TALAMONA – UNO SCRIGNO DI CULTURA

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Il 18 e il 19 settembre, in occasione dell’importante evento Giornate Europee del Patrimonio 2015, l’Amministrazione Comunale di Talamona ha promosso presso la biblioteca del paese due interessantissime serate.

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Fausta Messa, docente di materie letterarie e latino, Istituto G.Piazzi/L.Perpenti, Sondrio

Il venerdì, alla presenza di un numeroso e attento pubblico, la brava e coinvolgente professoressa Fausta Messa ha piacevolmente illustrato tappe salienti del lungo ed affascinante viaggio compiuto, per molti anni, nel mondo della cultura dalla scrittrice Ines Busnarda Luzzi – per i Talamonesi la maestra Ines -, alla quale nel 2011 è stata dedicata la nuova biblioteca.Una vera grande donna che Talamona ha avuto l’onore di avere tra i suoi cittadini; una donna semplice, umile, modesta, dotata di straordinarie capacità, profonda sensibilità e grandissima umanità che – fortemente animata dalla passione, dallo spirito di ricerca storico-scientifica e dall’amore per la verità – ha speso una vita intera a favore della conoscenza e ha rivestito un ruolo fondamentale per la scoperta e la salvaguardia del patrimonio culturale, soprattutto della gente di montagna.

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Coro Valtellina

La seconda parte dell’incontro ha avuto come protagonista – sotto l’abile guida del direttore Mariarosa Rizzi – il Coro Valtellina che ha proposto alcuni brani accuratamente scelti dal suo vasto repertorio in cui, in maniera decisa e delicata al contempo, emergono le bellezze naturali dei paesaggi alpini, l’attaccamento alla propria terra, il mantenimento delle tradizioni, il valore dei legami affettivi, la forza dell’amore, le fatiche di vecchi mestieri.

Prosa e musica: due differenti forme artistiche che, con strumenti diversi, tendono all’ambizioso obiettivo di dare voce al passato, promuovendo e valorizzando la cultura d’altri tempi. A tale elemento comune si deve il felice connubio e la buona riuscita della serata.

Scrivere, cantare, narrare per ricordare, per non dimenticare, per rinsaldare le proprie radici, per contribuire a formare, rinforzare, consolidare il senso di appartenenza ad una comunità, per vivere e crescere in modo consapevole e gioioso.

Grazie alle preziose testimonianze e alla “presenza” della carissima maestra Ines che, con la consueta saggezza, discrezione e pacatezza, aleggiava nell’aria dell’ampia sala, si è creato un positivo e complice clima relazionale, capace di catturare, con la mente e con il cuore, i presenti.

Sentiti ringraziamenti a Talamona per averci offerto la possibilità di curiosare dentro uno scrigno ricco di tesori… e, in particolare, un doveroso grazie all’appassionata Lucica BianchiAssessore alle Politiche Culturali e all’Istruzione del Comune.

Infine, a titolo personale e a nome del Coro Valtellina ringrazio nuovamente per il gradito invito alla lodevole ed apprezzata iniziativa.

Cinzia Spini, presentatrice del Coro Valtellina

QUANDO IL LEGNO DIVENTA ARTE

TALAMONA 29 settembre 2013 inaugurazione di una mostra di scultura lignea alla casa Uboldi

CON LA PARTECIPAZIONE STRAORDINARIA DELLO SCULTORE DOTTO G ABRAM UN POMERIGGIO ALLA SCOPERTA DELLA CULTURA ARTIGIANALE

In occasione della seconda giornata del patrimonio, quest’oggi a partire dalle 17. 30 alla Casa Uboldi è stata di scena l’arte. L’arte a tutto tondo. L’arte del fare. L’arte artigianale. La scultura. L’affresco. La musica. Una giornata variegata e ricca di contenuti animata da numerosi interventi.

I mille volti del legno: l’introduzione dell’assessore alla cultura Simona Duca

Protagonista della giornata il legno, un materiale molto caro ai talamonesi così come a tutte le popolazioni montane per le quali il legno rappresenta la matrice della cultura materiale.

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Il legno un po’ come l’uomo si può trovare ovunque, sotto diversi aspetti e in diverse situazioni. In primo luogo come struttura portante degli alberi che ci danno l’ossigeno col quale respiriamo. In questo senso il legno è vita anche perché accompagna la vita dell’uomo dalla sua nascita (di legno sono le culle che ci accolgono quando veniamo al Mondo) fino alla morte (di legno sono le bare che accompagnano l’ultimo viaggio) passando per la quotidianità. Con il legno si possono costruire le case, gli arredi, gli utensili usati nei lavori tipici montani praticando i quali si è sempre in contatto con questo materiale.

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Il legame tra l’uomo e il legno può essere dunque sintetizzato dal verbo FARE o anche CREARE. L’uomo con il legno crea forme nuove e sviluppa la manualità. Un legame misterioso come il legno stesso che in qualche modo fa da maestro all’uomo, il quale, prima di lavorare il legno, deve imparare a conoscerlo, capire come crescono gli alberi come tagliarli, distinguere le varie tipologie di legno, ciascuna con le sue caratteristiche peculiari, ragionare e così impostare il proprio lavoro, a modellare il legno restando inizialmente fedele alle forme originarie e poi imparando col tempo a creare forme sempre più elaborate e complesse.

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Il legno è arte, ma anche scienza e tecnica. Con il legno l’uomo crea forme artistiche, ma anche, come abbiamo visto, strumenti di utilità quotidiana. Nascono l’intaglio, l’intreccio e le tecniche base per costruire strumenti anche con altri materiali, strumenti coi quali il lavoro diventa sempre più preciso e aperto a varie possibilità, strumenti coi quali l’uomo può progredire ulteriormente. Di legno sono fatti i telai per la tessitura, una delle prime manifatture della Storia, l’embrione delle successive società industriali.

Il legno è fantasia. Se la fantasia è molta basta veramente poco per darle forma attraverso il legno, per trasformarlo da maestro a compagno di viaggio, un viaggio di crescita personale, un viaggio durante il quale l’uomo ha continuamente arricchito il suo sapere e le sue capacità.

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A questo punto del viaggio alla scoperta del legno è stato interessante osservare alcuni esempi. Osservare ad esempio come l’inventiva dell’uomo trasforma un tronco cavo in una fontana, come il legno una volta fosse presente ovunque non solo, come abbiamo già visto, negli strumenti del lavoro e della vita quotidiana, ma anche nelle serrature, come il legno è utile attraverso i collari (in dialetto gambis) attraverso i quali ciascuno sapeva identificare le proprie bestie e come il legno rappresenti il contatto con la natura, la possibilità per l’uomo di esprimere la propria personalità (attraverso le decorazioni sugli oggetti, in particolar modo gli stampini del burro, decorazioni a motivi floreali o con la forma del cuore che simboleggiano la purezza della vita) e di stabilire un perenne contatto con la natura e con la terra, per molto tempo lavorata solo con l’ausilio di strumenti di legno che entra anche nel linguaggio gergale dei contadini, nella loro sapienza ancestrale (significativo è stato scoprire, da questo punto di vista, l’abitudine di appendere nelle baite rametti di abete o di sambuco contornati da delle tacche, rametti che si spostavano a seconda dell’umidità segnalando così il brutto o il bel tempo, igrometri artigianali), nonché di stabilire, attraverso il legno una sorta di collegamento tra il mondo materiale e quello spirituale come se il legno fosse uno strumento col quale creare una sorta di magia che solleva l’uomo ad un livello più vicino a Dio permettendo all’uomo di replicare su piccola scala il processo di creazione, ma anche accompagnando le liturgie e le feste (di legno ad esempio erano fatte le raganelle suonate nel periodo del carnevale e il giorno del venerdì santo quando non suonavano le campane).

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4cUn viaggio, quello attraverso il legno, che è anche un viaggio attraverso un mondo di conoscenze anche immateriali, che, col progresso della tecnologia e l’avvento dei nuovi materiali, rischia ogni giorno di più di diventare un mondo perduto.

Un viaggio che dal legno ha portato a seguire a tutto tondo molteplici itinerari attraverso le arti.

