UMANESIMO. FILOSOFIA E CULTURA

 

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Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, 1509-1511, Musei Vaticani, Città del Vaticano 

Nel Medioevo la filosofia era un’attività svolta soprattutto nelle università e nelle scuole cattedrali. Dalla seconda metà del Trecento, lentamente, le cose cominciano a cambiare: i filosofi non sono più necessariamente professori o appartenenti a ordini monastici o comunque persone legate al mondo ecclesiastico. Si viene formando, innanzi tutto in Italia, una nuova classe intellettuale: funzionari politici, cancellieri, segretari, burocrati, amministratori. Alla vita contemplativa e allo studio nelle università molti di loro preferiscono l’impegno nell’attività pubblica. Allo studio assegnano compiti civili, pedagogici, politici, anche di critica della società. È un grande cambiamento culturale. Il ritrovamento di testi del pensiero antico andati perduti durante il Medioevo, la diffusione della conoscenza del greco, la nascita della filologia, un nuovo senso della storia, l’amore per la cultura classica (i cosiddetti studia humanitatis, cioè gli studi letterari, storici e filosofici) consentono dopo secoli di leggere Platone e Aristotele nella lingua originale e danno nuovo impulso al pensiero. La lettura degli antichi alimenta negli umanisti una rivalutazione delle possibilità dell’uomo e delle sue opere: gli eroi e gli autori del mondo greco e romano diventano esempi di virtù da imitare. Sarà soprattutto Platone, praticamente sconosciuto di prima mano nel Medioevo, a segnare la filosofia dalla seconda metà del Quattrocento alla fine del Cinquecento, anche se l’aristotelismo continua a essere dominante nelle università. È un Platone letto alla luce del neoplatonismo e riconciliato con il cristianesimo nella convinzione che le verità della filosofia, compresa quella pagana, facciano parte di una sapienza originaria, in cui erano anticipati o adombrati i contenuti, se non la lettera, della Rivelazione. Di questa sapienza fanno parte anche gli scritti cosiddetti “magico-ermetici”, perché allora attribuiti al mitico Ermete Trismegisto. Il Rinascimento sarà infatti anche il “tempo dei maghi”. Si comprende poco di questa straordinaria e complessa epoca se si dimentica che, per quanto strano possa sembrare oggi, allora il mondo della magia non era ai margini, ma al centro della grande cultura europea. Il Rinascimento è un’epoca di grandi contrasti: dibattiti sull’anima ma anche sull’astrologia, esaltazioni delle capacità e della «dignità» dell’uomo ma anche forme di scetticismo radicale, ricerca del vero nella contemplazione filosofica ma anche rivalutazione delle arti meccaniche e delle tecniche, della ricerca empirica e dell’osservazione diretta delle cose. Tutti aspetti decisivi e gravidi di conseguenze.

L’Umanesimo nasce in Italia. Le ragioni sono molte. Innanzitutto, in Italia si era sviluppata la civiltà dei comuni, la cui vita politica, culturale ed economica era vivacissima. Erano sorte scuole cittadine per la formazione di personale burocratico e politico, in cui si studiavano i classici come modelli per scrivere lettere, discorsi e altri documenti amministrativi. In seguito, con la nascita delle signorie, le corti attrassero gli intellettuali; spesso i signori svolsero un ruolo importante nel promuovere l’arte, la cultura, lo studio. Inoltre, in Italia erano molte le testimonianze dell’antico impero romano: monumenti, opere d’arte, manoscritti, codici. Per la posizione strategica nel Mediterraneo, infine, l’Italia deteneva il monopolio dei rapporti con i paesi del Medio Oriente, e quindi era un facile approdo per gli intellettuali dell’impero bizantino. Intellettuali e funzionari politici Gli umanisti furono spesso funzionari al servizio di un signore: davano consulenza legale, scrivevano lettere ufficiali e compivano ambasciate. Alcuni furono al servizio della Repubblica di Firenze, come Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1374-1444); altri operarono presso la curia pontificia: lo stesso Bruni, ma anche Pietro Paolo Vergerio (1370-1444), Poggio Bracciolini (1380-1459), Leon Battista Alberti (1404-1472). Altri centri della cultura umanistica furono Napoli e le principali città delle signorie padane: Milano, Pavia, Verona, Mantova, Bologna, Venezia, Ferrara.

