi: da un lato i tradizionalisti scandalizzati e dall’altro quelli che vedevano la cosa dal lato pratico, più donne combattevano e morivano, più uomini si risparmiavano che potevano essere poi mandati al macello a loro volta e inoltre il rancio delle donne morte si poteva utilizzare per gli uomini ed era tutto di guadagnato. Uomini e donne con la guerra diventarono indifferentemente carne da cannone e forse questo fu l’aspetto meno nobile della raggiunta parità se non si considera il premio di consolazione, costituito dalle medaglie al valore, che entrambi i sessi poi ricevettero come ricompense per azioni eroiche (per tutti gli altri c’erano le medaglie coi santini che davano le madri prima della partenza). Azioni eroiche che per le donne potevano essere guidare le ambulanze sotto bombardamenti e scariche di proiettili oppure arrampicarsi su per le pendenze per portare i rifornimenti ai soldati dove nemmeno i muli arrivavano.
Una guerra da cani e non solo
Non furono soltanto gli umani ad essere impiegati in guerra, ma anche gli animali. I tradizionali cavalli che fin dalla notte dei tempi accompagnarono l’uomo nelle sue guerre e che qui vennero forse impiegati per l’ultima volta nella Storia. I piccioni viaggiatori che portavano messaggi o venivano dotati di apparecchi per effettuare dei rilevamenti dietro le linee nemiche. I cani che andavano a cercare i dispersi in azione, vivi o morti, che accompagnavano gli alpini come portaordini e quando erano di taglia grossa combattevano proprio. I muli che portavano i rifornimenti. Le mascotte dei vari reparti. Questi animali diventarono particolarmente fondamentali dopo la guerra, quando venne raccontata al cinema dal loro punto di vista nel tentativo di trarne dei racconti il più possibile edulcorati. Rin Tin Tin (che è esistito davvero, era un cucciolo raccolto da un soldato in Francia e portato in America dove esordì prima nei circhi e poi al cinema finendo per morire sul set di un film) Lassie, Furia cavallo del West. Attraverso le loro avventure la guerra entrò ad Hollywood per la prima volta. Ma ci furono anche animali che ricevettero medaglie e riconoscimenti come gli umani. Un cane di nome Garnian venne nominato penna nera dagli alpini dopo essere stato ferito a Masarè e raccolto dagli alpini.
Parlando di animali in guerra bisogna citare anche quelli che non furono dei buoni compagni utili per i nostri soldati, anzi tutt’altro. I pidocchi che ti infestavano dopo poche ore in trincea,le pulci, le zecche, i topi. Uno dei passatempi preferiti dei soldati era spidocchiarsi o mettere i vestiti a contatto con l’aria fredda per far morire i pidocchi i quali però a contatto con la pelle calda miracolosamente risorgevano. Furono proprio questi animali molesti i più vicini ai nostri soldati.
I giornali di guerra
La guerra è stata raccontata dalla carta stampata principalmente in due modi. Con il linguaggio della propaganda che non faceva capire la realtà delle cose e con il linguaggio della satira. Era il governo a scegliere i giornalisti che potevano scrivere di guerra e ne sceglieva pochi per poterli controllare. Era necessario che lo spirito patriottico e positivista che aveva animato tutti all’inizio non venisse meno ed era necessario che si continuasse a parlare della guerra in termini sensazionalistici per mantenere alto il morale di tutti. Dunque a questi giornalisti veniva imposto dall’alto cosa scrivere e come scriverlo. Esemplare la copertina de LA DOMENICA DEL CORRIERE che pochi mesi prima di Caporetto rappresenterà i soldati più vigorosi che mai pronti a respingere il nemico. Per quanto riguarda la satira erano gli stessi soldati lontani dalla prima linea che se ne occupavano puntando soprattutto sulle vignette visto l’analfabetismo diffuso. Le vignette erano soprattutto volte a schernire gli alti comandi che facevano la guerra a distanza con spavalderia, mandando avanti i soldati. Venivano indetti persino dei concorsi che richiedevano di rappresentare i momenti salienti della guerra. Questi dipinti dal punto di vista artistico sono notevoli, ma non raccontano la verità.