L’arte lignea in Valtellina e in Valchiavenna. L’intervento di Lucica Bianchi

La Valtellina ha sempre rivestito un ruolo strategico fondamentale per la conformazione geografica del territorio e per la posizione cruciale che ne faceva la principale via di comunicazione europea. Si tratta dunque di una regione prevalentemente montuosa e in qualche modo separata dai grandi centri culturali sia nel Medioevo che nell’età moderna. Ad ogni modo nel cuore di un Rinascimento in fiore nell’Europa del XV secolo (il periodo cui facciamo riferimento) le manifestazioni artistiche valtellinesi appaiono tutt’altro che sporadiche e periferiche. Per ovvie ragioni la Valtellina e la Valchiavenna sono il territorio ideale per studiare la scultura in legno e questo non solo per la facile reperibilità del legno in questa zona. Teniamo presente, come ha sottolineato anche la professoressa Duca poco fa, che un tempo il legno si trovava un po’ dappertutto ed era parte integrante della vita e della cultura di queste popolazioni. Superate le prestazioni tipicamente costruttive e pratiche dal legno può nascere anche un’enorme capacità di dar vita ad espressioni di alto livello artistico. In termini assoluti, in base ad una ricerca fatta dagli specialisti del settore, la Valtellina possiede il maggior patrimonio di opere lignee di tutta la Lombardia. A marcare la differenza tra questo patrimonio e il resto dell’arte in Italia nel Rinascimento è in primis l’importante ruolo sociale economico e politico nonché religioso raggiunto dalle famiglie nobili valtellinesi che prediligono e commissionano materialmente la realizzazione di tali opere in legno. D’altro canto si ha l’applicazione dei decreti in materia di arte sacra promulgati dal Concilio di Trento del 1545. Questo concilio affermava delle linee guida che sconsigliavano l’utilizzo di un materiale umile e deperibile, come il legno era, sia per la costruzione che per la decorazione delle chiese, un’esigenza peraltro sostenuta dagli ambienti classicisti del Cinquecento che prediligevano i materiali nobili, duraturi e di discendenza classica come il marmo e il bronzo. Mentre Milano perse così gran parte delle sue opere in legno, le diocesi limitrofe sono state meno propense ad applicare i decreti tridentini. Ecco perché più ci si allontana da Milano sia in direzione nord che in direzione sud, più si trovano chiese che conservano ancora opere sacre in legno. Nella maggior parte dei casi non si tratta davvero di opere valtellinesi. Gli artefici delle importanti ancone e statue lignee che tra la fine del Quattrocento e tutto il Cinquecento sono state realizzate a Morbegno, Ponte, Tirano, Grosio e in tutti i maggiori centri urbani della Valtellina, sono artisti milanesi e pavesi, appartenenti alle botteghe di Del Maino, De Donati, Pietro Bussolo e Andrea da Saronno oppure artisti germanici come Strigel e Echart. Alcune delle loro opere richieste dalle comunità valligiane oltre ad altre più numerose esiliate dai loro luoghi d’origine dopo l’affermazione del credo protestante sono giunte così fino alle popolazioni cattoliche. A cominciare dalla metà del Cinquecento vengono chiamati i migliori esperti e specialisti del momento e a loro vengono affidate la doratura e la policromia delle opere in legno. Valtellina e Valchiavenna sono regioni geografiche periferiche, ma anche snodi commerciali, politici e militari costituendo anche l’avamposto della fede cattolica contro l’avanzare del protestantesimo. Quanto questo abbia influito sulla commissione di opere, come il santuario della Madonna di Tirano, è noto a tutti e probabilmente tante delle opere commissionate in quei tempi e nei tempi a seguire hanno avuto alla base proprio questa esigenza strategica di fede.

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Se si vuole studiare l’arte del legno in Valtellina , un punto di partenza valido è la grande ancona di Giacomo del Maino per la cappella dell’Immacolata della chiesa di san Maurizio a Ponte. Va detto che la monumentale ancona di Ponte è la prima testimonianza di arte lignea pienamente rinascimentale giunta pressoché integra sino a noi. All’epoca della sua esecuzione, nel 1520 circa, Giacomo del Maino era un artista affermato, artefice di importanti commissioni, dal coro di S. Ambrogio a Milano fino alla celebre, ma purtroppo distrutta ancona dell’Immacolata di S. Francesco sempre a Milano che ospitò tra i suoi pali dorati la tavola della Vergine delle rocce di Leonardo da Vinci. Alla bottega di Giacomo del Maino verranno commissionate le ancone del santuario di Morbegno (1516-19) quello di Tirano (1521-24) e infine quella di Ardenno (1536). Tutte queste sono opere di grande impegno e qualità artistica, veri capolavori d’arte lombarda. La bottega concorrente, quella dei fratelli milanesi de Donati, molto prolifica e organizzata a ritmi quasi industriali predilige località minori, lontane dai grandi santuari, ma i loro risultati sono comunque sorprendenti per espressione e complessità come testimoniano i tre altari che la bottega realizzò per la chiesa di san Bartolomeo a Caspano dove si celebra la resurrezione di san Lazzaro e dove è presente un’ancona dedicata a san Bartolomeo. L’altro protagonista dell’intaglio ligneo rinascimentale è Piero Bussolo che era solito firmarsi MEDIOLANENSIS e che realizzò a Grosio la magnifica ancona della Natività. Per quanto riguarda le rappresentazioni figurative di questi artisti esse sono pienamente rinascimentali. È un Rinascimento dai canoni stabiliti da Leon Battista Alberti e Vitruvio che troviamo nelle proporzioni naturalistiche delle figure, nell’abbondanza di elementi dell’architettura classica romana (candelabri, grottesche, medaglioni, profili all’antica e una ricchissima di grifi, vasi e corni ornati di foglie e frecce). Lo studio della scultura in legno in Valtellina non risponde semplicemente ad una qualche ricerca didattica che pure è necessaria per la conservazione, ma è piuttosto il frutto di una profonda ricerca teologica. La struttura delle grandi ancone ad esempio si presenta come un vero programma coi dogmi della fede, i santi protettori, riferimenti ecclesiali, biblici ed allegorici. Le statue lignee valtellinesi nella loro perfezione formale e nella straordinaria carica emotiva non vogliono semplicemente svelare un sentimento effimero, ma piuttosto un’autentica partecipazione agli eventi narrati. Tornando per un’ultima volta al legno, questo materiale povero, semplicemente scelto per via della sua facile reperibilità, diventa un supporto versatile e prestigioso perché attraverso sofisticate tecniche di lavorazione della foglia d’oro con l’utilizzo di lacche traslucide e smalti permette straordinari effetti luminosi e cromatici divenendo così non solo prezioso, ma anche sacro. Basti un accenno al simulacro più venerato della Valtellina, quello della Madonna di Tirano, la figura celeste che si china in avanti quasi a riproporre l’intimo colloquio avvenuto la mattina del 29 settembre 1504 col beato Mario Omodei.

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L’immagine della Madonna grazie al artista Del Maino non solo sembra viva, ma sembra splendere di una luce celeste, scolpita in un legno realmente sacro.

Lezioni di arte e creatività. L’intervento di G. Abram

Giuseppe Abramini in arte G. Abram vive a Delebio e fa lo scultore da quarant’anni affiancando a questa attività quella di pittore (nei momenti di depressione) e quella di narratore (nei momenti di totale sconforto) rievocando piccole storie e personaggi della grande Storia in modo casuale, ma con brio e rigore storico in una serie di libri intitolata IL TRIONFO DI KAINO una serie in vendita nella sala conferenze e che Abram ha presentato con entusiastico fervore ad un pubblico numeroso e partecipe. Quest’oggi è intervenuto per mostrare il suo lavoro (oltre ai libri alcune sculture di vari colori e materiali) e parlare di arte, del suo mondo creativo e di tutto cio che ha ritenuto opportuno per arricchire questa già ricca giornata, un intervento istrionico e appassionante, una lezione su cosa significhi essere un artista. Una lezione di vita.

Un artista, un po’ come accade oggi ai nostri politici, rimane tale fino all’ultimo giorno della sua vita senza mai andare in pensione. Michelangelo morì alla veneranda età di 89 anni e negli ultimi giorni della sua vita ancora lo si sentiva dare colpi di scalpello a quella che divenne la Pietà Rondanini oggi esposta al castello sforzesco.

L’artista è colui che è toccato dal dono della creatività, un dono che, a seconda delle credenze, si può considerare dato da Dio oppure direttamente dalla natura. Solo una persona su un centinaio si può considerare un artista creativo e sono rari i casi in cui è possibile trovare più artisti riuniti in un solo luogo. Talamona da questo punto di vista rappresenta un’isola felice. A Talamona si contano 4632 abitanti. Su questi 46 sono artisti creativi di poesia, di letteratura, di musica, di scultura, pittura eccetera.

Un artista è colui che concepisce idee nuove e realizza cose nuove oppure con novità. Per diventare artisti occorrono tre passaggi fondamentali.