 

 

Durante il Medioevo erano stati pochi gli intellettuali in grado di comprendere e tradurre la lingua di Platone e Aristotele. In Italia tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento giunsero a più riprese intellettuali bizantini che insegnarono il greco, alcuni su invito degli umanisti, altri al seguito dell’imperatore Giovanni Paleologo durante il concilio di Ferrara nel 1438 (che proseguì il concilio iniziato a Basilea nel 1431) e quello di Firenze nel 1439 (in cui si tentò la riconciliazione tra la Chiesa occidentale e la Chiesa greca, divise da secoli), altri ancora dopo la presa di Costantinopoli (1453) da parte dei turchi. Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento arrivò in Italia Manuele Crisolora che insegnò a Firenze e a Pavia. Negli anni successivi arrivarono Giorgio Gemisto (1355-1452), detto Pletone (parola dallo stesso significato di Gemisto, cioè “pieno”, ma dal suono simile a quello di “Platone”); Giorgio Trapezunzio (1395-1484), traduttore dal greco; Giorgio Scholaris (1405-post 1472), detto Gennadio; Teodoro Gaza (1411-1475), giunto in Italia per il concilio di Ferrara e rimastovi come insegnante e traduttore; Giorgio Argiropulo (1410-1491), insegnante di greco e traduttore; Giovanni Bessarione (1403-1472), che fu vescovo di Nicea e poi cardinale. Grazie all’insegnamento di questi intellettuali si cominciarono a leggere le opere di Platone e Aristotele nella lingua originale. Vi furono nuove versioni dal greco: Bruni tradusse l’Etica e la Politica di Aristotele, il monaco camaldolese Ambrogio Traversari (1386-1439) le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio e i testi dei Padri della Chiesa d’Oriente. La riscoperta di Platone era destinata ad avere una importanza decisiva soprattutto nella cultura del Rinascimento. Nel Medioevo l’opera completa di Aristotele fu conosciuta tardi – risulta in circolazione soltanto tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo – ma Platone era noto solo attraverso un frammento del Timeo tradotto e commentato nel IV secolo dal neoplatonico cristiano Calcidio, o grazie a fonti di seconda mano. Traduzioni latine del Menone e del Fedone compiute intorno alla metà del XII secolo avevano avuto scarsa circolazione. Nell’impero bizantino, invece, la conoscenza di Platone non era venuta meno. Gli intellettuali bizantini diedero anche vita a una polemica sul primato di Platone o Aristotele, e su quale dei due sostenesse tesi vicine alle dottrine cristiane riguardanti la trascendenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la Trinità. Gli umanisti cercarono di ricostruire il testo originale delle opere antiche, di capire il significato di parole che nel tempo erano state usate in modo diverso. Ma la filologia non fu solo espressione di erudizione e di amore del passato: nella battaglia culturale in cui gli umanisti si impegnarono, la filologia divenne uno strumento di studio della verità delle tesi esposte nelle opere. Per fare questo, occorreva tenere conto che un testo era stato scritto in un determinato periodo storico, quando vigevano certi usi linguistici e non altri, quando erano circolanti alcune tesi filosofiche e non altre. Per gli umanisti la comprensione della verità del testo presupponeva insomma la comprensione del contesto intellettuale e della lingua utilizzata; in caso contrario, la comprensione era falsata. Bruni ad esempio sostenne che Aristotele era stato tradito dalle traduzioni latine e reso estraneo a se stesso. La filologia umanistica porto le prove inconfutabili in un caso molto importante. Lorenzo Valla (1405-1457) dimostrò nel 1440 che la cosiddetta Donazione di Costantino era un falso.

 

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Donazione di Costantino, Oratorio di San Silvestro, Roma 

Secondo questo documento, quell’imperatore aveva donato al Papa l’intero Impero romano d’Occidente. Per secoli la Chiesa aveva fatto valere questo scritto come giustificazione del suo primato sul potere temporale dei sovrani. Valla dimostrò che non poteva risalire all’epoca di Costantino, perché vi comparivano termini burocratici che non potevano essere in uso allora. Inoltre il testo dava per scontata la supremazia di Roma sulle altre Chiese, che a quel tempo non si era ancora affermata. Anche il Codice giuridico giustinianeo, che continuava a essere preso come riferimento per la legislazione, fu oggetto di indagine. Filologia e Sacre scritture Non rimasero immuni dallo studio dei filologi nemmeno le Sacre scritture. Vi fu chi trattò l’Antico Testamento come una cronaca di eventi storici, suscettibile di analisi, correzioni e integrazioni. Sulla base dell’originale greco, Valla corresse il testo allora circolante del Nuovo Testamento. Tutto ciò non poteva non avere importanti conseguenze sulle questioni dottrinali, nelle quali molti umanisti, in primo luogo lo stesso Valla, furono quindi impegnati.