La partenza per il fronte
Ordunque raccontiamola noi ora questa verità sulla vita nelle trincee sui patimenti del fronte cominciando dal principio cioè dalla partenza. Per molti era la prima volta nella vita che lasciavano il loro paesello dove lavoravano come contadini. Le tracce di questi momenti dolorosi sono sopravvissute all’interno di diari e lettere. Solitudine, distacco, lasciare il mondo che si è sempre conosciuto per andare verso l’ignoto, magari senza nemmeno la speranza di tornare. In guerra si viene uccisi, si muore per le condizioni in cui ci si trova perché viene a mancare tutto, anche lontano dall’azione vera e propria i cecchini erano sempre in agguato. La parola cecchino venne coniata proprio in questa occasione. In origine significava soldato di Cecco Beppe (cioè Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria-Ungheria) e poi è entrato nel linguaggio comune per designare i cosiddetti tiratori scelti che sparano a distanza nelle azioni di polizia o che in guerra compiono agguati.
Vita di trincea
La vita di trincea è stata forse la vera svolta per l’unità d’Italia. In guerra tutti insieme si ritrovarono soldati che provenivano da diverse zone del Nostro Paese, ognuno si portava dietro il suo dialetto, ma tutti cercavano di parlare un po’ d’italiano per capirsi, per fare amicizia per farsi coraggio, per darsi una mano quando ad esempio i soldati analfabeti dovevano farsi aiutare da altri a mandare notizie a casa. Dal film UOMINI CONTRO di Francesco Rosi vediamo uno spaccato realistico di questi dialoghi, di questi momenti di cameratismo, particolarmente preziosi prima dei veri o presunti attacchi. Perché era l’attesa dell’attacco più che l’attacco stesso a mettere alla prova i nervi dei soldati, i quali infatti venivano tenuti su di morale con razioni di cognac e cioccolato, probabilmente perché solo dei soldati ubriachi avrebbero trovato il coraggio di attaccare effettivamente. L’attesa era tanto più snervante quanto più si svolgeva nel fango nel freddo, accanto ai cadaveri. Quelle che vennero inizialmente costruite come dei veri e propri fortini su tre linee non funzionavano in maniera così perfetta come voleva la teoria. I soldati lavoravano mattina e sera con impegno per costruirle quando non combattevano, ma di certo il terreno non aiutava. Dentro questi buchi, le cui strutture spesso non tenevano, era l’inferno, si viveva come uomini delle caverne oppure ci si lasciava vivere. Questi aspetti fanno capire come questa guerra sia stata in primo luogo una guerra psicologica certo non per tutti allo stesso modo. Gli alti comandi tutto questo logoramento praticamente non lo sentivano. Ma che cosa sapevano effettivamente della guerra gli alti comandi? Da alcune testimonianze dirette emerge che al corso bisognava imparare solo un po’ di tattica di base che non era nemmeno determinante ai fini della promozione. Se i comandi fossero stati lasciati ai gradi più bassi la faccenda sarebbe senz’altro stata risolta meglio e più in fretta. I soldati infatti imparavano tutto sul campo e la geografia dettagliata dei luoghi attraversati non la scordavano più. Il generale delle truppe italiane, Luigi Cadorna, aveva diffuso un libricino intitolato ATTACCO FRONTALE E ADDESTRAMENTO TATTICO. In pratica il comandamento di Cadorna con qualunque tempo e in qualunque circostanza era sempre quello di attaccare e chissenefrega se la gente moriva se il risultato era una strage per pochi metri che poi magari venivano persi subito dopo in eventuali contrattacchi successivi. Sempre attaccare a testa alta come dei veri uomini d’onore e non strisciando per terra come bestie. Cadorna era il vero nemico dei soldati italiani e non gli austriaci, i quali dal canto loro si rendevano conto delle inutili stragi e intimavano spesso durante gli attacchi ai soldati italiani di tornare indietro durante gli attacchi per non farsi ammazzare così inutilmente. Ma i soldati italiani non potevano tornare indietro, perché sarebbero stati puniti. I morti che non fece la guerra, che non fece il nemico (i cecchini che miravano a quelli che si sporgevano, a quelli che fumavano specie di notte, agli addetti al rancio e alle cucine in modo tale che così facendo si tagliavano i viveri a tutti), che non fecero le azioni militari (i nemici avevano la mitragliatrice che pare uccidesse ottomila uomini al minuto in media, mentre gli italiani avevano i fucili modello 1891 che si inceppavano), li fece la cosiddetta giustizia militare volta al mantenimento della disciplina. Si partiva da pene più lievi come turni extra di lavori o di guardia a chi non teneva pulita la trincea o non si preoccupasse di fare il modo che le fortificazioni reggessero (cosa che non dipendeva comunque dai soldati se non fino a un certo punto, ma più dipendeva dal terreno che non assorbiva la pioggia che in certi periodi cadeva copiosa così si formava il fango che intrappolava tutti gli odori) fino ad arrivare alle pene di morte per atti di vigliaccheria come potevano essere appunto quelli di chi tornava indietro, di chi cercava di scappare e farsi catturare come prigioniero, di chi si sparava per essere mandato all’ospedale lontano da dove si combatteva, chi si ribellava e diceva chiaro e tondo di non voler più combattere. C’era un sistema chiamato decimazione. Per ogni atto considerato di vigliaccheria o più in generale di indisciplina, se non si trovava il colpevole o i colpevoli, venivano estratti a sorte un soldato ogni dieci e tutti gli estratti fucilati. Capitava che con questo sistema finissero fucilati anche coloro i quali erano magari entrati in servizio quel giorno stesso ed era palese che non c’entrassero nulla con le accuse. Un soldato su ventiquattro ora della fine della guerra aveva avuto problemi col tribunale, uno su diciassette era stato ucciso col metodo della decimazione.