In primo luogo bisogna possedere un vasto immaginario nella mente e nel cuore, un immaginario che si coltiva con le letture e in generale le esperienze della vita, quello che si osserva, quello che si ascolta. Più l’immaginario è vasto più è possibile sviluppare una vasta creatività e operatività artistica.

Avere un vasto immaginario non serve se non c’è il desiderio di esprimerlo, di raccontarlo, di esporsi, di mettersi in gioco. Un artista deve essere forte, un po’ narcisista, si deve assumere dei rischi.

Tutto questo è importante, ma bisogna possedere anche la padronanza tecnica della propria arte. C’è chi dice che l’atto creativo in se consiste nel limitarsi a concepire nella propria mente l’opera, ma il signor Abram ritiene invece che l’artista deve essere anche un artigiano, che l’arte si compone anche di saper fare, in particolar modo la scultura, la sua arte, un’arte faticosa, dove ci si sporca.

La vita di Caravaggio prima parte

A questo punto è venuto il momento di Sonia Sassella che ha letto un brano tratto dal primo volume de IL TRIONFO DI KAINO dedicato alla vita di Caravaggio (al secolo Michelangelo Merisi). Nella prima parte di questa lettura abbiamo seguito gli esordi artistici di Caravaggio le sue peregrinazioni dalle quali già emergono i chiaroscuri che caratterizzeranno per intero la personalità e il cammino terreno di quello che fu uno dei più grandi e al tempo stesso dei più tormentati artisti di ogni tempo.

Primo intermezzo musicale

Dopo tutta questa cultura ci vuole un momento di pausa per meditare su quanto sinora ascoltato. Niente di meglio di un po’ di buona musica offerta da Damiano Bertolini. Un’esecuzione del minuetto in sol minore di Bach.

La tecnica dell’affresco. Secondo intervento di Lucica Bianchi

Col termine a fresco o buon fresco si intende la pittura murale nella quale i colori sono stemperati in acqua e stesi sull’intonaco ancora fresco. È una tecnica che non permette ripensamenti perché i colori vengono immediatamente assorbiti dall’intonaco per via della reazione chimica che si instaura tra l’anidride carbonica dei colori e la calce dell’intonaco, un processo che prende il nome di carbonatazione e che fa si che i colori acquisiscano una forte vivacità e solidità.

L’origine della tecnica dell’affresco può essere fatta risalire a 30 mila anni fa ai dipinti murali presenti nelle grotte di Altamira in Spagna e di Lascaux e Chaveux in Francia. I più antichi esempi di affresco su intonaco umido conosciuti, furono ritrovati sull’isola di Creta intorno al 1500 a. C. In Italia questa tecnica risale al IV secolo a.C. come testimoniano gli affreschi di Paestum nella parte orientale del golfo di Salerno, nella cosiddetta tomba del tuffatore.

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Un affresco si compone di quattro elementi: il supporto, il disegno preparatorio o sinopia, l’intonaco, i colori.

La prima fase della creazione di un affresco prevede la stesura su un muro bagnato di uno strato spesso circa 1 cm di ariccio cioè una mescolanza di sabbia dura di fiume, calce spenta e acqua. Una volta che l’ariccio si è asciugato su di esso viene tracciato il disegno preparatorio, chiamato sinopia, nome che deriva dalla città turca di Sinope da dove proviene un pigmento colorato chiamato appunto terra di Sinope. Su questa base viene steso un o strato di intonaco composto da sabbia fine di fiume, calce e acqua. Sull’intonaco vengono stesi colori macinati e mescolati all’acqua in quantità ben precise.

La principale difficoltà di questa tecnica consiste nel fatto che, come già abbiamo detto, non permette ripensamenti perché una volta stesi i colori vengono immediatamente assorbiti dall’intonaco. Per ovviare a questo inconveniente gli artisti realizzano piccole porzioni di affresco che una volta venivano chiamate giornate. Una volta che l’affresco è asciutto vi si possono apportare eventuali correzioni utilizzando comunissimi colori a tempera che però sono più facilmente degradabili.

Con il Rinascimento la tecnica dell’affresco conosce il momento di maggiore diffusione. In Italia viene abbandonato l’uso della sinopia e introdotto l’uso del cartone preparatorio. L’intero affresco veniva riportato a grandezza naturale sul cartone e le linee che componevano le figure venivano puntellate, dopodiché il cartone veniva appoggiato sull’intonaco e spolverato con polvere di carbone di modo che essa, passando attraverso i fori lasciasse la traccia del disegno da seguire poi coi colori.

La pittura a fresco, che costituisce la gloria dell’arte italiana è considerata la più impegnativa tra le tecniche pittoriche benché i materiali utilizzati, come abbiamo visto, sono semplicissimi. L’esecuzione comunque esige una prontezza e un’abilità che devono tradursi in quel modo puro e risoluto di cui parlava Michelangelo che definì l’affresco la pittura degli uomini volendo significare con cio che essa impiega al massimo le capacità e l’esperienza dell’artista.

Parlando dell’affresco non si può che concludere con la presentazione di quello che è il capolavoro assoluto di quest’arte nonché uno dei maggiori capolavori, una delle opere più monumentali dell’arte universale: la cappella Sistina, la volta e il giudizio universale dietro l’altare principale, due opere facenti parte dello stesso sistema, di uno stesso cicli, ma eseguite da Michelangelo in due momenti diversi della sua vita. Egli rappresentò in gioventù le storie della Genesi sulla volta e venne in seguito richiamato per dipingere la parete dietro l’altare col tema del giudizio universale realizzato tra il 1536 e il 1541. Quest’opera subì le durissime critiche del concilio di Trento, per via della folta presenza di nudi che un anno dopo la morte di Michelangelo, nel 1565, si decise di ricoprire. Ad eseguire questo compito venne chiamato Daniele da Volterra passato alla Storia con l’appellativo di braghettone. In seguito queste censure sono state quasi totalmente tolte.

Sulla cappella Sistina è stato proiettato un video poi commentato da G. Abram che ha posto l’accento su alcuni dettagli del monumentale affresco.

La Madonna di via Don Cusini. Intervento di Simona Duca

Questo affresco rappresenta l’emblema della sacralità talamonese, della sintesi tra materia e spiritualità. Il soggetto rappresentato, la Madonna, è comune al 90% delle rappresentazioni sacre talamonesi siano esse dipinti murali, affreschi, edicole, gisoi eccetera.

La figura della Madonna molto spesso viene associata al legno di quercia. Entrambi rappresentano la forza e un saldo senso di protezione dall’alto di cui i talamonesi sembrano avere un particolare e disperato bisogno. Originariamente incastonata in una baita in quel di Ransciga, ha subito in seguito vari spostamenti e ora necessita del nostro aiuto per continuare a mantenersi nel tempo a trasmettere questo connubio tra semplicità dell’esecuzione e maestà del dipinto, del soggetto, reso dalla brillantezza dei colori. L’azzurro del vestito e degli occhi della Madonna, un tipo di blu così brillante e inalterato nel tempo che, come ha osservato G. Abram, potrebbe benissimo essere stato realizzato con lapislazzuli dell’Afghanistan macinati, gli stessi usati da Michelangelo per lo sfondo azzurro del giudizio universale anche se ovviamente qui non siamo a questi livelli ne per quanto riguarda il pittore ne per quanto riguarda la committenza (entrambi sconosciuti).

Un dipinto che spinge ad una riflessione. La grandezza dell’arte può arrivare ai massimi eccessi e far sentire gli artisti vicini agli dei, ma in ogni opera si annida sempre quel tocco delicato in grado di riportare tutti con piedi per terra.

Lezioni di scultura. Intervento di G. Abram

Per fare lo scultore ognuno deve trovare il materiale che gli è più congeniale. Il signor Abram ha scelto il bronzo perché ne apprezza la versatilità che permette di ampliare la creatività artistica spaziando tra molteplici soggetti. Non conta il fatto che il materiale scelto sia nobile o grezzo. Un artista con un grande immaginario e buona tecnica saprà tirar fuori in ogni caso da ogni materiale opere di pregio. A questo proposito il signor Abram ha citato la famiglia quattrocentesca dei Della Robbia in grado di realizzare opere meravigliose con la terracotta.

Una volta che il materiale è stato scelto bisogna imparare a conoscerlo e a lavorarlo in base alle caratteristiche peculiari. Nel caso specifico degli scultori del bronzo, molti si appoggiano ad una fonderia mentre il signor Abram ne ha una propria. Quando ha cominciato ne ha affittata una a Milano e ora invece ne ha una a Delebio dove vive. Attraverso tentativi ed errori ha imparato le tecniche di fusione in modo tale da creare le proprie opere in ogni fase del processo produttivo.