Lorenzo Valla

Lorenzo Valla

 

Anche se molti umanisti insegnarono nelle università discipline come grammatica, retorica e filosofia morale, la polemica fra la nuova cultura umanistica e la vecchia cultura universitaria fu forte. Bersaglio degli umanisti fu Aristotele, ma soprattutto l’aristotelismo: ai loro occhi era assurdo l’ossequio verso un filosofo che, come scrisse Petrarca, era solo un uomo, per quanto grande, quindi non aveva potuto capire certe verità. Aristotele, disse Valla, non si era impegnato nelle opere civili che rendono grandi gli uomini. Per molti versi Lorenzo Valla, diviso tra l’insegnamento di retorica ed eloquenza e l’impiego di segretario, prima presso Alfonso d’Aragona di Napoli e poi a Roma come segretario apostolico, è il modello dell’intellettuale umanista, in cui si uniscono attività politica, ricerca filologica, culto degli antichi e valorizzazione dell’uomo. Valla esprime una netta condanna della filosofia del tempo e lancia un progetto di riforma. La filosofia, sostiene, ha perduto l’originario amore per la sapienza e si è trasformata in una sorta di professione, degenerata nel mero commento dei testi altrui e nell’uso di un linguaggio barbaro e rozzo, il cui tecnicismo serve solo a celare il vuoto del pensiero e a creare confusione. Perché non usare invece un linguaggio più vicino a quello corrente e nello stesso tempo più chiaro ed elegante? Occorre volgersi ad altri modelli, come Platone e Cicerone, che coltivarono sia l’amore per il sapere sia quello per lo stile letterario. L’attacco al linguaggio della Scolastica Valla sottopone a una critica serrata e a una vera e propria “potatura” il linguaggio tecnico della logica e della metafisica, sulla base di criteri grammaticali e di correttezza linguistica: termini come ens (“ente”) o haecceitas gli sembrano “oscuri e barbari”, anzi “in gran parte sciocchi”. Dall’uso incolto della lingua erano sorti termini a cui non corrispondeva nulla. Ad esempio, al termine ens, che giudica troppo astratto e privo di vero significato, Valla preferisce il più concreto res (cosa). Neppure la teologia viene risparmiata dalla critica. Valla rifiuta le dispute teologiche tipiche delle università e propugna una teologia che esponga la Bibbia secondo i nuovi metodi filologici. Rimprovera ad Agostino e Tommaso di aver commesso errori per ignoranza del greco, lingua dell’Antico e Nuovo Testamento. Rimprovera a Severino Boezio e Giovanni Damasceno di aver parlato da filosofi in teologia, introducendo la metafisica e la dialettica in un ambito dal quale dovevano restare fuori e fornendo così un pessimo esempio agli autori successivi. Per Valla, lo studio della Bibbia deve essere condotto senza l’ausilio della filosofia aristotelica e delle sue interpretazioni universitarie. La teologia, come forma di sapere superiore, non ha bisogno della filosofia. Questo uso indebito non ha fatto altro che generare eresie. La filosofia non può pretendere di sostituirsi alla visione cristiana del mondo, la quale garantisce la vera felicità anche in questa vita.

La contrapposizione tra la virtù degli uomini e i beffardi disegni della sorte è un tema ricorrente nella cultura umanistica. Era ereditata dalla cultura romana, nella quale Fortuna era una divinità incostante, pronta a portare gli uomini in un attimo dal successo alla miseria e viceversa. Per gli antichi romani, però, Fortuna poteva essere domata dall’uomo virtoso, una tesi che gran parte degli umanisti fece propria. Il termine “fortuna”, dunque, non aveva il significato positivo che ha oggi, ma indicava gli eventi imprevisti che potevano opporsi ai progetti umani. La lotta contro la sorte era ritenuta una caratteristica dei grandi uomini. Solo grazie alla virtù l’uomo può avere la meglio sulla Fortuna e sperare di raggiungere l’eccellenza.