Alla fine giungeva anche il momento di fare la conta di tutti questi morti e i numeri fanno davvero spavento. Cifre a sei zeri tra morti feriti e mutilati. Curioso da questo punto di vista un aneddoto capitato ad Albert Swaizer premio Nobel per la pace negli anni Cinquanta nonché medico tedesco che durante gli anni della guerra si trovava a gestire un ospedale da lui aperto in Congo. Un giorno si trovò a parlare col figlio di un capotribù che stava curando. “Quanti ne sono morti in guerra?” chiese l’indigeno “dieci?” “si forse dieci” rispose il medico” “il tuo capotribù deve essere molto ricco per riuscire a risarcire le famiglie di dieci soldati” certo fa pensare che un cosiddetto selvaggio, il cui popolo non sarà stato certo immune dalla cosiddetta missione civilizzatrice dell’uomo bianco solo il secolo prima, si scandalizzi per il sacrificio di dieci uomini, mentre la cosiddetta civiltà europea si sia trovata senza batter ciglio un bilancio di morti a sei zeri senza contare quelli che sopravvivevano si fisicamente, ma erano segnati a vita dentro e quelli che si trovavano a subire le conseguenze di interventi di soccorso non idonei perché molto spesso i medici e le infermiere di guerra dovevano addestrarsi sul campo per capire le cure adeguate. I primi tempi ci si trovava gli ospedali pieni di uomini con ferite spaventose e l’amputazione era il metodo più praticato per cercare di salvare la vita dei soldati, che comunque morivano lo stesso per le condizioni igieniche precarie, per gli interventi condotti senza anestesia o con anestetici rudimentali. Molti di questi menomati fisici, ma soprattutto mentali vennero tenuti nascosti, spacciati per morti alle famiglie e rinchiusi in discutibili strutture, non certo per prendersi cura di loro. In guerra il mestiere più duro pare fosse proprio quello del barelliere perché si stava a contatto col dolore, coi lamenti, con tutta la reale crudeltà della guerra, coi cadaveri fatti a pezzi, coi soffocati dal gas. In guerra si moriva anche solo perché non si riusciva ad andare a recuperare sempre in tempo i feriti rimasti sul campo di battaglia o perché non tutti erano abituati all’ambiente di montagna e cadevano nei crepacci.
Le conseguenze sui civili
Gli attacchi e le azioni di guerra si ripercuotevano anche sulla popolazione. Dopo gli spari e i bombardamenti di interi villaggi e paesini non restavano che cumuli di macerie con relativi cumuli di cadaveri degli abitanti che tra le macerie restavano intrappolati.
