REGNO DI FLORA

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Il Regno di Flora è un quadro di Nicolas Poussin che riunisce il tema della grazia primaverile con quello degli insuccessi amorosi e dell’origine dei fiori dalla metamorfosi di alcuni dei.
La scena si svolge in un giardino dall’impostazione scenografica e artificiosa determinato dal contrasto e dalla “varietas” degli elementi costitutivi: l’esile grazia del pergolato e l’incombente roccia ricoperta da viluppi di fronde e di muschi che lasciano intravedere un antico bassorilievo e un’alta erma con un busto maschile.
Un grande vaso raccoglie ma non contiene dell’acqua corrente che cade insinuandosi fra il gruppo delle figure che popolano la scena.
Sostenendo un lembo della veste per non intralciare la grazia leggera del proprio passo, Flora incede spargendo fiori e danzando insieme ad un girotondo di amorini.
Sulla sinistra, Narciso si specchia nell’acqua contenuta nel cratere che gli porge una ninfa e allarga le braccia stupito per la propria bellezza, inutile vanto che lo condurrà, morendo, a tramutarsi nel celebre fiore.
Dietro, Aiace, deposte le armi e gli abiti ma ancora con l’elmo alato e piumato simbolo del suo passato guerriero, si uccide lasciandosi cadere sulla spada: ma è una nota di dramma che non turba il clima apparentemente festoso e allegro dell’insieme.
Dietro di lui, Clizia si scherma gli occhi con la mano per guardare il rapido passare del luminescente Carro del Sole, mentre dall’altra parte Adone, appoggiato ad una lancia, osserva la ferita mortale procuratagli dal cinghiale e dal cui sangue Afrodite, innamorata e contrita, farà sbocciare l’anemone.
A fianco di lui l’efebico Giacinto si tocca il capo colpito involontariamente a morte da Apollo e osserva il fiore che tiene in mano e nel quale verrà tramutato.
In primo piano, le dolci effusioni amorose di una coppia ispirano l’ingenua voglia di tenerezza della bianca cagnetta di Adone che guarda con espressione interrogativa e speranzosa il proprio compagno.

Lucica Bianchi

DISCOBOLO

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MIRONE, ,Discobolo,(copia romana), 450 A.C., MUSEO NAZIONALE ROMANO, ROMA

La celebre opera conservata al Museo nazionale di Roma è una copia romana in marmo dell’originale greco in bronzo realizzato dallo scultore ateniese Mirone verosimilmente nel periodo intorno al 450 a. C. Oltre alla copia denominata Discobolo Lancellotti dal nome della famiglia proprietaria, ne esistono altre che non raggiungono però la fedeltà dell’opera mironiana. Il soggetto rappresentato è un giovane atleta colto nell’atto finale del lancio del disco: si tratta quindi di uno dei primi e senza dubbio meglio riusciti esempi scultorei di raffigurazione umana in movimento. Il corpo del giovane, che ha come unico punto di vista possibile il lato destro, è ripiegato su se stesso e in torsione, in modo di infondere al lancio la massima spinta possibile. Il perno attorno a cui ruota la figura è la gamba destra leggermente piegata e con i muscoli in tensione, mentre l’altra gamba anch’essa piegata è spostata poco più indietro e con le sole dita del piede appoggiate a terra. Il busto, lavorato dallo scultore con grande attenzione per i particolari anatomici, è ruotato verso destra e i muscoli pettorali e addominali sono contratti per sottolineare lo sforzo fisici dell’atleta. Il braccio sinistro si appoggia con il polso al ginocchio destro, mentre il braccio destro è teso e rivolto indietro per sostenere il disco. La generale attenzione per i profili del corpo e del capo regalano all’opera di Mirone un grande equilibro e una meravigliosa eleganza formali in cui l’idea del movimento è suggerita con intensità, senza che per questo privare il corpo della propria bellezza.

MOSAICO DELL’ESEDRA

 

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Il prefetto della Biblioteca Ambrosiana Giovanni Galbiati (1881-1966), negli anni 1930-31, in occasione del bimillenario virgiliano, fece realizzare nell’abside della Sala dell’Esedra un grande mosaico, opera dei pittori Carlo Bocca(1901-1997) e Giovanni Buffa(1871-1954) e del mosaicista Rodolfo Gregorini. Il mosaico riproduce fedelmente la celebre miniatura che Francesco Petrarca commissionò a Simone Martini come tavola di apertura del manoscritto contenente le opere di Virgilio e che il Petrarca teneva come libro prezioso e quasi come diario personale, come dimostra il fatto che proprio sul primo foglio egli annotò il triste evento della morte di Laura.

Tale manoscritto è uno dei cimeli più preziosi conservati nella Biblioteca Ambrosiana e volutamente il prefetto Galbiati volle, nell’abside dell’Esedra, la riproduzione a mosaico della miniatura di Simone Martini perché tutti potessero conoscerla, non potendo ammirare l’originale.

Si tratta di un’allegoria: Virgilio è rappresentato nell’atto di comporre, mentre Servio, il commentatore medievale del poeta latino, con atto simbolico discosta il velo, come per indicare che attraverso i suoi commenti egli ha “svelato” i significati più profondi della poesia virgiliana. Attorno troviamo le tre figure allegoriche che rimandano alle tre opere principali di Virgilio: il pastore che allude alle Bucoliche, l’agricoltore che allude alle Georgiche e l’eroe in armi(Enea) che allude all’Eneide.

 

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Fonte: Guida alla Pinacoteca Ambrosiana, De Agostini, 2013

In architettura, un’esedra è un incavo semicircolare, sovrastato da una semi-cupola, posto spesso sulla facciata di un palazzo (ma usato come apertura in una parete interna). Il significato greco originale (un sedile all’esterno della porta) afferiva a una stanza che si apre su un portico, circondata tutt’intorno da banchi di pietra alti e ricurvi: un ambiente aperto destinato a luogo di ritrovo e conversazione filosofica. Un’esedra può anche risaltare da uno spazio vuoto ricurvo in un colonnato, magari con una sede semicircolare. L’esedra fu adottata dai Romani, per poi affermarsi in epoche storiche successive (a partire dall’architettura romanica e da quella bisantina)