La ruota della fortuna in De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio

La ruota della fortuna in De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio

Per Leon Battista Alberti la virtù trionfa sulla sorte avversa e fa approdare alla gloria. Gli uomini sono pienamente responsabili dei loro beni e dei loro mali. “Tiene giogo (cioè rende servi) la fortuna solo a chi se gli sottomette”, scrive Alberti: è la mancanza di virtù a rendere forte il fato e mandare in rovina gli uomini. Per compensare la loro fragilità, gli uomini devono sviluppare le migliori tendenze della loro natura, facendo leva sulla forza d’animo. La virtù, secondo Alberti, consiste nell’azione morale e politica nella città e nelle relazioni umane. A essa si accompagna la ragione, che distingue gli uomini dagli animali. La virtù crea un mondo costituito da volontà giuste e opere oneste. La dimensione dell’uomo è l’impegno, perché l’uomo non è nato per “marcire giacendo”. È in questo modo, e non nell’isolamento, che l’uomo obbedisce veramente alla volontà di Dio e raggiunge la felicità. È evidente a questo punto che la virtù a cui pensano gli umanisti non è una virtù ascetica. Ad esempio, nei Libri della famiglia (1443) di Alberti la riflessione etica si intreccia con l’aspetto economico. Alberti esalta l’importanza della cura della “masserizia”, cioè della proprietà terriera e della casa padronale, come un ambito in cui si sviluppa la virtù della moderazione. Nello spiegare come vadano gestite le ricchezze della casa, ripropone il tema stoico della “indifferenza” dei beni materiali: non conta il possesso, ma l’uso che se ne fa. Perciò sia l’avarizia sia lo sperpero vanno condannati. La ricerca del profitto è invece lodata, purché sia condotta con prudenza e onestà. Virtù e razionalità devono essere componenti dell’agire umano in ogni ambito, anche in quello economico.

Attraverso riflessioni come queste si fanno largo nell’Umanesimo temi in contrasto con quelli tradizionali della cultura cristiana: il motivo della fortuna e della responsabilità umana, che relegano in secondo piano quello della Provvidenza; la considerazione positiva della ricerca degli onori e della virtù civica, condannata dalla Chiesa come forma di vanità; la fiducia nelle capacità dell’uomo e la valorizzazione delle opere, in contrasto con l’immagine dell’uomo debole, fragile, incapace che emergeva spesso dalla letteratura religiosa e con il pessimismo che pervadeva larga parte della cultura medievale. L’uomo è chiamato a realizzare la propria natura, le proprie capacità, prendendo esempio dai grandi personaggi dell’antichità.

 

a cura di Lucica Bianchi

LA VIRTU’ COME MISURA

“Chi semina virtù fama raccoglie”

Leonardo da Vinci

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Agesandros, Athenodoros e Polydoros, Laocoonte, II sec. a.C., copia romana, marmo, alt m. 2,42, Musei Vaticani, Roma

Oggi per noi il termine virtù vuole indicare una qualità di eccellenza morale e si riferisce ad una parte caratteriale che è comunemente intesa in modo positivo. Questo significato specificamente etico gli è stato attribuito nel corso degli anni, originariamente infatti virtù deriva dal latino “virtus” e dal greco “aretè” che indicano la capacità di una persona di eccellere in qualcosa. Nel tempo ci si è sempre interrogati sul vero valore della virtù, essa è davvero in grado di portare l’uomo al raggiungimento dell’equilibrio, rifiutando gli eccessi e riuscendo così a condurre un’esistenza serena e tranquilla? Nell’epoca rinascimentale si è sviluppato il concetto di virtù come una qualità in grado di far individuare all’uomo la giusta via di mezzo. Questo tipo di concezione ha così un grande successo in questo periodo grazie alla presenza di una mentalità antropocentrica basata sull’esaltazione della virtù umana,ritenendola capace di far rifiutare all’uomo ogni tipo di eccesso e condurre così una vita felice e soddisfacente, Uno dei più celebri pensatori greci ad appoggiare questa teoria e a parlare di virtù come concezione dell’equilibrio fu Aristotele. Costui riteneva che le passioni umane erano esperienze caratterizzate dall’eccesso e dal difetto ed era quindi importante imparare a viverle “quel tanto che basta”, ciò era possibile solo grazie alla virtù che avrebbe permesso di provare le emozioni in modo equilibrato. Questa concezione aristotelica viene poi ripresa successivamente da un filologo tedesco M. Pohlenz, il quale sosteneva che “il meglio è sempre ciò che sta nel mezzo”. Il giusto “mezzo” consiste perciò in un comportamento virtuoso in grado di controllare gli impulsi,oltre a sottolineare l’importanza in ambito etico, Pohlenz lo fa anche in ambito politico individuando nella virtù l’unico mezzo per ottenere “un’intelligenza propriamente politica”.