Le armi della guerra
Dal punto di vista dell’invenzione e dell’introduzione di nuove armi questa guerra si può definire moderna. La regina degli armamenti è stata senz’altro la già citata mitragliatrice, ma poi c’erano i gas, le relative maschere antigas, fucili e baionette, bombe di vari tipi, i carri armati, lanciafiamme. Per il trasporto di tutti questi armamenti vennero utilizzati carri, treni, biciclette. Per la prima volta comparve l’aviazione militare che, sebbene ancora ai suoi primordi, contava già i suoi eroi primo fra tutti Francesco Baracca, eroe di Vittorio Veneto abbattuto dalla contraerea austriaca il cui aereo si distingueva per il simbolo di un cavallino rampante nero su fondo giallo che sarà poi adottato dalla scuderia di auto da corsa di Enzo Ferrari. Nonostante queste avanguardie sopravvivevano ancora retaggi di secoli precedenti come le armi bianche (mazze ferrate come quelle di epoca medievale) e persino armature, pinze, tagliole.
Lettere dal fronte
Con la guerra le persone scoprono la scrittura. Volantini, biglietti, vere e proprie lettere e diari privati. La scrittura è un vero e proprio mezzo di sopravvivenza o meglio un modo per continuare a sentirsi vivi, per continuare ad avere in qualche modo un legame con casa propria, con la dimensione dei propri affetti. Tra le punizioni disciplinari c’era il blocco della posta, tale era l’importanza fondamentale che questa aveva. Cadorna rischiò di essere ucciso con un atto di ribellione quando bloccò la posta che dunque venne immediatamente ripristinata. Nelle lettere i soldati parlavano di quello che vivevano, le loro emozioni e poi chiedevano notizie di coloro che avevano lasciato, della vita dei campi, di chi nasceva, di chi si sposava, dei propri cari, mandavano i saluti a genitori, fidanzate, mogli, figli, mandavano parole d’amore, mettendo in imbarazzo quelli che scrivevano e leggevano per conto degli analfabeti (i più imbarazzati erano ovviamente i cappellani militari). Quanto si scriveva dipendeva dai momenti. Le fasi di quiete permettevano lunghe divagazioni, mentre tra un attacco e l’altro necessitava essere sintetici. Le foto sulle cartoline rappresentavano i soldati in ordine con le divise ben curate pronti all’assalto oppure potevano essere cartoline pornografiche che i soldati tenevano per loro. I momenti di quiete erano rappresentati dalla visita del barbiere dai permessi di allontanamento durante i quali si sperava di incontrare qualche ragazza, il momento del rancio (con qualche concessione di veri e propri pranzi sotto le feste natalizie) la possibilità di lavarsi con la neve, momenti per prendere un po’ di sole, un po’ d’aria. In tempi normali cose come queste si vivono con noncuranza, si danno per scontate, ma in guerra quando puoi morire da un momento all’altro e nel frattempo languisci tra fango cadaveri, topi e tutto quello che si è detto prima, quando bisogna inerpicarsi su per pendii scoscesi con scarpe di cartone, la parola scontato non esiste. Le truppe avevano in dotazione anche delle radio, ma dovevano farle funzionare a pedali. Pedalando si otteneva l’energia elettrica necessaria a ricevere le trasmissioni radio, soprattutto canzoni. Esse sono forse la testimonianza più viva della guerra, perlomeno quelle non ufficiali, quelle non approvate dalla propaganda, quelle che chi le cantava poteva essere punito (perché prendevano in giro Cadorna e gli alti comandi), quelle che venivano dal cuore, alcune delle quali riprendevano vecchi canti di minatori. VOLA COLOMBA che vinse una delle prime edizioni di San Remo, nacque così. Inizialmente non si parlava di colombe, ma di rondini e i soldati rivolgevano in questo canto un pensiero alle fidanzate rimaste a casa. O’SULDATO INNAMORATO pure nacque nelle trincee prima di diventare un pezzo forte della musica napoletana. Per quanto riguarda le canzoni propagandistiche erano stereotipate e noiose. Non mancavano inoltre i canti di Natale durante le messe in cappelle improvvisate (altro momento prezioso nella vita di trincea) ed è proprio uno di questi canti che a questo punto della serata il Coro Valtellina ci ha fatto ascoltare.
La guerra bianca
Tra tutti i nomi dati a questa guerra, l’epiteto di bianca voleva sottolineare, almeno per quanto riguarda italiani e austriaci, il fatto di aver combattuto in alta montagna tra la neve e i ghiacciai dove spesso scavavano trincee chiamate città di ghiaccio più calde rispetto all’ambiente esterno e illuminate dalla neve che rifletteva bene la luce. Ma come ci si riparava in definitiva dal freddo? Bevendo alcoolici che però ghiacciavano soprattutto il vino e dovevano essere tenuti sotto le ascelle o tra le gambe una notte intera per farli sciogliere. Dovendo mettere gli alcoolici tutti insieme per farli sciogliere si formavano strani coktail alchè non si sapeva più effettivamente cosa si beveva.