Per lavorare il bronzo bisogna sapere che esso fonde a circa 900° e che una scultura in bronzo nasce dall’arte dell’aggiungere a differenza di quanto accade nel caso del legno e del più classico marmo che si lavorano con l’arte del togliere. In ogni caso sia che l’artista rimuova il materiale in eccesso sia che lo coli fuso dentro uno stampo è ovviamente necessario avere bene in mente l’opera da creare. I veri artisti a tal scopo utilizzano modellini in creta (si possono anche usare altri materiali per i modellini come il gesso o la plastilina). Persino Michelangelo, il più grande scultore di tutti i tempi, per cui la sua arte era tutta giocata sulla perenne ossessione di liberare opere che sentiva essere gia presenti nel marmo, lavorava con modellini preliminari. Così ha affrontato il David prima di scolpirlo da un gigantesco blocco acquistato a poco prezzo perché precedentemente rovinato da un altro scultore. L’opera d’arte insomma va costruita.

La scultura in generale offre più possibilità. La scultura a tutto tondo che è quella classica con la figura ben definita su tutti i lati (il David, il Mosè e le Pietà di Michelangelo, le opere di scultori della Grecia classica come la Venere di Milo la Nike di Samotracia, il Discobolo, il Pensatore sono tutti esempi di sculture a tutto tondo una lista che potrebbe continuare). La scultura a mezzo tondo, quasi definita, ma con una piccola porzione non staccata da una parete (le decorazioni all’ingresso di alcune cattedrali gotiche) l’altorilievo e il basso rilievo, una commistione tra scultura e figura disegnata (i fregi del Partenone oggi al British Museum di Londra sono esempi di rilievi).

Per fare una scultura in bronzo sono necessari diversi passaggi. Il primo passaggio è ovviamente l’idea estrapolata dal proprio immaginario personale, idea che può essere prima disegnata e poi modellata oppure modellata direttamente a seconda della metodologia specifica che ognuno intende adottare. Dal modello non si può prescindere. Il modello in creta su cui si posa uno strato di negativo in gesso. Lo strato in gesso si rimuove si divide in due parti per staccare dalla creta. I negativi in gesso vanno poi riuniti in un unico pezzo dopo averli lavati. La forma va capovolta e si esegue poi una seconda colata di gesso. Sul modellino di gesso si realizza una controforma in gomma da tagliare anch’essa in due metà nelle quali va pennellata la cera liquida che a contatto con la gomma fredda si solidifica e forma uno strato dentro cui colare del refrattario per poi rimuovere la gomma. Sul positivo in cera ottenuto da quest’ultimo passaggio si realizzano le colate e gli attacchi di fusione con un secondo strato di refrattario. È a questo punto che la statua è pronta per la fornace ove la cera brucia e rimangono i due strati di refrattario che bisogna interrare  per far si che quando giunge il momento di colare il bronzo fuso poi non esploda. Nel frattempo bisogna fondere il bronzo. A 150° assume una colorazione azzurrina (che può essere accentuata con piccole parti di fosforo). A questo punto è giunto il momento di colare il bronzo all’interno della forma refrattaria. Il bronzo seguirà le linee guida della forma refrattaria espandendosi dal basso verso l’alto. La scultura a questo punto è pronta, ma è necessario che si raffreddi poiché il bronzo caldo è fragilissimo. Una volta che il bronzo è freddo la scultura può essere ripulita dagli strati interrati e di refrattario e cesellata. Da ricordare che le forme preparatorie devono essere realizzate con un’ apertura in alto a mo’ di sfiatatoio.

Una scultura in bronzo appare naturalmente di colore verde. Il bronzo è composto in media da un 85% di rame, che è il responsabile della colorazione, e da un 15% di stagno, che fluidifica il tutto. Per fare una scultura in bronzo è importante che il materiale di partenza non scarseggi in stagno poiché molto rame e poco stagno rende il bronzo fuso di consistenza troppo pastosa per poter essere utilizzata. L’unica scultura che si conosce realizzata con appena l’1% di stagno sono i famosi cavalli di Venezia realizzati ciascuno in un blocco unico tranne la testa e il collo unita al resto del corpo con dei finimenti. Per lavorare il bronzo con poca percentuale di stagno nella composizione bisogna aggiungerci del piombo e comunque su questi cavalli, inizialmente pensati per una successiva doratura, si possono notare delle imprecisioni.

I Greci furono grandi scultori di bronzo oltreché di marmo. Era molto difficile trovare del bronzo già pronto però. I Greci si procuravano separatamente i due metalli che lo formavano. Trovavano il rame a Cipro (il cui nome significava proprio isola del rame cuprum in greco) e acquistavano lo stagno carissimo dai Fenici i quali lo trovavano in un gruppo di isole nei pressi dell’Inghilterra. I Fenici a quel tempo viaggiavano più degli altri. Si spingevano persino nei Paesi Baltici per trovare l’ambra lungo le coste occidentali dell’Africa per trovare l’oro. Potrebbero essere stati loro a diffondere la leggenda delle colonne d’Ercole (l’attuale stretto di Gibilterra) come limite del Mondo oltre il quale le acque precipitano e questo per impedire che altri potessero venire a conoscenza delle loro rotte commerciali.

Anche i Romani realizzarono sculture in bronzo. L’esempio più famoso è la statua equestre di Marco Aurelio in piazza del Campidoglio a Roma salvata dalla furia distruttrice dei Cristiani verso i retaggi del paganesimo perché scambiata per una statua di Costantino colui che legalizzò il Cristianesimo.

Michelangelo fece solo una statua in bronzo (e pare un crocifisso in legno di dubbia attribuzione) una statua di san Petronio che si trova a Roma nella chiesa dedicata al santo commissionatagli da papa Giulio II della Rovere, un papa terribile, guerrafondaio, irascibile e sempre in ritardo coi pagamenti, ma che dal canto suo esigeva la pigione da Michelangelo, il quale comunque è morto ricco perché sapeva comunque farsi pagare e bene.

Il più grande bronzista della Storia dell’arte dopo i Greci fu senz’altro Donatello.

La vita di Caravaggio. Seconda parte.

È venuto poi il momento di conoscere gli ultimi atti, più tormentati che mai, della vita di Caravaggio, letti sempre da Sonia Sassella e tratti dal primo volume de IL TRIONFO DI KAINO.

Secondo intermezzo musicale

Questa volta il pianoforte di Damiano Bertolini ci ha regalato un brano orientale.

I ringraziamenti del sindaco

In chiusura della giornata non poteva non intervenire il sindaco Italo Riva con i ringraziamenti al gruppo dei volontari.

Ultimo intermezzo musicale

Per salutare l’apertura della mostra la sonata di Beethoven al chiaro di Luna

Quando il legno diventa arte. La mostra.

È giunto finalmente il momento di inaugurare la mostra che proseguirà fino al 13 ottobre da martedì a venerdì dalle 14.30 alle 17.30 il sabato dalle 15 alle 18 e dalle 20.30 alle 22 e la domenica dalle 15 alle 18, una mostra collettiva di vari intagliatori valtellinesi (Sergio Bertolini, Franco Bianchini, Dante Bonelli, Quirino Ciaponi, Battista Duca, Egidio Ruffoni, Remo Ruffoni, Cirillo Zuccalli). Una mostra caratterizzata da un allestimento intelligente dove ogni autore trova il suo spazio e può esprimere il suo potenziale e dove l’arte del legno si esprime attraverso varie tipologie di linguaggio (dal classico, al rustico, all’avanguardistico) di soggetti e di interpretazioni. Un percorso che va meditato con molta calma ed osservato più e più volte per ascoltare il legno che parla al cuore raccontando le sue storie attraverso l’immaginario di coloro che, modellandolo, prima e meglio di tutti hanno saputo interpretarlo a volte dando un titolo alle loro opere, ma molto più spesso no.

Un percorso che parte da Quirino Ciaponi cui il legno ha suggerito forme prese dalla natura nonché forme umane stilizzate modellate a formare sculture vere e proprie, ma anche tazze.

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Un percorso proseguito poi con Battista Duca che ripercorre la lunga tradizione della cultura materiale (con legno che fa da materia prima nella creazione di oggetti quotidiani) virando però anche verso forme astratte.