La funzione della virtù era quindi quella di portare l’uomo all’individuazione del giusto mezzo proprio come sosteneva il poeta Orazio. Lui riteneva che soltanto un “animo temperato” potesse porsi in modo adeguato davanti alla sorte e fosse in grado di rifiutare ogni tipo di dismisura, dato che il vero equilibrio risiede nella moderazione. In sostanza, il concetto di virtù tra classicità e rinascimento ha una certa continuità, data la ripresa della cultura classica nel Cinquecento. Prima di questa data però, la virtù non aveva una tale importanza, a causa della presenza di una mentalità teocentrica, sostenuta dalla Chiesa, la quale affermava che il mondo fosse governato da una legge divina. Con ciò si vuole sottolineare che l’ideale di virtù ha subito molteplici variazioni nel corso del tempo per i cambiamenti avvenuti in ambito storico e sociale.

Oggi la virtù non è più un concetto denominato e definito in determinati canoni, ma viene comunemente intesa come quella qualità che rispecchia in qualche modo i nostri valori, le nostre idee e ci spinge a superare i nostri problemi. E’ quella capacità in grado di distinguere i “grandi uomini” da quelli comuni.

 

Micol Bianchi, studentessa 4^,Scienze Umane,

 Liceo G.Piazzi – C.Lena Perpenti, Sondrio

ARISTOTELE

Se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si deve filosofare; in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l’origine della filosofia.”

Aristotele, Protrettico, fr.424, in Opere, a c. di G. Giannantoni, Roma-Bari , Laterza, 1973

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Aristotele (384 a.C.-322 a.C.), filosofo greco antico

Aristotele fu il più famoso fra gli allievi dell’Accademia Platonica. Nato a Stagira, in Tracia, nel 384 a.C., nel 366 andò ad Atene, ove rimase fino alla morte di Platone. Divenne poi precettore del giovane Alessandro di Macedonia e, quando questi salì al trono, fondo in Atene il Liceo e vi insegnò. Morto Alessandro Magno nel 323, Aristotele si ritirò a Calcide di Eubea (Grecia Centrale), ove si spense l’anno successivo.

Anche se, quale membro dell’Accademia, Aristotele fu a conoscenza della matematica dell’epoca, il suo interesse scientifico era rivolto alla biologia, una materia che richiede che si affrontino in modo diverso molte questioni di metodo (lo schema aristotelico di classificazione degli animali, la “scala di natura” faceva ancora testo nel Medioevo). D’altra parte Aristotele andò totalmente fuori strada nel campo delle scienze fisiche-ove gli Ionici( una delle stirpi dell’antica Grecia) e Platone si erano avvicinati di lui più alla verità- perché egli applicò anche alla fisica e all’astronomia il cosiddetto principio teleologico.

In base a tale principio noi dovremmo cercare non l’origine delle cose ma i fini cui esse tendono (télos in greco significa “scopo”). Ora, se questo modo di pensare va benissimo nelle cose umane, dove possiamo effettivamente spiegarci il comportamento di una persona dal fine che essa si prefigge di raggiungere, nel campo delle scienze questo porta a false conclusioni, anche se fornite da una certa apparenza di plausibilità. Infatti Aristotele lo usò per spiegare lo sviluppo degli animali e delle piante-concependo tale sviluppo come il perseguimento di un fine-, e per spiegare le leggi fisiche: ma sostenere che una pietra cade perché essa cerca il centro delle cose, non spiega assolutamente nulla. Le dottrine di Aristotele esercitarono una tale influenza nel corso dei secoli tanto che ancor oggi se ne trovano tracce nel nostro linguaggio quotidiano, anche se il comportamento o i fatti che ne derivano sono ben lontani dal pensiero originale aristotelico.

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August Rodin, La Mano di Dio, 1896, Parigi, Museo Rodin

La teoria aristotelica di forma e materia ha influenzato il mondo occidentale per secoli. La materia era la “sostanza” (letteralmente “ciò che sta sotto”), cioè il materiale base di cui ogni cosa è fatta; la “forma” dava invece identità alla materia in quanto cosa particolare. August Rodin (1840-1917) usò questa concezione quando rappresentò “La Mano di Dio” che forgia l’uomo: la forma- l’uomo- è potenziale nella creta, e nell’atto della creazione Dio la rende attuale.