La disfatta di Caporetto
In seguito a questa disfatta anzi già fin dall’arrivo a Caporetto qualcuno cominciò a gridare al tradimento. Tradimento di chi? Ovviamente gli alti comandi subito a dare la colpa ai soldati, senza considerare che il generalissimo Cadorna, durante i combattimenti di Caporetto, mentre la guerra infuriava più violenta che mai, aveva trovato il tempo e la spensieratezza di andarsene al cinema a Udine. Perdipiù i generali rimasti attivi avevano completamente stravolto gli schemi di battaglia, mandando avanti gruppi sparsi di vedette volte a creare situazioni di disturbo. Tra queste vedette c’era pure Rommel, la volpe del deserto nel conflitto successivo qui alleato austriaco. La disfatta di Caporetto non si distinse tanto per la gran baraonda di ordini non chiari e di azioni confuse, ma perché arrivati a questo punto il governo italiano rischiava davvero di perdere la faccia, avendo collezionato dall’unità sino a quel momento uno smacco dietro l’altro. È stato possibile salvare il salvabile soltanto restando in difesa. A quel punto c’è stata la ripresa e la lenta risalita verso il Piave.
L’arrivo al Piave
Dai canti di guerra sembra che il Piave sia stato conquistato tutto in una notte. In realtà è stato un cammino lungo e faticoso, bisognava ricompattare le truppe, accogliere i nuovi reparti inviati, passare attraverso villaggi e paesi. Nel frattempo la vita andava avanti, c’era chi diventava padre e non poteva o non si ricordava di registrare subito il figlio all’anagrafe. La cosa più importante è che nel corso delle azioni di guerra l’atteggiamento verso il nemico era cambiato. I barbari invasori degli inizi erano diventati uomini come noi e tutto questo era semplicemente una guerra di morti di fame contro morti di fame. Anche questo aspetto cominciava ad emergere nelle poesie e nelle canzoni e dai comportamenti. Al di fuori dei momenti più concitati della battaglia si sparava sempre meno perché ci si rendeva conto che quella non era più guerra, ma assassinio a sangue freddo di uomini contro altri uomini.
E finalmente Vittorio Veneto
A questo avvenimento è associata la data ben precisa del 4 novembre 1918 che tutt’ora si festeggia (così come il 24 ottobre 1917 per Caporetto), in realtà il giorno esatto era il tre, ma per festeggiare la vittoria s’è sparato per ventiquattr’ore. Ma come finì? Finì che per i primi tempi nessuno riusciva a riabituarsi alla pace, ai comportamenti normali di prima della guerra tipo andare a letto e togliersi le scarpe, camminare curvi e scoperti per strada e intanto i soldati per un po’ stavano ancora al fronte per tentare di ricostruire, strade, case ed argini.
La mostra a piano terra
Dopo questo racconto che mescola grande e piccola storia attraverso documenti, canti, film, letture di testimonianze dirette e la narrazione di Simona Duca è venuto il momento della mostra aperta negli orari della biblioteca grazie al gruppo alpini che l’ha allestita e al gruppo dei volontari che faranno i turni d’apertura fino a giovedì per permettere a scuole, gruppi e a chiunque si dimostri interessato di vederla. Una mostra nell’ambito della quale la storia è ancor più viva attraverso uno splendido reportage fotografico di Aldo Varenna digitalizzato che mostra la vita dei soldati momento per momento in modo che chi guarda le foto è come se fosse li a far guerra con loro a sentire il freddo, la paura i disagi, attraverso copie o originali dei giornali d’epoca, i dispacci, alcune lettere, i certificati di morte, l’annuncio della vittoria di Armando Diaz (che subentrò a Cadorna nel comando durante le ultime fasi del conflitto), attraverso teche che contengono cimeli davvero appartenuti a soldati che hanno combattuto quella guerra. Un piatto rotto, pale, picconi, bossoli, elmetti, gavette, borracce, coltellini, bottigliette. È soltanto così che ci si rende conto che la storia è vita e continua a vivere anche quando gli eventi che racconta sono passati da tempo.
Antonella Alemanni
A seguire photogallery della mostra