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Si continua poi con Cirillo Zuccalli e la sua personale interpretazione dell’arte del legno come arte sacra, ma anche come amarcord e come personale celebrazione del rapporto tra le popolazioni valligiane e la natura attraverso fiori e grappoli d’uva dorati. Un percorso arricchito da vecchie lettere e fotografie nonché da un libricino con tavole illustrative di tutte le stanze di una casa (cucine, soggiorni, camere da letto, bagni) arredate con mobili e stili antichi (di fattura settecentesca pare).

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Di scena poi Fausto Bertinelli e le sue opere su tavola che sembrano ispirate alla pop art e che più che mai evidenziano come l’arte di creare col legno sia soprattutto l’arte del togliere.

In queste sottili tavole di legno l’immagine prende forma proprio dal legno rimosso

 

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A seguire Sergio Bertolini offre allo spettatore una finestra su un tempo passato in cui il legno serviva anche a divertire i bambini che con piacere ricevevano giocattoli intagliati da padri, zii o nonni. Giocattoli che Sergio Bertolini qui propone ricchissimi di dettagli. Due Pinocchio interpretati in maniera originale, modellini di auto motorini, elicotteri aerei, un quod, accanto a strumenti atti alla lavorazione artigianale della lana anch’essi riprodotti fedelmente e probabilmente funzionanti.

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È il turno ora di due scultori Franco Bianchini e Dante Bonelli accomunati da grande fantasia e versatilità nel rendere il legno materia viva con cui plasmare il proprio immaginario creando opere che spaziano da comuni oggetti d’uso quotidiano talvolta decorati (suppellettili e posate) ad opere che ricordano le avanguardie contemporanee. Opere che mescolano il sacro e il profano nel caso di Dante Bonelli che espone tavole di legno incise con rappresentazioni sacre (la Sacra Famiglia), ma anche istantanee di vita quotidiana e opere che, com’è il caso di Franco Bianchini, non dimenticano la natura. È il caso di una scultura elaborata come un’installazione che rappresenta alcuni animali del bosco innestati su un tronco lungo e sinuoso che lo fa somigliare ad un serpente.

Istantanea di vita quotidiana incisa su legno da Dante Bonelli

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A seguire sacra famiglia incisa su legno da Dante Bonelli

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La vita nel bosco secondo Franco Bianchini

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A seguire alcune immagini che illustrano l’esposizione generale delle opere dei due artisti

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La quotidianità, la fatica del lavoro è il tema dominante di Egidio Ruffoni. Il suo proporre gerle, cestini come quelli per la frutta, zangole, carrozzine, trasfigurandoli da oggetti di uso quotidiano a opere d’arte ha un che di dadaista.

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È interessante notare come l’ultimo (ma non per importanza) degli scultori presentati, Remo Ruffoni, partendo praticamente dallo stesso spunto, abbia però elaborato soluzioni diverse (se si eccettua la scelta di creare un bassorilievo sul ripiano di un tavolo, un bassorilievo che rappresenta la lotta in volo tra due galli forcelli). Nelle sue opere (sculture a tutto tondo e bassorilievi) il legno si fa quasi carnale ed è come se le figure rappresentate prendano davvero vita. Figure che rappresentando la dura vita di montagna si trasfigurano in parte in una dimensione di sogno mostrando la vita ad un livello più generale e trasversale. In particolar modo i bassorilievi di questo artista ricordano delle vere e proprie istantanee che paiono animarsi come dei tableau vivant. Due tra questi bassorilievi mi hanno colpito in modo particolare, scolpiti su entrambi i lati come a voler raccontare la stessa storia in due momenti e da punti di vista differenti. Un discorso che mi ha ricordato molto il concetto di simultaneità della scena preso in esame nell’ambito della giornata sull’Orlando Furioso. Il primo dei due bassorilievi intitolato SOPRAVVIVENZA racconta da un lato il tentativo dell’uomo di sopravvivere in una scena di guerra che vede coinvolti gli alpini e dall’altro la spietata e caotica lotta per la sopravvivenza della fauna selvatica, in assoluto l’opera che ho più amato tra quelle esposte. C’è poi l’altro bassorilievo dublefax che rappresenta i due atti dell’importante momento che perpetua l’atto primordiale della creazione attraverso la generazione di una nuova vita prima e dopo la nascita di un nuovo bambino.

Da notare l’opera lunga e stretta al centro dell’immagine chiamata Evoluzione.

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Ignoranza e Estasi e  altre due opere senza titolo

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Il sogno del pastore

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Sopravvivenza (lato a)

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Sopravvivenza (lato b)

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                                                                                            Senza titolo (lato a)

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Senza titolo (lato b)

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                                                      Tavolo con il duello tra le maestose aquile

Ad arricchire la mostra una presentazione fotografica dedicata all’arte sacra lignea valtellinese che richiama il discorso di Lucica Bianchi durante la presentazione.

Un percorso, quello di questa ricca mostra che è il degno coronamento di un’iniziativa che segna un altro importante capitolo della vita culturale talamonese

Antonella Alemanni

LA SIMULTANEITA’ DELLA SCENA

TALAMONA 28 settembre 2013 in scena l’Orlando Furioso alla casa Uboldi

L’ASSOCIAZIONE BRADAMANTE  IN OCCASIONE DELLE GIORNATE DEL PATRIMONIO EUROPEO PROPONE UN PERCORSO CHE PARTE DAGLI AFFRESCHI DI PALAZZO VALENTI FINO AD ARRIVARE ALL’OPERA TEATRALE E TELEVISIVA DI LUCA RONCONI

Anche quest’anno Talamona partecipa alle giornate europee del patrimonio (che lo scorso anno hanno coinciso con l’inaugurazione ufficiale della casa Uboldi con la sua sala conferenze da quel momento in poi prodiga di eventi) e anche quest’anno sceglie di farlo con l’Orlando Furioso, un personaggio ormai di casa, parte integrante della cultura valtellinese secondo dinamiche che, nell’incontro avvenuto lo scorso anno, sono state ben approfondite grazie agli esperti dell’associazione Bradamante che da anni, con pochi fondi e molta passione, si dedicano a questi studi portando la loro opera in giro un po’ per tutt’Italia con eventi e mostre dedicate. In occasione di queste giornate molto importanti, l’associazione ha organizzato un ricco calendario di eventi da Teglio sino a Talamona col racconto in presa diretta degli affreschi sulla facciata di Palazzo Valenti a partire dalle ore 17 e proseguito alla casa Uboldi con una conferenza intitolata LA SIMULTANEITA’ DELLA SCENA, un percorso che indaga la trasfigurazione dell’Orlando Furioso nell’iconografia partendo dalle figure stampate sulle prime edizioni del poema e quelle dipinte sino ad arrivare a quelle rese coi linguaggi teatrale e cinematografico.

Presentazione degli affreschi della facciata di palazzo Valenti

L’itinerario è cominciato di fronte a palazzo Valenti le cui origini sono molto più antiche di quelle della sua facciata. Il palazzo venne costruito nel XII secolo e in epoca rinascimentale subì degli interventi migliorativi che lo hanno trasformato nel palazzo che tuttora possiamo ammirare, tuttora abitato dalla famiglia Valenti.

A raccontare tutto questo (dopo l’immancabile introduzione dell’assessore alla cultura Simona Duca) Silvana Onetti, presidente dell’associazione Bradamante che ha collaborato di recente al restauro della facciata affrescata del palazzo. Un restauro che, nonostante l’impegno profuso, ha permesso di recuperare integralmente e di rendere visibili e comprensibili solo gli affreschi della prima fila in alto che si sono conservati tenacemente, mentre il resto della facciata è risultato essere non più recuperabile.

Osservando attentamente gli affreschi rimasti integri in alto sulla facciata si può notare come essi ricordino delle scene rappresentate a teatro tratte dalle edizioni a stampa del poema della seconda metà del Cinquecento (in particolar modo l’edizione del 1542). A determinare lo spazio della scena è la dimensione della facciata. Incastonate tra architetture dipinte rivivono, animate da pennellate vivaci e monocromatiche tendenti al giallo arancione (che, se illuminate dal Sole al tramonto paiono davvero prendere vita) le scene raccontate negli episodi dei canti primo secondo e ventunesimo essenzialmente duelli tra i vari personaggi in guerra per il re Carlo Magno e all’inseguimento di Angelica la donna di cui tutti o quasi sono innamorati o si innamorano durante il dipanarsi della vicenda. Ecco dunque combattere sotto gli occhi dello spettatore Ferraù e Argalia sulle rive di un ruscello, Bradamante con due personaggi diversi in due riquadri diversi, Gradasso e Rinaldo mentre sullo sfondo l’Ippogrifo si materializza uscendo dal castello di Atlante (un dettaglio scoperto durante i restauri), Rinaldo e Sacripante che si contendono il cavallo che il secondo ha rubato al primo mentre Angelica fugge sullo sfondo portando con sé l’elmo di Orlando (una scena che viene riprodotta in Sicilia sugli involucri dei prodotti tipici; da quelle parti l’Orlando Furioso è molto conosciuto e amato, soggetto preferito del teatro dei pupi). Scene che, circondate da finte colonne, sembrano sculture oppure personaggi reali congelati nel tempo come in certe storie maledette dove i morti non trovano requie e sono condannati a ripetere perpetuamente le azioni che stavano compiendo quando morte li colse. Tra queste compare anche un’immagine sacra. Una madonna aggiunta nella seconda metà del Seicento.