Uno dei concetti filosofici fondamentali di Aristotele è che le cose sono quello che sono in virtù della loro potenzialità, cioè per il fatto di poter passare dalla semplice potenzialità alla realtà. Così, una ghianda è potenzialmente una quercia, poiché nelle condizioni adatte può svilupparsi in una quercia: ciò che la ghianda porta dentro di sé è la forma della quercia.

Infatti per lui ogni cosa consiste di materia, che è la “sostanza” informe e indifferenziata, alla quale la “forma” dà un’identità che fa sì che la cosa sia quello che è. La “forma” aristotelica deriva dall’Idea platonica, ma mentre in Platone le idee sono trascendenti, cioè al di sopra e al di là degli oggetti dei sensi, la forma di Aristotele è immanente, cioè insita negli oggetti stessi.

Aristotele è il primo filosofo a darci un compiuto sistema di logica. Accenni e tentativi in questo senso li troviamo anche prima di lui, ma non come una trattazione sistematica. Ed egli stesso non dà a questa parte della sua opera il nome di logica, un termine che verrà impiegato molto più tardi. Già Socrate aveva fatto rilevare che quello che noi dobbiamo fare è, nel parlare delle cose-cioè nelle nostre affermazioni-, cercare la Verità. La logica riguarda appunto il modo con cui noi parliamo, il linguaggio. Aristotele però, nello sforzo continuo di analizzare il linguaggio, fa spesso della pura e semplice linguistica.Cominciamo con l’enumerazione aristotelica delle categorie, questi vari possibili predicati della sostanza, che Aristotele definisce come termini che hanno un significato di per sé e che contrappone a quelle parole che hanno invece un significato solo nel contesto di una proposizione. Aristotele elenca dieci categorie: sostanza, qualità, quantità, relazione, spazio, tempo, azione, passione, e accanto a queste, il giacere e l‘avere, cioè la posizione e lo stato. Questi sono i predicati più generali possibili delle cose. La sostanza (ciò che è alla base, la forma immanente) è ciò di cui si parla, mentre le altre categorie esprimono in genere come di essa si parla. La logica aristotelica influenzò talmente i grammatici posteriori che noi parliamo anche oggi di sostantivi, le parole che funzionano in genere da soggetto in una proposizione. Per spiegare meglio la teoria delle categorie, prendiamo come esempio un libro (sostanza). Esso ha un peso (quantità), è interessante (qualità), appartiene a qualcuno (relazione), giace (posizione), è aperto (stato), sul tavolo (spazio), in questo momento (tempo), e, letto (passione), fornisce informazioni (azione). E’ un esempio che lascia vedere come Aristotele analizzava il linguaggio, il quale non è un fenomeno casuale, ma serve agli uomini per affrontare la realtà. E Aristotele conclude che il linguaggio riflette il mondo reale.

L’aristotelismo fu ripreso e sviluppato nelle diverse epoche da diversi movimenti dottrinali. I successori continuarono l’opera del filosofo greco soprattutto nel campo delle ricerche scientifiche e storiche. Tra questi ricordiamo Teofrasto di Eresso che coltivò la Botanica, Eudemio di Rodi, per la Storia delle Scienze, Stratone di Lamprasco in campo della Fisica..

Intorno al III secolo d.C. l’aristotelismo incomincia a perdere la sua autonomia speculativa, trovando i continuatori nelle scuole del Neoplatonismo, rifondendo in esse il pensiero e il messaggio di Aristotele. Altri illustri esponenti nel campo filosofico e scientifico, quali Galilei e Copernico rivisitarono il Cosmo aristotelico, inducendo l’uomo a cercare in sè stesso il proprio centro, e nella storia umana il suo effettivo mondo.

Il grande merito di Aristotele è comunque quello di aver divulgato una concezione che crede nei limiti dell’umano, riponendo la saggezza nella fedeltà all’Essere.

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Aristotele. Dettaglio della Scuola di Atene di Raffaello Sanzio, 1509, Musei Vaticani, Città del Vaticano

Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. E’ evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa”.

Aristotele, Metafisica (I,2,982b)

                                                                                    Lucica Bianchi