L’ Orlando Furioso: la simultaneità della scena dal testo all’immagine

Il discorso è proseguito alla casa Uboldi con una presentazione multimediale delle immagini via via analizzate, prese da varie fonti e comparate, intervallate dalla lettura di brani del testo corrispondenti all’immagine di volta in volta in discussione ad opera della bravissima Elena Riva che già lo scorso anno aveva saputo coinvolgere il pubblico con la sua lettura del lamento di Bradamante.

La prima immagine è stata un ritratto di Ludovico Ariosto, autore dell’Orlando Furioso, eseguita dal Tiziano e facente parte di una serie di ritratti tizianeschi a vari personaggi che in quell’epoca animavano la corte estense, personaggi di spicco della cultura e dell’arte all’epoca particolarmente vivace come mai più, purtroppo, sarebbe riuscita ad essere. Ludovico Ariosto scrisse il poema su commissione proprio della famiglia degli Estensi. Un poema che conobbe sin da subito un’immensa fortuna e conobbe tre versioni ed edizioni diverse. La prima è quella del 1516, la più semplice con un linguaggio padano. La terza del 1532 è quella con i quarantasei canti e il linguaggio più ufficiale ed aulico, giunta sostanzialmente inalterata fino a noi ed è stata l’ultima edizione uscita con Ariosto ancora in vita. Egli infatti morì nel 1533 a 56 anni.

La seconda immagine è stata un frontespizio dell’Orlando Furioso che oltre ad essere il capolavoro assoluto di Ludovico Ariosto è anche uno dei massimi capolavori della letteratura italiana di tutti i tempi.

La terza immagine ritraeva i torrioni del castello di Ferrara che ai giorni i nostri appare diverso rispetto a com’era ai tempi di Ariosto per via di successivi interventi. Particolare attenzione all’ingresso caratterizzato da un arco a tutto sesto.

A seguire la casa di Ariosto che egli acquistò negli ultimissimi anni della sua vita con un bellissimo giardino e un boschetto sul retro ai quali Luca Ronconi si ispirerà ricreandoli molto simili per il suo sceneggiato televisivo tratto dall’Orlando, un’opera che, sebbene con un linguaggio diverso, applica la massima fedeltà al testo, dal quale nessuna iconografia e trasfigurazione può naturalmente prescindere. Simultaneità che si ritrova sorprendentemente anche tra lo sceneggiato televisivo e le scene dipinte sulla facciata di palazzo Valenti.

L’immagine successiva era proprio un particolare della facciata raffigurante la fuga di Angelica, comparata col brano del poema da cui è tratta, magistralmente letto e spiegato da Elena Riva. Angelica è un personaggio in continua fuga nel corso del poema mentre tutti intorno a lei sono intenti a guerreggiare contro il nemico cui il re Carlo Magno ha dichiarato guerra, Agramante, ma anche a duellare tra loro e ad inseguire la stessa Angelica offerta come dono da Carlo Magno al cavaliere che si dimostrerà più valoroso.

A questo punto ecco un’immagine della facciata totale del Palazzo Valenti in due versioni. La fotografia e il disegno architettonico.

Ed ecco poi due versioni dell’immagine del duello tra Bradamante e Sacripante. La versione a stampa e quella degli affreschi dove compare anche un’immagine di Ferraù ripresa in corso di restauro e così inserita nella presentazione. Un’immagine dove Ferraù compare di spalle con l’elmo calcato in testa, dettagli che inizialmente hanno reso difficile l’interpretazione dell’immagine che poteva benissimo rifarsi ad altri poemi eroico – cavallereschi anche più antichi.

A seguire un’immagine del duello tra Rinaldo e Sacripante in tre versioni. La prima tratta dall’edizione Zoppino, la seconda tratta dall’edizione Valdrisi e la terza dall’affresco di palazzo Valenti. Tre versioni caratterizzate da un elemento comune. Le figure del trentacinquesimo canto sono state utilizzate per raccontare un episodio del primo canto. A riprova di cio la presenza sullo sfondo di Angelica in fuga.

Le scene delle edizioni a stampa sono delle xilografie dapprima semplici che ritraggono due personaggi per volta (quelle delle edizioni a stampa di Zoppino per esempio) poi via via sempre più elaborate con più personaggi, dettagli di paesaggio e più scene del poema in una stessa immagine tanto che gli incisori dovevano indicare i personaggi con le loro iniziali a scopo orientativo. È qui che si comincia a notare la simultaneità della scena espressa ancor meglio in un’immagine ove Bradamante compare due volte protagonista di due duelli contemporaneamente: quello con Ferraù e quello con Rodomonte.

Gran parte di queste immagini sono comparse anche nelle mostre allestite qualche anno fa a Teglio e a Talamona. Una ricca galleria di immagini tratte e comparate da varie fonti è parte di uno studio dedicato della scuola normale superiore di Pisa, in particolare dal settore della ricerca sulla elaborazione e comparazione delle immagini letterarie che all’iconografia dell’Orlando Furioso ha dedicato mostre ed eventi culturali.

L’ultima immagine presa in esame prima di passare all’intervento successivo ritraeva Orlando e Ferraù in una stampa acquerellata dell’edizione Messer e sull’affresco di Palazzo Valenti. Due immagini quasi identiche. Nella prima Angelica che fugge sullo sfondo è ritratta sulla sinistra, mentre nella seconda è ritratta sulla destra e questo oltre ai colori è l’unico dettaglio evidente che le differenzia.

A conclusione di questo excursus sull’Orlando Furioso nell’arte figurativa (un percorso sempre aperto a conferme, ma anche a smentite e a sempre nuovi riscontri ed interpretazioni)  Elena Riva ha letto il brano relativo al duello di Bradamante e Sacripante, scena che sarebbe stata proiettata nell’ultima parte della serata, tratta dallo sceneggiato di Luca Ronconi. In questa scena Sacripante incontra Angelica, ma deve vedersela con l’improvvisa irruzione di Bradamante, mentre Angelica ne approfitta per fuggire di nuovo.

 

 

L’Orlando Furioso e il teatro. L’avventura di Luca Ronconi

A questo punto la parola è passata a Mira Andriolo attrice, regista e pedagoga teatrale che ha lavorato con Luca Ronconi (il periodo più fecondo di questa collaborazione risale al 2000 al piccolo teatro di Milano) dopo essersi diplomata con lui all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico e fa parte di un associazione culturale chiamata Spartiacque. Il suo intervento, attraverso una carrellata tra le tappe fondamentali della storia del teatro e della biografia di Luca Ronconi, e stato chiarificatore su come il maestro Ronconi sia arrivato a concepire e a portare avanti le idee circa l’allestimento e la messa in scena del suo spettacolo teatrale prima e dello sceneggiato televisivo poi.

Parlare di Luca Ronconi richiederebbe un discorso lungo e complesso che riempirebbe ore ed ore tanto la sua vita è stata lunga e variegata e la sua attività estesa.

Luca Ronconi è il più grande regista italiano. Nato nel 1933 a Susa in Tunisia dove la madre Fernanda insegnava letteratura. I due torneranno in Italia qualche anno dopo quando per il piccolo Luca è tempo di iscriversi alla scuola elementare dimostrandosi dotato e precocissimo una dote che lo porterà, una volta divenuto adulto, ad apportare innovazioni mai viste prima in ambito teatrale, innovazioni che di molto avrebbero anticipato i tempi. Conseguì la maturità classica al liceo Tassi di Roma sempre sotto l’egida della madre che impronterà l’istruzione del figlio sulla memoria. Lo stesso Ronconi racconterà che sua madre gli faceva imparare a memoria persino la matematica, formule e spiegazioni, allenandogli la memoria in modo maniacale.

La vita di Ronconi è stata una vita particolare non soltanto per la presenza di questa madre dalla personalità così forte e singolare, ma anche per via di tutta una serie di episodi dolorosi come l’assenza della figura paterna. Il padre di Ronconi scomparve dalla sua vita un giorno mentre tutta la famiglia stava viaggiando in treno. Scoppiò un diverbio tra i genitori, il padre scese alla prima fermata e ne la moglie ne il figlio lo rividero più. Episodi come questo incisero profondamente anche nel suo modo di concepire e di fare teatro un po’ come accade nel caso di tutti gli artisti.

La madre di Ronconi desiderava che il figlio studiasse Giurisprudenza, ma egli dopo qualche mese lascerà l’università per iscriversi all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico dove si diplomerà come attore dopo aver frequentato i corsi di Orazio Costa che ha allevato generazioni intere di attori. A Ronconi però fare l’attore non piaceva. Essendo molto emotivo risentiva particolarmente del cosiddetto panico da palcoscenico. Lavorerà comunque per qualche tempo con Luigi Squarzina, un grande regista appartenente al filone cosiddetto neorealista o dei registi dissidenti filone di cui facevano parte anche Luchino Visconti e Aldo Trionfo che operarono nel campo teatrale importanti rivoluzioni. Dopo la guerra si ritrovarono in Svizzera (alcuni di loro come Aldo Trionfo vi erano fuggiti perché ebrei) per fare il punto sullo stato di salute del teatro.

A partire dall’Ottocento il teatro era in via di decadenza. Era divenuto un tipo di teatro capocomicale caratterizzato da compagnie girovaghe ove il primo attore, che era anche capocomico, svolgeva anche il ruolo che in seguito sarebbe diventato di competenza del regista teatrale (che in realtà somigliava più ad un semplice supervisore) e nel contesto del quale i testi rappresentati non avevano elaborati studi alle spalle ed erano rappresentati più o meno tutti allo stesso modo, con una recitazione roboante e declamata sempre nello stesso stile, partendo da testi con una drammaturgia precisa e sviluppati in un unico filone. Un momento di caduta di tono del teatro quindi, soprattutto se si considerano gli esordi di quest’arte che mosse i suoi primi passi nell’antica Grecia intorno al V secolo a.C. con funzione politica, civica e didattica di trasmissione della cultura e dell’universo della mitologia, resa con modalità ben precise. Un’arte la cui apoteosi coincise con la nascita della Grecia classica e tutti i suoi elementi caratteristici (il progresso nelle leggi, la poesia, lo sport) nonché gli eventi salienti della sua Storia. Un’arte che conobbe un periodo di declino col tramonto dell’antichità classica per poi rifiorire nel Medioevo attraverso le rappresentazioni sacre laddove ancora si mescolavano sacro e profano, liturgia e spettacolo (le messe ad esempio venivano cantate intervallandole con cori di angeli e rappresentazioni di scene tratte dai brani delle Scritture letti in quel momento e le prime vie crucis venivano officiate in forma di spettacolo: ogni stazione corrispondeva ad un palchetto e ad una scena ben precisa) finchè questi due aspetti assunsero connotazioni ben precise e differenti. Lo spettacolo occorre che sia preparato e messo in scena dinnanzi ad un pubblico ben preciso e dunque ad un certo punto il teatro assumerà un’identità indipendente dai rituali liturgici, nasceranno i luoghi deputati alla messa in scena degli spettacoli. Nel Cinquecento in Inghilterra nasce il cosiddetto teatro elisabettiano con il palco rialzato e il pubblico in piedi sotto ad osservare la rappresentazione degli attori. Dopo due secoli, nel Settecento nascerà il teatro all’italiana che conosciamo ancora oggi, completamente diverso dai teatri greco-romani delle origini. Anche in questo caso il palco è rialzato e il pubblico a seconda del ceto sociale trova posto nella platea (il popolo) o nelle tribune a palchetto (i nobili). Da qui sino al Novecento la struttura portante della drammaturgia rimarrà sostanzialmente invariata, ma caratterizzata da progressive cadute di tono e di stile. E qui torniamo al discorso iniziale delle compagnie girovaghe e le loro rappresentazioni eccessivamente arbitrarie e poco studiate. Il Novecento sarà il secolo in cui la situazione stagnante del teatro subirà una serie di rivoluzioni a 360° grazie principalmente ad un movimento chiamato strutturalismo che comprendeva studi filologici, filosofici e antropologici e che portava avanti l’idea di un teatro che doveva basarsi su una messa in scena di testi solo dopo averli attentamente studiati e contestualizzati con rigore interpretativo, un’idea che prendeva avvio dall’assurto secondo cui, così come ciascun individuo, anche ciascun testo possiede una propria identità peculiare dalla quale non si può prescindere, in primo luogo l’attore non può prescindervi nella costruzione del personaggio e dello stile recitativo, dell’intonazione. La rivoluzione del teatro nel Novecento consisteva proprio nel considerare il copione come uno spartito musicale che, sebbene lasciasse all’attore un certo margine di libertà interpretativa, richiedeva comunque di essere rispettato nei suoi tempi e nella sua struttura e mai tradito. Il compito che i cosiddetti registi dissidenti si sono posti è stato dunque questo. Il rinnovamento del teatro e il passaggio da una tipologia capocomicale ad un teatro di regia riscoprendo la figura del regista. Squarzina, Trionfo e tutti gli altri di questa corrente non si limitavano ad essere registi erano uomini di teatro a tutto tondo ed era così che volevano riscoprire il valore della regia teatrale. Il regista non è solo colui che fa da supervisore al lavoro degli attori, che li guarda dall’esterno, ma è anche colui che accompagna gli attori durante la creazione dei personaggi, durante lo studio filologico e strutturale del testo da recitare. Anche la figura dell’attore e il modo di concepire la recitazione e lo stare in scena si rivoluzionano. In un’epoca in cui la recitazione era ancora molto esteriore con gli attori truccati come maschere, visse e lavorò Eleonora Duse una delle più grandi attrici di tutti i tempi che però non si truccava mai prima di entrare in scena, dove si manteneva quasi sempre sullo sfondo e di spalle. Lo strutturalismo che si proponeva di rivoluzionare il teatro era fondamentalmente una riscoperta del valore delle parole del loro essere significato (cioè la forma che tutti comprendono che le identificano) e significante (un valore in più che ognuno si immagina). Su questo ad esempio si basano gli studi di Roland Bart che si propongono di rispondere ad una domanda fondamentale: quando si mette in scena uno spettacolo che cosa arriva alla gente, che cosa viene comunicato?

È in questo contesto culturale che Luca Ronconi si forma arrivando al teatro come attore poco convinto e iniziando poi a fare il regista per caso strutturando il suo modo di concepire e fare teatro senza mai prescindere dal pubblico, domandandosi sempre: quando comunico a chi comunico, che cosa percepisce chi ascolta, che cosa rimane dentro ad uno spettatore di uno spettacolo? Per Ronconi il pubblico non è un elemento passivo che si limita a fruire della rappresentazione, ma anzi è parte integrante del sistema teatro che diventa teatro vero solo nel momento in cui si verifica l’incontro tra attori e pubblico. Nel corso della sua lunga vita, attraversata da tutti i più importanti avvenimenti del Novecento, Luca Ronconi ha sempre covato dentro di se questi principi, condizionati anche dal fatto che nel corso del tempo è sempre più difficile capire il tipo di pubblico cui ci si rivolge. Se una volta le comunità erano ben definite, ciascuna col suo background culturale e di vissuto comune che ne determina la sensibilità a un certo tipo di spettacoli e non ad altri, ora le comunità sono sempre più multietniche ed eterogenee. Ecco perché Ronconi ad un certo punto sviluppa una ricerca volta a creare un tipo di teatro aperto dove i testi da recitare vengono messi in scena in modo che a tutti, a seconda della personale sensibilità, del vissuto, del livello culturale, possa arrivare qualcosa dello spettacolo. Per Ronconi ogni individuo costituisce un pubblico a sé stante e ognuno deve avere la possibilità di creare dentro di sé il proprio spettacolo, uno spettacolo che può prendere avvio da qualunque spunto. Per Ronconi tutto il Mondo è un grande teatro che diventa così teatro dell’infinito dove la ricerca è a tutto tondo dallo studio sui testi, ai dialoghi agli spazi, compresi quelli mentali. Ronconi in un’intervista dichiara che il suo teatro non è fatto di progetti, ma di idee, di elementi, di materiali che si combinano strada facendo in modi anche sorprendenti a volte, naturalmente sempre partendo da un testo  che non deve essere per forza un testo appositamente pensato per una trasposizione teatrale, un testo che deve potersi esprimere liberamente senza forzature da cui ognuno può trarre le proprie conclusioni personali, un teatro dunque che non prevede delle vere e proprie metodologie per essere portato avanti, un teatro che gli spettatori devono leggere come un libro diventando essi stessi degli attori attraverso la capacità che ogni individuo ha di dare una propria lettura ed interpretazione della realtà che lo circonda attraverso la capacità che ognuno ha di modificare la propria coscienza in base a cio che guarda, che legge, di farsi coinvolgere.

Con queste premesse si arriva al 1969, anno in cui Ronconi mette in scena l’Orlando Furioso. È solo da pochi anni che si dedica alla regia, ha gia messo in scena due spettacoli che hanno avuto un discreto successo (tra cui uno intitolato INFINITIES tratto da un libro di teoremi matematici perché secondo Ronconi, come già prima si accennava, tutto può essere teatro, anche ad esempio un articolo di giornale) e a questo punto Luigi Squarzina gli offre la possibilità di partecipare al festival dei due mondi di Spoleto.

Di questi anni anche l’incontro con Edoardo Sanguineti, uno scrittore, intellettuale d’avanguardia, appartenente al gruppo 63, un movimento che si ispira ad un altro analogamente rivoluzionario chiamato gruppo 47 (i numeri si riferiscono ai rispettivi anni di fondazione 1963 e 1947). Sanguineti applica alla letteratura gli stessi principi che Ronconi ricerca nel teatro. Anche la letteratura è naturalmente influenzata dallo strutturalismo e dalle rivoluzioni culturali che il Novecento ha portato. Nel Novecento si ha la relatività di Einstein, la psicanalisi di Freud, i movimenti di rottura avanguardista (futurismo, dadaismo, beat generation). Accadono più cose nell’arco del Novecento che nell’arco di tutti i secoli precedenti, il mondo e le società umane si modificano con un ritmo mai visto prima, ma più di tutto si percepisce la perdita del senso dell’identità monolitica che fa posto ad un’identità multiforme, poliedrica, ad una molteplicità di punti di vista, ad una realtà frammentaria e non più così facilmente definibile. Ed è così che si modifica anche la cultura. Anche i concetti di identità culturale e cultura di appartenenza si trasformano. I gruppi d’avanguardia come quelli sopra citati prendono l’avvio da questi fermenti e credono che anche la letteratura debba essere in grado di raccontare fedelmente questa realtà così come si è evoluta e deve pertanto abbandonare i canoni precisi che l’hanno sempre caratterizzata sino a quel momento per spaziare ed aprirsi ad infinite possibilità di sperimentazione.

Quando Ronconi incontra Sanguineti e ne legge l’innovativo romanzo intitolato IL GIUOCO DELL’OCA, che ben esprime l’idea della vita come un percorso labirintico che ad ogni passo è soggetto a modifiche ed è un susseguirsi di casualità, coincidenze, simultaneità prive di schema e linearità (esattamente come un romanzo di Italo Calvino ad esso contemporaneo intitolato IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI), si può dire che la letteratura incontra il teatro ed è un incontro favorito dalla comune esigenza di rinnovamento. Ronconi vorrebbe inizialmente portare in scena al festival dei due mondi di Spoleto proprio il libro di Sanguineti perché ben si confà alle sue esigenze di provare un teatro destrutturato che rappresenti esattamente la vita com’è. Poi però ad un certo punto cambia idea. A un certo punto avviene l’incontro tra Ronconi e l’Orlando Furioso un testo che appartiene ad una tradizione classica di opere in versi, ma che è comunque nelle corde di questi autori alla ricerca di novità per via della storia che esso racconta e soprattutto per la modalità con cui si dipana. Calvino una volta commentò l’Orlando con questi termini “si tratta di un poema di movimento tortuoso, di scene che si intrecciano, il cui tema principale è la continua ricerca di un oggetto del desiderio che non viene mai totalmente raggiunto” questa del desiderio e dell’appagamento è, tra l’altro, proprio una delle grandi utopie dell’uomo che non è felice se non desiderando e una volta appagato un desiderio se ne crea un altro, un meccanismo interno all’uomo che è anche la struttura portante di quella macchina infernale che è il sistema consumismo-capitalismo che crea desideri in continuazione che ne ha fatto l’oggetto di contestazione dei movimenti studenteschi. Ronconi dunque si innamora di questo testo e lo sceglie anche perché è un testo presente nell’immaginario collettivo e dunque adatto a raggiungere un pubblico ampio. Ci lavora esattamente nel modo con cui avrebbe voluto lavorare sul testo di Sanguineti, modificando la struttura ma senza uccidere il testo anzi facendo in modo di tirar fuori dal testo tutte le potenzialità, il suo meccanismo intrinseco, basato sulla simultaneità delle storie. In questo è aiutato da Sanguineti stesso che collabora al lavoro rileggendo il poema come un romanzo inserendovi dei dialoghi e trasfigurandolo nella dimensione drammaturgica lasciandone intatta l’essenza individuando i quattro filoni essenziali: erotico, epico, avventuroso e fantastico. Nel preparare questo spettacolo la ricerca consiste nell’armonizzare questi filoni facendo in modo che ciascuno di essi possa esprimersi. Ed ecco dunque che inizialmente prende corpo l’idea di un palco rotante, abbandonata perché non rende bene la simultaneità. Si passa poi ad un teatro fatto di più palchi per rendere bene non solo la simultaneità, ma anche per ricreare il contesto culturale in cui il poema fu creato inizialmente, un contesto fatto di piazze di mercati, di cantori ad ogni angolo, una tradizione che a Spoleto e un po’ in tutte quelle zone di Umbria e Toscana si mantiene viva ancora oggi perché ancora oggi i vecchi nei paesini da quelle parti praticano la poesia estemporanea, le gare di ottave. Ecco che dunque, in uno spazio di 18 metri per 25, Ronconi allestisce quattro palchi barocchi sul lato corto e due americane sul lato lungo ove le attrezzature sono messe ben in evidenza spostate da tecnici in costume o dagli attori stessi che anche quando non sono in scena sono comunque attori e partecipanti attivi dello spettacolo che contribuiscono a creare semplicemente con la loro presenza fisica anche muta sulla scena. Uno spettacolo innovativo, volto a dare un senso di straniamento, di dispersione, una centrifuga di idee, di scene di simultaneità di storie, uno spettacolo che deve essere visto più volte per potersi creare lo spettacolo dentro di sé che mescola attori e pubblico nello stesso spazio e che ben esprime l’esigenza di Ronconi di fare del teatro come un gesto civico e politico, esattamente lo spirito con cui il teatro venne creato millenni or sono. Un lavoro che anticipa l’era della multimedia e degli ipertesti in contemporanea con una pietra miliare epocale della storia dell’umanità. Il 1969 è anche l’anno in cui l’uomo sbarca sulla Luna.

L’Orlando Furioso nello sceneggiato tv

Nel 1975 Ronconi decide di portare il suo lavoro sull’Orlando anche sul piccolo schermo, ma questo significa rinunciare a tutto il lavoro di ricerca portato avanti per lo spettacolo teatrale. Lo sceneggiato tv in cinque puntate, trasmesso di domenica dalla RAI da poco divenuta a colori, è caratterizzato da scene lineari ambientate in uno spazio interno, quello di Palazzo Caprarola in parte ricostruito a CINECITTA’. Per dare un tocco di innovazione e ritrovare l’idea di simultaneità che aveva caratterizzato lo spettacolo teatrale, Ronconi propose di trasmettere lo sceneggiato in contemporanea su due canali in modo che la gente per seguirlo fosse costretta a fare zapping da un canale all’altro. L’idea però venne giudicata troppo azzardata e non se ne fece nulla.

Gli ultimi minuti della conferenza sono stati dedicati alla proiezione di alcune parti dello sceneggiato corrispondenti alle scene prese in esame durante l’analisi dell’iconografia e ai brani letti. Vedendolo sono rimasta perplessa dall’idea di ambientare un poema che io mi immaginavo ambientato in spazi aperti e con colori vivaci in un’ambientazione interna e con luce cupa. L’ho trovato molto simile ad una versione del Rigoletto allestita a Palazzo Te a Mantova nel 2010 e trasmessa in diretta da RAIUNO in tre atti in orari diversi.

A conclusione della giornata ricca di contenuti è stato allestito un rinfresco a base di formaggio salumi, bisciola e frutta innaffiati con vino e aperol soda. Tanto di cappello ai solerti organizzatori che dopo aver pensato a nutrire le anime hanno provveduto a nutrire anche i corpi.

Antonella Alemanni